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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di AGOSTO 2013

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aggiornamento al 27.08.2013

aggiornamento al 21.08.2013

aggiornamento al 14.08.2013

aggiornamento al 09.08.2013

aggiornamento al 05.08.2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 27.08.2013

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Il TAR sconfessa la Regione Lombardia:
LE OPERE EDILIZIE CHE COMPORTANO MUTAMENTO DELLA DESTINAZIONE D'USO VANNO SEMPRE QUALIFICATE COME "RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA"!!

     Tempo addietro, abbiamo pubblicato la risposta 20.07.2012 della Regione Lombardia in ordine ad un quesito comunale sul mutamento della destinazione d'uso senza opere edilizie in forza della L.R. n. 12/2005. Non solo: abbiamo anche pubblicato l'ulteriore risposta del 10.01.2013, sempre della Regione Lombardia, a seguito della replica di chiarimento al primo riscontro fornito.
     Invero, nella replica 10.10.2012 di chiarimento è stato sollevato un legittimo dubbio -circa la risposta fornita del 20.07.2012- laddove è stato evidenziato quanto segue: "Poiché nella Vs. risposta e-mail del 20/07/2012 si sostiene che "i mutamenti di destinazione d’uso, conformi alle previsioni urbanistiche comunali, connessi alla realizzazione di opere edilizie non mutano la qualificazione dell’intervento” e dunque possono essere ricondotti anche alla tipologia di intervento della “manutenzione straordinaria”, è necessario comprendere come tale affermazione sia coniugabile con quanto stabilito dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 309 del 23.11.2011.". E l'ulteriore risposta regionale del 10.01.2013 così recita: "Se è vero che la sentenza dichiara altresì l'illegittimità costituzionale dell'art. 103 della L.R. 12/2005 nella parte in cui disapplica l'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, è altrettanto vero che la disposizione regionale che detta la definizione degli interventi di manutenzione straordinaria [lett. b) del citato art. 27], oltretutto successiva a quella statale, da cui effettivamente si discosta per un profilo significativo quale quello relativo al numero delle unità immobiliari coinvolte, non è stata oggetto di diretta censura da parte del giudice costituzionale e, pertanto, la definizione di manutenzione straordinaria data dal legislatore regionale ad oggi rimane presente nell'ordinamento, con la conseguente disciplina.".
     Ebbene, sul piano strettamente formale la risposta parrebbe non fare una grinza ma sul piano sostanziale stride fortemente con quanto stabilito dalla Corte Costituzionale con
sentenza 23.11.2011 n. 309, e tale risposta non ha convito gli addetti ai lavori fin da subito. E neanche a farlo apposta, recentemente il TAR Milano ha detto la propria sulla questione come da sentenza di seguito riportata, essendo dell'avviso contrario rispetto a quanto sostenuto dalla Regione.


EDILIZIA PRIVATA
: Gli interventi edilizi che comportano modifiche alla destinazione d’uso del fabbricato sul quale incidono, nonché un aumento della superficie dello stesso, non possono essere ricondotti alla categoria della manutenzione straordinaria.
Anche la giurisprudenza, si è orientata nel senso di ritenere che se le opere determinano la modifica di destinazione d’uso ovvero un aumento di superficie dell’immobile, esse vanno qualificate quale intervento di ristrutturazione edilizia.
L’art. 27, primo comma, lett. c), della l.r. 11.03.2005 n. 12, al contrario del citato art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, nel fornire la definizione degli interventi di manutenzione straordinaria, non pone il limite del mantenimento della destinazione d’uso né quello dell’aumento di superficie. Ritiene tuttavia il Collegio che la lacuna contenuta nella legge regionale vada colmata attraverso l’applicazione delle norme statali, posto che queste ultime, nella parte in cui definiscono le categorie di interventi edilizi, vanno considerate quali espressione di principi fondamentali della materia (cfr. Corte Costituzionale, sent. n. 309 del 23.11.2011), e che, quindi, una diversa interpretazione porrebbe inevitabilmente il citato art. 27 in contrasto con l’art. 117, comma terzo, Cost.
Deve pertanto ritenersi che, anche per la normativa regionale, le opere che determinano il cambio di destinazione d’uso o un aumento di superficie dell’immobili su cui incidono vanno qualificate quali interventi di ristrutturazione edilizia.

In base all’art. 3, comma primo, lett. b), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, possono considerarsi interventi di manutenzione straordinaria “…le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso”.
Come si vede questa norma è chiara nell’affermare che gli interventi edilizi che comportano modifiche alla destinazione d’uso del fabbricato sul quale incidono, nonché un aumento della superficie dello stesso, non possono essere ricondotti alla categoria della manutenzione straordinaria.
Anche la giurisprudenza, in applicazione di questa norma, si è orientata nel senso di ritenere che se le opere determinano la modifica di destinazione d’uso ovvero un aumento di superficie dell’immobile, esse vanno qualificate quale intervento di ristrutturazione edilizia (cfr. ex multis TAR Emilia Romagna Parma sez. I, 25.05.2011 n. 154).
L’art. 27, primo comma, lett. c), della l.r. 11.03.2005 n. 12, al contrario del citato art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, nel fornire la definizione degli interventi di manutenzione straordinaria, non pone il limite del mantenimento della destinazione d’uso né quello dell’aumento di superficie. Ritiene tuttavia il Collegio che la lacuna contenuta nella legge regionale vada colmata attraverso l’applicazione delle norme statali, posto che queste ultime, nella parte in cui definiscono le categorie di interventi edilizi, vanno considerate quali espressione di principi fondamentali della materia (cfr. Corte Costituzionale, sent. n. 309 del 23.11.2011), e che, quindi, una diversa interpretazione porrebbe inevitabilmente il citato art. 27 in contrasto con l’art. 117, comma terzo, Cost.
Deve pertanto ritenersi che, anche per la normativa regionale, le opere che determinano il cambio di destinazione d’uso o un aumento di superficie dell’immobili su cui incidono vanno qualificate quali interventi di ristrutturazione edilizia
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.07.2013 n. 1985 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
 

QUINDI??

     Nella fattispecie ci sono di mezzo i soldi ovverosia il mancato introito nelle casse comunali del contributo di costruzione (oo.uu. + costo di costruzione) laddove si perseguisse la tesi propinata dalla Regione. Il buon senso, invece, porta a dire che il TAR Milano ha ragione e se non si vuole rischiare di persona dinanzi alla Corte dei Conti (circa il mancato incasso del contributo dovuto) sarà bene adeguarci alla corretta interpretazione della norma siccome proposta dal Giudice amministrativo meneghino.
     Tanto, è solo questione di tempo e rivedremo un "film" già dato più volte negli ultimi anni: presto o tardi che sia, il TAR Lombardia rimetterà gli atti alla Consulta (non appena un comune farà pagare ed il cittadino si opporrà impugnando il provvedimento amministrativo) e la stessa sentenzierà, per l'ennesima volta che "è la Terra che gira attorno al Sole, e non viceversa!!".
27.08.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

EDILIZIA PRIVATA: R. Cartasegna, IL NOVELLATO TESTO UNICO DELL’EDILIZIA TRA IMPROBABILI “SEMPLIFICAZIONI” E SICURE “CRITICITÁ” - Note a margine dell’art. 30 della Legge 09.08.2013 n. 98 (23.08.2013).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA LAVOROSicurezza sui luoghi di lavoro e nei cantieri e nuove regole in edilizia: ecco le modifiche introdotte dalla “Legge del Fare.
La “Legge del Fare” (Legge 09.08.2013, n. 98 di conversione del Decreto del Fare) apporta modifiche al testo unico della sicurezza e al testo unico sull’edilizia.
Tra le modifiche e le semplificazioni più interessanti, segnaliamo:
Edilizia
Ricostruzioni e ristrutturazioni edilizie senza vincolo di sagoma
SCIA ed edilizia libera: semplificazioni per autorizzazioni e nulla-osta
Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati
Possibilità di richiedere “Certificato di agibilità parziale”
Stop al silenzio-rifiuto per il Permesso di Costruire in caso di vincoli
Proroghe ai termini di inizio e fine dei Permessi di Costruire
Estensione della validità del DURC
Sicurezza
DUVRI facoltativo e semplificazione per la valutazione dei rischi per le attività a basso rischio
POS, PSC e Fascicolo dell’Opera semplificati per i cantieri temporanei e mobili
Tempi più rapidi per le verifiche periodiche delle attrezzature
Misure di semplificazione per le prestazioni lavorative di breve durata
La redazione di BibLus-net mette a disposizione dei lettori lo Speciale di approfondimento con tutte le misure introdotte dalla “Legge del Fare” in materia di edilizia e sicurezza nei luoghi di lavoro (22.08.2013 - link a www.acca.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Guida alle semplificazioni del decreto legge del Fare (20.08.2013 - Dipartimento della funzione pubblica, Ufficio per la semplificazione amministrativa).

SINDACATI

ENTI LOCALI: Art. 208 del C.d.S. - Prima apertura della Corte dei Conti Lombardia sul finanziamento di progetti per l'ampliamento dei servizi (CGIL-FP di Bergamo, nota 23.08.2013).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: DURC. Recapito del documento esclusivamente tramite Posta Elettronica Certificata (PEC) (inps, messaggio 23.08.2013 n. 13414).
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Il Durc con la Pec. Dal 2 settembre il rilascio online. Messaggio Inps sull'utilizzo della posta certificata.
In soffitta il Durc cartaceo. Dal 2 settembre, infatti, sia alle pubbliche amministrazioni che alle imprese il Documento unico di regolarità contributiva (Durc) sarà recapitato da Inail, casse edili e Inps esclusivamente tramite posta elettronica certificata (pec) all'indirizzo indicato dal richiedente sul modulo telematico di richiesta.

La novità, anticipata da ItaliaOggi il 16 luglio scorso, è illustrata dall'Inps nel messaggio 23.08.2013 n. 13414.
La novità, spiega l'Inps, deriva dalle ultime riforme in materia di semplificazione volte a favorire la riduzione dei costi amministrativi alle imprese, valorizzando l'utilizzo dei nuovi canali informatici come strumento di interazione tra pubbliche amministrazioni, cittadini, imprese e professionisti. Un percorso di riforma che, a partire dal 1° luglio scorso, ha imposto alle pubbliche amministrazione di non accettare più o effettuare le comunicazioni in forma cartacea nei rapporti con le imprese.
Questo rinnovato quadro normativo, aggiunge l'Inps, ha reso necessaria la revisione anche del sistema di trasmissione utilizzato per notificare il Durc alle stazioni appaltanti/amministrazioni procedenti e alle imprese che ne fanno richiesta, nei residuali casi in cui la normativa ancora consente l'acquisizione diretta di tale documento. Una revisione che ha condotto a due decisioni: da una parte che la trasmissione dei Durc avviene esclusivamente tramite lo strumento della Pec; e dall'altra l'obbligatorietà, all'atto dell'inserimento della richiesta del Durc, della valorizzazione del campo relativo all'indirizzo Pec al quale si richiede l'invio (e verrà trasmesso) il Durc. Per tali ragioni, a partire dal 01.07.2013, sulla procedura sportello unico previdenziale è stato inserito un messaggio informativo che comunica la decorrenza dal 02.09.2013 dell'obbligatorietà dell'indicazione dell'indirizzo Pec nella richiesta.
Dal 2 settembre, in conclusione, l'inoltro della richiesta di Durc sarà consentito solo se il sistema dello sportello unico previdenziale rileva l'avvenuta registrazione, nell'apposito campo del modulo di richiesta, dell'indirizzo Pec della stazione appaltante/amministrazione procedente, delle Soa e delle imprese. Dalla stessa data, sia per le pubbliche amministrazioni che per le imprese, i Durc saranno recapitati dall'Inail, dalle casse Edili e dall'Inps, esclusivamente tramite pec, agli indirizzi indicati dagli utenti nel modulo telematico di richiesta.
Dal punto di vista operativo, nella nota del 15 luglio scorso la Cnce spiega che nella richiesta del Durc le imprese, anziché il proprio, possono indicare l'indirizzo mail (sempre posta elettronica certificata) del loro consulente. Infine, l'Inps precisa che le ulteriori istruzioni operative per la compilazione della richiesta possono essere consultate nel Manuale per la compilazione del Durc, pubblicato sul relativo sito internet (www.sportellounicoprevidenziale.it) (articolo ItaliaOggi del 24.08.2013
).

INCARICHI PROGETTUALI: Oggetto: rettifica e aggiornamento prospetti polizza professionale allegati alla circolare n. 250 del 12.07.2013 (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 06.08.2013 n. 262).

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: Oggetto: Istruzioni e linee guida per la fornitura e posa in opera di segnaletica stradale (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, nota 05.08.2013 n. 4867 di prot.).
---------------
Un freno dai Trasporti alla segnaletica creativa.
La segnaletica stradale deve essere uniforme e adeguata alle direttive ministeriali. Sono quindi fuori legge tutte le iniziative locali finalizzate a valorizzare un attraversamento pedonale o un incrocio senza il rispetto delle specifiche tecniche richieste dalla normativa.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con la circolare 05.08.2013 n. 4867 di prot. avente per oggetto «istruzioni e linee guida per la fornitura e posa in opera di segnaletica stradale».
Nonostante l'art. 38/6° del codice stradale richiami chiaramente la necessaria uniformità della segnaletica stradale sono tanti gli enti proprietari delle strade che in questi anni hanno intrapreso scelte originali spesso molto censurabili.
Nonostante le continue e ripetute diffide e due direttive ad hoc del 24.10.2000 e del 27.04.2006 la questione è ancora molto combattuta per cui il ministero ha ritenuto opportuno riepilogare tutta la disciplina in materia alla luce del regolamento 305/2011/Ue che dal 1° luglio ha definitivamente sostituito la direttiva 89/106/Ce. In particolare ai sensi di questa dettagliata disposizione normativa ora tutta la segnaletica verticale deve essere marcata Ce e deve rispondere a specifiche tecniche ad hoc richiamate anche dall'art. 63 del codice degli appalti.
Per quanto non coperto da norme armonizzate, prosegue la nota centrale, restano valide le norme nazionali per esempio circa i vincoli e le modalità di impiego dei segnali e dei dispositivi contemplati nell'art. 45/6° del codice stradale per i quali è obbligatorio ricorrere a prodotti omologati o approvati. È il caso per esempio della segnaletica temporanea di cantiere, dei segnali complementari previsti dall'art. 42 Cds (tra cui i dispositivi destinati ad impedire la sosta o limitare la velocità) e tutti gli altri dispositivi analoghi previsti dal regolamento stradale.
La questione sulla corretta e uniforme applicazione delle norme in materia di segnaletica però è già stata adeguatamente approfondita in particolare dalla direttiva del 27.04.2006 che per la prima volta viene ufficializzata dopo un periodo di grande incertezza sull'ufficialità della stessa (articolo ItaliaOggi del 22.08.2013
).

CORTE DEI CONTI

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIConsiglieri fuori dai controlli interni.
È inammissibile la partecipazione dei consiglieri comunali al sistema dei controlli interni disciplinato dall'articolo 147 del Tuel. E ciò per due motivi. Innanzitutto, l'elencazione dei soggetti coinvolti in tale sistema, che include le figure organizzative di maggior livello di responsabilità presenti negli enti locali, è da intendersi rigorosamente tassativa.
Inoltre, essendo i controlli interni l'esplicazione di un'attività amministrativa, il loro esercizio è precluso agli organi di natura politica, quali sono i consiglieri comunali.

È quanto ha messo nero su bianco la sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la regione Liguria nel testo del parere 10.05.2013 n. 35, con cui ha fatto chiarezza su un particolare aspetto in merito alla disciplina dei controlli interni novellata dal recente intervento legislativo operato con il decreto legge «Salva enti» (art. 3 del dl n. 174/2012).
Nel parere in esame, il sindaco del comune di Cervo (Im), chiedeva l'intervento della Corte in funzione consultiva per sapere se fosse legittima la modifica del regolamento comunale, nel prevedere che al sistema dei controlli interni, al segretario dell'ente, ai responsabili dei servizi e alle unità organizzative, potessero affiancarsi anche i componenti del consiglio comunale.
Nel merito, la Corte ligure ha osservato che la lettura dell'articolo 147 Tuel, nel testo della sua nuova formulazione, individua distintamente i soggetti coinvolti e che i successivi articoli definiscono chiaramente il ruolo di ciascuno di tali soggetti «non lasciando spazio all'inserimento di ulteriori figure con specifiche competenze». Ne consegue che l'elencazione normativa dei soggetti che partecipano al sistema dei controlli interni è da considerarsi tassativa, ferma restando l'autonomia normativa e organizzativa di ciascun ente.
Inoltre, depone a favore dell'inammissibilità della partecipazione dei consiglieri comunali a tale sistema un'ulteriore considerazione. In pratica, i controlli interni ex art. 147 Tuel appartengono alla categoria dei controlli amministrativi delle pubbliche amministrazioni. In tale categoria sono ricomprese tutte le varie forme di controllo che hanno a oggetto atti o attività poste in essere da organi o uffici amministrativi di un ente. Pertanto, ammette la Corte, posto che si tratta di attività amministrativa, anche se strumentale rispetto a quella «attiva», il suo esercizio è precluso agli organi di natura politica, quali sono i componenti del consiglio comunale.
Questi ultimi, piuttosto, figurano tra i soggetti referenti e beneficiari delle risultanze dell'attività di controllo espletate all'interno dell'apparato amministrativo e, qualora lo ritengano opportuno, possono utilizzare altri strumenti giuridici (su tutti, il deposito di interrogazioni e il diritto di accesso garantito dall'articolo 43 Tuel) per garantire il pieno soddisfacimento delle esigenze informative connesse all'adempimento del loro ufficio (articolo ItaliaOggi del 23.08.2013
).

NEWS

EDILIZIA PRIVATAEdilizia. Il Decreto del Fare consente alle Regioni di autorizzare la realizzazione di edifici a meno di 10 metri l'uno dall'altro.
Meno vincoli sulle costruzioni. Derogabili le regole nazionali sulla distribuzione degli spazi urbanistici.
LA CONDIZIONE/ La normative locali non potranno comunque andare oltre il Codice civile e le disposizioni integrative sulla proprietà.

Il decreto del fare (Dl 69/2013) ha modificato uno dei princìpi finora considerati inviolabili in edilizia: l'inderogabilità dei limiti delle distanze tra costruzioni stabiliti dal Dm 02.04.1968 n. 1444. La legge di conversione del Dl (la 98/2013) ha, infatti, introdotto un nuovo articolo –il 2-bis– al Testo unico dell'edilizia (Tue, Dpr 380/2001), secondo cui le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, deroghe al Dm 1444/1968, che disciplina i limiti di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati.
Questi enti potranno, poi, dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali.
Con il nuovo articolo 2-bis, le Regioni e le Province autonome hanno ora la possibilità di modificare l'assetto normativo finora regolato dal Dm 1444/1968. Esso contiene il "cuore" della normativa nazionale su densità abitativa e dimensione e posizione degli edifici, mentre il Codice civile si occupa principalmente di distanze rispetto a siepi, alberi, muri di cinta, pozzi, comunioni forzose, finestre, balconi eccetera. Il Dm 1444 prevede, in sintesi, per i nuovi edifici una distanza minima di 10 metri, per risanamenti conservativi e ristrutturazioni uno spazio non inferiori a quello tra i volumi edificati preesistenti (contati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale).
Il nuovo articolo 2-bis del Tue va inquadrato in un contesto caratterizzato, da un lato, dalla tendenza di Regioni e Comuni di introdurre disposizioni legislative e regolamentari derogatorie al Dm 1444/1968 e, dall'altro, da un costante e consolidato principio giurisprudenziale che dà efficacia precettiva e inderogabile all'articolo 9 del Dm: spesso, i giudici sono stati chiamati a valutare norme comunali contenute nei piani regolatori, nelle Nta (Norme tecniche di attuazione) e negli strumenti attuativi che si discostavano variamente dai limiti del Dm, prevedendo distanze minori, dichiarandole illegittime.
Anche la Corte costituzionale si è più volte pronunciata sulla legittimità di alcune disposizioni regionali che, forzando il dettato del Dm 1444/1968, introducevano disposizioni derogatorie ai limiti fissati dal legislatore nazionale. Nelle sue pronunce, la Consulta ha costantemente ribadito che le Regioni che derogano ai limiti nazionali travalicano le proprie competenze in materia di governo del territorio interferendo con la competenza esclusiva dello Stato a fissare le distanze minime (sentenze 232/2005, 114/212 e 6/2013).
In tale quadro, tuttavia, è lo stesso Dm 1444/1968 che qualifica i limiti in tema di distanze come «inderogabili» ammettendo, al contempo, distanze inferiori per gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano volumetriche. La deroga, in tali casi, è consentita perché i piani particolareggiati e le lottizzazioni convenzionate sono forme di pianificazione attuativa che regolamentano in modo complessivo e unitario determinate zone. Nell'ambito di tale normativa è consentito ai Comuni sacrificare l'interesse al rispetto delle distanze con altri vantaggi per il bene pubblico (ad esempio, aumento delle aree verdi).
È su questa possibilità di deroga prevista dal Dm 1444/1968 che fa leva la Scheda di lettura redatta dal servizio Studi della Camera il 7 agosto scorso, quando suggerisce che le nuove disposizioni derogatorie introdotte dall'articolo 2-bis a favore di Regioni e Province autonome dovrebbero essere dettate nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario del territorio o di specifiche aree.
Tuttavia, il punto sembra restare controverso in quanto il tenore letterale dell'articolo 2-bis sembra prevedere due distinte facoltà: quella di dettare disposizioni derogatorie al Dm 1444/1968 accanto a quella di dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi.
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Licenze. Snellite le procedure di rilascio. Se c'è un obbligo ambientale 30 giorni per l'ok dell'ufficio.
LA PROROGA/ Possono slittare di tre anni i termini di inizio e fine lavori nelle convenzioni di lottizzazione.

Il decreto del fare (Dl 69/2013) contiene numerose semplificazioni nelle costruzioni. Tra queste, oltre alle innovazioni "sostanziale" (liberalizzazione della sagoma e derogabilità dei limiti delle distanze tra le costruzioni), spiccano le modifiche "procedurali" che hanno mutato il rilascio dei titoli abilitativi. In tale ambito c'è la sostanziale riscrittura dell'articolo 20 del Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001, Tue) sulla disciplina per gli immobili vincolati.
In particolare l'articolo 20 del Tue prevede ora che quando sia richiesto un permesso di costruire per un intervento soggetto a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali il dirigente (o il responsabile dell'ufficio competente) deve adottare il provvedimento finale entro 30 giorni dal rilascio del nulla osta da parte dell'amministrazione preposta alla tutela del vincolo: in caso di valutazione positiva, il procedimento amministrativo andrà concluso con l'adozione di un provvedimento espresso. In caso di diniego dell'atto di assenso (sia trasmesso dall'amministrazione competente sia acquisito in conferenza di servizi), se il dirigente non emana il provvedimento conclusivo (di rigetto) entro 30 giorni, la domanda si intende respinta e, in tal caso, il responsabile del procedimento sarà comunque tenuto trasmettere al richiedente il provvedimento di diniego.
La trasmissione in un termine molto celere –cinque giorni– garantisce l'effettività dell'azione giudiziale per chi si è visto negare il provvedimento: in tal modo, si conoscono i motivi giuridici che ostano all'accoglimento.
Novità anche per l'autorizzazione paesaggistica. Il Dl 69/2013 interviene, in primo luogo, sui termini per il completamento dei lavori: resta fermo che l'autorizzazione è efficace per cinque anni, ma il decreto precisa che, se i lavori sono iniziati nel quinquennio, l'autorizzazione si considera efficace per tutta la loro durata. Nella precedente formulazione, scaduto il termine, i lavori ancora da realizzare dovevano essere nuovamente autorizzati.
Sempre nell'ambito del procedimento per l'autorizzazione paesaggistica, viene dimezzato il termine di rilascio entro il quale l'amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione: da 90 a 45 giorni dalla ricezione degli atti endoprocedimentali.
Ulteriore agevolazione per il settore delle costruzioni è la possibilità di ottenere una proroga per i termini di inizio e fine lavori stabiliti dall'articolo 15 del Tue. Per ottenerla, il titolare di un permesso di costruzione potrà comunicare all'amministrazione di avvalersi della facoltà riconosciuta dal comma 3 dell'articolo 30 del Dl 69/2013. La comunicazione potrà essere presentata a condizione che:
i termini non siano già decorsi al momento della presentazione;
i titoli abilitativi non risultino in contrasto, al momento della comunicazione, con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati;
la normativa regionale non preveda disposizioni differenti.
Il decreto del fare prevede una proroga di validità anche per i termini di inizio e fine lavori nell'ambito delle convenzioni di lottizzazione o degli accordi simili comunque nominati dalla legislazione regionale, stipulati sino al 31.12.2012: la norma, nella versione convertita dalla legge 98/2013, accorda uno slittamento dei citati termini di tre anni.
Si ricorda che la possibilità di ottenere una proroga dei termini di inizio e fine lavori previsti dall'articolo 15 del Tue prima della nuova disposizione del decreto del fare esisteva già, ma era sottoposta ad una stringente valutazione degli uffici tecnici comunali, che la concedevano soltanto se l'istanza di proroga era giustificata da serie e non prevedibili ragioni (articolo Il Sole 24 Ore del 25.08.2013
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EDILIZIA PRIVATA - VARIArriva il tutor per le imprese. Permessi di costruire più rapidi. Successioni snellite. Un vademecum della camera sul ddl semplificazioni che ha iniziato il proprio iter.
In arrivo il tutor delle imprese per assistere l'aziende nei rapporti con la p.a. Permessi di costruire più rapidi, mentre per le varianti non essenziali basterà la Scia. Per le successioni mortis causa si estende l'area di esonero dalla dichiarazione degli eredi più prossimi, che potranno avvalersi anche di copie non autentiche della documentazione.
È quanto prevede il ddl semplificazioni, approvato dal consiglio dei ministri lo scorso 19 giugno e assegnato nei giorni scorsi alla commissione affari costituzionali del Senato per l'avvio dell'iter parlamentare.
Riguardo al permesso di costruire, oggi i 60 giorni concessi al responsabile del procedimento per formulare una proposta di provvedimento e richiedere documentazione integrativa sono raddoppiati in due ipotesi: nei comuni con più di 100 mila abitanti e per i progetti ritenuti particolarmente complessi. In futuro dovranno sussistere entrambe le condizioni. Stop, quindi, al raddoppio automatico nelle grandi città, con un significativo abbattimento dei tempi.
Sempre in tema di edilizia, le varianti al permesso di costruire saranno possibili presentando la Scia (segnalazione certificata di inizio attività). Se i lavori non violano le prescrizioni urbanistico-edilizie già accordate, ci si potrà discostare dal permesso con la procedura facilitata. È però necessario acquisire prima i dovuti atti di assenso (ambientale, paesaggistico ecc.) e la modifica non deve configurare una variazione essenziale dell'immobile. Ok, quindi, a modifiche sulle entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative. Inoltre, in attesa degli opportuni accertamenti dell'amministrazione non si darà luogo alla sospensione dei lavori prevista dall'articolo 27 del dpr n. 380/2001.
Una novità che, come evidenzia in un dossier il servizio studi di palazzo Madama, tramite la presentazione della Scia «consente l'avvio dei lavori il giorno stesso della sua presentazione, mentre con la Dia occorre attendere 30 giorni». Per quanto attiene le varianti al permesso di costruire si ricorda che l'articolo 32 del dpr n. 380/2001 attribuisce alle regioni il compito di stabilire quali siano le variazioni essenziali al progetto approvato (in via generale: mutamento della destinazione d'uso, aumento consistente della cubatura, modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato, violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica).
Importanti novità in arrivo anche in materia di Pubblico registro automobilistico. Dal 01.07.2014 chi subisce il furto dell'auto non dovrà più comunicare al Pra la perdita di possesso: provvederanno le forze dell'ordine cui il cittadino abbia presentato la denuncia. Situazione analoga in caso di cambio di residenza (ci penserà l'anagrafe). Semaforo rosso anche alle dichiarazioni unilaterali di vendita del veicolo: per evitare fenomeni fraudolenti e/o intestazioni fittizie dei mezzi, saranno necessari atti bilaterali recanti la sottoscrizione autenticata del venditore e dell'acquirente.
Per quanto concerne le imprese sarà istituito un vero e proprio tutor che guiderà le aziende in tutti quei procedimenti amministrativi che, secondo la normativa vigente, si devono concludere con provvedimento espresso. A fornire il servizio saranno gli sportelli unici per le attività produttive (Suap), nella persona del responsabile dello sportello stesso o di un suo delegato.
Tra le diverse norme tributarie recate dal ddl, una è volta a semplificare gli adempimenti in materia di dichiarazione di successione. La soglia di esenzione dell'asse ereditario viene elevata dagli attuali 25 mila a 75 mila euro, purché non siano interessati immobili o diritti reali immobiliari. Ad avvalersi dell'agevolazione saranno il coniuge o i parenti in linea retta (per esempio i figli) del de cuius. Laddove la dichiarazione debba essere presentata, inoltre, viene data facoltà ai contribuenti di allegare anche copie non autentiche della documentazione (accompagnate da una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà). Resta facoltà dell'Agenzia delle entrate, tuttavia, chiedere agli eredi di esibire gli originali in sede di controllo.
Interventi anche a tutela di chi investe sui mercati finanziari. Viene inserito nel Tuf un nuovo articolo 4-quater, che estende a tutte le aree di vigilanza della Consob i più penetranti poteri di indagine già previsti dall'articolo 187-octies del Tuf in materia di abusi di mercato. Introdotta anche una specifica sanzione amministrativa pecuniaria a danno degli amministratori di società quotate che commettono gravi violazioni in materia di operazioni con parti correlate (articolo ItaliaOggi del 23.08.2013
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EDILIZIA PRIVATADECRETO DEL FARE/ La disposizione osteggiata dai presidenti di Veneto e Friuli
Campeggi, spazio ai bungalow. Al posto delle roulotte e senza permesso di costruire.

Bungalow nei campeggi al posto delle piazzole per le roulotte e senza più la necessità di chiedere il permesso di costruire. Il decreto legge Fare (dl 69/2013, legge conv. 98/2013, in G.U. del 20 agosto) non ha introdotto alcun nuovo obbligo a danno di camper e roulotte, ma ha soltanto aggiunto un inciso al fine di chiarire che è consentito ciò che invece si temeva fosse inibito.
Pare, invece, che l'obiettivo non sia stato raggiunto, se anche la Commissione ambiente della Camera, nella seduta dell'11 luglio scorso, ha ritenuto utile sostituire l'articolato proposto dal governo, in sede di conversione del decreto legge, con altro testo, «più consono alla soluzione del problema proposto».
La norma contesa. Il dpr 380/2001, ovvero il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, all'articolo 3, contiene le definizioni degli interventi edilizi. E, specificatamente al comma 1, lettera e) elenca gli «interventi di nuova costruzione», ovvero quelli assoggettati alla procedura autorizzatoria precisando che, sono comunque da considerarsi tali, tra gli altri, «l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulotte, camper, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee».
Il decreto legge Fare 69/2013, entrato in vigore il 21 giugno scorso e che per la parte in questione non è stato modificato dalla legge di conversione 98/2013 pubblicata in G.U. il 20 agosto, non ha fatto altro che aggiungere al testo preesistente un inciso che è stato interpretato nei modi più vari, inducendo anche i presidenti Zaia e Serracchiani a una levata di scudi contro il governo, reo di ostacolare lo sviluppo del turismo rispettivamente in Veneto e Friuli-Venezia Giulia. Sta di fatto che l'inciso sibillino altro non aggiunge che un laconico: «Ancorché siano posizionati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto, in conformità alla normativa regionale di settore, per la sosta e il soggiorno di turisti».
Il senso della norma. Opposto, rispetto alla levata di scudi, il fine del governo. Lo rivela la relazione di accompagnamento della legge di conversione del dl Fare. Vi si legge, infatti, che «con il comma 4 (dell'art. 40) si intende chiarire meglio la portata di alcune norme applicate in relazione all'attività di collocazione di allestimenti mobili di pernottamento e relativi accessori, temporaneamente ancorati al suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno di turisti, in modo da risolvere alcune questioni interpretative sorte nell'applicazione concreta delle stesse, suscettibili di ostacolare l'attività delle strutture ricettive per turisti all'aperto».
Ancora più preciso, il dossier dell'ufficio studi del Senato (n. 13/2013). Si legge infatti che «il comma 4 integra la definizione di interventi di nuova costruzione recata dall'art. 3 del T.u. edilizia (dpr 380 del 2001), escludendo le installazioni posizionate, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto, in conformità alla normativa regionale di settore, per la sosta ed il soggiorno di turisti». Nessun dubbio invece per Italia nostra che, attraverso il consigliere nazionale Montini, denuncia come sia «paradossale che, in un momento nel quale praticamente tutte le forze politiche dichiarano che una delle priorità di queste Paese è quella di evitare l'indiscriminato consumo di territorio, il governo e l'attuale maggioranza facciano a gara per massacrare le nostre coste e le zone d'Italia più suggestive» (articolo ItaliaOggi del 23.08.2013
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PUBBLICO IMPIEGO - VARIPrivacy per chi fa gli straordinari. Provvedimento del garante.
Vietato affiggere in bacheca l'elenco nominativo dei lavoratori che hanno fatto straordinario. Ed è vietato trasmettere tale elenco ai sindacati.

Lo ha precisato il garante con il provvedimento 18.07.2013 n. 358, a seguito della segnalazione di un appartenente alla polizia penitenziaria: diffusione e comunicazione alle organizzazioni sindacali violano il codice della privacy.
Nella segnalazione si è fatto presente che viene affisso mensilmente, nei locali della segreteria e nel locale corpo di guardia, l'elenco del personale appartenente al corpo di polizia penitenziaria presente nella struttura, nei confronti del quale è stata disposta la liquidazione del compenso per prestazioni di lavoro straordinario, con l'indicazione del numero di ore effettuate e delle ore retribuite compensate con turni di riposo.
Inoltre tale elenco viene trasmesso anche alle organizzazioni sindacali.
In materia esiste un accordo sindacale, che, però, prevede che l'elenco non debba essere nominativo: il personale dovrebbe essere indicato in forma anonima e aggregata, distinto per qualifica.
Il garante ha ritenuto illegittima la pubblicazione nominativa per le seguenti ragioni.
Oltre al codice della privacy, il garante ha richiamato le sue «Linee guida in materia di trattamento di dati personali di lavoratori per finalità di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico», del 14.06.2007 (pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale del 13.07.2007, n. 161): in linea generale e salvo ipotesi previste da specifiche disposizioni legislative o regolamentari, non è di regola lecito diffondere informazioni personali riferite a singoli lavoratori attraverso la loro pubblicazione in comunicazioni e documenti interni affissi nei luoghi di lavoro o atti e circolari destinati alla collettività dei lavoratori.
Con riferimento specifico alle comunicazioni ai sindacati, le linee guida citate precisano che ad esclusione dei casi in cui il contratto collettivo applicabile preveda espressamente che l'informazione sindacale abbia ad oggetto anche dati nominativi del personale per verificare la corretta attuazione di taluni atti organizzativi, l'amministrazione può fornire alle organizzazioni sindacali dati numerici o aggregati e non anche quelli riferibili a uno o più lavoratori individuabili. È il caso, ad esempio, delle informazioni inerenti ai sistemi di valutazione dell'attività dei dirigenti, alla ripartizione delle ore di straordinario e alle relative prestazioni, nonché all'erogazione dei trattamenti accessori.
Nel caso dell'amministrazione penitenziaria, nessuna fonte normativa o contrattuale prevede che gli elenchi relativi al personale che effettua lavoro straordinario, oggetto di affissione e comunicazione alle organizzazioni sindacali, debba essere compilato con l'indicazione del nominativo dei lavoratori interessati, anziché in forma aggregata per categoria.
Non sono state ritenute sufficienti le prescrizioni contrattuali riferite alle comunicazioni ai sindacati relative alla gestione del personale che non prevedono la pubblicazione di elenchi nominativi. Tale pubblicazione, così come la comunicazione ai sindacati, viola l'articolo 11 del codice della privacy, secondo cui i dati personali oggetto di trattamento debbono essere non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati; e viola anche l'articolo 19, comma 3, del codice, che prevede che la comunicazione di dati personali da parte di un soggetto pubblico a privati o a enti pubblici economici e la diffusione di tali dati da parte di un soggetto pubblico sono ammesse unicamente quando sono previste da una norma di legge o di regolamento.
Al ministero della giustizia-dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, quindi, sono stati vietati l'affissione e la trasmissione alle organizzazioni sindacali dell'elenco nominativo del personale che ha effettuato ore di lavoro straordinario.
In materia va sottolineato che gli obblighi di trasparenza sui dati del personale sono regolati dal decreto legislativo 33/2013, relativo agli obblighi di pubblicità in capo alle amministrazioni pubbliche.
Il principio formulato dal garante vale sia per i lavoratori pubblici sia per i dipendenti privati (articolo ItaliaOggi del 23.08.2013
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOP.a., tagli a incarichi e auto blu. Ridotta del 20% la spesa 2012. Tutele per i precari. Oggi in consiglio dei ministri il pacchetto di riforma (decreto legge e ddl) del pubblico impiego.
Taglio del 20% sull'acquisto delle auto blu e dei buoni per i taxi, soppressione del 20% della spesa per le consulenze (a eccezione degli enti di ricerca e delle università) e norme per la stabilizzazione dei precari della p.a..
Sono alcune delle misure (si veda ItaliaOggi del 21.08.2013) contenute nel pacchetto di riforma del pubblico impiego (che sarà sdoppiato in un decreto legge e in un disegno di legge) oggi all'esame del consiglio dei ministri.
Secondo il testo che sarà certamente oggetto di limature fino all'ultimo, le amministrazioni dello stato non potranno superare, per le auto blu e le consulenze, l'80% della spesa sostenuta nel 2012. Il taglio comprende anche le spese per «la manutenzione, il noleggio e l'esercizio» delle automobili di servizio di tutte le amministrazioni pubbliche.
Precari. Nel provvedimento ci sarà anche una soluzione per gli statali con contratto a tempo determinato. Coloro che negli ultimi cinque anni hanno avuto contratti per almeno tre anni, secondo la bozza, si vedranno «riservato» il 50% dei posti messi a disposizione nei concorsi che si terranno fino al 31.12.2015. Non solo: le amministrazioni che prevedono di effettuare un concorso potranno prorogare i rapporti di lavoro con il loro personale a tempo determinato.
Con il decreto si rimette poi «in moto» il meccanismo della spending review, introdotta dal governo Monti, posticipando a dicembre molte delle scadenze fissate per il giugno scorso. In particolare si introducono norme per il prepensionamento del personale, che avrà così a disposizione due anni in più (fino al 2016) per maturare i requisiti necessari per lasciare il lavoro con le regole precedenti alla riforma voluta dall'ex ministro del welfare, Elsa Fornero.
Il pacchetto sul pubblico impiego si occupa anche della mobilità nelle società partecipate dalle amministrazioni pubbliche. Quelle partecipate, per esempio, da un comune secondo lo schema dovrebbero entrare a far parte di una «rete», in modo da organizzare le eventuali eccedenze di personale. Altri due capitoli riguardano uno l'assunzione di mille vigili del fuoco e l'altro la soluzione del caso dei concorsi per dirigente scolastico attraverso l'affidamento temporaneo di direzione ai presidi. Una misura, quest'ultima, che dovrebbe garantire il regolare avvio dell'anno scolastico.
Mobilità. Il decreto legge di modifica del lavoro pubblico chiarisce alcuni presupposti per la funzionalità dell'istituto della mobilità (che regola il «trasferimento» da un ente all'altro, non il licenziamento) e ne cancella il requisito di presupposto di legittimità per l'espletamento dei concorsi.
Consenso ai fini del trasferimento. Il dlgs 150/2009 aveva modificato l'articolo 30, comma 1, del dlgs 165/2001, stabilendo che «il trasferimento è disposto previo parere favorevole dei dirigenti responsabili dei servizi e degli uffici cui il personale è o sarà assegnato sulla base della professionalità in possesso del dipendente in relazione al posto ricoperto o da ricoprire».
La disposizione, nonostante fosse piuttosto chiara nel senso di richiedere il parere favorevole del dirigente dell'ente di provenienza (personale che «è assegnato»), come dell'ente di destinazione (personale che «sarà assegnato»), ha fatto ritenere minoritaria la dottrina, che però ha trascinato molti operatori, che fosse stato abolito il nulla osta da parte del dirigente dell'ente di provenienza. Insomma, una lettura sommaria della disposizione, aveva sollevato il dubbio, per la verità risolto negativamente dal dipartimento della funzione pubblica col parere 10395/2013, che bastasse il solo consenso al trasferimento dell'ente presso il quale il dipendente si trasferisse.
Il legislatore, allo scopo di scongiurare qualsiasi applicazione distorta dell'istituto della mobilità, risolve il problema modificando il comma 1 del citato articolo 30, il quale ora dispone che il trasferimento è disposto previo parere favorevole «sia dei dirigenti responsabili dei servizi e degli uffici cui il personale è assegnato sia dei dirigenti responsabili dei servizi e degli uffici cui il personale sarà assegnato».
Mobilità non più presupposto per i concorsi. Sempre il dlgs 150/2009 aveva stabilito, nei commi 2 e 2-bis, dell'articolo 30 che le amministrazioni pubbliche avrebbero dovuto procedere obbligatoriamente alla mobilità volontaria, prima di svolgere i concorsi, a pena di illegittimità.
Si era trattato di un irrigidimento illogico della disciplina del reclutamento nel lavoro pubblico. La sola mobilità obbligatoria, prevista dall'articolo 34-bis del dlgs 165/2001, come strumento di tutela di dipendenti in disponibilità e, dunque, alle soglie del licenziamento, si giustifica come presupposto obbligatorio prima dell'indizione dei concorsi. La mobilità volontaria, invece, altro non è se non un razionale strumento per distribuire meglio il personale, mediante trasferimenti tra enti.
Il decreto legge prende atto dell'eccessivo carico burocratico dovuto alla mobilità volontaria come passo necessario per i concorsi. Così, dal comma 2-bis dell'articolo 30 sparisce la previsione secondo la quale «le amministrazioni, prima di procedere all'espletamento di procedure concorsuali, finalizzate alla copertura di posti vacanti in organico, devono attivare le procedure di mobilità di cui al comma 1», che appunto obbliga alla mobilità prima dei concorsi. Al posto di tale disposizione, si prevede, invece semplicemente che le amministrazioni intenzionate ad attivare le procedure di mobilità (tornate a essere una facoltà) per coprire posti vacanti in organico seguono gli ordini di priorità nelle assunzioni fissati dalla restante parte del comma 2.
Distribuzione del personale. Il fine di utilizzare la mobilità volontaria per distribuire meglio il personale tra amministrazioni non sarà, dunque, più perseguito con l'obbligatorietà dell'istituto, ma mediante un decreto del ministro della funzione pubblica.
Tale provvedimento avrà lo scopo di fissare misure per agevolare i processi di trasferimento dei dipendenti, per rafforzare gli organici delle amministrazioni in difficoltà.
In particolare, da subito si prevede che fino al 31.12.2014 i dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, di amministrazioni che dichiarino esuberi lavorativi, potranno chiedere la mobilità volontaria presso il ministero della giustizia, per essere impiegati nell'ambito del personale amministrativo operante presso gli uffici giudiziari. Allo scopo, il ministero dovrà effettuare delle selezioni e accollarsi l'onere di assegni ad personam, riassorbibili, laddove il lavoratore trasferito disponga di un trattamento più favorevole, a parità di qualifica (articolo ItaliaOggi del 23.08.2013
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ATTI AMMINISTRATIVI - VARIP.a., semplificazioni a raffica. Indennizzi da ritardo, adempimenti unici, multe scontate. Tutte le novità per le amministrazioni locali della legge di conversione del dl fare.
Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 194 del 20 agosto della legge n. 98 di conversione del cosiddetto «decreto del fare» (dl 69/2013) inizia ufficialmente la sperimentazione del nuovo indennizzo da ritardo nella conclusione dei procedimenti amministrativi. Ma per le p.a. il provvedimento contiene anche numerose altre novità.
In caso di mancato rispetto del termine per concludere le pratiche, l'amministrazione responsabile dovrà corrispondere all'interessato, a titolo di indennizzo per il mero ritardo e con decorrenza dalla data di scadenza, una somma pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo e comunque complessivamente non superiore a 2.000 euro.
In sede di prima applicazione, la misura si applicherà solo ai procedimenti amministrativi relativi all'avvio e all'esercizio dell'attività di impresa. Dopo 18 mesi, un regolamento statale, sulla base del monitoraggio relativo alla sua applicazione, ne stabilirà la conferma, la rimodulazione, anche con riguardo ai procedimenti amministrativi esclusi, o la cessazione, nonché eventualmente il termine a decorrere dal quale essa verrà estesa, anche gradualmente, ad altri procedimenti. Anche a regime, comunque, l'indennizzo potrà essere previsto solo nei procedimenti a iniziativa di parte per i quali sussiste l'obbligo di pronunziarsi, con esclusione, quindi, di quelli avviati d'ufficio. Rimangono fuori dall'ambito di applicazione del nuovo istituto anche le ipotesi di silenzio qualificato (silenzio assenso e silenzio rigetto) e i concorsi pubblici.
Come detto, però, per le p.a. sono previste altre rilevanti novità. Fra queste, spicca il nuovo sistema delle date uniche di efficacia dei nuovi obblighi amministrativi, che scatteranno dal 1° luglio o dal 1° gennaio successivi all'entrata in vigore delle norme che li prevedono (fatte salve particolari esigenze di celerità dell'azione amministrativa), e la definitiva messa al bando delle comunicazioni a mezzo fax, oramai del tutto soppiantato dalle trasmissioni per via telematica.
Cambiano anche le modalità di pagamento delle sanzioni per infrazioni al codice della strada: chi si presenterà alla cassa entro cinque giorni beneficerà di uno sconto del 30%. La misura (destinata ad avere un impatto notevole soprattutto sulle casse dei comuni) riguarda i verbali notificati da oggi, mentre per i preavvisi non ancora notificati occorre attendere istruzioni più precise. È invece saltato per le difficoltà applicative cui avrebbe dato luogo lo sconto per gli automobilisti virtuosi.
Assai ricco il pacchetto per gli enti territoriali. Innanzitutto, ritorna in auge il federalismo demaniale, lanciato in pompa magna nella scorsa legislatura, ma finora rimasto sulla carta. Entro il prossimo 30 novembre, gli enti locali potranno richiedere l'assegnazione di beni statali all'Agenzia del demanio, specificando le finalità di utilizzo e indicando le eventuali risorse finanziarie a ciò preordinate. La richiesta dovrà essere evasa dal Demanio entro 60 giorni, previamente interpellando le amministrazioni che hanno in uso i beni opzionati. In caso di alienazione, i proventi dovranno essere destinati, per il 75%, alla riduzione del debito dell'ente che li acquisiti e solo in assenza di debito potranno finanziare spese di investimento. Il restante 25%, invece, dovrà confluire nel fondo ammortamento dei titoli di stato.
Province e comuni incassano anche una serie di norme che alleggeriscono i limiti alla rispettiva capacità di spesa. Diventa meno rigido il tetto alle uscite per l'acquisto di mobili e arredi (attualmente fissato al 20% della spesa media 2010/2011), che non si applica più a quelli destinati all'uso scolastico e ai servizi per l'infanzia. Inoltre, viene agevolata l'assunzione mediante forme di lavoro accessorio del personale impegnato in attività sociali.
Misure ad hoc riguardano gli enti dissestati e quelli in predissesto. Questi ultimi, se si trovano ad inizio mandato, possono rimodulare il piano di riequilibrio (se non ancora esaminato dalla Corte dei conti) entro 60 giorni dalla sottoscrizione della relazione di inizio legislatura. Agli enti che hanno deliberato il dissesto negli ultimi due anni è riservata una quota annua (fino a 100 milioni di euro) delle risorse stanziate dal decreto «sblocca pagamenti» (dl 35/2013), al fine di agevolare il pagamento dei rispettivi debiti.
Novità anche per il servizio di tesoreria: i gestori che rivestono la qualifica di società per azioni (spa) hanno facoltà di delegare, anche nell'ambito dei contratti in essere, la gestione di singole fasi o processi del servizio a loro controllate, ferma restando la loro responsabilità e in ogni caso senza costi aggiuntivi per gli enti.
Previste risorse aggiuntive a favore dei comuni con meno di 5.000 abitanti, che potranno accedere al programma «6.000 campanili» per finanziare investimenti infrastrutturali sul patrimonio, reti viarie, telematiche e wi-fi, nonché per la messa in sicurezza del territorio. Prevista, inoltre, la possibilità di finanziare i progetti di recupero urbano del «piano città» con i fondi strutturali. A tal fine, potranno essere stipulati accordi diretti fra i singoli municipi e le autorità, nazionali o regionali, di gestione dei predetti fondi.
L'operatività di Equitalia nel settore della riscossione delle entrate locali viene procrastinata fino al prossimo 31 dicembre, in attesa della riforma organica del settore. La proroga vale anche per le società private, che potranno proseguire le attività di accertamento e riscossione.
Infine, da segnalare gli interventi sulle società pubbliche, con il taglio dei compensi ai manager e lo slittamento a fine anno dei termini per la dismissione di quelle strumentali (articolo ItaliaOggi del 23.08.2013
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TRIBUTIScadenze Tares entro il 2013. Il gettito della maggiorazione va assicurato entro l'anno. Lo ha chiarito il ministero dell'economia e delle finanze in una nota inviata a un comune.
Il comune nel disciplinare il numero e la scadenza delle rate della Tares per l'anno 2013 incontra il vincolo costituito dalla riserva allo stato della maggiorazione standard.
È questa la conclusione a cui è giunto il ministero dell'economia e delle finanze in una recente nota inviata a un comune.
L'art. 10, c. 2, del dl 35/2013 ha previsto che, per l'anno 2013 e in deroga alle previsioni contenute nella disciplina della Tares a regime (art. 14, c. 35, dl 201/2011), la scadenza e il numero delle rate di versamento del tributo sono stabilite con deliberazione, adottata dal Consiglio comunale (circolare Mef n. 1/Df/2013), anche nelle more della regolamentazione comunale del tributo.
A tale proposito, mentre a regime il citato comma 35 stabilisce che la scadenza delle rate della Tares è fissata nei mesi di gennaio, aprile, luglio e ottobre di ogni anno, salvo diversa regolamentazione comunale, per l'anno 2013 i comuni erano liberi di determinare le tempistiche di pagamento del tributo, anche anticipando la prima scadenza fissata dalla legge nel mese di luglio. Gli enti potevano, per il 2013, derogare le norme di legge sia per quanto concerne la scadenza delle rate che per la loro quantificazione.
Era sorta, invece, più di qualche perplessità sulla possibilità di stabilire termini di pagamento del tributo riferito all'anno 2013 scadenti dopo il 31 dicembre del medesimo anno. Ciò per effetto della disposizione contenuta nel c. 2 dell'art. 10 del dl 35/2013 in virtù della quale, sempre per il 2013, la maggiorazione alla Tares, disciplinata dall'art. 14, c.13, del dl 201/2011 e pari ad 0,30 a metro quadrato, viene riservata allo stato e versata in unica soluzione unitamente all'ultima rata del tributo, a mezzo del modello F24 o dell'apposito bollettino di conto corrente postale approvato con il dm 14/05/2013 (e non anche mediante le nuove modalità di pagamento tramite servizi elettronici di incasso e di pagamento interbancari, introdotte in aggiunta agli altri strumenti appena ricordati dal citato dl 35/2013).
Come già precisato dalla circolare del ministero dell'economia n. 1/Df del 29/04/2013, il versamento della maggiorazione da effettuarsi in favore dello stato è rinviato all'ultima rata del tributo, scadente nel mese di ottobre o alla data stabilita dal comune con la deliberazione prevista dal c. 2 dell'art. 10 del dl 35/2013. La legge e la circolare appena citata nulla dicono però su quali limiti temporali incontri la fissazione della scadenza dell'ultima rata del pagamento da parte del comune, spingendo taluni enti a stabilire scadenze cadenti anche nel 2014 (specie quelli che ordinariamente ponevano in riscossione la Tarsu nell'anno successivo a quello di competenza, nel rispetto del termine annuale di decadenza stabilito dall'art. 72 del dlgs 507/93).
Tuttavia, come precisato dalla recente nota del ministero, la presenza della riserva della maggiorazione allo stato pone dei limiti ben precisi alla potestà regolamentare comunale che, come noto, non può estendersi oltre i tributi di propria competenza. L'esigenza di assicurare all'erario il gettito della maggiorazione entro il 2013 impone che il versamento della stessa scada entro la fine del predetto anno. Ciò, in base alla nota ministeriale, anche per la necessità di quantificare il gettito della maggiorazione standard (operazione che sarebbe pregiudicata negli anni successivi dalla facoltà attribuita ai comuni di incrementare la maggiorazione fino a 0,40 a mq e dalla possibilità di adottare canali di pagamento diversi dal F24 e dal bollettino postale unico nazionale).
Tuttavia, da un'attenta lettura, la nota non pare precludere del tutto la possibilità di riscuotere una o più rate Tares nel 2014, premurandosi solo di precisare che in ogni caso il comune deve porre in essere le attività necessarie ad assicurare che la maggiorazione sia corrisposta nel 2013. In tale modo viene lasciato spazio all'interpretazione per la quale i comuni potrebbero fissare scadenze di versamento della Tares anche oltre il 31/12/2013, purché la maggiorazione sia versata, con le modalità previste dalla legge, con l'ultima rata scadente nel 2013 (vedasi nota Ifel 10/05/2013).
Tuttavia una tale soluzione appare in contrasto con il dettato normativo che impone il versamento della maggiorazione in unica soluzione unitamente all'ultima rata del tributo (art. 10, c. 2, lett. c, dl 35/2013). Per il ministero la fissazione di scadenze oltre il 2013 desta perplessità dal punto di vista contabile, con riferimento all'accertamento della corrispondente entrata (articolo ItaliaOggi del 23.08.2013
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CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Riprese con regolamento. Norme ad hoc sulle trasmissioni audio-video. Senza regole certe impossibile rispettare il codice della privacy.
È possibile effettuare le riprese audio-video delle sedute del consiglio comunale?
Nell'ambito dell'attribuzione al consiglio comunale dell'autonomia funzionale e organizzativa (art. 38, comma 3, Tuel) si riconduce quella potestà di regolare opportunamente, con apposite norme, ogni aspetto attinente al funzionamento dell'assemblea, tra cui anche quello della registrazione del dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi, sia da parte degli uffici di supporto all'attività di verbalizzazione del segretario comunale, sia da parte dei consiglieri, degli organi di informazione e dei cittadini che assistono alla sedute pubbliche.
Sulla materia è intervenuta la sentenza n. 826 del 16/3/2010 con la quale il Tar per il Veneto ha respinto un ricorso avverso il diniego opposto da un sindaco ad una richiesta di registrazione audio-video delle sedute del consiglio comunale, nella considerazione che, in assenza di un'apposita disciplina regolamentare adottata dall'ente, non possano essere garantiti i diritti previsti dal codice sul trattamento dei dati personali di cui al dlgs n. 196 del 2003 e successive modifiche. In tale pronuncia, infatti, gli adempimenti previsti dal suddetto codice «non possono per certo conseguire da estemporanei assensi alla videoregistrazione emanati dal sindaco-presidente del consiglio comunale nel corso delle sedute del consiglio medesimo, ma necessitano di essere disciplinati da un'apposita fonte regolamentare di competenza consiliare».
Il citato giudice amministrativo ha ritenuto immediatamente concedibile da parte del presidente del consiglio comunale, nei confronti di emittenti televisive nazionali e locali l'autorizzazione a riprendere, in via non sistematica, gratuitamente e senza diritti di esclusiva, talune brevi fasi delle sedute del consiglio comunale in quanto da tale autorizzazione non conseguono obblighi di sorta per l'amministrazione comunale quale «titolare» o «responsabile» del trattamento dei dati personali.
Si ritiene opportuno che l'ente locale in oggetto, al fine di poter corrispondere ad eventuali richieste formulate dai gruppi consiliari o da singoli consiglieri di poter effettuare videoriprese delle sedute del consiglio comunale, si doti di un'apposita normativa regolamentare recante la disciplina della materia in argomento (articolo ItaliaOggi del 23.08.2013
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CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli, revoca del presidente.
Per poter ritenere valida la presentazione di una proposta di revoca del presidente del consiglio comunale, quale deve essere il numero dei sottoscrittori?

Nel caso di specie, la possibilità di revocare il presidente del consiglio comunale è prevista dallo statuto del comune, in base al quale «il presidente e il vice presidente restano in carica per l'intera durata del mandato del consiglio comunale. Tuttavia, su proposta motivata di un terzo dei componenti il consiglio comunale, possono essere revocati dall'incarico con il voto favorevole della maggioranza assoluta dei componenti il consiglio comunale».
Considerato che il terzo dei componenti corrisponde, nel comune in esame, ad un numero decimale, si ritiene che, in mancanza di apposite prescrizioni statutarie o regolamentari, sia legittimamente applicabile il criterio dell'arrotondamento aritmetico, in quanto richiamato espressamente, a vario titolo, in più disposizioni del citato dlgs n. 267/2000 (cfr artt. 47, comma 1, 71, comma 8, 73, comma 1, 75, comma 8).
Detto criterio implica, com'è noto, che in caso di cifra decimale uguale o inferiore a 50, l'arrotondamento debba essere effettuato per difetto, mentre nel caso in cui essa sia superiore a 50 si procederà ad arrotondamento per eccesso (articolo ItaliaOggi del 23.08.2013
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CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATACaldaie in condominio sempre con camino sul tetto. Regole tecniche. La modifica con la legge 90/2013.
LA PRESCRIZIONE/ Dal 1° settembre sarà precluso installare ex novo impianti verdi con scarico a parete.

Sull'obbligo di canna fumaria esterna per le caldaie individuali e centralizzate in condominio il Dl 63/2013, recentemente convertito nella legge 90/2013, ha chiuso un complicato cerchio normativo, intervenendo sulla questione del "distacco". Ma bisogna partire dall'anno scorso per ricostruire il sistema normativo.
La riforma del condominio (legge 220/2012) ha così modificato l'articolo 1118, comma 4 del Codice civile: «Il condomino può rinunciare all'utilizzo dell'impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini. In tal caso il rinunziante resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua conservazione e messa a norma». Il legislatore ha reso di fatto possibile il distacco dall'impianto di riscaldamento centrale, recependo le indicazioni della Cassazione.
Ma esisteva ancora un ostacolo al distacco, costituito dall'articolo 5, comma 9, del Dpr 412/1993, come modificato dal Dpr 551/1999: la norma prescriveva in ogni caso lo scarico dei prodotti della combustione sopra il tetto dell'edificio, obbligo concretamente possibile da rispettare soltanto per gli utenti dell'ultimo piano. Questo ostacolo è stato rimosso con il Dl 179/2012, coordinato con la legge di conversione 221/2012, che ha infatti sostituito quell'articolo del Dpr 412/1993 con una norma più permissiva che consentiva lo scarico a parete a condizione di installare generatori a condensazione della classe più efficiente e meno inquinante.
Queste disposizioni e la possibilità di scaricare a parete i prodotti della combustione hanno generato lo sconcerto di molti operatori. In particolare gli amministratori di stabili sono sommersi da richieste di distacco che non sanno come contrastare, in considerazione del fatto che la legge non richiede il loro consenso, né il consenso dell'assemblea del condominio. D'altra parte sono molti i tecnici che sostengono che, se è incerto dimostrare i "gravi squilibri" (quando sono lievi, medi, o gravi?), è invece certo che vi è sempre un aggravio di spesa per gli altri condomini, se non altro perché è uno in meno a pagare le spese fisse, quali conduzione, manutenzione e dispersioni delle parti comuni. Erano intense anche le proteste dei condomini sovrastanti, sinora costretti a respirare i fumi di quelli sottostanti.
La protesta di condomini e aziende portatrici di interesse è stata raccolta dal legislatore che, con la legge 90/2013 di conversione del Dl 63/2013, ha introdotto l'articolo 17-bis, che ha di nuovo sostituito l'articolo 5, comma 9, del Dpr 412/1993 con un nuovo testo: ora è sempre consentito lo scarico a parete ma solo per gli impianti termici esistenti prima del 31.08.2013 e a condizione che si tratti di generatori a condensazione della classe più efficiente e meno inquinante.
Per tutti gli altri diventa obbligatorio «lo sbocco sopra il tetto», tranne, appunto, che si tratti di sostituzione di impianti individuali già esistenti in «stabili plurifamiliari» (qualora non esistano già canne fumarie individuali idonee da sfruttare), oppure quando si tratti di stabili soggetti a interventi solo «conservativi» (case storiche o con vincoli di vario genere), sempre che non abbiano già canne fumarie idonee. Gli scaldacqua unifamiliari non sono considerati «impianti termici».
Restano quindi pochissimi giorni per installare ex novo impianti individuali «puliti» che non impongano la canna fumaria sino al tetto. Dal 1° settembre il "distacco", anche con generatori "verdi", diventerà di fatto impossibile, dato che installare la propria canna fumaria sino al tetto comporta problemi davvero enormi nella maggior parte dei casi. Solo in caso di «impossibilità tecnica» la relazione asseverata di un tecnico consentirà comunque di evitare la canna fumaria sino al tetto (articolo Il Sole 24 Ore del 23.08.2013
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SICUREZZA LAVORODECRETO DEL FARE/ Molte le novità contenute nella legge di conversione 98/2013.
Al restyling la sicurezza lavoro. Semplificazioni per valutazione rischi, Duvri, infortuni.

Un professionista al posto del Duvri (il documento di valutazione rischi da interferenza obbligatorio quando più aziende operano contemporaneamente). Per sovrintendere al coordinamento con le altre aziende, infatti, invece di predisporre il Duvri il datore di lavoro può nominare un proprio incaricato in possesso di formazione, esperienza e competenze professionali adeguate.
Lo prevede la legge n. 98/2013 di conversione del decreto fare (n. 69/2013), agli artt. 32-35, con diverse semplificazioni in materia di sicurezza sul lavoro (al T.u. approvato dal dlgs n. 81/2008).
Valutazione rischi più semplice
Una prima novità concerne la valutazione dei rischi, operazione già semplificata dalla previsione della procedura standard a favore delle piccole aziende: obbligatoria per quelle fino a 10 addetti e facoltativa per quelle con più di 10 e fino a 50 addetti. Il decreto fare prevede che, con dm del ministro del lavoro, da adottarsi sulla base delle indicazioni della commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro, vengano individuati i settori di attività a basso rischio di infortuni e di malattie professionali, sulla base di criteri e parametri oggettivi desunti dagli indici infortunistici e delle malattie professionali dell'Inail.
Individuati i settori le imprese che vi operano potranno fare la valutazione rischi utilizzando un modello semplificato che sarà previsto (e allegato) dal medesimo dm di individuazione dei nuovi settori. La nuova previsione lascerà ferma la facoltà già riconosciuta alle piccole aziende di utilizzare le procedure standardizzate attualmente in vigore.
Un professionista invece del Duvri
Sempre riguardo alle imprese operanti in settori a basso rischio di infortuni e malattie professionali, il decreto fare prevede inoltre che, in alternativa alla predisposizione del Duvri, il datore di lavoro possa nominare un proprio incaricato in possesso di adeguata formazione, esperienza e competenze professionali per sovrintendere alla cooperazione e coordinamento con le altre imprese. In tal caso, dell'individuazione dell'incaricato (o della sua eventuale sostituzione) va immediatamente data evidenza nel contratto di appalto o di opera.
Sempre in tema di Duvri, ancora, il decreto Fare prevede che ai dati presenti nel documento accedano il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (Rls) e le organizzazioni sindacali locali dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Ancora, il decreto stabilisce che l'obbligo di redazione del Duvri non trova applicazione per i servizi di natura intellettuale, per le mere forniture di materiali o attrezzature, nonché per i lavori o servizi la cui durata non sia superiore a cinque uomini-giorno, e che non comportino rischi derivanti dal rischio incendio alto (dm 10.03.1998), dallo svolgimento di attività in ambienti confinati (dpr n. 177/2011), o dalla presenza, oltre ad agenti cancerogeni nonché biologici, atmosfere esplosive o dalla presenza dei rischi particolari (Allegato XI del T.u. sicurezza) anche di agenti mutageni e amianto.
Verifiche attrezzature di lavoro
Vengono ridotti da 60 a 45 giorni i termini per effettuare la prima verifica periodica delle attrezzature di lavoro. E viene inoltre introdotto l'obbligo a carico dei soggetti pubblici di comunicare al datore di lavoro, entro 15 giorni, l'impossibilità di effettuare la verifica di propria competenza. In caso di comunicazione negativa o comunque dopo 45 giorni, il datore di lavoro si potrà rivolgere, a propria scelta, a soggetti pubblici o privati abilitati alle verifiche.
Pos e Psc semplificati nei cantieri
Un decreto interministeriale (lavoro e infrastrutture, sentite la commissione consultiva permanente e previa intesa con la conferenza permanente per i rapporti tra stato e regioni) dovrà semplificare la vita «burocratica» nei cantieri temporanei e mobili. Tale decreto, infatti, dovrà adottare modelli semplificati per la redazione del piano operativo di sicurezza (Pos), del piano di sicurezza e coordinamento (Psc) e del fascicolo dell'opera.
Denuncia infortuni
Dal prossimo anno basterà la sola denuncia all'Inail, in caso di infortunio sul lavoro. Diversamente da oggi, quando il datore di lavoro è tenuto ad effettuare la denuncia all'Inail (obbligatoriamente per via telematica, dallo scorso 1° luglio) e all'autorità di pubblica sicurezza (che a sua volta ne invia copia all'azienda sanitaria locale, Asl) generalmente per raccomandata postale a/r, entro due giorni, in caso di infortunio con conseguenza di morte del lavoratore o di inabilità al lavoro per più di tre giorni, dal 01.01.2014 andrà effettuata unicamente la denuncia all'Inail. Sarà poi l'istituto a farsi carico di trasmettere le denunce, per via telematica, all'autorità di pubblica sicurezza, all'Asl e alle altre autorità competenti (articolo ItaliaOggi del 22.08.2013
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ENTI LOCALI - VARIMulta con lo sconto, vincono i timbri.
Le multe con lo sconto accertate dalla polizia stradale in questa prima fase di avvio della riforma possono essere pagate solo in posta o con bonifico annotando correttamente nelle quietanze tutta una serie di dati obbligatori. Nessun pagamento in contante può però essere ammesso oltre a quelli già previsti per legge in materia di trasporto professionale o veicoli stranieri.
Sono queste le ultime indicazioni fornite dal Ministero dell'interno con la circolare 19.08.2013 n. 6409 di prot. e la circolare 20.08.2013 n. 6464 di prot..
La questione delle multe con lo sconto sta assumendo dimensioni burocratiche impreviste, specialmente per le forze di polizia stradale dello stato. Per gestire al meglio la contabilità dei proventi delle multe in saldo il Ministero dell'interno ha attivato un conto corrente ad hoc dove il trasgressore deve obbligatoriamente versare l'importo scontato. Sia che utilizzi questo conto corrente postale ovvero il nuovo conto bancario appena predisposto occorrerà prestare molta attenzione all'intestazione e alle causali da compilare, stante la mancata disponibilità in un primo tempo di bollettini prestampati.
In pratica andrà obbligatoriamente indicato nella formula di pagamento da compilare a penna su bollettino bianco, oltre all'importo dovuto, il numero e la data del verbale con la targa del veicolo e il nome e cognome del trasgressore. In attesa dell'attivazione dei sistemi di pagamento elettronici, specifica la circolare del 20 agosto, il pagamento in contanti nelle mani dell'agente resta riservato alle ipotesi obbligatorie previste dalla legge ovvero per le violazioni commesse dai conducenti professionali e da un conducente munito di un veicolo immatricolato all'estero. Problemi in vista anche per l'applicazione dello sconto da parte delle polizie locali.
Come evidenziato dal portale poliziamunicipale.it alcuni comandi dei vigili hanno disposto di non ammettere lo sconto ai preavvisi di accertamento di divieto di sosta. In buona sostanza trattandosi di multe non ancora notificate o contestare ci sarebbero dubbi formali ad ammettere il pagamento ridotto. Sul punto è stato pertanto richiesto un parere urgente al Ministero dell'interno (articolo ItaliaOggi del 22.08.2013
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APPALTIAppalti, la solidarietà resta senza l'Iva. La responsabilità fiscale e sanzionatoria rimane per le ritenute operate sulle buste paga. Decreto del fare. Nella legge 98 eliminata qualunque verifica della controparte contrattuale rispetto al pagamento dell'imposta sul valore aggiunto.
PER IL LAVORO DIPENDENTE/ L'appaltatore risponde in solido verso l'erario nei limiti del corrispettivo. Al committente sanzioni fino a 200mila euro.

Molto rumore per nulla. Così potrebbe essere definita sinteticamente la vicenda della conversione del Decreto del fare (Dl 69/13), approdata in Gazzetta il 20 agosto scorso (legge 98/2013).
Scampato il pericolo di dover ricorrere alla richiesta del Durt per effettuare qualunque pagamento "smarcandosi" da possibili responsabilità e sanzioni (con l'aggravio di dover comunicare mensilmente all'Agenzia i dati per il rilascio del documento), committenti, appaltatori e subappaltatori devono continuare con i precedenti adempimenti almeno sinché non arriverà l'abrogazione integrale auspicata dall'ordine del giorno approvato dalla Camera lo scorso 8 agosto. Altrimenti, dal 2015, chi vorrà potrà comunicare quotidianamente alle Entrate i dati delle fatture d'acquisto e di vendita (articolo 50-bis del Decreto), "guadagnandosi" così, tra l'altro, l'integrale disapplicazione della disciplina in esame.
La situazione attuale, pertanto, è quella dell'originaria versione del Dl 69/2013, che già conteneva l'eliminazione di qualunque verifica della controparte contrattuale con riferimento ai versamenti Iva, ma manteneva intatta la disciplina per le ritenute di lavoro dipendente. Resta fermo, pertanto che, prima di effettuare qualunque pagamento con riferimento a contratti di appalto/subappalto stipulati o rinnovati dal 12.08.2012:
a) l'appaltatore deve richiedere al subappaltatore l'asseverazione di un soggetto qualificato (o, in alternativa, l'autocertificazione) attestante che i versamenti delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente inerenti il subappalto, già scaduti a tale data, siano stati «correttamente eseguiti»;
b) il committente deve comportarsi allo stesso modo nei confronti dell'appaltatore, il quale deve fornire anche la documentazione rilasciata da tutti i subappaltatori.
In assenza dell'attestazione cartacea (e in caso d'irregolarità nel versamento delle ritenute riferite alle prestazioni effettuate nell'ambito dell'appalto o dei vari subappalti), l'appaltatore risponde in solido verso l'erario con il subappaltatore "infedele" nei limiti dell'ammontare del corrispettivo dovuto, mentre il committente è passibile della sanzione da 5mila a 200mila euro. Guai, pertanto, a dimenticarsi, all'atto del pagamento dei corrispettivi, di richiedere l'ormai ben nota certificazione (che, emendata della parte riguardante gli adempimenti Iva, può essere redatta come da facsimile a lato). Nel caso in cui l'appaltatore (o il subappaltatore) non abbia dipendenti o assimilati, ovvero nessuno di questi abbia partecipato alle prestazioni connesse allo specifico rapporto contrattuale (e, quindi, non sia sorto alcun obbligo di ritenuta), si ritiene che debba essere rilasciata un'attestazione in tal senso. Onde evitare guai peggiori è comunque più che opportuno conservare ampia prova dell'effettività dei lavori svolti, delle modalità di pagamento e dell'esistenza "fiscale" del prestatore.
È altresì confermato che committente e appaltatore possono, fino a quando non ricevono una documentazione idonea, sospendere i pagamenti. Pur con la limitazione alle sole ritenute, restano ferme le limitazioni di legge, tra cui l'esclusione della sanzione quando il committente (persona fisica, condominio o società semplice) non opera in ambito Iva o applica il codice dei contratti pubblici (Dlgs 163/2006), e restano attuali tutti i chiarimenti forniti dall'Agenzia (Circolari 40/E/2012 e 2/E/2013).
Naturalmente, nulla cambia per quanto riguarda il vincolo di solidarietà, negli appalti di opere o servizi, con riferimento agli obblighi previdenziali ed assicurativi dei lavoratori e per le loro retribuzioni (articolo 29, comma 2, Dlgs 276/2003, modificato dal Dl 76/2013).
L'Amministrazione deve chiarire le conseguenze dell'eliminazione dei riferimenti ai versamenti Iva operata dall'articolo 50 del Dl 69/2013. In virtù del principio del "favor rei", la sanzione non potrà più essere comminata, nella specifica ipotesi, al committente (anche per inadempimenti precedenti al 22 giugno scorso), mentre è da definire se vige ancora la solidarietà Iva per gli inadempimenti anteriori ai pagamenti di corrispettivi effettuati in assenza di attestazione/autocertificazione nel periodo dall'11.10.2012 al 22.06.2013 (articolo Il Sole 24 Ore del 22.08.2013
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ATTI AMMINISTRATIVII ritardi della Pa punibili per le istanze inviate da oggi.
Parte da oggi l'indennizzo automatico per i ritardi della pubblica amministrazione ma solo per le imprese.

Lo stabilisce il comma 10 dell'articolo 28 del decreto del fare (Dl 63/2013), che limita molto il principio dello stesso articolo, secondo cui il diritto all'indennizzo è generalizzato: il comma 10 prevede un avvio sperimentale limitato alle pratiche legate all'«avvio e all'esercizio delle attività d'impresa» e il comma 12 fissa in 18 mesi la durata del test.
La norma fa partire la propria applicabilità dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del Dl (la 98/2013) –ieri– ma riguarda i procedimenti iniziati «successivamente» a tale data. Se ne deduce che potranno beneficiare del diritto all'indennizzo in caso di ritardo solo le istanze presentate da oggi. Interpretazione confermata dalla guida messa online sul sito del ministero della Pubblica amministrazione.
Dopo la sperimentazione, sarà emanato un decreto del presidente del Consiglio, sentite Regioni e Comuni, che stabilirà se confermare l'indennizzo, se rimodularlo e se estenderlo agli altri procedimenti. Quindi il Governo è cosciente della delicatezza della partita: riconoscere un rimborso di 30 euro per ogni giorno di ritardo significa rischiare o un'emorragia di denaro pubblico (anche se la legge pone un limite di 2mila euro a procedimento) o forzare il lavoro degli uffici pubblici, con possibili errori nei procedimenti.
Va poi considerato che la norma è indeterminata: per esempio, quando parla di procedimenti relativi all'esercizio dell'attività d'impresa, potrebbe riferirsi anche all'immatricolazione di un veicolo aziendale, mentre la stessa operazione, se richiesta da un cittadino, non sarebbe coperta da indennizzo. Probabilmente serviranno molti chiarimenti attuativi.
In ogni caso, l'indennizzo andrà chiesto entro 20 giorni dal termine che l'ufficio avrebbe dovuto rispettare. Occorre rivolgersi al responsabile nominato dall'amministrazione, che dovrà concludere il procedimento nella metà del tempo originariamente previsto o liquidare l'indennizzo. Se neanche il responsabile provvedesse, ci si può rivolgere al Tar (il contributo unificato è dimezzato). In caso di condanna, i dipendenti possono essere puniti disciplinarmente e chiamati a rimborsare il danno erariale (articolo Il Sole 24 Ore del 22.08.2013
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ATTI AMMINISTRATIVIDECRETO DEL FARE/ In G.U. la legge 98 (in vigore da oggi). Risparmi per 500 mln l'anno.
P.a., indennizzi non retroattivi. Domande limitate all'avvio o all'esercizio di impresa.
Al via da oggi l'indennizzo per i ritardi della burocrazia. E le prime a beneficiarne saranno le imprese. Per il momento, infatti, la chance di vedersi corrispondere dalla p.a. 30 euro per ogni giorno di ritardo nella conclusione del procedimento (fino a un massimo di 2.000 euro) si applicherà solo alle domande relative all'avvio o all'esercizio dell'attività di impresa. E solo a quelle presentate successivamente all'entrata in vigore della legge n. 98/2013 che ha convertito in legge il decreto del fare (dl n. 69/2013) ed è stata pubblicata ieri sulla Gazzetta Ufficiale n. 194 (Supplemento ordinario n. 63/L).
Il provvedimento sarà pienamente operativo da oggi e le pubbliche amministrazioni dovranno adeguarsi subito, informando gli utenti della possibilità di ricevere l'indennizzo e indicando a chi rivolgersi e come richiederlo. Nel giorno stesso della pubblicazione del decreto in G.U. il ministro della funzione pubblica Gianpiero D'Alia (che ha anche la delega alla semplificazione) ha diffuso le linee guida per l'applicazione delle nuove norme, nella convinzione che ora tutto dipenderà dalla fase attuativa.
«Le norme sono importanti, ma non bastano», ha dichiarato. «Per semplificare occorre cambiare i comportamenti quotidiani delle amministrazioni. Per questo è essenziale», ha sottolineato il ministro, «che cittadini e imprese siano informati delle nuove opportunità che la legge offre loro. Il decreto, infatti, contiene misure di semplificazione e di riduzione degli oneri burocratici che contribuiranno a recuperare lo svantaggio competitivo dell'Italia e a liberare risorse per la crescita e lo sviluppo del paese».
Il governo stima in 500 milioni di euro l'anno i risparmi originati dal decreto che interviene su adempimenti burocratici pari a 7,7 miliardi di euro l'anno per le pmi.
Indennizzo per i ritardi della burocrazia. Per chiedere l'indennizzo, le imprese interessate, entro 20 giorni dalla scadenza dei termini, dovranno rivolgersi al responsabile appositamente nominato dalla p.a. il quale dovrà concludere il procedimento nella metà del tempo originariamente previsto, oppure liquidare l'indennizzo. Una terza possibilità non sarà ammessa. In caso di inerzia da parte del responsabile del potere sostitutivo, l'interessato potrà rivolgersi al Tar.
Come detto, l'indennizzo per il momento non potrà essere richiesto dai cittadini. La misura è infatti considerata sperimentale dal governo, che si è dato 18 mesi di tempo per valutarne l'efficacia e impatto sui conti pubblici. Entro la fine della sperimentazione, l'indennizzo per il ritardo della p.a. potrà essere confermato, rimodulato o esteso anche gradualmente ad altri procedimenti. E a quel punto potranno entrare in gioco anche gli interessi dei privati cittadini che per il momento restano fuori dalla misura. Infine, le linee guida di D'Alia chiariscono che in caso di procedure complesse, in cui intervengono più soggetti pubblici, sarà l'amministrazione responsabile del ritardo a pagare l'indennizzo.
Date uniche di efficacia degli obblighi amministrativi. Sulla falsariga di quanto da anni accade in Europa, anche in Italia vengono introdotte le date uniche di efficacia dei nuovi obblighi amministrativi. Il 1° luglio e il 1° gennaio saranno le due finestre da tenere a mente per l'entrata in vigore degli adempimenti che impongono a cittadini e imprese di raccogliere, presentare o trasmettere atti e documenti (domande, certificati, dichiarazioni). Le amministrazioni dovranno pubblicare sul proprio sito internet le scadenze dei nuovi obblighi amministrativi.
Semplificazioni per l'edilizia. Anche in questo settore fortemente colpito dalla crisi, il governo punta a risparmiare grazie al decreto del fare circa 500 milioni l'anno, agevolando così la ripresa delle costruzioni. Le semplificazioni in questo campo sono molteplici. Per gli interventi edilizi che modificano la sagoma degli edifici (a parità di volumetria e nel rispetto dei vincoli) non sarà più necessario il permesso di costruire, ma basterà la Scia. E ancora, i procedimenti di rilascio del permesso di costruire in presenza di vincoli dovranno concludersi con un provvedimento espresso (di accoglimento o diniego) e non col semplice silenzio-rifiuto come oggi. Infine, è introdotta la facoltà per l'interessato di chiedere il rilascio del certificato di agibilità parziale anche prima del completamento dell'opera.
Durc. La validità del Durc passa da 90 a 120 giorni. Il documento dovrà essere richiesto solo per le fasi fondamentali del contratto (e non più per ciascuna fase della procedura di aggiudicazione e stipula). Sarà acquisito d'ufficio dalle stazioni appaltanti utilizzando gli strumenti informatici e sarà valido anche per contratti pubblici diversi da quelli per cui è stato richiesto (articolo ItaliaOggi del 21.08.2013
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ENTI LOCALI - VARIMulte, più comodi sullo sconto.
Il pagamento con lo sconto decorre dal giorno successivo a quello della contestazione o notificazione. Le pattuglie della polizia stradale non dovranno usare il terminale pos per i pagamenti delle sanzioni stradali con la riduzione del 30%.

Sono queste alcune delle indicazioni fornite dal ministero dell'interno alle questure e alla polizia di stato con la circolare 19.08.2013 n. 6399 di prot. in relazione alle novità previste dalla legge n. 98 del 09.08.2013, recante la conversione del decreto legge del fare n. 69 del 21.06.2013.
In seguito alle modifiche dell'art. 202 del codice della strada, introdotte dalla legge di conversione n. 98/2013, in vigore da oggi, la somma da pagare per le violazioni è ridotta del 30% se il pagamento è effettuato entro cinque giorni dalla contestazione o dalla notificazione. La riduzione non è applicabile alle violazioni per cui non è ammesso il pagamento in misura ridotta e alle infrazioni non incluse nel codice della strada, ma previste dalla legislazione complementare. La riduzione non spetta altresì quando è prevista la confisca del veicolo o la sospensione della patente di guida.
Il ministero dell'interno, con la circolare n. 6399 del 19.08.2013, ha trasmesso alle questure e alla polizia di stato le indicazioni operative sulla redazione dei verbali e sulla riscossione delle somme. La circolare precisa che la riduzione del 30% spetta anche nei casi di pagamento immediato obbligatorio previsti dall'art. 202, comma 2-bis, cds, per le violazioni commesse da un conducente titolare di patente di guida di categoria C, C+E, D o D+E nell'esercizio dell'attività di autotrasporto di persone o cose, nonché dall'art. 207 per il conducente di un veicolo immatricolato all'estero o munito di targa EE.
La riduzione spetta anche per le violazioni elencate all'art. 195, comma 2-bis, le cui sanzioni pecuniarie sono aumentate di un terzo se l'illecito è commesso dopo le ore 22 e prima delle ore 7. L'espressa indicazione dell'importo scontato del 30% dovrà essere riportata su tutti i verbali utilizzati dalle pattuglie della polizia stradale; gli agenti dovranno integrare i verbali già in dotazione prima della novella (articolo ItaliaOggi del 21.08.2013
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AMBIENTE-ECOLOGIAPer i «Raee» stoccaggio mensile. Tempi più ravvicinati quando si supera la soglia di 3.500 chilogrammi. Ambiente. Pubblicata la legge europea 97/2013 che prova a snellire gli obblighi dei rivenditori di prodotti tecnologici.
GLI ALTRI PUNTI/ Aboliti i limiti di portata dei mezzi di trasporto L'attivazione di un solo sito può mettere in difficoltà i distributori.

Nella legge europea 97/2013 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 194 di ieri si tenta di agevolare la raccolta differenziata dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee) da parte dei distributori.
L'esigenza di semplificazione è molto sentita dalle imprese commerciali anche perché in Italia, per adempiere all'obbligo comunitario di ritirare gratuitamente i rifiuti tecnologici, oltre a dover sopportare i costi connessi all'uso degli spazi di magazzino e al trasporto presso i centri di raccolta comunali, i distributori devono acquisire una autorizzazione ad hoc. Il permesso si ottiene con un'iscrizione "semplificata" all'Albo nazionale gestori ambientali. La direttiva quadro comunitaria in materia di rifiuti, invece, ricorda che i sistemi di raccolta non gestiti su base professionale, tra cui figurano i sistemi di ritiro dei beni di consumo nei negozi, non dovrebbero essere soggetti ad autorizzazione in quanto «presentano rischi inferiori e contribuiscono alla raccolta differenziata».
La legge 97/2013 incorpora parte di quanto stabilito dal Dm 65/2010 e prescrive che il trasporto dei rifiuti ai centri di raccolta «con cadenza mensile e, comunque, quando il quantitativo raggruppato raggiunga complessivamente i 3.500 chilogrammi». Nella nuova formulazione della norma il quantitativo "complessivo" si riferisce a ciascuno dei raggruppamenti 1 (freddo e clima), 2 (altri grandi elettrodomestici bianchi) e 3 (TV e monitor) definiti dal decreto ministeriale 185/2007, mentre nel caso dei raggruppamenti 4 (information technology, consumer electronics e apparecchi di illuminazione) e 5 (sorgenti luminose) i 3.500 chilogrammi sono relativi all'insieme di questi due raggruppamenti.
Resta disattesa è l'esigenza di ridurre la frequenza dei trasporti ai centri di raccolta comunale, che dovrà essere almeno mensile o più ravvicinata se si supera il limite dei 3.500 chilogrammi. Secondo le osservazioni della commissione Ambiente della Camera la previsione di una frequenza mensile «non sembra muoversi nella direzione della semplificazione», comportando un aggravio dei costi per i negozianti che non determina alcun vantaggio ambientale. Da rivedere, sempre secondo la commissione Ambiente della Camera, anche la formulazione della disposizione sui luoghi di deposito, secondo cui «il raggruppamento dei Raee è effettuato presso il punto di vendita o presso altro luogo». La norma, infatti, sembra prescrivere «che il distributore possa attivare un solo sito di raggruppamento Raee, non tenendo conto della realtà operativa e logistica delle imprese distributive».
Vengono aboliti, infine, sia il limite di portata dei mezzi di trasporto, in precedenza fissato a 6mila chilogrammi, sia l'esclusione dall'ambito di applicazione del Dlgs 151/2005 degli elettrodomestici fissi di grandi dimensioni e di alcune altre tipologie di apparecchi esemplificativamente indicate nell'allegato 1B, deroga ora riconosciuta come non conforme alle disposizioni comunitarie (articolo Il Sole 24 Ore del 21.08.2013
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AMBIENTE-ECOLOGIAIl peso dei rifiuti pericolosi verificato anche a destinazione. Sistri. Da ottobre tracciabilità obbligatoria per i produttori con più di 10 dipendenti.
Fervono i preparativi per il riavvio del Sistri, programmato per il 1° ottobre. Da quel giorno il sistema per la tracciabilità dei rifiuti diventerà obbligatorio per i produttori di rifiuti pericolosi con più di 10 dipendenti e per tutti gli operatori che assicurano le diverse fasi di gestione di questa tipologia di scarti.
In vista della scadenza il ministero dell'Ambiente ha pubblicato sul portale (www.sistri.it) una nuova versione del manuale operativo del sistema. L'aggiornamento del software e del vademecum avrebbero dovuto dare corpo alle esigenze di semplificazione operativa espresse dal mondo delle imprese e compendiate in un documento sottoscritto da pressoché tutte le associazioni imprenditoriali. In qualche caso ciò è avvenuto, ma sono ancora molte le procedure che andrebbero riviste.
Quantità del rifiuto
Nelle "schede area movimentazione del rifiuto", il nuovo nome dei formulari utilizzati in fase di trasporto, è ora possibile esprimere la quantità del rifiuto in metri cubi, riservandosi di far verificare il peso a destino. L'innovazione è importante per tutte le imprese che non dispongono di una pesa o che depositano i rifiuti in contenitori dal volume noto, ma per essere realmente efficace dovrebbe essere associata alla possibilità, non ancora prevista, di utilizzare il volume anche per le registrazioni di carico del rifiuto che precedono l'avvio al recupero o allo smaltimento.
Movimentazione del rifiuto
Il nuovo manuale delinea meglio la possibilità di affidare i rifiuti al trasportatore senza che la chiavetta Usb del veicolo debba essere fisicamente inserita nel computer del produttore, consentendo che la data e l'ora d'inizio del trasporto siano prima riportate sulla scheda area movimentazione stampata su carta e, in seguito, inserite nel sistema informatico dal trasportatore. Il dispositivo Usb del mezzo, in precedenza presentato come lo strumento che avrebbe dato garanzia sia dell'effettiva partenza di un carico di rifiuti da una determinata unità locale del produttore, sia dell'avvenuta consegna all'impianto autorizzato preliminarmente indicato, diviene ora solo un supporto per la memorizzazione e il trasferimento dei dati dal sistema telematico alla black box installata sul veicolo.
Allineamento dati anagrafici
Nel caso di cambiamenti nella titolarità dell'azienda o del ramo d'azienda –spiega il manuale riportando le prescrizioni del Dm 52/2011– gli operatori subentranti dovranno accedere all'area riservata del portale Sistri e trasmettere copia degli atti che hanno comportato la variazione «prima che tali cambiamenti acquisiscano efficacia». Si è quindi tenuti a inviare al Sistri la documentazione già trasmessa al Registro delle imprese ma, nel caso in cui l'impresa subentrante non sia ancora iscritta al sistema, l'accesso all'area "gestione azienda" del portale non è possibile.
Conservazione dati trasmessi
L'articolo 188-bis del Dlgs 152/2006, che entrerà in vigore dal giorno successivo all'avvio del Sistri, sancisce l'obbligo di «conservazione in formato elettronico» dei dati già sottoscritti digitalmente e inviati al ministero dell'Ambiente con le procedure telematiche previste dal sistema. Il nuovo manuale non chiarisce, però, come sia concretamente possibile adempiere l'obbligo di "scaricare" le registrazioni e si spinge a indicare che è necessario conservarle «presso la sede legale dell'azienda», malgrado ciò non sia prescritto dalle norme che disciplinano l'uso del sistema (articolo Il Sole 24 Ore del 21.08.2013
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ENTI LOCALIIl Garante della privacy fissa la trasparenza. Web. I requisiti del sito istituzionale.
Privacy all'insegna della trasparenza. Il Garante ha predisposto un regolamento che recepisce il decreto 33/2013, che ha imposto alle pubbliche amministrazioni di inserire sui propri siti tutta una serie di informazioni (redditi dei dipendenti, consulenze, curricula, acquisti, documenti eccetera).
Il regolamento 1/2013 –pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 193 del 19 agosto (entrerà in vigore il 18 ottobre)– prevede che nella home-page del sito del Garante sia creata una sezione ad hoc denominata "Autorità trasparente" da cui il cittadino possa accedere a molte informazioni, che saranno caricate tempestivamente (in ogni caso, entro tre mesi dalla loro origine) e aggiornate con cadenza annuale.
L'Authority si impegna a garantire la qualità delle notizie pubblicate, la loro integrità, completezza, esattezza, semplicità di consultazione, comprensibilità, facilità di accesso e riutilizzabilità. Nel caso di ritardo o mancata pubblicazione di un atto, il cittadino può azionare l'accesso civico. Si tratta del diritto di sollecitare –senza alcuna limitazione riguardo alla legittimazione soggettiva del richiedente e senza che l'istanza debba essere motivata– la pubblicazione dei documenti omessi.
Il perseguimento della trasparenza –ricorda il Garante nel regolamento– è «condizione delle libertà individuali e collettive, nonché dei diritti civili, politici e sociali, integra il diritto a una buona amministrazione e concorre alla realizzazione di un'amministrazione aperta, al servizio del cittadino» (articolo Il Sole 24 Ore del 21.08.2013
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QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGOOGGETTO: Accesso a documenti inerenti attribuzione assegni familiari e congedi previsti dalla legge 104/1992 da parte del coniuge separato.
Il Dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo “.....” di Sava (TA) espone che il coniuge separato di un dipendente dell’Istituto, genitore di due bambini portatori di handicap, che usufruisce di permessi ex art. 33 della legge n. 104/1992 per 6 giorni al mese, ha chiesto di conoscere i giorni in cui il dipendente usufruisce di tali permessi, al fine di verificare se in tali giornate presta o meno assistenza ai figli.
Chiede di conoscere se una tale motivazione possa legittimare il diritto di accesso.
Il controinteressato, ritualmente avvertito, ha proposto opposizione all’istanza di accesso contestando che il proprio coniuge possa avere un qualunque interesse a conoscere i giorni in cui usufruisce dei permessi ex lege 104/1992, tenuto conto che si tratta esclusivamente del rapporto intrattenuto dall’insegnante con l’Istituto.
Ciò premesso ritiene la Commissione che nel caso di specie la richiesta di accesso possa essere positivamente definita.
E’ evidente, invero, che il controinteressato usufruisce dei permessi in questione per il fatto di essere genitore di due bambini portatori di handicap, ed è di conseguenza altrettanto evidente che il coniuge separato abbia interesse a conoscere i giorni in cui i permessi vengano accordati, al fine di verificare se in tali giornate i figli abbiano o meno assistenza.
Al riguardo non ha nessun rilievo il fatto che il tribunale di Taranto non abbia riconosciuto al coniuge separato la veste di controinteressato, per la decisiva ragione che l’oggetto di quel giudizio è tutt’affatto diverso dall’istanza di accesso proposta.
Deve pertanto concludersi che nella specie la richiesta di accesso sia sufficientemente motivata
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 20.12.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Accesso ai cedolini di busta paga dei dipendenti comunali da parte dei consiglieri comunali.
Il Sig. ..., Consigliere di maggioranza del Comune di Copiano, espone di aver chiesto all’Amministrazione comunale la visione ed il rilascio dei cedolini di busta paga riguardanti la dipendente comunale dott.ssa ..., relativi ad alcuni mesi del 2011 e del 2012.
Il Sindaco del suddetto Comune, nel rappresentare all’esponente che analoga richiesta di altro Consigliere comunale aveva avuto esito negativo, ha tuttavia evidenziato che la suddetta dipendente percepisce lo stipendio contrattuale Enti locali livello C2 con una indennità di posizione invariata rispetto a quella iniziale.
Ciò premesso, pur volendo prescindere da ogni considerazione in ordine alla circostanza che la risposta dell’Amministrazione è pervenuta oltre il prescritto termine di 30 giorni, va sottolineato che questa Commissione, nella scia di una ormai consolidata giurisprudenza del giudice amministrativo, ha avuto più volte occasione di affermare che il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei Consiglieri comunali sono specificamente disciplinati dall’art. 43 del d.lgs. n.267 del 2000 che riconosce loro (ed ai consiglieri provinciali) il diritto di ottenere dagli uffici tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del loro mandato.
Si tratta all’evidenza, di un diritto dai confini più ampi del diritto di accesso riconosciuto al cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10 T.U.E.L) o, più in generale, nei confronti della P.A. disciplinato dalla legge n. 241 del 1990
Tale maggiore ampiezza trova la propria giustificazione nel particolare “munus” espletato dal Consigliere comunale (ma ciò parimenti vale anche per il Consigliere circoscrizionale), affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata.
Per queste ragioni il Consigliere comunale ed il Consigliere circoscrizionale non devono neppure motivare le proprie richieste d’informazione, perché altrimenti la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche degli organi deputati all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi, con la conseguenza che gli uffici comunali e circoscrizionali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste d’informazione e le modalità di esercizio della funzione esercitata dai Consiglieri comunali e circoscrizionali.
Giova tuttavia sottolineare che l’unico limite è rappresentato dal fatto che: Consiglieri comunali e circoscrizionali non possono abusare del diritto all’informazione riconosciuto loro dall’ordinamento, interferendo pesantemente sulla funzionalità e sull’efficienza degli uffici dell’Ente civico, con richieste che travalichino i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza.
Per le suesposte ragioni, il diniego espresso dall’Amministrazione comunale nel caso di specie non può essere condiviso
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 20.12.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

PUBBLICO IMPIEGOOGGETTO: Richiesta di parere in tema di esercizio del diritto di accesso alle schede valutative di una selezione per progressione orizzontale.
Un messo comunale ha impugnato dinanzi al Difensore civico territoriale il provvedimento con cui il Comune aveva negato l’accesso alle schede valutative dei partecipanti alla selezione indetta per le progressioni nei profili professionali, lamentando di essere stato ingiustamente discriminato. Il Difensore civico adito, pur intendendo accogliere il ricorso, ha inoltrato richiesta di parere a questa Commissione al fine di conoscere se possa concedersi l’accesso ai documenti valutativi dei concorrenti e se sia necessario notiziare i controinteressati nonché quali siano le modalità di accesso più idonee (accesso integrale, limitato alla visione ovvero omissis) in caso di accesso a documenti contenenti dati personali.
Questa Commissione, premesso che nutre alcune perplessità in ordine alla propria competenza ad esprimere pareri inerenti decisioni di ricorsi pendenti innanzi al Difensore Civico, nel merito osserva quanto segue.
Sulla prima questione, la Commissione ribadisce che i partecipanti ad una procedura concorsuale o selettiva pubblica, sono titolari di un interesse endoprocedimentale, ai sensi dell'art. 10 legge n. 241/1990, ad accedere alle schede valutative degli altri candidati, senza alcuna necessità di una preventiva notifica agli altri dipendenti in graduatoria, dal momento che questi ultimi, partecipando ad una selezione, hanno implicitamente accettato che i loro dati personali potessero essere resi conoscibili da tutti gli altri concorrenti a ciò interessati (arg. ex TAR Lazio, Roma, Sez. III, 08.07.2008, n. 6450).
Circa il secondo aspetto, come è noto, argomentando dal combinato disposto degli artt. 24, co. 7, della legge n. 241/1990 e 60 d.lgs. n. 196/2003, nel caso di documenti contenenti dati personali sensibili e giudiziari ovvero supersensibili l'accesso è consentito rispettivamente alla stregua del principio di stretta indispensabilità ovvero se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi è di rango almeno pari ai diritti dell'interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile, in esito ad un sostanziale bilanciamento di interessi operato già dalla legge come regola di massima.
In esito a tale comparazione, qualora la riservatezza sia considerata recessiva, il diritto di accesso dovrà esercitarsi in forma “piena” ed “integrale” mediante il congiunto esercizio della visione e dell’estrazione di copia, dovendo ritenersi scomparsa la figura dell'accesso limitato alla sola visione, alla stregua della nuova formulazione testuale dell’art. 24 e dell’art. 25 della legge n. 241/1990 (Tar Bari, sez. I, 05.02.2007, n. 337).
Tuttavia, come è stato autorevolmente sostenuto in dottrina e in giurisprudenza, "il giudizio di bilanciamento tra interessi in conflitto non va effettuato allorché sia possibile celare, mediante l’apposizione di opportuni omissis, l’identità del soggetto, cui si riferiscono i dati sensibili o sensibilissimi e che la tutela dei dati sensibili può essere operata mediante tecniche di mascheramento riguardanti i dati relativi ai terzi ovvero oscurando i dati supersensibili se riferiti direttamente ai contro interessati” (cfr TAR Campania, Napoli, sez. V del 13.07.2006, n. 7475 nonché TAR Toscana, sez. II del 09.02.2007, n. 152; vedi anche Cons. Stato Sez. IV, 06.05.2010, n. 2639).
Tali principi dovranno essere integrati, caso per caso, secondo le concrete valutazioni, prima della p.a. e poi degli organi giustiziali e giurisdizionali in fase di controllo, in considerazione delle specifiche esigenze dell'interessato
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 20.12.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Richiesta di parere in tema di accesso di un cittadino residente.
Un cittadino, residente nel Comune di Nocera Inferiore, intende conoscere il parere di questa Commissione sulla legittimità del comportamento tenuto da un funzionario comunale che, a fronte della richiesta di visione dei documenti relativi alla gestione di un istituto locale da parte di un Comitato di Quartiere, aveva richiesto, oltre ad una serie di notizie e documenti, “l’assenso” del Presidente del Comitato stesso.
In linea generale, la Commissione ribadisce che ogni cittadino residente (siano essi persone fisiche, associazioni o persone giuridiche) ha diritto di accedere, in generale, alle informazioni di cui è in possesso l'amministrazione ai sensi dell'ultima parte del 2° comma dell'art. 10 del TUEL. Come è noto, tale disposizione, diversamente da quanto previsto nel regime generale di cui alla legge n. 241/1990, configura il diritto di accesso del cittadino alla stregua di un'azione popolare che non deve essere accompagnata né dalla titolarità di una situazione giuridicamente rilevante né da un'adeguata motivazione.
Pertanto, con riguardo al caso di specie, non pare possa negarsi il diritto del cittadino ad ottenere le informazioni richieste. Tuttavia, seppur non è chiara l’utilità o necessità delle notizie richieste dal funzionario comunale, permane l’obbligo della p.a. di inviare l’istanza di accesso al controinteressato ex art. 3 d.P.R. n. 184/2006 al fine di un’eventuale opposizione
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 20.12.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Accesso agli atti preparatori e a bozza di accordo da parte di un Consigliere comunale.
Il Comune di Valle Aurina ha rappresentato di essere da tempo impegnato in trattative con locali imprenditori nel settore energetico. A tale fine è stata elaborata da parte dell’Amministrazione comunale una bozza di accordo, che è stata accantonata in quanto non condivisa tra le parti. Tale bozza è stata oggetto di richiesta di accesso da parte di un consigliere comunale che, in esito al relativo rigetto, ha ritenuto opportuno chiedere una consulenza giuridica al Consorzio dei Comuni di Bolzano.
Il Comune interessato invece, chiede il parere di questa Commissione al fine di conoscere “l'accessibilità di atti preparatori in trattative negoziali successivamente accantonati in quanto ritenuti pregiudizievoli oppure irrilevanti per le parti”. Nonché, in particolare, se una bozza di accordo -successivamente accantonata e quindi divenuta irrilevante per l'ulteriore prosieguo dell'azione amministrativa- possa essere assimilata al concetto di documento amministrativo, accessibile ai sensi dell'art. 22, legge n. 241/1990.
Tanto premesso, si evidenzia che la natura di atto interno non ufficiale non ne giustifica il diniego all’accesso, considerato che l’art. 22, c. 1, lett. D), definisce documento amministrativo ogni rappresentazione del contenuto di atti, anche interni o non relativi a uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale (cfr. decisione della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi nella seduta del 14.12.2010).
Peraltro, considerato che la fattispecie “de qua” concerne trattative negoziali caducate non è dato ipotizzare eventuali differimenti dell’accesso. Infatti, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale il differimento può essere disposto per salvaguardare specifiche esigenze dell’Amministrazione, soprattutto nella fase preparatoria dei provvedimenti, in relazione ai documenti la cui conoscenza possa compromettere il buon andamento dell’azione amministrativa (TAR Lazio, sent. N. 13139/2009; TAR Liguria, sent. N. 1644/1007; cfr. decisione della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi nella seduta del 16.11.2010).
Si soggiunge, che i Consiglieri comunali e provinciali godono, comunque, di un pieno diritto d’accesso a tutti i documenti utili all’espletamento del proprio mandato, ai sensi dell’articolo 43 del TUEL, che, in quanto norma speciale, prevale rispetto alle disposizioni generali in materia d’accesso di cui alla legge n. 241 del 1990.
In particolare, il diritto del consigliere comunale ad ottenere dall’Ente locale e da tutte le aziende o enti partecipati dal Comune o affidatarie di servizi pubblici locali, tutte le notizie ed le informazioni utili all’espletamento del mandato non può essere in alcun modo compresso e non incontra alcuna limitazione derivante dalla eventuale natura riservata dei documenti, atteso che il diritto alla riservatezza viene comunque salvaguardato, essendo il consigliere istante vincolato al segreto d’ufficio, nei casi specificatamente determinati dalla legge, ai sensi del comma 2 del citato articolo 43 del TUEL. (C.d.S., sez. V, 04.05.2004, n. 2716)
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 20.12.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Notifica ai controinteressati.
La dott.ssa ..., responsabile dei Servizi Pubblici della Provincia di Rovigo, pone una serie di quesiti riguardanti il comportamento della P.A. quando, a fronte di una richiesta di accesso ai documenti amministrativi, deve darne comunicazione ai controinteressati.
Al riguardo la Commissione osserva che il termine “notifica” rinvenibile nella rubrica dell’art. 3 del d.P.R. n. 184/2006 deve essere inteso in senso atecnico, come si desume agevolmente dal testo della norma stessa che, in modo del tutto chiaro, dispone che la comunicazione ai controinteressati deve essere fatta mediante raccomandata con avviso di ricevimento.
Quanto poi all’ipotesi che l’avviso di ricevimento pervenga all’Amministrazione decorsi i 30 giorni dalla domanda di accesso, è evidente che non si forma il silenzio rigetto impugnabile perché questo presuppone la totale inerzia dell’Amministrazione.
Infine, nell’ipotesi in cui la raccomandata ritorni al mittente per qualunque ragione (compiuta giacenza, destinatario trasferito o irreperibile, etc.), la richiesta di accesso può essere senza dubbio definita, avendo la P.A. posto in essere tutti gli incombenti previsti dalla vigente normativa
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.11.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Parere in merito alla ostensibilità dei documenti acquisiti in esito all’accesso.
La dott.ssa ... –dottore commercialista e revisore contabile– chiede di conoscere se a seguito di accesso agli atti e al rilascio di copia della documentazione, il richiedente l’accesso possa condividerne il contenuto con i soggetti componenti la propria lista elettorale ed i componenti la lista collegata. Al riguardo precisa che la documentazione è afferente alle liste presentate ai sensi degli artt. 64 e ss. del d.lgs. 139/2005 in materia di elezioni presso l’ordine dei dottori commercialisti ed esperti contabili.
In relazione al quesito formulato, la Commissione rappresenta che, ai sensi della normativa vigente in materia di accesso ai documenti amministrativi, non sussistono limitazioni di sorta in merito alla ostensibilità degli atti acquisiti in esito all’accoglimento delle relative richieste d’accesso, ad eccezione degli accessi dei Consiglieri comunali e provinciali che, ai sensi dell’articolo 43 del d.lgs. n. 267 del 2000 (TUEL), sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge, con riferimento alle notizie ed informazioni ottenute, rispettivamente dagli uffici del Comune e della Provincia, per l’espletamento del proprio mandato
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.11.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Richiesta di parere in merito ad una richiesta di accesso ad un atto di Servizi Ambientali S.p.A. (società interamente pubblica).
La Società (interamente pubblica) S.p.A.., rappresenta di avere ricevuto in data 02.10.2012 una richiesta da parte dell'lng. ... -di cui si allega copia- finalizzata ad ottenere copia della delibera del consiglio di amministrazione avente ad oggetto non l'attribuzione di un incarico, bensì la possibilità di procedere a detta attribuzione nei di lui confronti. Al riguardo sostiene che detta delibera non aveva e non ha alcuna relazione, nemmeno indiretta, con le funzioni pubbliche della società e che non è sorto in capo al richiedente alcun diritto, non avendo il consiglio preso alcuna decisione in merito al conferimento dell'incarico ed avendo successivamente formalizzato la contraria intenzione di non procedere ad alcun conferimento.
Sostiene, poi, che la richiesta di accesso sembra finalizzata unicamente ad esercitare pressioni sull’organo amministrativo e che la delibera contiene considerazioni espresse dai consiglieri di amministrazione del tutto inconferenti rispetto all’oggetto dell’istanza.
Tanto premesso, la predetta S.p.A. chiede alla Commissione se, contrariamente all’orientamento giurisprudenziale – a suo dire prevalente - debba ritenersi fondata l’istanza del richiedente e, in questo caso, se l’eventuale copia del documento possa essere rilasciata rendendo visibile solo la parte strettamente legata all’espressione non deliberativa relativa all’ipotesi di conferimento dell’incarico.
La Commissione reputa che sussista la legittimazione all’accesso del ricorrente limitatamente alla parte del documento, pertinente all’oggetto della richiesta, essendo stata motivata correttamente, a scopo accertativo, la relativa istanza.
La circostanza che il procedimento si sia già concluso negativamente nei confronti dell’accedente, non vale a giustificare il rigetto della stessa. Infatti, l’art. 22, c. 1, della legge 241/1990 garantisce espressamente il diritto di accesso ai documenti amministrativi anche interni, sancendo in tale modo l’autonomia dell’interesse sottostante alla relativa istanza rispetto alla esistenza o alla pendenza di uno specifico procedimento al quale l’istante sia interessato.
Si precisa che, solo qualora la delibera -oggetto della richiesta- contenga argomenti ultronei, del tutto inconferenti ed estranei al tema dell’attribuzione dell’incarico, tali dati potranno essere cancellati, in occasione della visura e del rilascio del documento all’interessato
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.11.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Richiesta di parere sull’obbligo di pagamento del costo di riproduzione di copie di documenti rilasciati da Amministrazione statale, richiesti ex art. 25 L. 241/1990.
Il Policlinico Militare di Roma rappresenta di avere ricevuto n. 2 richieste di rilascio di copie fotostatiche di documentazione sanitaria (le cartelle cliniche dei Sigg. ... e ...) da parte di uno studio legale, che ha rappresentato, ai sensi della L. 241/1990, l'interesse concreto ed attuale nell’ambito dei ricorsi giudiziali dei suoi assistiti e o degli eredi in controversie in materia pensionistica. L’Amministrazione ha chiesto, pertanto, il versamento del corrispettivo onere ristorativo dei diritti di riproduzione correlato al numero di pagine rilasciate ed inviate a mezzo R.A. rispettivamente di euro 7.50 (sette/50) per le due cartelle del Signor ... e di euro 2.50 (due/50) per la cartella del signor ...).
Ad ambedue le richieste lo Studio Legale opponeva rifiuto al versamento dell'onere richiesto, adducendo che la normativa dell'art. 12, tab. b, d.P.R. 642/1972 sull'imposta di bollo prevede l’esenzione di imposte per "controversie in materia di pensioni dirette" e che, altresì, l'art. 10 legge 533/1978 contempla tra gli atti esenti da qualsiasi "spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura" gli atti inerenti "controversie individuali di lavoro" (all. E e all. F).
Per il primo caso, relativo al Signor ..., il Policlinico inviava, comunque, la documentazione richiesta a favore della patrocinata vedova ...- anticipando il credito del corrispettivo richiesto per il ristoro delle spese di riproduzione - avvertendo contestualmente il predetto studio legale che sarebbe stata attivata una richiesta di parere a codesta Commissione per un eventuale successivo recupero della somma dovuta.
Per il secondo caso, relativo al Sig. ..., al rifiuto opposto dallo Studio Legale ... al versamento delle spese di riproduzione della documentazione sanitaria richiesta, l’Amministrazione confermando le indicazioni di cui alle precedenti comunicazioni e rinviando a quanto chiarito dalla Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri nella seduta del 14/09/2010, non inviava copia della cartella clinica comunque estratta.
Tanto premesso, il Direttore del Policlinico Militare di Roma chiede a codesta Commissione di esprimere chiarimenti e linee applicative in merito ai seguenti quesiti:
 se risulta legittimo l'obbligo e la conseguente richiesta del Policlinico Militare di corresponsione del rimborso delle spese di riproduzione di documenti rilasciati su richiesta di accesso ex art. 25 legge 241/1990 e successive integrazioni, ex d.P.R. 184/2006, ex circolari applicative e regolamenti interni, nei casi della normativa riferita dallo Studio Legale ... in materia di pensioni e contenzioso lavoristico (l. 533/1978 e d.P.R. 642/1972);
 se i costi di spedizione della documentazione al domicilio del richiedente siano a carico del richiedente stesso e dell'Amministrazione (rectius o dell’Amministrazione).
Si evidenzia che la legge n. 241/1990 – norma di rango primario rispetto alle disposizioni regolamentari - nel riconoscere a chiunque vi abbia interesse il diritto di accesso ai documenti amministrativi, ha indicato sinteticamente i concreti modi per l’esame e l’estrazione di copia della documentazione, stabilendo che il rilascio di copia dei documenti è subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le disposizioni in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e visura ove espressamente previsti.
In conformità a tale previsione legislativa, il d.p.r. 12.04.2006, n. 184, all’art. 7, c. 6, stabilisce che “...in ogni caso, la copia dei documenti è rilasciata subordinatamente al pagamento degli importi dovuti ai sensi dell’art. 25 della legge, secondo le modalità determinate dalle singole Amministrazioni. Su richiesta dell’interessato, le copie possono essere autenticate”.
Conseguentemente, a ciascuna Amministrazione è stato demandato, in attuazione degli artt. 5 e 6 del d.P.R. n. 352/1992 di fissare l’importo dovuto per i relativi costi di riproduzione per ciascuna copia degli atti richiesti con criteri di uniformità e di praticità.
Peraltro, la lettera e la ratio delle disposizioni in materia di accesso ai documenti amministrativi contenute nelle leggi 241/1990 e 142/1990 escludono che sia dovuta l’imposta di bollo tanto sulla richiesta di accesso quanto sulla copia informe eventualmente rilasciata, ferma restando, invece, l’assoggettabilità a bollo, ove prevista “ex lege”, della copia autenticata, eventualmente richiesta.
Tanto premesso, per quanto riguarda l’assoggettabilità a bollo nel caso specifico, nell’ipotesi di rilascio a richiesta di copie conformi, trova applicazione la Tabella – Allegato B - di cui al d.P.R. n. 642/1972 (così come modificata dal d.P.R. n. 955/1982 e s.m.i.) che all’art. 12 individua tra gli atti, documenti e registri amministrativi esenti in modo assoluto dall’imposta stessa gli atti, documenti e provvedimenti dei procedimenti giurisdizionali–amministrativi relativi a controversie in materia di pensioni dirette o di reversibilità.
Pertanto, le suesposte disposizioni normative di rango primario prevalgono su eventuali, difformi disposizioni regolamentari.
Si soggiunge, peraltro, che i costi di spedizione della documentazione a domicilio, in esito a specifica istanza, sono a carico del richiedente
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.11.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Parere - accesso ai documenti concorso pubblico.
La sig.ra ..., partecipante al Concorso per esami e titoli per il reclutamento dei Dirigenti Scolastici per la Scuola Primaria, Secondaria di I grado, Secondaria di II grado e degli Istituti Educativi, chiede parere a questa Commissione sulla legittimità dei provvedimenti adottati dall'USR Puglia in merito alle proprie richieste di accesso ai documenti amministrativi del concorso stesso.
A tal riguardo, precisa di essere stata ammessa a sostenere le prove scritte del Concorso per D.S., dopo avere superato la prova preselettiva del 12 Ottobre 2011 e di essere, poi, risultata tra i candidati non ammessi alla prova orale. La professoressa, dubitando della corretta applicazione delle griglie di valutazione che l'avrebbero penalizzata –a suo dire- oltre misura sino ad escluderla dal sostenere la prova orale, inoltrava richiesta di accesso agli elaborati dei canditati ammessi a sostenere le prove orali (in numero di 228) ed alle relative valutazioni adottate dalla Commissione d'esame.
Dopo una prima istanza di accesso, differita dall’USR Puglia, l’interessata riferisce infine di essere stata invitata, dopo l’assegnazione degli incarichi, per un accesso solo parziale, percentualizzato rispetto al totale degli elaborati dei candidati ammessi all’orale e che in tale occasione l’impiegato non ha mostrato alcun originale, limitandosi a consegnare delle copie fotostatiche. La professoressa, pertanto, reputa che non sia stato corretto sia differire l’accesso sia limitarlo ad una sola quota dei documenti. Conclusivamente, chiede quindi il parere di questa Commissione, nella prospettiva di intraprendere eventuali azioni necessarie alla tutela dei propri diritti.
Tanto premesso, questa Commissione evidenzia come da consolidato indirizzo e anche da copiosa giurisprudenza del giudice amministrativo sia acclarata l’accessibilità dei documenti formati dalla commissione esaminatrice e prodotti da altri candidati (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. III, 08.07.2008, n. 6450; Commissione decisione del 04.05.2010).
Va riconosciuto, pertanto, il diritto di essere ammessa a visionare tutti i documenti e di estrarne copia, perché l’esercizio del diritto di accesso, ai sensi delle disposizioni vigenti, deve intendersi comprensivo di entrambe le modalità. Tuttavia, l’accesso potrà legittimamente essere limitato dall’amministrazione ai soli elaborati con voti utili per l’ammissione all’esame orale
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 13.11.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso al nominativo di un esposto.
L’istante ha segnalato che il Comune ove risiede nega sistematicamente l’accesso agli atti della Polizia Municipale (verbali o accertamenti) relativi al procedimento conseguente ai numerosi esposti presentati per molestie provocate, ad esso istante e ai cittadini del comune, da cani di grossa taglia lasciati incustoditi sulla pubblica via.
In conformità all’orientamento espresso da questa Commissione, nel caso in cui l’istante -come nella specie- sia un cittadino residente nel comune, il diritto di accesso è soggetto alla disciplina speciale di cui all’art. 10, co. 1, del d.lgs. n. 267/2000, che sancisce espressamente il principio della pubblicità di tutti gli atti ed il diritto dei cittadini di accedere alle informazioni in possesso delle autonomie locali, senza fare menzione alcuna della necessità di dichiarare la sussistenza di tale situazione al fine di poter valutare la legittimazione all’accesso del richiedente.
Pertanto, considerato che il diritto di accesso ex art. 10 TUEL si configura alla stregua di un’azione popolare, il cittadino residente può accedere agli atti amministrativi dell'ente locale di appartenenza senza alcun condizionamento e senza necessità della previa indicazione delle ragioni della richiesta, dovendosi cautelare la sola segretezza degli atti la cui esibizione è vietata dalla legge o da esigenze di tutela della riservatezza dei terzi
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 23.10.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso ad un esposto.
L’Autorità istante ha chiesto a questa Commissione se sia ostensibile un “esposto” che avrebbe innescato contemporaneamente un procedimento amministrativo ed un’indagine penale relativa ad una non meglio precisata gara, non essendo certo se le segnalazioni e le denunce costituiscano documenti amministrativi e se siano o meno atti sottoposti a segreto.
La Commissione ribadisce il proprio orientamento secondo cui:
- ogni soggetto deve poter conoscere con precisione i contenuti e gli autori di esposti o denunce che, fondatamente o meno, possano costituire le basi per l'avvio di un procedimento ispettivo o sanzionatorio. Ciò vale a maggior ragione quando tali denunce hanno sviluppi così penetranti come quelli che coinvolgono la sfera personale o professionale di un soggetto che, per i fatti oggetto di quell’esposto, sia stato sottoposto a procedimento ispettivo-disciplinare e a procedimento penale (cfr., Cons. Stato, Sez. V 19.05.2009 n. 3081; Sez. VI, 25.06.2007 n. 3601);
- non può essere esclusa l'ostensione di esposti e di segnalazioni di privati, pervenuti alla P.A., anche se già trasmessi al giudice penale che, per effetto di quelli, abbia incardinato un procedimento ancora pendente (Cons. Stato Sez. IV, 04.04.2011, n. 2118; TAR Lazio-Roma, Sez. I, n. 33041/2010).
Con riguardo al caso in esame, pur nella penuria di maggiori e più precisi elementi di fatto ricavabili dall’istanza (essendo ignoto chi abbia chiesto l’accesso, il tenore della relativa istanza e le specifiche motivazioni dell’accesso), si ritiene in linea generale che sia lecito far conoscere l’esposto dal quale è scaturito un procedimento amministrativo, soprattutto quando sia dedotta la necessità concreta di curare e difendere i propri interessi giuridici e non vi siano dati sensibili o supersensibili rilevanti ex art. 24, comma 7, legge n. 241/1990
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 23.10.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Richiesta di accesso di consigliere comunale al protocollo del Comune.
Un consigliere comunale ha chiesto il parere di questa Commissione in ordine alla possibilità e modalità di visione del protocollo del proprio Comune.
Questa Commissione ritiene, a conferma di un orientamento ormai consolidato, che il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina specifica nell’art. 43 del d.lgs. n. 267/2000 (TU degli Enti locali) che riconosce ai consiglieri comunali e provinciali il “diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato”.
Dal contenuto della citata norma si evince il riconoscimento in capo al consigliere comunale di un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10, T.U. enti locali) sia, più in generale, nei confronti della P.A. quale disciplinato dalla l. n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata (a maggior ragione, per ovvie considerazioni, qualora il consigliere comunale appartenga alla minoranza, istituzionalmente deputata allo svolgimento di compiti di controllo e verifica dell’operato della maggioranza). A tal proposito, il Giudice amministrativo individua la situazione giuridica in capo ai consiglieri comunali con l’espressione “diritto soggettivo pubblico funzionalizzato”, vale a dire un diritto che “implica l’esercizio di facoltà finalizzate al pieno ed effettivo svolgimento delle funzioni assegnate direttamente al consiglio comunale”.
A tal fine il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi. Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato.
Anche per quanto riguarda le modalità di accesso alle informazioni e alla documentazione richieste dal consigliere comunale, costituisce principio giurisprudenziale consolidato (cfr., fra le molte, Cons. Stato, Sez. V, 22.05.2007 n. 929) quello secondo cui il diritto di accesso agli atti di un consigliere comunale non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell’Ente, tali da ostacolare l’esercizio del suo mandato istituzionale, con l’unico limite di poter esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione alle altre attività di tipo corrente e ciò in ragione del fatto che il consigliere comunale non può abusare del diritto all’informazione riconosciutogli dall’ordinamento pregiudicando la corretta funzionalità amministrativa dell’ente civico con richieste non contenute entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza.
Proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio della ordinaria attività amministrativa dell’ente locale, questa Commissione ha riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche contabile) dell’ente attraverso l’uso di password di servizio (fra gli ultimi, cfr. parere del 29.11.2009) e, più recentemente, anche al protocollo informatico.
Quanto alla natura generalizzata della richiesta rivolta a conoscere tutta la corrispondenza del comune, la Commissione ritiene che, seppur anche le richieste di accesso ai documenti avanzate dai Consiglieri comunali ai sensi dell'art. 43, co. 2, d.lgs. n. 267/2000 debbano rispettare il limite di carattere generale -valido per qualsiasi richiesta di accesso agli atti- della non genericità della richiesta medesima (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, n. 4471 del 02.09.2005 e n. 6293 del 13.11.2002), l’eventuale istanza di accesso al protocollo non appare inammissibile per genericità atteso che il registro generale di protocollo costituisce di per sé documento autonomo -come tale suscettibile di accesso- dalla lettura del quale il consigliere comunale potrà acquisire tutte le informazioni che, ai sensi dell’art. 43, comma 2, T.U. n. 267/2000 ha diritto di conoscere per poi, eventualmente, richiedere l’accesso a specifici documenti.
La domanda di accesso deve, pertanto, essere accolta, consentendo la visione e l’acquisizione di copia del protocollo
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 23.10.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: OGGETTO: Richiesta di parere concernente il diritto di accesso ad atti in materia di inquinamento acustico.
Il Comune in indirizzo ha rappresentato che -a fronte della richiesta di un cittadino di accedere alla documentazione relativa ad un procedimento in materia di inquinamento acustico avviato nei confronti di una ditta confinante- quest’ultima si era opposta all’accesso in quanto non sussisterebbe un interesse giuridicamente rilevante né la dimostrazione che gli atti di interesse avessero effetti pregiudizievoli sulla posizione del cittadino istante. Tanto premesso, ha chiesto a questa Commissione un parere sulla legittimità dell’opposizione all’accesso manifestata dalla controinteressata.
La Commissione ribadisce il proprio consolidato orientamento secondo cui qualora l’istante risieda nel territorio comunale, si deve ritenere che egli possa accedere a tutte le informazioni inerenti al procedimento in questione ai sensi della speciale disciplina ex art. 10, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, senza necessità di motivare la sua istanza con riferimento ad uno specifico interesse all’accesso.
Ed a nulla può valere l’opposizione manifestata dal controinteressato, dal momento che nel caso di specie non si applica l’art. 3 del d.P.R. n. 184 del 2006, la cui applicazione anche all’ambito delle autonomie locali finirebbe per operare un’indebita compressione dei più ampi diritti riconosciuti dalla disciplina speciale in favore dei cittadini residenti
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 23.10.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Richiesta di parere in tema di accesso ai documenti relativi ad un procedimento disciplinare di un dipendente.
A fronte della richiesta avanzata da alcuni cittadini per ottenere copia degli atti (memorie difensive, relazioni dei dipendenti, etc.) del procedimento disciplinare, ormai archiviato, instaurato a carico di un dipendente comunale, l’ente civico ha chiesto di conoscere se detta istanza sia accoglibile dubitando della sussistenza di un interesse personale e concreto all’accesso ai sensi della legge n. 241/1990.
E’ noto che la diversità di posizione tra cittadino residente e quello non residente nel Comune dà luogo ad un doppio regime del diritto di accesso secondo quanto disposto dall’art. 10 del d.lgs. n. 267/2000 che ha presupposti diversi dal diritto di accesso previsto dalla normativa generale di cui all’art 22 della l. n. 241/1990 (arg. ex TAR Puglia Lecce Sez. II, 12.04.2005, n. 2067; TAR Marche, 12.10.2001, n. 1133).
In conformità al consolidato orientamento espresso da questa Commissione (e da cui non v’è motivo di discostarsi), qualora l’istante sia un cittadino residente nel comune il diritto di accesso non è soggetto alla disciplina dettata dalla legge n. 241/90 - che in effetti richiede la titolarità di un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento richiesto - bensì alla speciale disciplina di cui all’art. 10, co. 1, del d.lgs. n. 267/2000, che sancisce espressamente ed in linea generale il principio della pubblicità di tutti gli atti ed il diritto dei cittadini di accedere alle informazioni in possesso delle autonomie locali, senza fare menzione alcuna della necessità di dichiarare la sussistenza di tale situazione al fine di poter valutare la legittimazione all’accesso del richiedente.
Pertanto, considerato che il diritto di accesso ex art. 10 TUEL si configura alla stregua di un’azione popolare, il cittadino residente può accedere alle informazioni dell'ente locale di appartenenza senza alcun condizionamento e senza necessità della previa indicazione delle ragioni della richiesta, dovendosi cautelare la sola segretezza degli atti la cui esibizione è vietata dalla legge o da esigenze di tutela della riservatezza dei terzi, che nella specie non risultano né dedotti né sussistenti
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 23.10.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso al nominativo di un esposto.
Il Comune istante ha chiesto di conoscere se due cittadini, destinatari di una denuncia per presunti abusi edilizi e maltrattamenti su animali d’affezione, possano accedere al nominativo del denunciante e al contenuto dell’esposto, che aveva innescato un procedimento istruttorio per la verifica di quanto lamentato.
L’amministrazione ritiene di poter rilasciare copia dello stesso esposto ma epurata dei nomi degli esponenti a tutela della loro riservatezza, segnalando un contrasto nella giurisprudenza del Consiglio di Stato in tema di accesso ad esposti di privati e domandando quale sia il comportamento da tenere in simili occasioni per contemperare le esigenze dell’accesso con quelle della riservatezza.
La Commissione ribadisce il proprio costante orientamento (vedi pareri plenum 26.10.2010 e 14.12.2010) secondo cui la riservatezza non può essere invocata quando venga richiesto di conoscere il nominativo di coloro che hanno reso segnalazioni, denunce o rapporti informativi nell'ambito di un procedimento ispettivo, foss’anche per coprire o difendere il denunciante da eventuali reazioni da parte del denunciato, le quali, comunque, non sfuggirebbero al controllo dell'autorità giudiziaria (Cons. Stato, decisione n. 3601/2007; n. 3081/2009), poiché il nostro ordinamento non tollera le denunce segrete (in questi termini, anche Cons. Stato, sez. V, 22.06.1998, n. 923).
Tale impostazione non è smentita dalla decisione del Consiglio di Stato (n. 895/2011) richiamata dall’amministrazione, poiché il contrasto delineato dal Comune è soltanto apparente. Infatti, nella fattispecie, seppure i Giudici hanno ritenuto corretta la decisione dell’amministrazione di criptare i nominativi dei soggetti denuncianti per salvaguardarne la riservatezza e sottrarli ad ipotetiche azioni ritorsive, tuttavia hanno anche affermato che tali esigenze possono divenire recessive se sussista la necessità della difesa in giudizio del richiedente l'accesso.
Si tenga anche conto peraltro, come emerge da una più attenta lettura della sentenza, che nella specie le generalità dei denuncianti erano comunque note al richiedente l’accesso poiché evincibili dai documenti resi ostensibili
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 23.10.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

PUBBLICO IMPIEGOOGGETTO: Richiesta di parere in materia di accesso ad atti del procedimento disciplinare nei confronti di un dipendente.
I Monopoli di Stato hanno chiesto a questa Commissione di esprimere parere sulla possibilità da parte di una lavoratrice di ottenere l’accesso agli atti del procedimento disciplinare, non ancora concluso, instaurato a carico di altro dipendente, accusato di presunte molestie sessuali. L’amministrazione istante ha segnalato una serie di ostacoli alla ostensione degli atti che, invece, a parere della Commissione, sono privi di pregio giuridico.
In particolare, viene segnalato che costituirebbe un ostacolo all’accesso:
1) la natura privatistica del procedimento disciplinare instaurato nei confronti di dipendenti della p.a con rapporto di lavoro privatizzato;
2) l’inapplicabilità del principio, enucleabile dalla decisione dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 7/2006, che garantisce all’autore di un esposto il diritto di accesso agli atti di un procedimento disciplinare innescato nei confronti di un professionista, attese le diversità tra rapporto di lavoro privatizzato e lavoro autonomo;
3) l’inconfigurabilità tecnico-giuridica di un controinteressato nel procedimento disciplinare che non può in linea generale pregiudicare terzi diversi dal dipendente interessato;
4) la mancanza di interesse all’impugnativa del provvedimento di archiviazione del procedimento disciplinare da parte del terzo che richieda di accedere agli atti, traducendosi tale richiesta in una forma di controllo generalizzato sulla pa;
5) il potenziale pregiudizio alle esigenze di riservatezza dei terzi che hanno reso dichiarazioni nel corso dell’istruttoria (testimoni).
Tanto premesso, la Commissione osserva che:
-) quanto alle prime due questioni, esaminabili congiuntamente, è assolutamente irrilevante la natura pubblicistica o privatistica della disciplina del procedimento cui ineriscono gli atti oggetto dell’accesso. Infatti, per documento amministrativo ex art. 22, co. 1, lettere d) ed e), della legge 07.08.1990, n. 241 si intende ogni rappresentazione del contenuto di atti concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale e detenuti da soggetto di diritto pubblico o di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario e, dunque, anche dall'amministrazione autonoma dei monopoli di stato;
-) le altre due questioni, per come formulate, ineriscono alla veste di “controinteressato” in senso tecnico processuale in capo all’autore di un esposto. Come tali, attengono al giudizio amministrativo contro l'eventuale annullamento di un determinato provvedimento e sono, pertanto, estranee alla valutazione della p.a. che deve limitarsi a sindacare la sussistenza di un interesse personale, diretto e concreto all’accesso da parte dell’autore dell’esposto, interesse che, nella specie, pare indubbio in relazione alle presunte molestie sessuali oggetto della segnalazione che ha innescato il procedimento disciplinare nei confronti del dipendente;
-) circa l’ultima questione, l’amministrazione non può opporre alcun interesse antagonista di terzi al rilascio della copia dei documenti, come quello alla riservatezza, quand’anche fosse destinato a coprire o difendere eventuali testimoni da eventuali reazioni, giacché il diritto alla privacy non può essere opposto all’autore della segnalazione che agisca per difendere o curare i propri interessi giuridici.
Pertanto, parendo illegittimo un eventuale diniego di accesso alla documentazione richiesta, la Commissione invita l’amministrazione istante a rivalutare la richiesta di accesso alla luce delle suesposte considerazioni
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 23.10.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Richiesta di parere relativo al diritto di accesso a documenti da parte di un consigliere comunale.
L’ente civico istante chiede un parere relativo alla problematica dell’accesso di un consigliere comunale agli elenchi dei nominativi dei cittadini nei confronti dei quali il Comune ha effettuato segnalazioni e inoltrato notizie utili nell’ambito della collaborazione con l’agenzia delle entrate per la lotta all’evasione fiscale. L’amministrazione dubita della legittimità dell’accesso, ritenendo che i documenti richiesti siano esclusi dall’accesso rientrando nella categoria dei procedimenti tributari ai sensi dell’art. 24, co. 1, lett. b), della legge n. 241/1990.
La Commissione osserva che la disposizione contenuta nell'art. 43, comma 2, TUEL riconosce al consigliere comunale il diritto di ottenere dagli uffici comunali "tutte le notizie e le informazioni utili all'espletamento del proprio mandato e gli impone l'obbligo del segreto "nei casi specificamente determinati dalla legge". Indipendentemente dall'inclusione della divulgazione dei contribuenti assoggettati a segnalazioni o notizie fra i casi soggetti all’esclusione citata, gli Uffici comunali non possono limitare in alcun caso il diritto di accesso del consigliere comunale, ancorché possa sussistere il pericolo della divulgazione di dati di cui il medesimo entri in possesso.
La responsabilità di aver messo in condizione il consigliere comunale di conoscere dati sensibili cede di fronte al diritto di accesso incondizionato del medesimo, potendo essere semmai essere invocata dal terzo eventualmente danneggiato solo nei confronti di chi (consigliere comunale) del suo diritto abbia fatto un uso contra legem
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'11.09.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso alla registrazione informatica di una telefonata al numero di soccorso “115”.
L’amministrazione istante chiede di conoscere se sia accoglibile la domanda di accesso alla copia della registrazione informatica della telefonata con richiesta d’intervento al numero di soccorso “115” effettuata da un privato, destinatario di un intervento tecnico conseguente ad un incendio alla propria autovettura, motivata da presunte contestazioni rivolte dalla compagnia assicuratrice del veicolo da indennizzare (che paventa una tardiva effettuazione del soccorso).
Vengono avanzati dubbi sulla conoscibilità di tale documento, attesa la particolare natura dell’atto (dovendo la telefonata essere riversata su supporto informatico) nonché la necessità di tutela della riservatezza del controinteressato (ovvero l’operatore telefonico), la possibile esclusione dell’accesso perché documento afferente a strutture, mezzi, dotazioni, personale ed azioni strumentali alla tutela dell'ordine pubblico ex art. 24, co. 6, lett. c), della legge n. 241/1990 nonché la finalità di controllo generalizzato sui tempi e modi di prestazione del soccorso.
A parere della Commissione sarebbe illegittimo escludere l’accesso alla registrazione della telefonata di soccorso, soprattutto quando siano insorte contestazioni tra il privato e la propria compagnia assicuratrice sul diritto all’indennizzo collegato all’incidente oggetto dell’intervento dei VV FF e sempre che la registrazione della telefonata non sia stata oggetto di un espresso provvedimento di sequestro giudiziario, idoneo ad impedire l'ostensibilità del documento.
Infatti, la registrazione della telefonata può essere equiparata, ex art. 22, legge n. 241/1990, ad un esposto riprodotto su supporto magnetico e, per tale ragione, può farsi rientrare nella categoria degli atti amministrativi aventi la forma di rappresentazioni elettromagnetiche. Inoltre, ogni ragione di eventuale riservatezza cede di fronte alla necessità di cura e difesa degli interessi del richiedente l’intervento di soccorso, come è indubbiamente nel caso di specie.
Infine, non paiono invocabili i casi di esclusione dell’accesso ex art. 24, co. 6, lett. c), della legge n 241/1990 categoria eccezionale che concerne non tutti i documenti genericamente riconducibili all'ordine pubblico e alla prevenzione e alla repressione della criminalità ma solo gli atti in concreto pregiudizievoli degli interessi sopra indicati e soltanto nei limiti e nell’ambito di tale connessione. Nella specie, poiché la registrazione della telefonata di soccorso consiste sostanzialmente in una sorta di segnalazione/denuncia effettuata telefonicamente alla pubblica autorità, non pare che investa in concreto gli interessi indicati nell'art. 24, co. 6, della legge 07.08.1990, n. 241.
Né del resto, atteso l’effettivo interesse alla conoscenza dedotto dal richiedente l’accesso, può ritenersi che la conoscenza della specifica registrazione della telefonata sia diretta a configurare un controllo generalizzato sulla pa
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'11.09.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso ai documenti amministrativi da parte di consigliere comunale.
Il consigliere comunale istante ha rappresentato che il Sindaco aveva rigettato la richiesta di accesso urgente al protocollo generale dell’anno 2011 e 2012 poiché contenente informazioni riservate e segrete e comunque ritenendola eccessivamente generica ed onerosa in termini di risorse necessarie per evaderla. Pertanto, ha chiesto a questa Commissione di esprimere un parere al riguardo, segnalando di essersi reso disponibile, in caso di eccessiva gravosità della richiesta, a visionare preventivamente il protocollo per le sue esigenze.
Questa Commissione ritiene che il diniego opposto dal Comune appare del tutto illegittimo.
Come è noto Il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina specifica nell’art. 43 del d.lgs. n. 267/2000 (T.U. degli Enti locali) che riconosce ai consiglieri comunali e provinciali il “diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato”.
Dal contenuto della citata norma si evince il riconoscimento in capo al consigliere comunale di un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10, T.U. Enti locali) sia, più in generale, nei confronti della P.A. quale disciplinato dalla l. n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata (a maggior ragione, per ovvie considerazioni, qualora il consigliere comunale appartenga alla minoranza, istituzionalmente deputata allo svolgimento di compiti di controllo e verifica dell’operato della maggioranza).
A tal fine il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi. Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato.
Pertanto, al consigliere comunale e provinciale non può essere opposto alcun diniego -salvi i casi in cui l’accesso sia piegato ad esigenze meramente personali, al perseguimento di finalità emulative o che comunque aggravino eccessivamente, al di là dei limiti di proporzionalità e ragionevolezza, la corretta funzionalità amministrativa- determinandosi altrimenti un illegittimo ostacolo al concreto esercizio della sua funzione, che è quella di verificare che il Sindaco e la Giunta municipale esercitino correttamente la loro funzione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.09.2005, n. 4471).
Anche per quanto riguarda le modalità di accesso alle informazioni e alla documentazione richieste dal consigliere comunale, costituisce principio giurisprudenziale consolidato (cfr., fra le molte, Cons. Stato, sez. V, 22.05.2007 n. 929) quello secondo cui il diritto di accesso agli atti di un consigliere comunale non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell’Ente, tali da ostacolare l’esercizio del suo mandato istituzionale, con l’unico limite di poter esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione alle altre attività di tipo corrente e ciò in ragione del fatto che il consigliere comunale non può abusare del diritto all’informazione riconosciutogli dall’ordinamento pregiudicando la corretta funzionalità amministrativa dell’ente civico con richieste non contenute entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza.
Tale essendo il consolidato orientamento del giudice amministrativo e di questa Commissione, le motivazioni del diniego opposto alla istanza del consigliere comunale non sono (in generale e tanto più nella fattispecie) condivisibili né in termini di segretezza (in quanto il protocollo non contiene il testo del documento che possa contenere dati sensibili di cui, peraltro, il consigliere che ne venga a conoscenza rimane responsabile ai sensi dell’art. 43, comma 2, TUEL) né in punto di indeterminatezza ed onerosità della istanza (in quanto la richiesta specifica di atti potrà avvenire eventualmente dopo che il protocollo sarà stato visionato dall’interessato, come peraltro sollecitato dallo stesso).
Si rappresenta, infine, che lo “stigmatizzato” comportamento del Comune potrà essere valutato da questa Commissione ai fini della segnalazione alla Camera e al Presidente del Consiglio dei Ministri, in sede di redazione della relazione annuale sulla trasparenza dell'attività della pubblica amministrazione ex art. 27 della legge n. 241/1990
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'11.09.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso dei consiglieri comunali.
Il Sindaco del Comune istante rappresenta che i consiglieri di un gruppo di minoranza avrebbero “tempestato” gli uffici comunali di irragionevoli, sproporzionate e generiche richieste di estrazione di copie di atti, in tal modo impedendo ai dipendenti comunali, già in organico ridotto, di provvedere alla gestione delle ordinarie attività (tra cui la pubblicazione delle delibere di giunta). Tale situazione avrebbe ingenerato una condizione di “malessere” nei dipendenti, portando addirittura il revisore dei conti a rassegnare le dimissioni.
La Commissione non ritiene opportuno di esprimere alcun apprezzamento sulla fondatezza delle lamentele esposte perché sulla fattispecie rappresentata risultano proposti due ricorsi al giudice amministrativo (in specie, il Tar Campania) che non pare si sia ancora pronunciato. In ogni caso, dalla documentazione allegata all’istanza non risultano concreti e specifici elementi idonei a valutare l’abnormità delle richieste dei consiglieri comunali e le conseguenze ingenerate nel personale del comune.
Quanto ai dedotti impedimenti sull’attività di pubblicazione delle delibere di giunta, si rammenta, qualora Codesto Comune non avesse già provveduto, che il legislatore (art. 32 della Legge n. 69/2009) ha espressamente previsto lo specifico obbligo dei Comuni di provvedere alla pubblicazione on-line di tutti gli atti amministrativi che necessitano di pubblicità legale, ivi comprese le delibere di Giunta, con conseguenti riduzioni di risorse umane e economiche
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'11.09.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: richiesta di accesso agli atti di una procedura di selezione per contratto a progetto.
L’istante, avendo partecipato per due anni (2010 e 2011) di seguito ad una selezione indetta dall’Ordine degli Avvocati di Nola per l'attribuzione di un contratto annuale a progetto presso la locale camera arbitrale e di conciliazione, rivolgeva una domanda all’Ordine stesso per ottenere l'accesso agli atti della procedura selettiva (in particolare, ai verbali integrali delle sedute consiliari ed ai nomi dei consiglieri) anche al fine di tutelare i propri interessi.
L'ente aveva consentito un parziale accesso, comunicando, tra l’altro, lo stralcio di un verbale (con relativi omissis), non fornendo gli atti della procedura del 2010 e nemmeno i nomi dei consiglieri presenti alle sedute di interesse in quanto difetterebbe un interesse personale, diretto e attuale e l’istante non avrebbe indicato i motivi dell’accesso. Pertanto, l’istante, dolendosi della illegittimità della mancata ostensione dei documenti richiesti, ha chiesto di esprimere un parere sulla questione.
Ad avviso della Commissione, poiché l’istante ha partecipato alle selezioni in oggetto per due anni ha interesse ad accedere a tutta la documentazione richiesta, potendo il diritto di accesso essere affermato sulla base della natura di atti endoprocedimentali dei documenti richiesti, ai sensi del combinato disposto degli articoli 7 e 10 della legge n. 241/1990 al fine di valutare la legittimità dell'operato dell’Ordine professionale e quindi di curare e difendere i propri interessi
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 24.07.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Richiesta di parere concernente il diritto di accesso a studi interni propedeutici alla formazione dei piani di bacino.
L’amministrazione provinciale di Genova dubita che siano accessibili gli atti relativi agli studi interni propedeutici alla pianificazione di Bacino (in particolare, elaborati cartografici e indagini territoriali) poiché l’art. 24, co. 1, lett. c), della legge n. 241 del 1990 non consente, tra l’altro, l’accesso agli atti di pianificazione e di programmazione. Inoltre, se altro ente (in particolare, il Comune in possesso di siffatti studi ai fini dell’elaborazione della propria pianificazione territoriale) consegnasse ai privati tale documentazione, sarebbe di fatto eluso il dovere di riserbo previsto dal citato art. 24 a fronte di richieste di accesso dei privati.
Tanto premesso, l’amministrazione istante chiede a questa Commissione di sapere:
- se gli “studi interni” siano documenti accessibili ai sensi della legge n. 241/1990;
- come si risolva il conflitto tra il dovere di riserbo della Provincia ed il diritto di informazione del privato, cui il Comune, in possesso di copia informale dei documenti, abbia consentito l’accesso, per approfondire lo stato di alcune aree di frana.
La Commissione osserva che, nel caso di specie, è richiamata impropriamente la normativa generale dei casi di esclusione dell’accesso ex art. 24 legge n. 241/1990, dovendosi invece considerare operante la disciplina decisamente più favorevole dettata dal d.lgs. n. 152/2006, che detta norme in materia ambientale.
Infatti, è indubbio che in base alla citata normativa, i piani di bacino costituiscano lo strumento fondamentale di pianificazione in materia di difesa del suolo e delle acque e che, come tali, rientrino nella materia tutela dell'ambiente.
Pertanto, va garantito l’accesso alla cd. “informazione ambientale“ alla stregua dell’art. 3-sexies del d.lgs. cit. che, risolvendo anche l’eventuale contrasto tra diritto di accesso e riservatezza (cfr art. 9 d.lgs. n. 152/2006), afferma un principio di accessibilità generale ed indifferenziata in base al quale le autorità pubbliche sono tenute a rendere disponibili le informazioni relative allo stato dell’ambiente e del paesaggio a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dimostrare il proprio interesse.
Sulla base dei principi esposti, qualora l’informazione richiesta attenga allo stato dell’ambiente (aria, suolo, territorio, siti naturali ecc.), nonché ai fattori (sostanze, energia, rumore, radiazioni, emissioni ecc.) che possono incidere sull'ambiente, l’amministrazione interpellata dovrà ammettere l'accesso anche agli studi interni alla pianificazione di bacino (pur se formati o detenuti da altra amministrazione)
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 24.07.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Richiesta di parere circa il diritto d'accesso del consigliere comunale alla documentazione attinente a procedimenti disciplinari dei dipendenti comunali.
A fronte della istanza presentata da un consigliere comunale per ottenere copia del provvedimento di sospensione cautelare dal servizio riguardante un dipendente comunale, investito da un procedimento disciplinare (ancora in corso) avviato in esito ad un procedimento penale promosso nei suoi confronti, il Comune ha dubitato della legittimazione all’accesso del consigliere, trattandosi di documenti coperti da segreto istruttorio ex art. 329 cpp e comunque riservati.
Tanto premesso, ha chiesto a questa Commissione se il consigliere comunale abbia diritto di accesso al citato provvedimento e, in caso positivo, se debba essere inviata comunicazione preventiva al controinteressato, se debbano essere oscurati i riferimenti alle fattispecie del codice penale e se possano essere rilasciati gli atti presupposti, e richiamati, nel provvedimento, tra cui anche i verbali del procedimento disciplinare e gli atti del procedimento penale in corso.
La Commissione ritiene che eventuali “restrizioni” al diritto di accesso del consigliere comunale, anche se interessato a conoscere atti cd riservati o segreti, non siano conformi alla disciplina ex art. 43 del TUEL che riconosce ampia legittimazione al consigliere comunale, tenuto peraltro al rispetto del segreto d’ufficio (arg ex Cons. St., sez. V, 08.09.2011, n. 5053).
Ne consegue che il consigliere comunale ha diritto ad accedere alla documentazione in esame, senza che possano essere opposti oscuramenti o altri ostacoli di sorta, come la notifica ai contro interessati che risulta incompatibile con l’ampia prerogativa consiliare
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 03.07.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Richiesta di parere in merito al diritto di accesso del consigliere comunale agli atti dell’organo straordinario di liquidazione.
L’Organo in indirizzo sostiene che i consiglieri comunali non abbiano facoltà di avvalersi della prerogativa di cui all’art. 43 TUEL per l’accesso agli atti dello stesso Organo in quanto -esercitando attività “straordinaria”- non rientra nell’ambito dell’ordinaria attività istituzionale, cui invece è funzionale il diritto di accesso riconosciuto al consigliere. Chiede pertanto a questa Commissione un parere al riguardo e, nel contempo, se debba essere pubblicato il contenuto dei provvedimenti di liquidazione delle competenze al personale, interno ed esterno all’ente locale, anche con riguardo all’entità dei compensi corrisposti.
Circa il primo quesito, l’orientamento di questa Commissione (cfr. plenum 25.05.2010) è nel senso che l’ampia legittimazione all’accesso del consigliere comunale è correlata all’attività istituzionale dell’ente locale. Invece, l’attività gestita dall’organo di liquidazione, che nasce dalla dichiarazione di dissesto finanziario dell’ente locale, è un’attività straordinaria che non appartiene più agli organi di governo dell’ente locale. Per tale motivo, il consigliere comunale non può esercitare le prerogative ex art. 43 del TUEL né comunque può accedere agli atti ai sensi dell’art. 10 dello stesso TUEL che presuppone l’esercizio del diritto di accesso nei confronti di atti espressione dell’ordinaria attività amministrativa dell’ente locale. Semmai, l’accesso agli atti della Commissione Straordinaria di liquidazione potrà essere riconosciuto al ricorrere dei presupposti di cui agli artt. 22 e ss della legge n. 241/1990.
In merito al secondo quesito, la Commissione rammenta che, ai sensi dell’art. 11, co. 1, del d.lgs. n. 150/2009, la trasparenza amministrativa è intesa come “…accessibilità totale delle informazioni concernenti ogni aspetto dell'organizzazione e dell'utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali. In tale ottica, “ogni amministrazione provvede altresì alla contabilizzazione dei costi e all'evidenziazione dei costi effettivi e di quelli imputati al personale per ogni servizio erogato, nonché al monitoraggio del loro andamento nel tempo, pubblicando i relativi dati sui propri siti istituzionali” (art. 11, comma 4); ha, peraltro, l'obbligo di pubblicare sul proprio sito istituzionale le retribuzioni dei dirigenti, con specifica evidenza sulle componenti variabili della retribuzione e sulle componenti legate alla retribuzione di risultato nonché le retribuzioni di coloro che rivestono incarichi di indirizzo politico amministrativo (articolo 11, comma 8, lettere g) e h), del d.lgs. n. 150 del 2009).
In tal senso è il su esteso parere
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 03.07.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Richiesta di parere in merito al diritto di accesso da parte di un’impresa ai documenti contabili presentati da candidati-sindaco per spese di propaganda elettorale.
Un’impresa ha chiesto al Comune istante di avere copia della dichiarazione preventiva e del rendiconto delle spese, previste per la campagna elettorale dei candidati sindaco ai sensi dell’art. 30, co. 2, legge n. 81/1993, al fine di difendersi in un contenzioso in corso con un candidato-sindaco per il pagamento dei corrispettivi dei manifesti elettorali. L’ente civico ha negato l’accesso sostenendo che i citati documenti, oltre ad essere scaduto il termine di pubblicazione sull’albo pretorio (in concomitanza con il procedimento elettorale), non costituirebbero documenti formati dalla p.a. provenendo da privati e non conterrebbero alcun riferimento a rapporti contrattuali intavolati dai candidati sindaco con terze imprese.
La Commissione osserva che il diniego di accesso appare del tutto illegittimo.
Anzitutto -contrariamente a quanto affermato dall’amministrazione istante- anche il bilancio preventivo e il successivo rendiconto delle spese di pubblicità elettorale presentati dal candidato sindaco (ai sensi dell’art. 30, co. 2, legge n. 81/1993) rientrano oggettivamente nella nozione di documento amministrativo. Infatti, per documento deve intendersi ogni rappresentazione grafica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale. In tale senso è la definizione contenuta nell’art. 22 della legge 241/1990, applicabile alla fattispecie in quanto si tratta pacificamente di accesso di impresa non avente sede nel Comune.
Inoltre, nel caso di specie non può negarsi l’interesse diretto, concreto ed attuale dell’istante a conoscere elementi inerenti il rapporto patrimoniale controverso con il candidato sindaco, come confermato anche dalla sussistenza di una vertenza giudiziale relativa al pagamento dei corrispettivi dei manifesti elettorali. Né comunque l’ente comunale ha il potere di sindacare l’utilità o il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di accesso e il manifestato diritto di cura e difesa dei propri interessi.
Infine, devono ritenersi soggetti all’accesso i documenti anche quando gli stessi siano stati già portati a conoscenza degli interessati mediante pubblicazione sull’albo pretorio (arg. ex TAR Marche, 20.11.1997, n. 1181)
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 03.07.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Richiesta di parere in tema di accesso dei consiglieri comunali.
L’istante chiede di sapere se un consigliere comunale possa accedere ad una concessione demaniale; se le copie rilasciate debbano essere identificate da attestazioni o sigle dell’ufficio; se il consigliere debba presentare istanza; se si possa accedere all’istanza presentata dal consigliere comunale per curare i propri interessi.
La Commissione osserva che ai sensi dell’art. 43 TUEL il consigliere comunale ha diritto di ottenere qualsiasi informazione ritenuta utile all'espletamento del mandato elettivo; che è rimessa alla libera valutazione del comune la scelta di voler identificare e contraddistinguere le copie dei documenti rilasciate ai consiglieri comunali; che il diritto di accesso può essere esercitato sia formalmente sia in via informale mediante richiesta, anche verbale all’amministrazione; che è in astratto possibile fare richiesta di accesso all’istanza del consigliere comunale per tutelare i propri interessi
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 14.06.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Richiesta di parere sull’accessibilità da parte di consiglieri comunali di atti interni.
Il Comune istante chiede a questa Commissione se un consigliere comunale possa accedere anche ad un “atto interno” -inviato da un dipendente del servizio finanziario al responsabile del servizio e al competente assessore e contenente osservazioni relative al patto di stabilità- tenendo conto della classifica a protocollo come “riservato o personale”.
La Commissione richiama l’orientamento consolidato della giurisprudenza amministrativa che riconosce pacificamente la conoscibilità di tali atti, ove non rimangano relegati nella sfera interna e privata dell'autorità che li elabora, ai sensi dell’art. 22, co. 1, lett. d), della legge n. 241/1990 che annovera tra i documenti accessibili anche gli atti interni (relativi o meno ad uno specifico procedimento).
Né rileva in senso contrario il fatto che l’atto richiesto contenga dati riservati poiché ai sensi dell'art. 43, comma 2, TUEL ai consiglieri comunali è imposto l'obbligo di non divulgare il contenuto delle informazioni e degli atti (segreti o riservati) ai quali ha avuto accesso, incorrendo in caso negativo in responsabilità personale, ma nessun documento o atto può essere loro sottratto in ragione della sua eventuale segretezza o riservatezza
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 14.06.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Richiesta di parere in tema di accesso ai documenti amministrativi mediante P.E.C.
L’Arma dei Carabinieri ha chiesto a questa Commissione di conoscere:
a. se sussista “l’obbligo” dell’amministrazione, nell’esercizio del diritto di accesso da parte dei cittadini, di trasmettere i documenti d’interesse avvalendosi della posta elettronica certificata (cd P.E.C.) ovvero se sia possibile avvalersi delle più usuali modalità cartacee;
b. quali siano i criteri di quantificazione dei diritti di ricerca e visura per la trasmissione di documenti informatici.
Circa il primo quesito, la Commissione ritiene che in base al quadro normativo vigente l’accesso telematico “deve” essere consentito, ove richiesto, nei rapporti con il cittadino e soprattutto per corrispondere alle richieste di accesso dei documenti amministrativi.
Infatti, in base all'art. 13, comma 1, d.P.R. n. 184/2006 (disposizione che rinvia all’art. 38 del d.P.R. n. 445/2000) “le pubbliche amministrazioni assicurano che il diritto d'accesso possa essere esercitato anche in via telematica”. Inoltre, il d.lgs. n. 82/2005 “codice dell’amministrazione digitale” sancisce in favore dei cittadini, oltre al diritto di chiedere ed ottenere l’accesso ai documenti con l'uso delle tecnologie telematiche (art. 3 e 4), il diritto all’utilizzo della PEC per ogni scambio di documenti ed informazioni (art. 6). Infine, l’art. 3-bis della L. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005) ha previsto che, per conseguire maggiore efficienza nelle loro attività, le p.a. incentivano l’uso della telematica.
Con riguardo al caso in esame, è evidente, anche alla luce del generale dovere della p.a. di inspirare la propria attività al principio di buon andamento ex art. 97 Cost., che la formazione e l’invio di copie digitali (anziché cartacee) degli atti amministrativi consente non solo di risparmiare denaro pubblico (pur a fronte dell'iniziale investimento per le acquisizioni sia dell'hardware che del software), ma anche minori tempi di lavorazione delle richieste di accesso, con più conveniente utilizzazione del personale preposto alle relative incombenze.
Sul secondo quesito, la Commissione ritiene di dover confermare l’orientamento già espresso (cfr parere plenum del 13.09.2011) per cui l’importo dei costi concernenti i diritti di ricerca e visura, anche relativamente ai documenti da rilasciare in via telematica (a mezzo pec), non può essere predeterminato a livello generale, ma deve costituire oggetto di responsabile valutazione da parte di ogni singola amministrazione nell’esercizio dei poteri organizzatori previsti dall’art. 8, lett. c, d.P.R. n. 184/2006, in modo da essere equo e non esoso, in quanto la richiesta di un importo elevato costituisce un limite all'esercizio del diritto di accesso
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 14.06.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Parere sulla legittimità dei costi di riproduzione dei documenti richiesti.
L’istante -che a seguito di parere espresso da questa Commissione ha ricevuto conferma dal Comune di Celenza sul Trigno del diritto di accesso alla documentazione richiesta- si lamenta del fatto che l’amministrazione comunale abbia richiesto il versamento della somma di euro 784,00, a titolo di costi di riproduzione sostenuti, in quanto a suo dire l’accesso dovrebbe essere gratuito, trattandosi di documenti da produrre in una causa di lavoro (per mobbing).
Questa Commissione ha già sostenuto in altra occasione (vedi plenum del 20.09.2010) che la regola della gratuità degli atti inerenti alle controversie di lavoro pubblico e privato (prevista dall’art. 10 della legge n. 533/1973) incontra il limite specifico nell’onere di rimborso del costo di riproduzione dei documenti richiesti ex art. 25 della legge n. 241/1990 sia perché la citata esenzione è riferibile alle spese ricollegabili alla fruizione del servizio giustizia, ma non anche a procedimenti di diversa natura e finalità, come nella specie, quello di accesso a documenti amministrativi sia perché non pare che la citata esenzione, attesa la sua natura eccezionale, sia suscettibile di interpretazione analogica ad atti non giudiziari.
Ne consegue la apparente legittimità della richiesta di rimborso da parte della p.a.
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 14.06.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Richiesta parere in ordine al diritto di accesso da parte degli “eredi” alla documentazione medica del de cuius.
L’istante, nell’interesse del proprio padre –di cui asserisce la qualità di coerede legittimo di una zia– chiede il parere su una richiesta di accesso, in esito alla quale la ASL 2 di Milano
avrebbe risposto (presumibilmente in via informale), differendone l’accoglimento dopo l’instaurazione di giudizio.
La richiesta attiene all’acquisizione di documentazione medica (cartelle cliniche, relazione), formata dall’Azienda sanitaria in occasione della concessione della pensione di invalidità alla de cuius, al fine di verificare lo stato di infermità mentale della parente in vista dell’impugnativa giudiziale del testamento olografo.
Tanto premesso, questa Commissione ritiene che, qualora l’avente causa fornisca la prova della sua qualità di erede legittimo, sussistano tutti gli elementi per l’accoglimento dell’istanza di accesso in suo favore, in quanto titolare di un interesse diretto, attuale e concreto ad ottenere la documentazione medica della de cuius al fine di curare e difendere i propri interessi nell’instaurando giudizio civile.
Del resto, il diritto di accesso non può essere intaccato o subordinato all’effettiva utilità “in giudizio” dei documenti richiesti, non potendo l’amministrazione ingerirsi nelle strategie difensive della parte né comunque anticipare una valutazione sulla rilevanza della documentazione richiesta nel giudizio di merito che spetta esclusivamente al giudice (Consiglio di Stato n. 741/2009)
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 29.05.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Modalità di tutela del cittadino in caso di inottemperanza da parte della PA a decisioni rese dalla Commissione per l’accesso.
L’istante, a seguito di favorevoli decisioni rese da questa Commissione, rappresenta che aveva richiesto al Console Generale d’Italia a Toronto di poter accedere ad alcuni atti di interesse. Precisa che, contrariamente a quanto sostenuto dal Consolato (nella nota prot. n. 5113 del 13.04.2012), l’amministrazione non avrebbe ottemperato alle predette pronunce, così perpetuando l’atteggiamento ostruzionistico all’accesso. Ha chiesto pertanto a questa Commissione di esprimere un parere in merito alla vicenda.
In caso di perdurante ritardo dell’amministrazione nel concedere l’accesso, pur dopo una decisione favorevole al cittadino in sede di ricorso, la Commissione -nell’esercizio della propria attività consultiva o giustiziale- non può obbligare l’amministrazione, difettando in capo alla prima poteri ordinatori nei confronti della p.a. (ex art. 25 legge n. 241/1990), fatta salva l’eventuale possibilità del cittadino di adire il competente Giudice amministrativo, dotato di poteri coercitivi per dare attuazione concreta al diritto di accesso
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 29.05.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Richiesta di parere in ordine alla competenza del Difensore Civico regionale.
L’istante ha chiesto a questa Commissione di esprimere parere in merito alla competenza del difensore civico regionale sulle determinazioni negative inerenti il diritto di accesso dei consiglieri comunali e provinciali, non essendo chiaro se debba applicarsi l’art. 25 della legge n. 241/1990 (che attribuisce una competenza ripartita tra Commissione per l’accesso e difensore civico) ovvero l’art. 43 TUEL (che -a dire dell’istante- implicherebbe la competenza del Tar o della Commissione per l’accesso).
La Commissione osserva che dal combinato disposto degli articoli 25, comma 4, legge n. 241/1990 e 12 d.P.R. n. 184/2006 si evince -sul piano procedurale- come la Commissione sia competente a decidere sui ricorsi avverso i dinieghi, espressi o taciti, o i differimenti di accesso, a condizione, però, che l’amministrazione decidente partecipi delle caratteristiche proprie di quelle centrali e periferiche dello Stato. Qualora, viceversa, si tratti di impugnare un provvedimento emanato da un’amministrazione locale, il ricorso, ai sensi del citato art. 25, dovrà essere indirizzato al Difensore Civico competente per ambito territoriale.
In tale chiarissimo contesto normativo, non hanno quindi alcun pregio giuridico i dubbi manifestati dall’istante, poiché la disposizione dell’art. 43 TUEL (che attribuisce la prerogativa dell’accesso ai consiglieri comunali) è norma di diritto sostanziale che non incide sull’ambito di applicazione delle citate disposizioni in tema di competenza a decidere sulle determinazioni negative dell’accesso
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 29.05.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Richiesta di parere sul diritto del consigliere comunale di accedere agli atti istituzionali mediante uso delle tecnologie informatiche.
Il responsabile dell’URP del Comune di Vittoria si preoccupa che la richiesta di accesso pervenuta da due consiglieri comunali (appartenenti tra l’altro al medesimo gruppo consiliare) relativa ad un ingente mole di documenti concernenti, in particolare, i progetti delle installazioni fotovoltaiche, possa “paralizzare” lo svolgimento dell’attività dell’Ufficio copie, comportando anche elevati costi. Chiede, pertanto, a questa Commissione il parere se l’ente possa “….opporsi temporaneamente alla riproduzione e alla consegna interrompendo i termini delle richieste, richiedendo nel contempo alle ditte che hanno presentato i progetti di rinviare il tutto in formato digitale e, consegnare ai consiglieri i files dei progetti evitando….spreco di tempo e denaro“.
La Commissione ha già avuto modo di affermare che:
1) l’esercizio dell’incondizionato diritto dei consiglieri comunali riconosciuto dall’art. 43 TUEL deve essere concordato con l’amministrazione comunale, allorché il contenuto complesso dei documenti richiesti renda gravoso il suo adempimento pregiudicando il regolare espletamento dell’ordinaria attività amministrativa dell’Ente o comporti anche spese di copia che potrebbero essere evitate (cfr. plenum del 22.02.2011);
2) il ricorso a supporti magnetici è uno strumento di accesso certamente consentito al consigliere comunale che consente non solo di risparmiare denaro pubblico (pur a fronte dell'iniziale investimento per le acquisizioni sia dell'hardware che del software), ma anche minori tempi di lavorazione delle richieste di accesso, con più conveniente utilizzazione del personale preposto alle relative incombenze (cfr plenum del 10.01.2011).
Alla luce di tali principi, la soluzione prospettata dal Comune pare corretta, fermo restando che l’accesso non potrà essere differito sine die o sino al momento in cui l’ente abbia ottenuto i files dei progetti da parte delle ditte presentatrici senza consentire, nelle more dell’adeguamento, che i consiglieri comunali possano visionare i progetti, acquisendo tutte le informazioni che, ai sensi dell’art. 43 del T.U. n. 267/2000 hanno diritto di conoscere
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 29.05.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOOGGETTO: Procedimento disciplinare –Accesso agli atti. Quantificazione dei costi di riproduzione.
Il Ministero della Giustizia –Dipartimento della Giustizia minorile – Direzione Generale del Personale e della Formazione– Risorse umane ha inoltrato a questa Commissione richiesta di parere, concernente il rimborso delle spese di riproduzione e di imposta bollo per il rilascio di copie di atti a dipendente,che eserciti il diritto di accesso, sancito dall’art. 55-bis n. 5 del d.lgs. n. 165/2001, nel corso del procedimento disciplinare cui è sottoposto.
In particolare, l’Amministrazione istante ha rappresentato che il preventivo pagamento degli oneri di riproduzione è stato chiesto secondo quanto previsto dalla circolare del Ministero della Giustizia emessa - vista la legge 07.08.1990 n. 241 e s.m.i.- in data 8 marzo 2006 (pubblicata sulla G.U. 12.04.2006 n. 86), che non prevede in tale fattispecie esenzioni nell’ipotesi di rilascio di copie documentali.
Va premesso che la legge n. 241/1990 –norma di rango primario rispetto alle disposizioni regolamentari- nel riconoscere a chiunque vi abbia interesse il diritto di accesso ai documenti amministrativi, ha indicato sinteticamente i concreti modi per l’esame e l’estrazione di copia della documentazione, stabilendo che il rilascio di copia dei documenti è subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le disposizioni in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e visura ove espressamente previsti.
In conformità a tale previsione legislativa, il d.p.r. 12.04.2006, n. 184, all’art. 7, c. 6, stabilisce che “...in ogni caso, la copia dei documenti è rilasciata subordinatamente al pagamento degli importi dovuti ai sensi dell’art. 25 della legge, secondo le modalità determinate dalle singole Amministrazioni. Su richiesta dell’interessato, le copie possono essere autenticate”.
Conseguentemente, a ciascuna Amministrazione è stato demandato, in attuazione degli artt. 5 e 6 del D.P.R. n. 352/92 di fissare l’importo dovuto per i relativi costi di riproduzione per ciascuna copia degli atti richiesti con criteri di uniformità e di praticità.
Peraltro, la lettera e la ratio delle disposizioni in materia di accesso ai documenti amministrativi contenute nelle leggi 241/1990 e 142/1990 escludono che sia dovuta l’imposta di bollo tanto sulla richiesta di accesso quanto sulla copia informe eventualmente rilasciata, ferma restando, invece, l’assoggettabilità a bollo, ove prevista “ex lege”, della copia autenticata, eventualmente richiesta.
Tanto premesso, per quanto riguarda l’assoggettabilità a bollo nel caso specifico, nell’ipotesi di rilascio a richiesta di copie conformi, trova applicazione la Tabella – Allegato B - di cui al D.P.R. n. 642/1972 (così come modificata dal D.P.R. n. 955/1982 e s.m.i.) che all’art. 3 individua tra gli atti, documenti e registri esenti in modo assoluto dall’imposta stessa gli atti, documenti e provvedimenti dei procedimenti in materia disciplinare, pure escludendo taluni atti di cui all’art.21, Tariffa – Allegato A – Parte I^ del predetto D.P.R. n. 642/1972, aggiornato al 28.12.2007 con la finanziaria 2008.
Pertanto, le suesposte disposizioni normative di rango primario prevalgono su eventuali, difformi disposizioni regolamentari
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'11.05.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOOGGETTO: Richiesta parere sull’accesso a documenti amministrativi utili alla difesa in un giudizio in corso.
L’istante, ex responsabile dell’U.T.C. del Comune di Celenza sul Trigno, ha domandato al predetto Comune di accedere ad una serie di documenti inerenti il rapporto di lavoro, ormai cessato per collocamento in quiescenza del dipendente, al fine di difendersi in alcuni procedimenti giudiziari (di cui uno civile, intentato contro l’amministrazione locale innanzi al Giudice del Lavoro per demansionamento ed altro penale, intentato nei suoi confronti dal Sindaco e conclusosi con un proscioglimento).
A fronte di tale richiesta, il Comune, oltre a precisare che una parte dei documenti di interesse era già in possesso dell’istante (come emergente dallo stesso indice atti e documenti prodotti nel giudizio in corso presso il giudice del lavoro), si è opposto al rilascio della restante parte difettando un collegamento funzionale tra i documenti richiesti ed il giudizio pendente.
Tanto premesso, il geometra istante ha chiesto a questa Commissione il parere circa l’obbligo del Comune di rilasciare la documentazione richiesta.
Quanto alla prima parte di documenti, si osserva che se effettivamente una parte dei documenti risulta già consegnata all’istante, come emerge da quanto riferito dall’amministrazione, pare legittimo il diniego del Comune, attesa la avvenuta soddisfazione dell’interesse all’accesso.
Quanto alla restante parte degli atti, il diniego opposto dall’amministrazione locale, a motivo della carenza di un nesso causale tra documenti richiesti e giudizio in corso, pare illegittimo.
Infatti -oltre a sussistere un evidente interesse personale e concreto del dipendente pubblico che, seppur in quiescenza, intende accedere ai documenti amministrativi inerenti il rapporto di lavoro cessato al fine di difendere i propri interessi giuridici nel corso dei procedimenti giudiziari pendenti- il diritto di accesso non può essere intaccato o subordinato all’effettiva utilità “in giudizio” dei documenti richiesti, non potendo l’amministrazione ingerirsi nelle strategie difensive della parte né comunque anticipare una valutazione sulla rilevanza della documentazione richiesta nel giudizio di merito che spetta esclusivamente al giudice (Consiglio di Stato n. 741/2009)
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'11.05.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

APPALTI SERVIZIOGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso agli atti di una gara d’appalto per l’affidamento di servizi sociali.
L’unione di comuni in indirizzo ha rappresentato che una cooperativa, classificatasi al terzo posto della graduatoria di gara ad evidenza pubblica indetta per l'affidamento di servizi sociali, aveva chiesto l’accesso agli atti relativi all’offerta tecnica presentata dalle imprese concorrenti, classificatesi al primo e secondo posto. L’amministrazione, pur avendo differito l’accesso sino alla approvazione dell’aggiudicazione, ha avanzato alcuni dubbi sulla accoglibilità dell’istanza sia per l’opposizione della seconda classificata, che intendeva tutelare la propria “formula commerciale”, sia per l’impossibilità di identificare, ai fini dell’eventuale oscuramento, le parti dell’offerta tecnica che costituiscono segreto tecnico e commerciale.
Tanto esposto, l’ente istante ha chiesto a questa Commissione, anche al fine di orientare la propria condotta nelle future procedure di gara, se e in quali limiti l’opposizione della controinteressata possa ritenersi giustificata e se possano ravvisarsi segreti tecnico commerciali anche in servizi “di natura intellettuale”.
Ricorda la Commissione che, nel caso in esame, si confrontano due opposte esigenze da contemperare. Da un lato, infatti, vi è la doverosa garanzia di tutela dei segreti tecnici e commerciali che esclude il diritto di accesso e ogni forma di divulgazione con riferimento "alle informazioni fornite dagli offerenti nell'ambito delle offerte o a giustificazione delle medesime, che costituiscano, secondo motivata e comprovata motivazione dell'offerente, segreti tecnici o commerciali" (art 13, co. 5, d.lgs. n. 163/06). Dall’altro, vi è la tutela della difesa in giudizio collegata alla massima trasparenza dell'attività amministrativa, come indicato dal successivo comma 6 dello stesso articolo.
Così se è noto che "anche a fronte di documentazione suscettibile di rivelare il know how industriale e commerciale, deve essere in ogni caso garantito l'accesso se e nella misura in cui la sua acquisizione sia utile per la difesa dei propri interessi" (Consiglio di Stato, sezione sesta, 01/02/2010 n. 524), va escluso tale accesso ove l'impresa non abbia dimostrato la concreta necessità di utilizzare tale documentazione in uno specifico giudizio (Tar Lazio, sezione prima, 25.01.2010 n. 25). E tuttavia deve essere ricordata ulteriore giurisprudenza secondo la quale "l'art 13 d.lgs. n. 163/2006 costituisce una ipotesi speciale di deroga, da applicare esclusivamente nei casi in cui l'accesso sia inibito in ragione della tutela dei segreti tecnici o commerciali motivatamente evidenziati dall'offerente in sede di offerta" (Tar Puglia, sezione prima, 27.05.2010, n. 2066).
Pertanto, spetta alla p.a. valutare caso per caso, da un lato, se la controinteressata abbia dichiarato la sussistenza di esigenze di tutela del segreto tecnico o commerciale e se l'offerta della ditta aggiudicataria contenga davvero segreti tecnici e/o commerciali; dall’altro se sussista l'effettiva necessità di utilizzare il chiesto documento in uno specifico giudizio, potendosi concedere l'accesso soltanto se effettivamente finalizzato ad esigenza di tutela giurisdizionale.
Nella specie, appare congrua la opposizione all’accesso addotta dalla seconda classificata in quanto puntualmente esplicitata con la tutela dei segreti tecnici e commerciali contenuti nell’offerta nella quale la ditta specifica di avere consolidato per la prestazione dei servizi oggetto d’appalto una serie di conoscenze pratiche definite da anni di esperienza e capacità organizzative “in grado di determinare un elemento migliorativo nella qualità dei propri servizi”.
D’altra parte non essendo stato allegato dal richiedente alcuna necessità di utilizzo del documento in sede giurisdizionale, l’accesso pare possa essere negato
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 17.04.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Richiesta parere in merito all’accesso a documentazione amministrativa (pareri legali, esposti).
L’istante lamenta che il Comune di Savona avrebbe negato, in varie forme, l’accesso ad alcuni documenti, in particolare:
a) oscurando i nominativi degli autori di esposti rivolti dai vicini nei suoi confronti, quale proprietario di una strada oggetto di lavori di scavo;
b) rifiutando l’accesso alle memorie difensive prodotte dall’ente locale nell’ambito di un contenzioso in atto;
c) negando l’accesso ad una relazione redatta dalla Polizia locale, atto poi rinvenuto presso altra amministrazione;
d) negando la visione preventiva di un fascicolo procedimentale che lo riguardava;
e) omettendo la consegna di alcuni verbali nel corso di un procedimento di esproprio sino a violare i termini di conclusione del procedimento.
Tanto premesso, chiedeva a questa Commissione un parere sulla legittimità delle determinazioni assunte dall’ente locale.
Quanto al punto sub a), la commissione osserva che, secondo il costante orientamento seguito, deve essere reso accessibile il nome di coloro che hanno reso segnalazioni, denunce o rapporti informativi nell'ambito di un procedimento ispettivo, non potendo essere invocato in tali casi il diritto alla riservatezza che recede quando venga in rilievo l’accesso per le necessità di cura e difesa degli interessi giuridici del richiedente ai sensi dell’art. 24, co. 7, legge n. 241/1990, salvo i casi di dati sensibili o supersensibili (arg. ex CdS Sez. V, 27.5.2008 n. 2511; vedi anche TAR Lombardia-Brescia, Sez. I 29.10.2008 n. 1469).
Quanto al punto sub b), si segnala che nell'ambito dei segreti sottratti all'accesso ai documenti rientrano gli atti redatti dai legali e dai professionisti in relazione a specifici rapporti di consulenza con l'Amministrazione, trattandosi di un segreto che gode di una tutela qualificata, dimostrata dalla specifica previsione degli articoli 622 codice penale e 200 codice di procedura penale (arg. ex CdS Sez. VI, 30.09.2010, n. 7237).
Quanto al punto sub c), è assorbente il rilievo che il documento è stato rinvenuto e dunque l’interesse all’accesso risulta soddisfatto.
Quanto al punto sub d), pur non parendo sussistere riscontri certi del lamentato rifiuto dell’amministrazione di far visionare il fascicolo, si ribadisce che il soggetto partecipante al procedimento amministrativo -diversamente da quello estraneo ad esso- null'altro deve dimostrare per legittimare il diritto di visionare ed ottenere copia dei documenti di interesse se non la veste di parte dello stesso procedimento (cfr.: Consiglio di Stato, VI Sezione, 13.04.2006 n. 2068).
Infine, i punti sub e) e f) ineriscono a questioni del tutto estranee alla materia dell’accesso e dunque questa Commissione si ritiene incompetente a pronunciarsi su di essi
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 17.04.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Richiesta parere in merito all’accesso dei consiglieri comunali a perizia di stima di una farmacia.
L’ente civico chiede se, una volta consentita ad un consigliere la sola visione della perizia di stima della farmacia comunale nell’ambito della procedura di aggiudicazione avviata, sia lesivo o meno delle prerogative del consigliere negare l’estrazione di copia della perizia, tenuto conto che il Sindaco ha differito l’accesso alla perizia fino alla pubblicazione dell’avviso d’asta.
La Commissione rammenta che nel diritto di accesso del consigliere deve ricomprendersi sia la visione sia il rilascio di copia del documento (attesa anche l'abrogazione dell'art. 24, co. 2, lett. d), nella formulazione originaria della l. n. 241 del 1990, che fa ritenere superata ogni possibilità di distinguere tra le due indicate modalità di accesso). Peraltro, nessuna limitazione può derivare all'istituto dell'accesso del consigliere comunale dall'eventuale natura segreta o riservata delle informazioni richieste, essendo il consigliere stesso vincolato al segreto d'ufficio (arg. ex CdS Sez. V, 29.08.2011, n. 4829).
Alla luce di quanto sopra, la Commissione non ritiene ravvisabili giusti motivi per negare al consigliere l’estrazione di copia del documento, fermo restando il rispetto del segreto e le eventuali responsabilità esistenti in capo al consigliere
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 17.04.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Richiesta di parere in merito al diritto di accesso dei consiglieri comunali ai tabulati telefonici.
In seguito ad un’annosa vertenza, tuttora non risolta, in corso tra consiglieri comunali di opposizione e sindaco del Comune di Poggio Sannita relativamente all’accesso ai tabulati telefonici degli uffici comunali, questa Commissione si era già pronunciata per ben due volte (cfr pareri plenum del 14.12.2010 e del 06.04.2011), affermando -in particolare- che il Sindaco era tenuto a consentire ai consiglieri comunali l’accesso ai citati tabulati sempre che fossero in possesso dell’ente, circostanza di cui non v’era alcun riscontro certo negli atti.
Recentemente, con la nota del 29 febbraio u.s., il consigliere istante ha segnalato che il Sindaco -diversamente da quanto riferito in precedenza- aveva ammesso di essere in possesso dei tabulati telefonici richiesti ma di non poterli mostrare ai consiglieri sino al pronunciamento del garante della privacy e della locale Prefettura, interpellati sulla vicenda.
Tanto premesso, viene chiesto a questa Commissione di riconsiderare il parere formulato lo scorso 06.04.2011 alla luce dell’emersione di nuove circostanze di fatto.
In effetti, dalla nota sindacale del 05.10.2011 risulta che il Sindaco sia in possesso di non meglio precisati tabulati telefonici, trasmessi all’ente locale dal gestore del servizio telefonico pur in assenza di una esplicita richiesta del Sindaco.
Rebus sic stantibus, la Commissione -ribadendo l’ampio diritto dei consiglieri comunali di ottenere dagli Uffici comunali tutte le notizie e informazioni in loro possesso ex art. 43 Tuel- invita l’amministrazione a rendere accessibili i tabulati di cui effettivamente risulti a disposizione, ponendo fine a tale annosa controversia.
In difetto, la Commissione valuterà eventuali segnalazioni del comportamento dell’amministrazione locale in sede di redazione dell’annuale rapporto ex art. 27 legge n. 241/1990
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 17.04.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Accessibilità tesi di laurea.
Il sig. ... dell’Archivio generale dell’Università di Pisa chiede, in sostanza, se le tesi di laurea possano essere considerate documenti amministrativi e, in caso affermativo, se possano essere consultate prima dei termini del passaggio nella sezione separata dell’archivio storico.
Al riguardo la Commissione osserva che ai sensi delle disposizioni della legge n. 241 del 1990 le tesi di laurea, in quanto detenute da una pubblica amministrazione (università) devono essere considerate a tutti gli effetti documenti amministrativi.
Problema più complesso è quello relativo all’esercizio del diritto di accesso alle tesi di laurea perché queste, essendo opere originali dell’ingegno, sono tutelate dalla legge sul diritto di autore e sugli altri diritti connessi al suo esercizio (legge 22.04.1941, n.633).
La tesi di laurea, invero, al pari di qualunque altra espressione del lavoro intellettuale dell’autore, è meritevole di tutela dal momento in cui viene creata e riceve espressione in forma compiuta, e cioè dal momento in cui lo studente laureando la deposita presso la segreteria della facoltà di appartenenza che provvederà a catalogarla e custodirla presso la biblioteca dell’università.
Ne consegue che la tesi di laurea non può essere consultata né tanto meno utilizzata da eventuali soggetti interessati senza il consenso del laureando/laureato, titolare dei relativi diritti di autore morali e patrimoniali, che permangono in capo all’autore medesimo anche se una copia del testo viene ceduta alla Facoltà
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.03.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Richiesta di parere inerente l’accesso di un consigliere regionale ai dati di bilancio della Provincia.
Il dr. ..., Direttore Generale della Provincia di Avellino, espone che un Consigliere regionale ha chiesto di poter visionare, eventualmente estraendone copia, l’elenco dei residui attivi e passivi distinti per anno di provenienza di cui al comma 5 dell’art. 227 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, allegato al rendiconto della gestione dell’anno 2010 dell’Amministrazione provinciale di Avellino.
La motivazione della richiesta è stata rappresentata in ragione della qualità di Consigliere regionale del richiedente, portatore di interessi pubblici o diffusi in quanto rappresentante le comunità della Regione, ai sensi del comma 4, lett. p, dell’art. 26 dello Statuto della Regione Campania, secondo cui “il Consiglio vigila su tutti i servizi regionali prestati sul territorio.” Ad avviso del richiedente, pertanto, il suindicato elenco dei residui attivi e passivi dovrebbe essere oggetto di ostensione in ragione del fatto che lo stesso contiene informazioni fondamentali per verificare la correttezza dell’operato di una delle aziende di trasporto a capitale interamente regionale.
Tutto ciò premesso il Direttore della Provincia di Avellino formula una richiesta di parere molto articolata, citando anche la più recente giurisprudenza del giudice amministrativo e di questa Commissione, al fine di conoscere se l’istanza di accesso avanzata dal Consigliere regionale possa trovare o meno accoglimento.
Ad avviso della Commissione l’istanza di accesso agli atti fatta dal Consigliere regionale, per come è stata formulata e per le ragioni che la sorreggono, non è suscettibile di una positiva definizione.
Questa Commissione invero ha più volte avuto occasione di affermare (cfr, ad es., parere 14.10.2003) che la disciplina dettata dall’art. 43 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, che indubbiamente assicura ai Consiglieri comunali e provinciali un diritto di accesso ai documenti amministrativi dell’amministrazione di appartenenza dai confini più ampi di quello riconosciuto agli altri soggetti, nel senso che le istanze di accesso non devono neppure essere motivate, non è applicabile ai Consiglieri regionali tenuto conto che si tratta di una norma avente carattere speciale come tale in suscettibile di altra interpretazione che non sia quella strettamente letterale.
Non giova d’altra parte al richiedente far leva sulla sua qualità di Consigliere regionale, portatore quindi di interessi pubblici o diffusi quale rappresentante della comunità della Regione, tenuto conto che questa Commissione ha più volte avuto occasione di affermare che la sfera di legittimazione del soggetto interessato non può tradursi in iniziative di preventivo e generalizzato controllo dell’attività dell’Amministrazione, sulla base del chiaro disposto dell’art. 24, terzo comma, della legge n. 241/1990, nel testo novellato dall’art. 16 della legge n. 15/2005.
Ne deriva che la domanda di accesso, ancorché applicata nell’esercizio delle funzioni connesse alla qualità di Consigliere regionale, non può non soggiacere al filtro dell’esistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata che trovi collegamento nel documento amministrativo che si vuole conoscere.
Va ancora sottolineato che nella fattispecie i dati contabili richiesti, riferibili ad alcune aziende di trasporto a capitale interamente regionale, comprese le voci relative ai residui attivi e passivi, per espressa affermazione della Provincia di Avellino sono stati pubblicati con carattere permanente sul sito istituzionale della provincia medesima e ciò equivale a realizzazione del diritto di accesso (cfr. parere di questa Commissione 20.04.2004).
Non va infine sottovalutata la circostanza che la Regione Campania, ex lege, esercita una vigilanza ed un controllo diretti sulle aziende di trasporto a capitale interamente regionale e quindi ha sicuramente nella propria disponibilità tutti i dati contabili richiesti.
Alla luce delle considerazioni svolte ritiene la Commissione che la richiesta di accesso agli atti, nei termini in cui è stata formulata dal Consigliere regionale, non possa trovare accoglimento
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.03.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Accesso a concessione edilizia in presenza di opposizione dei controinteressati.
Il Comune di Canicattì espone di aver definito il procedimento relativo alla realizzazione di un impianto tecnologico a servizio della rete di connettività della banda internet tramite tecnologia Hiperleu del gestore High Tel S.p.A. e della rete di telefonia cellulare UMTS del gestore H3G S.p.A in contrada Bardaro, adottando il relativo provvedimento autorizzativo di cui fanno parte integrante gli elaborati tecnici progettuali.
Avendo alcuni cittadini chiesto di prendere visione ed estrarre copia di tutta la documentazione amministrativa del suddetto procedimento, il Comune, nei termini, ha provveduto a comunicare ai controinteressati la suddetta richiesta di accesso e tra questi la High tel S.p.A ha ritualmente manifestato la propria motivata opposizione.
Tutto ciò premesso il Comune chiede se la richiesta di accesso in questione possa ritenersi ammissibile e, in caso affermativo, entro quali limiti.
Deve essere immediatamente evidenziato che l’opposizione manifestata dalla High Tel S.p.A. alla richiesta di accesso avanzata da alcuni cittadini del Comune di Canicattì poggia su due ordini di considerazioni e cioè da una parte si sostiene che i richiedenti non avrebbero alcune legittimazione all’accesso, non avendo alcun interesse diretto, concreto ed attuale collegato alla autorizzazione rilasciata alla controinteressata; dall’altra si sottolinea che la documentazione richiesta contiene informazioni che costituiscono segreto aziendale-industriale che pertanto non possono essere oggetto di comunicazione e divulgazione, dovendo rimanere nella sfera di conoscenza della società e di pochi altri soggetti all’uopo dalla stessa espressamente autorizzati.
Al riguardo la Commissione osserva che i cittadini richiedenti, proprietari di terreni confinanti o comunque vicini al sito prescelto per la realizzazione della stazione radiobase, sono sicuramente legittimati ad accedere alla documentazione amministrativa riguardante il rilascio della concessione edilizia al fine di verificarne la legittimità sia sotto il profilo urbanistico che ambientale. In proposito si osserva che ai sensi dell’articolo 10 del TUEL il cittadino residente ha diritto di accedere a tutti gli atti dell’amministrazione comunale.
E’ evidente che, ove tali documenti contenessero dati e informazioni riservate assoggettate al segreto aziendale - industriale, ricade direttamente nella responsabilità personale dell’accedente, in campo sia civile che penale, un uso eventualmente distorto dei dati stessi
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.03.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Richiesta di parere in merito all’accesso tra pubbliche amministrazioni.
Il Servizio Tributi del comune istante ha rappresentato che l’INPS -a fronte della richiesta di fornire informazioni e documenti sulla posizione di un contribuente qualificatosi imprenditore agricolo- aveva negato l’accesso a parte della documentazione di interesse (in particolare, attestazione di regolarità nel versamento dei contributi, copia modello Inps CD1, quadro C), rendendosi disponibile a fornirla soltanto su richiesta dell’autorità giudiziaria.
L’ente civico, ritenendo immotivato il diniego, ha chiesto a questa Commissione un parere sulla sua legittimità, segnalando che la documentazione richiesta è necessaria per produrla ritualmente ed articolare note difensive nell’ambito del contenzioso innescato dal contribuente innanzi alla Commissione Tributaria, peraltro priva del potere di ordinare l’acquisizione di documenti (art. 7, co. 3, d.lgs. n. 546/1992).
Tanto premesso, la Commissione osserva che ai sensi dell’art. 22, comma 5, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15 del 2005) e dell’art. 5, co. 4, del d.P.R. n. 184/2006, “l’acquisizione di documenti amministrativi da parte di soggetti pubblici“ - diversamente dal diritto di accesso che viene riservato ai soggetti privati - si informa al principio di leale cooperazione istituzionale”, principio successivamente costituzionalizzato, con la denominazione di “leale collaborazione”, dall’attuale art. 120 Cost., con la conseguenza che pare inapplicabile la disciplina contenuta nel Capo V della legge n. 241/1990.
Tale principio, ad avviso della Commissione, va interpretato ed applicato in modo da favorire e semplificare i rapporti tra le pubbliche amministrazioni, e cioè nel senso di garantire possibilità di accesso tra p.a. superiori, ma non certo inferiori, a quelle di un richiedente privato, poiché per esse l’interesse all’accesso dovrebbe -almeno in linea di massima- ritenersi in re ipsa.
In base a tale principio, e la considerazione appare assorbente, è da ritenere che il servizio tributi comunale abbia senz’altro diritto di ottenere dall’Inps la documentazione di interesse, soprattutto quando, come nella specie, i documenti o le informazioni richieste attengano alla funzione di accertamento dei tributi locali di cui è titolare il Comune, potendo l’eventuale diniego dell’Inps incidere negativamente sulle potestà comunali.
Del resto, a prescindere dal paventato difetto di poteri acquisitivi della Commissione tributaria, non si ravvedono particolari motivi per negare la conoscenza da parte del Comune degli atti richiesti
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.03.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso a informazioni da parte di un comitato civico.
Il Comune istante ha chiesto un parere sulla legittimità della richiesta di accesso, rivolta da un locale Comitato civico, per conoscere il nominativo delle persone in possesso delle chiavi di accesso ai locali della sede municipale e quello dei soggetti abilitati alla consultazione delle banche dati ed archivi elettronici del comune, oltre che gli eventuali atti formali ovvero alle disposizioni normative attributive di tali facoltà.
La Commissione osserva che, ai sensi dell’art. 10, comma 2, d.lgs. n. 267/2000, è riconosciuto ai cittadini comunali, singoli o associati, il diritto di accedere, in generale, alle informazioni di cui è in possesso l'amministrazione, senza essere subordinato ad uno specifico interesse sostanziale giuridicamente tutelato. Infatti, tale diritto è equiparabile all'attivazione di un’azione popolare finalizzata ad una più efficace e diretta partecipazione del cittadino all'attività amministrativa dell'ente locale e alla realizzazione di un più immanente controllo sulla legalità dell'azione amministrativa.
Ne consegue che non pare possibile negare l’accesso alle dette informazioni, sempre che la comunicazione delle informazioni indicate non richieda complesse indagini ed elaborazioni
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.03.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Accesso agli atti dei consiglieri comunali.
Il Sig. ..., consigliere di minoranza del Comune di Castelcovati (BS), espone che semplici richieste di accesso agli atti vengono evase dopo 27/28 giorni e quindi al limite dello spazio di tempo concesso che, ai sensi del regolamento comunale è di 30 giorni. Fa inoltre presente che gli viene negato di visionare personalmente delibere o determine ma gli viene invece imposto di seguire l’iter previsto per l’accesso agli atti.
Ritiene questa Commissione che il comportamento ostruzionistico assunto dal Comune di Castelcovati nei confronti del sig. ... non possa essere condiviso.
La Commissione invero, nella scia di una ormai consolidata giurisprudenza del Giudice amministrativo, ha avuto più volte occasione di affermare che il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali sono specificamente disciplinati dall’art. 43 del d.lgs. 267/2000 (T.U. Enti locali) che riconosce loro (e ai consiglieri provinciali) il diritto di ottenere dagli uffici tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del loro mandato.
Si tratta, all’evidenza, di un diritto dai confini più ampi del diritto di accesso riconosciuto al cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10 T.U. Enti locali) o, più in generale, nei confronti della P.A., disciplinato dalla legge n. 21 del 1990.
Tale maggiore ampiezza trova la propria giustificazione nel particolare “munus” espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata, soprattutto se, come nel caso di specie, il consigliere comunale appartenga alla minoranza, istituzionalmente deputata allo svolgimento di compiti di controllo e verifica dell’operato della maggioranza.
Per queste ragioni il consigliere comunale non deve neppure motivare la propria richiesta di informazioni, perché altrimenti la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi, con la conseguenza che gli uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazione e le modalità di esercizio della funzione esercitata dal consigliere comunale.
Va infine sottolineato che, per antico principio giurisprudenziale, il diritto di accesso agli atti di un consigliere comunale non può subire compressioni per pretese esigenze di ordine burocratico dell’Ente, tali da ostacolare l’esercizio del suo mandato istituzionale; l’unico limite è rappresentato dal fatto che il consigliere comunale non può abusare del diritto all’informazione riconosciutagli dall’ordinamento, interferendo pesantemente sulla funzionalità e sull’efficienza dell’azione amministrativa dell’Ente civico, con richieste che travalicano i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 12.03.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Accesso di Organizzazione Sindacale ad atti relativi all’incarico conferito ad un avvocato convenzionato con il servizio legale dell’Ente.
La dott.ssa ..., responsabile dell’Area affari generali e legali del Comune di Arzano (NA) espone che una sigla sindacale (CGIL), tramite il proprio rappresentante territoriale, ha richiesto copia degli atti relativi all’incarico conferito ad un avvocato convenzionato con il servizio legale dell’Ente nonché copia dell’atto per la selezione del dirigente dell’Area risorse umane senza specificare i motivi della richiesta comunque inoltrata all’URP.
A tal riguardo il suddetto sindacato ha asserito che la richiesta non dovrebbe configurarsi come un’ipotesi di accesso agli atti e quindi non dovrebbe transitare per l’URP ma dovrebbe essere inoltrata all’Ufficio relazioni sindacali presso il settore del Personale, che dovrebbe rilasciare gli atti a domanda, sulla base della semplice richiesta presentata dal rappresentante sindacale.
Ad avviso della Commissione la tesi sostenuta dalla suindicata organizzazione sindacale non può essere condivisa.
Le organizzazioni sindacali sono sicuramente legittimate ad esercitare il diritto di accesso per la cognizione di documenti che possono coinvolgere sia le prerogative del sindacato, quale istituzione esponenziale di una determinata categoria di lavoratori, sia le posizioni di lavoro di singoli iscritti nel cui interesse e rappresentanza opera l’organizzazione.
Ciò posto, occorre sottolineare che l’unanime ed ormai consolidata giurisprudenza del Giudice amministrativo (CdS VI, 06.03.2009, n. 1351; IV, 30.12.2003, n. 9158) che questa Commissione non ha motivo di disattendere, ritiene che detta sfera di legittimazione non può tuttavia tradursi in iniziative di preventivo e generalizzato controllo dell’intera attività dell’Amministrazione, datrice di lavoro, sovrapponendosi e duplicando compiti e funzioni demandati ai soggetti istituzionalmente e ordinariamente preposti nel settore di impiego alla gestione del rapporto di lavoro.
Questa preclusione, inoltre, è espressamente codificata all’art. 24, comma terzo, della legge 241/1990, nel testo novellato dall’art. 16 della legge 15/2005 in base al quale “non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”. Ne deriva che la domanda di accesso, ancorché esplicata nell’esercizio delle prerogative dell’organizzazione sindacale, soggiace al filtro dell’esistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata che trovi collegamento nel documento che si vuole conoscere.
Alla luce delle suesposte argomentazioni, la richiesta di accesso dell’organizzazione sindacale deve necessariamente essere motivata e non può non essere sottoposta all’iter procedimentale all’uopo previsto dal regolamento dell’Ente cui è indirizzata
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 12.03.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il procedimento di rilascio del permesso di costruire ha un rapporto di autonomia e non di interdipendenza rispetto al rilascio del parere ambientale, posto che l’art. 159 del D.L.vo 22.01.2004 n. 42, in via transitoria sino al 31.12.2009 e, susseguentemente a tale data, in via definitiva, l’art. 146 del medesimo D.L.vo, egualmente dispongono nel senso che “l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti ‘'intervento urbanistico edilizio” e che “i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa”.
Da ciò pertanto discende che l’autorizzazione paesaggistica non può essere intesa quale mero presupposto di legittimità del titolo legittimante l’edificazione, connotandosi piuttosto per una sua autonomia strutturale e funzionale rispetto al permesso di costruire; e che il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo edilizio si sostanzia pertanto in un rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche ed urbanistiche, nel senso che questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l’uno nei termini della compatibilità paesaggistica dell’intervento edilizio proposto e l’altro nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia.

Il Collegio –per parte propria– ribadisce che il procedimento di rilascio del permesso di costruire ha un rapporto di autonomia e non di interdipendenza rispetto al rilascio del parere ambientale, posto che l’art. 159 del D.L.vo 22.01.2004 n. 42, in via transitoria sino al 31.12.2009 e, susseguentemente a tale data, in via definitiva, l’art. 146 del medesimo D.L.vo, egualmente dispongono nel senso che “l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti ‘'intervento urbanistico edilizio” e che “i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa”.
Da ciò pertanto discende che l’autorizzazione paesaggistica non può essere intesa quale mero presupposto di legittimità del titolo legittimante l’edificazione, connotandosi piuttosto per una sua autonomia strutturale e funzionale rispetto al permesso di costruire; e che il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo edilizio si sostanzia pertanto in un rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche ed urbanistiche, nel senso che questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l’uno nei termini della compatibilità paesaggistica dell’intervento edilizio proposto e l’altro nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 27.11.2010 n. 8260)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.08.2013 n. 4234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: La domanda di rilascio del permesso di costruire ovvero la denuncia di inizio di attività possono essere presentate dal proprietario dell’immobile ovvero da chi ne abbia titolo.
L’espressione “titolo per richiederlo” è correntemente intesa dalla giurisprudenza amministrativa nel senso di posizione che civilisticamente costituisca titolo per esercitare sul fondo un’attività costruttiva, ammettendosi in tal senso che la posizione legittimante enunciata nella disposizione normativa in esame non coincide con il solo diritto di proprietà, ma anche con altri diritti reali o addirittura personali di godimento, purché attribuiscano al titolare la facoltà di attuare interventi sull’immobile.
A fronte di ciò, l’Amministrazione comunale è per certo chiamata a svolgere un’attività istruttoria per accertare la sussistenza del titolo legittimante di colui che chiede il rilascio del titolo edilizio, anche mediante d.i.a., competendo in tal senso all’Amministrazione medesima la verifica, in capo al richiedente, di un titolo sostanziale idoneo a costituire la posizione legittimante senza alcuna ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità dell’immobile allegato da colui che presenta l’istanza.
Significativo –del resto– è al riguardo anche l’art. 42, comma 8, lett. a), della L. R. 12 del 2005, laddove si dispone che il dirigente o il responsabile dell’ufficio competente verifichi, in relazione alla d.i.a., “la regolarità formale e la completezza della documentazione”.
La verifica del possesso del titolo a costruire costituisce pertanto un presupposto, la cui mancanza impedisce all’Amministrazione comunale di procedere oltre nell’esame del progetto, anche se deve escludersi un obbligo dell’Amministrazione comunale stessa di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti l’immobile.
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L’Amministrazione comunale, allorquando inizia l’istruttoria per il rilascio di un titolo edilizio formale (nonché, ora, allorquando svolge l’istruttoria conseguente all’avvenuta presentazione di una segnalazione certificata di inizio di attività – s.c.i.a. edilizia, a’ sensi dell’art. 19 della L. 07.08.1990 n. 241 nel testo ad oggi in vigore), non è per certo obbligata ad acquisire informazioni sulla circostanza che l’assemblea condominiale abbia eventualmente inibito al singolo condomino di realizzare le opere sostanzianti un sopralzo dell’edificio: ma il richiedente il titolo edilizio ovvero chi presenta la s.c.i.a. è comunque onerato, prima di iniziare i lavori, ad impugnare la deliberazione dell’assemblea condominiale lesiva del proprio diritto, a’ sensi e per gli effetti dell’art. 1137, secondo comma, cod. civ., essendo anche ammesso al riguardo l’incidente di sospensione cautelare della deliberazione medesima.
Risulta altrettanto assodato che il condominio, ove abbia adottato una deliberazione che vieti l’esecuzione dei lavori al singolo condomino, può pure incidere nella sfera giuridica di quest’ultimo e –segnatamente– sulla sua posizione di interesse legittimo intervenendo a’ sensi dell’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990 nel procedimento relativo al rilascio del permesso di costruire ovvero in quello conseguente alla presentazione della s.c.i.a. e chiedendo quindi all’Amministrazione comunale di non accogliere le richieste del condomino medesimo conformemente al predetto deliberato assembleare, ovvero anche l’adozione di ogni possibile provvedimento in autotutela.

Il Collegio, per parte propria, rileva che, a’ sensi dell’art. 11, comma 1, e dell’art. 23, comma 1, del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380, la domanda di rilascio del permesso di costruire, ovvero la denuncia di inizio di attività possono essere presentate dal proprietario dell’immobile ovvero da chi ne abbia titolo.
Tali disposizioni riproducono nella sostanza l’art. 4, primo comma, della L. 28.01.1977 n. 10, in forza del quale “la concessione (edilizia) è data dal sindaco al proprietario dell’area o a chi abbia titolo per richiederla”, e sono a loro volta recepite in Lombardia dall’art. 35, comma 1, della L. R. 12 del 2005, laddove –per l’appunto– analogamente si dispone che il permesso di costruire sia rilasciato “al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”.
Va precisato che l’espressione “titolo per richiederlo” è correntemente intesa dalla giurisprudenza amministrativa nel senso di posizione che civilisticamente costituisca titolo per esercitare sul fondo un’attività costruttiva (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 28.05.2001 n. 2882 e 15.03.2001 n. 1507, nonché Sez. IV, 15.02.1985 n. 47), ammettendosi in tal senso che la posizione legittimante enunciata nella disposizione normativa in esame non coincide con il solo diritto di proprietà, ma anche con altri diritti reali o addirittura personali di godimento, purché attribuiscano al titolare la facoltà di attuare interventi sull’immobile.
A fronte di ciò, il Collegio reputa che l’Amministrazione comunale era ed è per certo chiamata a svolgere un’attività istruttoria per accertare la sussistenza del titolo legittimante di colui che chiede il rilascio del titolo edilizio, anche mediante d.i.a., competendo in tal senso all’Amministrazione medesima la verifica, in capo al richiedente, di un titolo sostanziale idoneo a costituire la posizione legittimante senza alcuna ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità dell’immobile allegato da colui che presenta l’istanza (così, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 04.02.2004 n. 368).
Significativo –del resto– è al riguardo anche l’art. 42, comma 8, lett. a), della L. R. 12 del 2005, laddove si dispone che il dirigente o il responsabile dell’ufficio competente verifichi, in relazione alla d.i.a., “la regolarità formale e la completezza della documentazione”.
La verifica del possesso del titolo a costruire costituisce pertanto un presupposto, la cui mancanza impedisce all’Amministrazione comunale di procedere oltre nell’esame del progetto, anche se deve escludersi un obbligo dell’Amministrazione comunale stessa di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti l’immobile.
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L’Amministrazione comunale, allorquando inizia l’istruttoria per il rilascio di un titolo edilizio formale (nonché, ora, allorquando svolge l’istruttoria conseguente all’avvenuta presentazione di una segnalazione certificata di inizio di attività – s.c.i.a. edilizia, a’ sensi dell’art. 19 della L. 07.08.1990 n. 241 nel testo ad oggi in vigore), non è per certo obbligata ad acquisire informazioni sulla circostanza che l’assemblea condominiale abbia eventualmente inibito al singolo condomino di realizzare le opere sostanzianti un sopralzo dell’edificio: ma il richiedente il titolo edilizio ovvero chi presenta la s.c.i.a. è comunque onerato, prima di iniziare i lavori, ad impugnare la deliberazione dell’assemblea condominiale lesiva del proprio diritto, a’ sensi e per gli effetti dell’art. 1137, secondo comma, cod. civ., essendo anche ammesso al riguardo l’incidente di sospensione cautelare della deliberazione medesima (cfr. ivi, nonché la corrispondente disciplina contenuta nel nuovo testo dell’articolo medesimo, conseguente alla novella introdotta al riguardo dall’art. 15 della L. 11.12.2012 n. 220, che trova peraltro applicazione solo a decorrere dal 18.06.2013).
Non consta che nella specie la deliberazione adottata dall’assemblea condominiale sia stata sospesa.
Risulta altrettanto assodato che il condominio, ove abbia adottato una deliberazione che vieti l’esecuzione dei lavori al singolo condomino, può pure incidere nella sfera giuridica di quest’ultimo e –segnatamente– sulla sua posizione di interesse legittimo intervenendo a’ sensi dell’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990 nel procedimento relativo al rilascio del permesso di costruire ovvero in quello conseguente alla presentazione della s.c.i.a. e chiedendo quindi all’Amministrazione comunale di non accogliere le richieste del condomino medesimo conformemente al predetto deliberato assembleare, ovvero anche l’adozione di ogni possibile provvedimento in autotutela
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.08.2013 n. 4234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il giudice amministrativo può riconoscere, caso per caso, la legittimazione ad impugnare atti amministrativi incidenti sull'ambiente ad associazioni locali (indipendentemente dalla loro natura giuridica), purché perseguano statutariamente in modo non occasionale obiettivi di tutela ambientale ed abbiano un adeguato grado di rappresentatività e stabilità in un'area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso.
Pertanto la legittimazione processuale delle associazioni ambientaliste deve essere apprezzata, almeno in astratto, in presenza di tre requisiti tradizionalmente utilizzati al riguardo in giurisprudenza, rispettivamente relativi alle finalità statutarie dell'ente, alla stabilità del suo assetto organizzativo, nonché alla c.d. vicinitas dello stesso stesso ente rispetto all'interesse sostanziale che si assume leso per effetto dell'azione amministrativa e a tutela del quale, pertanto, l'ente esponenziale intende agire in giudizio.
A tali considerazioni deve aggiungersi, in relazione ad un profilo più concreto e vicino alla questione in esame, che, nonostante la concezione giuridicamente rilevante del concetto di ambiente, occorre che il provvedimento che si intenda impugnare leda in modo diretto ed immediato l'interesse alla preservazione del bene ambiente.

... chiarito il contesto decisionale, si può ben riprendere la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, che in più occasioni ha evidenziato i limiti alla legittimazione delle associazioni ambientaliste avverso le varianti urbanistiche.
Si è perciò detto, in via generale, che il giudice amministrativo può riconoscere, caso per caso, la legittimazione ad impugnare atti amministrativi incidenti sull'ambiente ad associazioni locali (indipendentemente dalla loro natura giuridica), purché perseguano statutariamente in modo non occasionale obiettivi di tutela ambientale ed abbiano un adeguato grado di rappresentatività e stabilità in un'area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso (Consiglio di Stato, sez. VI, 23.05.2011, n. 3107). Pertanto la legittimazione processuale delle associazioni ambientaliste deve essere apprezzata, almeno in astratto, in presenza di tre requisiti tradizionalmente utilizzati al riguardo in giurisprudenza, rispettivamente relativi alle finalità statutarie dell'ente, alla stabilità del suo assetto organizzativo, nonché alla c.d. vicinitas dello stesso stesso ente rispetto all'interesse sostanziale che si assume leso per effetto dell'azione amministrativa e a tutela del quale, pertanto, l'ente esponenziale intende agire in giudizio.
A tali considerazioni deve aggiungersi, in relazione ad un profilo più concreto e vicino alla questione in esame, che, nonostante la concezione giuridicamente rilevante del concetto di ambiente, occorre che il provvedimento che si intenda impugnare leda in modo diretto ed immediato l'interesse alla preservazione del bene ambiente (Consiglio di Stato, sez. IV, 09.11.2004 n. 7246).
Nel caso di specie, devono quindi condividersi le considerazioni del primo giudice, sulla carente indicazione del rapporto tra i provvedimenti urbanistici adottati e la lesione lamentata, per cui va ribadito come manchi del tutto un meccanismo di collegamento tra l’associazione appellante e la tutela di cui questa si afferma portatrice (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.08.2013 n. 4233 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: La necessità dell'avviso di avvio del procedimento amministrativo è affermazione pacifica e consolidata nella giurisprudenza amministrativa. La preventiva comunicazione di avvio del procedimento rappresenta un principio generale dell'agere amministrativo.
La materia relativa alle procedure di espropriazione per pubblica utilità non costituisce certo eccezione a detto approdo della giurisprudenza: ed anzi, come è noto, un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, ha affermato il principio, generale ed inderogabile, per cui al privato proprietario di un'area destinata all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo.
Con più stringente riferimento alla fattispecie per cui è causa, poi, di recente la giurisprudenza di questa Sezione del Consiglio di Stato ha avuto modo di ribadire il detto principio, essendosi affermato che costituisce principio generale ed inderogabile dell'ordinamento vigente che al privato, proprietario di un'area sottoposta a procedimento espropriativo per la realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo, né sarebbe invocabile, come esimente dal dovere in questione, il disposto dell'art. 13, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241, in quanto detta norma si riferisce ai soli atti a contenuto generale, mentre l'intesa tra lo Stato e la Regione sulla localizzazione di un'opera di interesse statale non consiste in un documento di pianificazione territoriale, ma produce l'effetto puntuale e specifico dell'individuazione dell'ubicazione dell'intervento (oltre a valere come dichiarazione di pubblica utilità) e si rivela, come tale, idonea ad incidere, in maniera immediata, sugli interessi dei soggetti proprietari del terreno interessato dalla sua realizzazione, con evidenti implicazioni sulla partecipazione di questi al relativo procedimento.
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Costituisce principio a più riprese affermato dalla giurisprudenza quello per cui sussiste la responsabilità solidale dell'ente espropriante-appaltante e dell'appaltatore ogni quale volta entrambi abbiano concorso a determinare l'evento dannoso".
Ed anche alla luce delle vigenti prescrizioni normative va ribadita la permanente vigenza del principio per cui, anche laddove ci si trovi al cospetto dell’utilizzo dell'istituto della delega, l’amministrazione è responsabile dell'operato del delegato (poiché la legge dispone che l'espropriazione si svolge non soltanto "in nome e per conto" del delegante, ma anche "d'intesa" con quest'ultimo, che conserva ogni potere di controllo e di stimolo, il cui mancato esercizio è fonte di corresponsabilità con il delegato per i danni da questi materialmente arrecati, senza che assuma rilievo -qualora sia, comunque, avvenuta la radicale trasformazione del fondo in difetto di tempestiva emanazione del decreto di esproprio- la natura del negozio intercorso tra delegante e delegato.

Contrariamente a quanto sostenutosi nell’appello, una imponente produzione giurisprudenziale amministrativa ha sempre costantemente affermato che la necessità dell'avviso di avvio del procedimento amministrativo (nel caso di specie si trattava dell’adozione di provvedimenti di annullamento) è affermazione pacifica e consolidata nella giurisprudenza amministrativa. La preventiva comunicazione di avvio del procedimento rappresenta un principio generale dell'agere amministrativo (TAR Campania Salerno Sez. I, 12.07.2011, n. 1276).
La materia relativa alle procedure di espropriazione per pubblica utilità non costituisce certo eccezione a detto approdo della giurisprudenza: ed anzi, come è noto, un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato (cfr. Ad. Plen. 20.12.2002, n. 8; 24.01.2000, n. 2; 15.09.1999, n. 14), dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, ha affermato il principio, generale ed inderogabile, per cui al privato proprietario di un'area destinata all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo.
Con più stringente riferimento alla fattispecie per cui è causa, poi, di recente la giurisprudenza di questa Sezione del Consiglio di Stato ha avuto modo di ribadire il detto principio, essendosi affermato che (Cons. Stato Sez. IV, 09-12-2010, n. 8688) costituisce principio generale ed inderogabile dell'ordinamento vigente che al privato, proprietario di un'area sottoposta a procedimento espropriativo per la realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo, né sarebbe invocabile, come esimente dal dovere in questione, il disposto dell'art. 13, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241, in quanto detta norma si riferisce ai soli atti a contenuto generale, mentre l'intesa tra lo Stato e la Regione sulla localizzazione di un'opera di interesse statale non consiste in un documento di pianificazione territoriale, ma produce l'effetto puntuale e specifico dell'individuazione dell'ubicazione dell'intervento (oltre a valere come dichiarazione di pubblica utilità) e si rivela, come tale, idonea ad incidere, in maniera immediata, sugli interessi dei soggetti proprietari del terreno interessato dalla sua realizzazione, con evidenti implicazioni sulla partecipazione di questi al relativo procedimento.
Analoghe conclusioni si traggono dalle disposizioni specifiche contenute nel TU espropriazioni.
Sotto il profilo strettamente letterale, infatti, le espresse disposizioni di cui agli artt. 11 (“1. Al proprietario del bene sul quale si intende apporre il vincolo preordinato all'esproprio, va inviato l'avviso dell'avvio del procedimento:
a) nel caso di adozione di una variante al piano regolatore per la realizzazione di una singola opera pubblica, almeno venti giorni prima della delibera del consiglio comunale;
b) nei casi previsti dall'articolo 10, comma 1, almeno venti giorni prima dell'emanazione dell'atto se ciò risulti compatibile con le esigenze di celerità del procedimento.
2. L'avviso di avvio del procedimento è comunicato personalmente agli interessati alle singole opere previste dal piano o dal progetto. Allorché il numero dei destinatari sia superiore a 50, la comunicazione è effettuata mediante pubblico avviso, da affiggere all'albo pretorio dei Comuni nel cui territorio ricadono gli immobili da assoggettare al vincolo, nonché su uno o più quotidiani a diffusione nazionale e locale e, ove istituito, sul sito informatico della Regione o Provincia autonoma nel cui territorio ricadono gli immobili da assoggettare al vincolo. L'avviso deve precisare dove e con quali modalità può essere consultato il piano o il progetto. Gli interessati possono formulare entro i successivi trenta giorni osservazioni che vengono valutate dall'autorità espropriante ai fini delle definitive determinazioni.
3. La disposizione di cui al comma 2 non si applica ai fini dell'approvazione del progetto preliminare delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi ricompresi nei programmi attuativi dell'articolo 1, comma 1, della legge 21.12.2001, n. 443.
4. Ai fini dell'avviso dell'avvio del procedimento delle conferenze di servizi in materia di lavori pubblici, si osservano le forme previste dal decreto del Presidente della Repubblica 21.12.1999, n. 554.
5. Salvo quanto previsto dal comma 2, restano in vigore le disposizioni vigenti che regolano le modalità di partecipazione del proprietario dell'area e di altri interessati nelle fasi di adozione e di approvazione degli strumenti urbanistici.
”). e 16 comma 4 (“Al proprietario dell'area ove è prevista la realizzazione dell'opera è inviato l'avviso dell'avvio del procedimento e del deposito degli atti di cui al comma 1, con l'indicazione del nominativo del responsabile del procedimento”) del D.P.R. 08.06.2001 n. 327 congiurano nel fare ritenere il detto obbligo assolutamente cogente ed inderogabile, in armonia con i principi affermati dalla Cedu e ben recepiti a più riprese da questo Consiglio di Stato.
Non appare il caso di immorare vieppiù sul punto, se non per rimarcare, a fini di coerenza sistematica, che (d.lgs. 12.04.2006 n. 163, art. 166) il detto obbligo è prescritto anche nel caso di opere strategiche, per cui esso costituisce principio non dequotabile (comma 2 della in ultimo citata disposizione: “l’avvio del procedimento di dichiarazione di pubblica utilità è comunicato dal soggetto aggiudicatore, o per esso dal concessionario o contraente generale, ai privati interessati alle attività espropriative ai sensi della legge 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni; la comunicazione è effettuata con le stesse forme previste per la partecipazione alla procedura di valutazione di impatto ambientale dall'articolo 5 del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 10.08.1988, n. 377. Nel termine perentorio di sessanta giorni dalla comunicazione di avvio del procedimento, i privati interessati dalle attività espropriative possono presentare osservazioni al soggetto aggiudicatore, che dovrà valutarle per ogni conseguente determinazione. Le disposizioni del presente comma derogano alle disposizioni degli articoli 11 e 16 del decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327.”).
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Neppure accoglimento meritano le ulteriori censure prospettate dall’amministrazione regionale: quanto alla tesi per cui l’avviso sarebbe stato validamente omesso in quanto gli espopriandi erano in numero superiore a 50, quest’ultima è stata soltanto labialmente affermata, non è stata né allegata né provata e, inoltre, non v’è traccia in atti delle supposte modalità alternative di pubblicità eventualmente esperite.
Né l’amministrazione ha fatto espresso riferimento alla notifica da effettuarsi “nelle forme degli atti processuali civili” e neppure ha mai dichiarato (né disposto) di procedere alla pubblicazione di alcun atto avvalendosi del disposto di cui all’art. 16, comma 5, ed 11, comma 2, del dPR n. 327/2001 (Consiglio di Stato Sez. IV, sent. n. 408 del 27-01-2012: ”in tema di espropriazione per pubblica utilità l'avviso di cui all'art. 11 D.P.R. n. 327/2001 -T.U. espropriazione per p.u.- deve contenere, per essere legittimo, l'indicazione delle particelle e dei nominativi, quali indefettibili elementi diretti ad individuare i soggetti espropriandi ed i beni oggetto del procedimento amministrativo, e ciò sia che la comunicazione avvenga personalmente, sia che essa avvenga in forma collettiva mediante avviso pubblico. E' evidente che le modalità di comunicazione, seppur semplificate nella forma e nel numero, devono in ogni caso essere idonee a raggiungere lo scopo della effettiva conoscenza, di guisa che il proprietario inciso sia posto in grado di optare o meno per la partecipazione procedimentale in chiave difensiva).
Essa tesi appare al Collegio unicamente un espediente processuale confusorio, e come tale va disattesa.
Quanto all’assunto secondo il quale l’unico responsabile avrebbe dovuto essere il concessionario, essa collide con il consolidato orientamento, secondo il quale “costituisce principio a più riprese affermato dalla giurisprudenza quello per cui sussiste la responsabilità solidale dell'ente espropriante-appaltante e dell'appaltatore ogni quale volta entrambi abbiano concorso a determinare l'evento dannoso" (Cass. civ. Sez. I, 17.10.2008, n. 25369); ed anche alla luce delle vigenti prescrizioni normative va ribadita la permanente vigenza del principio per cui, anche laddove ci si trovi al cospetto dell’utilizzo dell'istituto della delega, l’amministrazione è responsabile dell'operato del delegato (poiché la legge dispone che l'espropriazione si svolge non soltanto "in nome e per conto" del delegante, ma anche "d'intesa" con quest'ultimo, che conserva ogni potere di controllo e di stimolo, il cui mancato esercizio è fonte di corresponsabilità con il delegato per i danni da questi materialmente arrecati, senza che assuma rilievo -qualora sia, comunque, avvenuta la radicale trasformazione del fondo in difetto di tempestiva emanazione del decreto di esproprio- la natura del negozio intercorso tra delegante e delegato (si veda: Cass. civ. Sez. I, 27-05-2011, n. 11800)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.08.2013 n. 4230 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le controversie inerenti la contestazione degli oneri di urbanizzazione, nel corso delle quali non vengano dedotte censure derivanti da atti generali autoritativi relativi alla determinazione degli oneri presupposti di quello impugnato, attengono a posizioni di diritto soggettivo, azionabili nel termine di prescrizione, innanzi al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva.
Detti oneri non hanno, infatti, natura tributaria, bensì costituiscono un corrispettivo di diritto pubblico avente la funzione di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione, atteso che le controversie che hanno ad oggetto la legittimità o meno del contributo relativo a concessione edilizia vertono sull'esistenza o sulla misura di un’obbligazione direttamente stabilita dalla legge.
La determinazione dell'"an" e del "quantum" dell'oblazione e del contributo per oneri di urbanizzazione e per costo di costruzione ha natura paritetica, giacché si tratta di un mero accertamento dell'obbligazione contributiva, effettuato dalla p.a. in base a rigidi parametri prefissati dalla legge e dai regolamenti in tema di criteri impositivi, nei cui riguardi essa è sfornita di potestà autoritativa.
Per questo le relative controversie, proprio in quanto concernono i diritti soggettivi delle parti di detta obbligazione, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del g.a. di cui all’art. 133, primo co., lett. f). L'accertamento di un rapporto di credito prescinde dall'esistenza di atti della p.a. e non è soggetta alle regole delle impugnazioni e dei termini di decadenza propri degli atti amministrativi; in applicazione di tale principio, va quindi esclusa la configurabilità dell'istituto dell'acquiescenza rispetto alla liquidazione del contributo.
Del resto, in tal senso si è pronunciato il Giudice della giurisdizione, per il quale la giurisdizione del giudice amministrativo in materia ha per oggetto tutte le controversie inerenti la pretesa contributiva del Comune in tale ambito.

... per l'annullamento della sentenza breve del TAR FRIULI VENEZIA GIULIA-TRIESTE: SEZIONE I n. 00486/2012, resa tra le parti, concernente appello avverso sentenza con cui il giudice amministrativo ha dichiarato il difetto di giurisdizione - emissione da parte di Equitalia di una cartella di pagamento relativa ad oneri di urbanizzazione primaria.
...
L’appello è fondato.
Le controversie inerenti la contestazione degli oneri di urbanizzazione, nel corso delle quali non vengano dedotte censure derivanti da atti generali autoritativi relativi alla determinazione degli oneri presupposti di quello impugnato, attengono, infatti, a posizioni di diritto soggettivo, azionabili nel termine di prescrizione, innanzi al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva.
Detti oneri non hanno, infatti, natura tributaria, bensì costituiscono un corrispettivo di diritto pubblico avente la funzione di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione, atteso che le controversie che hanno ad oggetto la legittimità o meno del contributo relativo a concessione edilizia vertono sull'esistenza o sulla misura di un’obbligazione direttamente stabilita dalla legge.
La determinazione dell'"an" e del "quantum" dell'oblazione e del contributo per oneri di urbanizzazione e per costo di costruzione ha natura paritetica, giacché si tratta di un mero accertamento dell'obbligazione contributiva, effettuato dalla p.a. in base a rigidi parametri prefissati dalla legge e dai regolamenti in tema di criteri impositivi, nei cui riguardi essa è sfornita di potestà autoritativa.
Per questo le relative controversie, proprio in quanto concernono i diritti soggettivi delle parti di detta obbligazione, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del g.a. di cui all’art. 133, primo co., lett. f). L'accertamento di un rapporto di credito prescinde dall'esistenza di atti della p.a. e non è soggetta alle regole delle impugnazioni e dei termini di decadenza propri degli atti amministrativi; in applicazione di tale principio, va quindi esclusa la configurabilità dell'istituto dell'acquiescenza rispetto alla liquidazione del contributo (cfr. Consiglio di Stato sez. V 28.05.2012 n. 3122; Consiglio di Stato sez. IV 10.03.2011 n. 1565; Consiglio Stato sez. V 13.10.2010 n. 7466).
Del resto, in tal senso si è pronunciato il Giudice della giurisdizione, per il quale la giurisdizione del giudice amministrativo in materia ha per oggetto tutte le controversie inerenti la pretesa contributiva del Comune in tale ambito (cfr. Cass., sez. un., 13.12.2002 n. 1791; Cassazione civile, sez. un., 20.10.2006 n. 22514) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.08.2013 n. 4208 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La pronunzia di decadenza del permesso di costruire, che riceve ora una puntuale disciplina all'art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, è connotata da un carattere strettamente vincolato, dovuto all'accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dal cit. art. 15, comma 2, (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione.
Pertanto, un tale provvedimento ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato con conseguente decorrenza ex tunc.

Occorre subito rammentare che la giurisprudenza è del tutto pacifica nell’affermare che la pronunzia di decadenza del permesso di costruire, che riceve ora una puntuale disciplina all'art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, sia connotata da un carattere strettamente vincolato, dovuto all'accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dal cit. art. 15, comma 2, (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione.
Pertanto, un tale provvedimento ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato con conseguente decorrenza ex tunc (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. III, 04.04.2013, n. 1870) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.08.2013 n. 4206 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le censure inerenti il procedimento di VAS sono ammissibili nei limiti in cui la parte istante specifichi quale concreta lesione alla sua proprietà sia derivata dall’inosservanza delle norme sul procedimento; in altri termini non deve trattarsi di una doglianza meramente “strumentale”, ma sostanziale, visto che il generico interesse ad un nuovo esercizio del potere pianificatorio dell’Amministrazione è insufficiente a distinguere la posizione del ricorrente da quella del quisque de populo.
Nel caso in cui, viceversa, si lamenti la totale omissione di tale incombente procedimentale, non è dato applicare il detto principio, proprio a cagione della circostanza che non può ipotizzarsi quale sarebbe stato l’approdo della Vas, e si oblierebbe la circostanza che un possibile parere del tutto negativo avrebbe potuto indurre l’Amministrazione a rinunciare alla variante, ovvero a rimodularla integralmente.
In materia, è d'uopo richiamare la più recente giurisprudenza della Sezione sui limiti alla configurabilità dell'interesse c.d. strumentale all'impugnazione di uno strumento urbanistico, nel senso che tale impugnazione deve pur sempre ancorarsi a specifici vizi ravvisati con riferimento alle determinazioni adottate dall'Amministrazione in ordine al regime dei suoli in proprietà del ricorrente, e non può fondarsi sul generico interesse a una migliore pianificazione del proprio suolo, che in quanto tale non si differenzia dall'eguale interesse che quisque de populo potrebbe nutrire.
In altri termini, l'utilità comunque rappresentata dal possibile vantaggio che astrattamente il ricorrente potrebbe ottenere per effetto della riedizione dell'attività amministrativa non è ex se indicativa della titolarità di una posizione di interesse giuridicamente qualificata e differenziata, idonea a legittimare la tutela giurisdizionale.
Analoghe considerazioni possono farsi per l'ulteriore utilità, costituita dalla "reviviscenza" del previgente e più favorevole P.R.G. che si avrebbe per effetto dell'annullamento giurisdizionale del P.G.T.: utilità la quale, oltre a essere anch'essa non indicativa dell'esistenza di un interesse giuridicamente tutelabile, quand'anche effettivamente sussistente sarebbe comunque provvisoria, essendo jus receptum che l'effetto immediato dell'annullamento di uno strumento urbanistico consiste nel dovere dell'Amministrazione di riesercitare la propria potestà di pianificazione del territorio.
Nella richiamata decisione della Quarta Sezione si è espressamente affermata la condivisione del principio per cui "laddove la VAS si concluda con un giudizio positivo (o positivo condizionato) il soggetto che subisca determinazioni lesive della sua sfera giuridica discendenti dall'accettazione (piena o condizionata) delle proposte pianificatorie sottoposte a VAS, ben potrà censurare anche queste determinazioni preliminari condizionanti, poiché è per effetto di questo giudizio di sostenibilità complessiva di queste scelte che le stesse possono tramutarsi in atti pianificatori negativi".
Nella detta pronuncia si è altresì rilevato che per evitare di pervenire a una legitimatio generalis del tipo di quella sopra indicata, occorre che le "determinazioni lesive" fondanti l'interesse a ricorrere siano effettivamente "condizionate", ossia causalmente riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni raggiunte in sede di V.A.S., e pertanto l'istante avrebbe dovuto precisare come e perché tali conclusioni nella specie abbiano svolto un tale ruolo decisivo sulle opzioni relative ai suoli in sua proprietà, ciò che non ha fatto.
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La cd. Valutazione ambientale strategica (VAS) è la valutazione delle conseguenze ambientali di piani e programmi al fine ultimo di assicurare lo sviluppo sostenibile di un territorio sotto il profilo ambientale. E' una procedura finalizzata precipuamente a mettere in rilievo le possibili cause di un degrado ambientale derivante dall'adozione di piani e programmi interessanti il territorio, introdotta dalla Direttiva comunitaria 2001/42/CE che prevede, appunto, la sua applicazione a piani e programmi produttivi di effetti significativi sull'ambiente.
La giurisprudenza di merito ha per il vero puntualizzato che “in un'ottica sostanzialistica tesa ad evitare interpretazioni normative che si risolvano in meri adempimenti formali e rappresentano inutili appesantimenti del procedimento, non deve essere sottoposto alla procedura di valutazione ambientale strategica (VAS), né a quella di valutazione di incidenza, uno strumento pianificatorio le cui previsioni non si discostano in maniera sostanziale da quelle già fatte oggetto di tale indagine, tanto più che parte ricorrente non fornisce alcuna dimostrazione del fatto che le previsioni derivanti dall'applicazione del piano possono avere sull'ambiente effetti significativi diversi da quelli già presi in considerazione”.
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Il Collegio non può che richiamare -in relazione alla pretesa fungibilità della procedura di Vas con quella relativa alla valutazione di incidenza dei Sic- l’affermazione secondo cui “in materia ambientale, la valutazione ambientale strategica va distinta dalla valutazione di incidenza, prevista dal D.P.R. n. 357/1997 nel sistema previgente all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 4/2008, che ha un rilievo meramente settoriale destinato alla particolare protezione dei siti di rilevanza comunitaria.".

Il Collegio conosce –ed apprezza- la giurisprudenza del Consiglio di Stato segnalata dall’appellante amministrazione comunale (cfr. sez. IV, 12.01.2011, n. 133), per la quale le censure inerenti il procedimento di VAS sono ammissibili nei limiti in cui la parte istante specifichi quale concreta lesione alla sua proprietà sia derivata dall’inosservanza delle norme sul procedimento; in altri termini non deve trattarsi di una doglianza meramente “strumentale”, ma sostanziale, visto che il generico interesse ad un nuovo esercizio del potere pianificatorio dell’Amministrazione è insufficiente a distinguere la posizione del ricorrente da quella del quisque de populo (cfr. in termini, anche TAR Lombardia, Milano, sez. II, 12.01.2012, n. 297).
Nel caso in cui, viceversa, si lamenti la totale omissione di tale incombente procedimentale, non è dato applicare il detto principio, proprio a cagione della circostanza che non può ipotizzarsi quale sarebbe stato l’approdo della Vas, e si oblierebbe la circostanza che un possibile parere del tutto negativo avrebbe potuto indurre l’Amministrazione a rinunciare alla variante, ovvero a rimodularla integralmente.
In materia, è d'uopo richiamare la più recente giurisprudenza della Sezione sui limiti alla configurabilità dell'interesse c.d. strumentale all'impugnazione di uno strumento urbanistico, nel senso che tale impugnazione deve pur sempre ancorarsi a specifici vizi ravvisati con riferimento alle determinazioni adottate dall'Amministrazione in ordine al regime dei suoli in proprietà del ricorrente, e non può fondarsi sul generico interesse a una migliore pianificazione del proprio suolo, che in quanto tale non si differenzia dall'eguale interesse che quisque de populo potrebbe nutrire (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 13.07.2010, nr. 4546).
In altri termini, l'utilità comunque rappresentata dal possibile vantaggio che astrattamente il ricorrente potrebbe ottenere per effetto della riedizione dell'attività amministrativa non è ex se indicativa della titolarità di una posizione di interesse giuridicamente qualificata e differenziata, idonea a legittimare la tutela giurisdizionale.
Analoghe considerazioni possono farsi per l'ulteriore utilità, costituita dalla "reviviscenza" del previgente e più favorevole P.R.G. che si avrebbe per effetto dell'annullamento giurisdizionale del P.G.T.: utilità la quale, oltre a essere anch'essa non indicativa dell'esistenza di un interesse giuridicamente tutelabile, quand'anche effettivamente sussistente sarebbe comunque provvisoria, essendo jus receptum che l'effetto immediato dell'annullamento di uno strumento urbanistico consiste nel dovere dell'Amministrazione di riesercitare la propria potestà di pianificazione del territorio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.06.2004, nr. 3563; Cons. Stato, sez. V, 23.04.2001, nr. 2415).
Nella richiamata decisione della Quarta Sezione (12.1.2011, n. 133) si è espressamente affermata la condivisione del principio per cui "laddove la VAS si concluda con un giudizio positivo (o positivo condizionato) il soggetto che subisca determinazioni lesive della sua sfera giuridica discendenti dall'accettazione (piena o condizionata) delle proposte pianificatorie sottoposte a VAS, ben potrà censurare anche queste determinazioni preliminari condizionanti, poiché è per effetto di questo giudizio di sostenibilità complessiva di queste scelte che le stesse possono tramutarsi in atti pianificatori negativi".
Nella detta pronuncia si è altresì rilevato che per evitare di pervenire a una legitimatio generalis del tipo di quella sopra indicata, occorre che le "determinazioni lesive" fondanti l'interesse a ricorrere siano effettivamente "condizionate", ossia causalmente riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni raggiunte in sede di V.A.S., e pertanto l'istante avrebbe dovuto precisare come e perché tali conclusioni nella specie abbiano svolto un tale ruolo decisivo sulle opzioni relative ai suoli in sua proprietà, ciò che non ha fatto.
Nel caso di specie, tuttavia, ciò che si lamenta è la totale omissione dell’incombente. Ne consegue che da un canto non è possibile preconizzare l’esito cui sarebbe approdata la Vas e l’eventuale pregiudizio che la originaria parte ricorrente ne avrebbe potuto ricavare: è ben vero che, di solito, il detto incombente ove espletato si risolve nella imposizione di prescrizioni più stringenti rispetto a quelle contenute nel piano o programma soggetto a valutazione.
E’ ben vero però che, per un verso, detta regola non può essere elevata a canone generale (non può escludersi, in via di principio, che la espletata vas introduca elementi di giudizio non già puramente e semplicemente “restrittivi” di prescrizioni ma modificativi delle stesse, rimodulativi, etc.); per altro verso, i proprietari dei suoli soggetti a regolamentazione hanno comunque l’interesse a che ciò avvenga mediante atti immuni da censure, di guisa che possano comunque contare sulla stabilità ed incontestabilità dell’assetto di interessi prefissato nell’atto.
La doglianza va quindi disattesa.
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Quanto alla censura -connessa unicamente sotto il profilo logico a quella dianzi esaminata- secondo cui trattavasi di variante “normativa” priva di significativi impatti sull’ambiente, di guisa che la Vas non sarebbe stata obbligatoria si rimarca che questo Consiglio di Stato ha in passato affermato che (Cons. Stato Sez. IV, 13.11.2012, n. 5715) “la cd. Valutazione ambientale strategica (VAS) è la valutazione delle conseguenze ambientali di piani e programmi al fine ultimo di assicurare lo sviluppo sostenibile di un territorio sotto il profilo ambientale. E' una procedura finalizzata precipuamente a mettere in rilievo le possibili cause di un degrado ambientale derivante dall'adozione di piani e programmi interessanti il territorio, introdotta dalla Direttiva comunitaria 2001/42/CE che prevede, appunto, la sua applicazione a piani e programmi produttivi di effetti significativi sull'ambiente”.
La giurisprudenza di merito ha per il vero puntualizzato che (TAR Friuli-Venezia Giulia Trieste Sez. I, 10.05.2012, n. 169) “in un'ottica sostanzialistica tesa ad evitare interpretazioni normative che si risolvano in meri adempimenti formali e rappresentano inutili appesantimenti del procedimento, non deve essere sottoposto alla procedura di valutazione ambientale strategica (VAS), né a quella di valutazione di incidenza, uno strumento pianificatorio le cui previsioni non si discostano in maniera sostanziale da quelle già fatte oggetto di tale indagine, tanto più che parte ricorrente non fornisce alcuna dimostrazione del fatto che le previsioni derivanti dall'applicazione del piano possono avere sull'ambiente effetti significativi diversi da quelli già presi in considerazione.”.
In estrema sintesi il comune di Vasto appellante invoca l’applicazione di tale principio al caso di specie (sebbene il PRG risalisse al 2001 e nessuno studio ambientale illo tempore lo avesse supportato) al fine di pervenire all’affermazione per cui, in concreto, la variante non sarebbe stata sottoponibile a Vas. Sennonché, nel caso di specie appare evidente che la stessa esposizione di parte appellante (pag 3 dell’appello) relativa alle prescrizioni contenute nella variante (anche adeguamento a piani sovraordinati) ed all’ambito della stessa (relativa all’intero PRG) esclude che si possa individuare una “modestia” della incidenza della stessa tale da condurre alla affermazione che, in concreto, la Vas non doveva essere effettuata.
In tal modo argomentando il comune inverte i termini del ragionamento: la variante riguardava di fatto l’intero territorio comunale; le modifiche, incidenti sulle NTA incidevano quindi sulla generalità delle prescrizioni relative al suolo del comune; inferire una carenza di effetti sull’ambiente dalla mancata previsione di zonizzazioni, ovvero dalla diminuzione del carico urbanistico integra apodittica affermazione, semmai destinata -eventualmente– ad essere corroborata in sede di effettuazione della Vas e responso favorevole di quest’ultima.
Può convenirsi quindi con la affermazione del primo giudice che “fotografa” esattamente la posizione dell’ amministrazione comunale e la inversione logica che dalla stessa discende: “ il comune deduce dal contenuto delle nuove norme tecniche di attuazione la non necessità di sottoporle a una previa valutazione ambientale, mentre è proprio l’esito di tale valutazione a eventualmente considerarne nullo l’impatto ambientale.”
Ad avviso del Collegio comunque, e conclusivamente sul punto, non può dirsi che una variante incidente sull’intero territorio comunale –e volta a modificare un piano per il quale, pacificamente, in passato non era stata effettuata la Vas- potesse andare esente dall’espletamento del detto incombente.
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Quanto alle altre due doglianze, il Collegio non può che richiamare -in relazione alla pretesa fungibilità della procedura di Vas con quella relativa alla valutazione di incidenza dei Sic- l’affermazione contenuta nella decisione della Sezione VI (sent. 10.05.2011, n. 2755) secondo cui “in materia ambientale, la valutazione ambientale strategica va distinta dalla valutazione di incidenza, prevista dal D.P.R. n. 357/1997 nel sistema previgente all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 4/2008, che ha un rilievo meramente settoriale destinato alla particolare protezione dei siti di rilevanza comunitaria.".
Da tale principio il Collegio non ravvisa motivo per discostarsi, il che esclude l’accoglibilità del mezzo
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.08.2013 n. 4201 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Poiché gli unici atti inerenti ad un procedimento di formazione del P.R.G. dotati di rilevanza esterna, e quindi autonomamente impugnabili, sono la deliberazione comunale di adozione ed il provvedimento regionale di approvazione, la mancata impugnazione dell'atto con cui il Comune ha controdedotto alle osservazioni, proponendone alternativamente il rigetto o l'accoglimento, non può determinare l'inammissibilità dell'appello proposto avverso la delibera di variante, trattandosi di atto privo di contenuto provvedimentale e che assolve ad una mera funzione endoprocedimentale, ad un tempo consultiva e propositiva nei confronti dell'Amministrazione regionale.
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L'adozione di una variante al piano regolatore generale, in quanto provvedimento di pianificazione generale, non deve essere necessariamente preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento nei confronti dei soggetti interessati.
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In materia urbanistica, l'obbligo di provvedere gravante sul Comune in caso di decadenza di un vincolo preordinato all'esproprio, va assolto mediante l'adozione di una variante specifica o di variante generale, gli unici strumenti che consentono alle amministrazioni comunali di verificare la persistente compatibilità delle destinazioni già impresse ad aree situate nelle zone più diverse del territorio comunale, rispetto ai principi informatori della vigente disciplina di piano regolatore e alle nuove esigenze di pubblico interesse.
Peraltro, il potere di conformazione urbanistica è attribuito dalla legge all'organo consiliare, di talché il semplice e prospettato avvio del procedimento di revisione del piano regolatore generale comunale non costituisce adempimento da parte del Comune in ordine all'obbligo di riqualificazione urbanistica della zona rimasta priva di specifica disciplina a seguito di decadenza del vincolo di destinazione su di essa gravante.
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Circa l'analisi del rapporto intercorrente tra delibera di adozione e delibera di approvazione della variante generale, la giurisprudenza ha chiarito che la mera adozione del piano regolatore, non ancora approvato, determina la facoltà, ma non anche l'onere di impugnazione; per altro verso, “la mancata impugnazione della delibera di approvazione della variante al piano regolatore non determina improcedibilità del ricorso proposto avverso la delibera di adozione del medesimo, poiché l'annullamento di quest'ultima esplica effetti caducanti e non meramente vizianti sul successivo provvedimento di approvazione nella parte in cui conferma le previsioni contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa.”
Il rapporto tra i due atti è quindi di presupposizione eventuale, in quanto limitata all’ipotesi che le prescrizioni avversate contenute nella delibera di adozione restino immutate in fase di approvazione (si veda, sotto il profilo generale TAR Puglia Lecce Sez. II, 16.04.2012, n. 679: ”la non necessità di impugnazione dell'atto finale, quando sia stato già contestato quello preparatorio, opera unicamente quando tra i due atti vi sia un rapporto di presupposizione/conseguenzialità immediata, diretta e necessaria, nel senso che l'atto successivo si pone quale inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi sono nuove ed autonome valutazioni di interessi, né del destinatario dell'atto presupposto, né di altri soggetti; diversamente, quando l'atto finale, pur partecipando della medesima sequenza procedimentale in cui si colloca l'atto preparatorio, non ne costituisce conseguenza inevitabile perché la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, l'immediata impugnazione dell'atto preparatorio non fa venir meno la necessità di impugnare l'atto finale").
Nel sistema di legislazione urbanistica statale, i soli atti del procedimento di formazione del piano regolatore dotati di rilevanza esterna e, come tali, immediatamente impugnabili, sono la deliberazione comunale di adozione e il provvedimento regionale di approvazione.

Anche alle altre affermazioni del Comune è agevole replicare richiamando in senso contrario l’insegnamento della giurisprudenza amministrativa.
Secondo quest’ultima, infatti, (Cons. Stato Sez. IV Sent., 08.08.2008, n. 3929) “poiché gli unici atti inerenti ad un procedimento di formazione del P.R.G. dotati di rilevanza esterna, e quindi autonomamente impugnabili, sono la deliberazione comunale di adozione ed il provvedimento regionale di approvazione, la mancata impugnazione dell'atto con cui il Comune ha controdedotto alle osservazioni, proponendone alternativamente il rigetto o l'accoglimento, non può determinare l'inammissibilità dell'appello proposto avverso la delibera di variante, trattandosi di atto privo di contenuto provvedimentale e che assolve ad una mera funzione endoprocedimentale, ad un tempo consultiva e propositiva nei confronti dell'Amministrazione regionale.”
Tutta l’elaborazione giurisprudenziale sul tema collide con la tesi prospettata dall’appellante comune.
Invero, da un canto costituisce approdo consolidato quello per cui (Cons. Stato Sez. IV, 14.02.2012, n. 704, Cons. Stato Sez. IV, 16.09.2011, n. 5229) “l'adozione di una variante al piano regolatore generale, in quanto provvedimento di pianificazione generale, non deve essere necessariamente preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento nei confronti dei soggetti interessati”.
Secondariamente, è stato puntualmente osservato che (TAR Puglia Lecce Sez. III, 30.01.2013, n. 262) “in materia urbanistica, l'obbligo di provvedere gravante sul Comune in caso di decadenza di un vincolo preordinato all'esproprio, va assolto mediante l'adozione di una variante specifica o di variante generale, gli unici strumenti che consentono alle amministrazioni comunali di verificare la persistente compatibilità delle destinazioni già impresse ad aree situate nelle zone più diverse del territorio comunale, rispetto ai principi informatori della vigente disciplina di piano regolatore e alle nuove esigenze di pubblico interesse; peraltro, il potere di conformazione urbanistica è attribuito dalla legge all'organo consiliare, di talché il semplice e prospettato avvio del procedimento di revisione del piano regolatore generale comunale non costituisce adempimento da parte del Comune in ordine all'obbligo di riqualificazione urbanistica della zona rimasta priva di specifica disciplina a seguito di decadenza del vincolo di destinazione su di essa gravante”.
Il complesso procedimento di revisione dello strumento urbanistico generale quindi, trae avvio con l’adozione della variante e si conclude con la sua approvazione: eventuali atti prodromici e preparatorii non consentono di affermare che il procedimento era già in itinere, di guisa che nella incontroversa constatazione che al momento della semplice adozione della variante la normativa in materia di Vas era già entrata in vigore si deve escludere la pretesa applicabilità del richiamato art. 52.
E d’altro canto la superiore affermazione si impone anche per elementari esigenze di logica (oltre che avuto riguardo al dato testuale della disposizione citata, che non può ovviamente far riferimento ad un avvio del procedimento fondato su atti non tipici).
Se si aderisse alla opzione ermeneutica dell’amministrazione comunale, sarebbe stata sufficiente una mera e generica espressione dell’intento di procedere alla rivisitazione dell’assetto urbanistico dell’area comunale per considerare il procedimento di variante “avviato” e, pertanto per pervenire ad una inammissibile dequotazione degli obblighi nascenti ex d.Lgs. n. 152/2006 esonerando le amministrazioni dall’obbligo di esperire la Vas.
Tali considerazioni sarebbero in realtà sufficienti a smentire la fondatezza della doglianza.
Ma ancora più rilevanti controindicazioni all’accoglibilità di quest’ultima emergono sol che si analizzi il rapporto intercorrente tra delibera di adozione e delibera di approvazione della variante generale.
La giurisprudenza ha chiarito in proposito che (Cons. Stato Sez. IV, 15.02.2013, n. 921) la mera adozione del piano regolatore, non ancora approvato, determina la facoltà, ma non anche l'onere di impugnazione; per altro verso, “la mancata impugnazione della delibera di approvazione della variante al piano regolatore non determina improcedibilità del ricorso proposto avverso la delibera di adozione del medesimo, poiché l'annullamento di quest'ultima esplica effetti caducanti e non meramente vizianti sul successivo provvedimento di approvazione nella parte in cui conferma le previsioni contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa.”
Il rapporto tra i due atti è quindi di presupposizione eventuale, in quanto limitata all’ipotesi che le prescrizioni avversate contenute nella delibera di adozione restino immutate in fase di approvazione (si veda, sotto il profilo generale TAR Puglia Lecce Sez. II, 16.04.2012, n. 679: ”la non necessità di impugnazione dell'atto finale, quando sia stato già contestato quello preparatorio, opera unicamente quando tra i due atti vi sia un rapporto di presupposizione/conseguenzialità immediata, diretta e necessaria, nel senso che l'atto successivo si pone quale inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi sono nuove ed autonome valutazioni di interessi, né del destinatario dell'atto presupposto, né di altri soggetti; diversamente, quando l'atto finale, pur partecipando della medesima sequenza procedimentale in cui si colloca l'atto preparatorio, non ne costituisce conseguenza inevitabile perché la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, l'immediata impugnazione dell'atto preparatorio non fa venir meno la necessità di impugnare l'atto finale").
Nel sistema di legislazione urbanistica statale, i soli atti del procedimento di formazione del piano regolatore dotati di rilevanza esterna e, come tali, immediatamente impugnabili, sono la deliberazione comunale di adozione e il provvedimento regionale di approvazione (TRGA Trentino-Alto Adige Trento, 19.12.1996, n. 505).
Anche a volere concordare con parte appellante (il che, per le prima esplicate motivazioni, non è) in ordine alla circostanza che al momento di entrata in vigore della disciplina ex d.Lgs. n. 152/2006 la variante fosse in itinere, ciò avrebbe potuto comportare, che si potesse pervenire alla legittima adozione della stessa pur in carenza di preventiva effettuazione della Vas: non anche che anche il sub procedimento di approvazione (conclusosi circa tre anni dopo, peraltro) restasse immune da tale obbligo.
E, d’altro canto, analogo modus comportamentale è stato a più riprese predicato, in passato, dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato secondo il quale (Cons. Stato, VI, 31.01.2007, n. 370), è principio acquisito quello per cui la rinnovazione del giudizio di compatibilità ambientale è necessario quando le varianti progettuali determinino la costruzione di un intervento significativamente diverso da quello già esaminato. Se è prevista un'autorizzazione alla realizzazione di un intervento in più fasi, è necessaria una seconda VIA se nel corso della seconda fase (e quindi per esempio in sede di definitivo o di variante) il progetto può avere mostrato un nuovo impatto ambientale importante, in particolare per la sua natura, le sue dimensioni o la sua ubicazione (in termini, Cons. Stato, VI, n. 2694 del 2006, principio conforme a Corte giust. Comm. eu. 04.05.2006, C-290/2003; Consiglio di Stato sez. IV, 07.07.2011, n. 4072).
Ad analoghe affermazioni deve pervenirsi, ad avviso del Collegio -salva inequivoca volontà contraria esplicitamente espressa dal Legislatore (ma l’art. 52 del dLgs n. 152/2006 non autorizza una simile conclusione)- allorché un sopravvenuto obbligo in materia ambientale si inserisca in una fase subprocedimentale autonoma, costituendo inammissibile dequotazione delle esigenze al medesimo sottese l’omessa effettuazione dell’incombente.
Tale omissione, peraltro, nel caso di specie, si porrebbe in antitesi al principio di precauzione che ha presieduto alla adozione nel sistema giuridico sovranazionale prima, e nazionale poi, di detta valutazione.
Invero la valutazione ambientale strategica (VAS) di cui alla Direttiva 42/2001/Ce del Parlamento europeo, è volta a garantire che gli effetti sull'ambiente di determinati piani e programmi siano considerati durante l'elaborazione e prima dell'adozione degli stessi, così da anticipare nella fase di pianificazione e programmazione quella valutazione di compatibilità ambientale che, se effettuata (come avviene per la valutazione di impatto ambientale) sulle singole realizzazioni progettuali, non consentirebbe di compiere un'effettiva valutazione comparativa, mancando in concreto la possibilità di disporre di soluzioni alternative per la localizzazione degli insediamenti e, in generale, per stabilire, nella prospettiva dello sviluppo sostenibile, le modalità di utilizzazione del territorio.
Detta valutazione, si rende necessaria in armonia con il principio di “precauzione” direttamente discendente dal Trattato Ue che, per ciò solo, costituisce criterio interpretativo valido in Italia, a prescindere da singoli atti di recepimento delle direttive in cui esso si compendia (per una definizione di quest’ultimo: “il cd. "principio di precauzione" fa obbligo alle Autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire i rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l'ambiente, ponendo una tutela anticipata rispetto alla fase dell'applicazione delle migliori tecniche proprie del principio di prevenzione.” -TAR Lazio Roma Sez. II bis, 20-01-2012, n. 665-; “la regola della precauzione può essere considerata come un principio autonomo che discende dalle disposizioni del Trattato UE. L'applicazione del principio di precauzione comporta che, ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un'attività potenzialmente pericolosa, l'azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche, anche nei casi in cui i danni siano poco conosciuti o solo potenziali.“ -TAR Lazio Roma Sez. II-bis, 20.01.2012, n. 663-)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.08.2013 n. 4201 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il principio, secondo cui va esclusa la necessità di strumenti attuativi per il rilascio di concessioni in zone già urbanizzate, è applicabile solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione.
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L'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata.

Rimarca in contrario senso il Collegio che costituisce approdo consolidato in dottrina ed in giurisprudenza quello per cui (ex multis TAR Campania Salerno Sez. II, 23.02.2012, n. 372 - TAR Sardegna Cagliari, sez. II, 10.02.2011, n. 117) “il principio, secondo cui va esclusa la necessità di strumenti attuativi per il rilascio di concessioni in zone già urbanizzate, è applicabile solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione).”
Questo Consiglio di Stato ha in passato osservato che "l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata." (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 13.10.2010, n. 7486 Consiglio Stato: sez. IV, 01.10.2007, n. 5043 e 15.05.2002, n. 2592; sez. V, 01.12.2003, n. 7799 e 06.10.2000, n. 5326).
Parte appellante contesta che l’area sia completamente urbanizzata, ricorrendo ad un artificio dialettico, in quanto ciò desume dalla circostanza che la detta area (della quale quindi non si contesta sotto il profilo intrinseco la completa urbanizzazione) è circondata da aree non urbanizzate.
Ciò che più rileva, però, è che la seconda parte del ragionamento del Tar, in sostanza volto ad affermare che, seppur in via di principio l’evenienza di una imposizione della redazione di un piano attuativo non possa escludersi, residua l’esigenza che detta opzione volitiva sia congruamente motivata dal Comune (così la sentenza impugnata: “vi possono essere peraltro delle ipotesi in cui, ancorché in una zona urbanizzata, la confusione edilizia e il disordine urbanistico siano tali da richiedere comunque la predisposizione di un piano attuativo, però tali situazioni devono risultare nella motivazione del provvedimento amministrativo anche pianificatorio o perlomeno dalla relazione accompagnatoria e dalla documentazione allegata”) non è stato contestato, se non per ribadire che le scelte potrebbero ricavarsi dai criteri logico-discrezionali seguiti per la redazione del Piano.
Osserva il Collegio che –proprio in virtù dei principi di matrice giurisprudenziale cui il Comune dichiara di rifarsi- la detta opzione avrebbe necessitato un duplice chiarimento: in fatto, in ordine alla non completa urbanizzazione della specifica area; in diritto, in ordine alle ragioni che imponevano la subordinazione dell’edificazione alla redazione di un strumento attuativo, nella specifica area.
Di tali chiarimenti non v’è traccia in atti, ed il richiamo ad obiettivi esposti nella Relazione del Piano (”sviluppo sostenibile”, etc.) tanto generici quanto non tarati sullo specifico caso finiscono con eludere l’obbligo motivazionale: anche sotto tale profilo la sentenza di prime cure, che ha esattamente colto l’omessa soddisfazione di tale onere di motivazione “rafforzata” appare esente da mende (mentre appare addirittura confessoria rispetto alla prima parte dell’appello l’ultima proposizione contenuta nell’appello comunale, relativo all’avvenuto aumento delle aree a standard)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.08.2013 n. 4201 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Rientra nelle attribuzioni dirigenziali il potere di negare il rinnovo di un contratto avente ad oggetto la disciplina di un rapporto concessorio in scadenza, atteso che in esso non sono ravvisabili profili che possano ricondursi a scelte strategiche o di indirizzo politico da compiere, atteso che la scelta di affidare il servizio in concessione era già stata effettuata precedentemente con delibera.
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È stato osservato come il modo di definire le competenze della Giunta comporti delle evidenti incongruenze e delle notevoli difficoltà, non essendo certamente agevole verificare ed individuare ogni volta, in negativo, quali atti non sono assegnati dalla normativa alla competenza del Sindaco, del Consiglio e dei dirigenti.
Il problema di delimitazione delle competenze della Giunta, risulta poi particolarmente complesso proprio con riguardo ai poteri attribuiti ai dirigenti, posto che l'art. 107 del T.U. individua in modo negativo e residuale anche la competenza di questi ultimi stabilendo che spettano agli organi burocratici “gli atti e i provvedimenti che impegnano l'Amministrazione verso l'esterno, non compresi espressamente dalla legge e dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale”.
Poiché sia la Giunta che i dirigenti sono organi cui la legge attribuisce funzioni lato sensu esecutive dell'indirizzo politico, il discrimen tra le due competenze è, dunque, da individuare nella diversa natura dei due organi e nel principio di separazione tra attività politica e attività gestionale. Senza approfondire una tematica sulla quale copiosi sono stati gli interventi di dottrina e in giurisprudenza, in questa sede basti ricordare che la Giunta è un organo di governo dell'Ente locale e pertanto svolge una funzione di attuazione politica delle scelte fondamentali operate dal Consiglio, mentre ai dirigenti compete l'attività di gestione tecnica-finanziaria-contabile e l'assunzione di tutti i provvedimenti amministrativi, o atti di diritto privato, necessari per conseguire gli obiettivi stabiliti dagli organi di indirizzo.

In specifico, in relazione all’eccepita incompetenza, si deve ricordare che la competenza attribuita dal d.lgs. 18.08.2000, n. 267, ai Consigli Comunali deve intendersi circoscritta agli atti fondamentali dell'Ente, di natura programmatoria o aventi un elevato contenuto di indirizzo politico, mentre spettano alle Giunte Comunali tutti gli atti rientranti nelle funzioni degli organi di governo (Consiglio di Stato, sez. I, 21.10.2010, n. 3894), nell’ambito, tuttavia, di un riparto di competenze tra organi politici e burocratici così come delineato dal Testo Unico citato.
Come noto, il nuovo sistema di riparto di competenze tra organi politici è retto dal principio secondo cui l'organo elettivo è chiamato ad esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di rilievo generale, che si traducono in atti fondamentali tassativamente elencati dall'art. 32 della legge 08.06.1990, n. 142, poi trasfuso nell'art. 42 del T.U.E.L.
Al Consiglio, organo di indirizzo politico-amministrativo, spetta (anche in virtù del fatto che in esso sono rappresentate tutte le forze politiche, comprese le minoranze) il compito, da un lato, di contribuire attivamente alla formazione e all'aggiornamento del programma politico-amministrativo del Sindaco e della Giunta (funzione di indirizzo), e, dall'altro, di controllare che l'azione di governo sia fedele al programma stesso (funzione di controllo).
Oltre a tali funzioni, di carattere generale, spetta al Consiglio anche l'adozione di una serie di atti fondamentali, attraverso cui si esplica il ruolo di indirizzo dell'organo. Con l'attribuzione di una competenza limitata ad una serie di atti tassativamente individuati, il legislatore ha infatti voluto trasformare il Consiglio da organo con competenza generale e residuale (quale era nel T.U. del 1915) in organo con attribuzioni specificamente individuate ed esclusive.
L'elencazione, peraltro, non esaurisce le sue attribuzioni in quanto altre norme e lo stesso T.U. individuano ulteriori competenze; tuttavia, si tratta di competenze esclusive perché solo il Consiglio può esercitarle.
Con tale scelta il legislatore ha voluto alleggerire la vita istituzionale del Consiglio che risultava notevolmente appesantita da tutta quella miriade di compiti che vi gravavano in virtù della competenza generale e residuale, e conseguentemente, rafforzare il ruolo politico del Consiglio stesso.
Occorre inoltre precisare che gli atti di competenza del Consiglio sono espressamente definiti “fondamentali” dal legislatore, proprio per indicare che si tratta di atti assai significativi e qualificanti per la vita e l'organizzazione dell'ente, che per la loro rilevante incidenza e/o straordinarietà rispetto al flusso quotidiano dei bisogni correnti richiedono l'attenzione del massimo organo.
Per converso, nel sistema delineato dal T.U., la Giunta comunale è l'organo politico-esecutivo che compie gli atti di amministrazione che non siano riservati dalla legge al Consiglio e che non rientrino nelle competenze -previste dalle leggi o dallo statuto- del Sindaco, degli organi di decentramento, del segretario o dei dirigenti ex art. 107 del T.U. 267-2000.
In altri termini, diversamente dal passato, spetta alla Giunta una competenza generale e residuale in virtù della quale a tale organo sono attribuite tutte quelle materie che la legge o gli statuti non riservano ad altri organi, sia politici che burocratici, dell'ente locale.
È stato osservato come tale modo di definire le competenze della Giunta comporti delle evidenti incongruenze e delle notevoli difficoltà, non essendo certamente agevole verificare ed individuare ogni volta, in negativo, quali atti non sono assegnati dalla normativa alla competenza del Sindaco, del Consiglio e dei dirigenti. Il problema di delimitazione delle competenze della Giunta, risulta poi particolarmente complesso proprio con riguardo ai poteri attribuiti ai dirigenti, posto che l'art. 107 del T.U. individua in modo negativo e residuale anche la competenza di questi ultimi stabilendo che spettano agli organi burocratici “gli atti e i provvedimenti che impegnano l'Amministrazione verso l'esterno, non compresi espressamente dalla legge e dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale”.
Poiché sia la Giunta che i dirigenti sono organi cui la legge attribuisce funzioni lato sensu esecutive dell'indirizzo politico, il discrimen tra le due competenze è, dunque, da individuare nella diversa natura dei due organi e nel principio di separazione tra attività politica e attività gestionale. Senza approfondire una tematica sulla quale copiosi sono stati gli interventi di dottrina e in giurisprudenza, in questa sede basti ricordare che la Giunta è un organo di governo dell'Ente locale e pertanto svolge una funzione di attuazione politica delle scelte fondamentali operate dal Consiglio, mentre ai dirigenti compete l'attività di gestione tecnica-finanziaria-contabile e l'assunzione di tutti i provvedimenti amministrativi, o atti di diritto privato, necessari per conseguire gli obiettivi stabiliti dagli organi di indirizzo.
Il principio generale che regola il riparto di competenze tra Consiglio, Giunta e dirigenza, applicabile anche alla materia oggetto della presente controversia, relativa al rapporto concessorio tra il Comune e l’appellante, sorto con il “contratto” di concessione di area demaniale per l’installazione di un impianto di frantumazione e selezione di inerti in località “Pontone Longo” in data 07.11.2000, rep. n. 4686, consente dunque di delineare in modo abbastanza agevole le rispettive sfere di azione e di risolvere le problematiche interpretative poste dalla fattispecie in esame.
Infatti, tenuto conto del ruolo rivestito dal Consiglio nel sistema del T.U., sembra ragionevole ritenere che la competenza a deliberare in materia sia del tutto esclusa, non essendo tale materia attinente alla gestione dei servizi pubblici e, in particolare, alla concessione del servizio, ove in ogni caso la competenza di tale organo si riferisce alla decisione di principio circa il modulo organizzativo da adottare (ad es., concessione e non s.p.a.) e non si estende certamente a tutti gli atti esecutivi di tale scelta, proprio per l'espressa limitazione delle competenze dell'organo elettivo agli atti fondamentali.
Inoltre, tale censura non potrebbe neppure risultare fondata in relazione all’art. 10 del contratto di concessione, poiché un contratto o un atto amministrativo puntuale non possono certamente incidere sulle competenze amministrative, che devono essere oggetto di apposito atto normativo.
Né viene in rilievo nella fattispecie la violazione del principio del contrarius actus, posto che tale principio sostanzialmente richiamato nell’ambito dell’art. 21-nonies della l. n. 241-90 riguarda i provvedimenti di autotutela, genus cui certamente non appartiene l’atto in oggetto che consiste, come detto, in un diniego di rinnovo di concessione.
Pertanto, rientra nelle attribuzioni dirigenziali il potere di negare il rinnovo di un contratto avente ad oggetto la disciplina di un rapporto concessorio in scadenza, atteso che in esso non sono ravvisabili profili che possano ricondursi a scelte strategiche o di indirizzo politico da compiere, atteso che la scelta di affidare il servizio in concessione era già stata effettuata con la delibera n. 82 del 28.06.2000 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.08.2013 n. 4192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: In materia di rinnovo o proroga dei contratti pubblici di appalto di servizi non vi è alcuno spazio per l’autonomia contrattuale delle parti in relazione alla normativa inderogabile stabilita dal legislatore per ragioni di interesse pubblico, in quanto vige il principio in forza del quale, salve espresse previsioni dettate dalla legge in conformità della normativa comunitaria, l’Amministrazione, una volta scaduto il contratto, deve, qualora abbia ancora la necessità di avvalersi dello stesso tipo di prestazioni, effettuare una nuova gara.
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Il principio del divieto di rinnovo dei contratti di appalto scaduti, stabilito dall'art. 23, l. 18.04.2005, n. 62, ha valenza generale e preclusiva sulle altre e contrarie disposizioni dell'ordinamento. Costituisce principio consolidato che, anche laddove la possibilità di proroga sia prevista nella lex specialis, essa potrebbe, al limite, consentire una limitata deroga al principio del divieto di rinnovo, purché con puntuale motivazione l'Amministrazione dia conto degli elementi che conducono a disattendere il principio generale. Tale rapporto tra regola ed eccezione si riflette sul contenuto della motivazione. Se l'Amministrazione opta per l'indizione della gara, nessuna particolare motivazione è necessaria; non così invece se ci si avvale della possibilità di proroga prevista dal bando.
Tale principio vale sicuramente anche in relazione alle concessioni di servizio e alle concessioni su aree demaniali afferenti al servizio stesso ex art. 30 del Codice dei contratti pubblici.

Anche gli altri motivi di appello sono infondati.
Infatti:
- il diritto a vedersi accordato il rinnovo del contratto di concessione di servizio pubblico di area demaniale per l’attività di frantumazione e selezione di inerti non può sorgere solo perché tale attività è finalizzata anche al completamento del progetto di risanamento ambientale, in quanto la c.d. gestione del servizio di recupero ambientale delle ex cave site in località Pontone Longo in San Giovanni Rotondo è una mansione accessoria rispetto al cardine principale dell’attività dell’appellante, il quale ha ottenuto concessione del suolo costituente l’area di sedime dell’ex cava principalmente per l’istallazione di un impianto di selezione e frantumazione di inerti provenienti da scavi e per i quali il medesimo percepisce un corrispettivo per ogni metro cubo;
- in materia di rinnovo o proroga dei contratti pubblici di appalto di servizi non vi è alcuno spazio per l’autonomia contrattuale delle parti in relazione alla normativa inderogabile stabilita dal legislatore per ragioni di interesse pubblico, in quanto vige il principio in forza del quale, salve espresse previsioni dettate dalla legge in conformità della normativa comunitaria, l’Amministrazione, una volta scaduto il contratto, deve, qualora abbia ancora la necessità di avvalersi dello stesso tipo di prestazioni, effettuare una nuova gara (Cons. Stato, Sez. V, 02.02.2010, n. 445, Cons. Stato, Sez. IV, 31.05.2007, n. 2866, Cons. Stato, Sez. V, 08.07.2008, n. 3391);
- non vi è spazio per riconoscere violazioni procedimentali sotto il profilo della contraddittorietà o carenza di motivazione; infatti, se l’Amministrazione opta per l’indizione di una gara pubblica non è necessaria nessuna motivazione e, pertanto nessuna giustificazione circa il disatteso rinnovo contrattuale;
- infatti, il principio del divieto di rinnovo dei contratti di appalto scaduti, stabilito dall'art. 23, l. 18.04.2005, n. 62, ha valenza generale e preclusiva sulle altre e contrarie disposizioni dell'ordinamento. Costituisce principio consolidato che, anche laddove la possibilità di proroga sia prevista nella lex specialis, essa potrebbe, al limite, consentire una limitata deroga al principio del divieto di rinnovo, purché con puntuale motivazione l'Amministrazione dia conto degli elementi che conducono a disattendere il principio generale. Tale rapporto tra regola ed eccezione si riflette sul contenuto della motivazione. Se l'Amministrazione opta per l'indizione della gara, nessuna particolare motivazione è necessaria; non così invece se ci si avvale della possibilità di proroga prevista dal bando (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 24.11.2011, n. 6194);
- tale principio vale sicuramente anche in relazione alle concessioni di servizio e alle concessioni su aree demaniali afferenti al servizio stesso ex art. 30 del Codice dei contratti pubblici;
- tale regola generale rende evidente che l’inosservanza della disposizione di cui all’art. 10-bis costituisce mero vizio di forma non inficiante la sostanza della decisione, quindi non annullabile ai sensi dell’art. 21-ocites, come correttamente ritenuto dal TAR (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.08.2013 n. 4192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: I provvedimenti di autotutela sono manifestazione dell'esercizio di un potere tipicamente discrezionale della pubblica amministrazione che non ha alcun obbligo di attivarlo e, qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno di un pubblico interesse che giustifichi la rimozione dell'atto, valutazione di cui essa sola è titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso di una situazione già definita con provvedimento inoppugnabile.
Il potere di autotutela amministrativa è, dunque, un potere di merito dell'amministrazione, che si esercita previa valutazione delle ragioni di pubblico interesse, valutazione riservata alla p.a. e insindacabile da parte del giudice.
Per giurisprudenza unanime, non sussiste, quindi, un interesse legittimo dei privati all'autotutela amministrativa: l'amministrazione, invero, non ha un obbligo di rispondere all’istanza con cui il privato sollecita l’esercizio del potere di autotutela, in presenza di una situazione cristallizzata da provvedimenti inoppugnati.
Ordinariamente, il diniego espresso di autotutela è un atto meramente confermativo dell'originario provvedimento, che non compie una nuova valutazione degli interessi in gioco, e che pertanto non può essere un mezzo per una sostanziale rimessione in termini quanto alla contestazione dell'originario provvedimento.
Solo nel caso in cui l'amministrazione, sollecitata ad esercitare l'autotutela, riesamini l'originario provvedimento e a seguito di appropriato procedimento amministrativo confermi -con una rinnovata valutazione degli interessi in gioco e con una motivazione dotata di autonomia- l'originario provvedimento, si ha un atto di conferma in senso proprio, autonomamente lesivo e pertanto impugnabile.
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Poiché l'amministrazione non ha un obbligo di rispondere all’istanza con cui il privato sollecita l’esercizio del potere di autotutela, in presenza di una situazione cristallizzata da provvedimenti inoppugnati, non può, parimenti, configurarsi –nel caso in cui la p.a. non rimanga inerte ma risponda al privato- un obbligo di motivare puntualmente sulle questioni prospettate.
Invero, ove si imponesse all’amministrazione di motivare le ragioni per le quali non intende aderire alle sollecitazioni formulate nelle istanze di autotutela, si consentirebbe un aggiramento della regola della necessaria impugnazione dell’atto amministrativo nel termine di decadenza.

È consolidato indirizzo giurisprudenziale che i provvedimenti di autotutela sono manifestazione dell'esercizio di un potere tipicamente discrezionale della pubblica amministrazione che non ha alcun obbligo di attivarlo e, qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno di un pubblico interesse che giustifichi la rimozione dell'atto, valutazione di cui essa sola è titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso di una situazione già definita con provvedimento inoppugnabile (C.d.S., sez. IV, 20.07.2005, n. 3039; 10.11.2003, n. 7136).
Il potere di autotutela amministrativa è, dunque, un potere di merito dell'amministrazione, che si esercita previa valutazione delle ragioni di pubblico interesse, valutazione riservata alla p.a. e insindacabile da parte del giudice.
Per giurisprudenza unanime, non sussiste, quindi, un interesse legittimo dei privati all'autotutela amministrativa: l'amministrazione, invero, non ha un obbligo di rispondere all’istanza con cui il privato sollecita l’esercizio del potere di autotutela, in presenza di una situazione cristallizzata da provvedimenti inoppugnati (C.d.S., sez. IV, 21.05.2004, n. 3313).
Ordinariamente, il diniego espresso di autotutela è un atto meramente confermativo dell'originario provvedimento, che non compie una nuova valutazione degli interessi in gioco, e che pertanto non può essere un mezzo per una sostanziale rimessione in termini quanto alla contestazione dell'originario provvedimento.
Solo nel caso in cui l'amministrazione, sollecitata ad esercitare l'autotutela, riesamini l'originario provvedimento e a seguito di appropriato procedimento amministrativo confermi -con una rinnovata valutazione degli interessi in gioco e con una motivazione dotata di autonomia- l'originario provvedimento, si ha un atto di conferma in senso proprio, autonomamente lesivo e pertanto impugnabile (Consiglio di Stato, sez. V, 03.05.2012, n. 2548).
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Poiché l'amministrazione non ha un obbligo di rispondere all’istanza con cui il privato sollecita l’esercizio del potere di autotutela, in presenza di una situazione cristallizzata da provvedimenti inoppugnati (C.d.S., sez. IV, 21.05.2004, n. 3313), non può, parimenti, configurarsi –nel caso in cui la p.a. non rimanga inerte ma risponda al privato- un obbligo di motivare puntualmente sulle questioni prospettate.
Invero, ove si imponesse all’amministrazione di motivare le ragioni per le quali non intende aderire alle sollecitazioni formulate nelle istanze di autotutela, si consentirebbe un aggiramento della regola della necessaria impugnazione dell’atto amministrativo nel termine di decadenza
(TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 20.08.2013 n. 255 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI... si tratta di stabilire se, ai fini dell’integrazione del requisito della regolarità fiscale di cui all'art. 38 cit., sia sufficiente che, entro il termine di presentazione dell'offerta, sia stata presentata da parte del concorrente istanza di rateazione del debito tributario oppure occorra che il relativo procedimento si sia concluso con un provvedimento favorevole.
Il Collegio ritiene che la quaestio iuris debba essere risolta in conformità al prevalente indirizzo interpretativo affermatosi in subiecta materia, da ultimo confermato da questa Adunanza Plenaria con la sentenza 05.06.2013, n. 15.
La giurisprudenza comunitaria e quella nazionale, al pari dell’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici, hanno anche di recente ribadito, sulla scorta di argomentazioni suscettibili di condivisione, l’adesione alla tesi più rigorosa secondo cui il requisito della regolarità fiscale può dirsi sussistente solo qualora, prima del decorso del termine per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara di appalto, l’istanza di rateizzazione sia stata accolta con l’adozione del relativo provvedimento costitutivo.
Si è a tale stregua subordinata l’ammissione alla procedura alla condizione che “l'istanza di rateizzazione sia stata accolta prima della scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione alla gara e preceda l'autodichiarazione circa il possesso della regolarità, essendo inammissibile una dichiarazione che attesti il possesso di un requisito in data futura”.

1. La questione rimessa all’Adunanza Plenaria riguarda l’individuazione dell’esatta portata del concetto di definitività dell’accertamento della violazione tributaria, ex art. 38, comma 1, lett. g, del codice dei contratti pubblici, laddove vengano in rilievo meccanismi di rateizzazione o dilazione del debito tributario ai sensi dell’art. 19 del d.P.R. 29.09.1973, n. 602 e di norme analoghe (cfr. la sospensione amministrativa della riscossione di cui all'art. 39 del medesimo DPR n. 602/1973).
2. Deve essere, in via preliminare, riepilogato il quadro normativo che regola la fattispecie sottoposta all’esame dell’Adunanza Plenaria.
L’articolo 38, comma 1, lettera g, del codice dei contratti pubblici stabilisce che “sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti…. che hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti”.
Il d.l. 13.05.2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12.07.2011, n. 106, ha dettato un parametro quantitativo cui ancorare l’elemento della gravità della violazione (“si intendono gravi le violazioni che comportano un omesso pagamento di imposte e tasse per un importo superiore all’importo di cui all’articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602”).
Su altro fronte, il d.l. 02.03.2012, n. 16, convertito in legge 26.04.2012, n. 44, è intervenuto fornendo una definizione normativa di “definitività” dell’accertamento (art. 1, comma 5, modificativo del comma 2 dell’art. 38 cit.: “costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle relative all’obbligo di pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed esigibili”), e, al contempo, regolando le situazioni poste in essere precedentemente all’entrata in vigore dello stesso decreto (art. 1, comma 6 : “Sono fatti salvi i comportamenti già adottati alla data di entrata in vigore del presente decreto dalle stazioni appaltanti in coerenza con la previsione contenuta nel comma 5”).
La ratio della normativa fin qui passata in rassegna risponde all'esigenza di garantire l'amministrazione pubblica in ordine alla solvibilità e alla solidità finanziaria del soggetto con il quale essa contrae.
Concentrando l'esame sul concetto di "violazione definitivamente accertata", occorre poi rammentare che l'art. 38 citato è direttamente attuativo dell'articolo 45 della direttiva n. 2004/18, norma volta ad accertare la sussistenza dei presupposti di generale solvibilità dell'eventuale futuro contraente della pubblica amministrazione (Cons. Stato, sez. III, 05.03.2013, n. 1332).
L’attribuzione di un effetto rigidamente preclusivo all’inadempimento fiscale legislativamente qualificato risponde all’ esigenza di contemperare la tendenza dell’ordinamento ad ampliare la platea dei soggetti ammessi alle procedure di gara alla stregua del canone del favor partecipationis con la necessaria tutela dell’interesse del contraente pubblico ad evitare la stipulazione con soggetti gravati da debiti tributari che incidono in modo significativo sull'affidabilità e sulla solidità finanziaria degli stessi.
3. Tanto premesso in merito alla coordinate normative di riferimento e alla ratio che le ispira, si tratta di stabilire se, ai fini dell’integrazione del requisito della regolarità fiscale di cui all'art. 38 cit., sia sufficiente che, entro il termine di presentazione dell'offerta, sia stata presentata da parte del concorrente istanza di rateazione del debito tributario oppure occorra che il relativo procedimento si sia concluso con un provvedimento favorevole.
4. E’ da rilevarsi che, con riguardo alla questione di diritto rimessa all’Adunanza Plenaria, l’ordinanza di rimessione ha così riassunto le opzioni ermeneutiche astrattamente percorribili:
- una tesi più rigorosa ritiene che, ai fini della regolarizzazione della posizione fiscale, sia necessaria la positiva definizione del procedimento di rateazione con l’ accoglimento dell'istanza del contribuente prima del decorso del termine fissato dalla lex specialis per la presentazione della domanda di partecipazione;
- una tesi più elastica annette rilievo già alla presentazione dell’istanza di rateazione entro il suddetto confine temporale;
- una linea interpretativa mediana ammette alla partecipazione l’impresa che abbia presentato istanza di rateizzazione, sub condicione della positiva definizione della procedura prima dell’aggiudicazione della gara e della conseguente stipulazione del contratto.
5. Il Collegio ritiene che la quaestio iuris debba essere risolta in conformità al prevalente indirizzo interpretativo affermatosi in subiecta materia, da ultimo confermato da questa Adunanza Plenaria con la sentenza 05.06.2013, n. 15.
5.1. La giurisprudenza comunitaria (cfr. Corte giust. CE, Sez. I, 09.02.2007, n. 228/04 e 226/04) e quella nazionale (cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 22.03.2013, n. 1633; sez. III, 05.03.2013, n. 1332; sez. VI, 29.01.2013, n. 531; sez. V, 18.11.2011, n. 6084), al pari dell’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici (cfr. determinazione 16.05.2012, n. 1; determinazione 12.01.2010, n. 1; parere 12.02.2009, n. 23; deliberazione 18.04.2007, n. 120), hanno anche di recente ribadito, sulla scorta di argomentazioni suscettibili di condivisione, l’adesione alla tesi più rigorosa secondo cui il requisito della regolarità fiscale può dirsi sussistente solo qualora, prima del decorso del termine per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara di appalto, l’istanza di rateizzazione sia stata accolta con l’adozione del relativo provvedimento costitutivo.
Si è a tale stregua subordinata l’ammissione alla procedura alla condizione che “l'istanza di rateizzazione sia stata accolta prima della scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione alla gara e preceda l'autodichiarazione circa il possesso della regolarità, essendo inammissibile una dichiarazione che attesti il possesso di un requisito in data futura” (Cons. Stato sez. VI n. 531/2013 cit.; vedi anche, ex plurimis, Cons. St., sez. V, 18.11.2011, n. 6084, che mette l’accento sulle condizioni di ammissione date dall’“ottenimento della rateizzazione” o dalla “dimostrazione di aver beneficiato di un concordato al fine di una rateizzazione o di una riduzione dei debiti”).
5.2. La bontà della tesi sposata dalla giurisprudenza pressoché univoca di questo Consiglio trova riscontro nella conformazione nella disciplina dell’istituto della rateizzazione fiscale ex art. 19 del d.P.R. n. 602/1973.
5.2.1. Sul piano teleologico la rateizzazione del debito tributario è espressione del favore legislativo verso i contribuenti in temporanea difficoltà economica, ai quali viene offerta la possibilità di regolarizzare la propria posizione tributaria senza incorrere nel rischio di insolvenza. Pertanto, condizione per la concessione del beneficio è la dimostrazione dell’obiettiva situazione di temporanea difficoltà in cui versa il debitore impossibilitato a pagare in un’ unica soluzione il debito iscritto a ruolo e, tuttavia, in grado di sopportare l’onere finanziario derivante dalla ripartizione dello stesso debito in un numero di rate congruo rispetto alle sue condizioni patrimoniali.
5.2.2. Sul versante tecnico la rateizzazione si traduce in un beneficio che, una volta accordato, comporta la sostituzione del debito originario con uno diverso, secondo un meccanismo di stampo estintivo-costitutivo che dà la stura a una novazione dell’obbligazione originaria (cfr. Cons. St., Sez. IV, 22.03.2013, n. 1633).
L’ammissione alla rateizzazione, rimodulando la scadenza dei debiti tributari e differendone l’esigibilità, implica quindi la sostituzione dell’originaria obbligazione a seguito dell’insorgenza di un nuovo rapporto obbligatorio secondo i canoni della novazione oggettiva di cui agli artt. 1230 e seguenti del codice civile.
Il risultato è la nascita di una nuova obbligazione tributaria, caratterizzata da un preciso piano di ammortamento e soggetta a una specifica disciplina per il caso di mancato pagamento delle rate.
5.2.3. La configurazione del meccanismo novativo fa sì che, nell’arco di tempo che precede l’accoglimento della domanda, resta in vita il debito originario, la cui esistenza è ammessa dallo stesso contribuente con la presentazione della domanda di dilazione del pagamento delle somme iscritte a ruolo.
Il debito che grava sul contribuente prima dell’accoglimento dell’istanza, in caso di istanza di rateizzazione non ancora accolta all’atto della scadenza dei termini di presentazione delle domande di partecipazione, è quindi unicamente quello originario, in quanto tale certo (tanto nella sua esistenza quanto nel suo ammontare), scaduto ed esigibile nei sensi richiesti dal comma 2 dell’art. 38 del codice dei contratti pubblici.
A sostegno dell’assunto depone viepiù la considerazione che l’art. 19 del d.P.R. 29.09.1973, n. 602, nel regolamentare l’istituto della dilazione del pagamento, al comma 1-quater, pone quale unico limite all’attività forzosa dell’agente della riscossione, una volta ricevuta la richiesta di rateazione, l’inibizione all’iscrizione di ipoteca ex art. 77. Ne deriva che, salva questa specifica prescrizione di favore a tutela del debitore richiedente, la presentazione dell’istanza non incide ex se sull’esigibilità del credito originario e sulla conseguente possibilità per il creditore pubblico di dare impulso alle procedure finalizzate alla relativa riscossione in executivis.
Va soggiunto che l’inidoneità della mera presentazione dell’istanza di dilazione a soddisfare il requisito della regolarità contributiva è corroborata dalla considerazione che l’ammissione alla rateazione non costituisce, di norma (fa eccezione l'art. 38 del d.lgs. 31.10.1990, n. 346, relativo all’imposta di successione), atto dovuto, in quanto l’art. 19 del d.P.R. n. 602/1973 conferisce all’Amministrazione il potere discrezionale di valutare quell’"obiettiva difficoltà economica" che si è in precedenza visto essere presupposto per la concessione del beneficio. Ne deriva che l’ammissione alla procedura del concorrente che non abbia ancora ottenuto il provvedimento favorevole, oltre a sancire una deroga atipica al principio secondo cui i requisiti di partecipazione alle gare vanno verificati al momento della scadenza dei termini fissati per la presentazione delle domande, innesterebbe nello svolgimento della procedura di evidenza pubblica il fattore di incertezza legato all’accertamento di un requisito in fieri, collegato alla variabile della valutazione discrezionale dell’amministrazione tributaria.
5.3. Le considerazioni da ultimo esposte ostano alla praticabilità anche della tesi mediana secondo cui l’istante che abbia presentato richiesta di rateazione dovrebbe essere ammesso a condizione del conseguimento del beneficio nel corso della procedura di gara.
A sostegno della soluzione in esame non può, infatti, militare in modo decisivo la valorizzazione del principio del favor partecipationis, in quanto la preferenza per un ampliamento del novero dei partecipanti non è un valore assoluto ma deve essere ricondotta nel suo alveo naturale, dato dalla sua funzione di strumento volto al conseguimento dell’ obiettivo di assicurare la scelta del miglior contraente in una gara celere e trasparente alla stregua del codice dei contratti pubblici.
Il favor admissionis non può pertanto giustificare l’ammissione di un contraente, sprovvisto al momento della domanda del requisito della regolarità tributaria, in forza di una riserva il cui scioglimento sarebbe caratterizzato da profili di aleatorietà sia sul piano dell’an che sul versante del quando.
Il principio della certezza del quadro delle regole e dei tempi della procedura di evidenza pubblica impone, infatti, che i requisiti di partecipazione siano verificati in modo compiuto al momento della scadenza dei termini di presentazione delle domande e impedisce un’ammissione condizionata che si rifletterebbe negativamente sui valori dell’efficienza e della tempestività dell’azione amministrativa, subordinando l’aggiudicazione e la successiva stipulazione a fattori caratterizzati dagli esposti profili di imponderabilità.
5.4. L’adesione all’orientamento più rigoroso non è scalfito, ai fini che in questa sede rilevano, dalla citata novella normativa secondo cui “costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle relative all’obbligo di pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed esigibili” (art. 1, comma 5, del decreto legge n. 16/2012 cit.).
Si è già osservato in precedenza che la presentazione di un’istanza di ripartizione del debito in rate, dando la stura ad un meccanismo volto alla produzione di un fenomeno novativo, non incide, alla luce della disciplina tributaria e della normativa civilistica, sulla sussistenza dei suddetti requisiti del credito nelle more della definizione della procedura.
Detto assunto è confermato dal tenore dei lavori preparatori.
In particolare, dall’esame della relazione tecnica (A.S. 3184) di accompagnamento al d.l. sulle semplificazioni fiscali si ricava come l’ intenzione del legislatore fosse quella di intendere non scaduti ed esigibili i debiti per i quali sia stato “concordato un piano di rateazione” rispetto al quale il contribuente è in regola con i pagamenti. Di tenore ancor più inequivocabile è la scheda di lettura (n. 625/4) redatta dall’Ufficio Studi della Camera dei Deputati in data 15.06.2012 in cui si afferma che i commi 5 e 6 sono volti a non escludere dalle gare pubbliche il contribuente “ammesso alla rateizzazione” del proprio debito tributario.
È pertanto chiara la volontà di considerare in regola con il fisco unicamente il contribuente cui sia stata accordata la rateizzazione e la conferma del principio secondo cui la mera presentazione dell’istanza di rateazione o dilazione non rileva ai fini della dimostrazione del requisito della regolarità fiscale.
5.5. Non può infine essere valorizzato, in senso contrario alla tesi rigorosa fin qui esposta, l’argomento secondo cui sarebbe iniquo che la tardiva definizione della procedura finalizzata alla concessione della rateazione o della dilazione si riflettesse negativamente sulla sfera giuridica dell’istante, sub specie di esclusione dalla procedura di evidenza pubblica regolate dal codice dei contratti pubblici. Si deve infatti osservare, in direzione opposta, che l’inibizione legale trova fondamento nella condizione di illiceità fiscale imputabile al concorrente e che il beneficio della rateazione è previsto da una normativa eccezionale i cui effetti favorevoli non possono superare i confini delle espresse previsioni legislative, riflettendosi nell’ammissione alla gara di un soggetto gravato da un debito tributario liquido, scaduto ed esigibile.
6. Questa Adunanza reputa in definitiva che, alla stregua delle considerazioni che precedono, debba trovare conferma l’indirizzo ermeneutico secondo cui non è ammissibile la partecipazione alla procedura di gara, ex art. 38, comma 1, lett. g, del codice dei contratti pubblici, del soggetto che, al momento della scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione, non abbia conseguito il provvedimento di accoglimento dell’istanza di rateizzazione.
7. L’applicazione di tali coordinate conduce alla reiezione dell’appello, ricavandosi dagli atti di causa che per una delle cartelle esattoriali prese in considerazione dalla stazione appaltante con riferimento alla posizione dell’impresa ausiliaria la rateazione si è perfezionata in data 04.07.2011, con accordo di rateazione intervenuto solo nel corso della procedura di gara.
Il consolidato e condivisibile principio giurisprudenziale che richiede la permanenza del possesso del requisito in parola nel corso di tutta la procedura di gara, dimostra l’infondatezza degli argomenti difensivi volti a mettere l’accento sulla duplice peculiarità cronologia che connota la vicenda, in ragione, per un verso, della sopravvenienza della notifica della cartella esattoriale in parola rispetto alla data di scadenza dei termini fissati dalla lex specialis per la presentazione delle offerte e, per altro verso, della definizione della procedura di rateazione in un torno di tempo anteriore alla revoca dell’aggiudicazione provvisoria.
Alla favorevole valutazione della doglianza tesa a stigmatizzare la mancanza valutazione dell’ effettiva gravità della gravità della violazione fiscale si oppone la considerazione che il requisito della gravità è stato innovativamente introdotto, in epoca posteriore alla pubblicazione della lex specialis, dal citato d.l. 13.05.2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12.07.1011, n. 107, in una con il rilievo che, nella specie, l’ammontare del debito fiscale oggetto di accertamento, pari a 57.378,00 euro, consente ictu oculi la qualificazione del relativo inadempimento in termini di effettiva gravità.
9. L’appello deve essere, in definitiva, respinto (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 20.08.2013 n. 20 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: Imu, niente agevolazioni prima casa per Ater e Iacp.
Gli immobili posseduti dalle cooperative di edilizia residenziale pubblica (Ater, Iacp) non hanno diritto al trattamento agevolato che la legge ha riservato per l'Imu a quelli adibiti a abitazione principale.

Lo ha affermato il TAR Abruzzo-Pescara, con la sentenza 13.08.2013 n. 434.
Per il Tar il legislatore ha «inteso favorire in via indiretta la fissazione da parte dei comuni, compatibilmente con le esigenze di bilancio, di un'aliquota meno onerosa nei confronti di tali alloggi». Solo nel caso in cui la situazione finanziaria lo consenta, per i fabbricati posseduti da Ater e Iacp, l'amministrazione comunale può fissare un'aliquota inferiore a quella di base (0,76%). Deciso, quindi, in senso favorevole ai comuni il contenzioso con le aziende di edilizia residenziale pubblica, che si trascina già dai tempi di applicazione dell'Ici, sul trattamento fiscale degli immobili assegnati ai soci, utilizzati come prima casa.
In varie parti d'Italia, infatti, sono ancora pendenti le cause sulla legittimità delle delibere comunali che non hanno riconosciuto per gli immobili posseduti da questi enti l'aliquota agevolata. In effetti, come posto in rilievo dal Tar, ex lege i benefici fiscali sono limitati solo alla detrazione d'imposta prevista dall'art. 13 del dl 201/2011 (Salva Italia).
Con l'introduzione dell'Imu è stata prevista, per le abitazioni possedute da Ater e Iacp, l'aliquota base ordinaria dello 0,76% per le seconde case, con facoltà di aumentarla o diminuirla del 3%, anziché quella agevolata dello 0,40%, contemperando il più gravoso regime fiscale con la previsione della detrazione di 200 euro prevista per le abitazioni principali. L'art. 13 ha lasciato, poi, ai comuni la facoltà, come già stabilito per l'Ici fino al 2007, di fissare l'aliquota.
Del resto, solo nel momento in cui è stata eliminata l'imposizione sulla prima casa, Iacp e Ater sono state esentati dal pagamento del tributo, nel periodo che va dal 2008 al 2011. A parte questo arco temporale in cui hanno fruito dell'esenzione, sin dal 1992, anno di istituzione dell'imposta comunale, alle cooperative edilizie è stata riconosciuta solo la detrazione d'imposta e non l'aliquota agevolata (articolo ItaliaOggi del 22.08.2013
).

EDILIZIA PRIVATA: Il computo della distanza tra edifici, in base alle norme del d.m. n. 1444/1968, nel caso in cui le pareti dei fabbricati non si estendano linearmente in altezza, ma manifestino rientranze e sporgenze, deve operarsi distinguendo fra gli sporti dalle ridotte dimensioni, aventi scopo meramente ornamentale e decorativo, da quelli costituenti sporgenze di particolari proporzioni, destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
Di questi ultimi deve tenersi conto nel computo anzidetto, essendo veri e propri corpi di fabbrica che determinano un aumento dell'edificio in superficie ed incidono quindi sulla consistenza volumetrica dello stesso come pure deve tenersi conto di altre sporgenze, quali i balconi, che vengono ad ampliare in superficie e in volume il fabbricato da cui sporgono, occupando lo spazio che deve invece rimanere libero per assicurare il prescritto distacco.
Nel caso di specie, il progetto è, pertanto, illegittimo non considerando, nel calcolo della distanza di dieci metri, i balconi che, per la loro sporgenza, pari a 50 cm, non possono essere qualificati quale mero elemento ornamentale.

È invero fondato il quarto motivo di ricorso con cui viene lamentata la violazione dell’art. 9, d.m. n. 1444/1968, non sussistendo la distanza ivi prevista di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
La giurisprudenza ha difatti affermato che il computo della distanza tra edifici, in base alle norme del d.m. n. 1444/1968, nel caso in cui le pareti dei fabbricati non si estendano linearmente in altezza, ma manifestino rientranze e sporgenze, deve operarsi distinguendo fra gli sporti dalle ridotte dimensioni, aventi scopo meramente ornamentale e decorativo, da quelli costituenti sporgenze di particolari proporzioni, destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
Di questi ultimi deve tenersi conto nel computo anzidetto, essendo veri e propri corpi di fabbrica che determinano un aumento dell'edificio in superficie ed incidono quindi sulla consistenza volumetrica dello stesso (cfr. Cass., Sez. II, 26.11.1996 n. 10497) come pure deve tenersi conto di altre sporgenze, quali i balconi, che vengono ad ampliare in superficie e in volume il fabbricato da cui sporgono, occupando lo spazio che deve invece rimanere libero per assicurare il prescritto distacco (cfr. Cass., Sez. II, 24.03.1993 n. 3533; 10.11.2011, n. 23553, Cons. Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909; ord. n. 1914 del 28.04.2010; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 11.01.2013, n. 83).
Nel caso di specie, il progetto è, pertanto, illegittimo non considerando, nel calcolo della distanza di dieci metri, i balconi che, per la loro sporgenza, pari a 50 cm, non possono essere qualificati quale mero elemento ornamentale.
La circostanza che la controinteressata abbia presentato un’istanza di variazione al progetto, volta alla riduzione della superficie dei balconi aggettanti, non fa venire meno l’illegittimità del titolo abilitativo, ma anzi la conferma (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.08.2013 n. 2065 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIPuò essere sanzionata con l’esclusione dalla gara l’offerta che presenti un margine di incertezza significativo, sia per il contenuto intrinseco della stessa, sia in relazione all’oggetto dell’appalto: analogamente, sono da ritenere essenziali quegli elementi dell’offerta atti ad incidere in maniera significativa sul contenuto della stessa, tanto che la loro mancanza renda l’offerta non soddisfacente rispetto alle richieste della stazione appaltante.
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Il Collegio è consapevole dell’indirizzo che afferma la necessità dell’esclusione del concorrente il quale abbia omesso la sottoscrizione dell’offerta tecnica –la quale non è negozialmente imputabile ad alcuno– mentre la mancata esplicita previsione di tale carenza tra le cause di esclusione è irrilevante “trattandosi di mancanza di un elemento essenziale dell’offerta che anche nell’attuale assetto normativo disegnato dall’attuale art. 46, comma 1-bis, del Codice appalti, in cui è stato codificato il principio di tassatività delle cause di esclusione, rileva quale causa di estromissione del concorrente dalla gara d’appalto”.
In altri termini, “la mancata sottoscrizione dell’offerta tecnica, che costituisce uno dei documenti integranti la domanda di partecipazione alla gara, non può essere considerata, in via di principio, un'irregolarità solo formale sanabile nel corso del procedimento, atteso che essa fa venire meno la certezza della provenienza e della piena assunzione di responsabilità in ordine ai contenuti della dichiarazione nel suo complesso: …la sottoscrizione di un documento è lo strumento mediante il quale l'autore fa propria la dichiarazione anteposta contenuta nello stesso, consentendo così non solo di risalire alla paternità dell'atto, ma anche di rendere l'atto vincolante verso i terzi destinatari della manifestazione di volontà”.
E’ stato, altresì, rimarcato che la sottoscrizione dell'offerta di gara “si configura come lo strumento mediante il quale l'autore fa propria la dichiarazione contenuta nel documento, serve a rendere nota la paternità ed a vincolare l'autore alla manifestazione di volontà in esso contenuta. Essa assolve la funzione di assicurare provenienza, serietà, affidabilità e insostituibilità dell'offerta e costituisce elemento essenziale per la sua ammissibilità, sia sotto il profilo formale che sotto quello sostanziale, potendosi solo ad essa riconnettere gli effetti dell'offerta come dichiarazione di volontà volta alla costituzione di un rapporto giuridico. La sua mancanza inficia, pertanto, la validità e la ricevibilità della manifestazione di volontà contenuta nell'offerta senza che sia necessaria, ai fini dell'esclusione, una espressa previsione della legge di gara” (Consiglio di Stato ha ritenuto che “per “sottoscrizione” debba intendersi la firma in calce, e che questa nemmeno può essere sostituita dalla sottoscrizione solo parziale delle pagine precedenti quella conclusiva della dichiarazione stessa”).
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I principi del favor partecipationis e della tutela dell’affidamento vietano l'esclusione di un’impresa che abbia fatto affidamento sul bando di gara e sui relativi allegati, compilando l’offerta in conformità al facsimile all’uopo approntato dalla stazione appaltante: è stato precisato che il concorrente il quale abbia puntualmente seguito le indicazioni fornite dall’Ente aggiudicatore nella legge di gara e nella modulistica ufficiale non può subire per questo un danno, dovendo prevalere, a fonte di un'oggettiva incertezza ingenerata dagli atti predisposti dall’amministrazione e della buona fede che va riconosciuta al concorrente, il principio del favor partecipationis.
In buona sostanza, nessuna esclusione può essere disposta sulla scorta di una lacuna formale indotta dall’amministrazione nella predisposizione degli atti di gara e che, qualora fosse accompagnata da un’applicazione formalistica della normativa, avrebbe l'unico risultato, contrario alla ratio prima ancora che alla lettera della disciplina degli appalti, di un fattivo quanto inammissibile restringimento della concorrenza in assenza di qualsivoglia lesione sostanziale.

In linea generale, con riferimento all’evocato art. 46, comma 1-bis, del dlgs 163/2206 sull’incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, occorre sottolineare che la citata disposizione va letta nel senso che può essere sanzionata con l’esclusione dalla gara l’offerta che presenti un margine di incertezza significativo, sia per il contenuto intrinseco della stessa, sia in relazione all’oggetto dell’appalto: analogamente, sono da ritenere essenziali quegli elementi dell’offerta atti ad incidere in maniera significativa sul contenuto della stessa, tanto che la loro mancanza renda l’offerta non soddisfacente rispetto alle richieste della stazione appaltante (TAR Puglia Lecce, sez. II – 06/03/2013 n. 472).
Sul punto specifico oggetto di ricorso, il Collegio è consapevole dell’indirizzo che afferma la necessità dell’esclusione del concorrente il quale abbia omesso la sottoscrizione dell’offerta tecnica –la quale non è negozialmente imputabile ad alcuno– mentre la mancata esplicita previsione di tale carenza tra le cause di esclusione è irrilevante “trattandosi di mancanza di un elemento essenziale dell’offerta che anche nell’attuale assetto normativo disegnato dall’attuale art. 46, comma 1-bis, del Codice appalti, in cui è stato codificato il principio di tassatività delle cause di esclusione, rileva quale causa di estromissione del concorrente dalla gara d’appalto” (Consiglio di Stato, sez. V – 21/06/2012 n. 3669).
In altri termini, “la mancata sottoscrizione dell’offerta tecnica, che costituisce uno dei documenti integranti la domanda di partecipazione alla gara, non può essere considerata, in via di principio, un'irregolarità solo formale sanabile nel corso del procedimento, atteso che essa fa venire meno la certezza della provenienza e della piena assunzione di responsabilità in ordine ai contenuti della dichiarazione nel suo complesso: …la sottoscrizione di un documento è lo strumento mediante il quale l'autore fa propria la dichiarazione anteposta contenuta nello stesso, consentendo così non solo di risalire alla paternità dell'atto, ma anche di rendere l'atto vincolante verso i terzi destinatari della manifestazione di volontà” (TAR Puglia Lecce, sez. III – 30/04/2013 n. 990).
E’ stato, altresì, rimarcato che la sottoscrizione dell'offerta di gara “si configura come lo strumento mediante il quale l'autore fa propria la dichiarazione contenuta nel documento, serve a rendere nota la paternità ed a vincolare l'autore alla manifestazione di volontà in esso contenuta. Essa assolve la funzione di assicurare provenienza, serietà, affidabilità e insostituibilità dell'offerta e costituisce elemento essenziale per la sua ammissibilità, sia sotto il profilo formale che sotto quello sostanziale, potendosi solo ad essa riconnettere gli effetti dell'offerta come dichiarazione di volontà volta alla costituzione di un rapporto giuridico. La sua mancanza inficia, pertanto, la validità e la ricevibilità della manifestazione di volontà contenuta nell'offerta senza che sia necessaria, ai fini dell'esclusione, una espressa previsione della legge di gara” (Consiglio di Stato, sez. V – 20/04/2012 n. 2317, che ha richiamato sez. V – 25/01/2011 n. 528 e sez. V – 07/11/2008 n. 5547, e ha ritenuto che “per “sottoscrizione” debba intendersi la firma in calce, e che questa nemmeno può essere sostituita dalla sottoscrizione solo parziale delle pagine precedenti quella conclusiva della dichiarazione stessa”).
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La recente giurisprudenza (cfr. TAR Abruzzo Pescara – 24/02/2012 n. 86, richiamata da questa Sezione nella sentenza 10/05/2012 n. 814; TAR Piemonte, sez. I – 08/05/2013 n. 576; TAR Campania Napoli, sez. VIII – 11/04/2013 n. 1911; TAR Puglia Lecce, sez. II – 01/02/2013 n. 274) è dell’avviso che i principi del favor partecipationis e della tutela dell’affidamento vietano l'esclusione di un’impresa che abbia fatto affidamento sul bando di gara e sui relativi allegati, compilando l’offerta in conformità al facsimile all’uopo approntato dalla stazione appaltante: è stato precisato che il concorrente il quale abbia puntualmente seguito le indicazioni fornite dall’Ente aggiudicatore nella legge di gara e nella modulistica ufficiale non può subire per questo un danno, dovendo prevalere, a fonte di un'oggettiva incertezza ingenerata dagli atti predisposti dall’amministrazione e della buona fede che va riconosciuta al concorrente, il principio del favor partecipationis.
In buona sostanza, nessuna esclusione può essere disposta sulla scorta di una lacuna formale indotta dall’amministrazione nella predisposizione degli atti di gara e che, qualora fosse accompagnata da un’applicazione formalistica della normativa, avrebbe l'unico risultato, contrario alla ratio prima ancora che alla lettera della disciplina degli appalti, di un fattivo quanto inammissibile restringimento della concorrenza in assenza di qualsivoglia lesione sostanziale (cfr. TAR Piemonte, sez. I – 09/01/2012 n. 5)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 08.08.2013 n. 727 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Nell'attuale sistema normativo, l'obbligo di bonifica dei siti inquinati grava sull'effettivo responsabile dell'inquinamento stesso, che le competenti Autorità amministrative devono ricercare, mentre la mera qualifica di proprietario o detentore del terreno inquinato non implica di per sé l'obbligo di effettuazione della bonifica, con la conseguenza che esso può essere posto a suo carico solo se responsabile o corresponsabile dell'illecito abbandono.
Inoltre, in tema di inquinamento, il potere del curatore di disporre dei beni fallimentari, non comporta necessariamente il dovere di adottare particolari condotte attive finalizzate alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti, perciò la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore fallito, a meno che non vi sia una prosecuzione dell'attività, con conseguente esclusione del curatore fallimentare dalla legittimazione passiva dell'ordine di bonifica.

Il provvedimento impugnato, e le pregresse risultanze istruttorie, non affermano in alcun modo che il Falllimento ricorrente abbia qualche responsabilità nell’inquinamento delle aree di che trattasi.
Nell'attuale sistema normativo, l'obbligo di bonifica dei siti inquinati grava tuttavia sull'effettivo responsabile dell'inquinamento stesso, che le competenti Autorità amministrative devono ricercare, mentre la mera qualifica di proprietario o detentore del terreno inquinato non implica di per sé l'obbligo di effettuazione della bonifica, con la conseguenza che esso può essere posto a suo carico solo se responsabile o corresponsabile dell'illecito abbandono.
Inoltre, in tema di inquinamento, il potere del curatore di disporre dei beni fallimentari, non comporta necessariamente il dovere di adottare particolari condotte attive finalizzate alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti, perciò la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore fallito, a meno che non vi sia una prosecuzione dell'attività, con conseguente esclusione del curatore fallimentare dalla legittimazione passiva dell'ordine di bonifica (C.S., Sez. V, 16.06.2009 n. 3885) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 05.08.2013 n. 2062 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La pratica di reiterare vincoli preordinati all'espropriazione, contenuti nel piano regolatore generale ovvero in altri strumenti urbanistici è stata stigmatizzata dalla Corte Costituzionale che ritenne illegittima la disciplina recata dalla legge urbanistica (l. 17.08.1942 n. 1150), che prevedeva la possibilità di imporre alla proprietà privata, in sede di pianificazione, vincoli preordinati all'espropriazione, senza alcun limite temporale e senza indennizzo.
A seguito di tale decisione, il legislatore intervenne con la legge 19.11.1968 n. 1187, il cui art. 2 ha provveduto a fissare in cinque anni il periodo entro cui detti vincoli devono, a pena di decadenza, tradursi in piani esecutivi o, comunque, deve avviarsi in modo certo il procedimento espropriativo.
Secondo la giurisprudenza consolidata del Consiglio di Stato, costituiscono vincoli soggetti a decadenza solo quelli preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificazione, e che dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio.
La decadenza del vincolo non esclude che l'amministrazione, mediante il ricorso al procedimento per l'adozione delle varianti agli strumenti urbanistici, possa reiterare i vincoli preordinati all'espropriazione, fornendo congrua motivazione in ordine alla persistenza delle ragioni di interesse pubblico che sorreggono la predetta reiterazione, così da escludere un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti.
Si è, in particolare, affermato quanto all'adeguatezza della motivazione, che, se in linea di principio può ritenersi giustificato il richiamo alle originarie valutazioni, in occasione di una prima reiterazione, quando il rinnovato vincolo sia a sua volta decaduto, è necessario che la motivazione dimostri che l'autorità amministrativa abbia provveduto ad una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, esponendo le ragioni (riguardanti il rispetto degli standard, le esigenze della spesa, ovvero specifici accadimenti riguardanti le precedenti fasi procedimentali) che inducano ad escludere profili di eccesso di potere e ad ammetterne l'attuale sussistenza dell'interesse pubblico.
In quest’ottica, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 l. n. 1150/1942 e 2, primo comma, della legge n. 1187/1968 "nella parte in cui consente alla "amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificabilità, senza la previsione di indennizzo".
Secondo la Corte, "la reiterazione in via amministrativa dei vincoli decaduti (preordinati all'espropriazione o con carattere sostanzialmente espropriativo) non sono fenomeni di per sé inammissibili dal punto di vista costituzionale", ma tale fenomeno assume aspetti patologici allorché vi sia una indefinita reiterazione dei vincoli o una loro proroga sine die, o quando il limite temporale sia indeterminato.
In presenza delle suddette situazioni patologiche, sorge obbligo di indennizzo che "opera una volta superato il periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge (periodo di franchigia)". In altre parole, la permanenza del vincolo oltre i termini previsti, e senza alcun inizio serio dell'espropriazione, "non può essere dissociato... dalla previsione di un indennizzo".
L’Ad. Pl. del Consiglio di Stato ha poi chiarito che la mancata previsione dell’indennizzo non inficia la legittimità del provvedimento amministrativo; inoltre, ha precisato che l'Autorità urbanistica, quando decide la reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio, deve procedere con una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, esponendo le ragioni -riguardanti il rispetto degli standard, le esigenze della spesa, specifici accadimenti riguardanti le precedenti fasi procedimentali- che inducano ad escludere profili di eccesso di potere e ad ammettere l'attuale sussistenza dell'interesse pubblico.

La società ricorrente sostiene che la delibera impugnata avrebbe comportato una illegittima reiterazione di vincoli preordinati all’esproprio senza fornire alcuna motivazione in proposito.
In proposito va evidenziato che la pratica di reiterare vincoli preordinati all'espropriazione, contenuti nel piano regolatore generale ovvero in altri strumenti urbanistici è stata stigmatizzata dalla Corte Costituzionale che ritenne illegittima la disciplina recata dalla legge urbanistica (l. 17.08.1942 n. 1150), che prevedeva la possibilità di imporre alla proprietà privata, in sede di pianificazione, vincoli preordinati all'espropriazione, senza alcun limite temporale e senza indennizzo (cfr., Corte Cost., 29.05.1968 n. 55).
A seguito di tale decisione, il legislatore intervenne con la legge 19.11.1968 n. 1187, il cui art. 2 ha provveduto a fissare in cinque anni il periodo entro cui detti vincoli devono, a pena di decadenza, tradursi in piani esecutivi o, comunque, deve avviarsi in modo certo il procedimento espropriativo.
Secondo la giurisprudenza consolidata del Consiglio di Stato (sez. V, 03.01.2001 n. 3; sez. IV, 17.04.2003 n. 2015 e 22.06.2004 n. 4426, Ad. Pl. 24.05.2007, n. 7), costituiscono vincoli soggetti a decadenza solo quelli preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificazione, e che dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio.
La decadenza del vincolo non esclude che l'amministrazione, mediante il ricorso al procedimento per l'adozione delle varianti agli strumenti urbanistici, possa reiterare i vincoli preordinati all'espropriazione, fornendo congrua motivazione in ordine alla persistenza delle ragioni di interesse pubblico che sorreggono la predetta reiterazione (Cons. Stato, sez. IV, 24.09.1997 n. 1013 e 22.06.2004 n. 4397), così da escludere un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti.
Si è, in particolare, affermato quanto all'adeguatezza della motivazione, che, se in linea di principio può ritenersi giustificato il richiamo alle originarie valutazioni, in occasione di una prima reiterazione, quando il rinnovato vincolo sia a sua volta decaduto, è necessario che la motivazione dimostri che l'autorità amministrativa abbia provveduto ad una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, esponendo le ragioni (riguardanti il rispetto degli standard, le esigenze della spesa, ovvero specifici accadimenti riguardanti le precedenti fasi procedimentali) che inducano ad escludere profili di eccesso di potere e ad ammetterne l'attuale sussistenza dell'interesse pubblico (Consiglio di Stato sez. IV, 06.05.2013, n. 2432).
In quest’ottica, la Corte Costituzionale (cfr., sent. 20.05.1999 n. 179 e 18.12.2001 n. 411) ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 l. n. 1150/1942 e 2, primo comma, della legge n. 1187/1968 "nella parte in cui consente alla "amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificabilità, senza la previsione di indennizzo".
Secondo la Corte, "la reiterazione in via amministrativa dei vincoli decaduti (preordinati all'espropriazione o con carattere sostanzialmente espropriativo) non sono fenomeni di per sé inammissibili dal punto di vista costituzionale", ma tale fenomeno assume aspetti patologici allorché vi sia una indefinita reiterazione dei vincoli o una loro proroga sine die, o quando il limite temporale sia indeterminato.
In presenza delle suddette situazioni patologiche, sorge obbligo di indennizzo che "opera una volta superato il periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge (periodo di franchigia)". In altre parole, la permanenza del vincolo oltre i termini previsti, e senza alcun inizio serio dell'espropriazione, "non può essere dissociato... dalla previsione di un indennizzo".
L’Ad. Pl. del Consiglio di Stato (cfr., sent. 7/2007 cit.) ha poi chiarito che la mancata previsione dell’indennizzo non inficia la legittimità del provvedimento amministrativo; inoltre, ha precisato che l'Autorità urbanistica, quando decide la reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio, deve procedere con una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, esponendo le ragioni -riguardanti il rispetto degli standard, le esigenze della spesa, specifici accadimenti riguardanti le precedenti fasi procedimentali- che inducano ad escludere profili di eccesso di potere e ad ammettere l'attuale sussistenza dell'interesse pubblico
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 05.08.2013 n. 2061 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La mancata acquisizione del parere contabile sugli atti programmatori ai sensi dell'art. 49 d.lgs. n. 267/2000 non rende illegittima la delibera, poiché si tratta di una prescrizione che rileva sul solo piano interno, con la conseguenza che la sua omissione non incide sulla validità della deliberazione stessa, rappresentando al più una mera irregolarità.
Parimenti non comporta un vizio di illegittimità della delibera la mancata acquisizione del parere contabile sugli atti programmatori ai sensi dell'art. 49 d.lgs. n. 267/2000.
Sul punto, il Consiglio di Stato ha precisato che la mancata acquisizione del parere contabile sugli atti programmatori ai sensi dell'art. 49 d.lgs. n. 267/2000 non rende illegittima la delibera, poiché si tratta di una prescrizione che rileva sul solo piano interno, con la conseguenza che la sua omissione non incide sulla validità della deliberazione stessa, rappresentando al più una mera irregolarità (cfr., Consiglio di Stato sez. IV, 26.01.2012, n. 351)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 05.08.2013 n. 2061 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Le norme in tema di partecipazione al procedimento amministrativo vanno interpretate in senso sostanziale, evitando di affidarsi a letture formalistiche che possono sottendere fini meramente speculativi e non in linea con il principio di effettività. Del resto, la giurisprudenza amministrativa consolidata, cui questo giudice intende dare continuità, ha chiarito che la comunicazione di avvio del procedimento non è necessaria laddove l’interessato sia già a conoscenza dell’esistenza di un procedimento amministrativo.
In particolare, questo Tar ha già precisato che le garanzie partecipative non rivestono un valore meramente formale, ma presentano una dimensione sostanziale, nel senso sia che la loro violazione non è censurabile laddove il soggetto sia stato comunque posto in condizione di rappresentare la propria posizione in sede procedimentale, sia che la doglianza inerente alla loro violazione deve essere accompagnata, per assumere carattere sostanziale, dalla definizione, anche solo sintetica, dei profili attinenti alla posizione soggettiva dell'interessato che sarebbero stati sottoposti all'attenzione dell'Amministrazione in caso di tempestiva comunicazione di avvio del procedimento.

Passando ad indagare i vizi di propri della delibera, la società ricorrente, in particolare, si duole di aver ricevuto comunicazione di avvio del procedimento in data 16.05.2012 via fax e di non aver avuto tempo di partecipare al procedimento amministrativo perché la delibera impugnata è intervenuta due giorni dopo, in data 18.05.2012.
Va, tuttavia, evidenziato che le norme in tema di partecipazione al procedimento amministrativo vanno interpretate in senso sostanziale, evitando di affidarsi a letture formalistiche che possono sottendere fini meramente speculativi e non in linea con il principio di effettività. Del resto, la giurisprudenza amministrativa consolidata, cui questo giudice intende dare continuità, ha chiarito che la comunicazione di avvio del procedimento non è necessaria laddove l’interessato sia già a conoscenza dell’esistenza di un procedimento amministrativo.
In particolare, questo Tar ha già precisato che le garanzie partecipative non rivestono un valore meramente formale, ma presentano una dimensione sostanziale, nel senso sia che la loro violazione non è censurabile laddove il soggetto sia stato comunque posto in condizione di rappresentare la propria posizione in sede procedimentale, sia che la doglianza inerente alla loro violazione deve essere accompagnata, per assumere carattere sostanziale, dalla definizione, anche solo sintetica, dei profili attinenti alla posizione soggettiva dell'interessato che sarebbero stati sottoposti all'attenzione dell'Amministrazione in caso di tempestiva comunicazione di avvio del procedimento (cfr., TAR Milano Lombardia sez. III, 24.11.2011, n. 2904).
Nel caso di specie, non può dubitarsi, in considerazione del lungo tempo trascorso, delle trattative intervenute tra la società ricorrente e il Comune di Milano e dell’avviso di avvio del procedimento comunicato in data 09.06.2006, che la società ricorrente non fosse a conoscenza dell’instaurazione di un procedimento amministrativo teso all’espropriazione della Cascina Campazzo. Del resto, in data 07.04.2006 la società ricorrente ha presentato memorie scritte che riproducono in parte gli odierni scritti difensivi.
Ne deriva che non può dirsi leso il diritto di partecipazione della società ricorrente e, pertanto, tale motivo di ricorso è infondato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 05.08.2013 n. 2061 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Anche a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 22-bis , d.P.R. 08.06.2001 n. 327, l'ordinanza di occupazione d'urgenza riguarda una fase puramente attuativa di quella riguardante la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dei lavori, con la conseguenza che è sufficiente la motivazione dell'ordinanza di occupazione che si limiti a richiamare espressamente tale dichiarazione, costituente l'unico presupposto della stessa e che consenta di rilevare l'urgenza della realizzazione delle opere previste nella dichiarazione di p.u..
A sua volta, la dichiarazione di pubblica utilità, conseguendo "ex lege" all'approvazione del progetto definitivo, non abbisogna di una particolare motivazione.

La società ricorrente contesta la delibera impugnata perché non sussistevano le condizioni per procedere all’occupazione d’urgenza, ai sensi dell’art. 22 d.p.r. 327/2001.
Questo Tar ha già chiarito che anche a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 22-bis , d.P.R. 08.06.2001 n. 327, l'ordinanza di occupazione d'urgenza riguarda una fase puramente attuativa di quella riguardante la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dei lavori, con la conseguenza che è sufficiente la motivazione dell'ordinanza di occupazione che si limiti a richiamare espressamente tale dichiarazione, costituente l'unico presupposto della stessa e che consenta di rilevare l'urgenza della realizzazione delle opere previste nella dichiarazione di p.u..
A sua volta, la dichiarazione di pubblica utilità, conseguendo "ex lege" all'approvazione del progetto definitivo, non abbisogna di una particolare motivazione (cfr., TAR Milano, Lombardia, sez. III, 02.07.2012, n. 1874)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 05.08.2013 n. 2061 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nelle controversie in tema di monetizzazione viene in rilievo una posizione qualificabile come interesse legittimo, come tale soggetta alle regole processuali che accedono a tale condizione e che richiedono di proporre ricorso con il rito impugnatorio, nei termini decadenziali decorrenti dalla piena conoscenza degli atti ritenuti lesivi.
Invero, la monetizzazione non vive in alcun modo della natura e delle finalità proprie del contributo concessorio costituito dagli oneri di urbanizzazione e dal costo di costruzione che accompagna naturaliter l’autorizzazione a costruire, la cui debenza o meno, quanto al relativo accertamento, può essere fatta valere, in linea generale, nei termini prescrizionali.
Ed ancora, “mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento; e ciò vale ad evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione rispetto al contributo di concessione, di talché, sotto il versante processuale, non si può utilizzare lo strumento dell’azione di accertamento ammesso per contestare la legittimità del contributo ex art. 3 o comunque la insussistenza di tale obbligazione pecuniaria ancorché già assolta”.

Il Collegio condivide l’orientamento giurisprudenziale secondo cui nelle controversie in tema di monetizzazione viene in rilievo una posizione qualificabile come interesse legittimo, come tale soggetta alle regole processuali che accedono a tale condizione e che richiedono di proporre ricorso con il rito impugnatorio, nei termini decadenziali decorrenti dalla piena conoscenza degli atti ritenuti lesivi (cfr. Consiglio di Stato sez. IV, 16.02.2011, n. 1013; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 14.02.2013, n. 451).
Come affermato anche di recente dal Consiglio di Stato, la monetizzazione non vive in alcun modo della natura e delle finalità proprie del contributo concessorio costituito dagli oneri di urbanizzazione e dal costo di costruzione che accompagna naturaliter l’autorizzazione a costruire, la cui debenza o meno, quanto al relativo accertamento, può essere fatta valere, in linea generale, nei termini prescrizionali.
Invero, “mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento; e ciò vale ad evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione rispetto al contributo di concessione, di talché, sotto il versante processuale, non si può utilizzare lo strumento dell’azione di accertamento ammesso per contestare la legittimità del contributo ex art. 3 o comunque la insussistenza di tale obbligazione pecuniaria ancorché già assolta” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 16/02/2011, n. 1013, sez. IV, 28.12.2012 n. 6706; questa conclusione si pone in linea con i precedenti di questo Tribunale che hanno affermato la natura autoritativa dell'atto che impone la monetizzazione e che, quindi, la posizione nei riguardi del medesimo ha natura di interesse legittimo: cfr. TAR Milano, Sez. II, 28.01.2004, n. 364; id., Sez. II, 31.05.1996, n. 768, poi confermata da C.d.S., Sez. V, 27.09.2004, n. 6281, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.04.2006, n. 1064) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.08.2013 n. 2056 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso in cui un originario lotto urbanistico abbia acquisito una maggiore potenzialità edificatoria in dipendenza di modifiche alla disciplina urbanistica e, quindi, la parte rimasta inedificata sia suscettibile di edificazione, per verificare l'effettiva potenzialità edificatoria di quest’ultima, occorre sempre partire dalla considerazione che, in virtù del carattere "unitario" dell'originario lotto interamente asservito alla precedente costruzione, non possono non computarsi le volumetrie realizzate sul lotto urbanistico originario (considerato complessivamente), il quale è l'unico ad aver acquisito (e mantenuto) una "propria" potenzialità edificatoria.
Conseguentemente la verifica dell'edificabilità della parte del lotto rimasta inedificata e la quantificazione della volumetria su di essa realizzabile non può che derivare, per sottrazione, dalla predetta potenzialità, diminuita della volumetria dei fabbricati già realizzati sull'unica, complessiva, area.

Secondo il pacifico orientamento della giurisprudenza anche di questo Tribunale, invero, nel caso in cui un originario lotto urbanistico abbia acquisito una maggiore potenzialità edificatoria in dipendenza di modifiche alla disciplina urbanistica e, quindi, la parte rimasta inedificata sia suscettibile di edificazione, per verificare l'effettiva potenzialità edificatoria di quest’ultima, occorre sempre partire dalla considerazione che, in virtù del carattere "unitario" dell'originario lotto interamente asservito alla precedente costruzione, non possono non computarsi le volumetrie realizzate sul lotto urbanistico originario (considerato complessivamente), il quale è l'unico ad aver acquisito (e mantenuto) una "propria" potenzialità edificatoria; conseguentemente la verifica dell'edificabilità della parte del lotto rimasta inedificata e la quantificazione della volumetria su di essa realizzabile non può che derivare, per sottrazione, dalla predetta potenzialità, diminuita della volumetria dei fabbricati già realizzati sull'unica, complessiva, area (Cons. Stato, sez. IV, 19.01.2008, n. 255; 26.09.2008, n. 4647; 19.10.2006, n. 6229; 31.01.2005, n. 217; TAR Lombardia, Milano, 03.03.2011, n. 614; TAR Trentino Alto Adige, Bolzano, 22.08.2007, n. 286; TAR Sardegna, sez. II, 19.05.2006, n. 996) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.08.2013 n. 2054 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTIBocciatura per il riclassamento degli estimi. L'assenza di parametri non apre la porta all'arbitrio della pubblica amministrazione. La decisione del Tar Lecce, che ha accolto le istanze delle associazioni dei consumatori.
Estimi, il Tar di Lecce accoglie il ricorso delle associazioni dei consumatori contro il Comune e l'Agenzia del territorio e stoppa il riclassamento.

La I Sez. del TAR Puglia-Lecce, con sentenza 11.07.2013 n. 1621, ha affermato che «proprio la molteplicità delle possibili causali che, alla stregua della complessa stratificazione normativa, possono in concreto esser poste alla base di un atto di riclassamento impone che la motivazione di un tale atto dia conto della causale concreta per la quale quello specifico atto è stato adottato, cosicché il contribuente sia messo in grado di comprenderla e di valutare le sue opportunità di difesa».
I giudici amministrativi demoliscono l'intera operazione costata alle casse dello Stato 600 mila euro soltanto per le notifiche ai cittadini e a quest'ultimi 660 mila euro di ricorsi alla Commissione tributaria, per un aumento delle rendite catastali disposto dall'Agenzia del territorio sul 95% del patrimonio immobiliare del territorio comunale di Lecce.
L'Agenzia, infatti ha notificato alla maggioranza della popolazione leccese gli avvisi di accertamento con i quali ha proceduto alla rideterminazione del classamento e alla conseguente attribuzione della nuova rendita catastale delle unità immobiliari, basando la motivazione su presunti interventi di riqualificazione della viabilità interna e di arredo urbano nel centro storico.
L'illegittimità di tali avvisi in relazione agli atti di suddivisione del territorio del comune di Lecce in microzone catastali ai sensi dell'articolo 2 del decreto del presidente della repubblica 138/1998 , all'atto con il quale la giunta comunale di Lecce ha attivato la procedura ex art. 1 della legge 311/2004 e la conclusione della stessa, è stata invocata dai contribuenti sulla base del difetto istruttorio e motivazionale in cui sono incorse sia l'amministrazione comunale nel richiedere il riclassamento sia l'Agenzia del territorio con riferimento alla istruttoria compiuta e alla conclusione del procedimento, a partire dalla individuazione delle microzone.
Giova ricordare a tal proposito che l'articolo 1, comma 335, della legge 311/2004 prevede l'attivazione, su richiesta dei comuni interessati, di processi di revisione parziale del classamento delle unità immobiliari urbane ubicate in microzone comunali, definite ai sensi del decreto del presidente della repubblica 138/1998, che presentano carattere di anomalia in termini di rapporti tra il valore medio immobiliare, rilevato dal mercato, e il valore medio catastale, rispetto l'analogo rapporto medio calcolato su tutte le microzone comunali per cui la conditio sine qua non della procedura di revisione del classamento delle unità immobiliari site in una determinata microzona, è costituita dal significativo scostamento tra i due predetti valori.
La norma non individua alcun parametro in base al quale possa essere oggettivamente ancorata la «significatività» dello scostamento; tuttavia, il collegio ritiene che l'assenza di alcun parametro non determini l'arbitrio dell'amministrazione ma la conseguente valutazione di natura tecnica che deve pur sempre essere ancorata ai principi di buon andamento, proporzionalità e efficacia dell'azione amministrativa.
Di tali principi i giudici amministrativi hanno fatto uso nella sentenza in commento, laddove ravvisando il deficit istruttorio nella inadeguatezza dei dati assunti a base del procedimento, tenuto conto della natura e finalità dello stesso, hanno annullato tutti gli atti relativi al procedimento, a partire dalle due delibere del 2010 con le quali l'amministrazione comunale ha dato incarico all'Agenzia di procedere al riclassamento (articolo ItaliaOggi del 23.08.2013
).

AGGIORNAMENTO AL 21.08.2013

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     In tanti mi siete stati vicino, nel mio dolore che nessuno può comprendere: chi di persona, chi con telefonata, sms, e-mail, telegramma, lettera.
     Non vorrei dimenticare qualcuno rispondendo uno ad uno: allora, voglio qui ringraziare tutti quanti, nessuno escluso, che hanno compartecipato alla mia intima sofferenza che non trova pace.
     A tutti un grazie di cuore ... T.

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 20.08.2013 n. 194, suppl. ord. n. 63/L, "Testo del decreto-legge 21.06.2013, n. 69, coordinato con la legge di conversione 09.08.2013, n. 98, recante: «Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia»".

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G.U. 20.08.2013 n. 194 "Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea - Legge europea 2013" (Legge 06.08.2013 n. 97).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 34 del 20.08.2013, "Presa d’atto della proposta di Programma regionale di gestione dei rifiuti (PRGR), comprensivo del Programma regionale di bonifica delle aree inquinate (PRB), ai sensi della deliberazione della Giunta regionale n. 1587 del 20.04.2011" (deliberazione G.R. 02.08.2013 n. 576).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: Il cortocircuito sui pannelli fotovoltaici lombardi - ancora FERCEL! (04.08.2013 - link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: F. P. Garzone e G. Schiavone, La legge n. 190/2012 (cd. “anti-corruzione”) ed il rapporto tra il reato di concussione (art. 317 c.p.) e quello di induzione indebita a dare o promettere utilita? (art. 319-quater c.p.) (31.07.2013 - link a www.diritto.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: OGGETTO: Modello di versamento F24 enti pubblici – codice identificativo “51” denominato “Intervento sostitutivo – art. 4 del D.P.R. n. 207/2010” (INPS, messaggio 14.08.2013 n. 13154).
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Versamenti diretti all'Inps. Irregolarità senza F24.
Sì al versamento diretto all'Inps, senza F24, per gli interventi sostitutivi delle stazioni appaltanti.

Lo spiega l'Inps nel messaggio 14.08.2013 n. 13154.
La novità riguarda i Durc irregolari, concernenti cioè irregolarità contributive, per cui le stazioni appaltanti sono tenute a fare l'intervento sostitutivo per regolarizzare le inadempienze contributive dell'appaltatore o subappaltatore. Infatti con l'intervento sostitutivo la stazione appaltante trattiene dalla liquidazione del corrispettivo dell'appalto l'importo pari alle scoperture contributive indicate nel Durc, per riversarle agli istituti previdenziali e delle casse edili. La stazione appaltante effettua il pagamento non in proprio, ma sostituendosi all'adempimento del contribuente.
Conseguentemente è stato previsto che il pagamento della somma oggetto dell'intervento sostitutivo avvenga utilizzando stesse modalità e stesse specifiche previste per l'adempimento contributivo da parte dell'esecutore o del subappaltatore nei confronti dell'Inps. I pagamenti, in altre parole, vengono effettuati tramite il modello F24, che consente l'immediata canalizzazione dei versamenti sulle posizioni a debito dei contribuenti rendendo individuabili sia il versante (stazione appaltante) sia il beneficiario (debitore).
Tuttavia, alcune stazioni appaltanti in virtù della specifica regolamentazione contabile sono escluse dalla possibilità di effettuare i pagamenti con modello F24, operazione che, in base alla risoluzione del 09.10.2012, prot. n. 2012/140335 dell'agenzia delle entrate, avviene l'F24 enti pubblici (EP) per consentire di utilizzare tale modello per il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali agli enti.
L'Inps precisa che sono ammesse ad utilizzare modalità di pagamento diverse da quelle tramite F24 EP esclusivamente le amministrazioni non tenute a eseguire i pagamenti tramite F24. E che la possibilità di effettuare il pagamento, in via residuale, con modalità da concordare con la sede Inps che ha emesso il Durc al fine di consentire in modo immediato la corretta contabilizzazione degli importi versati a titolo di intervento sostitutivo (tratto da ItaliaOggi del 15.08.2013).

APPALTI: OGGETTO: Decreto legge 08.04.2013 n. 35, convertito con modificazioni, nella legge 06.06.2013, n. 64. Documento Unico di Regolarità Contributiva (Durc) (INPS, messaggio 14.08.2013 n. 13153).
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Debiti, la p.a. sconta i pagamenti. Prima vanno saldati eventuali contributi non versati. L'Inps precisa che il Durc emesso in base al dl n. 35/2013 non esclude l'intervento sostitutivo.
Il Durc per la liquidazione dei vecchi debiti delle p.a. (maturati al 31.12.2012) non esclude l'intervento sostitutivo. Per cui se l'impresa ha a sua volta debiti contributivi (con Inps, Inail o casse edili), ciò sarà evidenziato nel Durc e la p.a. potrà attivarsi in via sostitutiva al ripianamento di tali debiti.
Lo precisa l'Inps nel messaggio 14.08.2013 n. 13153, spiegando che a tal fine la regolarità contributiva sarà verifica rispetto a due momenti: data del debito (verifica retrodatata) e data emissione Durc (verifica attuale).
Arretrati p.a.. L'Inps detta istruzioni alle richieste di Durc (Documento unico di regolarità contributiva) cui sono tenuti enti locali, regioni, province autonome, enti del servizio sanitario nazionale e amministrazioni dello stato per la liquidazione di debiti maturati al 31.12.2012. Si tratta di una particolare procedura introdotta dal dl n. 35/2013, convertito dalla legge n. 64/2013.
Durc retrodatato. Questa procedura (e il Durc specifico per i debiti arretrati di p.a.) prevede che, relativamente agli arretrati p.a., la regolarità sia accertata alla data di emissione della fattura che certifica il/i debito/i oppure alla data di richiesta di liquidazione. Per tenere conto della novità, in vigore dall'8 giugno, l'Inps ricorda che dal 31 luglio (come già detto dall'Inail; si veda ItaliaOggi del 6 agosto) opera la nuova procedura su www.sportellounicoprevidenziale.it.
Doppia verifica. Praticamente quando si richiede il Durc per la liquidazione di un debito arretrato occorre precisare la data di riferimento, uguale o anteriore al 31.12.2012 (che è poi la data della relativa fattura o della richiesta di liquidazione). In questi casi l'Inps procede alla verifica della regolarità rispetto a due momenti: il primo, retrodatato alla data indicata (del debito arretrato); il secondo, alla data di emissione del Durc.
L'intervento sostitutivo. La doppia verifica consente alla p.a.-stazione appaltante di valutare l'obbligo di attivare l'intervento sostitutivo (ex art. 4 del dpr n. 207/2010) qualora alla data di verifica, corrispondente a quella della fattura o della richiesta di liquidazione, risulti un'irregolarità contributiva dell'esecutore e/o del subappaltatore che permane anche dopo e fino alla data di emissione del Durc. In tal caso, inoltre, è attivato anche il preavviso di accertamento negativo (ex art. 7, comma 3, del dm 24.10.2007) il quale, si ricorda, impone l'obbligo d'invitare il contribuente a regolarizzare la posizione entro 15 giorni.
Un esempio. Si osservi la tabella; la doppia verifica comporta una quantificazione del debito con importi riferiti distintamente ai due momenti. Conseguentemente, rispetto al totale dell'importo di debito accertato, risulta evidenziata la parte riferita al periodo fino alla data indicata dalla stazione appaltante (irregolarità retrodatata) e quella riferita al periodo successivo (irregolarità attuale).
Se a seguito di preavviso di accertamento negativo la regolarizzazione avviene solo con riferimento al periodo più vecchio richiesto per la verifica dalla stazione appaltante (in esempio: 4 mila euro), il Durc attesterà la regolarità poiché richiesta ai sensi del dl n. 35/2013; ma nel campo note sarà indicato sia il debito residuo maturato successivamente al periodo interessato dalla verifica, sia il periodo di riferimento e la dicitura «legge n. 64/2013».
Diversamente, non c'è obbligo di preavviso di accertamento negativo se l'irregolarità riguarda solo e soltanto il periodo successivo alla data indicata dalla stazione appaltante (debito p.a.). In tal caso il Durc attesterà la regolarità; tuttavia, nel campo note riporterà annotato l'importo e il relativo periodo del debito maturato con dicitura «legge n. 64/2013» (tratto da ItaliaOggi del 15.08.2013).
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Rimborsi. Alla data di fattura ed emissione del «certificato». Per i pagamenti della «Pa» Durc con doppia verifica.
IL CASO LIMITE/ Possibile sanare la posizione fino al giorno dell'arretrato ma il documento riporterà l'importo ancora in sospeso
Aggiornata la procedura internet relativa al rilascio del Durc per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione.

La novità è disponibile dal 31 luglio scorso, ma l'Inps lo ha comunicato ieri con il messaggio 14.08.2013 n. 13153.
L'aggiornamento si è reso necessario perché, nell'ambito di quanto previsto dal Dl 35/2013, le pubbliche amministrazioni che procedono al pagamento degli arretrati devono richiedere il documento unico di regolarità contributiva del fornitore (Durc). La verifica, però, come previsto dal comma 11-ter dell'articolo 6 del decreto legge, deve essere riferita alla data di emissione della fattura o richiesta equivalente di pagamento. Per questo motivo, quindi, la procedura disponibile all'indirizzo www.sportellounicoprevidenziale.it è stata aggiornata in modo che le amministrazioni possano inserire la data richiesta dal decreto legge.
Tuttavia la verifica da parte degli operatori sarà doppia, cioè verrà svolta fino alla data della richiesta di pagamento e poi da questa data fino all'emissione del Durc. In questo modo potranno verificarsi diverse situazioni. Se verrà riscontrata la regolarità contributiva in entrambi i momenti, il Durc verrà rilasciato, così come se a fronte di irregolarità al momento di presentazione della fattura è seguita una regolarizzazione. Se, invece, viene riscontrata un'irregolarità alla data di presentazione della fattura che permane successivamente, la stazione appaltante può valutare l'obbligo di attivazione dell'intervento sostitutivo disciplinato dall'articolo 4 del Dpr 207/2010, cioè lo storno dal pagamento dell'importo corrispondente all'inadempienza e il relativo pagamento diretto agli enti previdenziali e assicurativi. In questo caso, comunque, il contribuente deve essere invitato a regolarizzare la posizione entro 15 giorni. La quantificazione del debito totale, inoltre, deve essere suddivisa in due importi: uno riferito all'ammontare accertato fino alla data della fattura; l'altro dal giorno successivo alla fattura fino all'emissione del Durc.
Il soggetto interessato può a sua volta sanare l'intera situazione oppure solo quella che serve per incassare il credito vantato presso la pubblica amministrazione. In quest'ultimo caso, nel campo note del Durc deve essere riportato l'importo del debito residuo e il periodo di riferimento.
Infine, se l'irregolarità riscontrata durante la verifica riguarda solo il periodo successivo alla data della fattura, il Durc deve essere emesso attestando la regolarità, senza attivare il preavviso di accertamento negativo. Nel campo note sarà indicato l'importo e il relativo periodo del debito maturato tra la data della fattura e quella di emissione del documento (tratto da Il Sole 24 Ore del 15.08.2013).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Acque reflue industriali.
Domanda
Vorrei saper se ci sono indirizzi giurisprudenziali che riconducono le acque reflue industriali emunte dalla falda all'interno della disciplina dei rifiuti liquidi.
Risposta
Si è avuto modo di dire che l'articolo 185, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152,esclude dalla normativa sui rifiuti gli scarichi idrici, esclusi i rifiuti liquidi costituiti da acque reflue. E al riguardo si sono richiamate, a titolo esemplificativo, la sentenza del Consiglio di stato, sezione IV, dell'08.12.2009, numero 5256, l'ordinanza dello stesso Consiglio di stato, numero 2452, del 2008, nonché le sentenze del Tribunale regionale amministrativo (Tar) Friuli–Venezia Giulia, sezione I, del 26.05.2008, numero 301 e quella del 28.01.2008, sempre della sezione I, numero 90; del Tribunale regionale amministrativo (Tar) Sicilia, Catania, sezione I, del 29.01.2008, numero 207.
Con orientamento diverso, però, vi è la sentenza del Tribunale regionale amministrativo (Tar) Sicilia, Palermo, sezione I, del 20.03.2009, numero 540. Per i giudici amministrativi palermitani, l'articolo 242, decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, introduce un peculiare regime diversificato per le acque di falda emunte nell'ambito di interventi di bonifica di siti inquinati, di per sé non idoneo tuttavia a parificarne il regime giuridico, per quanto attiene alla gestione e autorizzazione dei relativi impianti di trattamento, a quello proprio delle acque reflue industriali. Per i predetti giudici, una lettura sistematica della previsione normativa in esame non può non tenere conto della particolare natura dell'oggetto dell'attività posta in essere, siccome individuati dal legislatore quali rifiuti liquidi.
Per il Tribunale regionale amministrativo (Tar), Sardegna, sezione II (sentenza numero 549, del 21.04.2009), la presenza di «uno iato –materiale e temporale–» tra la fase di emungimento e quella di trattamento già di per sé depone per la qualificabilità delle acque in termini di rifiuto liquido. E, per i giudici sardi, l'alternativa nozione discarico ontologicamente implica la sussistenza di una continuità tra la fase di generazione del refluo e quella della sua immissione nel copro recettore, mentre l'esistenza di una fase intermedia, in cui le acque sono stoccate in attesa della loro destinazione finale, richiama direttamente i noti concetti di trattamento e smaltimento, tipici della disciplina dei rifiuti (tratto da ItaliaOggi Sette del del 19.08.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Gestione dei fanghi biologici.
Domanda
Si chiede se il Comune possa, con il Pgt, interferire sulla gestione dei fanghi biologici in agricoltura.
Risposta
La disciplina della gestione dei fanghi biologici in agricoltura rientra nell'ambito della materia della tutela dell'ambiente, in quanto ricompresa nella disciplina dei rifiuti.
La Corte costituzionale, con la sentenza del 14.03.2008, numero 62, ebbe a puntualizzare che la Costituzione prevede che sia riservato allo Stato la potestà di fissare, in materia, livelli di tutela che abbiano uniformità in tutto il territorio nazionale. In tema, però, viene fatta salva la competenza delle regioni ai fini di tutelare gli interessi collegati, per la loro funzione, con quelli precipuamente ambientali. E, al riguardo, il decreto legislativo numero 99, del 27.01.1992, il cui oggetto è la «Attuazione della direttiva 86/278/Cee concernente la protezione dell'ambiente, in particolare del suolo, nell'utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura», fissa i livelli minimi di tutela per tutto il territorio comunale, individuando, all'articolo 4, in modo specifico, i divieti di utilizzazione dei fanghi in relazione alle loro caratteristiche e alla tipologia dei terreni coinvolti.
Poi, il predetto decreto legislativo numero 99, del 27.01.1992, demanda alle regioni le ulteriori competenze per il rilascio delle autorizzazioni e per la fissazione delle distanze di rispetto. E, a tal fine, all'articolo 6, dispone che le regioni:
- rilasciano le autorizzazioni per le attività di raccolta, trasporto, stoccaggio, condizionamento, come definito dall'articolo 12, e utilizzazione dei fanghi in agricoltura, conformemente alla normativa vigente e al presente decreto;
- stabiliscono ulteriori limiti e condizioni di utilizzazione in agricoltura per i diversi tipi di fanghi in relazione alle caratteristiche dei suoli, ai tipi di colture praticate, alla composizione dei fanghi, alle modalità di trattamento;
- stabiliscono le distanze di rispetto per l'applicazione dei fanghi dai centri abitati, dagli insediamenti sparsi, dalle strade, dai pozzi di captazione delle acque potabili, dai corsi d'acqua superficiali, tenendo conto delle caratteristiche dei terreni (permeabilità, pendenza), delle condizioni meteo climatiche della zona, delle caratteristiche fisiche dei fanghi;
Pertanto, il Comune che si arroghi competenze in materia, con il Piano di assetto del territorio (Pgt), viene ad utilizzare una modalità impropria, come puntualizzato anche dal Tribunale regionale amministrativo (Tar) della Lombardia, Milano, con la sentenza della sezione II, del 04.04.2012, numero 1006 (tratto da ItaliaOggi Sette del del 19.08.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Livello di tutela ambientale.
Domanda
Le regioni, con una propria normativa possono, fissare i criteri di ammissibilità in discarica dei rifiuti non pericolosi?
Risposta
Alla luce del disposto degli articoli 195 e 196 del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, che ripartiscono le competenze in materia di rifiuti, le regioni hanno funzioni di regolazione, di pianificazione e di autorizzazione, ma non hanno la competenza di fissare i criteri di ammissibilità in discarica dei rifiuti non pericolosi.
Infatti, alla luce della sentenza del 06.04.2012, numero 693, del Tribunale regionale amministrativo (Tar), Puglia, Sezione I, la competenza in tema di tutela dell'ambiente, in cui rientra la disciplina dei rifiuti, appartiene in via esclusiva, giusta quanto previsto dagli articolo 117 della costituzione, dai succitati articoli 195 e 196 del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, nonché dall'articolo 7 del decreto legislativo numero 36, del 13.01.2003, allo Stato. Pertanto, non possono essere ammesse iniziative delle regioni volte a regolamentare la materia nel proprio ambito territoriale, anche se si è in presenza di un'assenza della disciplina da parte dello Stato.
Peraltro la Corte costituzionale, con la sentenza del 04.12.2009, numero 314, ha puntualizzato che la disciplina statale dei rifiuti, collocandosi nell'ambito della tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, che è di esclusiva competenza statale, costituisce, anche in attuazione degli obblighi comunitari, un livello di tutela uniforme e si impone sull'intero territorio nazionale come limite alla disciplina che le regioni e le province autonome dettano in altre materie di loro competenza, per evitare che esse deroghino al livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato. Limite che è pure volto alla necessità di evitare che i predetti enti, con i loro interventi, possano peggiorare il suddetto livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato (tratto da ItaliaOggi Sette del del 19.08.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Acque reflue industriali.
Domanda
Le acque reflue industriali emunte dalla falda e sottoposte ad eventuale trattamento possono rientrare nella normativa prevista per i reflui liquidi e, pertanto, essere scaricate anche in fognatura o devono essere considerati rifiuti e quindi essere avviati agli appositi centri di smaltimento e stoccaggio previsti dalla legge?
Risposta
L'articolo 243 del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, prevede che le acque di falda emunte dalle falde sotterranee nell'ambito degli interventi di bonifica e di messa in sicurezza di un sito possono essere scaricate direttamente o dopo essere state utilizzate in esercizio nel sito stesso, nel rispetto dei limiti di emissione di acque reflue in acque reflue industriali in acque superficiali.
Per il Tribunale regionale amministrativo (Tar) della Campania, (sentenza del 21.03.2012, numero 1398, sezione V), le acque di falda emunte dalle falde sotterranee nell'ambito degli interventi di messa in sicurezza di emergenza di un sito possono essere scaricate, direttamente, o dopo il loro riutilizzo, nel ciclo produttivo, nel rispetto dei limiti di emissione di acque reflue industriali in acque superficiali, e il loro scarico non può essere condizionato al rilascio dell'autorizzazione di cui all'articolo 208 del citato decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, relativo al trattamento dei rifiuti.
Pertanto, per le acque di falda emunte in operazioni di messa in sicurezza di emergenza (Mise), il legislatore si riporta alla normativa sugli scarichi idrici e non a quella sui rifiuti. A tal fine l'articolo 185 comma 1, lettera b), del predetto decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, esclude dalla normativa sui rifiuti gli scarichi idrici, esclusi i rifiuti liquidi costituiti da acque reflue.
Al riguardo, si richiamano la sentenze del Consiglio di stato, sezione IV, dell'08.12.2009, numero 5256, l'ordinanza dello stesso Consiglio di stato, numero 2452, del 2008, nonché le sentenze del Tribunale regionale amministrativo (Tar) Friuli Venezia Giulia, sezione I, del 26.05.2008, numero 301 e quella del 28.01.2008, sempre della sezione I, numero 90; del Tribunale regionale amministrativo (Tar) Sicilia, Catania, sezione I, del 29.01.2008, numero 207 (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013).

TRIBUTI: Ici e Imu con il diritto reale.
Domanda
Si ha un condominio in cui una parte del giardino (avente una propria particella catastale) è stata data in uso esclusivo permanente ad un condomino (proprietario del negozio al piano terra) con i primi atti di vendita. Tale diritto reale di uso esclusivo permanente risulta dagli atti notarili di chi acquistò dalla ditta costruttrice però tale diritto non era stato trascritto. Successivamente, senza avvertire gli altri comproprietari (condomini), il possessore di tale diritto ha costruito un fabbricato commerciale e ne ha chiesto il condono edilizio. Ora, dalla visura catastale di detta particella, risulta un fabbricato categoria C/1. Da chi sono dovute l'Ici e l'Imu? Dalla normativa risulterebbe che le imposte sono dovute da chi gode del diritto reale.
Risposta
La risposta è affermativa. Ai fini Imu (così come, in precedenza, ai fini Ici) rileva la proprietà o la titolarità di un diritto reale di godimento sull'immobile. Ciò sia per il pagamento dell'imposta che per gli obblighi di denuncia.

Il riferimento normativo è dato dall'art. 13 del dl n. 201/2011 (L. n. 214/2011) e dall'art. 9, c. 1 del dlgs n. 23/2011): «Soggetti passivi dell'imposta municipale propria sono il proprietario di immobili, inclusi i terreni e le aree edificabili, a qualsiasi uso destinati, ivi compresi quelli strumentali o alla cui produzione o scambio e' diretta l'attività dell'impresa, ovvero il titolare di diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie sugli stessi. Nel caso di concessione di aree demaniali, soggetto passivo è il concessionario. Per gli immobili, anche da costruire o in corso di costruzione, concessi in locazione finanziaria, soggetto passivo è il locatario a decorrere dalla data della stipula e per tutta la durata del contratto». Analoghe considerazioni valgono anche ai fini delle imposte sui redditi (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013).

VARI: È consentita la partecipazione di enti pubblici a una fondazione onlus?
Secondo quanto stabilito dall'art. 10, comma 10, del dlgs 460/1997, non si considerano in ogni caso onlus gli enti pubblici, le società commerciali diverse da quelle cooperative, le fondazioni bancarie, i partiti e i movimenti politici, le organizzazioni sindacali, le associazioni di datori di lavoro e le associazioni di categoria. Al riguardo è necessario precisare il senso e l'ampiezza dell'esclusione stabilita dalla norma richiamata.
Sull'argomento già la circolare dell'Agenzia delle entrate n. 38 del 01/08/2011 ha espressamente indicato la possibilità di partecipazione, anche qualora esercitino un influenza dominante, da parte di enti pubblici e più in generale, di soggetti esclusi dalla qualifica di onlus. Pertanto, è stato precisato come la qualificazione di onlus non possa essere negata ad organizzazioni partecipate tra l'altro da enti pubblici.
Da ultimo, con sentenza del 10/05/2013 n. 11148 quale conferma di tale orientamento di prassi, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha confermato la perfetta legittimità di una fondazione onlus partecipata da ente pubblico (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013).

NEWS

ATTI AMMINISTRATIVI - VARIDECRETO DEL FARE/ Oggi in G.U. la legge 98/2013 di conversione del dl 69/2013.
Raffica di misure pro-imprese. Finanziati i nuovi macchinari. Indennizzi da p.a. lumaca.
Una raffica di misure a favore delle imprese. Dalla nuova legge Sabatini per gli investimenti strumentali al fondo di garanzia per le pmi, che sosterrà anche il credito delle micro-aziende. Nuova linfa ai contratti di sviluppo nel settore industriale. Mentre chi si troverà di fronte pubbliche amministrazioni che restano inerti a fronte delle proprie istanze avrà diritto a un indennizzo economico pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo, fino a un massimo di 2 mila euro.

È quanto prevede il dl del Fare (dl n. 69/2013), la cui legge di conversione (legge 09/08/2013, n. 98) approderà sul supplemento ordinario 63/L alla G.U. n. 194 di oggi.
La «nuova Sabatini» recata dall'art. 2 del provvedimento è finalizzata a incentivare gli investimenti industriali. Le piccole imprese che acquisiranno entro il 2016 (anche in leasing) macchinari e impianti a uso produttivo potranno contare sul sostegno statale.
La Cassa depositi e prestiti metterà a disposizione delle banche un plafond per l'erogazione dei finanziamenti. Tutti i dettagli operativi sono per il momento rinviati a un'apposita convenzione che il ministero dello sviluppo economico (sentito il Mef) dovrà sottoscrivere con Cdp e Abi. I mutui avranno durata non superiore a cinque anni e saranno erogabili fino a un massimo di 2 milioni di euro per impresa, anche frazionato in più iniziative. Entro questi limiti, è possibile pure finanziare l'intero costo dell'investimento.
In sede di conversione il parlamento ha esteso l'agevolazione agli investimenti in hardware, software e tecnologie digitali. Ma non è tutto. La seconda parte dell'intervento prevede l'erogazione di un contributo statale alle imprese per coprire parte degli interessi. A tale proposito, però, sarà necessario un decreto attuativo del Mse, emanato d'intesa col Mef. Durante l'iter di approvazione l'incentivo è stato allargato alle micro realtà del settore agricolo e della pesca, compatibilmente con la normativa comunitaria in materia di aiuti.
A favore di artigiani e piccole imprese vanno anche le modifiche all'articolo 1 del decreto, relativo al rafforzamento del Fondo di garanzia per le pmi. Il testo originario del dl aveva infatti eliminato la riserva dell'80% delle somme a beneficio degli investimenti di minore importo, suscitando l'allarme delle associazioni di categoria (ItaliaOggi del 20/07/2013). In fase di conversione, invece, la riserva è stata reintrodotta, seppur in misura ridotta: il 50% delle risorse del Fondo sarà destinato a interventi fino a 500 mila euro. Torna anche la riserva del 30% degli importi per le operazioni garantite dai Confidi. Il dl Fare rilancia pure i contratti di sviluppo, disciplinati dall'articolo 43 del dl n. 112/2008 e attuati con dm 24/09/2010. In arrivo 150 milioni di euro una tantum nelle regioni attualmente prive di copertura finanziaria.
Un decreto Mse dovrà definire modalità e termini: l'importo complessivo dei costi ammissibili degli investimenti oggetto del contratto di sviluppo non potrà essere inferiore a 20 milioni di euro con riferimento ai programmi di sviluppo industriale e a 7,5 milioni di euro qualora i programmi riguardino esclusivamente attività di trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli. Infine, debutta l'indennizzo agli operatori per i ritardi della p.a. (che resta istituto diverso dal risarcimento del danno ingiusto da ritardo già previsto dalla legge n. 241/1990). La lentezza costerà all'amministrazione 30 euro al giorno. Sarà dovere del proponente attivarsi per ricevere l'indennizzo, entro 20 giorni dalla scadenza non rispettata dall'ente.
Il meccanismo si applicherà ai procedimenti relativi all'avvio e all'esercizio di attività imprenditoriale iniziati successivamente all'entrata in vigore della legge di conversione. Previsto il potere sostitutivo di un altro ente pubblico per completare il procedimento. Laddove nemmeno questo agisca, l'istante può adire il giudice amministrativo: in questo caso il contributo unificato è ridotto alla metà, ma se il Tar dichiara inammissibile la questione il contributo lievita da due a quattro volte (tratto da ItaliaOggi del 20.08.2013).

ENTI LOCALI - VARIDECRETO DEL FARE/ Scatta la riduzione del 30% per chi paga entro 5 giorni.
Multe stradali, partono i saldi. C'è tempo pure per chi è stato sanzionato a Ferragosto.
Da domani si potranno pagare le multe entro 5 giorni con lo sconto del 30% e anche chi è stato pizzicato subito dopo Ferragosto ha qualche ora a disposizione per essere ammesso al beneficio. Ha specificato infatti il Viminale che hanno diritto alla riduzione anche i trasgressori incorsi nella notifica dell'infrazione qualche giorno prima dell'entrata in vigore della riforma purché ancora nei termini per pagare in misura ridotta.

Sono queste le conseguenze più importanti derivanti dall'entrata in vigore della legge 98/2013 di conversione del dl 69/2013 (dl del fare).
Lo sconto sulle multe riguarda la generalità delle infrazioni stradali meno gravi, compresi i tradizionali divieti di sosta e le altre negligenze quotidiane. Attenzione però ai verbali spediti in queste ore. Di certo le multe in consegna postale in questi giorni non potranno ancora riportare per esteso l'importo esatto da pagare. Lo sconto del 30% però non potrà essere applicato sull'importo finale ma solo sull'importo edittale aggiungendo le spese del procedimento all'esito della riduzione, senza arrotondamenti.
In buona sostanza per i primi giorni di avvio della riforma al ricevimento della multa sarà meglio rivolgersi al comando per chiedere il conteggio esatto della multa ridotta. Il rischio, diversamente, è di vedersi recapitare una cartella esattoriale con una cifra esorbitante a distanza di tempo. Buone notizie anche per chi è incorso in una infrazione stradale subito dopo Ferragosto.
Come ha specificato il ministero dell'interno, organo di coordinamento dei servizi di polizia stradale, con la circolare del 12 agosto, potranno avvalersi dello sconto anche i destinatari di una multa ricevuta qualche giorno prima dell'entrata in vigore della riforma. Purché gli interessati si affrettino a pagare e la quietanza avvenga comunque entro 5 giorni dalla notifica o contestazione dell'infrazione.
Attenzione infine ai verbali per divieto di sosta lasciati sui veicoli. Anche se non è scritto da nessuna parte anche queste multe potranno essere pagate con lo sconto del 30%. Almeno fino al momento della notifica postale del verbale vero e proprio che potrà essere ridotto aggiungendo le spese (tratto da ItaliaOggi del 20.08.2013).

APPALTIP.a., appalti senza solidarietà. L'amministrazione non paga i dipendenti degli appaltatori. Il decreto lavoro (dl 76/2013) esclude l'applicazione della legge Biagi al settore pubblico.
La legge Biagi non si applica alle pubbliche amministrazioni. Il decreto 76/2013, convertito in legge dalla camera (atto C-1458), esclude per i contratti pubblici la solidarietà delle stazioni appaltanti per il pagamento di salari ai dipendenti degli appaltatori, previsto dall'articolo 29 del dlgs 276/2003.
La norma è retroattiva e si applica a tutti i rapporti pendenti. Il decreto-legge invece, estende la tutela ai lavoratori autonomi negli appalti privati e detta la prevalenza delle forme di tutela dei lavoratori previste nella contrattazione collettiva. Ma vediamo il contenuto dell'articolo 9 del decreto 76/2013 e i suoi possibili effetti.
Contratti pubblici. Il decreto 76/2013, all'articolo 9, comma 1, come spiegano i lavori parlamentari, esclude dall'ambito dell'intero regime di solidarietà disciplinato dall'articolo 29 del dlgs 276/2003 i contratti di appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni (di cui all'art. 1, comma 2, del dlgs n. 165/2001).
In particolare non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni quanto disposto dal comma 2 del dlgs 276/2003. Questa norma stabilisce che in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, e anche con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto.
L'articolo 29 del dlgs 276/2003 è oggetto di diverse interpretazioni, proprio con riferimento agli appalti pubblici: alcune sentenze ritengono che la norma si applichi anche alle pubbliche amministrazioni. Chi propende per questa impostazione (e i tribunali in maggior parte vanno in questa direzione) fa leva sulla prevalente finalità di tutela del lavoratore: uno scopo che bisogna raggiungere anche quando il committente è un ente pubblico, per evitare discriminazione tra i lavoratori.
A favore della tesi contraria, che esclude le p.a. dall'articolo 29 della legge Biagi, ci sono considerazioni che riguardano la portata letterale della norma: l'articolo 29 non fa riferimento agli appalti pubblici; l'articolo 29 fa riferimento a committenti-imprese e tali non sono le pubbliche amministrazioni; poi l'articolo 2 della legge Biagi sembra escludere le p.a. dall'ambito di applicazione. Si sostiene, ancora, che l'articolo 29 è incompatibile con la disciplina degli enti pubblici nella parte in cui prevede l'assunzione dei lavoratori danneggiati presso il committente: nessun giudice, per il vero, ritiene che, a seguito della azione per far valere la responsabilità solidale, il lavoratore dell'appaltatore debba essere assunto dalla p.a. appaltante.
Se l'articolo 29 non si applica in una parte significativa (obbligo di assunzione) allora, si dice, vuol dire che non si applica alla p.a. nella sua interezza.
Il decreto legge 76/2013 ha fatto, ora, una scelta nel senso dell'esclusione della solidarietà ex articolo 29 dlgs 276/2003.
Va aggiunto che rimangono vigenti il codice civile e il regolamento del codice dei contratti pubblici (dpr 207/2010), che contiene norme specifiche per l'ipotesi di mancato pagamento dei salari: l'ente pubblico può pagare direttamente i lavoratori, ma solo nel limite di quanto eventualmente dovuto all'impresa appaltatrice.
Quanto all'ambito di applicazione va sottolineato che il decreto legge 76/2013 si autodefinisce, nella relazione di accompagnamento, quale norma di interpretazione autentica: questo significa, quindi, che si applica a tutti i rapporti pendenti, comprese le controversie in corso.
Lavoro autonomo. Il comma 1 dell'articolo 9 del decreto legge 76/2013 riguarda la responsabilità solidale del committente imprenditore o datore di lavoro e dell'appaltatore, nonché degli eventuali subappaltatori, con riferimento ai trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, ai contributi previdenziali ed ai premi assicurativi, dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto di opere o di servizi.
Il regime di responsabilità solidale dell'articolo 29 della legge Biagi viene esteso ai compensi e agli obblighi di natura previdenziale ed assicurativa nei confronti dei lavoratori con contratto di lavoro autonomo.
Contratti collettivi. Il decreto 76/2013, articolo 9, specifica che le eventuali clausole dei contratti collettivi hanno effetto esclusivamente in relazione ai trattamenti retributivi dovuti ai lavoratori impiegati nell'appalto (o nel subappalto), con esclusione di qualsiasi effetto sul regime di responsabilità solidale relativo ai contributi previdenziali ed assicurativi; tale norma limita, dunque, l'ambito di applicazione della norma che fa salve le diverse disposizioni dei contratti collettivi nazionali, che individuino metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti (tratto da ItaliaOggi del 20.08.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI: Regioni, diritto d'accesso dei consiglieri a prova di privacy. Parere favorevole del garante al regolamento sul trattamento dei dati sensibili.
Accesso dei consiglieri regionali nel rispetto della privacy delle persone. I politici hanno ampia facoltà di conoscenza, ma devono limitarsi a chiedere documenti strettamente pertinenti il mandato elettivo.
Lo ha specificato il garante della privacy con un parere favorevole all'integrazione del regolamento tipo sul trattamento dei dati sensibili effettuato dai consigli e dalle assemblee legislative delle regioni e delle province autonome (provvedimento 25.07.2013 n. 370).
Nel parere il garante indica prescrizioni per il caso di richieste di accesso da parte dei consiglieri, al fine di evitare strumentalizzazioni ai danni della riservatezza delle persone individuate negli atti regionali. Si tratta di un bilanciamento tra il diritto di accesso del consigliere, ampiamente riconosciuto dalla giurisprudenza quale diritto politico primario, e il diritto alla riservatezza degli individui, i cui dati personali sono conoscibili dal politico.
La Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e delle province autonome ha chiesto il parere del garante in ordine a una versione aggiornata dello schema tipo di regolamento per il trattamento di dati personali sensibili e giudiziari da effettuarsi presso i consigli e le assemblee legislative delle regioni e delle province autonome.
In base al codice della privacy le regioni e le province autonome, come gli altri soggetti pubblici, possono trattare i dati sensibili e giudiziari, in base ad un'espressa disposizione di legge nella quale siano specificati i tipi di dati, le operazioni eseguibili e le finalità di rilevante interesse pubblico perseguite.
Per le regioni, le province autonome, le aziende sanitarie, gli enti e agenzie regionali/provinciali, gli enti vigilati dalle regioni e dalle province autonome nel 2006 è stato predisposto un primo schema tipo di regolamento aggiornato nel 2012 (Provvedimento del garante del 26.07.2012).
Analogamente per i consigli e le assemblee legislative delle regioni e delle province autonome è stato predisposto un primo regolamento tipo nel 2006, aggiornato nel 2008 e rivisto ora nel 2013..
Nel parere il garante si sofferma sui trattamenti di dati sensibili e giudiziari effettuati nello svolgimento delle attività di controllo, d'indirizzo politico e di sindacato ispettivo. Il garante rileva che nella scheda relativa a tal trattamenti non sono descritti in maniera dettagliata e specifica i trattamenti effettuati presso i consigli e le assemblee legislative per consentire l'accesso ai documenti, riconosciuto dalla legge e dai regolamenti consiliari o assembleari, per esclusive finalità direttamente connesse all'espletamento di un mandato elettivo.
Nei regolamenti, invece, è necessario integrare la descrizione del trattamento specificando che le richieste dei consiglieri delle regioni e delle province autonome possono essere legittimamente accolte soltanto se risultino, appunto, utilmente ricondotte alle «esclusive» finalità di rilevante interesse pubblico «direttamente connesse all'espletamento di un mandato elettivo». Sempre nella descrizione del trattamento, per il garante, è opportuno precisare che nel rispondere ai consiglieri i consigli e le assemblee legislative devono adottare modalità tali da assicurare che l'accesso del consigliere sia esercitato, in concreto, in modo da comportare il minor pregiudizio possibile alla vita privata delle persone cui si riferiscono i dati contenuti nei documenti oggetto dell'istanza di accesso. Si tratta di una precauzione finalizzata a limitare il diritto di accesso del consigliere s ai dati effettivamente utili per l'esercizio del mandato e ai fini di questo.
Il garante aggiunge che i dati personali eventualmente acquisiti dal consigliere possono essere utilizzati per le sole finalità realmente pertinenti al mandato. Sulla scorta del parere favorevole del garante i consigli regionali potranno aggiornare i propri regolamenti. Se si adeguano allo schema tipo aggiornato di regolamento, non devono sottoporre singolarmente i propri atti al garante per il parere. Il garante sottolinea nel parere, infine, che eventuali ulteriori trattamenti di dati sensibili e/o giudiziari non considerati nell'odierno schema tipo non potranno essere effettuati (tratto da ItaliaOggi del 20.08.2013).

EDILIZIA PRIVATADetrazione del 36-50% anche per la seconda casa.
Sulle spese per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio spetta una detrazione dall'Irpef del 36% (50% per i pagamenti effettuati dal 26.06.2012 al 31.12.2013).
Interventi agevolati
L'agevolazione consiste nella possibilità di ridurre l'Irpef lorda da pagare del 36-50% delle spese sostenute, nei limiti di 48mila euro per unità immobiliare (96mila euro per i pagamenti effettuati dal 26.06.2012 al 31.12.2013), per la realizzazione degli interventi di manutenzione straordinaria (anche ordinaria per le parti comuni condominiali), di restauro e risanamento conservativo, di ristrutturazione edilizia, «effettuati sulle singole unità immobiliari residenziali di qualsiasi categoria catastale, anche rurali, possedute o detenute e sulle loro pertinenze».
Sono agevolati anche i cosiddetti «altri interventi» indicati nell'articolo 16-bis, comma 1, lettere da c) a l), Tuir, come la ricostruzione o il ripristino di immobili danneggiati da eventi calamitosi, la realizzazione di autorimesse o posti auto pertinenziali, l'eliminazione delle barriere architettoniche, la prevenzione di atti illeciti di terzi, la cablatura di edifici, il contenimento dell'inquinamento acustico, le misure antisismiche, la bonifica dall'amianto, la riduzione degli infortuni domestici e il conseguimento di risparmi energetici (compreso il fotovoltaico).
Non è necessario che l'unità immobiliare oggetto dell'intervento agevolato sia adibita ad abitazione principale o che si trasferisca lì la propria residenza.
Non si può applicare l'incentivo fiscale nell'ipotesi in cui vengano realizzate nuove costruzioni, o, comunque, realizzati volumi autonomi rispetto ad una unità immobiliare principale, in quanto gli edifici agevolati devono essere già censiti al Catasto o deve essere stato già richiesto l'accatastamento.
L'agevolazione Irpef del 36-50% spetta anche nel caso di interventi edilizi riguardanti interi fabbricati, eseguiti da imprese, che provvedano entro sei mesi dalla data di termine dei lavori alla vendita dell'immobile. In particolare, lo sconto fiscale, che spetta all'acquirente, è pari al 36-50% del 25% del prezzo risultante nell'atto pubblico di compravendita e, comunque, entro l'importo massimo di 48mila euro (96mila euro per i pagamenti effettuati dal 26.06.2012 al 31.12.2013). L'agevolazione spetta solo per l'acquisto di unità immobiliari situate in edifici che siano stati completamente oggetto degli interventi di recupero edilizio agevolati. Si parla, infatti, di lavori su «interi fabbricati» e non solo su una parte di essi. È negata l'agevolazione anche nel caso in cui l'intervento, solo su una parte del fabbricato, sia rilevante.
Soggetti agevolati
Può usufruire della detrazione Irpef del 36-50% chi contemporaneamente ha sostenuto le spese agevolate, è un soggetto passivo dell'Irpef (residenti o non) ed è possedere o detenere, «sulla base di un titolo idoneo, l'immobile sul quale sono effettuati gli interventi». Relativamente a quest'ultimo punto, possono beneficiare dell'agevolazione il proprietario, il nudo proprietario, il titolare di un diritto reale sull'immobile (uso, usufrutto, abitazione), l'inquilino, il comodatario, il socio di cooperative non a proprietà indivisa, assegnatario di alloggio anche se non ancora titolare di mutuo individuale (possessore) o quello di cooperative a proprietà indivisa, assegnatario di alloggi (detentore). Le istruzioni del modello Unico PF comprendono tra i titoli idonei a detenere l'immobile anche la concessione demaniale.
La detrazione Irpef sulle ristrutturazioni edilizie spetta anche ai familiari conviventi del proprietario, dell'inquilino, del comodatario o del titolare di un diritto reale (uso, usufrutto, abitazione) sull'immobile oggetto dell'intervento, a patto che sostengano le spese dell'intervento a loro fatturate tramite bonifico e che la convivenza nell'abitazione da ristrutturare esista già al momento in cui iniziano i lavori. Questo evento va certificato con una dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà, se la normativa non prevede alcun titolo abilitativo per lo specifico intervento agevolato al 36-50 per cento.
Quindi, se quando si iniziano i lavori, il familiare che vuole effettuare e pagare le opere non convive nell'abitazione da ristrutturare con il familiare possessore o detentore dell'immobile, l'unica possibilità che ha di ottenere l'agevolazione del 36-50% è quella di possedere o detenere lui l'immobile. Quindi, se non si rispettano i requisiti come familiare convivente, deve essere il nudo proprietario, il titolare di un diritto reale sull'immobile, l'inquilino, il comodatario o il socio di cooperative. Ciò deve essere verificato alla data di inizio del lavori e indipendentemente da dove ha la residenza (tratto da Il Sole 24 Ore del 20.08.2013).

APPALTIAppalti, anticipo con garanzia. Serve fideiussione bancaria svincolabile gradualmente. Gli effetti delle novità introdotte dal dl fare: sul prezzo conta il costo del personale.
Reintrodotta l'anticipazione del 10% per gli appalti di lavori, anche se facoltativa e fino a fine 2014; più difficile fare grandi appalti e non suddividere in lotti; il prezzo più basso va valutato al netto del costo per il personale; rafforzato l'obbligo di verifica dei requisiti di gara attraverso la banca dati dei contratti pubblici; rinviato il performance bond a giugno 2014; agevolata la qualificazione delle imprese di costruzioni e la partecipazione alle gare dei progettisti.
Sono queste alcune delle novità approvate con la definitiva conversione in legge, il 9 agosto scorso, del dl 69/2013 (cosiddetto del fare), che contiene anche alcune importanti disposizioni in materia di sblocco dei cantieri, avvio di piccole e medie opere sul territorio («programma dei 6.000 campanili») e stanziamenti per la ristrutturazione delle scuole
Il decreto legge contiene quindi l'ennesimo intervento sul Codice dei contratti pubblici (dlgs 163/2006), in una generale e complessiva ottica di agevolazione dell'operato delle imprese che ogni giorno si confrontano con il sistema delle procedure di appalto pubblico.
Rappresenta una effettiva novità, di cui però si dovrà verificare la reale applicazione sul campo, la reintroduzione della anticipazione contrattuale per gli appaltatori di lavori.
La norma approvata prevede infatti non un obbligo, bensì una mera facoltà per le amministrazioni, in deroga ai vigenti divieti di anticipazione del prezzo, di procedere al riconoscimento all'appaltatore di una anticipazione pari al 10% dell'importo contrattuale.
Quindi niente obbligo ma facoltà, peraltro ammessa per le gare bandite dopo l'entrata in vigore della legge di conversione del decreto 69 e fino a fine dicembre 2014. Dipenderà ovviamente dalle disponibilità di cassa delle stazioni appaltanti che comunque, dovranno indicare nel bando di gara che provvederanno a corrispondere l'anticipazione. La disposizione richiama anche gli articoli 124, commi 1 e 2, e l'articolo 140, commi 2 e 3 del dpr 207/2010 (Regolamento del codice) in base ai quali si prevede che l'anticipazione sia subordinata alla costituzione di una garanzia fideiussoria bancaria o assicurativa gradualmente svincolata nel corso dei lavori.
Il decreto interviene anche sulla disciplina del performance bond differendo ancora una volta l'entrata in vigore della garanzia globale di esecuzione di quasi un anno, a fine giugno 2014.
Sugli obblighi di verifica dei requisiti dichiarati in sede di gara viene rafforzata la validità del sistema fondato sulla Banca dati nazionale dei contratti pubblici (Bdncp) costituita presso l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici che ha messo a punto un articolato meccanismo informatico (Avcpass) che dovrebbe diventare obbligatorio a inizio 2014. Il decreto rafforza tale obbligo di verifica prevedendo che l'utilizzo di tale sistema sia l'unico meccanismo, decorsi tre mesi dalla pubblicazione della legge di conversione del decreto legge n. 69. Importante anche la norma sulla suddivisione in lotti degli appalti, strumento a tutela delle piccole e medie imprese spesso emarginate dalla pratica spesso utilizzata negli ultimi anni, dei maxilotti.
Il principio oggi in vigore è che la stazione appaltante, al fine di favorire l'accesso delle piccole e medie imprese, deve ove possibile ed economicamente conveniente suddividere gli appalti in lotti funzionali, il decreto aggiunge l'obbligo per le stazioni appaltanti di motivare, nella determina a contrarre, l'eventuale mancata suddivisione in lotti e impone di tenere conto di tale profilo anche nell'ambito delle comunicazioni che ciclicamente devono essere inviate all'Osservatorio presso l'Autorità. Sul fronte della qualificazione delle imprese di costruzioni si stabilisce che, fino a fine 2015, sarà possibile documentare i requisiti sulla cifra d'affari globale in lavori, sulle attrezzature e sull'organico con riguardo al decennio e non più al quinquennio né ai migliori cinque anni del decennio.
Viene inoltre prorogata l'applicazione della norma che consente, nelle gare per servizi di ingegneria e architettura di importo superiore ai 100.000 euro, di documentare i requisiti di partecipazione alle gare con riferimento (per il fatturato) ai migliori cinque anni del decennio e (per l'organico medio annuo) rispetto ai tre migliori anni dell'ultimo quinquennio. Infine di rilievo la norma che dispone che il prezzo più basso venga determinato al netto delle spese relative al costo del personale; così facendo il costo del personale non figurerà più nell'elemento prezzo e quindi non deve essere più sottoposto a verifica di congruità (tratto da ItaliaOggi Sette del 19.08.2013).

ENTI LOCALI - VARI: Col pos è più caro. Aumentano i costi delle multe. Conciliazione in strada, chiarimenti della polizia.
Per conciliare in strada, quando ammesso, la polizia di stato ha fornito alle pattuglie dei terminali elettronici che però aggravano il procedimento di almeno 5 euro. Anche un soggetto terzo però può effettuare la transazione a favore del trasgressore previa identificazione dello stesso.
Lo ha chiarito il compartimento della polizia stradale di Bologna con la nota 03.07.2013 n. 19061/110A.3.
In attesa dell'imminente via libera alla riforma che sdoganerà completamente i pagamenti elettronici in strada, riducendo anche i costi delle operazioni, la polizia stradale da qualche mese si è organizzata per consentire ai trasgressori che attualmente possono pagare in strada per non vedersi aggravare il procedimento sanzionatorio di procedere in tal senso. Il riferimento specifico della circolare è agli articoli 207 e 202 del codice stradale che attualmente fanno riferimento al pagamento immediato dei conducenti di veicoli stranieri oppure agli esercenti attività di autotrasporto professionale.
In buona sostanza per questa categoria di trasgressori da qualche anno è stato reintrodotta la possibilità di pagare subito in strada all'organo accertatore. Per semplificare questa procedura, in attesa dell'annunciato allargamento del pagamento elettronico per tutti i trasgressori la polizia stradale ha disciplinato la procedura da seguire. Le spese forfettarie che vengono richieste in caso di utilizzo dei pos in dotazione alla pattuglia sono pari a 5 euro, specifica la nota felsinea. Il capopattuglia ha l'obbligo di identificare il soggetto che effettua la transazione che però non deve essere necessariamente il trasgressore. Oltre alla spesa forfettaria di 5 euro per ogni multa di importo superiore a 77,47 euro però andrà aggiunto anche l'imposta di bollo da 2 euro.
Se al conducente sono contestate due violazioni, per una sola delle quali è previsto il pagamento immediato, andranno redatti due verbali, prosegue la circolare. Se le violazioni contestate sono tutte immediatamente oblabili sarà invece possibile redigere un solo verbale e risparmiare quindi sulle spese. In questo caso con 5 euro si può fare fronte al pagamento di tutti i verbali (tratto da ItaliaOggi Sette del 19.08.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATATerre da scavo autocertificate. Semplificati ed estesi i casi in cui il riutilizzo non richiede un piano ad hoc.
Costruzioni. La documentazione sul reimpiego resta indispensabile solo per le opere maggiori soggette a Via o ad Aia.
Anche le terre e rocce da scavo trovano la loro semplificazione. Già per i piccoli cantieri, il decreto "emergenze" (Dl 43/2013 convertito in legge n. 71/2013), aveva sancito l'esonero, per tutti quelli sotto i 6mila metri cubi di produzione di terre e rocce da scavo dai tanti adempimenti previsti per il riutilizzo del materiale, e in particolare dal Dm 161/2012.
Questo decreto, dunque, continuava a trovare applicazione solo per i cantieri di opere sottoposte a Valutazione di impatto ambientale (Via) o Autorizzazione integrata ambientale (Aia). Si poneva, quindi, il dubbio di quale disciplina continuasse ad applicarsi a tutti gli altri cantieri: in assenza di norme ad hoc, infatti, questi sarebbero nuovamente ricaduti nell'ambito di applicazione dell'articolo 186 del Codice ambiente (Dlgs 152/2006).
La conversione in legge del decreto del fare (Dl 69/2013) ha invece introdotto una procedura semplificata per tutti i cantieri non sottoposti a Via o Aia.
Il nuovo articolo 41-bis del Dl 69, infatti, condiziona il riutilizzo dei materiali da scavo provenienti da piccoli cantieri e dagli altri non soggetti a Via o Aia a quattro condizioni fondamentali:
- la destinazione di riutilizzo anche presso più siti deve essere certa e determinata;
- i materiali da scavo devono rispettare le Csc (concentrazioni soglia di contaminazione) compatibili con il sito di destino e non devono costituire una fonte di contaminazione per le acque di falda;
- l'utilizzo non deve comportare rischi per la salute o variazioni negative delle emissioni rispetto alle normali materie prime;
- i materiali da scavo non devono essere sottoposti a preventivi trattamenti fatta eccezione per la normale pratica industriale.
A queste condizioni, il riutilizzo è possibile mediante autocertificazione del proponente all'Arpa con indicazione delle quantità di materiali destinati al riutilizzo, del sito di deposito e dei tempi previsti per il riutilizzo (indicativamente un anno, salvo che l'opera per il riutilizzo necessiti di tempi più lunghi). Il completo riutilizzo dei materiali da scavo, dunque, deve essere poi comunicato ad Arpa dal produttore.
La nuova disciplina contiene evidenti semplificazioni in quanto si fonda sostanzialmente su una procedura autocertificata, attivata e conclusa dal proponente sotto il controllo di Arpa.
Tuttavia, alcuni aspetti non sono stati regolamentati e, quindi, sarà la prassi applicativa (anche attraverso circolari) a dover colmare le lacune.
In particolare, non è chiaro quando la dichiarazione di utilizzo debba essere presentata all'Arpa (prima, dopo o durante gli scavi). Inoltre, le informazioni da inserire nell'autodichiarazione sono vaghe o non complete: si chiede di indicare il sito di deposito, ma non il sito di destino (probabile svista), si chiede di dichiarare la conformità alle Csc, ma non si indicano le modalità di indagine.
Inoltre, le attività di scavo, così come gli interventi di riutilizzo devono comunque essere autorizzate dagli enti competenti in quanto attività edilizie vere e proprie e, quindi, il processo in autocertificazione dovrà comunque essere coordinato con l'iter edilizio.
L'articolo 41-bis, infine, abroga l'articolo 8-bis del Dl 43/2013 pur confermandone i contenuti, ossia esclude dall'ambito di applicazione del Dm 161 tutti i piccoli cantieri e gli altri cantieri non sottoposti a Via o Aia), ribadendo così che il tanto discusso Dm 161 avrà un campo di applicazione limitato alle grandi opere.
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Le condizioni
01 | IL RAGGIO DI AZIONE
La procedura semplificata di riutilizzo riguarda tutti i cantieri non soggetti a Via o Aia, compresi i piccoli sotto i 6mila mc di produzione di terre e rocce da scavo
02 | LE CONDIZIONI
Il riutilizzo è possibile se la destinazione di riutilizzo è certa, se sono rispettate le soglie di concentrazione del sito di destino, se non ci sono rischi per la salute e se i materiali non vengono sottoposti a trattamenti preventivi
03 | GLI ADEMPIMENTI
Il proponente deve attestare all'Arpa il rispetto delle condizioni di riutilizzo. Al termine, il proponente deve dare comunicazione scritta all'Arpa. Inviariate le procedure per i titoli edilizi  
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Gli adempimenti. Occorre verificare eventuali contaminazioni. Test di cessione obbligatorio per i riporti.
Prima di utilizzare terreno da riporto è necessario ora sottoporlo al test di cessione per escludere che esso rappresenti una fonte di contaminazione. La novità sull'annoso problema dei riporti è contenuta nel decreto del fare.
In passato si era discusso se i riporti (ossia terreno misto a materiali di demolizione o simili) dovessero essere necessariamente trattati come rifiuti, ovvero potessero essere gestiti come terreno vero e proprio.
L'articolo 3 del Dl 2/2012 (convertito nella legge 28/2012) conteneva una interpretazione autentica secondo cui i riporti dovevano essere equiparati al suolo e, quindi, a una matrice ambientale vera e propria. L'allegato 9 al Dm 161/2012, poi, aveva introdotto specifiche condizioni per il riutilizzo dei riporti scavati, prevedendo che la componente antropica presente non potesse essere superiore al 20 per cento.
Si poteva, quindi, ritenere che il materiale di riporto non scavato potesse essere trattato come terreno in situ e, se contaminato, assoggettato alle procedure di bonifica (Dlgs n. 152/2006), mentre quello oggetto di scavo poteva essere riutilizzato nel medesimo sito, ovvero gestito come sottoprodotto nei limiti di quanto previsto dal Dm 161/2012.
Il decreto del fare tuttavia, è ritornato sul punto, modificando sostanzialmente questa interpretazione. La novità è rappresentata dalla necessità di sottoporre il materiale di riporto al test di cessione e ciò per considerare i riporti come terreno non scavato, ovvero come terreno scavato e riutilizzato nel medesimo sito.
L'esenzione dalla disciplina sui rifiuti (articolo 185 del Dlgs 152/2006) varrebbe, infatti, solo nel caso in cui i riporti risultino conformi ai test di cessione. Altrimenti, per espressa disposizione del legislatore, il riporto costituisce fonte di contaminazione e,quindi, deve essere rimosso o reso conforme al test di cessione attraverso trattamento o messa in sicurezza permanente.
Quest'ultimo passaggio apre a diversi dubbi applicativi. Non si comprende, infatti, se il riporto equiparato a una fonte di contaminazione diventi rifiuto, ovvero debba essere considerato terreno contaminato.
Da un lato, il test di cessione è una verifica tipicamente applicata ai rifiuti, dall'altro gli interventi previsti dal legislatore per i riporti non conformi (rimozione, operazioni di trattamento e messa in sicurezza permanente) farebbero propendere per l'assoggettamento degli stessi ad un intervento di bonifica.
Questa seconda lettura della norma, peraltro, sarebbe maggiormente in linea con l'originaria interpretazione autentica introdotta dal decreto salva Italia, che vorrebbe equiparare i riporti a una matrice ambientale.
Poiché la legge di conversione del Dl 69 non ha chiarito il punto, la disposizione potrebbe essere interpretata ritenendo che il riporto non conforme sia trattato come rifiuto quando debba comunque essere scavato, mentre possa essere gestito in procedura di bonifica quando debba essere mantenuto in sito
(tratto da Il Sole 24 Ore del 19.08.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente. Obiettivo risparmio idrico. Lavori sostenibili per bonificare le acque di falda.
IL TRATTAMENTO/ Necessario sottoporre a depurazione la quantità prelevata prima di immetterla di nuovo nel collettore.

Il decreto del fare (Dl 69/2013) si occupa anche di gestire le acque di falda contaminate (cosiddette acque emunte) attraverso una modifica all'articolo 243 del Codice dell'ambiente (Dlgs 152/2006).
I correttivi apportati in sede di conversione (articolo 41 del Dl 68/2013) sono significativi.
Infatti, mentre il decreto legge originario sembrava introdurre un regime di favore alla gestione delle acque di falda contaminate ed emunte (interventi in presenza di un rischio sanitario e programmati con l'obiettivo di ridurre il rischio), in sede di conversione il legislatore è intervenuto sensibilmente, chiarendo che l'obiettivo primario da soddisfare è arrestare la contaminazione.
Infatti, oltre alle misure di sicurezza e prevenzione (incluso il barrieramento idraulico), devono essere adottate le migliori tecnologie disponibili per eliminare o isolare le fondi di contaminazione dirette o indirette.
Viene meno, dunque, l'obiettivo di prevenire o ridurre a livelli accettabili il rischio sanitario associato alla contaminazione della falda attraverso il minor sacrificio economico, previsto in origine dal decreto.
Rimane, invece, il chiaro intento a voler incentivare l'utilizzo delle acque emunte in cicli produttivi al fine di conseguire il risparmio delle risorse idriche, così come viene confermato che il barrieramento fisico rimane l'ultima ratio di intervento, qualora non ci siano misure alternative.
Per l'assimilazione delle acque emunte alle acque reflue industriali, i commi 3 e 4 del nuovo articolo 243 del Dlgs 152/2006 prescrivono che queste dovranno essere sottoposte a un trattamento depurativo e convogliate dal punto di prelievo al punto di immissione - senza soluzione di continuità - tramite un sistema stabile di collettamento. In tal caso, le acque emunte saranno equiparate alle acque reflue industriali e, quindi, sottoposte alla disciplina degli scarichi del Codice dell'ambiente.
La procedura di emungimento, riutilizzo nel circolo produttivo e reimmissione delle acque emunte deve essere esplicitata e, quindi, autorizzata nel progetto di bonifica presentato dall'operatore.
Le acque trattate possono essere reimmesse in falda a condizione che non contengano acque di scarico o altre sostanze, fatte salve le sostanze utilizzate e autorizzate per la bonifica (tratto da Il Sole 24 Ore del 19.08.2013).

APPALTIContratti pubblici. La scelta di mantenere l'accorpamento va motivata nella determinazione.
Appalti frazionati per tutelare le Pmi.
Gli appalti devono essere suddivisi in lotti e, in caso contrario, le amministrazioni aggiudicatrici devono indicare nel bando le ragioni che hanno determinato la gestione unitaria.

La legge di conversione del Dl 69/2013 (decreto del fare) potenzia le misure previste nell'articolo 2 del Codice dei contratti pubblici per favorire la partecipazione delle piccole e medie imprese alle gare di appalto, rafforzando l'obbligo di suddivisione funzionale delle prestazioni (lavori, servizi e forniture), ove possibile ed economicamente conveniente, stabilendo (articolo 26-bis) che nella determinazione a contrarre le stazioni appaltanti debbano indicare la motivazione circa la mancata suddivisione dell'appalto in lotti.
La connessione
Per gli appalti di lavori, questo elemento sarà facilmente desumibile dall'unitarietà del progetto in rapporto all'opera da aggiudicare (fatta eccezione per gli appalti a stralci), mentre per le forniture di beni e servizi l'analisi giustificativa dovrà evidenziare l'interconnessione tra le varie prestazioni e l'impossibilità di renderle in maniera distinta.
La partizione in lotti funzionali di un appalto deve peraltro essere vagliata sulla capacità del singolo lotto di assolvere autonomamente all'esigenza dell'amministrazione.
La suddivisione (o la scelta della gestione unitaria) devono essere anche comunicate all'autorità di vigilanza sui contratti pubblici (Avcp), nell'ambito delle informazioni relative alle procedure di aggiudicazione previste dall'articolo 7 del Codice dei contratti.
L'anticipazione
Un ulteriore elemento di grande interesse (anche se si tratta di una sorta di ritorno al passato) è previsto dall'articolo 26-ter della legge di conversione del decreto fare, il quale reintroduce l'anticipazione del prezzo per i soli appalti di lavori pubblici.
La scelta deve essere pubblicizzata nel bando dall'amministrazione aggiudicatrice, che dovrà corrispondere all'appaltatore all'avvio delle prestazioni il 10% dell'importo contrattuale. Nel caso di contratti di appalto relativi a lavori di durata pluriennale, l'anticipazione va compensata fino alla concorrenza dell'importo sui pagamenti effettuati nel corso del primo anno contabile.
L'utilizzo di questa possibilità favorisce le imprese nella gestione dei lavori, ma implica contestualmente per le stazioni appaltanti una maggiore attenzione nella fase di avvio dei lavori (peraltro dettagliatamente disciplinata dal Dpr 207/2010).
Il Durc
La semplificazione dei rapporti tra le amministrazioni e gli appaltatori è sostenuta anche dalle disposizioni sul Durc (articolo 31), che rafforzano l'obbligo di acquisizione d'ufficio del documento, introducendo tuttavia due grandi novità.
Le disposizioni della legge di conversione del Dl 69/2013 stabiliscono infatti che il certificato di regolarità contributiva ha validità per centoventi giorni dalla data del rilascio (riducendo il termine di 180 inizialmente previsto dal decreto) e che può essere utilizzato entro questo arco temporale per i pagamenti degli stati di avanzamento.
Qualora l'amministrazione aggiudichi un altro appalto a un'impresa e disponga di un Durc validito riferito alla stessa impresa in relazione a un rapporto contrattuale già in essere, può utilizzare questo documento per i controlli di regolarità contributiva riferiti all'aggiudicazione e alla stipula del contratto per il nuovo appalto (tratto da Il Sole 24 Ore del 19.08.2013).

LAVORI PUBBLICIConcessioni, garanzie sui piani economici. Credito e coperture. Rafforzare la bancabilità.
Le concessioni di costruzione e gestione di opere pubbliche devono essere impostate con una disciplina dettagliata del piano economico-finanziario e in modo tale da consentire in modo accurato la verifica di bancabilità.

L'articolo 19 del decreto del fare (Dl 69/2013 convertito in legge dal Parlamento) è stato integrato da numerose disposizioni introdotte in fase di conversione, tutte finalizzate a garantire la piena realizzabilità dell'opera. Per rendere chiaro il quadro di risorse e le condizioni di gestione, la convenzione deve definire i presupposti e le condizioni di base del piano economico-finanziario le cui variazioni non imputabili al concessionario, se determinano una modifica dell'equilibrio del piano, comportano la sua revisione.
La convenzione deve contenere inoltre una definizione di equilibrio economico finanziario che faccia riferimento a indicatori di redditività e di capacità di rimborso del debito, nonché la procedura di verifica e la cadenza temporale degli adempimenti connessi.
Per assicurare adeguati livelli di bancabilità, le nuove disposizioni richiedono una più ampia esplicitazione degli strumenti di reperimento delle risorse, prevedendo anche la risoluzione del contratto qualora, entro un termine massimo di 24 mesi, il concessionario non sia pervenuto alla sottoscrizione di un contratto di finanziamento o all'emissione delle obbligazioni di progetto necessarie sempre per la provvista finanziaria.
Peraltro, proprio per rafforzare le dinamiche economiche dell'opera, il bando può prevedere che l'offerta sia corredata dalla dichiarazione sottoscritta da uno o più istituti finanziatori di manifestazione di interesse a finanziare l'operazione, anche in considerazione dei contenuti dello schema di contratto e del piano economico-finanziario (tratto da Il Sole 24 Ore del 19.08.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: Se la Pa ritarda scatta l'indennizzo. Trenta euro al giorno per il mancato rispetto dei termini per l'avvio dell'attività d'impresa.
EDILIZIA/ Basta la Scia per le modifiche delle sagome degli immobili. I Comuni dovranno indicare le aree dei centri storici dove la procedura sarà ammessa.

Partenza sprint, almeno sulla carta, per le nuove semplificazioni amministrative contenute nel decreto del Fare (69/2013), la cui legge di conversione è attesa per domani in Gazzetta Ufficiale. A differenza del vecchio "Semplifica Italia" (5/2012) –che prevedeva 51 provvedimenti attuativi di cui solo 19 sono stati adottati– buona parte delle nuove misure è infatti immediatamente operativa. Nel suo insieme, il testo uscito dalle Camere prevede ben 87 provvedimenti attuativi secondari, contro i 53 della versione originaria, mentre il "pacchetto semplificazioni" non è andato oltre la dozzina di atti amministrativi.
Hanno efficacia immediata, per esempio, le semplificazioni per l'edilizia contenute nell'articolo 30, che intervengono su costi stimati per 4,4 miliardi di euro l'anno e che dovrebbero garantire risparmi, a regime, per circa 500 milioni. Tutte tranne la Scia per le modifiche della sagoma degli edifici in ristrutturazione a parità di volumetria nei centri storici (zone omogenee A o equipollenti), per la quale bisognerà invece aspettare l'adozione delle delibere con cui i Comuni individueranno le aree dove si applicherà la nuova procedura. Ma poiché l'impatto maggiore per questa misura è atteso soprattutto sui cantieri attivi nelle periferie, i tempi di reazione dei municipi non dovrebbero incidere più di tanto.
Subito operativo è anche il "nuovo Durc" (articolo 31), la cui validità passa da 90 a 120 giorni. Nei quattro mesi di validità il Documento unico di regolarità contributiva potrà essere utilizzato anche per contratti pubblici diversi da quelli per cui è stato richiesto. La semplificazione vale per tutte le amministrazioni che possono chiedere il Durc (anche per concedere benefici, sussidi o finanziamenti previsti da norme Ue, nazionali o regionali); e fino al 31.12.2014 si applicherà anche ai lavori edili per i soggetti privati. «Approvato il decreto del Fare si apre la fase importante e delicata dell'attuazione, per questo è importante che cittadini e imprese siano informati delle nuove opportunità che offre loro la legge» ha dichiarato il ministro Gianpiero D'Alia, i cui uffici da domani daranno massima diffusione di una Guida alle nuove semplificazioni. «Un cantiere destinato a ripartire a settembre -ha ricordato il ministro– con l'esame in commissione Affari costituzionali del Senato del disegno di legge di semplificazioni che rappresenta la fase due di questa nuova serie di interventi e che è stato inserito nell'agenda dei lavori il 7 agosto scorso».
Tornando alle norme in vigore da martedì, subito operativa è poi la sperimentazione sull'indennizzo automatico e forfetario (articolo 28): in caso di mancato rispetto dei tempi per concludere una pratica, l'amministrazione dovrà riconoscere all'impresa interessata una somma di 30 euro per ogni giorno di ritardo fino a un massimo di 2mila euro. La misura è immediatamente valida ma solo per le domande d'avvio ed esercizio delle attività d'impresa presentate dopo l'entrata in vigore della legge. Mentre è rimandato al buon esito della sperimentazione (da valutare entro 18 mesi) il varo del decreto del Presidente del Consiglio che confermerà l'indennizzo e ne rimodulerà l'estensione anche agli altri procedimenti. Il diritto all'indennizzo forfetario si coniuga con la ricognizione attivata i primi di agosto con una circolare del ministero della Pa sugli adempimenti che tutte le amministrazioni devono assolvere in applicazione del decreto sblocca debiti della Pa (35/2013). E in prospettiva l'indennizzo automatico farà da pungolo al rispetto dei tempi di rimborso dei nuovi crediti ai fornitori previsti dalla direttiva 2011/7/Ue.
Tra le nuove norme in arrivo (ma qui serve un decreto ministeriale attuativo con l'indicazione delle modalità di pubblicazione) c'è poi il sistema delle date uniche di efficacia dei nuovi obblighi amministrativi (previste al 1° luglio o al 1° gennaio).
Il pacchetto di misure per cui bisognerà invece attendere più decreti attuativi del ministero del Lavoro riguarda le semplificazioni per gli adempimenti formali in materia di sicurezza in azienda. Si tratta di un insieme di misure che incidono su oneri dal costo stimato in 3,3 miliardi l'anno e la cui verifica d'impatto è dunque per il momento rinviata. Si va dalle comunicazioni sul rischio infortuni (drasticamente ridotte per i piccoli esercizi commerciali) a quelle per la compilazione del documento di valutazione dei rischi da interferenza (Duvri), dalle notifiche di avvio di una nuova attività alle verifiche periodiche sulle attrezzature da lavoro, le misure per la sicurezza nei cantieri temporanei o quelle sulle denunce per infortuni (che prevede il passaggio all'Inail dell'onere di comunicazione, finora a carico delle aziende, alle autorità di pubblica sicurezza che poi le comunica alle Asl).
Si torna sul terreno dell'efficacia immediata, infine, con le semplificazioni per i cittadini come, per esempio, la trasmissione telematica del certificato di gravidanza (non più a carico della lavoratrice), o il taglio di una serie di certificati sanitari finora obbligatori come quelli d'idoneità psico-fisica o di sana e robusta costituzione per determinati tipi d'impiego (tratto da Il Sole 24 Ore del 18.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA: La Scia non dribbla la verifica d'agibilità.
La verifica dell'agibilità di un locale destinato al trattenimento, anche se capace di accogliere meno di 200 persone, non può essere sostituita da una Scia e l'intervenuta abrogazione dell'art. 124 del regolamento al Tulps, disposta dal dl 5/2012, non fa venir meno gli obblighi in materia di sicurezza per bar e ristoranti che organizzano spettacoli.

Lo dice il ministero dell'interno nella circolare prot. 557/Pas/u/ 003524/13500.A (8) del 2013 diffusa dalla prefettura di Ravenna con nota n. 2013/2013.
Presupposto della Scia è la natura vincolata dell'atto autorizzativo sostituito, subordinatamente all'accertamento positivo dei requisiti di legge; e poiché il parere della commissione di vigilanza presuppone l'esercizio di una discrezionalità tecnica con un contenuto più ampio di una mera verifica del rispetto delle norme vigenti in materia di sicurezza, l'agibilità deve essere formalmente accertata.
Non sempre, peraltro, ha aggiunto il ministero, ogni spettacolo o trattenimento musicale o danzante svolto in un pubblico esercizio è soggetto agli art., 68, 69 e 80 Tulps. Sono esenti, infatti, gli spettacoli e i trattenimenti organizzati occasionalmente o per specifiche ricorrenze, sempreché rappresentino un'attività. Poco è cambiato quindi dopo l'abrogazione dell'art. 124 del rd 635/1940. Perché il legislatore non ha fatto altro che sancire a livello normativo il principio già ricavato dal dicastero a livello interpretativo.
In sostanza nessun obbligo per l'esercente quando il trattenimento è funzionale all'attività commerciale ed è lecito che l'esercente attui una maggiore attrattiva sul pubblico, ma senza quella specifica imprenditorialità nel campo dell'intrattenimento e dello spettacolo che farebbe, invece, scattare l'obbligo del rispetto delle specifiche norme (tratto da ItaliaOggi del 17.08.2013).

ENTI LOCALI - VARIMulte, niente sconti sull'accertamento.
Tra pochi giorni entrerà in vigore lo sconto sulle multe pagate tempestivamente ma l'importo esatto da versare resterà avvolto dal mistero fin che la polizia stradale non avrà avuto il tempo di aggiornare la modulistica. Dal beneficio del 30% restano infatti escluse per legge le spese per l'accertamento e l'importo finale non potrà mai essere arrotondato. Poi non tutte le infrazioni stradali saranno ammesse al beneficio. Insomma prima di pagare una multa scontata del 30% entro 5 giorni sarà meglio chiedere chiarimenti agli uffici dei vigili e della polizia stradale. Il rischio è infatti quello di vedersi recapitare successivamente spiacevoli richieste di integrazione ben superiori all'importo versato.

Sono queste le conseguenze operative stradali immediate derivanti dall'imminente pubblicazione in G.U. della legge di conversione del dl 69/2013 (si veda ItaliaOggi di ieri e del 13/08/2013).
Non sarà facile gestire l'avvento delle multe con lo sconto per i buoni pagatori perché nella norma non è stato previsto un lasso temporale necessario per aggiornare la modulistica e i programmi che gestiscono le infrazioni, spiega Giovanni Acerbo, dirigente della polizia municipale di Torino. Il periodo estivo inoltre non aiuta ad organizzare al meglio l'avvio di questa utile esperienza che peraltro a regime si rivelerà molto utile per tutti.
In pratica con l'innesto nella legge di conversione del dl 69/2013 dell'art. 20 è stata rivisto tutto il sistema di pagamento delle infrazioni stradale. Lo sconto del 30% per i pagamenti veloci riservato a chi salda entro 5 giorni il suo debito stradale non troverà applicazione in caso di violazioni gravi, ha specificato il ministero dell'interno con la circolare del 12 agosto. Ma nulla è stato scritto circa la possibilità di ridurre la multa nella frequente ipotesi di preavvisi di sosta non ancora notificati e contestati. In questo caso a parere della polizia municipale di Torino non ci sono dubbi. Anche i preavvisi di sosta potranno essere pagati con lo sconto tempestivamente.
Attenzione però ai calcoli fai-da-te dell'importo da pagare. Al ricevimento postale per esempio di una multa per semaforo rosso non sarà possibile prendere l'importo totale riducendolo del 30%. Il calcolo esatto da effettuare possibilmente con l'aiuto di un comando di polizia (fin tanto che non verrà aggiornata la modulistica) riguarda infatti lo sconto sulla sanzione che da 162 euro si potrà ridurre a 113,40. A questo importo poi dovranno essere aggiunte le spese di notifica e di accertamento. Solo così non si correrà il rischio boomerang ovvero di pagare scontato e poi ripagare, a distanza di tempo, quasi raddoppiato (tratto da ItaliaOggi del 15.08.2013).

ENTI LOCALILa nuova contabilità può essere un boomerang.
La nuova contabilità degli enti locali potrebbe rivelarsi controproducente. Infatti, l'adozione del nuovo concetto di impegno di spesa, che consente l'imputazione in esercizi successivi (ovvero nell'anno in cui si presume che l'obbligazione sottostante venga a scadenza), potrebbe rivelarsi, alla prova dei fatti, una criticità molto importante. Il pericolo è che si possa rinviare oneri al futuro, con la motivazione che le relative obbligazioni non sono ancora venute a scadenza, nascondendo, di fatto, situazioni di difficoltà finanziaria o di dissesto. Sarà certamente più difficile ed impegnativo verificare la copertura finanziaria di delibere o determine che comportano spese, visto che l'imputazione di queste ultime avviene dilazionata negli anni successivi.

È l'effetto derivante dall'applicazione del principio cardine della «competenza finanziaria potenziata», secondo il quale le obbligazioni attive e passive giuridicamente perfezionate, che danno luogo a entrate e spese, sono registrate nelle scritture contabili con l'imputazione all'esercizio nel quale esse vengono a scadenza e non nel momento in cui nascono, così come avviene nell'attuale sistema contabile previsto dal Tuel (artt. 179 e 183).
Conseguentemente, bisogna reimputare di tutti i residui attivi e passivi, al fine di trasformarli, rispettivamente, in accertamenti ed impegni in linea con i principi della nuova contabilità; si tratta di un lavoro immane che impegnerà i funzionari della Ragioneria, e non solo, ad un tour de force senza precedenti, sia per il numero elevato dei residui (diverse migliaia anche nei comuni di minori dimensioni), sia per la complessità di alcune fattispecie (ad esempio, le opere pubbliche).
Eventuali reimputazioni sommarie comporteranno inevitabilmente un numero elevato di variazioni di bilancio nell'immediato futuro con ulteriori significative problematiche. Un secondo punto critico riguarda la determinazione del «fondo pluriennale vincolato» che costituisce uno degli aspetti più difficili e ancora controversi della nuova contabilità, come indicato nella relazione alla camera del ministro dell'economia (tratto da ItaliaOggi del 15.08.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ritardi della «Pa», 30 euro al giorno. Tetto massimo a 2.000 euro - Interessate le pratiche avviate dalle imprese a istanza di parte.
Giustizia. Con la versione finale del decreto legge del fare debutta il nuovo indennizzo per il mancato rispetto dei termini nei procedimenti.
Debutta l'indennizzo da far valere per i ritardi della pubblica amministrazione. Almeno per quelli che riguardano avvio ed esercizio dell'attività d'impresa. Con la pubblicazione in «Gazzetta» delle norme del decreto del fare, convertite in legge dal Parlamento, scatterà la possibilità, per i procedimenti iniziati successivamente a quella data e protrattisi oltre i termini, di ottenere un risarcimento. La norma introduce il diritto per l'interessato di chiedere un indennizzo per il semplice ritardo della pubblica amministrazione, nella conclusione dei procedimenti amministrativi iniziati a istanza di parte.
Si tratta di una fattispecie diversa dal risarcimento del danno (ingiusto) da ritardo (per inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento), che è stato introdotto dalla legge n. 69 del 2009, aggiungendo un articolo 2-bis nella legge n. 241 del 1990. Analogo è però l'obiettivo: istituire e rafforzare un elemento di deterrenza perché le amministrazioni rispettino i termini di conclusione dei procedimenti.
Va però sottolineato come l'indennizzo introdotto può essere applicato solo per i procedimenti avviati a istanza di parte e non anche per quelli d'ufficio. Inoltre, anche per quelli a istanza di parte, è prevista l'esclusione dei concorsi pubblici e delle ipotesi di silenzio qualificato. La misura dell'indennizzo è determinata in 30 euro per ogni giorno di ritardo rispetto alla data di scadenza del termine procedimentale. Fissato, però, anche un tetto massimo, in base al quale l'indennizzo non può essere superiore in ogni caso a 2.000 euro.
Per ottenere l'indennizzo, va attivato, entro 20 giorni dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento, a pena di decadenza, il potere sostitutivo attribuito in ogni amministrazione a una figura che interviene in caso di inerzia (per ciascun procedimento, sul sito internet istituzionale dell'amministrazione è pubblicata, in formato tabellare e con collegamento ben visibile nella homepage, l'indicazione del soggetto a cui è attribuito il potere sostitutivo, cui l'interessato può rivolgersi). Il titolare del potere sostitutivo è poi chiamato a intervenire per concludere il procedimento nella metà del termine inizialmente previsto oppure per liquidare l'indennizzo.
In caso di mancata risposta su entrambi questi fronti, può essere proposto ricorso al giudice amministrativo sulla base dell'articolo 117 del Codice del processo amministrativo, che disciplina il rito contro il silenzio della pubblica amministrazione o sulla base dell'articolo 118 di quel Codice, se ne ricorrano i presupposti. Quest'ultimo è il ricorso per decreto ingiuntivo, ammesso nelle controversie affidate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo che hanno per oggetto diritti soggettivi di natura patrimoniale.
Se il giudice dichiara inammissibile il ricorso oppure lo rigetta per manifesta infondatezza dell'istanza, condanna il ricorrente a pagare una somma da due a quattro volte superiore il contributo unificato a favore dell'amministrazione.
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I PUNTI CRITICI/ Ma gli importi sono troppo esigui.
I PRECEDENTI/ Solo l'ultimo di una serie di interventi indirizzati a fare da deterrente contro le inerzie del settore pubblico.

L'incertezza sui tempi delle decisioni amministrative è uno dei punti più dolenti nei rapporti tra cittadini (o imprese) e pubbliche amministrazioni.
In teoria, da oltre vent'anni, con la legge sulla trasparenza amministrativa n. 241/1990, i termini per la conclusione di tutti i tipi di procedimenti amministrativi sono stabiliti in modo preciso, cercando anche di evitare che essi siano troppo lunghi, a vantaggio dei cittadini.
In pratica, molto spesso le amministrazioni non sono in grado di rispettarli e non sanno neppure prevedere con precisione quando la decisione finale verrà assunta. Tutto ciò impedisce la programmazione delle attività di coloro che per esempio chiedono un'autorizzazione necessaria per avviare un'attività imprenditoriale.
In questi ultimi anni il legislatore è intervenuto più volte per porre rimedio a questa situazione. Da ultimo il decreto del fare (n. 69/2013) prevede un indennizzo automatico di trenta euro per ogni giorno di ritardo fino a un massimo di duemila euro.
Questa sorta di incentivo-sanzione si aggiunge ad altri strumenti per costringere l'amministrazione al rispetto dei tempi: intervento sostitutivo del superiore gerarchico sollecitato dall'interessato; responsabilità disciplinare del funzionario negligente; responsabilità penale per il reato di rifiuto od omissione di atti d'ufficio (articolo 428 codice penale); ricorso al giudice amministrativo contro il cosiddetto "silenzio" della pubblica amministrazione al fine di ottenere il provvedimento richiesto anche attraverso la nomina da parte del giudice di un commissario "ad acta"; risarcimento per il danno da ritardo; monitoraggio costante da parte del responsabile della prevenzione della corruzione istituito dalla recente legge anticorruzione (la n. 190/2012).
L'indennizzo automatico introdotto dal decreto del fare (all'articolo 28), che si ispira a una proposta avanzata già negli anni Novanta del secolo scorso (legge 59/1997), ha un campo di applicazione molto ristretto.
Vale infatti solo per i procedimenti che riguardano le imprese e tra diciotto mesi si stabilirà se confermarlo, rimodularlo o abbandonarlo. Il nuovo rimedio ha dunque un carattere sperimentale, la cui efficacia andrà verificata nel corso del tempo.
Inoltre, il diritto all'indennizzo sorge solo se l'interessato ha richiesto al superiore gerarchico entro un termine perentorio di venti giorni un intervento sostitutivo e se anche il superiore gerarchico non esercita tempestivamente il potere sostitutivo. L'indennizzo non è dunque automatico.
Infine il decreto del fare prevede alcune regole processuali particolari in caso di omessa liquidazione dell'indennizzo, incluso l'invio della sentenza di condanna alla Corte dei conti ai fini dell'accertamento del danno erariale. È presto per formulare previsioni sull'impatto del nuovo istituto. L'impressione è che, data anche l'esiguità dell'importo, neppure l'indennizzo potrà fungere da pungolo efficace per sbloccare le inerzie del settore pubblico.
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Le esclusioni. Non rientrano il silenzio qualificato e i concorsi pubblici.
Sperimentazione di 18 mesi riservata alle aziende.
LE CONDIZIONI/ In una prima fase la procedura è accessibile solo a chi ha necessità di un provvedimento per un'attività produttiva.

L'indennizzo previsto dal decreto del fare, appena convertito in legge, ammette la corresponsione di importi che spettano indipendentemente dalla verifica della colpa del soggetto inadempiente e senza riferimento al danno effettivamente causato dal ritardo. Ciò significa che la norma sull'indennizzo si affianca a quella in tema di risarcimento, rendendo più agevole la percezione di una somma forfettaria, se ciò basta al cittadino.
Se invece il soggetto che ha subito il ritardo non si accontenta, può procedere chiedendo il risarcimento del danno. La differenza di fondo tra indennizzo e risarcimento consiste, oltre che nell'entità economica (per l'indennizzo, forfettaria; per il risarcimento, pari al danno causato) nell'onere della prova. Mentre per l'indennizzo non occorre dimostrare nulla, per il risarcimento occorre provare (oltre all'entità del danno) anche la imputabilità' del danno all'amministrazione (cioè la negligenza, la trascuratezza).
Con questa premessa si comprende come la norma scandisce un procedimento, in cui al gradino iniziale del ritardo (per lo più dopo 30 giorni dall'istanza) segue un gradino successivo (con tempi dimezzati, cioè per lo più 15 giorni) ed una successiva fase contenziosa davanti al giudice amministrativo. Il tutto per ottenere 30 euro per ogni giorno di ritardo fino a un massimo di 2.000 euro. La procedura si avvia se c'è inosservanza di un termine di conclusione del procedimento amministrativo iniziato ad istanza di parte, per il quale sussiste l'obbligo di pronunziarsi. Se non vi e' una posizione tutelata, ma solo un interesse di fatto, non vi è speranza di indennizzo perché non vi e' un dovere di rispondere a carico della pubblica amministrazione.
Non c'è possibilità di indennizzo, inoltre, quando il tempo trascorso ha comunque un significato, cioè esprime un consenso (ad esempio in caso di interventi edilizi con Scia o Dia), o un dissenso (ad interventi in zona vincolata sotto l'aspetto paesaggistico). Con una previsione specifica, la norma esclude un indennizzo automatico per le procedure di concorso che subiscano ritardi, poiché si prende atto della difficoltà di concludere nei tempi previsti attività che coinvolgono una pluralità di concorrenti ed esaminatori.
Per ottenere l'indennizzo occorre che, entro e non oltre 20 giorni dalla scadenza del termine posto all'amministrazione per provvedere (termine che si legge nel provvedimento stesso, e che in genere è di 30 giorni), l'interessato presenti un'istanza al soggetto titolare del potere sostitutivo (in genere, il dirigente di vertice). Se anche questi non provvede nel termine ulteriore pari alla metà del tempo previsto per il soggetto inizialmente inadempiente (cioè entro 15 dei 30 giorni di norma previsti), emanando il provvedimento o negandolo motivatamente, e non liquida l'indennizzo maturato dal 31° girono, l'interessato si può rivolgere al Tar.
Il giudice amministrativo procede con rito abbreviato e, se l'interessato lo chiede, si pronuncia sia sull'indennizzo che sul fondamento della pretesa che non ha avuto risposta. Questa procedura si applicherà alle sole imprese (cioè non ai privati cittadini, ma solo a chi ha necessità di un provvedimento per un'attività produttiva) e dopo 18 mesi sarà rivisto per un'eventuale applicazione più generale. Il meccanismo sarà facilitato da una serie di chiarimenti che dovranno essere letti nei siti delle pubbliche amministrazioni dove saranno indicati i tempi di maturazione del silenzio e i soggetti titolari del potere sostitutivo (tratto da Il Sole 24 Ore del 15.08.2013).

ENTI LOCALI - VARIDECRETO DEL FARE/ Multe scontate ma non sempre. Esclusi eccesso di velocità e violazioni autostradali. Dall'Interno le prime indicazioni sulla riduzione del 30%.
Multe con lo sconto del 30% ma non per tutti. La riduzione non si applica alle infrazioni per cui non è ammesso il pagamento in misura ridotta (come, per esempio, non seguire le indicazioni del vigile o non fermarsi al posto di controllo), alle violazioni per cui è prevista la sanzione accessoria della confisca del veicolo o della sospensione della patente di guida (per esempio, eccesso di velocità oltre i 40 chilometri all'ora, sorpasso in curva, violazioni autostradali comuni come circolare in corsia d'emergenza) e infine per le violazioni stradali non incluse nel codice della strada, ma previste dalla legislazione complementare.

Sono queste alcune delle prime indicazioni fornite dal Ministero dell'Interno con la circolare 12.08.2013 n. 6333 di prot. in relazione alle novità previste per l'art. 202 del codice della strada previste dalla legge di conversione del dl 69/2013 (decreto del fare), di cui si attende la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (si veda ItaliaOggi di ieri).
Dal momento dell'entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge del fare n. 69/2013 sui verbali di contestazione delle violazioni stradali dovrà dunque essere indicata la possibilità di pagare entro cinque giorni dalla contestazione o notificazione con la riduzione del 30%. Entro quattro mesi un decreto interministeriale dovrà regolamentare la notificazione delle multe tramite posta elettronica certificata, senza più l'addebito delle spese al destinatario. Dal giorno successivo alla pubblicazione, la somma da pagare per le violazioni sarà ridotta del 30% se il pagamento sarà effettuato entro cinque giorni dalla contestazione o dalla notificazione.
La circolare ministeriale precisa che la riduzione si applica anche in caso di infrazioni commesse di notte (fra le 22 e le 7), in caso di riattivazione della copertura assicurativa nei tempi indicati dall'art. 193, comma 3, Cds, e nelle ipotesi di specifiche violazioni commesse dagli autotrasportatori, elencate dall'art. 202, comma 2-bis. Il ministero dell'interno precisa che il pagamento con la riduzione del 30% spetterà anche nel caso in cui, alla data di entrata in vigore della legge di conversione, non siano trascorsi ancora cinque giorni dalla data di notificazione o contestazione, senza che per questo sia necessaria una rinotifica da parte dell'organo accertatore.
Aggiungendo un nuovo comma all'art. 142 del codice della strada, la legge di conversione dispone che se l'agente accertatore è munito di idonea apparecchiatura il trasgressore conducente potrà effettuare immediatamente, nelle mani dello stesso agente, il pagamento mediante strumenti di pagamento elettronico. Questa facoltà è concessa anche agli autotrasportatori che commettono alcune violazioni, specificamente elencate dal comma 2-bis dell'art. 202 Cds, con un'ulteriore novità: se il conducente non intende pagare, dovrà versare una cauzione pari non più alla metà del massimo edittale, ma al minimo.
Entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione il ministro dell'interno, di concerto con i ministri della giustizia, delle infrastrutture e dei trasporti, dell'economia e delle finanze e per la pubblica amministrazione e la semplificazione, dovrà disciplinare, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, le procedure per la notificazione delle multe stradali tramite posta elettronica certificata nei confronti dei soggetti abilitati all'utilizzo della Pec, senza addebito delle spese di notificazione (tratto da ItaliaOggi del 14.08.2013).

EDILIZIA PRIVATADECRETO DEL FARE/ Ristrutturazioni, meno vincoli. Demolizioni seguite da ricostruzione: sagoma esclusa. Via libera alla deburocratizzazione dei pareri per la Scia.
L'esclusione della sagoma, quale vincolo per considerare ristrutturazione le demolizioni seguite da ricostruzione; la sburocratizzazione dei pareri necessari per la Scia; la proroga dei termini di inizio e fine lavori; le agibilità parziali; il silenzio rigetto per i permessi di costruire in aree vincolate.

Queste alcune delle novità in materia di edilizia apportate dal pacchetto di semplificazioni contenuto nel decreto del Fare (69/2013).
Vincoli ambientali. Si passa dal silenzio-rifiuto al silenzio-rigetto, immediatamente impugnabile. Secondo il Testo unico per l'edilizia (dpr 380/2001), nel caso in cui manchi un atto di assenso per vincolo ambientale, paesaggistico e culturale, si viene a formare il silenzio rifiuto. Il decreto legge modifica il procedimento in caso di immobili vincolati nel seguente modo.
Se l'assenso dell'autorità preposta al vincolo è favorevole, il comune sarà tenuto a concludere il procedimento di rilascio del permesso di costruire con un provvedimento espresso e motivato. Se, invece, l'atto di assenso viene negato, decorso il termine per il rilascio del permesso di costruire, questo si intenderà respinto. L'atto è immediatamente impugnabile.
Pareri. Allo sportello unico per l'edilizia va il compito di acquisire i pareri anche prima della presentazione della Scia. Il testo unico edilizia non disciplina l'acquisizione, da parte dello Sportello unico per l'edilizia (Sue), degli atti di assenso presupposti all'inizio dei lavori nel caso in cui l'intervento edilizio sia soggetto alla presentazione della comunicazione di inizio lavori di attività edilizia libera o della Scia edilizia. Il decreto estende la disciplina prevista oggi solo per il permesso di costruire. Il provvedimento, infatti, dispone che l'interessato possa, prima di presentare la comunicazione o la Scia, richiedere allo sportello unico l'acquisizione di tutti gli atti di assenso necessari per l'intervento edilizio.
Lo sportello si deve attivare, come nel caso di richiesta di permesso di costruire: se non sono rilasciati gli atti di assenso delle altre amministrazioni pubbliche, o è intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni interpellate, il responsabile dello sportello unico indice la conferenza di servizi per acquisirli. Se poi l'istanza di acquisizione di tutti gli atti di assenso è contestuale alla segnalazione certificata di inizio attività, l'interessato potrà dare inizio ai lavori solo dopo la comunicazione da parte dello sportello unico dell'avvenuta acquisizione degli atti di assenso o dell'esito positivo della conferenza di servizi. Le novità si applicano anche alla comunicazione dell'inizio dei lavori per l'attività edilizia libera, qualora siano necessari atti di assenso per la realizzazione dell'intervento edilizio.
Edilizia libera. Una dichiarazione in meno per la comunicazione di inizio lavori. Il Testo unico per l'edilizia prevede per l'attività edilizia libera l'invio di una comunicazione dell'inizio dei lavori, a cui deve essere allegata una relazione asseverata firmata da un tecnico abilitato, che dichiari di non avere rapporti di dipendenza con l'impresa né con il committente. Il decreto dispone di eliminare tale dichiarazione da parte del tecnico abilitato.
Agibilità parziale. Il decreto modifica la disciplina del certificato di agibilità, consentendone la richiesta anche per singoli edifici o singole porzioni di uno stesso stabile. Questo a condizione che le unità siano funzionalmente autonomi, qualora siano state realizzate e collaudate le opere di urbanizzazione primaria relative all'intero intervento edilizio e siano state completate e collaudate le parti strutturali connesse, nonché collaudati e certificati gli impianti relativi alle parti comuni.
L'agibilità parziale potrà essere richiesta anche per singole unità immobiliari, purché siano completate e collaudate le opere strutturali connesse, siano certificati gli impianti e siano completate le parti comuni e le opere di urbanizzazione primaria dichiarate funzionali rispetto all'edificio oggetto di agibilità parziale.
Decorrenza. Le nuove disposizioni si applicano dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto (tratto da ItaliaOggi del 14.08.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL'intervento/ L'intesa stato-regioni sull'applicazione della legge 190 crea molta confusione nelle p.a.. Anticorruzione, consigli fuorvianti per gli enti locali.
Anticorruzione, l'intesa stato-regioni ed enti locali sull'applicazione delle norme previste dalla legge 190 crea più confusione, di quanto contribuisca a chiarire la portata delle norme per regioni ed enti locali.
Individuazione dei responsabili. L'intesa 24.07.2013 ricorda che presso ogni ente deve esservi un solo responsabile anticorruzione e un solo responsabile della trasparenza. Solo presso le regioni le figure possono essere sdoppiabili, in quanto i consigli regionali hanno una spiccata autonomia rispetto alle giunte e agli altri uffici regionali. Nulla vieta, comunque, di istituire «referenti» nelle amministrazioni complesse.
L'intesa invita le amministrazioni a «designare i due responsabili e di comunicare la nomina» alla Civit. L'indicazione è errata e crea confusione, almeno per quanto riguarda gli enti locali, ove responsabile anticorruzione, ai sensi dell'articolo 1, comma 7, della legge 190/2012 è il segretario comunale, il quale, di regola, sarà anche responsabile della trasparenza, per effetto dell'articolo 43 del dlgs 33/2013.
La «designazione» occorre solo laddove con provvedimento espresso e motivato le amministrazioni ritenessero di assegnare le funzioni dei due responsabili ad altri soggetti.
Incompatibilità con funzioni di staff ad organi politici. Un'altra indicazione foriera di problemi è il recepimento delle disposizioni contenute nella circolare della funzione pubblica 1/2013, ai sensi della quale si ritiene che non sia possibile attribuire gli incarichi di responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza a dirigenti o funzionari che svolgano funzioni di diretta collaborazione con gli organi di indirizzo politico.
Quell'indicazione, però, può valere solo per le amministrazioni statali o regionali. Nei comuni e nelle province, come visto sopra, inevitabilmente le figure di responsabile sono attribuite ex lege al segretario comunale, che indiscutibilmente opera come figura di diretta collaborazione degli organi di governo. Pertanto, l'indicazione dell'intesa, per i segretari comunali, è semplicemente da ritenere come non sussistente.
L'intesa aggiunge che solo nei piccoli comuni e «in via eccezionale» il segretario comunale che risulti incaricato anche di presiedere l'ufficio per i procedimenti disciplinari può anche svolgere la funzione di responsabile anticorruzione. Ma si travisano le disposizioni normative: il segretario è per legge responsabile, dunque l'incompatibilità con le funzioni dell'ufficio dei procedimenti disciplinari per comuni e province semplicemente non può operare.
Rotazione di dirigenti e funzionari. L'intesa invita gli enti ad assicurare la rotazione di dirigenti e funzionari addetti alle aree considerate a maggiore rischio di corruzione. Il testo dell'accordo, tuttavia, spinge gli enti ad adottare criteri generali per la rotazione, «previa informativa sindacale». Ciò contrasta con l'articolo 41, comma 2, del dlgs 165/2001 che esclude dalla contrattazione «la materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali». Di conseguenza, essa è sottratta anche a qualsiasi relazione sindacale «preventiva». L'informazione potrebbe essere, semmai, solo successiva.
Aggiunge, ancora, l'intesa che la rotazione può avvenire solo al termine dell'incarico dirigenziale «la cui durata deve essere comunque contenuta». Anche in questo caso si vìola l'articolo 19, comma 2, del dlgs 165/2001, ai sensi del quale gli incarichi dirigenziali non possono avere durata inferiore ai tre anni.
Ancora, sugli incarichi a rotazione, l'intesa invita a prediligere l'affiancamento e l'utilizzo di professionalità interne: come se fosse possibile, per la rotazione, utilizzare soggetti esterni.
Infine, specie per i piccoli enti, l'intesa crea l'istituto della «mobilità temporanea», come metodo per assicurare rotazione, specie tra enti convenzionati. In effetti, non si tratta di altro se non di «comando o distacco».
Scadenze. Più utili le previsioni dell'intesa sulle scadenze. Il dlgs 33/2013 è considerato operante sin dalla sua vigenza, salvo per le diverse scadenze espressamente previste.
I piani anticorruzione e per la trasparenza dovranno essere adottati entro il 31.01.2014. Laddove però la Civit non adotti il piano nazionale anticorruzione entro il 30 settembre, i termini potrebbero slittare. In quanto al codice di comportamento, gli enti debbono adottare quello «personalizzato» entro 180 giorni dalla vigenza del dpr 62/2013, cioè entro il 16.12.2013. Entro 180 giorni dall'intesa, sono da individuare gli incarichi vietati ai dipendenti (tratto da ItaliaOggi del 14.08.2013).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIDisabili, parità sul lavoro. Barriere da eliminare per garantire la piena uguaglianza. Il nuovo obbligo per tutti i datori, pubblici e privati, introdotto in fase di conversione del dl 76.
Luoghi di lavoro a misura di handicap. I datori di lavoro, pubblici e privati, infatti sono obbligati a adottare «accomodamenti ragionevoli» nei luoghi di lavoro per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori.

Lo stabilisce il nuovo comma 4-ter introdotto dal senato all'art. 9 del decreto lavoro (n. 76/2013) in sede di conversione. Non osservare il nuovo obbligo comporterà la condanna ad agire da parte del giudice a cui potranno rivolgersi, oltreché l'interessato (lavoratore con disabilità), i sindacati. La nuova misura mira a risolvere la procedura di contenzioso attivata lo scorso 4 luglio dalla Corte Ue, condannando l'Italia per non aver recepito correttamente e completamente la direttiva n. 2000/78/Ce.
Due le misure a favore dell'occupazione dei disabili che. La prima misura in particolare (comma 4-bis all'art. 9) incrementa la dotazione del fondo per il diritto al lavoro dei disabili di 10 mln di euro per l'anno 2013 e di 20 mln di euro per l'anno 2014. Il fondo, ai sensi della legge n. 68/1999 (diritto del lavoro dei disabili), è già finanziato con la spesa di 42 mln di euro dal 2008, annualmente ripartito fra regioni e province autonome proporzionalmente alle loro richieste Le nuove risorse sono rinvenute dalla riduzione dell'autorizzazione di spesa per il fondo per l'occupazione (art. 1, comma 7, del dl n. 148/1993), confluita nel fondo sociale per l'occupazione e la formazione, per 16,7 mln di euro per il 2013 e per 33,3 mln di euro per il 2014.
La vera novità è però anche un'altra, quella del comma 4-ter dell'art. 9 del dl n. 76/2013. Aggiungendo il comma 3-bis all'art. 3 del dlgs n. 216/2003, la nuova norma prescrive a carico di tutti i datori di lavoro, pubblici e privati, l'adozione di accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, ossia al fine di assicurare alle persone disabili la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. Per accomodamenti ragionevoli, ai sensi della convenzione delle Nazioni unite sui diritti delle persone con disabilità ratificata in Italia dalla legge n. 18/2009, si intendono «le modifiche adottate per garantire alle persone con disabilità il godimento e l'esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali sulla base dell'eguaglianza con gli altri».
Con riferimento ai datori di lavori pubblici il nuovo obbligo non dovrà comportare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Come detto il nuovo obbligo è inserito all'interno del dlgs n. 216/2003, il quale ha recepito la direttiva 2000/78/Ce che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
Tale decreto, attenendosi alla direttiva, stabilisce un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate su religione, convinzioni personali, handicap, età o sesso per l'occupazione e le condizioni di lavoro, fornendo la definizione di discriminazione diretta e indiretta e prevedendo l'accesso a idonee procedure giurisdizionali al fine di tutelare i diritti e porre rimedio alle discriminazioni (tratto da ItaliaOggi del 14.08.2013).

ENTI LOCALI - VARIDECRETO DEL FARE/ Multe scontate, calcoli fai-da-te. In caso di errori la differenza può essere molto salata. Se il vigile ha il bancomat, la sanzione si può pagare in strada.
Multe scontate fai-da-te. Ma con il rischio di incappare in errori e dunque dover restituire la differenza.
Grazie al decreto del Fare 69/2013) convertito in legge la settimana scorsa e in attesa della pubblicazione in G.U. (entro il 19 agosto), arriva lo sconto del 30% per chi paga entro cinque giorni dal momento di conoscenza formale della multa. Grazie a questo benefit, che riguarderà anche i preavvisi di sosta e tutti i verbali contestati e notificati, il classico divieto di sosta, ad esempio, scenderà da 41 a poco meno di 29 euro e chi verrà pizzicato senza cintura risparmierà addirittura 24 euro (56 contro il 80 in caso di importo pieno).
Tornerà anche la possibilità di saldare subito il verbale in strada all'agente munito di dispositivo per il pagamento elettronico, e inoltre le multe arriveranno via Posta elettronica certificata (Pec). Attenzione però alle spese di notifica e di accertamento. Lo sconto non riguarderà mai questi importi ma solo il valore della sanzione amministrativa pecuniaria vera e propria. In caso di errore nel calcolo nello sconto il rischio concreto, minimo, è quello di vedersi richiedere la differenza salata con tanto di interessi. Se non quello di vedersi recapitare a distanza di tempo una cartella esattoriale con una cifra esorbitante pari al doppio della multa con spese e interessi al netto dell'anticipo versato come acconto.
Via libera alla possibilità di conciliare anche in strada. Con l'imminente dotazione alle pattuglie degli strumenti di pagamento elettronico sarà possibile pagare come una volta la multa al vigile o al carabiniere. E questa possibilità sarà di carattere generale ovvero sarà ammessa anche nel caso di violazioni gravi che pur ammettendo il pagamento in misura ridotta non potranno accedere allo sconto del 30%.
È il caso per esempio del sorpasso in curva punito dall'art. 148 Cds con la sanzione di 162 euro, 10 punti di decurtazione e sospensione della patente. In tutti i casi infatti in cui è prevista la confisca del veicolo e la sospensione della patente di guida lo sconto non troverà applicazione. Buone notizie anche sul fronte delle notifiche stradali.
Con un decreto interministeriale da adottarsi entro quattro mesi dovrà essere disciplinata compiutamente anche questa procedura per permettere il superamento della tradizionale notificazione cartacea ai soggetti abilitati, con esclusione delle spese di notifica. In pratica a breve le multe viaggeranno via posta elettronica certificata almeno nei riguardi dei soggetti già tenuti per legge a munirsi di una casella ad hoc.
Diversamente per i normali cittadini l'avvento della Pec sarà graduale e probabilmente lasciato alla discrezionalità degli interessati. Chi deciderà di attivarla ufficialmente sarà agevolato nei costi di spedizione postale delle multe (tratto da ItaliaOggi del 13.08.2013).

APPALTIDatabase contratti pubblici, il governo ci riprova.
Banca dati dei contratti pubblici, si riprova. La legge di conversione del «decreto del Fare» ha introdotto un nuovo articolo, 49-ter, che cerca di rilanciare un'idea di semplificazione estremamente utile per accorciare le procedure contrattuali: facilitare la verifica del possesso, da parte delle ditte aggiudicatarie, dei requisiti necessari per la stipulazione dei contratti, previsti dagli articoli 38, 41 e 42, del dlgs 163/2006.
L'idea è semplice: invece di chiedere, ad esempio, ai tribunali la sussistenza di cause di fallimento, invece che alle province il rispetto della normativa per l'assunzione dei disabili, che, in assenza della connessione tra le banche dati pubbliche, sempre evocata ma mai realizzata, si consente alle amministrazioni di accedere ad un'unica banca dati.
L'articolo 49-ter, a questo scopo, dispone che «per i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture sottoscritti dalle pubbliche amministrazioni a partire da tre mesi successivi alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, la documentazione comprovante il possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario è acquisita esclusivamente attraverso la banca dati di cui all'articolo 6-bis del codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163».
In effetti, ai sensi del citato articolo 6-bis, l'Autorità di vigilanza per i contratti pubblici deve stabilire con propria deliberazione i dati concernenti la partecipazione alle gare e la valutazione delle offerte in relazione che debbono essere inseriti nella banca dati, ma, soprattutto i termini e le regole tecniche per l'acquisizione, l'aggiornamento e la consultazione dei predetti dati contenuti nella Banca dati. Ciò consentirà alle stazioni appaltanti e agli enti aggiudicatori di verificare il possesso dei requisiti appunto esclusivamente tramite la banca dati nazionale dei contratti pubblici. Unico neo dell'impianto normativo rivitalizzato dal governo Letta è la circostanza che la banca dati, ai sensi del comma 1 dell'articolo 6-bis del codice dei contratti avrebbe dovuto entrare in funzione già dal 01.01.2013.
E c'era stato quasi un anno di tempo per organizzare tutto: l'impianto informatico e le delibere dell'Authority, visto che l'articolo 6-bis era stato introdotto dall'articolo 20, comma 1, lettera a), della legge 35/2012, entrata in vigore nell'aprile dello scorso anno. Se oltre un anno non è stato sufficiente per attivare uno strumento di semplificazione vera e non solo teorica, i tre mesi previsti dal «decreto del Fare» non lasciano oggettivamente ben sperare (tratto da ItaliaOggi del 13.08.2013).

ENTI LOCALI - VARIMediazione, che sia obbligatoria o facoltativa l'avvocato non è optional. Ci vuole l'avvocato per la mediazione obbligatoria. E anche per quella facoltativa.
Il decreto del fare ha riscritto il decreto legislativo 28/2010 sulla media-conciliazione, ripristinando, con alcune novità, il testo cancellato dalla Corte costituzionale per eccesso di delega (sentenza n. 272/2012). In particolare è stata ripristinata la mediazione obbligatoria e cioè quella che è necessario tentare altrimenti non è possibile andare avanti con una causa in tribunale.
È l'articolo 5 del decreto 28/2010 a occuparsi della materia e a specificare che deve passare prima dal mediatore chi intende esercitare in giudizio un'azione relativa a una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari.
Una prima novità è rappresentata dal fatto che nell'elenco delle materie si inserisce la responsabilità sanitaria (e quindi di tutte le professioni sanitarie, non solo quella del medico) e si elimina la responsabilità per sinistri di veicoli e natanti.
Altra novità è quella che specifica che nel procedimento di mediazione obbligatoria la parte deve essere assistita dall'avvocato. Così si lascerebbe intendere che nella mediazione relativa ad altre materie la presenza dell'avvocato non sia necessaria. Tuttavia il decreto legge del fare ha anche inserito altre regole relative alla presenza del legale di fiducia anche nelle conciliazioni per materie non obbligatorie.
All'articolo 8, comma 1, primo periodo, del decreto legislativo 28/2010 si prescrive che al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l'assistenza dell'avvocato. Inoltre, durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione e invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento. Questo articolo, che riguarda tutti i tipi di mediazione (obbligatoria e non obbligatoria) fa riferimento alla presenza e al ruolo dell'avvocato, tenuto a dare una sua risposta in merito alla proficuità del tentativo di conciliazione.
Ancora il riformulato articolo 12 del dlgs 28/2010 prevede che se tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato, l'accordo che sia stato sottoscritto dalle parti e dagli stessi avvocati costituisce titolo esecutivo per l'espropriazione forzata, l'esecuzione per consegna e rilascio, l'esecuzione degli obblighi di fare e non fare, nonché per l'iscrizione di ipoteca giudiziale. Gli avvocati devono attestare e certificare la conformità dell'accordo alle norme imperative e all'ordine pubblico. In tutti gli altri casi l'accordo allegato al verbale è omologato, su istanza di parte, con decreto del presidente del tribunale, previo accertamento della regolarità formale e del rispetto delle norme imperative e dell'ordine pubblico. Questa norma sembra fare riferimento a casi in cui l'avvocato è presente in mediazione da casi in cui, invece, è assente. Peraltro la presenza dell'avocato implica un grosso vantaggio: per passare all'esecuzione del verbale di accordo non bisogna passare in tribunale per l'omologazione. Quindi la norma incentiva fortemente la presenza dei legali di fiducia delle parti.
Riprendendo, d'altra parte, quanto affermato nei dossier parlamentari illustrativi del contenuto del decreto, si trova scritto che «in merito, in virtù di modifiche approvate nel corso dell'esame in prima lettura, nel testo del decreto-legge all'esame del senato risulta esplicitato in più disposizioni del decreto legislativo come il procedimento di mediazione richieda la partecipazione degli avvocati».
Se questa interpretazione è corretta (obbligatorio l'avvocato anche per le mediazioni non obbligatorie) verrebbe da chiedersi quali siano i residui casi in cui il verbale sia da omologare in tribunale (tratto da ItaliaOggi del 13.08.2013).

INCARICHI PROFESSIONALI - PROGETTUALI: Dal disciplinare alle società. La riforma resta ferma al palo. Ricognizione ItaliaOggi Sette a un anno dal dpr: per i professionisti è cambiato poco.
La riforma delle professioni compie un anno. Ma è ancora sulla carta. Nella pratica, infatti, per ordini e professionisti è cambiato ben poco, se non nulla: le società tra professionisti si contano col lumicino, per le troppe incognite sui trattamenti fiscali e previdenziali. Così come i consigli di disciplina, non ancora partiti, soprattutto a livello territoriale, per la difficoltà, in particolare per le categorie tecniche, di trovare professionisti disponibili a candidarsi. L'assicurazione obbligatoria, che entrerà in vigore il 15 agosto, può rivelarsi un boomerang per gli iscritti agli albi, dato che le compagnie, per le quali non è previsto alcun obbligo di legge, possono farla da padrone e proporre contratti anche molto onerosi o addirittura rifiutarsi di sobbarcarsi il rischio. Insomma, a un anno dalla sua approvazione, il dpr Severino (n. 137/2012) rimane un cantiere ancora aperto.
È quanto emerge dalla ricognizione di ItaliaOggi Sette, che ha passato in rassegna i singoli ordini professionali per verificare lo stato di attuazione della riforma. Dal canto loro, i Consigli nazionali hanno cercato di non farsi trovare impreparati all'appuntamento previsto dal dpr, che ha fornito loro, appunto, 12 mesi per adeguarsi alle nuove regole. Ma entriamo nel dettaglio.
Sistema disciplinare. L'esempio più eclatante è il regolamento sul sistema disciplinare che le professioni hanno dovuto approvare entro 90 giorni dall'entrata in vigore della riforma (15.11.2012). A partire dal via libera ministeriale di quel regolamento, poi, ogni ordine territoriale avrebbe dovuto inviare al tribunale competente un elenco dei componenti del consiglio di disciplina. Questo dovrà essere composto da una quantità di nominativi pari al doppio del numero dei consiglieri che il presidente del tribunale è chiamato a designare. A partire da quella rosa il presidente del tribunale dove ha sede il consiglio nominerà i consiglieri del Consiglio di disciplina territoriale.
Ed è stato proprio questo il punto più controverso che ha rallentato fino ad ora la creazione del nuovo sistema, la difficoltà di trovare (e poi di pagare) una rosa di professionisti disponibili allo svolgimento del compito richiesto. Di fatto ora i consigli di disciplina territoriali si contano sulle dita di una mano, così come quelli nazionali per i quali però le procedure sono diverse. Questo organo è, infatti, previsto solo per alcune categorie professionale (Agronomi e forestali, Agrotecnici, Assistenti sociali, Biologi, Commercialisti, Consulenti del lavoro e Tecnologi alimentari) giacché la maggior parte degli Albi è stata costituita prima della Costituzione e conserva quindi la giurisdizione speciale che la legge gli attribuiva.
Formazione continua e tirocinio. Per quanto riguarda la formazione continua, già vigente in alcuni casi nel mondo delle professioni, i regolamenti sono stati sì predisposti ma non entreranno in vigore prima del 2014. Altro snodo cruciale è quello del regolamento sul tirocinio non tanto nei tempi, con il nuovo tetto a 18 mesi, ma nell'esigenza di un passaggio ordinato tra vecchie e nuove regole. Alcune categorie (commercialisti per esempio) avevano già attivato un ampio sistema di convenzioni con gli atenei, con la possibilità di incrociare il periodo di tirocinio con la laurea specialistica: la regola dei 18 mesi attuata dal regolamento impone naturalmente di rivedere le convenzioni per adeguarle al nuovo calendario, ma resta da chiarire il destino dei percorsi già attivati con le nuove regole.
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Dal 15 agosto via all'obbligo dell'rc professionale. Le convenzioni stipulate dagli ordini
Parte la corsa all'assicurazione.

Corsa all'assicurazione obbligatoria. È scattato infatti per tutti i professionisti l'obbligo di stipulare una polizza che copra i rischi della responsabilità civile professionale. Tutti gli ordini, quindi, sia a livello nazionale sia locale, si sono mossi per stipulare accordi e convenzioni con agenzie di assicurazione per guidare e tutelare i propri iscritti nella scelta della polizza, che può rivelarsi anche molto costosa. Soprattutto perché il dpr n. 137/2012 non prevede alcun obbligo per le compagnie. Entriamo nel dettaglio.
Professioni giuridico-economiche. Per quanto riguarda gli avvocati, la professione è regolamentata dalla nuova legge di disciplina dell'ordinamento professionale forense (n. 247/2012) che da un lato, in materia di rc professionale, recepisce quanto previsto dal dpr Severino, dall'altro però l'assolvimento dell'obbligo è condizionato all'approvazione, da parte del ministero della giustizia del dm sulle condizioni essenziali e i massimali minimi. Dunque, il termine del 15 agosto non riguarda gli avvocati. Ad ogni modo, il Cnf ha affidato al broker Aon spa la consulenza sul programma assicurativo.
Il Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro, invece, che stima attualmente circa 15 mila professionisti assicurati su un totale di 22 mila, ha stipulato una convenzione con la compagnia Aig. I principali accordi prevedono: il premio di assicurazione commisurato agli introiti netti Iva contabilizzati dall'assicurato nell'anno precedente lo stesso; l'oggetto dell'attività professionale assicurata è relativo alla professione nella sua interezza; retroattività illimitata se il consulente è già assicurato, cinque anni se non è assicurato. Quanto ai costi, invece, si parte da 270 euro per un volume d'affari Iva fino a 40 mila euro l'anno, fino a 3.450 euro per un volume d'affari fino a 500 mila euro. Oltre e fino a 1,5 milioni è previsto il premio per la fascia precedente più il 4 per mille sulla differenza del fatturato.
Professioni tecniche. Il Collegio nazionale degli agrotecnici, che stima a oggi circa 500-1.000 professionisti assicurati su circa 15 mila, ha rinnovato e confermato il contratto stipulato nel 2007 con «Aec Master broker», appoggiato ai Lloyd's. Copre le seguenti tre aree: responsabilità civile, rischi del patrimonio, rischi della persona. A questo prodotto assicurativo ne è stato aggiunto un secondo, con Marsh Italia. Entrambi i prodotti sono divisi per scaglioni di fatturato (si parte da 25 mila, il più basso) e per massimali assicurabili.
Sono possibili estensioni per settori particolari, le polizze prevedono la retroattività. A prescindere dai due prodotti «validati» dal Collegio nazionale, gli iscritti all'albo sono liberi di assicurarsi con qualunque altra compagnia o broker. Il costo è di 230-250 euro per un fatturato entro i 25 mila euro. Il Conaf ha proceduto invece ad una gara pubblica per selezionare una compagnia per Polizza collettiva ad adesione e la gara (aggiudicata il 23.07.2013 e sottoscritta il 2 agosto) è stata aggiudicata per due anni alla Compagnia Aig Europe Limited.
Franchigia e premi flessibili tagliati a misura di professionista, copertura postuma ma, soprattutto, un disciplinare dettagliato senza clausole sulle attività del perito industriale. La copertura assicurativa per i periti industriali, per la prima volta estesa anche alle nuove forme societarie parte da questi principi ed è il risultato della collaborazione tra il Cnpi e il Broker Assicurativo Marsh S.p.a. grazie al quale è stato siglato un accordo quadro per una polizza sottoscritta con la compagnia Aig Europe Limited. Il costo è di circa 400 euro annuo per un volume di affari compreso entro i 50 mila euro e un massimale di 250 mila euro.
Nessuna convenzione predefinita per il Consiglio nazionale degli ingegneri che invece ha inviato una circolare in cui sono selezionate alcune offerte segnalate in virtù della conformità con i parametri fissati dal Cni. Le proposte in linea con la griglia di qualità degli ingegneri sono sei: Aec master broker, Gava broker, Link broker, Consulbrokers, Aon e Marsh. A queste si aggiunge la polizza Willis di Inarcassa che, al momento, rappresenta il riferimento di tutto il mercato.
Così un professionista con fatturato di 50 mila euro dovrà pagare, per un massimale di 500 mila euro con una franchigia di 2.500, intorno ai 400 euro all'anno. Chi guadagna 200 mila euro dovrà, invece, pagarne almeno 1.300 per una copertura simile. Mentre per un fatturato di 300 mila euro si sale fino a 1.700 euro. Gli architetti, invece, si sono affidati a un avviso pubblico per selezionare le compagnie con le quali sottoscrivere una convenzione (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Gli effetti delle Comunitarie 2013: novità per danni ambientali e incidenti industriali.
Rifiuti, stretta sulla gestione. Sotto la disciplina Raee tutti i grandi elettrodomestici.

Stretta sulla gestione dei rifiuti elettronici, spinta sul riciclo delle pile a fine vita, inasprimento delle responsabilità per danni ambientali, allargamento delle industrie sotto il controllo previsto dalle stringenti regole su emissioni industriali (c.d. «Ippc») e prevenzione degli incidenti rilevanti («Seveso»).
Queste le rilevanti novità ambientali previste dalle due nuove «Leggi comunitarie» licenziate in via definitiva dal Parlamento lo scorso 31/07/2013. Novità che saranno però tradotte sul piano operativo in tempi diversi: immediatamente quelle previste dalla «Legge europea».
Aee e Raee. In materia di apparecchiature elettriche ed elettroniche (c.d. «Aee») e relativi rifiuti (c.d. «Raee») le prime novità sono quelle previste dalle norme della «Legge europea» che riscrivono il dlgs 151/2005 e il dm 65/2010. Mediante ritocchi all'allegato 1B del dlgs 151/2005 il Legislatore riconduce sotto la disciplina dei Raee tutti gli elettrodomestici di grandi dimensioni, i condizionatori d'aria e i test di fecondazione.
Con la riformulazione del dm 65/2010 viene invece allargato il sistema semplificato di raccolta e trasporto dei Raee ai centri di trattamento da parte dei distributori di nuove apparecchiature. Le già previste semplificazioni ambientali saranno infatti assicurate per raggruppamenti e trasporti di Raee oltre i volumi massimi attualmente previsti. Ancora, realizzazione e gestione dei citati centri di raccolta potranno essere effettuati nelle strutture che rispettano i criteri autorizzatori generali ex dlgs 152/2006 in alternativa a quelli specifici ex dm 08.04.2008. La «legge di delegazione europea» apre invece la strada all'attuazione delle due nuove direttive in materia di «Aee» e «Raee»: rispettivamente la 2011/65/Ce e la 2012/19/Ue.
Il recepimento della direttiva 2011/65/Ce su fabbricazione di nuove Aee darà attuazione a tre novità imposte dal Legislatore comunitario: allargamento della definizione di Aee a qualsiasi apparecchiatura che dipende da correnti elettriche o campi elettromagnetici per espletare «almeno una» delle funzioni previste e ai relativi pezzi di ricambio; divieto di utilizzo nella fabbricazione di Aee delle sostanze pericolose già bandite dalla «disciplina Reach» sulle sostanze chimiche (regolamento Ce n. 1907/2006); obbligo per fabbricanti, importatori e distributori di garantire l'accesso alla documentazione tecnica delle apparecchiature commercializzate.
Con il recepimento della direttiva 2012/19/Ue arriverà invece l'obbligo di ritiro gratuito delle Aee usate da parte dei distributori di nuove apparecchiature domestiche passerà dall'attuale sistema «one on one» a quello «one on zero». Ma solo per i negozi al dettaglio con superficie di vendita uguale o superiore ai 400 metri quadrati che non riusciranno a dimostrare l'esistenza di regimi di raccolta alternativa altrettanto efficaci e comunque solo in relazione ai Raee provenienti da nuclei domestici di «piccolissime dimensioni». Sempre con il recepimento della nuova direttiva Raee arriverà altresì l'aumento delle percentuali minime di raccolta differenziata e di recupero di rifiuti da assicurare a livello nazionale, che dovranno salire dalle attuali 70-80 all'85%.
Pile e relativi rifiuti. Attraverso la rivisitazione del dlgs 188/2008 (di recepimento direttiva 2006/66/Ce) la «Legge europea» accelera sul riciclaggio delle batteria a fine vita. Sarà innanzitutto permesso alle imprese di effettuare il riciclaggio di pile ed accumulatori a fine vita fuori del territorio nazionale e comunitario, a condizione che siano rispettate le prescrizioni del regolamento (Ce) n. 1013/2006 sul trasporto internazionale di rifiuti. Ancora, potranno andare in discarica solo i residui di rifiuti di batterie preventivamente sottoposti ad operazioni di riciclaggio. Infine, l'apposizione del simbolo recante l'obbligo di conferimento in raccolta differenziata.
Danno ambientale. Tre i punti di intervento della «Legge europea» mediante la riformulazione del dlgs 152/2006 (c.d. «Codice ambientale»): ridefinizione dei criteri di imputazione della responsabilità; eliminazione dell'equivalenza tra «bonifica» e «risarcimento»; limitazione della possibilità del risarcimento «per equivalente patrimoniale». Sotto il primo profilo vengono ora previste due differenti categorie di soggetti: da un lato coloro che svolgono una delle attività a elevato rischio previste dall'allegato 5, Parte VI del dlgs 152/2006 e dall'altro coloro che svolgono attività diverse.
I soggetti appartenenti alla prima categoria rispondono dei danni ambientali in base ad una sorta di «presunzione di responsabilità», responsabilità comunque superabile fornendo prova del «fatto del terzo», del caso fortuito o della forza maggiore. Gli altri soggetti saranno invece chiamati a rispondere del danno ambientale solo qualora si dimostri la sussistenza del dolo o della colpa. Sotto il secondo profilo, invece, l'effettuazione o il semplice avvio della bonifica dei siti inquinati non varrà più a escludere a carico del responsabile l'obbligo di risarcimento del danno ambientale. Infine, sotto il terzo profilo, il danno cagionato da soggetti che svolgono attività ad alto rischio non potrà più essere risarcito «per equivalente economico», ma solo in forma specifica tramite il ripristino della situazione precedente.
Controllo emissioni industriali («Ippc»). La delega per l'attuazione dell'ultima direttiva 2010/75/Ce sull'«Ippc» comporterà un allargamento delle imprese obbligate all'adozione delle «migliori tecniche disponibili» nell'abbattimento dell'inquinamento per poter svolgere la propria attività. Con il recepimento della direttiva 2010/75/Ce la disciplina «Ippc» sarà infatti estesa agli impianti di combustione di potenza termica compresa tra 20 e 50 Mw, agli impianti industriali per la conservazione del legno e dei prodotti di legno, alle imprese di produzione dei pannelli a base di legno. Il recepimento della direttiva 2010/75/Ce aprirà altresì le porte alle nuove e future citate «migliori tecniche disponibili» che l'Ue approverà sulla base di parametri di tutela ambientale più elevati.
Prevenzione incidenti rilevanti («Seveso»). Con la delega al recepimento della direttiva 2012/18/Ue sul «controllo dei pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose» si avvicina invece l'allargamento degli impianti sottoposti alla rigida disciplina e l'ampliamento degli adempimenti di prevenzione a carico dei relativi gestori. L'allargamento del campo di applicazione scatterà con l'inclusione di 14 nuove sostanze nell'elenco di quelle che obbligano chi le gestisce all'adozione delle precise misure di prevenzione degli incidenti industriali rilevanti. L'upgrade degli obblighi per i gestori sarà invece effetto della maggiore analiticità richiesta dalla nuova direttiva nella documentazione comprovante l'effettuata attività di prevenzione (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013).

VARI: Patenti tutte nuove. Il duplicato a casa. E tracciato. La nuova procedura è partita il 1° luglio scorso.
Dal 1° luglio il duplicato della patente di guida richiesto dall'automobilista per furto, smarrimento o distruzione arriverà direttamente a casa con una nuova procedura molto dettagliata. E se l'interessato non sarà soddisfatto della qualità della stampa o evidenzierà errori potrà immediatamente contestare il nuovo documento e richiederne un nuovo gratuitamente alla motorizzazione civile.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con la circolare 12.07.2013 n. 18260 di prot..
Dal 1° luglio, specifica innanzitutto la circolare, è attivo il nuovo servizio di personalizzazione centralizzata delle patenti di guida che al momento si occuperà però solo del rilascio delle nuove patenti ottenute per esame e di quelle richieste come duplicato della licenza. In particolare per i documenti di guida richiesti a seguito di smarrimento, distruzione e furto il servizio di recapito a domicilio dell'interessato diventa particolarmente dettagliato.
Per massimizzare la possibilità di consegna il nuovo servizio prevede un primo tentativo di recapito all'indirizzo di residenza del titolare. Se il soggetto è assente l'addetto al recapito inserirà in buchetta un avviso di mancata consegna con istruzioni operative. In questo caso l'interessato potrà contattare un apposito call center di Poste Italiane per concordare una successiva consegna. Se anche questo secondo tentativo non andrà a buon fine l'addetto alla consegna inserirà in buchetta un ulteriore avviso informativo. In ipotesi di ulteriore tentativo di consegna non andato a buon fine la nuova patente verrà depositata presso l'ufficio postale di riferimento dove rimarrà in giacenza per 60 giorni, pronta per essere ritirata dall'intestatario o da un suo delegato.
Al momento del ritiro postale l'utente dovrà però corrispondere l'importo complessivo di 17,50. Trascorsi 60 giorni dal deposito postale la patente verrà poi spedita all'ufficio provinciale della motorizzazione dove l'interessato potrà rivolgersi per il prelievo del documento, previo pagamento di un ulteriore importo maggiorato. Ma se il soggetto tarderà oltre 240 giorni al ritiro del documento la patente andrà distrutta dalla stessa motorizzazione.
Nel caso in cui la patente ricevuta presenti invece dati errati o risulti visivamente di scarsa qualità, conclude la circolare, il titolare potrà immediatamente richiedere il duplicato del documento, senza alcun onere a suo carico, ad un qualunque ufficio della motorizzazione civile (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013).

EDILIZIA PRIVATAAcquisto. Gli obblighi. Il certificato energetico va sempre allegato.
Lo scopo è quello di dare ai futuri abitanti della casa un'informazione immediata su quanto consuma, sotto l'aspetto energetico, il bene che stanno per acquistare o affittare.

L'indicazione è racchiusa in un documento che dal 6 giugno si chiama Ape (Attestato di prestazione energetica) e che deve essere prodotto per tutte le nuove costruzioni o in caso di ristrutturazione di un immobile, di vendita, di locazione e persino di cessione a titolo gratuito. Pena: una serie di sanzioni, ma soprattutto la nullità del contratto di trasferimento.
Il quadro sulla certificazione energetica in Italia è così ridisegnato dalla legge 90/2013, che è entrata in vigore il 4 agosto scorso e ha convertito il Dl 63/2013 di inizio giugno. Con questo provvedimento, con cui sono integrati i contenuti del Dlgs 192/2005 (il testo base nel nostro Paese sul rendimento energetico), anche Roma recepisce la direttiva europea 2010/31/Ue. L'Ape, che sostituisce il vecchio Ace (Attestato di certificazione energetica), è il documento che attesta la prestazione energetica di un edificio e fornisce raccomandazioni per il miglioramento dell'efficienza energetica.
A sua volta, la prestazione energetica dipende dalla quantità annua di energia primaria effettivamente consumata o che si prevede necessaria per soddisfare, con un uso standard dell'immobile, i vari bisogni energetici dell'edificio. Vale a dire: la climatizzazione invernale ed estiva, la preparazione dell'acqua calda per usi igienici e sanitari, la ventilazione e, per il settore terziario, l'illuminazione, gli impianti ascensori e scale mobili. Difficile quantificare da subito il costo del nuovo documento che, è più complesso del vecchio Ace, il quale, in linea di massima, si aggirava dai 250 ai mille euro a seconda anche delle dimensioni della casa.
In base alla prestazione raggiunta, l'unità immobiliare viene anche classificata in una scala da A a F. L'attestato riporta, dunque, anche la classe energetica; i requisiti minimi di efficienza energetica vigenti; le raccomandazioni per migliorare la performance, separando la previsione di interventi di ristrutturazione importanti da quelli di riqualificazione energetica.
La targa deve essere rilasciata da esperti qualificati e indipendenti, in possesso di iscrizione all'Ordine o Collegio e dei requisiti di formazione ed esperienza fissati nel Dpr 75/2013. Sarà valida per dieci anni, a meno che nel frattempo l'immobile non venga sottoposto a una riqualificazione tale da cambiarne i consumi (per esempio, con la sostituzione degli infissi) o che non vengano eseguiti i controlli dei sistemi tecnici, in primis sugli impianti termici, fissati dalla legge.
I soggetti obbligati
Il rilascio dell'Ape spetta, nel caso di immobili nuovi o ristrutturati, alla società o impresa che ha effettuato i lavori; tocca invece al proprietario di un'unità immobiliare in caso di cessione o di affitto produrre l'attestato da allegare agli atti. Già nell'annuncio immobiliare è obbligatorio indicare sia l'indice di prestazione energetica dell'involucro edilizio e globale (dell'intero edificio o dell'unità immobiliare), sia la classe energetica di riferimento.
In attesa di uno o più decreti attuativi che dovranno essere emanati dal ministero dello Sviluppo entro l'anno, la targa si compila ancora secondo le regole del vecchio Ace e cioè seguendo le norme Uni/Ts 11300, la raccomandazione Cti 14/2003 e la Uni En 15193 per l'illuminazione.
Come ha chiarito una nuova circolare (nota n. 16416 del Dipartimento per l'energia dello Sviluppo economico), sui territori (Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, Valle d'Aosta e le Province di Trento e Bolzano) con un proprio sistema per l'attestato di certificazione (recependo la direttiva 2002/91/CE e solo in alcuni casi già la 2010/31/Ue) si procede con le regole locali. È aperto comunque un tavolo di confronto con il ministero, per superare le distinzioni e rendere omogeneo il rilascio.
Le sanzioni
Il Parlamento ha reintrodotto la nullità degli atti in caso di mancata allegazione dell'Ape al contratto di vendita o locazione. Previsione che era stata cancellata nel 2008 dalla legge 133. Ciò vale per tutto il territorio nazionale, comprese le Regioni che hanno un sistema locale di rilascio delle targhe. Le sanzioni, rese più severe dal Dl 63, cambiano invece a seconda della disciplina nazionale o locale. A livello nazionale, solo per citare qualche esempio, il costruttore o il titolare di un fabbricato che non predispone l'Ape per un immobile nuovo o ristrutturato va incontro a una multa dai 3mila ai 18mila euro.
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I CONTRATTI
Rischio nullità senza il documento

Nullità per i contratti di «vendita», per gli «atti di trasferimento di immobili a titolo gratuito» e per i «nuovi contratti di locazione» qualora l'Attestato di prestazione energetica (Ape) non sia «allegato al contratto»: è questa la novità, abbastanza dirompente, della legge di conversione del decreto legge 63/2013, in tema di prestazione energetica nell'edilizia (il cosiddetto Dl "eco-bonus"), la quale introduce, con tale tenore letterale, il nuovo comma 3-bis all'articolo 6 del Dlgs 192/2005.
La novità è dirompente. Non solo la norma dispone una sanzione civilistica gravissima (che si aggiunge comunque a quelle pecuniarie, riassunte nella tabella a fianco) -quando invece l'introduzione, a opera del Dl 63/2013, di un largo panorama di notevoli sanzioni pecuniarie, aveva fatto credere che, sul discorso sanzionatorio in tema di Ace/Ape, ampiamente sviluppatosi in passato, fosse stata posta la parola fine-, ma anche finirà inevitabilmente per porre seri ostacoli alla contrattazione immobiliare, almeno per qualche tempo (e cioè fino a che gli operatori non avranno preso dimestichezza con questa complicata materia). L'unica consolazione è che, trovandoci in un periodo di mercato asfittico e per di più in agosto, questa ipotizzata paralisi non dovrebbe comunque avere effetti catastrofici.
I temi che la norma solleva sono molteplici e, in taluni casi, niente affatto semplici. Anzitutto, va notato che la nuova disciplina ha un ampio spettro applicativo: si occupa infatti di qualsiasi contratto di «vendita» (e quindi anche i contratti che abbiano a oggetto solo quote di comproprietà oppure diritti reali parziari), di qualsiasi atto «a titolo gratuito» (e quindi, per esempio, di donazioni, di patti di famiglia e di trust traslativi) e di qualsiasi nuovo contratto di locazione.
Quanto ai contratti traslativi a titolo oneroso, ci sarà da verificare se la nuova norma riguardi le sole compravendite, come il suo dato testuale farebbe pensare, oppure se essa contempli qualsiasi tipologia di atto traslativo: permute, conferimenti in società, transazioni, rendite vitalizie eccetera.
Altro problema è quello di stabilire che valenza abbiano le norme regionali emanate in materia di Ace/Ape con riguardo all'attività negoziale. Sul punto, pare scontato concludere che, essendo la materia contrattuale sottratta per definizione al legislatore regionale (articolo 117, comma 2, lettera l), della Costituzione) ed essendo disposta una sanzione così grave come la nullità a opera della legge statale, inevitabilmente ciò finisce per mettere fuori gioco qualsiasi altra prescrizione di rango gerarchico inferiore.
Pare risolto invece il tema di come confezionare l'attestato nelle Regioni che hanno emanato una propria normativa: si dovrebbe continuare a utilizzare gli Ace elaborati come disposto dalle normative "locali", come suggerisce la nota dello Sviluppo economico prot. n. 16416 del 07.08.2013 (si veda Il Sole 24 Ore dell'8 agosto scorso) (tratto da Il Sole 24 Ore del 12.08.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - VARI: La semplificazione dei nuovi obblighi parte dal calendario. Norme in vigore il 1° gennaio o il 1° luglio.
GRAN CALDERONE/ Aiuti a studenti meritevoli, taglio di certificati, internet: il decreto del fare ha toccato diversi aspetti della vita di cittadini e imprese.

Non si tratta di un intervento organico: si va, infatti, dalla semplificazione delle procedure amministrative all'indennizzo in caso di ritardi degli uffici pubblici, dal domicilio digitale agli aiuti agli studenti meritevoli, dalla "liberalizzazione" di internet all'abolizione di parte delle tasse sulla nautica da diporto. Tuttavia nel gran calderone del decreto del fare (Dl 69/2013), convertito in legge venerdì scorso, si possono rintracciare una serie di misure che impattano sulla vita di tutti i giorni, con l'obiettivo di renderla più semplice.
Per alcune novità gli effetti si vedranno da subito. È il caso, per esempio, della misura –già operativa dal 2 luglio– che prevede due sole date (il 1° gennaio e il 1° luglio) per l'entrata in vigore degli adempimenti relativi a cittadini e imprese. Altre norme avranno, invece, bisogno di più tempo per diventare efficaci, perché rinviano a ulteriori disposizioni che dovranno dar loro attuazione.
È il caso, per esempio, del domicilio digitale, che in teoria già esiste dal 1° gennaio scorso come possibilità per ogni cittadino di dotarsi di una casella di posta elettronica certificata (Pec) da utilizzare come "buca delle lettere" informatica a cui le pubbliche amministrazioni possono inviare messaggi e comunicazioni. Il decreto del fare si propone di andare oltre e incentivare il ricorso a questo strumento, prevedendo che il cittadino ne sia dotato quando richiede il documento unificato o farà domanda di iscrizione anagrafica o di cambio di residenza una volta entrata a regime l'anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr). Il problema è che questi ultimi due strumenti sono di là da venire: il documento unificato presuppone la carta d'identità elettronica, di cui si parla invano da anni: si tratta, infatti, della carta di identità elettronica allargata a contenere la tessera sanitaria e destinato, specifica il decreto del fare, a sostituire anche il tesserino fiscale; per l'altro verso, l'anagrafe nazionale della popolazione residente ha ricevuto il via libera del Consiglio di Stato nei giorni scorsi, ma il cammino è ancora lungo.
Altrettanto dicasi per la semplificazione dei certificati di gravidanza, che saranno inviati all'Inps in via telematica dai medici o dalle strutture sanitarie solo tre mesi dopo che diventerà operativo il decreto con le procedure di trasmissione, per approntare il quale ci sono sei mesi di tempo.
Efficace da subito, invece, la soppressione dell'obbligo del certificato medico per chi svolge attività ludico-motoria e amatoriale. In questo modo è stata modificata una normativa recentissima, dettata da un decreto del 24 aprile scorso, il quale ha definito le diverse attività sportive e i relativi accertamenti medici. Per l'attività ludico-motoria e amatoriale era stato, appunto, previsto l'obbligo del certificato medico. Novità anche per l'attività sportiva non agonistica, che finora richiede (sempre secondo il decreto di aprile) il certificato medico, la misurazione della pressione arteriosa e l'elettrocardiogramma a riposo. Il decreto del fare mantiene l'obbligo del certificato ma lascia al medico di base o al pediatra la decisione se procedere a ulteriori accertamenti.
Immediata anche l'operatività della disposizione che impone agli uffici di anagrafe di comunicare agli stranieri nati in Italia il diritto di poter acquisire la cittadinanza a partire dal 18° anno: in questo modo si rende più penetrante quanto previsto dall'articolo 4 della legge 91 del 1992, che subordina l'acquisizione della cittadinanza alla dichiarazione che l'interessato deve presentare entro un anno dal raggiungimento della maggiore età. Ora c'è l'obbligo di informarlo di tale diritto.
Anche gli aiuti per gli studenti meritevoli non dovrebbero conoscere lungaggini. La nuova legge, infatti, stanzia 5 milioni per il 2013 e altrettanti per il 2014 e 7 per il 2015. Serviranno per aiutare quanti desiderano studiare fuori sede. Per accedere alla graduatoria che ogni Regione stilerà bisogna possedere determinati requisiti, a cominciare dal voto di diploma non inferiore a 95/100. La borsa può essere rinnovata, dietro domanda, purché si dimostri di aver tenuto una tabella di marcia da studente modello: acquisizione di almeno il 90% dei crediti formativi, media del 28 e nessun esame al di sotto del 26.
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IL TOUR DE FORCE - Corsa alla conversione
Non solo decreto del fare. La chiusura estiva del Parlamento è stata, infatti, preceduta da un tour de force imposto dalla conversione dei Dl che altrimenti rischiavano di saltare. Se l'ultimo ad avere ricevuto il via libera è stato il decreto del fare (che sarebbe scaduto il 20 agosto), nei giorni precedenti le Camere avevano licenziato anche i Dl sull'occupazione (la cui deadline cadeva il 26 agosto) e lo svuota carceri, che spirava a fine mese.
I Dl rimasti
A questo punto, dei nove decreti legge varati dal Governo Letta, ne rimangono in piedi solo due, che però sono di conio recentissimo. Si tratta, infatti, delle misure per la tutela, la valorizzazione e il rilancio del patrimonio culturale (decreto approvato dal Consiglio dei ministri il 2 agosto e che ancora deve affrontare l'esame parlamentare) e del Dl sul femminicidio, licenziato da Palazzo Chigi venerdì scorso. Ci sarebbe, poi, il decreto sui pagamenti dei debiti degli enti del servizio sanitario, che però non ha più ragione di esistere perché è confluito nel decreto del fare.
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Le principali novità per cittadini e famiglie previste dal decreto del fare (Dl 69/2013), convertito in legge venerdì
BORSE DI MOBILITÀ PER GLI STUDENTI MERITEVOLI
Borse di studio di mobilità per gli studenti che intendono frequentare un'università statale o non statale italiana (escluse quelle telematiche) in una regione diversa da quella in cui risiedono insieme alla famiglia. Ammesso agli aiuti chi soddisfa determinati criteri (tra cui un voto di diploma pari o superiore a 95/100)
CERTIFICATI DI GRAVIDANZA
Invio all'Inps solo telematico dei certificati di gravidanza, di parto o di interruzione di gravidanza. Lo deve fare il medico o la struttura sanitaria. Fino a che la nuova norma non sarà operativa dovrà continuare a pensarci la lavoratrice
CERTIFICATI SPORTIVI
Niente certificato medico per l'attività ludico-motoria (per esempio, il gioco delle bocce, il biliardo, la ginnastica per anziani). Per quella non agonistica resta l'obbligo del certificato medico, ma ulteriori accertamenti sono a discrezione del medico
CITTADINANZA AGLI STRANIERI NATI IN ITALIA
Gli ufficiali di stato civile devono comunicare allo straniero nato in Italia, sei mesi prima che quest'ultimo compia il 18° anno di età, la possibilità di acquisire la cittadinanza italiana, specificando che può esercitare il diritto entro il 19° anno
DATA UNICA PER I NUOVI OBBLIGHI
L'efficacia degli atti normativi del Governo e di quelli a carattere generale delle amministrazioni statali, degli enti pubblici nazionali e delle agenzie decorre dal 1° luglio o dal 1° gennaio successivi alla data di entrata in vigore degli atti
DOCUMENTO UNIFICATO
Sostituisce a tutti gli effetti il tesserino di codice fiscale rilasciato dall'Agenzia delle entrate
DOMICILIO DIGITALE
All'atto della richiesta del documento unificato o dell'iscrizione all'anagrafe o del cambio di residenza viene assegnata una Pec che serve da domicilio digitale
INDENNIZZO PER I RITARDI DELLA PA
Nel caso di lentezza della Pa nella conclusione dei procedimenti, si ha diritto a un indennizzo di 30 euro per ogni giorno di ritardo, fino a un massimo di 2mila euro
INTERNET
L'offerta al pubblico di accesso a internet tramite il wifi non richiede che il gestore del servizio proceda all'identificazione di chi utilizza la rete
INVALIDITÀ
Chi ha un'invalidità prevista dal decreto 225/2007 (inclusi i soggetti affetti da sindrome da talidomide o di Down) è esonerato da ulteriori visite presso l'Inps
NAUTICA DA DIPORTO
Soppressa la tassa per le unità da diporto fino a 14 metri e dimezzata per quelle da 14 a 20 metri.
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Burocrazia. Il rimedio alle lungaggini degli uffici. L'indennizzo per i ritardi debutta in via sperimentale.
MONITORAGGIO/ Per il momento riguarderà i procedimenti di avvio dell'attività d'impresa e dopo 18 mesi si valuterà se estenderlo agli altri atti.

Il decreto del fare contiene anche un esperimento: è quello che si tenta con la norma che introduce l'indennizzo per i ritardi della pubblica amministrazione. La disposizione sarà, infatti, operativa –a partire dall'entrata in vigore della legge di conversione– solo per i procedimenti amministrativi che riguardano l'avvio dell'attività di impresa. Dopo 18 mesi si farà il punto e, anche in base a un monitoraggio su come la misura avrà funzionato, si deciderà se correggerla, se estenderla a tutti i procedimenti o, in caso di scarsi risultati, di cancellarla.
Eventualità quest'ultima che appare legata più alle difficoltà applicative che ai rilevanti esborsi a cui la Pa potrebbe andare incontro. Il meccanismo, infatti, rischia di incepparsi nelle faticose procedure burocratiche, quelle stesse che spesso determinano le lungaggini delle pratiche.
L'impianto generale della norma prevede che di fronte all'inosservanza del termine di conclusione del procedimento amministrativo iniziato a istanza di parte e per il quale sussista da parte dell'ufficio l'obbligo di pronunciarsi (sono escluse le ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici), il cittadino possa chiedere un indennizzo pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo, fino a un importo massimo di 2mila euro.
L'indennizzo non scatta automaticamente, ma solo se l'interessato aziona entro venti giorni il potere sostitutivo, cioè bussa alla porta del funzionario a cui è stato affidato il potere di intervenire in caso di inerzia dell'amministrazione. Di fronte a quest'ultimo si aprono due strade: fare in modo che il procedimento in ritardo venga concluso almeno nella metà del tempo previsto in origine oppure liquidare al cittadino l'indennizzo.
Se nessuna delle due vie viene percorsa, non resta che il ricorso al Tar, che beneficia in questo caso della riduzione a metà del contributo unificato, l'importo che si paga per rivolgersi al giudice.
Al di là dell'allungamento dei tempi che un contenzioso comporta, bisogna aggiungere che la sconfitta la si paga cara: infatti, nel caso il ricorso venga dichiarato inammissibile, il ricorrente viene condannato, con sentenza immediatamente esecutiva, a pagare una somma da due a quattro volte il contributo unificato (tratto da Il Sole 24 Ore del 12.08.2013).

INCARICHI PROFESSIONALI - PROGETTUALI: I giudici estendono la responsabilità dei professionisti. L'obbligo di assicurarsi scatta giovedì ma le sentenze hanno tracciato la rotta.
L'obbligo di assicurarsi contro i danni provocati ai clienti debutta solo giovedì 15 agosto, ma i professionisti devono fare già da tempo i conti con le condanne ai risarcimenti inflitte dai giudici. Anzi: negli ultimi anni la giurisprudenza ha virato verso una maggiore severità nel valutare la condotta degli iscritti agli Albi, arrivando a censurare il mancato raggiungimento del risultato.
Obbligo non per tutti
L'obbligo di stipulare una polizza per la responsabilità professionale è stato introdotto dalla legge 148/2011 e poi precisato dal Dpr 137/2012, insieme agli altri interventi dedicati al mondo delle professioni. Sempre il Dpr 137/2012 ha fatto slittare di un anno l'applicazione dell'obbligo di assicurarsi, che in origine doveva diventare operativo ad agosto 2012.
Ma non tutti i professionisti sono coinvolti dalla scadenza di Ferragosto. I notai, ad esempio, sono già assicurati da anni: già nel 1999 il Consiglio nazionale del notariato ha stipulato una polizza che copre tutti gli iscritti e nel 2006 assicurarsi è diventato obbligatorio. Per avvocati e medici, invece, l'appuntamento con la polizza obbligatoria è spostato più avanti. Gli avvocati, infatti, seguono la corsia tracciata dalla riforma forense (legge 247/2012), che prevede le polizze professionali debbano essere stipulate in base alle condizioni che il ministero della Giustizia deve ancora stabilire. E ai professionisti della sanità è stata concessa una nuova proroga di un anno, approvata nel corso del passaggio in Parlamento per la conversione in legge del decreto del fare (69/2013).
Tutti gli altri iscritti agli Albi, se svolgono un'attività libero professionale organizzata, devono dotarsi di adeguate coperture per salvaguardare il proprio patrimonio e garantire il soddisfacimento delle pretese risarcitorie dei clienti che si ritengono danneggiati. Chi non si assicura commette un illecito disciplinare, sanzionato dai Consigli nazionali, che però hanno spiegato (si veda «Il Sole 24 Ore del lunedì» del 5 agosto) che non avvieranno i controlli prima di settembre.
Giurisprudenza in evoluzione
Ma quali sono i casi in cui scatta la responsabilità del professionista? Per i giudici, in linea generale, il contratto d'opera professionale impone di garantire al cliente non il raggiungimento comunque del risultato auspicato, ma l'adozione della dovuta diligenza per conseguirlo (obbligazione "di mezzi"). Ad esempio, un medico –secondo la giurisprudenza tradizionale– non può essere tenuto a garantire la guarigione del paziente, né un mediatore può assicurare al cliente che l'affare che si è assunto l'onere di promuovere venga effettivamente concluso. I giudici, piuttosto, devono valutare se la prestazione svolta è idonea a soddisfare l'interesse del cliente, per poter ritenere che l'incarico professionale sia stato eseguito a regola d'arte.
Ma negli ultimi anni la magistratura sta sempre più valorizzando le aspettative del cliente. E, in alcuni settori professionali, ha spostato l'ago della bilancia verso una censura per il mancato raggiungimento del "risultato". È il caso, ad esempio, del commercialista che, nella redazione di una dichiarazione dei redditi, incorrere nell'obbligo di risarcire il danno al proprio cliente legato alle sanzioni tributarie erogate dall'Erario che verifichi la non pertinenza di costi in detrazione perché non documentati. Ciò anche se tali costi siano stati riportati dallo stesso contribuente al professionista. La diligenza del revisore contabile, dunque, si estende fino all'onere di verificare la veridicità di quanto dichiarato dal proprio cliente in sede di conferimento dell'incarico (si veda la sentenza 9916/2010 della Cassazione).
Un profilo di diligenza elevato è richiesto anche all'avvocato, chiamato a prevedere (si veda la sentenza della Cassazione 18612/2013) anche le possibili evoluzioni giurisprudenziali per sciogliere un contrasto. L'avvocato deve quindi adottare a favore del proprio assistito la linea processuale più prudenziale, tenendo anche presente la possibilità che vengano rivisitati gli orientamenti prevalenti circa la tematica per la quale il cliente si è affidato alla sua assistenza.
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SINDACO DI SOCIETÀ
Se viene dimostrato in giudizio il nesso causale tra l'omesso controllo della contabilità da parte dei sindaci della società e il fallimento, va affermata la responsabilità professionale degli stessi professionisti. Infatti, il danno non si sarebbe verificato se i sindaci avessero tenuto una condotta conforme ai loro doveri e se gli eventi successivi si fossero evoluti secondo le regole. Perché sussista il nesso causale è necessario dimostrare che l'omissione dei controlli aveva consentito di proseguire l'attività e che l'effettuazione dei controlli avrebbe consentito di evitare il danno - Cassazione, sentenza 13081 del 27.05.2013
AVVOCATO
L'opinabilità della soluzione giuridica che si prospetti al professionista gli impone una diligenza e una perizia adeguate alla contingenza: la scelta professionale sulla strategia processuale da adottare deve cadere sulla soluzione che consenta di tutelare maggiormente il cliente. L'esistenza di un contrasto giurisprudenziale e la compresenza di approdi non collimanti fra loro non possono costituire esimenti dalla colpa grave per l'avvocato che adotti la linea poi disattesa in sede di composizione del conflitto - Cassazione, sentenza 18612 del 05.08.2013
COMMERCIALISTA
Costituisce obbligo di diligenza del commercialista nel redigere la dichiarazione dei redditi non appostare costi privi di documentazione o non inerenti all'anno della dichiarazione, comportamento che radica la responsabilità del consulente nei confronti del contribuente dichiarante e che ne giustifica la condanna al risarcimento dei danni. Se viola questo obbligo, il professionista deve essere condannato a pagare la metà delle sanzioni erariali, in virtù della colpa concorrente del contribuente - Cassazione, sentenza 9916 del 26.04.2010
DIRETTORE DEI LAVORI
Il direttore dei lavori è responsabile, in concorso con l'appaltatore, dei difetti dell'opera appaltata e deve rispondere di eventuali danni verso terzi. Circa la responsabilità conseguente a vizi o difformità dell'opera appaltata, il direttore dei lavori per conto del committente presta un'opera professionale in esecuzione di un'obbligazione di mezzi e non di risultati, ma deve utilizzare le proprie risorse intellettive e operative per assicurare il risultato che il committente si aspetta di conseguire - Cassazione, sentenza 1218 del 27.01.2012
MEDICO
La responsabilità del medico dipendente da struttura sanitaria pubblica o privata va ricondotta agli articoli 1218 e seguenti del Codice civile. L'inquadramento vale per il medico e per la struttura. La Cassazione ha inquadrato la responsabilità dell'operatore sanitario nell'ambito contrattuale (l'accettazione del paziente in ospedale comporta la conclusione di un contratto) e ha ravvisato natura contrattuale anche nell'obbligazione del medico dipendente dalla struttura verso il paziente - Tribunale di Milano, sentenza 6757 del 2013.
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Il nodo. Complesso delimitare il danno. Perimetro incerto per i risarcimenti.
LA DIFESA/ Necessario provare l'assoluta impossibilità di raggiungere lo scopo o di evitare il pregiudizio al proprio assistito.

Il professionista che commette un errore non scusabile deve rispondere delle conseguenze arrecate al proprio cliente. Ma come si determina il danno da risarcire? Si tratta di una questione importante perché l'entità del danno che si rischia di provocare in base all'attività svolta è uno degli elementi chiave per guidare il professionista nella scelta della polizza giusta.
Nel nostro ordinamento, chi commette un'azione illecita (e in questa definizione rientra anche il comportamento errato del professionista) deve risarcire tutti i danni che possono essere messi in relazione causale diretta con la propria condotta. Nel caso dell'attività professionale, non sempre è agevole determinare il danno risarcibile perché le azioni e le omissioni del professionista possono avere molteplici conseguenze non sempre tutte riferibili alla condotta colpevole.
Così, se è chiaro che il medico deve risarcire le lesioni conseguenti a una propria errata tecnica operatoria, è anche evidente che non deve rispondere delle conseguenze menomanti legate alla malattia contratta dal paziente per causa naturali non imputabili ad alcuno. Il problema, piuttosto, è definire la linea di confine tra le diverse situazioni. Anche il commercialista che sbaglia a redigere il conto economico per il proprio assistito non è tenuto a versare al Fisco i maggiori oneri fiscali a carico del contribuente, ma deve risarcire il danno per le sanzioni comminate dall'Erario come, ad esempio, gli interessi di mora sul ritardato pagamento imputabile all'errore del professionista.
Talvolta, prevedere i danni futuri collegati in via diretta al l'errore non è semplice. Si pensi all'architetto che commette un errore nella progettazione di un edificio. In questo caso, il danno può consistere nei costi per le modifiche strutturali che si rendano necessarie per ovviare alle carenze del progetto. Ma l'impresa immobiliare committente può anche subire un danno di tipo finanziario perché, ad esempio, il tempo necessario al ripristino ad arte del manufatto ritarda la vendita delle unità immobiliari finite alla clientela. Mentre il notaio che non effettua le visure catastali che attestano la libertà da vincoli dell'unità immobiliare oggetto della compravendita tra privati, deve risarcire, secondo la giurisprudenza (si veda la sentenza 14865/2013 della Cassazione) tutti i danni subiti dall'acquirente che veda inaspettatamente sottratto alla sua disponibilità il bene pur regolarmente acquistato, oltre agli onere fiscali e finanziari sostenuti, ad esempio, per contrarre il mutuo.
L'assunzione di un incarico, dunque, pone il professionista nella condizione di dover fornire al cliente il contributo tecnico necessario a conseguire il risultato sperato. La negligenza o l'imperizia nell'eseguire il mandato lo espongono alla necessità di provare in un giudizio che, anche adottando la miglior scienza, non sarebbe stato possibile raggiungere lo scopo (perché impedito da fattori a lui non riconducibili), o che i danni lamentati si sarebbero comunque verificati a prescindere dell'errore commesso (tratto da Il Sole 24 Ore del 12.08.2013).

EDILIZIA PRIVATAIter più snello, ma niente Scia per modificare la sagoma. Semplificazione a metà sugli immobili vincolati.
Iter semplificato –ma solo in parte– per gli immobili vincolati. Il decreto del fare (Dl 69/2013, convertito in legge dal Parlamento) da un lato alleggerisce la procedura per il rilascio del permesso di costruire per gli immobili sottoposti a vincoli, mentre dall'altro continua a richiederlo –o in alternativa la Dia– quando si realizzano su edifici vincolati interventi di demolizione e ricostruzione con modifica della sagoma.
Il vincolo di sagoma
Di fatto, la deregulation sul rispetto della sagoma introdotta all'articolo 10, comma 1, lettera c), del Dpr 380/2001 (si veda l'articolo in basso) non si applica agli immobili assoggettati a vincoli previsti dal Dlgs 42/2004. Nel caso di questi immobili gli interventi di demolizione e ricostruzione per essere considerati di ristrutturazione edilizia devono conservare volumetria e sagoma preesistenti (negli immobili non vincolati è sufficiente il rispetto solo del primo vincolo).
In altri termini, quando il nuovo edificio riproduce la stessa forma di quello demolito, l'intervento può essere essere eseguito con la Scia, se la forma cambia è indispensabile chiedere il rilascio del permesso di costruire o la Dia. Peraltro, è bene ricordare che il quadro delle norme nazionali –così come modificato dal decreto "del fare"– va sempre coordinato con le norme regionali (si veda la scheda a destra).
L'iter più leggero
Relativamente alle procedure, le nuove norme intervengono sui commi 8, 9 e 10 dell'articolo 20 del Dpr 380/2001. Il comma 10 viene abrogato: disciplinava il rilascio del permesso di costruire relativo agli immobili sottoposti a vincoli la cui tutela è attribuita ad amministrazioni diverse da quella comunale. La norma abrogata prevedeva che per acquisire i pareri di quelle amministrazioni, il responsabile comunale del provvedimento dovesse convocare una conferenza di servizi. L'attivazione di questa fase procedurale non era richiesta quando i pareri erano di pertinenza del Comune oppure quando l'amministrazione comunale era stata delegata a rilasciarli dalle amministrazioni titolari della relativa competenza. Con le nuove norme l'ufficio comunale convoca la conferenza dei servizi se lo ritiene opportuno, ma non è più obbligato a farlo.
Rilevanti sono anche le modifiche introdotte al comma 9 dell'articolo 20. Nella versione precedente, questa norma prevedeva che nel caso di parere negativo delle amministrazioni competenti a esprimersi sui vincoli ricadenti sull'immobile, «decorso il termine per l'adozione del provvedimento conclusivo, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-rifiuto». Se gli altri enti erano contrari, pertanto, l'amministrazione comunale non era tenuta ad assumere alcun provvedimento in risposta all'istanza presentata da un'impresa o un cittadino.
Con le nuove regole, invece, la procedura di rilascio o di diniego del permesso di costruire deve concludersi con un atto dell'amministrazione comunale, che deve essere notificato all'interessato e nel quale devono essere indicati il termine e l'autorità a cui è possibile ricorrere nel caso di non accoglimento della richiesta.
Pur senza ammettere una valutazione meno rigorosa dei vincoli paesaggistici e storico-artistici, l'eliminazione del silenzio-rifiuto introduce una maggiore tutela nei rapporti con la pubblica amministrazione dei soggetti titolari di diritti su quegli immobili: non possono accampare alcun diritto in più a vedere accolte le proprie proposte, ma hanno il diritto di conoscere le ragioni per le quali i progetti avanzati non possono essere realizzati.
Il rendimento energetico
Novità anche in fatto di applicazione del Dlgs 192/2005, relativamente alle regole sul rendimento energetico degli edifici vincolati. In sede di conversione del Dl 63/2013, si è infatti intervenuti sulla norma che escludeva dal l'applicazione del Dlgs 192/2005 gli edifici vincolati «solo nel caso in cui il rispetto della prescrizione implichi un'alterazione sostanziale del loro carattere e aspetto con particolare riferimento ai profili storici e artistici». Ora si precisa che sono le amministrazioni titolari delle autorizzazioni relative al vincolo a dover chiarire se «il rispetto della prescrizione imposta implichi un'alterazione sostanziale del carattere o aspetto» dell'edificio.
Viene quindi reintrodotto il vincolo paesaggistico tra quelli che possono far venir meno l'applicazione del Dlgs 192, ferma restando la valutazione affidata all'autorità preposta al vincolo. La sola violazione di uno dei vincoli, inoltre, dovrebbe essere sufficiente a disapplicare il decreto.
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Le altre misure. Le disposizioni per gli edifici «ordinari» fuori dai centri storici. Ricostruzione anche difforme e otto anni per finire i lavori.
Per classificare come ristrutturazione edilizia la demolizione e ricostruzione di un edificio non sarà più necessario rifarlo esattamente uguale a come era in precedenza, con la stessa sagoma. I Comuni possono, però, limitare l'applicazione di questa norma nei centri storici.

Sono alcune delle semplificazioni che il decreto legge "del fare" (Dl 69/2013) ha apportato, in materia di edilizia, al testo unico dell'edilizia.
La modifica introdotta all'articolo 10, comma 1, lettera c), del Dpr 380/2001, permette di includere la demolizione di un edificio e la sua successiva ricostruzione (anche di ruderi di consistenza certa prima del crollo) con una forma differente dalla precedente tra gli interventi di ristrutturazione edilizia, con la possibilità, quindi, di realizzare i progetti con segnalazione certificata di inizio attività (Scia). Finora questi interventi passavano per nuove costruzioni, con la conseguenza che per realizzarli occorreva il permesso di costruire o la denuncia di inizio attività (Dia). Naturalmente, tra il vecchio e il nuovo edificio deve restare invariata la volumetria.
In sede di conversione del Dl 69 è stata introdotta una limitazione all'applicazione generalizzata e automatica della semplificazione sulla sagoma. Entro il 30 giugno del prossimo anno i sindaci devono, se non vogliono che al loro posto lo faccia un commissario regionale o ministeriale, individuare le aree dei centri storici e le altre classificate come zone omogenee A dal decreto ministeriale 1444/1968 nelle quali per gli interventi di demolizione e ricostruzione con modifica della sagoma continua ad essere necessario il permesso di costruire. Nelle restanti aree delle zone A, i lavori potranno iniziare solo dopo 30 giorni dalla presentazione della Scia. In queste zone l'applicazione della Scia a interventi con modifica della sagoma è sospesa: sarà possibile solo dopo che i Comuni avranno indicato le aree assoggettate a permesso di costruire.
Questa novità si lega a un'altra disposizione del decreto, in base alla quale lo sportello unico per l'edilizia (Sue) è diventato l'ufficio del Comune che deve acquisire tutti i pareri e nullaosta anche per gli interventi realizzati con la comunicazione di inizio dei lavori e la Scia.
L'interessato può presentare la richiesta di acquisizione di parere contestualmente alla Scia o comunicazione. In alternativa può dividere in due tempi l'operazione: prima chiede al Sue di acquisire gli assensi necessari e poi, una volta ottenuti, presenta la comunicazione del titolo abilitativo.
Un'altra misura anticrisi riguarda la validità temporale dei titoli abilitativi. Con il decreto del fare non occorre più alcuna motivazione per chiedere, al Comune, di iniziare i lavori oltre il termine di un anno dal ritiro del permesso di costruire o per terminarli oltre i tre anni dalla posa della prima pietra.
D'ora in avanti per ottenere una proroga di due anni di ognuno di quei termini è sufficiente una semplice istanza, senza che l'amministrazione comunale possa sindacare sul perché.
In sostanza vengono raddoppiati da quattro a otto gli anni a disposizione degli interessati per completare gli interventi. Le imprese, quindi, hanno più tempo per realizzare gli interventi senza chiedere il rilascio di un nuovo permesso e senza pagare il contributo commisurato agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione per la parte dell'opera non completata entro il termine di validità del titolo. La proroga vale anche per gli interventi realizzati con Dia e Scia. Finora solo nelle Marche operava la proroga automatica dei titoli abilitativi.
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Il recepimento.
Attività edilizia libera a geometria variabile.

Meno limiti per alcune attività di edilizia libera. È il risultato delle modifiche apportate dal decreto "del fare" al comma 2 dell'articolo 6 del Dpr 380/2001 che elenca gli interventi per la cui realizzazione è richiesta una preventiva comunicazione di inizio lavori al Comune, anche tramite internet (nel comma 1 dello stesso articolo sono riportate le attività libere per le quali non occorre nessuna comunicazione).
Per gli interventi di manutenzione che non toccano le parti strutturali dell'edificio, non comportano aumento del numero delle unità immobiliari e non implichino incremento dei parametri urbanistici –nonché per le attività edilizie relative a modifiche interne relative alla superficie coperta dei capannoni e negozi oppure per il cambio della destinazione d'uso degli immobili in cui si svolge l'attività di una impresa– è inoltre necessario trasmettere anche i dati dell'impresa incaricata dei lavori, gli elaborati progettuale e la relazione di un tecnico abilitato.
Prima dell'entrata in vigore del decreto, il sottoscrittore della relazione poteva essere solo un libero professionista indipendente sia dall'impresa esecutrice sia dal committente. Soprattutto per le imprese con propri uffici tecnici ciò costituiva un costo aggiuntivo. Ora questa condizione è superata: il tecnico può essere anche un dipendente di uno dei due soggetti interessati all'intervento.
Questi interventi, al pari di ogni altra attività di edilizia libera, possono essere realizzati senza alcun titolo abilitativo solo se rispettano gli strumenti urbanistici comunali, le norme antisismiche, sulla sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie e quelle relative all'efficienza energetica; devono anche tenere conto delle disposizioni contenute nel Dlgs 42/2004.
Dall'esame delle norme regionali che hanno recepito il contenuto del testo unico dell'edilizia (o parti di esso), si ricava che nell'elencazione delle attività di edilizia libera molte Regioni si sono attenute a quando previsto dal Dpr 380/2001. In qualche caso è stata mantenuta la distinzione tra le attività di edilizia libera per le quali è richiesta la comunicazione anticipata al Comune e quelle per le quali essa non occorre.
In Umbria la comunicazione è richiesta per i cambi d'uso di non più del 50% della superficie utile dell'unità immobiliare, entro un tetto massimo di 50 mq. In Sardegna la comunicazione è richiesta per tutti gli interventi. La lista delle attività libere è molto lunga in Friuli Venezia Giulia. Se non sono stabilmente ancorate al terreno e hanno allacciamenti mobili ai servizi anche le strutture ricettive turistiche all'aria aperta possono essere realizzate senza titolo abilitativo (tratto da Il Sole 24 Ore del 12.08.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOTrasparenza. Le indicazioni arrivate dalla Civit rendono meno gravosi gli oneri per i Comuni sotto i 15mila abitanti.
Redditi e compensi senza segreti. Entro il 20 ottobre la pubblicazione della situazione degli amministratori.

Entro il 20 ottobre tutte le amministrazioni pubbliche compresi gli enti pubblici vigilati, a quelli sui quali le Pa hanno potere di indirizzo e di controllo e le società partecipate devono pubblicare sul proprio sito la situazione reddituale e patrimoniale degli amministratori e dei congiunti che acconsentano alla trasparenza.
All'avvicinarsi della data ultima -180 giorni dall'entrata in vigore del Dlgs 33/2013 sulla trasparenza- sono arrivate le indicazioni della Civit (delibera 31.07.2013 n. 65 e delibera 31.07.2013 n. 66).
Le deliberazioni rispondono a numerosi dubbi applicativi sollevati, in particolare sull'applicazione agli amministratori (cioè sindaci, assessori e consiglieri) e ai loro congiunti dei vincoli di pubblicità del reddito e del patrimonio nei piccoli Comuni.
Per tutte le Pa vanno pubblicati: l'atto di nomina, con la indicazione della durata dell'incarico; il curriculum; l'elenco dei compensi connessi alla carica, compresi i rimborsi spese e le indennità di missione; le informazioni relative ad altre cariche, con i compensi percepiti; gli altri incarichi che determinano comunque oneri a carico delle Pa. Le informazioni sugli amministratori si differenziano a secondo che la popolazione dell'ente sia inferiore o superiore a 15mila abitanti.
Obblighi differenziati
Solo agli amministratori degli enti con più di 15mila abitanti si applicano i vincoli di pubblicità dei redditi, del patrimonio e delle spese elettorali.
I vincoli, elencati nella lettera f) dell'articolo 14 del Dlgs 33/2013, sono: dichiarazione sui diritti reali relativi e beni immobili e ad a beni mobili registrati; azioni e quote di partecipazione a società; esercizio di funzioni di amministratore o di sindaco di società; copia dell'ultima dichiarazione dei redditi; dichiarazione sulle spese sostenute e le obbligazioni assunte in campagna elettorale.
Essi si applicano anche agli amministratori delle Unioni e delle Comunità montane che hanno più di 15mila abitanti, nonché (scelta peraltro assai discutibile, si veda Il Sole 24 Ore del 4 agosto) ai dirigenti scolastici. In questi casi è prevista la pubblicità sulla condizione reddituale e patrimoniale anche del coniuge non separato e dei congiunti fino al secondo grado (nonni, genitori, figli, nipoti in linea retta -cioè figli di figli-, fratelli e sorelle). I congiunti possono non consentire alla pubblicazione.
In caso di inadempienza maturano sanzioni che vanno da 500 a 10mila euro in capo agli amministratori; il soggetto che deve garantire l'applicazione di queste disposizioni va individuato da ogni ente e, fino a che ciò non sia avvenuto, il compito spetta ai responsabili anticorruzione per i procedimenti disciplinari e, nelle società, all'amministratore. Per i dirigenti matura una responsabilità di risultato in caso di mancato rispetto della previsione. Gli organismi di valutazione sono tenuti al controllo.
La norma si applica non solo a tutte le Pa (articolo 1, comma 2, del Dlgs 165/2011), ma anche agli enti pubblici vigilati, a quelli sui quali le Pa hanno potere di indirizzo e/o controllo; alle società partecipate, anche con quota minoritaria (salvo quelle quotate in Borsa) e agli enti di diritto privato controllati (intendendo come tali anche quelli in cui il Comune abbia poteri di nomina), comprese le fondazioni.
Facendo seguito alle indicazioni sulla applicazione delle norme sulla inconferibilità ed incompatibilità del Dlgs n. 39/2013, contestate dall'Anci e che hanno spinto con tutta probabilità il legislatore a sottrarre alla competenza della Civit la vigilanza sulla sua applicazione, si chiarisce che il vincolo riguarda anche gli amministratori in carica alla data di entrata in vigore del decreto.
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I passi
01 | GLI OBBLIGHI
Sono soggetti agli obblighi di pubblicità tutti gli amministratori di Pa, società partecipate controllate e fondazioni, nonché gli amministratori eletti o nominati prima del 20 aprile scorso (data di entrata in vigore del Dlgs 33/2013)
02 | I COMPENSI
Per tutti gli amministratori l'obbligo comprende la pubblicazione di: nomina, durata, curriculum, compensi percepiti, altri incarichi, compensi percepiti da altre Pa e da altri soggetti
03 | I GRANDI ENTI
Per gli amministratori degli enti con oltre 15mila abitanti vanno pubblicati anche: la dichiarazione dei redditi, i beni immobili e mobili registrati posseduti, le azioni, le quote di società, le spese elettorali, comprese quelle di coniugi e congiunti fino al secondo grado se questi acconsentono
04 | LE SCADENZE
Gli obblighi di pubblicazione sul sito internet devono essere soddisfatti entro il 20 ottobre. Previste sanzioni da 500 a 10mila euro (tratto da Il Sole 24 Ore del 12.08.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIBilanci. Nessun vincolo di modelli. Ultima chiamata per la relazione di inizio mandato.
Sta per scadere, tra la fine di agosto e i primi giorni di settembre, il nuovo adempimento della relazione di inizio mandato. La novità, introdotta all'articolo 4-bis del Dlgs 149/2011 (dal decreto legge 174/2012), inizia ad applicarsi da quest'anno a partire dai Comuni e dalle province che hanno rinnovato gli organi amministrativi nelle elezioni di maggio e giugno scorso. La scadenza, che la norma indica nel novantesimo giorno dall'inizio del mandato, concretamente varia a seconda della data di proclamazione degli eletti. Per un sindaco eletto al primo turno, che ha iniziato il mandato il 27 maggio, ad esempio, il termine scadrà il 25 agosto.
La relazione di inizio mandato è predisposta dal responsabile del servizio finanziario o dal segretario generale ed è sottoscritta dal sindaco o dal presidente della provincia. Non è richiesta la sottoscrizione dell'organo di revisione.
In merito al contenuto il legislatore si è limitato ad affermare che la relazione di inizio mandato è volta a verificare la situazione finanziaria e patrimoniale e la misura dell'indebitamento degli enti.
Non è stato approvato uno schema di riferimento per cui ogni ente sceglie liberamente come riportare i dati e le informazioni. La base di riferimento è sicuramente il rendiconto per l'esercizio 2012 approvato entro il 30 aprile scorso; per gli enti che hanno deliberato il preventivo 2013 andranno riportati anche i valori previsionali.
Il contenuto minimo in ogni caso dovrebbe includere: la situazione patrimoniale al 01.01.2013 rappresentata dal conto del patrimonio; la situazione finanziaria relativa alle entrate e alle spese dell'ultimo bilancio approvato, gli equilibri di bilancio, il risultato di amministrazione, il fondo cassa; lo stock di debito e la sua evoluzione (ed eventuali contratti derivati); il patto di stabilità interno. Considerando che gli amministratori locali saranno chiamati a misurarsi a fine mandato con questo strumento, potrebbero essere ripresi dai contenuti più ampi della relazione di fine mandato, secondo lo schema approvato con il decreto del ministero del l'interno 26.04.2013 (in «Gazzetta Ufficiale» n. 124 del 29.05.2013).
È importante sottolineare il collegamento con la procedura di riequilibrio finanziario pluriennale. Procedura che può essere attivata -afferma la norma- ove ne sussistano i presupposti, sulla base delle risultanze della relazione di inizio mandato. Pertanto, già con la relazione di inizio mandato, sindaco e presidenti di provincia in carica devono effettuare un primo test finalizzato a verificare se la situazione finanziaria e patrimoniale dell'ente presenta squilibri strutturali in grado di provocarne il dissesto finanziario e non superabili con le misure di cui agli articoli 193 e 194 del Dlgs 267/2000.
Come la relazione di fine mandato, anche quella di inizio dovrebbe essere divulgata sul sito dell'ente per garantirne la più ampia conoscibilità.
Infine, a differenza della relazione di fine mandato, il documento iniziale non deve essere trasmesso alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti e la sua mancata predisposizione non è direttamente sanzionata dalla norma con misure pecuniarie-amministrative. Certamente non mancheranno i controlli tesi ad accertare la sua effettiva redazione. Un primo appuntamento con i controlli scatterà già dal prossimo 30 settembre, quando i sindaci dei comuni con popolazione superiore ai 15mila abitanti e i presidenti di provincia dovranno specificare nella relazione semestrale da inviare alla Corte dei conti se la relazione è stata predisposta o meno (tratto da Il Sole 24 Ore del 12.08.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIntesa sull'anticorruzione. Le misure. In ogni ente un responsabile unico.
Ogni ente deve avere un solo responsabile per la lotta alla corruzione e per la trasparenza; questa figura nei piccoli Comuni -ove è di regola il segretario- può coincidere con il responsabile dell'ufficio per i procedimenti disciplinari. Il termine per l'adozione dei piani contro la corruzione e per la trasparenza è fissato per il 31 gennaio. La prima scadenza è quindi fissata per il 2014, ma il termine potrà slittare se entro il 30 settembre non sarà stato approvato dalla Civit il piano nazionale anticorruzione. Le disposizioni sulla trasparenza sono immediatamente operative e non hanno bisogno di provvedimenti attuativi per entrare in vigore.
Sono queste le principali indicazioni contenute nella intesa 24.07.2013 raggiunta in sede di Conferenza Unificata.
L'intesa, sulla base delle previsioni della legge n. 190/2012, è condizione essenziale per l'adozione del piano anticorruzione da parte di Regioni ed enti locali.
Il responsabile della trasparenza può essere anche una figura diversa da quello anticorruzione, ma bisogna comunque garantire il massimo di coordinamento, evitando che siano individuati come tali dirigenti o dipendenti degli uffici di staff degli organi politici. Questi responsabili devono essere dotati di ampia autonomia, anche sul versante delle risorse. Per le Regioni si deroga al principio della unicità del responsabile, distinguendo tra le giunte ed i consigli. Le amministrazioni più complesse possono prevedere referenti per le singole articolazioni organizzative.
Entro il 19 dicembre, decorsi cioè 180 giorni dalla entrata in vigore di quello nazionale, tutte le Pa si devono dare un codice di comportamento integrativo. Entro 90 giorni dalla adozione dello schema nazionale o comunque entro il 27 gennaio tutte le Pa si devono dare il regolamento sulla individuazione degli incarichi vietati ai propri dipendenti.
Occorre ricordare che tanto le Regioni che l'Anci che l'Upi hanno posto come condizione essenziale per l'intesa la revisione delle drastiche norme fissate dal Dlgs 39/2013 in materia di inconferibilità e incompatibilità per gli amministratori ed i dirigenti, a partire dalla loro applicazione anche a coloro che erano in carica prima dell'entrata in vigore del decreto.
Nella applicazione di questa norma viene chiarito che il collocamento in aspettativa consente il superamento dei vincoli e che la comunicazione della insussistenza di cause di inconferibilità ed incompatibilità è annuale. La eventuale esistenza di queste condizioni è contestata da parte dell'ente che ha conferito l'incarico dirigenziale ed al segretario è contestata dal sindaco (tratto da Il Sole 24 Ore del 12.08.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOUna pagella per il sito web. Gli adempimenti. Primo monitoraggio sul rispetto del Dlgs 33/2013.
Gli organismi di valutazione di tutte le amministrazioni pubbliche devono inviare entro il 31 dicembre l'attestazione che l'ente ha o meno assolto ai vincoli dettati in materia di trasparenza, L'attività deve comunque essere avviata da subito e gli Oiv devono controllare che siano pubblicati entro il 30 settembre i modelli sulla verifica del rispetto di queste previsioni. Sul rispetto della trasparenza la Civit può richiedere, a campione, l'intervento della Guardia di Finanza. Nello svolgimento di questi compiti gli organismi di valutazione si avvalgono dei responsabili della trasparenza.

Sono queste le principali indicazioni contenute nella delibera 01.08.2013 n. 71 della Civit.
La delibera ricorda, anche sulla scorta del monitoraggio effettuato lo scorso anno, che tra le informazioni da pubblicare sono compresi i dati sulle società partecipate, i debiti scaduti alla fine dello scorso anno, le informazioni sui procedimenti amministrativi, sui servizi erogati agli utenti e sull'accesso civico.
Deve essere inoltre pubblicata entro settembre l'attestazione dell'assolvimento di questi obblighi, comprensiva della relativa griglia di verifica. Per le società vanno pubblicati l'aggiornamento dell'elenco delle partecipate, la misura della partecipazione dell'ente, i costi, la durata, il numero dei rappresentanti e i relativi oneri.
Relativamente ai debiti, sulla base delle previsioni dettate dal Dl n. 35/2013, occorre pubblicare l'elenco in ordine cronologico e con l'indicazione degli importi, dei debiti scaduti per obbligazioni relative a somministrazioni, forniture, appalti e prestazioni professionali, maturati alla data del 31.12.2012. E ancora: si devono pubblicare i piani dei pagamenti per importi aggregati per classi di debiti e l'elenco completo dei debiti per i quali è stata effettuata comunicazione ai creditori, con importo e data prevista di pagamento comunicata. Per i procedimenti occorre pubblicare il nome del responsabile ed i suoi riferimenti, i termini per la conclusione, nonché il responsabile sostituto e le modalità per la sua attivazione.
Per i servizi si deve vigilare sulla indicazione dei costi complessivi, degli oneri per il personale e dei tempi medi di erogazione. Per l'accesso civico occorre pubblicare il nome del responsabile della trasparenza e l'eventuale indicazione dell'incaricato di sostituirlo in caso di inadempienza.
I controlli della Civit saranno effettuati sia direttamente sui siti, quanto indirettamente sulle relazioni degli organismi di valutazione, sia a campione (tratto da Il Sole 24 Ore del 12.08.2013).

GIURISPRUDENZA

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocati, gli onorari passano dal giudice.
La determinazione degli onorari di avvocato e dei diritti di procuratore costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice che, qualora sia contenuto tra il minimo e il massimo della tariffa, non richiede una specifica motivazione e non può formare oggetto di sindacato in sede di legittimità.

È di questo avviso la Sez. III civile della Corte di Cassazione che con la sentenza n. 18906/2013 torna sul nodo tariffe, anche se il riferimento è relativo al tariffario del 2004 (nel frattempo abrogato).
Tuttavia la sentenza ritorna di attualità in quanto rimette al giudice il potere di definire il compenso, che poi è il nuovo sistema che il legislatore ha scelto qualora professionista e cliente non trovino un accordo. Con unico motivo la ricorrente aveva fatto presente la violazione degli articoli 91, 92 del Cpc, e delle tariffe professionali del 05.01.1991, dell'01.04.1995 e del 02.06.2004, in relazione all'articolo 360, 1° comma, n. 5, del Cpc.
La ricorrente contestava che la Corte di merito aveva liquidato le spese del doppio grado di giudizio riducendo «senza alcuna giustificazione e motivazione gli importi esposti nelle due notule con analitica specificazione delle singole partite con riferimento alle prestazioni effettuate nel corso di entrambi i giudizi», violando i minimi tariffari e riducendo «molte voci dalle due notule senza indicarle», a tale stregua non consentendole di «esaminarle e di riscontrare se gli importi liquidati fossero stati congrui» (tratto da ItaliaOggi del 14.08.2013).

APPALTI: Cassazione penale. La rilevanza dell'intesa tra imprese. Turbativa d'appalto con collegamento di fatto
Basta un collegamento sostanziale tra imprese per fare scattare la turbativa della gara pubblica. Senza alcun profilo di contrasto con la giurisprudenza comunitaria e anche se il risultato non è stato raggiunto.

Lo puntualizza la Corte di Cassazione, Sez. II penale, con la sentenza 13.08.2013 n. 34917.
La pronuncia ha così respinto il ricorso presentato dalla difesa di un uomo condannato per alcuni episodi di turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente.
La Cassazione sottolinea innanzitutto che, per la configurazione del reato, la prova della collusione e, quindi, del dolo dei concorrenti, può anche essere tratta dal collegamento sostanziale tra le imprese partecipanti alla gara.
Da questa circostanza, infatti, si può accertare l'esistenza di un unico centro di interessi che punta, attraverso la parcellizzazione delle offerte, ad aumentare le possibilità di aggiudicarsi l'appalto alterando il normale gioco della concorrenza.
A questo riguardo, la Cassazione avalla, tra l'altro, il ragionamento della Corte di appello (che aveva proceduto alla condanna dell'uomo pur cancellando il capo d'imputazione dell'associazione per delinquere), per la quale, nel dare rilevanza al collegamento di fatto tra imprese, non esistono profili di contrasto con il principio enunciato dalla Corte di giustizia europea del 2009. Allora i giudici Ue stabilirono che la pubblica amministrazione non può escludere automaticamente dalla gara le imprese che risultano collegate da un rapporto formale di controllo; va invece effettuato, sempre secondo la Corte europea, una verifica concreta dell'impatto del legame all'interno della procedura.
Di più, la Cassazione si concentra poi sulla fisionomia del reato e sulla rilevanza penale delle condotte che lo concretizzano. Ha così modo di precisare che il delitto di turbata libertà degli incanti, se realizzato con la condotta di collusione, si consuma nel momento in cui è stata presentata l'ultima delle offerte illecitamente concordate, mentre nessuna importanza deve essere assegnata al successivo atto di aggiudicazione perché l'illecita influenza sulla procedura si verifica per il solo fatto della presentazione delle offerte.
Inoltre, osserva ancora la sentenza, il reato in questione è un reato di pericolo che si configura non solo nel caso di un danno effettivo, ma anche nel caso di danno mediato e potenziale, «non occorrendo l'effettivo conseguimento del risultato perseguito dagli autori dell'illecito, ma la semplice idoneità degli atti a influenzare l'andamento della gara».
Per questo, già nei precedenti della Corte, è possibile trovare esempi di attribuzione di responsabilità penale allo scambio di informazioni tra più imprese prima dello svolgimento della gara, avvenuto con l'obiettivo di determinarne l'esito, malgrado poi, alla prova dei fatti, avesse inciso in maniera modesta sulla determinazione degli indici per l'individuazione dell'aggiudicatario e non fosse in assoluto idoneo a raggiungere l'obiettivo (tratto da Il Sole 24 Ore del 14.08.2013).

ENTI LOCALI: Per i benefici pubblici doppia corsia in giudizio. Revoche al giudice ordinario, i difetti ab origine al Tar.
Benefici pubblici, una doppia corsia per i giudizi. La Sez. II-ter del TAR Lazio-Roma, con sentenza 13.08.2013 n. 7944 ha affermato che appartengono alla cognizione del giudice amministrativo quelle sole controversie coinvolgenti l'esercizio di poteri autoritativi da parte della p.a. che intervenga per difetto delle condizioni originarie che legittimavano il riconoscimento del beneficio pubblico; mentre spettano al giudice ordinario le controversie aventi ad oggetto la revoca o la decadenza dal beneficio medesimo determinata dal successivo inadempimento del destinatario.
Il Tribunale ha evidenziato che in materia di provvedimenti a contenuto revocatorio incidenti su contributi, finanziamenti e sovvenzioni erogate da pubbliche amministrazioni, si è, infatti, affermato un costante orientamento che utilizza un criterio generale in tema di riparto di giurisdizione fondato sull'individuazione del segmento procedurale interessato dal provvedimento oggetto di vaglio giurisdizionale e sulla causa della contestata iniziativa dell'Amministrazione.
Si rende, pertanto, necessario tenere distinto il momento «statico» della concessione del contributo, rispetto a quello «dinamico», individuabile nell'impiego del contributo medesimo.
Al primo segmento –spettante alla giurisdizione del giudice amministrativo– appartengono provvedimenti, comunque denominati (revoca, decadenza), di ritiro del contributo, anche susseguenti all'erogazione, ove costituiscano manifestazione del potere di autotutela amministrativa.
In questa fase l'Amministrazione effettua una valutazione dei requisiti oggettivi e soggettivi per l'ammissione a contributo, con ciò incidendo su posizioni di interesse legittimo.
Nel sottolineare come, esaurita detta fase, l'Amministrazione ben possa riaprirla, proponendo una diversa valutazione dei medesimi requisiti, va comunque rilevato, secondo il Tar, che le relative questioni (e, conseguentemente, le rivenienti controversie) appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo.
Diversamente, ogni altra fattispecie, che abbia ad oggetto le modalità di utilizzazione del contributo e il rispetto agli impegni assunti, involge posizioni di diritto soggettivo, relative alla conservazione del finanziamento, la cui cognizione spetta, quindi, alla giurisdizione ordinaria (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 16.02.2010 n. 884 e sez. VI, 04.12.2009 n. 7596).
In tale fase, cioè fase dell'esecuzione, o fase dinamica, l'Amministrazione valuta inadempienze e altri comportamenti del beneficiario sanzionabili con la decadenza, sicché, in disparte il nomen juris adoperato dall'Amministrazione per definire le proprie determinazioni, poiché i provvedimenti di questa seconda fase incidono su situazioni di diritto soggettivo, le relative questioni appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario (cfr. Tar Sicilia, Catania, sez. IV, 09.02.2012 n. 341; Tar Lazio, sez. III, 01.04.2011 n. 2867; Tar Calabria, Catanzaro, sez. II, 11.02.2011 n. 203) (tratto da ItaliaOggi del 20.08.2013).

PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGOLa segnalazione del vigile inevasa dal comune. Strade pericolose, ufficio condannato.
La negligenza dell'ufficio tecnico a fronte delle ripetute segnalazioni di pericolo stradale inoltrate anche dalla polizia municipale comporta la condanna penale dell'ingegnere.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI pen., con la sentenza 31.07.2013 n. 33253.
Il responsabile dell'ufficio tecnico di un comune siciliano è stato condannato per omissione di atti d'ufficio a seguito della mancata segnalazione di una insidia stradale segnalata anche dai vigili.
Contro questa decisione l'interessato ha proposto censure fino in Cassazione ma senza successo. Una strada comunale ha evidenziato una grossa anomalia a causa della presenza di radici. Nonostante le ripetute segnalazioni anche per sinistro stradale l'ufficio tecnico del comune di Favignana non ha preso alcuna precauzione a favore della sicurezza della circolazione lamentando la mancanza di fondi per il ripristino del manto stradale. Per questo motivo l'ingegnere responsabile è stato ritenuto colpevole del reato di omissione di atti d'ufficio e condannato a 4 mesi di reclusione per violazione dell'articolo 328 cp..
Anche in mancanza dei fondi necessari per il ripristino, specifica il collegio, l'ufficio tecnico diligentemente avrebbe potuto almeno segnalare il pericolo con installazione di segnaletica temporanea ad hoc. Questa incombenza spetta senz'altro all'ufficio comunale preposto alla manutenzione, prosegue la sentenza, che ha quindi completamente trascurato di porre in essere ogni minima cautela per la sicurezza degli utenti. L'inerzia del pubblico ufficiale in questo caso assume quindi la valenza di un rifiuto degli atti dovuti.
In buona sostanza il responsabile dell'ufficio, nonostante la certa acquisizione della conoscenza dell'insidia e del verificarsi pure di un sinistro stradale ha omesso di adottare qualsiasi cautela a partire dall'installazione di birilli e segnali di pericolo sicuramente reperibili senza spese nel magazzino comunale. Nessuna scusa quindi può essere utilizzata dal dirigente comunale indagato anche perché tra le altre cose la stessa polizia municipale ha segnalato per ben due volte il pericolo ma nessun operaio è intervenuto (tratto da ItaliaOggi Sette del 19.08.2013).

PUBBLICO IMPIEGOI periodi di riposo non goduti devono essere monetizzati. Indennità sostitutiva anche oltre i motivi di servizio.
La mancata fruizione delle ferie deve essere indennizzata, anche se non dipende da esigenze di servizio.

Lo ha precisato la Corte di Cassazione, Sez. civile lavoro, che, con la sentenza 26.07.2013 n. 18168, ha confermato il pagamento, deciso dai giudici di merito, dell'indennità sostitutiva a favore di un dipendente di una Regione per un monte ferie non godute.
La vicenda è arrivata nelle aule di giustizia perché, a fronte della richiesta del dipendente, la Regione aveva negato il pagamento affermando, tra l'altro, che il contratto collettivo nazionale imponeva la monetizzazione solo delle ferie non godute per esigenze di servizio. Ma il tribunale, con un ragionamento condiviso anche dalla Corte d'appello, aveva accolto il ricorso del dipendente sottolineando il carattere irrinunciabile delle ferie.
La Regione non si è arresa e ha portato la vicenda in Cassazione, che, a sua volta, ha rigettato il ricorso. In particolare, i giudici hanno affermato il principio secondo cui, in relazione al carattere irrinunciabile del diritto alle ferie, se in concreto non siano effettivamente fruite, anche senza responsabilità del datore di lavoro, spetta al lavoratore l'indennità sostitutiva.
Indennità, precisa la Corte, che ha, per un verso, carattere risarcitorio, in quanto idonea a compensare il danno costituito dalla perdita di un bene: il riposo con recupero delle energie psicofisiche, la possibilità di meglio dedicarsi a relazioni familiari e sociali, l'opportunità di svolgere attività ricreative e simili. Per altro verso, l'indennità costituisce erogazione anche di natura retributiva perché rappresenta il corrispettivo dell'attività lavorativa resa in periodo che, pur essendo di per sé retribuito, avrebbe invece dovuto essere non lavorato perché destinato al godimento delle ferie annuali, restando indifferente l'eventuale responsabilità del datore di lavoro per il loro mancato godimento.
Del resto, la Cassazione ha escluso che le clausole del contratto collettivo possano bloccare la monetizzazione delle ferie. Infatti, ha precisato l'estensore, in considerazione del carattere irrinunciabile delle ferie, la clausola del contratto collettivo, anche se esclude la loro monetizzazione, va interpretata nel senso che il dipendente ha il diritto al pagamento dell'indennità sostitutiva se la mancata fruizione non è dipesa da una causa a lui imputabile.
Una pronuncia in linea con la sentenza 16735 del 04.07.2013, con cui la Cassazione ha affermato che il fatto che il dipendente non abbia avanzato formale richiesta di ferie è indifferente ai fini della loro mancata fruizione e, quindi, per la conseguente monetizzazione. Una simile ipotesi, prevista eventualmente dal contratto collettivo, si pone in contrasto con l'articolo 2109 del Codice civile, secondo cui è il datore di lavoro che stabilisce le ferie e comunica al lavoratore il periodo stabilito per il godimento, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore di lavoro (tratto da Il Sole 24 Ore del 12.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Il computo degli oneri di urbanizzazione non è attività autoritativa e la contestazione sulla relativa corresponsione è proponibile nel termine di prescrizione decennale a prescindere dall'impugnazione dei provvedimenti adottati o dal sollecito a provvedere in via di autotutela.
Trattasi infatti di determinazione che obbedisce a prescrizioni desumibili da tabelle, in ordine alla quale l'Amministrazione comunale si limita ad applicare i detti parametri, aventi anche per essa natura cogente, con conseguente esclusione di qualsivoglia discrezionalità.
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Per reperire una definizione di ristrutturazione edilizia è necessario richiamare l'art. 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 che definisce ristrutturazione gli interventi di trasformazione di organismi edilizi preesistenti in misura tale anche da condurre alla realizzazione di un organismo edilizio in tutto diverso dal precedente, mentre considera come “nuova costruzione” tutti gli interventi di trasformazione del territorio non rientranti nelle categorie precedentemente descritte dalla medesima disposizione.
L'elemento discretivo tra le due categorie, ai sensi dell'art. 3 citato, risiede, dunque, nel fatto che nei casi di ristrutturazione vi è preesistenza di un manufatto, elemento invece non richiesto nei casi di nuova costrizione in cui la trasformazione concerne più propriamente il "solo" territorio.
Per quanto attiene al soppalco, lo stesso, se non di modeste dimensioni, per la sua struttura e funzione, comporta un aumento della superficie utile e rientra nelle ipotesi di ristrutturazione edilizia.
Nel caso di specie, è emerso nitidamente che è stata mutata la destinazione d’uso di un sottotetto al primo piano da uffici ad abitazione del custode con ampliamento della volumetria dello stesso e sono stati realizzati due soppalchi di non modeste dimensioni.
Ne deriva che gli interventi edilizi realizzati rientrano nelle ipotesi di ristrutturazione edilizia, richiamate dall’art. 5, co. 1, lett. a), della legge regionale.
Ne deriva che erroneamente l’amministrazione ha calcolato gli oneri concessori applicando il comma 2 della legge regionale, che, invece, si riferisce alle nuove costruzioni, mentre avrebbe dovuto tener conto della superficie virtuale ottenuta dividendo il costo complessivo delle opere oggetto di concessione per il costo unitario stabilito annualmente con il decreto ministeriale previsto dall'articolo 6 della legge 28.01.1977, n. 10.

In via preliminare, il Collegio ritiene di aderire all’orientamento di quella parte della giurisprudenza amministrativa, la quale ha precisato che il computo degli oneri di urbanizzazione non è attività autoritativa e la contestazione sulla relativa corresponsione è proponibile nel termine di prescrizione decennale a prescindere dall'impugnazione dei provvedimenti adottati o dal sollecito a provvedere in via di autotutela; trattasi infatti di determinazione che obbedisce a prescrizioni desumibili da tabelle, in ordine alla quale l'Amministrazione comunale si limita ad applicare i detti parametri, aventi anche per essa natura cogente, con conseguente esclusione di qualsivoglia discrezionalità (cfr., Consiglio di Stato sez. IV, 28.11.2012, n. 6033).
Ciò premesso, in relazione al calcolo dei contributi concessori la legge della Regione Lombardia 60/1977 e successive modifiche, prevede espressamente che per le costruzioni o gli impianti destinati alle attività industriali o artigianali nonché alle attività turistiche, commerciali e direzionali, gli oneri sono calcolati al metro quadrato di superficie lorda complessiva di pavimento, compresi i piani seminterrati e interrati la cui destinazione d'uso comporti una permanenza anche temporanea di persone.
Per gli interventi di restauro, risanamento conservativo e ristrutturazione, gli oneri di urbanizzazione, se dovuti, sono riferiti alla superficie virtuale ottenuta dividendo il costo complessivo delle opere oggetto di concessione per il costo unitario stabilito annualmente con il decreto ministeriale previsto dall'articolo 6 della legge 28.01.1977, n. 10, quando si tratta di edifici con destinazione diversa da quella residenziale.
Tanto premesso in punto di fatto, per vagliare la fondatezza del ricorso, occorre, quindi, verificare se gli interventi edilizi realizzati dalla società ricorrente, su edificio con destinazione diversa da quella residenziale, siano da qualificare come nuova superficie (secondo l’assunto dell’amministrazione) ovvero come ristrutturazione o risanamento conservativo (secondo la ricostruzione della società ricorrente).
E’ emerso in maniera incontestata che la società ricorrente ha realizzato un mutamento di destinazione d’uso di un sottotetto al primo piano da uffici ad abitazione del custode per ampliamento della stessa, ha installato due soppalchi metallici, uno di superficie pari a mq. 70 e l’altro di estensione pari ad una preesistente soletta in cemento armato.
A parer della società ricorrente, tali interventi edilizi rappresenterebbero una ristrutturazione o un’ipotesi di risanamento conservativo, in quanto le presunte maggiori superfici utili realizzate non sarebbero destinate ad attività commerciali, ma solo al deposito di merci.
Per reperire una definizione di ristrutturazione edilizia è necessario richiamare l'art. 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 che definisce ristrutturazione gli interventi di trasformazione di organismi edilizi preesistenti in misura tale anche da condurre alla realizzazione di un organismo edilizio in tutto diverso dal precedente, mentre considera come “nuova costruzione” tutti gli interventi di trasformazione del territorio non rientranti nelle categorie precedentemente descritte dalla medesima disposizione. L'elemento discretivo tra le due categorie, ai sensi dell'art. 3 citato, risiede, dunque, nel fatto che nei casi di ristrutturazione vi è preesistenza di un manufatto, elemento invece non richiesto nei casi di nuova costrizione in cui la trasformazione concerne più propriamente il "solo" territorio (si veda sul punto anche, TAR Napoli Campania sez. VIII, 19.04.2012, n. 1827).
Per quanto attiene al soppalco, lo stesso, se non di modeste dimensioni, per la sua struttura e funzione, comporta un aumento della superficie utile e rientra nelle ipotesi di ristrutturazione edilizia (cfr., Consiglio di Stato sez. VI, 08.02.2013, n. 720).
Nel caso di specie, è emerso nitidamente che è stata mutata la destinazione d’uso di un sottotetto al primo piano da uffici ad abitazione del custode con ampliamento della volumetria dello stesso e sono stati realizzati due soppalchi di non modeste dimensioni.
Ne deriva che gli interventi edilizi realizzati rientrano nelle ipotesi di ristrutturazione edilizia, richiamate dall’art. 5, co. 1, lett. a), della legge regionale.
Ne deriva che erroneamente l’amministrazione ha calcolato gli oneri concessori applicando il comma 2 della legge regionale, che, invece, si riferisce alle nuove costruzioni, mentre avrebbe dovuto tener conto della superficie virtuale ottenuta dividendo il costo complessivo delle opere oggetto di concessione per il costo unitario stabilito annualmente con il decreto ministeriale previsto dall'articolo 6 della legge 28.01.1977, n. 10 (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 26.07.2013 n. 2008 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Non è conforme a legge il contratto di collaborazione avente ad oggetto un incarico di lavoro autonomo occasionale (nella specie, un incarico per la produzione di testi scientifici), conferito senza il preventivo espletamento di una procedura comparativa atta a garantire la maggiore partecipazione degli interessati e la migliore selezione del personale.
Nello stesso senso, si è precisato che il ricorso, da parte del dirigente di un ente pubblico, a personale con contratto di lavoro autonomo è illegittimo e fonte di danno erariale ove non costituisca il mezzo indispensabile per far fronte ad esigenze eccezionali ed impreviste di natura transitoria e non sia inteso ad attuare obiettivi e progetti specifici, determinati e temporanei, impossibili da realizzare con i dipendenti in servizio presso l'amministrazione.
La giurisprudenza amministrativa, sulla stessa scia di quella contabile, ha chiarito che sebbene non sussista una previsione di rango legislativo che vieti l'affidamento a studi legali dell'attività di consulenza stragiudiziale, l'indizione di siffatta procedura selettiva rimane un'ipotesi eccezionale rispetto a quelle ordinarie previste dalle norme in materia di attività consultiva resa dall'Avvocatura dello Stato e dal Consiglio di Stato ovvero di affidamento di incarichi di collaborazione a singoli professionisti (per specifiche questioni) secondo la procedura di cui all'art. 7, d.lg. n. 165 del 2001 (seppure anche quest'ultima norma, avente carattere eccezionale).

... per l'annullamento della delibera della giunta provinciale di Varese prot. n. 88612/3.6, emessa e dichiarata immediatamente eseguibile il giorno 16.10.2012, pubblicata all'albo pretorio il 23.10.2012, con la quale è stata disposta l'instaurazione di un rapporto di collaborazione esterna con un giornalista professionista non inserito nella pianta organica dell'ente, per lo svolgimento dell'incarico di addetto stampa e responsabile editoriale della testata giornalistica “provincia di Varese informa online” e di ogni altro atto presupposto, connesso o consequenziale.
...
... appare evidente che la delibera impugnata sia illegittima per violazione dell’art. 7, co. 6, d.lgs. 165/2001.
La norma in parola consente alle amministrazioni la possibilità di conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria, solo per fronteggiare esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio e a condizione che:
a) l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente;
b) l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato l'impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno;
c) la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata; non è ammesso il rinnovo; l'eventuale proroga dell'incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell'incarico;
d) devono essere preventivamente determinati durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione.
Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione universitaria in caso di stipulazione di contratti di collaborazione di natura occasionale o coordinata e continuativa per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che operino nel campo dell'arte, dello spettacolo, dei mestieri artigianali o dell'attività informatica nonché a supporto dell'attività didattica e di ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro di cui al decreto legislativo 10.09.2003, n. 276, purché senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ferma restando la necessità di accertare la maturata esperienza nel settore.
Tale norma è stata interpretata rigorosamente dalla giurisprudenza contabile e amministrativa, perché ha rappresentato un primo passo verso la riduzione della spesa pubblica e, quindi, per evitare inutili sprechi di danaro pubblico.
Sul punto, la giurisprudenza contabile ha, ad esempio, chiarito che non è conforme a legge il contratto di collaborazione avente ad oggetto un incarico di lavoro autonomo occasionale (nella specie, un incarico per la produzione di testi scientifici), conferito senza il preventivo espletamento di una procedura comparativa atta a garantire la maggiore partecipazione degli interessati e la migliore selezione del personale (cfr., Corte Conti sez. contr., 07.05.2012, n. 10).
Nello stesso senso, si è precisato che il ricorso, da parte del dirigente di un ente pubblico, a personale con contratto di lavoro autonomo è illegittimo e fonte di danno erariale ove non costituisca il mezzo indispensabile per far fronte ad esigenze eccezionali ed impreviste di natura transitoria e non sia inteso ad attuare obiettivi e progetti specifici, determinati e temporanei, impossibili da realizzare con i dipendenti in servizio presso l'amministrazione (cfr., Corte Conti sez. III, 04.05.2012, n. 339).
La giurisprudenza amministrativa, sulla stessa scia di quella contabile, ha chiarito che sebbene non sussista una previsione di rango legislativo che vieti l'affidamento a studi legali dell'attività di consulenza stragiudiziale, l'indizione di siffatta procedura selettiva rimane un'ipotesi eccezionale rispetto a quelle ordinarie previste dalle norme in materia di attività consultiva resa dall'Avvocatura dello Stato e dal Consiglio di Stato ovvero di affidamento di incarichi di collaborazione a singoli professionisti (per specifiche questioni) secondo la procedura di cui all'art. 7, d.lg. n. 165 del 2001 (seppure anche quest'ultima norma, avente carattere eccezionale (cfr., TAR Roma Lazio sez. II, 07.07.2009, n. 6527).
Alla luce di tali coordinate ermeneutiche il provvedimento impugnato va annullato per violazione dell’art. 7, co. 6, d.lgs. 165/2001.
Nel caso di specie l’amministrazione ha conferito l’incarico di addetto stampa e responsabile editoriale della testata giornalistica “Provincia di Varese informa on line” ad un giornalista esterno all’ente “dopo aver valutato i carichi di lavoro attribuiti alle risorse umane operanti nella struttura”. Emerge nitidamente che il provvedimento non ha motivato in relazione alle esigenze di carattere straordinario ed eccezionale che consentono il ricorso a figure professionisti esterne, ma si è limitato ad una mera motivazione di stile che rende illegittimo il provvedimento impugnato.
Ne deriva che il ricorso va accolto e il provvedimento impugnato va annullato (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 26.07.2013 n. 1997 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ opinione del Collegio che l'alternativa sanzione pecuniaria, di cui al secondo comma dell’art. 33 DPR 380/2001, sia prevista non in ragione delle condizioni dei responsabili dell'abuso e/o proprietari, ovvero della gravosità e/o onerosità degli interventi di rimessione in pristino, bensì unicamente per l'ipotesi di pregiudizio alla statica della parte legittima dell’edificio che, per effetto della demolizione di quella abusiva, potrebbe determinarsi.
Va in proposito precisato che eventuali problemi di statica vanno valutati nel momento in cui i lavori di ripristino sono ultimati e che, quindi, l’autore dell’abuso non può invocare, al fine di ottenere l’applicazione della misura pecuniaria, la necessità di demolire anche parti non abusive qualora ciò sia necessario a rendere l’edificio conforme agli strumenti urbanistico-edilizi vigenti e qualora tali parti possano poi essere ripristinate senza pregiudizio per la statica dell’immobile.

In base al primo comma dell’art. 33 del TUE, colui che realizza interventi di ristrutturazione edilizia in totale difformità dal permesso di costruire rilasciato, è tenuto a rimuoverli o demolirli e, in ogni caso, a rendere gli edifici sui cui gli interventi stessi sono stati realizzati conformi alle prescrizioni degli strumenti urbanistico-edilizi, e ciò entro un congruo termine stabilito dal dirigente o dal responsabile del competente ufficio comunale con propria ordinanza.
Aggiunge poi il comma secondo dello stesso articolo che “qualora, sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell'ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere”.
E’ opinione del Collegio che l'alternativa sanzione pecuniaria, di cui al secondo comma dell’art. 33 cit., sia prevista non in ragione delle condizioni dei responsabili dell'abuso e/o proprietari, ovvero della gravosità e/o onerosità degli interventi di rimessione in pristino, bensì unicamente per l'ipotesi di pregiudizio alla statica della parte legittima dell’edificio che, per effetto della demolizione di quella abusiva, potrebbe determinarsi (cfr. TAR Lazio Roma, sez. sez. I, 04.03.2009 n. 2248).
Va in proposito precisato che eventuali problemi di statica vanno valutati nel momento in cui i lavori di ripristino sono ultimati e che, quindi, l’autore dell’abuso non può invocare, al fine di ottenere l’applicazione della misura pecuniaria, la necessità di demolire anche parti non abusive qualora ciò sia necessario a rendere l’edificio conforme agli strumenti urbanistico-edilizi vigenti e qualora tali parti possano poi essere ripristinate senza pregiudizio per la statica dell’immobile.
Ciò premesso va osservato che, nel caso concreto, è vero che la rimessa in pristino dell’edificio potrebbe richiedere la demolizione dell’intero tetto, ma è anche vero che una volta accorciati i muri perimetrali (l’abuso infatti consiste nella realizzazione di muri perimetrali di lunghezza maggiore rispetto a quella assentita) il tetto potrà essere agevolmente ricostruito, e che, una volta fatto ciò, nessun problema di statica si porrebbe.
Non hanno rilievo poi la circostanze che l’abuso realizzato non avrebbe incidenze paesaggistiche e che, comunque, questo sarebbe di lieve entità.
L’applicazione della misura ripristinatoria di cui al primo comma dell’art. 33 non richiede infatti che l’abuso abbia incidenza paesaggistica. Inoltre, l’abuso nel concerto realizzato, per stessa ammissione di parte ricorrente, supera il margine di tollerabilità (pari al 2 per cento delle misure progettuali) stabilito dall’art. 34, ultimo comma, del TUE, introdotto dall'art. 5, comma 2, lett. a), n. 5), del d.l. 13.05.2011, n. 70; sicché esso non può considerarsi irrilevante.
Neppure ha rilievo la circostanza che nel provvedimento impugnato sia stato richiamato l’art. 31 del TUE in luogo dell’art. 33 e che, in un passaggio, lo stesso provvedimento qualifichi l’intervento realizzato quale intervento di nuova costruzione.
Va invero osservato che dalla lettura complessiva del provvedimento si può agevolmente inferire che il Comune intimato ha correttamente descritto l’abuso realizzato senza incorrere in alcun travisamento dei fatti; e che la sanzione applicata, per le ragioni sopra illustrate, è quella corretta in relazione alla fattispecie concreta (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.07.2013 n. 1986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Stabilisce l’art. 167, comma 5, del d.lgs. 22.01.2004 n. 42, che la sanzione da applicarsi ai fini del rilascio del provvedimento che accerta la compatibilità paesaggistica, è pari “…al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione”. In base a questa disposizione, qualora non via sia danno paesaggistico, occorre quindi verificare, al fine della quantificazione della sanzione, la consistenza del maggior valore conseguito dall’immobile a seguito dell’intervento abusivo realizzato.
Aggiunge la norma che “l'importo della sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima”.
Come si vede le suindicate disposizioni lasciano ampio margine di discrezionalità alle amministrazioni, le quali debbono formulare le proprie valutazioni applicando correttamente le regole tecniche proprie della scienza dell’estimo, onde addivenire ad una plausibile determinazione del valore economico del bene stimato.
Non è quindi necessaria la sussistenza di norme giuridiche che specifichino i criteri di stima ed autorizzino le amministrazioni a procedere secondo determinate modalità. La valutazione operata da queste ultime costituisce dunque esercizio di discrezionalità tecnica che può essere sindacata dal giudice amministrativo solo in caso di errore di fatto ovvero di palese illogicità.

Stabilisce l’art. 167, comma 5, del d.lgs. 22.01.2004 n. 42, che la sanzione da applicarsi ai fini del rilascio del provvedimento che accerta la compatibilità paesaggistica, è pari “…al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione”. In base a questa disposizione, qualora non via sia danno paesaggistico, occorre quindi verificare, al fine della quantificazione della sanzione, la consistenza del maggior valore conseguito dall’immobile a seguito dell’intervento abusivo realizzato.
Aggiunge la norma che “l'importo della sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima”.
Come si vede le suindicate disposizioni lasciano ampio margine di discrezionalità alle amministrazioni, le quali debbono formulare le proprie valutazioni applicando correttamente le regole tecniche proprie della scienza dell’estimo, onde addivenire ad una plausibile determinazione del valore economico del bene stimato.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla parte, non è quindi necessaria la sussistenza di norme giuridiche che specifichino i criteri di stima ed autorizzino le amministrazioni a procedere secondo determinate modalità. La valutazione operata da queste ultime costituisce dunque esercizio di discrezionalità tecnica che può essere sindacata dal giudice amministrativo solo in caso di errore di fatto ovvero di palese illogicità.
Ciò premesso va osservato che, nel caso concreto, il Comune di Novedrate, nell’elaborare la propria perizia, ha ritenuto di dover quantificare il valore dell’edificio di cui è causa (come conseguito a seguito dell’intervento abusivo realizzato) assumendo a parametro di comparazione i capannoni industriali aventi destinazione commerciale.
Ritiene il Collegio che tale valutazione non sia palesemente illogica atteso che, come si è visto sopra, il suddetto immobile è stato in sostanza adibito ad attività commerciale, trovando in esso sede un’attività di commercializzazione di beni (anche se trattasi di beni prodotti dall’impresa agricola); e che quindi è stato assunto quale termine di comparazione quello proprio di una categoria che presenta forti aspetti di similitudine rispetto a quella cui appartiene l’edificio in considerazione.
Né a contrario possono essere utilmente invocati, come fa parte ricorrente, il d.m. 26.09.1997 ed il regolamento per il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche della Provincia di Milano, atteso che, come visto, il citato art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004 non rinvia ad alcun atto di normazione secondaria, affermando invece che la quantificazione della sanzione va effettuata sulla base di una perizia di stima
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.07.2013 n. 1985 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In base all’art. 146, comma 4, del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 l'autorizzazione paesaggistica costituisce presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio.
Da ciò consegue che nessun titolo edilizio può essere rilasciato se l’intervento che si vuole realizzare incide su un bene vincolato e non sia stato preventivamente autorizzato dalle autorità proposte alla tutela del vincolo stesso.
Da ciò consegue ancora che anche in caso di richiesta di rilascio di permesso di costruire in sanatoria, di cui all’art. 36 del TUE, questo non può essere rilasciato se l’intervento realizzato in assenza di titolo edilizio o in difformità dallo stesso non sia ritenuto compatibile dal punto di vista paesaggistico dalla preposta autorità la quale, in tal caso, dovrà esprimersi ai sensi dell’art. 167, commi 4 e 5, del citato d.lgs. n. 42/2004.
Stabilisce in particolare il quarto comma lett. a) della predetta norma che l'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, qualora i lavori realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica “…non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Come si vede, la norma esclude che in caso di aumento di superficie o di volume possa essere accertata a posteriori la compatibilità paesaggistica di un intervento edilizio già eseguito.

In base all’art. 146, comma 4, del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 l'autorizzazione paesaggistica costituisce presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio.
Da ciò consegue che nessun titolo edilizio può essere rilasciato se l’intervento che si vuole realizzare incide su un bene vincolato e non sia stato preventivamente autorizzato dalle autorità proposte alla tutela del vincolo stesso.
Da ciò consegue ancora che anche in caso di richiesta di rilascio di permesso di costruire in sanatoria, di cui all’art. 36 del TUE, questo non può essere rilasciato se l’intervento realizzato in assenza di titolo edilizio o in difformità dallo stesso non sia ritenuto compatibile dal punto di vista paesaggistico dalla preposta autorità la quale, in tal caso, dovrà esprimersi ai sensi dell’art. 167, commi 4 e 5, del citato d.lgs. n. 42/2004.
Stabilisce in particolare il quarto comma lett. a) della predetta norma che l'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, qualora i lavori realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica “…non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Come si vede, la norma esclude che in caso di aumento di superficie o di volume possa essere accertata a posteriori la compatibilità paesaggistica di un intervento edilizio già eseguito (cfr. TAR Lombardia Brescia, sez. I, 11.04.2013 n. 350; TAR Toscana, sez. III, 16.05.2012 n. 953).
Nel caso di specie è indubbio che l’intervento realizzato in difformità del titolo edilizio rilasciato consiste nella chiusura del portico posto al piano terreno di una palazzina; chiusura che ha consentito la realizzazione di una maggiore superficie di pavimento e, dunque, la realizzazione di un maggior volume.
Ne consegue che, per le ragioni sopra evidenziate, non è neppure astrattamente possibile procedere all’accertamento di compatibilità paesaggistica; il che impedisce a priori il rilascio del titolo edilizio in sanatoria richiesto.
La ricorrente nelle proprie memorie sostiene che, in realtà, non vi sarebbe stato aumento di volume, in quanto la chiusura del portico sarebbe compensata dalla rinuncia alla realizzazione di altra palazzina in origine prevista nel piano di lottizzazione.
Questa argomentazione è del tutto inconferente posto che le valutazioni di compatibilità paesaggistica ed urbanistica di un determinato intervento edilizio riguardano specificamente quest’ultimo, ancorché esso sia inserito in un piano di lottizzazione che prevede la realizzabilità di una pluralità di edifici; ne consegue, quindi, che non è possibile compensare le modifiche apportate ad uno di tali edifici mediante modifiche apportate ad altri.
Per queste ragioni deve ritenersi che il Comune di Bovisio Masciago abbia correttamente negato il rilascio dei titoli di cui è causa e che le doglianze sollevate dalla parte siano tutte infondate. Anche la domanda risarcitoria è conseguentemente infondata (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.07.2013 n. 1984 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl Collegio dà atto che l’orientamento prevalente in giurisprudenza propende per la natura conformativa dei vincoli di piano regolatore preordinati alla realizzazione di parcheggi pubblici, ma tale orientamento si fonda da una parte sulla inidoneità di tali vincoli a determinare l’ablazione automatica del suoli, d’altro canto sulla circostanza che normalmente il parcheggio pubblico non implica la proprietà pubblica degli stessi.
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Gli standards urbanistici tendono al soddisfacimento di bisogni collettivi delle persone che abitano nei dintorni, ed a seguito della entrata in vigore del D.P.R. 380/2001 alla realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo segue la automatica acquisizione in proprietà delle stesse, e del relativo sedime, in capo alla Amministrazione comunale, senza che a tal fine sia necessaria la stipula di un atto negoziale ad hoc.
Tale regime, introdotto dal D.P.R. 380/2001, conferma la naturale vocazione alla proprietà pubblica delle aree a standards, in relazione alle quali, pertanto, si deve presumere la compatibilità con la sola proprietà pubblica.
Anche il Consiglio di Stato ha affermato la natura espropriativa di un vincolo preordinato alla realizzazione di un parcheggio pubblico, e la conseguente sua perdita di efficacia per decorso del termine quinquennale dalla imposizione del vincolo stesso.

Il ricorso può essere deciso sulla base della semplice considerazione che il vincolo a parcheggio pubblico oggetto di gravame deve ritenersi orami decaduto in ragione della sua natura espropriativa e del decorso del termine quinquennale dalla sua imposizione.
Il Collegio dà atto che l’orientamento prevalente in giurisprudenza propende per la natura conformativa dei vincoli di piano regolatore preordinati alla realizzazione di parcheggi pubblici, ma tale orientamento si fonda da una parte sulla inidoneità di tali vincoli a determinare l’ablazione automatica del suoli, d’altro canto sulla circostanza che normalmente il parcheggio pubblico non implica la proprietà pubblica degli stessi.
Orbene, non v’è alcuna prova che nel caso di specie la realizzazione dei parcheggi pubblici risulti compatibile con la proprietà privata dei fondi interessati, che, pertanto, si ritiene, dovranno necessariamente essere espropriati dalla Amministrazione comunale al fine di poter realizzare i parcheggi.
Del resto, come ha condivisibilmente rilevato il TAR Puglia-Bari nella sentenza n. 2815/2010, gli standards urbanistici tendono comunque al soddisfacimento di bisogni collettivi delle persone che abitano nei dintorni, ed a seguito della entrata in vigore del D.P.R. 380/2001 alla realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo segue la automatica acquisizione in proprietà delle stesse, e del relativo sedime, in capo alla Amministrazione comunale, senza che a tal fine sia necessaria la stipula di un atto negoziale ad hoc. Tale regime, introdotto dal D.P.R. 380/2001, conferma la naturale vocazione alla proprietà pubblica delle aree a standards, in relazione alle quali, pertanto, si deve presumere la compatibilità con la sola proprietà pubblica.
Anche il Consiglio di Stato ha affermato, nella sentenza n. 91/2010, la natura espropriativa di un vincolo preordinato alla realizzazione di un parcheggio pubblico, e la conseguente sua perdita di efficacia per decorso del termine quinquennale dalla imposizione del vincolo stesso.
Nel caso di specie non risulta che, a tanti anni di distanza dalla approvazione del Piano Regolatore, il Comune di Caprezzo abbia proceduto all’esproprio delle aree ed alla realizzazione dei parcheggi.
Segue che la previsione di piano regolatore oggetto di gravame deve ritenersi oggi non più efficace (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 25.07.2013 n. 940 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTILa Tares si paga anche se l'immobile è inutilizzato.
È legittima la pretesa del comune di Bologna di applicare la Tarsu a un appartamento inutilizzato. Infatti, il cambio di residenza del contribuente, la denuncia di cessazione dell'occupazione dell'immobile e il mancato consumo di energia elettrica non lo esonerano dal pagamento della tassa rifiuti. Il tributo si paga anche in caso di mancato utilizzo del servizio di smaltimento svolto dall'amministrazione comunale.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, con l'ordinanza 24.07.2013 n. 18022.
Per i giudici di piazza Cavour, «dando rilevanza all'avvenuto trasferimento della residenza anagrafica (ed alla concreta idoneità del bene a produrre rifiuti, siccome desumibile per presunzione dal mancato consumo delle erogazioni di energia) il giudice del merito ha chiaramente violato le norme che disciplinano il presupposto dell'imposta».
In effetti, sulla questione della tassabilità degli immobili inutilizzati si registrano prese di posizione diverse tra Cassazione, giudici tributari e ministero dell'economia e delle finanze. Anche le amministrazioni comunali non hanno quasi mai applicato la regola fissata dalla Suprema corte, la quale ha sempre posto dei limiti rigidi per l'esonero dal pagamento del tributo sui rifiuti, che è dovuto a prescindere dal fatto che il contribuente utilizzi l'immobile. Ex lege, vanno esclusi dalla tassazione solo gli immobili non utilizzabili (inagibili, inabitabili, diroccati). Non ha alcuna rilevanza la scelta soggettiva del titolare di non utilizzare l'immobile.
Anche il mancato arredo non costituisce prova dell'inutilizzabilità dell'immobile e della inettitudine alla produzione di rifiuti. Un alloggio che il proprietario lasci inabitato e non arredato si rivela inutilizzato, ma non oggettivamente inutilizzabile. Per la prima volta il principio è stato affermato con la sentenza 16785 del 30.11.2002. Regola ribadita con le sentenze 9920/2003, 22770/2009, 1850/2010 e altre.
Da ultimo, sempre la Cassazione (ordinanza 1332 del 21.01.2013) ha stabilito che l'esonero dal pagamento del tributo non spetta neppure quando il contribuente fornisca la prova dell'avvenuta cessazione di un'attività industriale. Il Mef invece, nelle linee guida che ha fornito ai comuni sulla corretta applicazione della Tares, ha precisato che non sono soggetti al pagamento le unità immobiliari privi di mobili e di allacci alle reti idriche e elettriche, che di fatto non vengono utilizzate (tratto da ItaliaOggi del 17.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Se è pur vero che la declaratoria di decadenza di un titolo edilizio costituisce manifestazione di attività vincolata della pubblica amministrazione, è parimenti innegabile che i presupposti della decadenza richiedono un rigoroso e completo accertamento in fatto, vale a dire una adeguata istruttoria, che non può basarsi su affermazioni apodittiche né prescindere dall’esame di tutte le circostanze del caso concreto.
Sul punto, preme al Collegio dapprima richiamare il proprio orientamento secondo cui, se è pur vero che la declaratoria di decadenza di un titolo edilizio costituisce manifestazione di attività vincolata della pubblica amministrazione, è parimenti innegabile che i presupposti della decadenza richiedono un rigoroso e completo accertamento in fatto, vale a dire una adeguata istruttoria, che non può basarsi su affermazioni apodittiche né prescindere dall’esame di tutte le circostanze del caso concreto (cfr. sul punto TAR Lombardia, Milano, sez. II, 22.1.2013, n. 189).
Nel caso di specie, il permesso di costruire è stato rilasciato il 14.12.2012 ed il relativo avviso è stato spedito alla società in data 19.12.2012 (cfr. il doc. 9 della ricorrente), mentre la comunicazione di inizio lavori è stata protocollata il successivo 20.12.2012 (cfr. il doc. 10 della ricorrente).
Contestualmente, è stata depositata presso gli uffici comunali la denuncia delle opere in cemento armato, oltre alla copia della notificazione preliminare di cantiere alla Regione, in applicazione della disciplina sulla sicurezza nei luoghi di lavoro (art. 99 del D.Lgs. 81/2008, cfr. ancora il doc. 10 della ricorrente).
Parimenti, è stato concluso un contratto d’appalto per l’esecuzione dei lavori edili (cfr. il doc. 11 della ricorrente), predisposto il piano di sicurezza (cfr. il doc. 12 della ricorrente) ed assegnati gli incarichi per la progettazione e la direzione lavori (cfr. i documenti da 16 a 18 della ricorrente).
Unitamente alla predisposizione della documentazione necessaria per l’avvio dei lavori, la società iniziava nel dicembre 2010 i lavori preparatori di cantiere, mediante allestimento dell’ufficio e deposito del materiale (cfr. il doc. 14 della ricorrente).
Il Comune di Como, dal canto suo, ha effettuato nella prima metà del mese di gennaio 2013 tre sopralluoghi sull’area (cfr. il doc. 4 del resistente).
Il primo sopralluogo risale al 01.01.2013 (giorno festivo e normalmente non destinato all’attività lavorativa), mentre i successivi, in data 10 e 22 gennaio, hanno consentito di appurare l’intervenuta recinzione dell’area di cantiere.
Ciò premesso, reputa il Collegio che le attività di carattere preparatorio e di adempimento degli obblighi inerenti la sicurezza del cantiere, posti in essere da Cosed nel dicembre 2013, siano sufficienti a manifestare quel “serio intento costruttivo”, che esclude la possibilità di declaratoria di decadenza del titolo edilizio rilasciato.
Non si dimentichi, infatti, che il permesso di costruire è stato rilasciato il 14.12.2012, allorché si approssimava il periodo di ferie natalizie ed in una stagione con condizioni climatiche sfavorevoli (circostanze, queste, che costituiscono fatto notorio ai sensi dell’art. 115, comma 2°, del codice di procedura civile), sicché appare irragionevole la pretesa del Comune di Como, che vorrebbe invece far discendere la prova dell’intento costruttivo dalla realizzazione, nelle ultime due settimane dell’anno ed in pieno inverno, di gran parte delle lavorazioni necessarie piuttosto al completamento e non all’inizio dell’opera.
Si tratta, a ben vedere, di una pretesa abnorme, non rispettosa del principio di proporzionalità che dovrebbe presiedere all’esercizio dell’azione amministrativa, anche in sede di accertamento della decadenza di cui al citato art. 15, oltre che in contrasto con il principio della buona fede oggettiva, che deve comunque caratterizzare il rapporto fra privato e pubblica amministrazione (cfr. sul punto, fra le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 08.11.2012, n. 5692).
Del resto, la norma di legge sopra menzionata prevede ordinariamente il termine di un anno dal rilascio del titolo per l’inizio dei lavori (cfr. art. 15, comma 2°, del DPR 380/2001), in quanto il legislatore ha ritenuto –realisticamente– che sussiste un fisiologico intervallo temporale fra l’ottenimento del titolo ed il concreto avvio dell’attività edilizia.
Nel caso di specie, intervenuto il rilascio del titolo il 14.12.2012, l’attività preparatoria svolta dalla società nei pochi giorni successivi e fino al 01.01.2013, appare rispettosa dei requisiti minimi per integrare un serio e concreto “inizio dei lavori”.
Sul punto preme ancora evidenziare che lo scrivente non ignora la giurisprudenza formatasi sull’art. 15 del DPR 380/2001, citata anche dall’Avvocatura Comunale nei propri scritti difensivi; tuttavia si deve ricordare che le sentenze richiamate dal resistente attengono al mancato inizio dei lavori nell’ordinario termine annuale di cui al comma 2° dell’art. 15, mentre nel caso di specie si tratta di verificare l’effettivo avvio dei lavori in un ben più ristretto termine di circa quindici giorni.
Non appare, di conseguenza, corretta l’applicazione dell’art. 15 menzionato effettuata dall’Amministrazione di Como (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.07.2013 n. 1943 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Eventuali omissioni degli atti di gara non possono riverberarsi a danno dei concorrenti che hanno fatto affidamento sulla correttezza ed esaustività del modello predisposto dall’amministrazione, a maggior ragione nel caso in cui la ricorrente abbia presentato dichiarazioni nella stessa forma e quindi si esponga alla rilevazione del medesimo vizio nei suoi confronti.
Appare ragionevole ritenere che solo la presentazione dell’istanza, predisposta nei termini voluti dall’Amministrazione, costituisca adempimento richiesto a pena di esclusione, mentre la sottoscrizione della stessa da parte di altri soggetti, che risultino investiti di poteri di rappresentanza –pur corrispondendo ad un indirizzo giurisprudenziale (peraltro non univoco) di stampo “sostanzialista”, circa l’obbligo di rendere la dichiarazione stessa da parte di chiunque fosse in grado di impegnare la società– può giustificare una richiesta di integrazione documentale da parte della stazione appaltante, ma non anche l’esclusione di una società che abbia, come nella fattispecie avvenuto, diligentemente compilato il modulo in questione.

In merito il Collegio ritiene necessario aderire a quell’orientamento secondo il quale eventuali omissioni degli atti di gara non possono riverberarsi a danno dei concorrenti che hanno fatto affidamento sulla correttezza ed esaustività del modello predisposto dall’amministrazione (Cons. Stato, sez. V, 22.05.2012 n. 2973), a maggior ragione nel caso in cui la ricorrente abbia presentato dichiarazioni nella stessa forma e quindi si esponga alla rilevazione del medesimo vizio nei suoi confronti.
In merito altra giurisprudenza ha chiarito che appare ragionevole ritenere che solo la presentazione dell’istanza, predisposta nei termini voluti dall’Amministrazione, costituisca adempimento richiesto a pena di esclusione, mentre la sottoscrizione della stessa da parte di altri soggetti, che risultino investiti di poteri di rappresentanza –pur corrispondendo ad un indirizzo giurisprudenziale (peraltro non univoco) di stampo “sostanzialista”, circa l’obbligo di rendere la dichiarazione stessa da parte di chiunque fosse in grado di impegnare la società– può giustificare una richiesta di integrazione documentale da parte della stazione appaltante, ma non anche l’esclusione di una società che abbia, come nella fattispecie avvenuto, diligentemente compilato il modulo in questione (Cons. Stato, VI, ordinanza 01.02.2013 n. 634) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 23.07.2013 n. 1933 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato alla constatata abusività che non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto.
Infatti, non solo è noto l’orientamento giurisprudenziale assolutamente prevalente in tema di repressione di abusi, (cfr. Consiglio di Stato sez. IV, 28.12.2012, n. 6702; TAR Lombardia Milano, sez. II, 19.02.2009, n. 1318) nel senso che l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato alla constatata abusività che non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto, ma è anche inesatto sostenere che l’amministrazione è rimasta inerte di fronte alla condotta commissiva del responsabile dell’abuso, avendo al contrario immediatamente adottato il provvedimento sanzionatorio che ha generato il contenzioso di cui si è dato conto al precedente punto 2.2. (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.07.2013 n. 1924 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quando il proprietario dell’area non sia il responsabile dell’abuso il provvedimento repressivo non può costituire titolo per l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste il bene.
L’estraneità del proprietario agli abusi edilizi commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità non implica, pertanto, l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l’inidoneità del provvedimento repressivo a costituire titolo per l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste il bene.
L’acquisizione gratuita dell’area non è, infatti, una misura strumentale, per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma costituisce una sanzione autonoma che consegue all’inottemperanza all’ingiunzione.
Ne discende che l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale si riferisce esclusivamente al responsabile dell’abuso, non potendo operare nella sfera giuridica di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell’area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell’opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti dall’ordinamento.

Fondato è invece il terzo motivo, con cui la ricorrente deduce la violazione dell’art. 31 del DPR 380/2001 in relazione all’acquisizione dell’area al patrimonio comunale nei confronti dei proprietari non responsabili degli abusi per cui è causa, che non ne avevano la disponibilità.
E’ infatti pacifico (cfr. per tutte Cons. Stato, VI, 04.03.2013, n. 1268; id. Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.04.2013, n. 1886) il principio che quando il proprietario dell’area non sia il responsabile dell’abuso, ciò che nella specie non è controverso tra le parti, il provvedimento repressivo non può costituire titolo per l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste il bene.
L’estraneità del proprietario agli abusi edilizi commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità non implica, pertanto, come sostiene parte ricorrente, l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l’inidoneità del provvedimento repressivo a costituire titolo per l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste il bene.
L’acquisizione gratuita dell’area non è, infatti, una misura strumentale, per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma costituisce una sanzione autonoma che consegue all’inottemperanza all’ingiunzione.
Ne discende che l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale si riferisce esclusivamente al responsabile dell’abuso, non potendo operare nella sfera giuridica di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell’area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell’opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti dall’ordinamento
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.07.2013 n. 1924 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'art. 10-bis, L. n. 241/1990 (preavviso di rigetto) è inapplicabile a tutti quei procedimenti che siano volti ad ottenere l'accesso ai documenti, in quanto da un lato il procedimento di accesso, costituendo un interesse meramente partecipativo e strumentale alla soddisfazione di un interesse primario, non si concilia con la previsione di una ulteriore fase sub procedimentale, e dall'altro l'elencazione dei procedimenti cui la norma non è applicabile non può essere considerata tassativa.
Il primo motivo è infondato in quanto l'art. 10-bis, L. n. 241/1990 (preavviso di rigetto) è inapplicabile a tutti quei procedimenti che siano volti ad ottenere l'accesso ai documenti, in quanto da un lato il procedimento di accesso, costituendo un interesse meramente partecipativo e strumentale alla soddisfazione di un interesse primario, non si concilia con la previsione di una ulteriore fase sub procedimentale, e dall'altro l'elencazione dei procedimenti cui la norma non è applicabile non può essere considerata tassativa (Consiglio di Stato, sez IV, 4813/2003, sez. VI, 05.12.2007, sent. n. 6183; TAR Lazio Roma Sez. II ter Sent., 07.01.2008, n. 71) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 18.07.2013 n. 1917 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Con l'entrata in vigore dell'art. 21-quinquies della l. n. 241/1990, il legislatore ha accolto una nozione ampia di revoca del provvedimento amministrativo, prevedendo tre presupposti alternativi che ne legittimano l'adozione: a) per sopravvenuti motivi di pubblico interesse; b) per mutamento della situazione di fatto; c) per nuova valutazione dell'interesse pubblico originario (c.d. jus poenitendi).
In materia di revoca di atti gara nella fase antecedente alla aggiudicazione, la giurisprudenza è copiosa, "antologie” di sentenze dalle quali possono dedursi i seguenti indiscussi principi: il potere di ritirare gli atti di gara come l'aggiudicazione provvisoria, attraverso gli strumenti della revoca o dell'annullamento, è espressione del principio di buon andamento dell'attività amministrativa e costituisce una facoltà dell'amministrazione ancora attinente la fase di scelta del contraente; pertanto, non sono necessarie specifiche valutazioni dell'eventuale interesse dell'aggiudicatario provvisorio al mantenimento di un atto non più rispondente all'interesse pubblico.
L'aggiudicazione provvisoria di una gara, attesa la sua natura di atto endoprocedimentale ed i suoi effetti interinali, è inidonea ad attribuire in modo stabile il bene della vita cui si aspira e ad ingenerare il connesso legittimo affidamento che imporrebbe l'instaurazione del contraddittorio procedimentale prima della revoca in autotutela.
Fino a quando non sia intervenuta l'aggiudicazione, rientra nel potere discrezionale dell'amministrazione disporre la revoca del bando di gara e degli atti successivi, laddove sussistano concreti motivi di interesse pubblico tali da rendere inopportuna, o anche solo da sconsigliare, la prosecuzione della gara.
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Non sussiste l'obbligo di comunicazione di avvio del procedimento nel caso di revoca dell'aggiudicazione provvisoria, trattandosi di atto endoprocedimentale rispetto al quale l'aggiudicatario può vantare un mera aspettativa alla conclusione del procedimento e non già una posizione giuridica qualificata.
L'esercizio del potere di autotutela nel corso di un procedura di gara non ancora assistita, come quella di specie, neppure dalla aggiudicazione provvisoria, non dà luogo ad un nuovo procedimento amministrativo, ma si innesta all'interno dell'unico procedimento destinato a concludersi con l'intervento dell'aggiudicazione definitiva.
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Come noto, la responsabilità cd. precontrattuale -che trova il suo paradigma normativo negli artt. 1337 e 1338 c.c.- è stata identificata come l’istituto che tende a tutelare la libertà negoziale della parte, mettendola al sicuro da coartazioni od inganni incidenti sulle proprie determinazioni negoziali (art. 1337 c.c.), ovvero preservandola da trattative che si rivelino inutili, in quanto conducano alla stipulazione di un contratto invalido (art. 1338 c.c.).
La giurisprudenza ha riconosciuto il risarcimento del danno, per responsabilità precontrattuale, pur in presenza di una revoca legittima, laddove l’impresa abbia confidato sulla possibilità di diventare affidataria e, ancor più, in caso di aggiudicazione intervenuta e revocata, sulla disponibilità di un titolo che l'abilitava ad accedere alla stipula del contratto stesso.
Detto orientamento giurisprudenziale, che afferma non essere ostativo al risarcimento del danno in materia di procedure ad evidenza pubblica l'intervento di un atto di revoca assunto in via di autotutela ancorché quest'ultimo sia legittimo non è invocabile nel caso di specie in assenza del provvedimento di aggiudicazione, in una fase in cui la stazione appaltante doveva valutare il profilo economico finanziario della gestione.
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L'obbligo generale di indennizzo dei pregiudizi arrecati ai soggetti interessati in conseguenza della revoca di atti amministrativi, di cui all'art. 21-quinquies l. 241/1990, sussiste esclusivamente in caso di revoca di provvedimenti definitivi e non anche in caso di revoca di atti a effetti instabili e interinali, quale l'aggiudicazione provvisoria.
Questo porterebbe ad escludere ogni voce di indennizzo, considerato che la revoca, come visto nella fattispecie, è intervenuta prima dell’aggiudicazione provvisoria.

L’Amministrazione ha ritenuto di procedere alla revoca degli atti di gara, per una nuova valutazione degli interessi, certamente anche a seguito della modifica della maggioranza politica.
Con l'entrata in vigore dell'art. 21-quinquies della l. n. 241/1990, il legislatore ha accolto una nozione ampia di revoca del provvedimento amministrativo, prevedendo tre presupposti alternativi che ne legittimano l'adozione: a) per sopravvenuti motivi di pubblico interesse; b) per mutamento della situazione di fatto; c) per nuova valutazione dell'interesse pubblico originario (c.d. jus poenitendi).
In materia di revoca di atti gara nella fase antecedente alla aggiudicazione, la giurisprudenza è copiosa, come dimostrano gli atti delle parti, “antologie” di sentenze, dalle quali possono dedursi i seguenti indiscussi principi: il potere di ritirare gli atti di gara come l'aggiudicazione provvisoria, attraverso gli strumenti della revoca o dell'annullamento, è espressione del principio di buon andamento dell'attività amministrativa e costituisce una facoltà dell'amministrazione ancora attinente la fase di scelta del contraente; pertanto, non sono necessarie specifiche valutazioni dell'eventuale interesse dell'aggiudicatario provvisorio al mantenimento di un atto non più rispondente all'interesse pubblico (TAR Sardegna Cagliari, sez. I, 11.11.2010, n. 2582; TAR Puglia Bari, sez. I, 14.09.2010, n. 3459; TAR Sicilia Palermo, sez. I, 28.07.2010, n. 9011; TAR Piemonte Torino, sez. I, 23.04.2010, n. 2085; TAR Lazio Roma, sez. II, 09.11.2009, n. 10991; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 24.09.2008, n. 10735).
L'aggiudicazione provvisoria di una gara, attesa la sua natura di atto endoprocedimentale ed i suoi effetti interinali, è inidonea ad attribuire in modo stabile il bene della vita cui si aspira e ad ingenerare il connesso legittimo affidamento che imporrebbe l'instaurazione del contraddittorio procedimentale prima della revoca in autotutela.
Fino a quando non sia intervenuta l'aggiudicazione, rientra nel potere discrezionale dell'amministrazione disporre la revoca del bando di gara e degli atti successivi, laddove sussistano concreti motivi di interesse pubblico tali da rendere inopportuna, o anche solo da sconsigliare, la prosecuzione della gara (da ultimo Consiglio di Stato sez. V, n. 2418 del 06.05.2013).
Si tratta quindi, facendo applicazione dei principi consolidati sopra riportati, di valutare se la scelta di revoca della procedura de qua, fosse sorretta da concreti motivi di interesse pubblico.
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Inoltre va anche richiamato il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui non sussiste l'obbligo di comunicazione di avvio del procedimento nel caso di revoca dell'aggiudicazione provvisoria, trattandosi di atto endoprocedimentale rispetto al quale l'aggiudicatario può vantare un mera aspettativa alla conclusione del procedimento e non già una posizione giuridica qualificata (TAR Lazio Roma, sez. II, 09.11.2009, n. 10991; TAR Puglia Bari, sez. I, 14.09.2010, n. 3459; TAR Valle d'Aosta Aosta, 10.10.2007, n. 123; TAR Campania Napoli, sez. I, 27.01.2006, n. 1078; TAR Lombardia Milano, sez. III, 16.01.2006, n. 50; Consiglio Stato, sez. IV, 29.10.2002, n. 5903).
L'esercizio del potere di autotutela nel corso di un procedura di gara non ancora assistita, come quella di specie, neppure dalla aggiudicazione provvisoria, non dà luogo ad un nuovo procedimento amministrativo, ma si innesta all'interno dell'unico procedimento destinato a concludersi con l'intervento dell'aggiudicazione definitiva.
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Quanto alla domanda risarcitoria, per responsabilità pre-contrattuale, parte ricorrente richiama la decisione del Consiglio di Stato n. 5002/2011, sul riconoscimento del mancato utile nel caso di illegittima revoca della gara.
Come noto, la responsabilità cd. precontrattuale -che trova il suo paradigma normativo negli artt. 1337 e 1338 c.c.- è stata identificata come l’istituto che tende a tutelare la libertà negoziale della parte, mettendola al sicuro da coartazioni od inganni incidenti sulle proprie determinazioni negoziali (art. 1337 c.c.), ovvero preservandola da trattative che si rivelino inutili, in quanto conducano alla stipulazione di un contratto invalido (art. 1338 c.c.).
La giurisprudenza ha riconosciuto il risarcimento del danno, per responsabilità precontrattuale, pur in presenza di una revoca legittima, laddove l’impresa abbia confidato sulla possibilità di diventare affidataria e, ancor più, in caso di aggiudicazione intervenuta e revocata, sulla disponibilità di un titolo che l'abilitava ad accedere alla stipula del contratto stesso.
Detto orientamento giurisprudenziale, che afferma non essere ostativo al risarcimento del danno in materia di procedure ad evidenza pubblica l'intervento di un atto di revoca assunto in via di autotutela ancorché quest'ultimo sia legittimo (da ultimo Cons. Stato Sez. IV, 07.02.2012, n. 662) non è invocabile nel caso di specie in assenza del provvedimento di aggiudicazione, in una fase in cui la stazione appaltante doveva valutare il profilo economico finanziario della gestione.
La domanda risarcitoria deve pertanto essere respinta.
In subordine viene chiesto il riconoscimento di un indennizzo, ex art. 21-quinquies l. 241/1990, per i costi vivi di partecipazione, quantificati in € 20.500,00.
La giurisprudenza in materia ha affermato che "l'obbligo generale di indennizzo dei pregiudizi arrecati ai soggetti interessati in conseguenza della revoca di atti amministrativi, di cui all'art. 21-quinquies l. 241/1990, sussiste esclusivamente in caso di revoca di provvedimenti definitivi e non anche in caso di revoca di atti a effetti instabili e interinali, quale l'aggiudicazione provvisoria" (Consiglio di Stato, sez. V, 05.04.2012, n. 2007).
Questo porterebbe ad escludere ogni voce di indennizzo, considerato che la revoca, come visto, è intervenuta prima dell’aggiudicazione provvisoria.
In ogni caso si deve osservare come non sarebbe possibile, in questa fase, vagliare la domanda di indennizzo, poiché le voci di costo elencate non sono state supportate da alcuna prova documentale.
Anche la domanda di indennizzo va quindi respinta
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 18.07.2013 n. 1913 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il termine di dieci giorni, entro il quale l'impresa offerente, sorteggiata a campione per il controllo in ordine al possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa o, in diverso momento, l’aggiudicatario e il concorrente secondo classificato, sono tenuti, ai sensi dell'art. 48 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, ad ottemperare alla richiesta della stazione appaltante, ha natura perentoria, e le sanzioni conseguenti alla sua inosservanza non vanno applicate solo in caso di comprovata impossibilità per l'impresa di produrre la documentazione non rientrante nella sua disponibilità.
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La garanzia che correda l’offerta, pari al due per cento del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione, a scelta dell'offerente, copre la mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell'affidatario, ed è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto medesimo.
Per giurisprudenza costante, la funzione della cauzione provvisoria è costituita dalla garanzia che l’amministrazione riceve dal concorrente sulla serietà dello stesso nel partecipare alla gara e si sostanzia in una forma di liquidazione anticipata del danno nel caso in cui la stipula del contratto non avvenga per recesso o per difetto dei requisiti del concorrente.
La ratio delle disposizioni sull’automaticità dell’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 48 va, invece, individuata nel contemperamento del principio del libero accesso alle gare, con la garanzia che vi partecipino imprese affidabili.
La norma, dunque, di spiccata funzione sanzionatoria, riveste la finalità di tutelare la correttezza e speditezza del procedimento di gara, tendendo a preservare la procedura stessa dalla partecipazione di imprese non adeguate, per mancanza dei requisiti richiesti, all'oggetto della gara medesima, risultando strumentale rispetto all'esigenza di garantire imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa e par condicio fra i concorrenti.
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L'esercizio del potere contrattuale, anche da parte di un'amministrazione pubblica committente, comunque operante nel campo dell'autonomia privata, deve essere conforme ai canoni generali di buona fede oggettiva, lealtà dei comportamenti e correttezza, alla luce dei quali vanno interpretati gli stessi atti di autonomia negoziale; ciò allo scopo di evitare che la libera estrinsecazione dell'autonomia contrattuale possa sfociare nell'arbitrio ovvero nell'abuso nell'esercizio del proprio diritto, principio che, ai sensi dell'art. 2 della Costituzione e dell'art. 1175 c.c., permea le condotte di ciascun operatore giuridico e dunque anche dell’amministrazione, ravvisabile nel comportamento del soggetto che esercita verso l'altro i diritti che gli derivano dalla legge o dal contratto per realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati.

Nella fattispecie in questione deve ricevere, dunque, applicazione quella giurisprudenza in base alla quale il termine di dieci giorni, entro il quale l'impresa offerente, sorteggiata a campione per il controllo in ordine al possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa o, in diverso momento, l’aggiudicatario e il concorrente secondo classificato, sono tenuti, ai sensi dell'art. 48 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, ad ottemperare alla richiesta della stazione appaltante, ha natura perentoria, e le sanzioni conseguenti alla sua inosservanza non vanno applicate solo in caso di comprovata impossibilità per l'impresa di produrre la documentazione non rientrante nella sua disponibilità (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 16.02.2012, n. 810).
Nonostante le succitate previsioni legislative e il suddetto orientamento giurisprudenziale, il collegio ritiene che debba, invece, statuirsi l’illegittimità della determinazione della stazione appaltante di procedere all’incameramento della cauzione provvisoria prestata dalla ricorrente, sia in considerazione della ratio che è alla base di tale prestazione, nonché delle disposizioni dell’art. 48 del codice degli appalti, che delle specifiche circostanze ricorrenti nella fattispecie che ci occupa.
Ed invero, ai sensi del combinato disposto dei commi 1 e 6 dell’art. 75 del d.lgs. n. 163/2006, la garanzia che correda l’offerta, pari al due per cento del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione, a scelta dell'offerente, copre la mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell'affidatario, ed è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto medesimo.
Per giurisprudenza costante, la funzione della cauzione provvisoria è costituita dalla garanzia che l’amministrazione riceve dal concorrente sulla serietà dello stesso nel partecipare alla gara e si sostanzia in una forma di liquidazione anticipata del danno nel caso in cui la stipula del contratto non avvenga per recesso o per difetto dei requisiti del concorrente (cfr., ad esempio, Cons. Stato, sez. V, 08.10.2011, n. 5499; 05.08.2011, n. 4712).
La ratio delle disposizioni sull’automaticità dell’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 48 va, invece, individuata nel contemperamento del principio del libero accesso alle gare, con la garanzia che vi partecipino imprese affidabili.
La norma, dunque, di spiccata funzione sanzionatoria, riveste la finalità di tutelare la correttezza e speditezza del procedimento di gara, tendendo a preservare la procedura stessa dalla partecipazione di imprese non adeguate, per mancanza dei requisiti richiesti, all'oggetto della gara medesima, risultando strumentale rispetto all'esigenza di garantire imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa e par condicio fra i concorrenti (cfr., in particolare, Cons. Stato, sez. V, 24.11.2011, n. 6239; 11.01.2012, n. 80; sez. IV, 16.02.2012, n. 810).
Deve, inoltre, osservarsi che il disciplinare di gara della procedura di specie, alla pag. 46, nell’ambito del paragrafo 6.3 dedicato all’aggiudicazione, prevedeva al punto II che, nel caso di mancata presentazione della documentazione richiesta a comprova dei requisiti economico-finanziari, Lombardia Informatica S.p.A. si riservasse il diritto di escutere la cauzione provvisoria.
Nella fattispecie in questione, in particolare, la ricorrente era in possesso dei requisiti economico-finanziari dalla stessa dichiarati in sede di offerta, come risulta dalla documentazione dalla stessa prodotta, seppur in ritardo; si era offerta di procedere alla stipula della convenzione, come si evince dalla corrispondenza versata in atti; non poteva verificarsi alcuna lesione della par condicio di eventuali altri concorrenti, essendo Celgene l’unica titolare del diritto di produrre i farmaci antitumorali infungibili oggetto dei lotti dei quali era risultata aggiudicataria.
Tali elementi, considerati nel complesso, ed in particolare alla luce delle specifiche previsioni della lex specialis di gara, per l’indubbio affidamento dalle stesse ingenerato nella ricorrente, avrebbero dovuto far propendere Lombardia Informatica per la sola esclusione di Celgene dalla procedura concorsuale, conseguendone, quindi, l’illegittimità dell’incameramento della consistente cauzione provvisoria per la violazione dei canoni civilistici di buona fede e affidamento.
Riceve, dunque, applicazione quell’orientamento giurisprudenziale, pure assunto dall’istante a sostegno delle proprie censure, secondo il quale l'esercizio del potere contrattuale, anche da parte di un'amministrazione pubblica committente, comunque operante nel campo dell'autonomia privata, deve essere conforme ai canoni generali di buona fede oggettiva, lealtà dei comportamenti e correttezza, alla luce dei quali vanno interpretati gli stessi atti di autonomia negoziale; ciò allo scopo di evitare che la libera estrinsecazione dell'autonomia contrattuale possa sfociare nell'arbitrio ovvero nell'abuso nell'esercizio del proprio diritto, principio che, ai sensi dell'art. 2 della Costituzione e dell'art. 1175 c.c., permea le condotte di ciascun operatore giuridico e dunque anche dell’amministrazione, ravvisabile nel comportamento del soggetto che esercita verso l'altro i diritti che gli derivano dalla legge o dal contratto per realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati (cfr., in proposito, Cons. Stato, sez. II, 23.05.2012, n. 4930; sez. IV, 02.03.2012, n. 1209) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 18.07.2013 n. 1906 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'erronea indicazione del mappale su cui insiste una delle opere abusive, contenuta nel verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolire le opere abusive di cui all'art. 7 l. 28.02.1985 n. 47, costituisce non già un semplice errore materiale, ma un vizio del procedimento che travolge il provvedimento con il quale sia stata disposta l'acquisizione al patrimonio comunale dell'area interessata.
Ai fini dell'atto di accertamento di inottemperanza all'ingiunzione a demolire necessita individuare specificatamente la costruzione abusiva con l'indicazione dei dati catastali e di quelli presenti nella conservatoria dei registri immobiliari, anche con riferimento agli effetti sull'acquisizione delle aree; ne risulta che il menzionato contrasto nell’indicazione delle aree sussistente tra i suddetti provvedimenti inficia irrimediabilmente il provvedimento di acquisizione per vizio del procedimento.

Il collegio ritiene di accogliere tale censura, confermando l’ordinanza cautelare succitata in precedenza emessa dalla sezione seconda di questo Tribunale e riportandosi al consistente orientamento della giurisprudenza amministrativa per il quale l'erronea indicazione del mappale su cui insiste una delle opere abusive, contenuta nel verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolire le opere abusive di cui all'art. 7 l. 28.02.1985 n. 47, costituisce non già un semplice errore materiale, ma un vizio del procedimento che travolge il provvedimento con il quale sia stata disposta l'acquisizione al patrimonio comunale dell'area interessata (cfr. TAR Lombardia, Brescia, 09.03.1993, n. 196).
Ed invero, ai sensi dell'art. 7, comma 4, della legge 28.02.1985 n. 47, ai fini dell'atto di accertamento di inottemperanza all'ingiunzione a demolire necessita individuare specificatamente la costruzione abusiva con l'indicazione dei dati catastali e di quelli presenti nella conservatoria dei registri immobiliari, anche con riferimento agli effetti sull'acquisizione delle aree (cfr. Cons. Stato, sez. II, 05.02.1997, n. 1219); ne risulta che il menzionato contrasto nell’indicazione delle aree sussistente tra i suddetti provvedimenti inficia irrimediabilmente il provvedimento di acquisizione per vizio del procedimento (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 18.07.2013 n. 1897 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOCongedi, estesi i beneficiari. Non solo i genitori ma anche i fratelli assenti giustificati. Sostegno, con quattro sentenze la Corte costituzionale ridisegna la platea dei richiedenti.
Ennesimo intervento –quarto in ordine di tempo– dei giudici della Corte Costituzionale sui soggetti legittimati a beneficiare del congedo straordinario per l'assistenza ai disabili in situazione di gravità, introdotto dalla legge n. 388/2000 e disciplinato dall'art. 42 del decreto legislativo n. 151/2001 e successivi modificazioni e integrazioni.
Nella formulazione originaria del comma 5 dell'art. 42, il diritto a fruire del congedo straordinario per assistere un figlio con handicap in situazione di gravità, non ricoverato a tempo pieno in strutture specializzate, previsto per la durata massima di due anni nell'arco della vita lavorativa, era limitato alla lavoratrice madre o, in alternativa, al lavoratore padre o, dopo la loro scomparsa, a uno dei fratelli o sorelle conviventi con il soggetto disabile.
Per effetto delle sentenze emanate dei giudici della Consulta, le n. 233 dell'08.06.2005, n. 158 del 18.04.2007 e n. 19 del 26.01.2009, il comma 5 dell'art. 42 oggi in vigore ha esteso la platea dei pubblici dipendenti, ivi compresi i dipendenti della scuola aventi diritto del congedo straordinario anche:
- ai fratelli e sorelle conviventi nell'ipotesi in cui i genitori siano impossibilitati a provvedere all'assistenza del figlio handicappato, perché totalmente inabili:
- anche al coniuge convivente con soggetto con handicap in situazione di gravità,in via prioritaria rispetto agli altri congiunti indicati nel comma 5;
- al figlio convivente, in assenza di altri soggetti idonei a prendersi cura della persona in situazione di disabilità grave.
Con la sentenza 18.07.2013 n. 203, ultima in ordine di tempo, i giudici della Corte Costituzionale hanno dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma 5 dell'art. 42 attualmente in vigore, nella parte in cui non include nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo straordinario ivi previsto, e alle condizioni ivi stabilite, il parente o l'affine entro il terzo grado convivente –nonché, per evidenti motivi di coerenza e ragionevolezza, gli altri parenti e affini più prossimi all'assistito, comunque conviventi ed entro il terzo grado- in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti degli altri soggetti individuati dalla predetta norma secondo un ordine di priorità, idonei a prendersi cura della persona in situazione di disabilità grave.
Spetterà ora al Legislatore recepire con apposita norma quanto dispone la sentenza e inserirla nel contesto del più volte citato comma 5.
Per effetto degli interventi dei giudici della Consulta, il congedo straordinario in questione, originariamente concepito come strumento di tutela rafforzata della maternità in caso di figli portatori di handicap grave, ha assunto una portata più ampia.
La progressiva estensione del complesso dei soggetti aventi titolo a richiedere il congedo, ne ha infatti dilatato l'ambito di applicazione oltre i rapporto genitoriali, per ricomprendere anche le relazioni tra figli e genitori disabili, e ancora, in altra direzione, i rapporti tra coniugi e fratelli.
Una estensione che certamente rafforza le possibilità di assistenza dei soggetti disabili in situazione di gravità. Occorre ora individuare ogni strumento idoneo ad evitare che un istituto di alta civiltà, quale deve essere considerato il congedo straordinario, possa essere utilizzato in maniera impropria, come sta avvenendo nell'utilizzo di un altro beneficio previsto dall'art, 33 della legge 104/1992, quello cioè che consente di fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito per assistere un parente handicappato in situazione di gravità, ancorché con i limiti indicati dal comma 3-bis dell'art. 6 del decreto legislativo 18.07.2011, n. 119.
In particolare il comma impone al lavoratore che chiede di assistere un parente disabile residente in comune situato a distanza stradale superiore a 150 chilometri rispetto a quella di residenza del lavoratore, di attestare con titolo di viaggio, o altra documentazione idonea, il raggiungimento del luogo di residenza dell'assistito nei giorni di permesso (tratto da ItaliaOggi del 13.08.2013).

TRIBUTI: Rifiuti, tassato anche il parcheggio a pagamento. Cassazione. Stesso principio per la Tares.
LE AREE DI PERTINENZA/ Sono esclusi dal tributo solo gli spazi sosta che sono al servizio di altre strutture private quali i supermercati.

È soggetta alla Tarsu l'area pubblica adibita a parcheggio a pagamento.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza 17.07.2013 n. 17434 (e altre tre analoghe depositate in pari data), rigettando il ricorso della società che gestiva il parcheggio in convenzione con il Comune.
Viene così confermato l'esito del giudizio di appello, concluso con la tassazione dei parcheggi trattandosi di aree frequentate da persone e quindi produttive di rifiuti in via presuntiva, anche in considerazione del naturale flusso giornaliero di autovetture, dato ovvio e non bisognevole di specifica dimostrazione.
Sulla questione la Cassazione in passato si era già espressa in senso conforme, distinguendo i parcheggi pertinenziali -come quelli gratuiti dei supermercati- dai parcheggi a pagamento quali aree operative, cioè oggetto di un'attività economica.
Solo nel secondo caso scatta il presupposto della Tarsu, costituito dall'occupazione o detenzione di aree produttive di rifiuti, a prescindere dall'esistenza di un contratto tra il gestore del parcheggio e l'ente pubblico (Cassazione decisioni 14770/2000, 1179/2004, 3852/2005, 13241/2005).
L'orientamento è stato confermato anche per i parcheggi non recintati e contrassegnati da strisce blu, trattandosi di aree sottratte all'uso collettivo proprio del suolo pubblico, attesa la funzione esclusiva oggetto della concessione (Cassazione 15851/2011 e 13100/2012).
Si tratta di principi applicabili anche alla Tares, il nuovo tributo sui rifiuti e sui servizi che da quest'anno sostituisce gli attuali prelievi Tarsu, Tia1, Tia2.
Tuttavia la disciplina originaria contenuta nel Dl 201/2011 escludeva dalla Tares solo le aree scoperte pertinenziali o accessorie a civili abitazioni e le aree comuni condominiali non occupate in via esclusiva. Ciò costituiva un elemento di novità rispetto al passato, perché diventavano imponibili tutte le aree scoperte degli operatori economici, senza più distinzione tra aree operative e aree pertinenziali, come i parcheggi dei supermercati o le aree di manovra degli stabilimenti industriali.
Restavano invece escluse dal tributo solo le aree pertinenziali delle unità abitative (balconi, terrazze, posti macchina scoperti eccetera).
È poi intervenuto il Dl 35/2013 che ha reintrodotto la stessa disciplina della Tarsu escludendo dalla tassazione le aree scoperte pertinenziali o accessorie a locali tassabili diversi dalle abitazioni.
Si evita così di ampliare la base imponibile per le imprese ma allo stesso tempo si ripropone la querelle –spesso foriera di contenzioso– sulla distinzione delle aree pertinenziali (non tassabili) da quelle operative (tassabili), questione peraltro che il Dl 201/11 aveva intenzionalmente eliminato.
Non solo. La norma di esclusione è riferita solamente ai «locali», quindi a rigore sarebbero tassabili tutte le aree accessorie adibite ad "aree" scoperte operative, come la viabilità interna di un campeggio o le aree di collegamento tra depositi scoperti di un'attività economica in genere (tratto da Il Sole 24 Ore del 19.08.2013).

TRIBUTITarsu dovuta per i gestori di parcheggi pubblici.
I gestori di parcheggi pubblici sono tenuti a pagare la tassa rifiuti anche se l'attività viene svolta sulle aree che hanno questa destinazione, in seguito alla stipula di una convenzione con l'amministrazione comunale. I parcheggi, infatti, sono produttivi di rifiuti perché frequentati da persone e soggetti a un naturale flusso giornaliero di autovetture.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, con la sentenza 17.07.2013 n. 17434.
Secondo la Cassazione, la tassa è dovuta dal soggetto che occupi o detenga un'area scoperta per la gestione di un parcheggio affidatagli in concessione. È del tutto irrilevante l'affidamento in concessione della gestione del parcheggio e il rapporto contrattuale con il comune. Nella pronuncia viene, infatti, precisato che il presupposto impositivo della Tarsu è costituito dal mero fatto oggettivo dell'occupazione del locale o dell'area scoperta a qualsiasi uso adibita.
E non è esonerato dal pagamento il soggetto che utilizzi un'area per la gestione di un parcheggio, a prescindere dal titolo giuridico in base al quale è effettuata l'occupazione. Del resto, la gestione dei parcheggi attribuisce al titolare il diritto a fruire in proprio del bene e gli consente di realizzare dei ricavi che costituiscono il prezzo dello svolgimento dell'attività. Nonostante l'uso del parcheggio sia collettivo, viene comunque pagato un corrispettivo.
Sono esclusi dalla tassazione, oltre alle aree pertinenziali (cosiddette non operative), solo gli immobili non utilizzabili (inagibili, inabitabili, diroccati) o quelli improduttivi di rifiuti.
Non sono esentate neppure le aree a verde. L'articolo 62 del decreto legislativo 507/1993 dispone che non sono soggetti alla tassa i locali e le aree che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel corso dell'anno, qualora tali circostanze siano indicate nella denuncia.
La Cassazione ha più volte precisato che per l'esclusione dal pagamento del tributo la condizione di impossibilità di produrre rifiuti deve dipendere da fattori oggettivi e permanenti e non dalla contingente e soggettiva modalità di utilizzazione delle aree (tratto da ItaliaOggi del 14.08.2013).

INCARICHI PROFESSIONALIP.a., maglie strette sulle intese. Accordi vietati se non per servizi pubblici comuni. Gli effetti sulle amministrazioni della sentenza del Cds sull'affidamento degli appalti.
Vietati gli accordi fra amministrazioni se non finalizzati all'adempimento di un servizio pubblico comune; si violano le direttive europee se gli accordi riguardano prestazioni comprese nelle direttive europee e un corrispettivo ancorché limitato al rimborso dei costi; molte attività potranno quindi essere aperte alla concorrenza privata.
È questo uno degli effetti principali che potrebbe derivare dall'applicazione dei principi affermati dalla V Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 15.07.2013 n. 3849, pronuncia che riveste una sua particolare importanza dal momento che gli accordi fra Amministrazioni costituiscono, insieme al più organico e articolato sistema del cosiddetto «in house», uno dei meccanismi attraverso i quali le pubbliche amministrazioni evitano di mettere sul mercato e affidare a terzi con procedure ad evidenza pubblica contratti di lavori, forniture e servizi, spesso anche di rilievo.
Il fatto. La vicenda prende le mosse da un affidamento, per importo soggetto alla normativa comunitaria (200 mila euro), riguardante servizi di studio e valutazione della vulnerabilità sismica di strutture ospedaliere, disposto dalla Asl di Lecce a favore dell'Università del Salento. Dopo la sentenza di primo grado del Tar Puglia, che aveva già dichiarato illegittimo l'affidamento diretto dell'incarico all'Università per omesso ricorso alle procedure di evidenza pubblica, il Consiglio di stato aveva rimesso alla Corte di giustizia la questione della legittimità degli accordi ex articolo 15 della legge 241/1990.
La giurisprudenza comunitaria. La Corte europea (sentenza del 19.12.2012, causa C 159/11), aveva affermato la violazione delle norme delle direttive appalti in quanto l'accordo non costituiva una forma di cooperazione in comune di attività fra due amministrazioni aggiudicatrici (così come prevede la legge 241/90), bensì un vero e proprio contratto di consulenza per servizi a fronte del pagamento di un compenso per il quale occorreva procedere con gara, ammettendo tutti gli operatori economici interessati ad acquisire la commessa.
In precedenza la stessa Corte (sentenza 09.06.2009, causa C-480/06) aveva ammesso forme di collaborazione soltanto a condizione che fossero coinvolte esclusivamente entità pubbliche; vi fosse la realizzazione congiunta di un servizio pubblico con una effettiva condivisione di compiti pubblici e responsabilità; non vi fossero trasferimenti finanziari, a parte quelli corrispondenti ai costi effettivi sostenuti per le prestazioni; fosse assente ogni interesse di natura commerciale. Prima ancora (sentenza 13.01.2005, causa C-84/03), invece, era stato sostenuto che l'istituto dell'accordo interamministrativo non potesse essere utilizzato quale strumento di elusione della normativa in materia di evidenza pubblica.
Il nodo dell'esercizio «in comune» di una attività. Il punto rispetto al quale ruota la questione della legittimità degli accordi fra Amministrazione è quello della configurabilità di una cooperazione tra enti pubblici «finalizzata a garantire l'adempimento di una funzione di servizio pubblico comune a questi ultimi». L'art. 15 della legge n. 241/1990 contempla una delle possibili forme di cooperazione tra enti pubblici, comunque imperniato sul carattere «comune» delle attività il cui svolgimento viene con essa disciplinato. Il Consiglio di stato premette che le direttive europee come prima finalità hanno quella di imporre alle amministrazioni il rispetto della concorrenza laddove debbano affidare attività economicamente contendibili e, conseguentemente, in negativo, escludere l'applicazione delle regole di gara quando non vi siano rischi di distorsioni del mercato interno.
Se questo è il presupposto, affermano i giudici, allora gli accordi tra pubbliche amministrazioni previsti dalla legge generale sul procedimento amministrativo, legittimi sotto il profilo comunitario e nazionale, sono necessariamente soltanto quelli aventi la finalità di disciplinare attività non deducibili in contratti di diritto privato, perché non inquadrabili in alcuna delle categorie di prestazioni elencate nell'allegato II-A alla direttiva appalti n. 2004/18. Pertanto all'interno dell'articolo 15 sono riconducibili quegli accordi il cui contenuto e forma siano finalizzati a regolare le rispettive attività funzionali, purché di nessuna di queste possa appropriarsi uno degli enti stipulanti.
Chiarita l'incerta giurisprudenza del Consiglio di stato. Il Consiglio di stato attribuisce alla pronuncia della Corte di giustizia relativa al caso esaminato, anche un'importante valenza di chiarimento del contrasto tra i principi comunitari da un lato e alcune pronunce della stessa quinta sezione che avevano reputato legittimo l'affidamento a titolo oneroso tra pubbliche amministrazioni di un servizio ricadente tra i compiti di uno degli enti (sentenze n. 1707/2007; n. 4539/2010; n. 6548/2010).
In questo caso assume valenza, oltre ai principi già illustrati, anche il profilo del corrispettivo: afferma infatti il Consiglio di stato che qualora un'amministrazione si ponga rispetto all'accordo come operatore economico-prestatore di servizi a fronte di un corrispettivo «anche non implicante il riconoscimento di un utile economico ma solo il rimborso dei costi, non è possibile parlare di una cooperazione tra enti pubblici per il perseguimento di funzioni di servizio pubblico comune, ma di uno scambio tra i medesimi» e, quindi, si è in presenza di un contratto soggetto alle direttive, da affidare con gara (tratto da ItaliaOggi Sette del del 19.08.2013).

APPALTI: Anche questa Sezione si è espressa, in un passato anche recente, nel senso della non configurabilità della responsabilità precontrattuale della P.A. “anteriormente alla scelta del contraente, nella fase, cioè, in cui gli interessati non hanno ancora la qualità di futuri contraenti, ma soltanto quella di partecipanti alla gara e vantano esclusivamente una posizione di interesse legittimo al corretto esercizio dei poteri della pubblica amministrazione , mentre non sussiste una relazione specifica di svolgimento delle trattative”.
Il fatto è che la ricaduta immediata di una simile impostazione è quella di finire, in pratica, con l’esonerare l’Amministrazione dal rispetto del dovere di diligenza e correttezza per tutto l’arco della sua azione sul terreno delle procedure dell’evidenza pubblica, che pure costituiscono la regola del suo agire nella dimensione contrattuale, finché l’Amministrazione stessa non sia pervenuta all’esito dell’aggiudicazione. E questo a dispetto della soggezione di principio, pur normalmente enunciata, della stessa P.A. all’istituto della culpa in contrahendo, che porta ad affermare che la sua responsabilità precontrattuale sarebbe “configurabile in tutti i casi in cui l'ente pubblico, nelle trattative con i terzi, abbia compiuto azioni o sia incorso in omissioni contrastanti con i principi della correttezza e della buonafede, alla cui puntuale osservanza anch'esso è tenuto, nell'ambito del rispetto dei doveri primari garantiti dall'art. 2043 cod. civ.”.
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La fase di formazione dei contratti pubblici, come è noto, è caratterizzata dalla contestuale presenza di un procedimento amministrativo e di un procedimento negoziale. Il procedimento amministrativo è disciplinato da regole di diritto pubblico finalizzate ad assicurare il perseguimento, anche quando la p.a. agisce mediante moduli convenzionali, dell'interesse pubblico. Il procedimento negoziale è disciplinato da regole di diritto privato, finalizzate alla formazione della volontà contrattuale, che contemplano normalmente un invito ad offrire della p.a. cui segue la proposta della controparte e l'accettazione finale della stessa p.a. La presenza di un modello formativo della predetta volontà contrattuale predeterminato nei suoi profili procedimentali mediante la scansione degli atti sopra indicati, che vede normalmente la presenza di più soggetti potenzialmente interessati al contratto, non rappresenta un ostacolo all'applicazione delle regole della responsabilità precontrattuale.
Si è, infatti, in presenza di una formazione necessariamente progressiva del contratto, non derogabile dalle parti, che si sviluppa secondo lo schema dell'offerta al pubblico. Non è, dunque, possibile scindere il momento di sviluppo del procedimento negoziale limitando l'applicazione delle regole di responsabilità precontrattuale alla fase in cui il "contatto sociale" viene individualizzato con l'atto di aggiudicazione. Del resto, anche nel diritto civile il modello formativo dell'offerta al pubblico presuppone normalmente il "contatto" con una pluralità di "partecipanti" al procedimento negoziale. Diversamente argomentando l'interprete sarebbe costretto a scindere un comportamento che si presenta unitario e che conseguentemente non può che essere valutato nella sua complessità.
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Nello svolgimento della sua attività di ricerca del contraente, l’amministrazione è tenuta non soltanto a rispettare le regole dettate nell’interesse pubblico (la cui violazione implica l’annullamento o la revoca dell’attività autoritativa) ma anche le norme di correttezza di cui all’art. 1337 c.c. prescritte dal diritto comune.
Il Collegio, per quanto precede, è dell’avviso che la circostanza che la procedura pubblicistica di scelta del contraente avviata non fosse ancora sfociata nell’aggiudicazione non valga, di per sé sola, ad escludere la configurabilità di una responsabilità precontrattuale in capo all’Amministrazione revocante, occorrendo invece all’uopo verificare in concreto la condotta da questa tenuta alla luce del parametro di diritto comune della correttezza nelle trattative (fermo restando, comunque, che il grado di sviluppo raggiunto dalla singola procedura al momento della revoca, riflettendosi sullo spessore dell’affidamento ravvisabile nei partecipanti, presenta una sicura rilevanza, sul piano dello stesso diritto comune, ai fini dello scrutinio di fondatezza della domanda risarcitoria a titolo di responsabilità precontrattuale).
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La legittimità dell’atto di revoca non elimina il profilo relativo alla valutazione del comportamento dell’Amministrazione dal punto di vista del rispetto, nell’ambito del procedimento di evidenza pubblica, dei canoni di buona fede e correttezza.
Secondo un’acquisizione giurisprudenziale già consacrata dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la revoca dell’aggiudicazione e degli atti della relativa procedura, anche ove ritenuta legittima, lascia invero intatto “il fatto incancellabile degli “affidamenti” suscitati nell’impresa dagli atti della procedura di evidenza pubblica poi rimossi”, onde i relativi comportamenti dell’Amministrazione, allorché risultino contrastanti con le regole di correttezza e di buona fede di cui all’art. 1337 del cod. civ., si pongono quali fatti generatori di responsabilità precontrattuale. E questa acquisizione si trova ribadita anche presso la giurisprudenza più recente.
In altre parole, quindi, “ai fini della configurabilità della responsabilità precontrattuale della p.a. non si deve tener conto della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica cristallizzato nel provvedimento amministrativo, ma della correttezza del comportamento complessivamente tenuto dall'Amministrazione durante il corso delle trattative e della formazione del contratto, alla luce dell'obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede ai sensi dell'art. 1337 c.c..

Il Comune con il primo mezzo d’appello assume che in materia di contratti pubblici una responsabilità precontrattuale della P.A. per violazione degli obblighi di correttezza e buona fede potrebbe essere configurata solo in quella particolare fase della procedura che va dall’aggiudicazione alla stipula del contratto.
Prima dell’aggiudicazione, gli interessati sarebbero solo dei partecipanti al procedimento amministrativo volto alla selezione della migliore offerta, e come tali potrebbero soltanto far valere una pretesa alla legittimità degli atti compiuti dall’Amministrazione.
Poiché, quindi, nella specie la revoca di cui si tratta è stata disposta ancor prima della scadenza del termine per la presentazione delle offerte, e perciò in assenza di qualsivoglia aggiudicazione, non sarebbe configurabile alcuna forma di culpa in contrahendo. Diversamente argomentando, viene aggiunto, si giungerebbe al “paradosso” che la tutela risarcitoria potrebbe essere invocata da tutti i partecipanti ad una procedura di gara pur legittimamente revocata.
Il motivo è infondato.
Il Collegio non potrebbe disconoscere il fatto che l’interpretazione su cui poggia il motivo abbia trovato importanti riscontri presso autorevole giurisprudenza (cfr. Cass. civ., SS.UU., 26.05.1997, n. 4673; Sez. I, n. 13164 del 18.06.2005).
Anche questa Sezione si è del resto espressa, in un passato anche recente, nel senso della non configurabilità della responsabilità precontrattuale della P.A. “anteriormente alla scelta del contraente, nella fase, cioè, in cui gli interessati non hanno ancora la qualità di futuri contraenti, ma soltanto quella di partecipanti alla gara e vantano esclusivamente una posizione di interesse legittimo al corretto esercizio dei poteri della pubblica amministrazione , mentre non sussiste una relazione specifica di svolgimento delle trattative” (C.d.S., V, n. 3393 del 28.05.2010 e n. 6489 dell’08.09.2010: a fondamento di tale indirizzo, peraltro, è stata richiamata, a partire dalla sentenza della Sez. IV n. 5633 dell’11.11.2008, la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 6 del 05.09.2005, che oggettivamente tuttavia non risulta inscrivibile in tale orientamento).
Il fatto è che la ricaduta immediata di una simile impostazione è quella di finire, in pratica, con l’esonerare l’Amministrazione dal rispetto del dovere di diligenza e correttezza per tutto l’arco della sua azione sul terreno delle procedure dell’evidenza pubblica, che pure costituiscono la regola del suo agire nella dimensione contrattuale, finché l’Amministrazione stessa non sia pervenuta all’esito dell’aggiudicazione. E questo a dispetto della soggezione di principio, pur normalmente enunciata, della stessa P.A. all’istituto della culpa in contrahendo, che porta ad affermare che la sua responsabilità precontrattuale sarebbe “configurabile in tutti i casi in cui l'ente pubblico, nelle trattative con i terzi, abbia compiuto azioni o sia incorso in omissioni contrastanti con i principi della correttezza e della buonafede, alla cui puntuale osservanza anch'esso è tenuto, nell'ambito del rispetto dei doveri primari garantiti dall'art. 2043 cod. civ.” (Cass. civ., III, n. 12313 del 10.06.2005, richiamata da Sez. II, n. 477 del 10.01.2013).
Onde l’interpretazione sostenuta dall’appellante si traduce in un’aprioristica esenzione dal diritto comune dell’Amministrazione (proprio quando la medesima opera sul piano contrattuale) che appare di difficile giustificazione.
Occorre poi considerare che la gara non è “altro” rispetto alla formazione del contratto della P.A.; e che i privati che vi partecipano, sottoponendo le proprie offerte alla Stazione appaltante, hanno tutti la qualità di possibili futuri contraenti con l’Amministrazione.
Come ha esattamente osservato in sostanza il primo Giudice, invero, gli atti del procedimento dell’evidenza pubblica, in quanto preordinati alla conclusione del contratto, sono al tempo stesso configurabili anche quali atti di trattativa e di formazione progressiva del contratto stesso, e come tali rilevanti anche ai sensi dell’art. 1337 cod.civ..
Questo Consiglio ha recentemente osservato (Sez. VI, n. 5638 del 07.11.2012, e n. 4236 del 25.07.2012), infatti, che "La fase di formazione dei contratti pubblici, come è noto, è caratterizzata dalla contestuale presenza di un procedimento amministrativo e di un procedimento negoziale. Il procedimento amministrativo è disciplinato da regole di diritto pubblico finalizzate ad assicurare il perseguimento, anche quando la p.a. agisce mediante moduli convenzionali, dell'interesse pubblico. Il procedimento negoziale è disciplinato da regole di diritto privato, finalizzate alla formazione della volontà contrattuale, che contemplano normalmente un invito ad offrire della p.a. cui segue la proposta della controparte e l'accettazione finale della stessa p.a. La presenza di un modello formativo della predetta volontà contrattuale predeterminato nei suoi profili procedimentali mediante la scansione degli atti sopra indicati, che vede normalmente la presenza di più soggetti potenzialmente interessati al contratto, non rappresenta un ostacolo all'applicazione delle regole della responsabilità precontrattuale. Si è, infatti, in presenza di una formazione necessariamente progressiva del contratto, non derogabile dalle parti, che si sviluppa secondo lo schema dell'offerta al pubblico. Non è, dunque, possibile scindere il momento di sviluppo del procedimento negoziale limitando l'applicazione delle regole di responsabilità precontrattuale alla fase in cui il "contatto sociale" viene individualizzato con l'atto di aggiudicazione. Del resto, anche nel diritto civile il modello formativo dell'offerta al pubblico presuppone normalmente il "contatto" con una pluralità di "partecipanti" al procedimento negoziale. Diversamente argomentando l'interprete sarebbe costretto a scindere un comportamento che si presenta unitario e che conseguentemente non può che essere valutato nella sua complessità.”
Già in precedenza, peraltro, la revoca di una procedura contrattuale non ancora sfociata in aggiudicazione era stata considerata come possibile fonte di responsabilità precontrattuale da numerose decisioni di questo Consiglio, quali Sez. V, n. 2882 dell’11.05.2009 e n. 4947 dell’08.10.2008; Sez. VI, n. 5002 del 05.09.2011 e n. 4921 del 02.09.2011.
E la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 6 del 2005 aveva avvertito come “nello svolgimento della sua attività di ricerca del contraente l’amministrazione è tenuta non soltanto a rispettare le regole dettate nell’interesse pubblico (la cui violazione implica l’annullamento o la revoca dell’attività autoritativa) ma anche le norme di correttezza di cui all’art. 1337 c.c. prescritte dal diritto comune”.
Il Collegio, per quanto precede, è dell’avviso che la circostanza che la procedura pubblicistica di scelta del contraente avviata non fosse ancora sfociata nell’aggiudicazione non valga, di per sé sola, ad escludere la configurabilità di una responsabilità precontrattuale in capo all’Amministrazione revocante, occorrendo invece all’uopo verificare in concreto la condotta da questa tenuta alla luce del parametro di diritto comune della correttezza nelle trattative (fermo restando, comunque, che il grado di sviluppo raggiunto dalla singola procedura al momento della revoca, riflettendosi sullo spessore dell’affidamento ravvisabile nei partecipanti, presenta una sicura rilevanza, sul piano dello stesso diritto comune, ai fini dello scrutinio di fondatezza della domanda risarcitoria a titolo di responsabilità precontrattuale).
Ne consegue l’infondatezza di questo primo mezzo di appello.
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Il Comune con il suo secondo mezzo oppone che la propria condotta sarebbe stata del tutto conforme ai canoni della correttezza e buona fede.
L’Ente adduce, difatti: di avere risposto in modo tempestivo e puntuale alle richieste di chiarimenti ricevute dopo la pubblicazione del bando di gara (G.U. 15.11.2010); di avere indi ragionevolmente deciso per la revoca della procedura, disposta con provvedimento del 24.12.2010: misura adottata a poco più di un mese dalla pubblicazione del bando, e prima del termine fissato per la presentazione delle offerte (il successivo giorno 28); di avere dato, infine, pronta quanto adeguata pubblicità a tale revoca, mediante pubblicazione sul proprio sito istituzionale il seguente 27 dicembre ed affissione all’albo pretorio a partire dal giorno 28 (oltre che mediante le forme a suo tempo seguite per il bando).
Queste considerazioni possono essere sostanzialmente condivise.
Il Tribunale, con il ritenere che dalla revoca di una procedura di gara, pur intrinsecamente legittima, potesse ben scaturire una responsabilità precontrattuale dell’Amministrazione, è partito da un principio di diritto astrattamente ineccepibile.
Esatta, infatti, è la sua osservazione che la legittimità dell’atto di revoca non elimina il profilo relativo alla valutazione del comportamento dell’Amministrazione dal punto di vista del rispetto, nell’ambito del procedimento di evidenza pubblica, dei canoni di buona fede e correttezza.
Secondo un’acquisizione giurisprudenziale già consacrata dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (n. 6 del 05.09.2005), la revoca dell’aggiudicazione e degli atti della relativa procedura, anche ove ritenuta legittima, lascia invero intatto “il fatto incancellabile degli “affidamenti” suscitati nell’impresa dagli atti della procedura di evidenza pubblica poi rimossi”, onde i relativi comportamenti dell’Amministrazione, allorché risultino contrastanti con le regole di correttezza e di buona fede di cui all’art. 1337 del cod. civ., si pongono quali fatti generatori di responsabilità precontrattuale. E questa acquisizione si trova ribadita anche presso la giurisprudenza più recente (cfr. C.d.S., VI: nn. 5638 del 07.11.2012 e 4236 del 25.07.2012, già richiamate sotto diverso profilo nel precedente paragrafo 2b; n. 1440 del 15.03.2012).
In altre parole, quindi, “ai fini della configurabilità della responsabilità precontrattuale della p.a. non si deve tener conto della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica cristallizzato nel provvedimento amministrativo, ma della correttezza del comportamento complessivamente tenuto dall'Amministrazione durante il corso delle trattative e della formazione del contratto, alla luce dell'obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede ai sensi dell'art. 1337 c.c.” (C.d.S., IV, 07.02.2012, n. 662, che richiama a sua volta V, 07.09.2009 n. 5245).
Tanto premesso, la Sezione deve tuttavia dissentire dal TAR nella parte in cui questo ha ritenuto che la condotta tenuta in concreto dal Comune fosse stata in contrasto con i parametri deontologici della fase precontrattuale ispirati al valore della correttezza.
Come ha già ricordato il primo Giudice, il provvedimento di revoca è stato motivato dall’Amministrazione comunale di Afragola con la “constatata equivocità nella formulazione di clausole che avevano dato luogo a numerose richieste di chiarimenti, ingenerando una notevole confusione nella giusta interpretazione della lex specialis, tale da indurre in errore i concorrenti nella procedura di gara. L’amministrazione, pertanto in vista di possibili contenziosi correlati alla constatata incertezza interpretativa, e dei connessi oneri futuri dovuti alla comune esperienza, ha inteso revocare la procedura di gara motivando la decisione con la necessità di garantire i principi fondamentali di trasparenza, correttezza, imparzialità e parità di trattamento nell’esperimento della gara medesima.”
Tali essendo le ragioni che hanno indotto il Comune a recedere dalla procedura contrattuale poco prima avviata, la loro serietà e plausibilità appaiono subito manifeste.
Partendo dall’equivocità della lex specialis, pur senz’altro ammessa dal Comune (tanto da porla a base del proprio atto di revoca), va osservato che tale connotato aveva carattere palese, essendo perciò manifesto anche per le ditte potenzialmente interessate. Come tale, pertanto, esso già in partenza menomava l’idoneità del bando a suscitare particolari affidamenti, in particolare con riferimento alla possibilità di una procedura dalla disciplina siffatta di andare a buon fine.
D’altra parte, il solo fatto dell’essersi una Stazione appaltante espressa, in occasione della redazione della disciplina di gara, con elementi equivoci, non può di per sé essere considerato alla stregua di un contegno lesivo del principio di correttezza nelle trattative: un’insufficiente chiarezza potrebbe essere stigmatizzata (al di là del caso estremo in cui sia addirittura seguita da un approfittamento della stessa parte dal contegno dianzi equivoco) solo quando sia stata senza giustificazione protratta nel tempo nel corso delle trattative, con il dare appunto seguito alla procedura a dispetto dell’ambiguità della sua lex specialis, tenendo in non cale le richieste di chiarimento avanzate dagli operatori. Ma una condizione del genere nella specie non ricorre.
Quanto alla circostanza che il Comune prima si sia adoperato per tentare di chiarire il senso della disciplina di gara, e solo in un secondo tempo si sia risolto per la revoca della procedura, tale punto, lungi dal poter formare materia di addebito, è semmai indice della cautela e del senso di responsabilità con cui l’Amministrazione si è mossa, optando per il recesso dalle trattative solo quando è risultato con sufficiente nitidezza che non esistevano margini tali da permettere di recuperare il procedimento mediante interventi di chiarimento interpretativo.
Va rilevato, infine, che la decisione di revoca della gara è stata presa con tempistica di per sé immune da possibili censure, e sollecitamente è stata resa conoscibile con i mezzi a disposizione (in generale, sulla necessità di dare notizia immediata della revoca di una procedura di evidenza pubblica cfr. già Ad.Pl. n. 6/2005 cit.).
Occorre difatti osservare che quella di cui si tratta era una procedura aperta, onde la Stazione appaltante non conosceva a priori l’identità delle imprese che avrebbero potuto parteciparvi, sì da poterle tempestivamente notiziare (a mezzo di fax o comunicazione di posta elettronica) prima che presentassero la loro offerta.
Non resta allora che rilevare che la revoca, decisa alla vigilia di Natale del 2010, è stata pubblicata sul sito istituzionale dell’Ente il primo giorno feriale successivo, vale a dire il 27 dicembre, e dall’indomani anche all’albo pretorio comunale, con tempistica dunque sufficientemente sollecita, e come tale non passibile di critica.
Per quanto precede, al Comune non può essere mosso alcun addebito di violazione del canone di correttezza nelle trattative
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.07.2013 n. 3831 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va rilasciato il permesso in sanatoria in caso di interventi funzionali all'adeguamento della struttura ed all'abbattimento delle barriere architettoniche.
Il ricorso è fondato per i motivi e nei termini di cui appresso.
Il provvedimento impugnato motiva il diniego di accertamento di conformità delle opere eseguite dalla società ricorrente sul presupposto che dette opere abbiano comportato aumenti di volumetria o di superficie utile, così configurandosi come interventi di ristrutturazione edilizia non consentiti nella zona 2 di Tutela del P.U.T. approvato con legge regionale 35/1987.
Tale presupposto, tuttavia, appare erroneo con riguardo alle opere eseguite per l’adeguamento della struttura alle prescrizioni di cui al dm 236/1989, volte a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, in attuazione della legge n. 13 del 1989.
Tra i principali interventi per le quali il Comune rileva la creazione di nuova volumetria vi sono:
1) l’ampliamento e modifica del corpo scala (v. punto 1.a), 2.f), 3.h))
2) la modifica delle aree di sbarco dell’ascensore (v. punto 1.c, 2.e).
La giurisprudenza, a tale riguardo, ha evidenziato che l'art. 7 legge n. 13 del 1989 qualifica quale interventi di manutenzione straordinaria quelli finalizzati all'abbattimento delle barriere architettoniche anche laddove consistenti in manufatti (comportanti pertanto una volumetria seppure qualificabile come "volume tecnico") che alterano la sagoma dell'edificio.
Da ciò ha tratto l’inevitabile conseguenza che, a maggiore ragione, devono ritenersi ricompresi fra gli interventi assentibili, ai sensi della richiamata norma di favore, gli interventi determinanti al più un aumento di superficie -e non di volume- volti comunque all'adeguamento funzionale del manufatto, ovvero a rendere lo stesso munito di accesso carrabile (TAR Napoli Sez. VII, n. 3618 - 26.07.2012).
La ricorrente, peraltro, aveva avuto modo di contestare la correttezza dei rilievi fatti dal Comune con proprie osservazioni alle quali i sottoscrittori del provvedimento hanno replicato insistendo sulla ascrivibilità delle opere al regime di ristrutturazione edilizia non consentita nella zona, omettendo altresì di motivare in ordine all’asserita preesistenza delle superfici recuperate a seguito dello spostamento della scala.
Vanno, pertanto, accolte le censure di violazione di legge, erroneità dei presupposti e difetto di istruttoria con riguardo al diniego di accertamento di conformità degli interventi funzionali all’adeguamento della struttura ed all’abbattimento delle barriere architettoniche (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 15.07.2013 n. 1575 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer le opere ultimate anteriormente all'01.09.1967, per le quali era richiesto -ai sensi dell’art. 31 L. n. 1150/1942 il rilascio della licenza di costruzione, i soggetti interessati possono ottenere il permesso in sanatoria, previo pagamento della somma determinata a titolo di oblazione ex art. 34 L. n. 47/1985.
Considerato che:
- le opere oggetto di richiesta di sanatoria risalgono, come asserisce il ricorrente, al 1958, affermazione mai smentita dall’amministrazione comunale ed anzi da questa implicitamente confermata con il provvedimento favorevole n. 120/1998;
- le stesse sono ubicate fuori dal centro abitato, nell’ambito di un comune all’epoca privo di strumento urbanistico di pianificazione; a quel tempo non era ancora esistente alcun vincolo paesistico, introdotto con decreto ministeriale del 02.11.1968, contenente la dichiarazione di notevole interesse pubblico del sito, ai sensi della L. 1497/1939;
- le opere stesse pertanto non necessitavano di alcuna licenza o concessione sia per l’aspetto urbanistico-edilizio sia per quello paesaggistico.
Ne consegue che, per il fabbricato eseguito, non era richiesto il rilascio della concessione edilizia in sanatoria di cui all’art. 32 l. n. 47/1985.
Quand’anche le opere in questione, siano da considerarsi non pienamente conformi, trova applicazione l’art. 31, comma 5, L. n. 47/1985, secondo cui “per le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era richiesto, ai sensi dell’art. 31, comma 1, L. n. 1150 del 1942 e dei regolamenti edilizi comunali, il rilascio della licenza di costruzione, i soggetti interessati conseguono la concessione in sanatoria previo pagamento, a titolo di oblazione, della somma determinata a norma dell’art. 34 della L. n. 47/1985” (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 15.07.2013 n. 1571 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 11 D.P.R. n. 380/2001, tra i titoli per richiedere il permesso di costruire rientra il rapporto di disponibilità qualificata dell'area interessata, il quale può trovare fondamento anche nel semplice possesso della stessa.
Occorre evidenziare che il permesso di costruire in sanatoria (n. 10/2012) di cui il Comune intimato ha negato il ritiro da parte del richiedente sig. Salvatore Stabile, odierno ricorrente, in conseguenza della mancata esibizione da parte di quest'ultimo del titolo di proprietà sull'area interessata, ha ad oggetto la realizzazione di una porzione di recinzione (per il resto regolarmente assentita con permesso di costruire n. 32/2011) su terreno (p.lla 107 del foglio 4) di proprietà di terzo soggetto (la controinteressata sig. Q.), dal quale è anche pervenuta al Comune formale opposizione.
In virtù del predetto rilievo, il Comune ha altresì avvisato il ricorrente, mediante l'atto impugnato, dell'avvio del procedimento di revoca del predetto permesso di costruire n. 10/2012.
Ebbene, è fondata, come anticipato nella fase cautelare (cfr. ordinanza n. 484/2012), la censura con la quale la parte ricorrente allega il carattere non necessario del titolo di proprietà sull'area interessata dai lavori.
Ribadito infatti che si verte in tema di permesso di costruire in sanatoria, viene in rilievo, a suffragare la fondatezza delle deduzioni attoree, l'art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ai sensi del quale "in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di denuncia di inizio attività nelle ipotesi di cui all'articolo 22, comma 3, o in difformità da essa (…), il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda".
La posizione di responsabile dell'abuso, facente capo al ricorrente, costituisce quindi, ai sensi del chiaro disposto normativo, titolo sufficiente a legittimare la presentazione da parte sua del richiesto titolo edilizio in sanatoria.
Il ricorso quindi, come anticipato, deve essere accolto e conseguentemente annullato il provvedimento impugnato, mentre può dichiararsi l'assorbimento delle censure non esaminate (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 15.07.2013 n. 1565 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn presenza di opere che implichino una stabile (benché non irreversibile) trasformazione del territorio, preordinata a soddisfare esigenze non precarie, è necessario il rilascio di un idoneo titolo edilizio.
Qualora l'entità del deposito dei materiali e la stabilità dell'utilizzazione dell'area emergano con una certa evidenza, è da ritenersi realizzata una trasformazione permanente dell'assetto edilizio del territorio, necessitante di concessione edilizia.
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La sussistenza da lungo tempo dell’opera abusiva non esclude certamente il potere di controllo e di repressione del comune in materia urbanistico-edilizia, perché l'esercizio di tale potere non è soggetto a prescrizione o decadenza.
Ne consegue che l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione della relativa sanzione possono intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che il ritardo nell'adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni consolidate.
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L'ordine di demolizione costituisce atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né infine una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può giammai legittimare, a maggiori ragione laddove l'abuso ricada in zona soggetta a vincola paesaggistica.

Va innanzitutto respinto il rilievo secondo il quale l’attività di deposito avviata sul fondo cui al foglio 9 mappale n. 421 non necessiterebbe di alcun titolo abilitativo, non integrando causa di trasformazione dello stato dei luoghi.
L'affermazione urta in via di fatto con le emergenze dei verbali di sopralluogo prodotti in giudizio che illustrano come il sedime sia occupato da:
- otto container colmi di traversine;
- due rimorchi altrettanto colmi;
- altre traversine accatastate sul terreno, per 17 m di lunghezza, 9 m di larghezza e circa 3 m di altezza quindi con un volume di 450 mc.
L’argomentazione contrasta, inoltre, in punto di diritto, con il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale -in presenza di opere che implichino una stabile (benché non irreversibile) trasformazione del territorio, preordinata a soddisfare esigenze non precarie- è necessario il rilascio di un idoneo titolo edilizio (cfr., ex multis, Cons. St. sez. IV, 24.07.2012, n. 4214).
Sul punto la giurisprudenza amministrativa ha costantemente affermato che, qualora l'entità del deposito dei materiali e la stabilità dell'utilizzazione dell'area emergano con una certa evidenza, è da ritenersi realizzata una trasformazione permanente dell'assetto edilizio del territorio, necessitante di concessione edilizia (TAR Milano sez. IV, 20.12.2011, n. 3307 e sez. II, 11.03.2011, n. 583).
Nel caso di specie, in considerazione dell'entità del deposito di materiali e mezzi d'opera, del relativo ingombro (evincibile dalla documentazione fotografica in atti) e della stabilità dell’utilizzazione dell'area come deposito (l'amministrazione ha, difatti, constatato la posa di materiale inerte già con verbale del 17.11.2008), è da ritenersi certamente realizzata una trasformazione permanente dell'assetto edilizio del territorio, necessitante del rilascio di permesso di costruire ai sensi dell'art. 3, lett. e7), d.P.R. n. 380/2001 (che fa riferimento alle ipotesi di “realizzazione di depositi di merci o di materiali” e di “realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo in edificato”).
In replica ad un’ulteriore contestazione contenuta in ricorso si osserva che la sussistenza da lungo tempo dell’opera abusiva non esclude certamente il potere di controllo e di repressione del comune in materia urbanistico-edilizia, perché l'esercizio di tale potere non è soggetto a prescrizione o decadenza. Ne consegue che l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione della relativa sanzione possono intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che il ritardo nell'adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni consolidate (TAR Milano sez. II, 17.06.2008, n. 2045 e 11.03.2011, n. 583).
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L'ordine di demolizione, infatti, costituisce atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né infine una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può giammai legittimare, a maggiori ragione laddove l'abuso ricada in zona soggetta a vincola paesaggistica (cfr. TAR Liguria sez. I, 29.01.2013, n. 217; TAR Napoli sez. II, 12.03.2013, n. 1410 e sez. III, 08.03.2013, n. 1374) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 12.07.2013 n. 891 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Ci si prepara all'esame senza permessi retribuiti.
La Sez. lavoro della Corte di Cassazione, con sentenza 10.07.2013 n. 17128, ha escluso il diritto ai permessi studio retribuiti per consentire la preparazione di un esame ad un dipendente pubblico.
Secondo i giudici di legittimità l'esercizio del diritto allo studio non contempla anche il tempo occorrente per la preparazione degli esami al fine del conseguimento del titolo, ma ai sensi e per gli effetti dell'art. 1363 c.c., si rileva la lettura del comma 3, nel quale il diritto allo studio è sussidiato non dai permessi, ma dall'obbligo del datore di lavoro di assegnare turni di lavoro tali da agevolare «la frequenza ai corsi» e «la preparazione agli esami», escludendo altresì, l'obbligo del dipendente di eseguire prestazioni di lavoro straordinario.
Inoltre, per giurisprudenza della stessa corte (Cass., n. 3871 del 2011), la fruizione dei permessi di studio prescinde dalla sussistenza di un interesse in capo al datore di lavoro, pubblico o privato, essendo riconducibile a diritti fondamentali della persona, garantiti dalla Costituzione (artt. 2 e 34 Cost.) e dalla Convenzione dei diritti dell'uomo (art. 2 Protocollo addizionale Cedu), e tutelati dalla legge in relazione ai diritti dei lavoratori studenti (art. 10 della legge n. 300 del 1970).
Se, dunque, la previsione di tali permessi rinviene la sua fonte originaria nei diritti fondamentali della persona, la conformazione dell'istituto ad opera dell'art. 3 del dpr n. 395 del 1988 (art. 15 Ccnl 14.09.2000, sopra richiamato), ragionevolmente, è avvenuta nel senso di offrire allo studente lavoratore l'opportunità di fruire della formazione erogata in sede universitaria, nelle lezioni tenute per lo svolgimento del corso finalizzato a sostenere l'esame, così da non discriminarlo rispetto agli studenti non lavoratori, ed assicurando in concreto l'esercizio del diritto allo studio in conformità con i principi enunciati dagli artt. 3 e 34 Cost..
Il legislatore ha, pertanto, individuato nella frequenza alle lezioni il momento di insostituibile apprendimento dal quale dipende il maggior arricchimento del bagaglio culturale del dipendente e, prendendo atto che le lezioni si svolgono abitualmente nell'orario di lavoro, in questo modo ha consentito allo studente lavoratore di poter fruire, sia pure in parte, di tale arricchimento, ma non ha anche garantito il tempo necessario per la preparazione agli esami (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Agenti. Pistola via ma non la divisa.
L'agente di polizia locale che perde la qualifica di pubblica sicurezza non può essere trasferito in un altro ufficio ma deve restare nell'area vigilanza.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 10.07.2013 n. 3711.
La vicenda riguarda un vigile urbano in servizio in Liguria con problemi di salute che è stato oggetto della revoca da parte della prefettura della qualifica di pubblica sicurezza. La qualifica di agente di pubblica sicurezza è una prerogativa accessoria rispetto a quella di guardia comunale.
In pratica un agente municipale può svolgere servizio in divisa anche senza la qualifica di pubblica sicurezza e conseguentemente senza armi. Senza l'armamento l'agente non potrà svolgere servizi particolari e rischiosi ma non è previsto alcun automatismo tra la revoca della qualifica di pubblica sicurezza e il mutamento del profilo professionale del vigile (tratto da ItaliaOggi Sette del del 19.08.2013).

PUBBLICO IMPIEGODivisa sì, pistola no.
L'agente di polizia locale che perde la qualifica di pubblica sicurezza non può essere trasferito in un altro ufficio ma deve restare nell'area vigilanza.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 10.07.2013 n. 3711.
Un vigile con problemi di salute è stato oggetto di revoca da parte della prefettura della qualifica di pubblica sicurezza. Il comune gli ha tolto la divisa inquadrandolo come amministrativo. L'interessato ha proposto con successo ricorso ai giudici amministrativi. La qualifica di agente di p.a. è una prerogativa accessoria rispetto a quella di guardia comunale.
In pratica un agente municipale può svolgere servizio in divisa anche senza la qualifica di pubblica sicurezza e conseguentemente senza armi. Senza l'armamento l'agente non potrà svolgere servizi particolari e rischiosi ma non è previsto alcun automatismo tra la revoca della qualifica di pubblica sicurezza e il mutamento del profilo professionale del vigile (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013).

VARI: Cassazione. Il papà si ricordi chi guidava.
Il proprietario di un veicolo è sempre tenuto a ricordarsi le generalità del soggetto al quale affida il proprio mezzo. E questa regola non trova eccezioni neanche in ambito familiare.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sez. VI civ., con l'ordinanza 08.07.2013 n. 16952.
Un automobilista è incappato in un controllo elettronico della velocità e per questo oltre alla multa è stato invitato dalla polizia a fornire le generalità del conducente per la decurtazione di punti. A seguito della tempestiva comunicazione di non essere in grado di fornire i dati richiesti, trattandosi di un'auto a uso della famiglia, la polizia ha redatto un secondo verbale per omessa delazione.
Il proprietario del veicolo, specifica il collegio, «è tenuto a conoscere l'identità dei soggetti ai quali affida la conduzione, onde dell'eventuale incapacità di identificare detti soggetti necessariamente risponde a titolo di colpa per negligente osservanza del dovere di vigilare sull'affidamento» (tratto da ItaliaOggi Sette del del 19.08.2013).

TRIBUTIValida solo la notifica alla casa comunale. In caso di irreperibilità opera la procedura prevista dall'articolo 140 Cpc.. Decisione della commissione tributaria regionale di Roma.
Se il destinatario della notifica è «irreperibile» la stessa si perfeziona solo con il deposito presso la casa comunale secondo la procedura prevista dall'art. 140 del codice di procedura civile (Cpc).

La Commissione tributaria regionale di Roma, con la sentenza 04.07.2013 n. 239/06/13, ha affermato che in caso di irreperibilità del contribuente, la notifica si perfeziona se sono assolte tutte le formalità previste dall'art. 140 Cpc (deposito dell'atto al comune; affissione del relativo avviso di deposito all'abitazione e notifica dello stesso per raccomandata con avviso di ricevimento).
La procedura di notifica degli atti tributari è disciplinata dagli artt. 137 e ss. del Cpc, così come stabilisce l'art. 16, comma 2, del dlgs n. 546/1992. Tale ultima disposizione richiama l'art. 60, comma 1, lett. a), del dpr n. 600 del 1973, prevedendo che le notifiche possono eseguirsi, oltre che a mezzo dell'ufficiale giudiziario, anche a mezzo di messo comunale o messo speciale autorizzato dalla stessa amministrazione, che pone in essere le medesime forme attuate dall'ufficiale giudiziario.
Alternativamente alla procedura di notifica cosiddetta «brevi manu» (se non eseguita a mani proprie la notificazione deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario), è possibile effettuare la notifica mediante il servizio postale con spedizione dell'atto in plico raccomandato senza busta con avviso di ricevimento.
L'art. 140 Cpc stabilisce, inoltre, che nel caso di «irreperibilità», incapacità o rifiuto a ricevere da parte del destinatario dell'atto, l'ufficiale giudiziario deposita la copia nella casa comunale dove sarà eseguita la notifica, dandone notizia per raccomandata con avviso di ricevimento.
Nel caso in esame il contribuente eccepiva l'illegittimità dell'avvenuta notifica della cartella di pagamento atteso che l'agente notificatore aveva provveduto al deposito dell'atto alla casa comunale nonostante la sua residenza risultasse comprovata dagli atti anagrafici. La Commissione tributaria provinciale aveva accolto il ricorso dichiarando priva di efficacia la cartella di pagamento.
I giudici tributari di appello hanno ritenuto che nel caso di specie non è risultato perfezionato il procedimento notificatorio, atteso che il citato art. 140 prevede una serie di adempimenti, tra cui l'avvenuta affissione dell'avviso del deposito in busta chiusa sigillata alla porta dell'abitazione del destinatario nonché l'invio dell'avviso di ricevimento dell'avvenuta affissione Tali documenti sono stati prodotti solo in sede di appello per cui si è determinato un error in procedendo che, riverberandosi su tutti gli atti successivi, ha inficiato l'intero giudizio
Tale principio trova conferma nella giurisprudenza della Cassazione che ha ritenuto applicabile la procedura di cui all'art. 140 Cpc quando siano conosciuti la residenza e l'indirizzo del destinatario, ma non si è potuto eseguire la consegna dell'atto perché il soggetto non è stato rinvenuto in detto indirizzo da dove non risulta trasferito, mentre è applicabile l'art. 60 del decreto del presidente della repubblica 600/1973 allorché l'agente notificatore non trovi il contribuente in quanto, da notizie acquisite, risulta trasferito in luogo sconosciuto (Cassazione 16050/2011).
Deve distinguersi, quindi, tra assenza temporanea dalla propria residenza e assenza definitiva o irreperibilità del destinatario, per cui il regime di notifica degli atti in caso di irreperibilità temporanea è diverso da quello per i casi di irreperibilità definitiva: solo in quest'ultimo caso è prevista l'obbligatorietà dell'affissione nell'albo comunale (Cassazione 6114/2013) (tratto da ItaliaOggi del 17.08.2013).

EDILIZIA PRIVATARete cellulari, capillarità da garantire.
La selezione dei criteri di insediamento degli impianti di telefonia mobile da parte delle amministrazioni a vario titolo interessate, deve tener conto della nozione di «rete di telecomunicazione», che per definizione richiede una diffusione capillare sul territorio, segnatamente nei casi di telefonia mobile (c.d. «cellulare»), che, alla debolezza del segnale di antenna, associa la necessità di un rapporto di contiguità delle singole stazioni radio base.

Questo ha stabilito la III Sez. del Consiglio di Stato con sentenza 03.07.2013 n. 3575, che si è espressa circa i caratteri e i limiti della pianificazione urbanistica da parte comunale in materia di impianti di telefonia mobile.
In via preliminare, in sintonia con quanto affermato dallo stesso collegio, sembra opportuno sottolineare come «il servizio pubblico di comunicazione mobile è preordinato a consentire a tutta la popolazione, sia residente che in transito sul territorio dei singoli comuni, di potere essere adeguatamente servita nelle diverse condizioni di comunicazione, in movimento o fissa, entro e fuori dagli edifici, entro e fuori dal centro abitato, in tutte le ore del giorno e della notte e anche negli orari di massima concentrazione del traffico».
Pertanto, per effetto dell'art. 86 del dlgs 01.08.2003, n. 259, delle infrastrutture di reti pubbliche di telecomunicazione alle opere di urbanizzazione primaria, si deduce che le stesse debbano collegarsi ed essere poste al servizio dell'insediamento abitativo e non essere dalle stesso avulse.
Il Consiglio di stato ha poi ribadito che è stato anche rilevato che la determinazione, da parte delle amministrazioni locali, di limiti di localizzazione degli impianti non può tradursi in una misura surrettizia di tutela della popolazione da immissioni radioelettriche che l'art. 4 della legge 22 febbraio 2001, n. 36 riserva allo stato attraverso l'individuazione di puntuali limiti di esposizione, valori di attenzione e obiettivi di qualità, da introdursi con decreto del presidente del consiglio dei ministri su proposta del ministro dell'ambiente, di concerto con il ministro della salute (cfr. Cons. stato, VI, 03.03.2007, n. 1017; 05.06.2006, n. 3332; 05.08.2005, n. 4159; 20.12.2002, n. 7274; 03.06.2002, n. 3095; cfr. anche Corte cost. sentenza n. 336 del 27.07.2005).
È pur vero, hanno concluso i giudici di Palazzo Spada, che ai sensi dell'art. 8, c. 6, legge n. 36 del 2001 «i comuni possono adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici» ma, al riguardo, la giurisprudenza ha più volte affermato che da tale previsione debbono discendere regole comunali ragionevoli, motivate e certe, poste a presidio di interessi di rilievo specifico a livello locale, per il particolare valore paesaggistico e ambientale o storico-artistico di certe porzioni del territorio, ovvero per la presenza di siti che, per la loro destinazione d'uso, possano essere qualificati particolarmente sensibili alle immissioni elettromagnetiche, non potendo comunque imporsi un generalizzato divieto di installazione in identificate zone urbanistiche del territorio comunale (tra le altre: Cons. stato, VI, 15.07.2010, n. 4557; cfr. anche Corte cost. sentenza n. 336 del 27.07.2005)» (tratto da ItaliaOggi del 15.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA: INEFFICACIA SANANTE DEL DECORSO DEL TEMPO NEI CONFRONTI DELL’ABUSO EDILIZIO.
Il decorso del tempo non svolge alcuna efficacia sanante nei confronti dell’abuso edilizio, che ha carattere permanente e può quindi essere perseguito senza limiti di tempo.
Il proprietario di un albergo propone ricorso al TAR avverso il provvedimento con il quale il Comune gli ha ingiunto di procedere alla demolizione di due interventi edilizi realizzati senza il previo titolo abilitativo e consistenti, il primo, nel frazionamento con un tramezzo in muratura del pianoterra in due unità con diversa destinazione funzionale e, il secondo, nella realizzazione di una galleria di collegamento fra l’albergo e un immobile adiacente. Afferma che ambedue gli interventi sanzionati sono risalenti nel tempo, perché effettuati almeno 50 anni fa.
Contesta quindi l’omessa valutazione da parte dell’Amministrazione comunale dell’interesse pubblico sotteso alla demolizione, dell’affidamento in lui ingenerato dal trascorrere degli anni e dell’inerzia del Comune nell’esercizio del potere repressivo. Il Tribunale dichiara infondata la censura.
Premette di aderire all’orientamento giurisprudenziale (Cons. Stato, sez. VI, 11.05.2001, n. 2781) per il quale il decorso del tempo non spiega alcuna efficacia sanante nei confronti dell’abuso edilizio, che ha carattere permanente e può essere perseguito senza limiti di tempo. Però, al tempo stesso, dà atto che è diffuso in giurisprudenza un orientamento contrario (Cons. Stato, sez. IV, 12.04.2011, n. 2266) per il quale, specie in presenza di abusi di minore gravità, l’Amministrazione è obbligata a valutare la sussistenza di un preminente interesse pubblico alla demolizione, ponendolo a confronto con l’affidamento maturato in capo all’autore dell’abuso. Dichiara di non condividere tale conclusione.
Riconosce che il principio di tutela dell’affidamento, operante anche nel diritto comunitario, trova fondamento costituzionale nell’esigenza di proteggere la sicurezza giuridica dei rapporti maturati in base alla legge, ed in tali limiti costituisce, siccome anche di recente chiarito dal giudice delle leggi (Corte cost., nn. 271 del 2011, 15 del 2012 e 78 del 2012), un elemento fondamentale dello Stato di diritto. Esso affonda dunque le radici non già nel consolidamento di uno stato di fatto contrario al diritto, ma nella costituzione di una posizione giuridica di favore tutelata dall’ordinamento, la cui vanificazione è tollerabile solo in presenza di prevalenti interessi costituzionali.
Sotto tale profilo, l’affidamento può nascere solo dalla legge o, comunque, radicarsi in ragione dell’azione amministrativa svolta in base alla legge, ma nel caso al suo esame nessuno di detti presupposti sussiste. D’altro canto l’inerzia dell’Amministrazione nel perseguire l’abuso non equivale a tolleranza ma al limite potrebbe, atteso il dovere degli uffici competenti di attivarsi ove ravvisino l’illecito e ove ciò fosse previsto dalla legge, comportare il mero decorso di un termine prescrizionale, ma il legislatore non ha inteso introdurre un termine, in assenza del quale si espande il principio generale secondo cui il potere amministrativo non si consuma per effetto del tempo.
Aggiunge che, a fronte di un illecito permanente, non si vede neppure quale interesse pubblico ulteriore rispetto al ripristino della legalità dovrebbe venire apprezzato dall’Amministrazione, atteso che compito di quest’ultima è ricondurre in pristino lo stato dei luoghi, rimuovendo l’illegale alterazione dell’assetto urbanistico del territorio. Conclude nel senso che l’affidamento è legittimo se nasce nella legalità, e non a seguito di pretese tolleranze in sé contrarie al diritto (tratto da Urbanistica e appalti n. 8-9/2013 - TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 27.05.2013 n. 5277 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANo a nuovi benzinai senza la valutazione ambientale.
Niente nuovi benzinai senza la Vas, la valutazione ambientale strategica che è necessaria per ogni intervento urbanistico che può avere effetti negativi sull'ecosistema. Annullata la delibera del consiglio comunale che introduce la variante al piano regolatore generale per disciplinare la nuova rete dei distributori di carburante ma senza adempiere a tutti i suoi doveri: in primis preparare il rapporto preliminare da sottoporre alla provincia per verificare l'assoggettabilità alla Vas. Il documento risulta privo dei contenuti richiesti dalle norme europee: gli esercenti del territorio, insomma, riescono a bloccare l'arrivo di cinque nuovi concorrenti.

È quanto emerge dalla sentenza 23.05.2013 n. 186, pubblicata dal TAR Emilia Romagna-Parma.
Un «guscio vuoto». Questo è per i giudici il rapporto preliminare alla Vas, peraltro predisposto dal comune soltanto dopo che arriva la richiesta dell'amministrazione provinciale in vista dell'approvazione del piano.
«Preliminare», insomma, è una parola grossa, visto che il documento arriva comunque dopo l'adozione da parte del comune dello strumento urbanistico che disciplina la nuova distribuzione delle pompe di benzina, con cinque nuovi punti di rifornimento concentrati nel 5% del territorio; una scelta forse discutibile ma comunque legittima se l'amministrazione avesse però effettuato una valutazione sull'impatto complessivo sull'ambiente connesso all'installazione dei chioschi in una zona ricca di «pozzi e tratti acquiferi ad alta vulnerabilità».
È vero: secondo una certa giurisprudenza amministrativa il rapporto preliminare risulta tempestivo anche se arriva dopo l'adozione del piano da parte del comune, a patto che sia emesso prima dell'approvazione della provincia.
Ma il collegio non è d'accordo e accoglie il ricorso dei benzinai già operanti sul territorio, secondo i quali risulta inutile produrre il rapporto come mero adempimento burocratico, a posteriori sulla variante già adottata «così vanificandone la finalità di indagine preventiva» (tratto da ItaliaOggi del 15.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA: RILASCIO DELLA SANATORIA EDILIZIA ED ESCLUSIONE DELL’AUTOMATICA CADUCAZIONE DELL’ORDINE DI DEMOLIZIONE.
Ai fini della revoca o sospensione dell’ordine di demolizione delle opere abusive (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31), il rilascio della concessione in sanatoria non comporta l’automatica caducazione dell’ordine di demolizione impartito nella sentenza di condanna per il reato edilizio, avendo il giudice dell’esecuzione il dovere di controllare la legittimità della concessione sotto il profilo della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione nonché dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio, per preservare il principio di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo, necessario per garantire efficacemente l’interesse protetto.
S’inserisce in un consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità la decisione oggetto di esame da parte della Suprema Corte, vertente sugli effetti caducatori o meno del rilascio della sanatoria edilizia rispetto all’ordine di demolizione emesso in sede di merito.
La vicenda processuale segue all’ordinanza con cui la Corte d’appello aveva respinto l’istanza di revoca dell’ordine di demolizione dell’opera abusiva emesso ex D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31, comma 9, con sentenza del Tribunale, che aveva condannato gli imputati, tra l’altro, per il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), per sopraelevazione, in assenza di titoli abilitativi, di due piani di un fabbricato preesistente, pronuncia che era stata successivamente confermata dalla Corte d’appello con sentenza irrevocabile.
Gli istanti avevano chiesto la revoca adducendo di avere conseguito per il fabbricato abusivo il permesso di costruire in sanatoria. La Corte aveva rilevato che il permesso suddetto era stato emesso ai sensi del D.L. n. 269 del 2003 (conv. in L. n. 326 del 2003), laddove sia la sentenza di primo sia la sentenza di secondo grado avevano espressamente escluso la condonabilità dell’opera in base a tale normativa, poiché non era stata completata nel rustico e nella copertura entro il 31.03.2003 (oltre a superare i limiti di volumetria previsti, che non potevano oltrepassare 750 m3).
L’ordinanza rilevava che tale statuizione era divenuta irrevocabile, e quindi non più discutibile in sede esecutiva, ed era comunque anche condivisibile essendo l’ultimazione entro il 31.03.2003 presupposto del condono edilizio (D.L. n. 269 del 2003, art. 32, comma 25, convertito in L. n. 326 del 2003) e risultando dalle fotografie in atti che i due piani rialzati alla data dell’accertamento erano ancora privi della muratura esterna di tamponatura; di conseguenza la Corte ha ritenuto di dover disapplicare il permesso di costruire in quanto illegittimo e ha ordinato l’esecuzione della demolizione delle opere oggetto della sentenza della Corte d’appello.
Contro l’ordinanza di rigetto proponevano ricorso per cassazione gli imputati, sostenendo -per quanto qui di interesse- che il giudice dell’esecuzione, mancando un accertamento sulla legittimità del condono, non avrebbe potuto disapplicare l’atto amministrativo: il rilascio di concessione sanante per condono edilizio dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna può comportare l’inapplicabilità e la revoca dell’ordine di demolizione, sempre revocabile se incompatibile con atti amministrativi.
La Corte di legittimità ha, tuttavia, respinto il ricorso, affermando il principio di cui in massima, così inserendosi sulla scia di quella giurisprudenza di legittimità che, come anticipato, sostiene che l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, impartito con la sentenza di condanna, non è caducato in modo automatico dal rilascio del permesso di costruire in sanatoria (v., da ultimo, tra le tante: Cass. pen., sez. III, 16.11.2010, n. 40475, in CED Cass., n. 249306) (tratto da Urbanistica e appalti n. 8-9/2013 - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.05.2013 n. 21962).

EDILIZIA PRIVATA: AL COMUNE SPETTA LA QUALITA' DI PARTE OFFESA NEI PROCEDIMENTI PENALI RELATIVI A VIOLAZIONI URBANISTICO-EDILIZIE.
Nei procedimenti per violazioni urbanistico-edilizie compete all’ente comunale la qualifica di parte offesa stante il diritto di ogni ente pubblico al riconoscimento, al rispetto e all’inviolabilità della propria posizione funzionale, così come del diritto alla realizzazione e alla conservazione di un ordinato sviluppo di un predeterminato assetto urbanistico, che sono compromessi dagli illeciti urbanistici.
Il tema, di regola non adeguatamente approfondito in giurisprudenza, oggetto di attenzione da parte della Corte Suprema nella decisione in esame verte sulla possibile attribuzione all’ente locale (Comune) della qualità di persone offesa nell’ambito di un procedimento penale iscritto per violazioni urbanistico-edilizie.
La vicenda processuale segue al decreto con cui il GIP del Tribunale ha disposto l’archiviazione di un procedimento nei confronti di C.M. e altri tre soggetti. Contro il decreto ha presentato ricorso il difensore del comune di A., esponendo che il Comune aveva depositato presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale una memoria ex art. 121 c.p.p. in relazione al procedimento penale a carico degli indagati, per il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), chiedendo ex art. 408 c.p.p., di essere informato in caso di archiviazione.
Successivamente, l’avvocatura comunale, chiedendo informazioni sull’esito del procedimento, otteneva le copie del fascicolo da cui risultava che precedentemente il P.M. aveva chiesto l’archiviazione, disposta con il decreto impugnato, senza dare notizia al Comune ex art. 408, comma 2, c.p.p. in violazione del principio del contraddittorio, con conseguente nullità del provvedimento ex art. 178, lett. c), c.p.p..
La tesi difensiva è stata accolta dalla Cassazione che, nell’affermare il principio di cui in massima, ha fatto coerente applicazione di un orientamento giurisprudenziale che, oltre a riconoscere la qualità di persona offesa per i reati urbanistico-edilizi, riconosce anche come legittima la costituzione di parte civile del Comune nel cui territorio insiste l’opera, atteso che nell’ente locale è identificabile una situazione di interesse personale e differenziato distinto dall’interesse diffuso all’osservanza delle norme urbanistiche comune alla generalità dei cittadini, discendendo in tal caso il danno dall’offesa al bene specifico individuato proprio nel territorio il cui assetto urbanistico viene ad essere pregiudicato dall’intervento abusivo (v., sul punto: Cass. pen., sez. III, 09.08.2002, n. 29667, in CED Cass., n. 222116; Id., sez. III, 15.07.2005, n. 26121, in CED Cass., n. 231952) (tratto da Urbanistica e appalti n. 8-9/2013 - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.05.2013 n. 21937).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Canna fumaria fastidiosa, no alla rimozione.
Stop alla canna fumaria che con le sue emissioni assedia la casa del vicino. E ciò anche se il regolamento comunale che dispone l'altezza minima delle condotte di scarico risulta successivo alla costruzione «incriminata»: il principio dell'irretroattività, infatti, non vale quando il provvedimento del Comune è adottato a tutela della salute degli individui.
Ciò che invece l'amministrazione non può fare è ordinare tout court l'abbattimento del manufatto senza studiare con il proprietario dell'immobile soluzioni alternative alla demolizione come l'adeguamento dei tubi, che pure consentirebbe di superare le criticità lamentate dal confinante.

È quanto emerge dalla III Sez., sentenza 22.05.2013 n. 1165, pubblicata dal TAR Puglia-Lecce.
Abbattimento e adeguamento
Accolto il ricorso del proprietario della canna fumaria denunciato dal vicino che ha la casa invasa dai fumi. Stavolta il servizio urbanistica ed edilizia pubblica del Comune è più realista del re: il confinante chiede soltanto un adeguamento del condotto di scarico, sbaglia l'amministrazione a decidere direttamente di imporre la rimozione. Inutile per il proprietario «condannato» all'abbattimento eccepire che il manufatto è lì da sempre, mentre è il vicino ad aver sopraelevato la sua costruzione così oggi si trova esposto alle esalazioni del comignolo.
Né giova osservare che il manufatto preesiste allo stesso regolamento comunale: è vero, le norme sopravvenute sulle distanze tra gli edifici non esplicano di solito efficacia retroattiva su situazioni già consolidate. Qui, però, il servizio del Comune interviene contro la cattiva dispersione dei fumi immessi nell'atmosfera, che possono risultare nocivi: l'ordinanza, insomma, risulta dettata dalla necessità «di eliminare o di attenuare la preesistente situazione di rischio igienico-sanitario».
Ma attenzione: un conto è l'abbattimento dell'intera struttura, ragionano i giudici amministrativi, un altro è l'adeguamento tecnico. Trova allora ingresso la censura che sostiene la nullità dell'ordinanza per violazione della legge 241/90, articolo 7, sulla trasparenza amministrativa: l'ente locale avrebbe dovuto convocare l'interessato per un confronto su come eliminare il paventato rischio di inquinamento (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA: PUBBLICAZIONE SULLA GAZZETTA REGIONALE DEI SITI DI IMPORTANZA COMUNITARIA ED INCIDENZA SULLA LEGITTIMITA' DELLA CONCESSIONE.
La pubblicazione nell’elenco dei siti proposti d’importanza comunitaria sulla Gazzetta regionale, produce giuridico effetto ai sensi del D.P.R. n. 357 del 1997, art. 5 (che obbliga a tenere conto della valenza naturalistico-ambientale per tali siti), ciò in coerenza con lo spessore dell’interesse pubblico, interno e comunitario, alla preservazione del territorio, incompatibile con un’irrilevanza temporalmente protratta di quanto è già stato giuridicamente identificato a un ragionevole livello come meritevole di tutela.
Il tema oggetto di esame da parte della Suprema Corte attiene, nel caso in esame, alla questione, invero non adeguatamente approfondita sino ad oggi dalla giurisprudenza di legittimità, della incidenza che può riverberarsi sulla legittimità di un titolo abilitativo rilasciato per l’esecuzione di interventi edilizi in un’area qualificata come s.i.c. (sito di importanza comunitaria).
La vicenda processuale segue al rigetto, da parte del tribunale della libertà, dell’appello proposto da G.N. avverso l’ordinanza del GIP dello stesso Tribunale che aveva rigettato la richiesta di revoca di decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP, avente ad oggetto opere realizzate o in corso di realizzazione (un complesso edilizio) in relazione a due concessioni edilizie, decreto che era stato emesso nell’ambito di un procedimento penale in cui G.N. è indagato per reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c).
Osservava il Tribunale che il GIP nel decreto di sequestro aveva condiviso l’impostazione accusatoria per cui le suddette concessioni edilizie, apparentemente legittime, patirebbero vari vizi d’illegittimità, rispettivamente derivanti dall’illegittimità del piano costruttivo, dal progetto delle opere di urbanizzazione, dal cronoprogramma e dalla violazione dell’art. 2 delle norme tecniche di attuazione del PRG per inidoneità delle previste opere di viabilità. Ulteriore profilo di illegittimità del programma costruttivo che si ripercuote sulle concessioni edilizie, secondo il Tribunale, è la mancata valutazione del vincolo ambientale gravante sulla zona che rientra nelle Zone a Protezione Speciale (ZPS), istituita con un precedente decreto assessoriale, e che anche prima di tale data era sottoposta a vincolo ambientale perché rientrava nell’elenco dei siti proposti di importanza comunitaria pubblicato nella Gazzetta regionale: il D.P.R. n. 357 del 1997, art. 5, comma 1, come modificato dall’art. 6 D.P.R. n. 120/2003 prevedeva infatti che nella programmazione territoriale si dovesse tenere conto della valenza naturalistico-ambientale dei proposti siti di importanza comunitaria.
In sostanza, prima dell’inizio dei lavori la ditta costruttrice avrebbe dovuto acquisire il parere di valutazione di incidenza ex art. 5, D.P.R. n. 357 del 1997, (VINCA) dall’Assessorato territorio e ambiente, oltre agli altri nullaosta secondo le normative vigenti; ne deriverebbe che la mancata acquisizione del parere di VINCA e` ulteriore profilo di illegittimità del piano costruttivo e quindi delle concessioni edilizie. Contro l’ordinanza di rigetto proponeva ricorso per cassazione l’indagato censurandola, per quanto qui di interesse, per avere ritenuto che il sito ove avvenne la costruzione degli immobili sequestrati necessitava della procedura VINCA.
Secondo la difesa del ricorrente, invece, il programma costruttivo non doveva essere corredato da alcun parere di incidenza ambientale perché l’area non era sottoposta ad alcuna vigente perimetrazione ZPS; in sostanza, secondo la difesa, il D.P.R. n. 357 del 1997, art. 5 deve interpretarsi nel senso che le ZPS si intendono proposte al momento della formulazione da parte del Ministero dell’ambiente della proposta alla Commissione Europea. Sarebbe dunque giuridicamente irrilevante la pubblicazione dell’elenco dei siti sulla G.U. regionale.
La tesi è stata però respinta dai giudici di legittimità che, nell’affermare il principio di cui in massima, hanno correttamente osservato che è proprio dal momento della esternazione degli elenchi che queste zone assumono una peculiare valenza naturalistico-ambientale, ciò in coerenza con lo spessore dell’interesse pubblico, interno e comunitario, alla preservazione del territorio, incompatibile con un’irrilevanza temporalmente protratta di quanto è già stato giuridicamente identificato a un ragionevole livello come meritevole di tutela (in precedenza, sull’argomento, v.: Cass. pen., sez. III, 27.02.2012, n. 7613, in CED Cass., n. 252106) (tratto da Urbanistica e appalti n. 8-9/2013 - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.05.2013 n. 20917).

EDILIZIA PRIVATA: LIMITI VOLUMETRICI E DIFFORMITA' TOTALE DELL’ORGANISMO EDILIZIO.
Al fine di qualificare un intervento edilizio come eseguito in difformità totale dal titolo abilitativo (art. 31, D.P.R. n. 380/2001), perché si abbia rilevanza penale del fatto, si deve trattare di un ‘‘organismo edilizio’’ integralmente diverso o di volumi tali da costituire un ‘‘organismo edilizio con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile’’ (fattispecie in cui la Corte ha escluso che un aumento volumetrico di 7 mc. portasse alla sussistenza di un organismo diverso rispetto a quello, di 344 mc., per il quale era stato legittimamente richiesto, con DIA, il risanamento statico).
Di particolare rilievo il tema oggetto di esame da parte dei Giudici della Corte di Cassazione che si soffermano ad analizzare la questione della rilevanza penale degli interventi eseguiti in difformità totale dal titolo abilitativo.
La vicenda processuale vedeva i ricorrenti accusati della violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), per avere realizzato un ampliamento di locale preesistente pari a mt. 1,60 x 4,80, con altezza di circa m. 3,60, in totale difformità della DIA presentata (finalizzata alla esecuzione di lavori di adeguamento statico-strutturale) ed in assenza di permesso di costruire.
L’accusa iniziale, più ampia, a seguito di assoluzione in primo grado, è stata circoscritta al solo ampliamento volumetrico. Contro la sentenza di condanna proponevano ricorso per cassazione gli imputati, sostenendo l’irrilevanza penale del fatto, trovando applicazione il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 2-bis, trattandosi di aumento volumetrico pari a 7 mc. di piccolissime dimensioni.
La tesi, ben proposta, è stata ritenuta fondata dagli Ermellini che hanno optato però per l’annullamento della sentenza di merito per intervenuta estinzione del reato a seguito del maturarsi del termine di prescrizione. In particolare, richiamando una giurisprudenza di legittimità formatasi sotto la vigenza della L. n. 47/1985, la Corte ha ritenuto alquanto generica l’affermazione dei giudici di appello di essere al cospetto di un organismo diverso posto che, al di là del fatto naturalistico in sé che un volume di 7 mc. dia luogo ad una diversità, è stato già detto (Cass. pen., sez. III, 14.07.1997, n. 6875, in CED Cass., n. 208434) che, perché la cosa abbia rilevanza penale, si deve trattare di un «"organismo edilizio’’ integralmente diverso ‘‘o di volumi tali’’ da costituire un ‘‘organismo edilizio con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile’’» (tratto da Urbanistica e appalti n. 8-9/2013 - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.05.2013 n. 20895).

APPALTISenza contratto appalti deboli. Gara annullabile anche se l'impresa ha già lavorato. Per il Tar Puglia la pubblica amministrazione può rimettere tutto in discussione.
Appeso a un filo l'appalto con la p.a. se non si firma il relativo contratto. L'ente pubblico può sempre annullare l'appalto, anche se ha chiesto all'impresa vincitrice di eseguire d'urgenza le opere o il servizio e, addirittura, anche se l'appalto è stato portato a termine o quasi. Se manca la sottoscrizione del contratto, infatti, la procedura ad evidenza pubblica non si conclude, e la p.a. può rimettere tutto in discussione.
È quanto stabilito dal TAR Puglia-Bari, Sez. I, con la sentenza 21.03.2013 n. 424.
Nel caso concreto un comune pugliese ha indetto una gara pubblica per l'affidamento del servizio di trasporto scolastico degli alunni delle scuole elementari e medie.
Alla ditta risultata aggiudicataria è stato chiesto di eseguire il servizio in via d'urgenza. L'impresa ha quindi iniziato ad adempiere ai suoi obblighi, senza firmare alcun contratto.
Quando ormai il periodo dell'affidamento del servizio volgeva al termine, è accaduto che l'amministrazione, a seguito di accertamenti espletati dalla polizia municipale, ha contestato gravi inadempienze all'impresa. Più precisamente, alla ditta è stato rimproverato di non aver fornito alla stazione appaltante copia del contratto di avvalimento concluso con altra azienda, grazie al quale era riuscita a vincere la gara; inoltre, secondo la ricostruzione degli agenti, la ditta avrebbe utilizzato autisti e mezzi vietati dal capitolato speciale di appalto.
Per questi motivi, il Comune ha «revocato» –dal nome del provvedimento adottato– l'affidamento, interrompendo l'esecuzione della prestazione in corso.
La ditta si è quindi rivolta al Tribunale amministrativo per la regione Puglia, contestando la decisione assunta dall'amministrazione.
Nel dettaglio, la difesa della ricorrente, ha sottolineato come il provvedimento di revoca, emesso quando ormai mancavano quindici soli giorni alla scadenza del rapporto, fosse in realtà un annullamento d'ufficio emesso in autotutela ai sensi dell'articolo 21-nonies della legge n. 241/1990. Da qui, oltre a denunciare l'assenza, nel caso concreto, dei presupposti per l'esercizio dell'annullamento, è stata denunciata l'illegittima lesione dell'affidamento ingenerato dalla stazione appaltante in ordine al buon diritto dell'impresa a portare a termine il servizio appaltato.
Si è poi contestato come, in ogni caso, le gravi inadempienze che avevano indotto l'amministrazione ad «annullare» l'aggiudicazione non potessero -in alcun modo- porsi a fondamento del potere di autotutela, attenendo le stesse alla fase dell'esecuzione del rapporto, ossia alla fase successiva alla procedura ad evidenza pubblica. Né, infine, poteva giustificare l'annullamento della gara la mancata produzione del contratto di avvalimento, posto che l'amministrazione, dopo aver affidato il servizio, se ne era sempre disinteressata.
Il Tar Puglia, nel propendere per il rigetto del ricorso, ha preliminarmente fatto chiarezza sulla qualificazione giuridica del provvedimento impugnato, per poi soffermarsi sulla legittimità dei presupposti che ne avrebbero legittimato l'adozione.
Con riferimento al primo problema, i giudici pugliesi hanno osservato come il potere di esatta qualificazione giuridica del provvedimento amministrativo impugnato, posto che si fonda sull'analisi del suo contenuto effettivo e della sua causa reale, spetti al giudice investito dalla controversia, il quale può legittimamente prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito dall'amministrazione all'atto adottato. Ciò poiché «l'apparenza derivante da una terminologia, eventualmente imprecisa o impropria, utilizzata nella formulazione testuale dell'atto stesso non è vincolante, né può prevalere sulla sostanza e neppure determina di per sé un vizio di legittimità dell'atto, purché ovviamente sussistano i presupposti formali e sostanziali corrispondenti al potere effettivamente esercitato».
Una volta stabilito che si trattava di «annullamento» e non di «revoca», i giudici del Tar hanno concentrato l'attenzione sulla sussistenza dei presupposti legittimanti l'adozione dell'atto: fra tutti, l'interesse pubblico, rinvenuto nella necessità di garantire il trasporto incolume dei minori cui è adibito il servizio.
Quanto agli altri presupposti si è detto che l'incompletezza o, meglio, l'assenza del contratto di avvalimento debba, a tutti gli effetti, ritenersi un valido motivo per annullarla, e ciò quand'anche l'affidamento del servizio sia ormai prossimo a scadere.
Con riferimento, invece, alla eccezione relativa all'irrilevanza delle gravi inadempienze poste in essere dalla ditta nel corso dell'esecuzione del servizio ai fini dell'annullamento della procedura a evidenza pubblica, il Tar Puglia ha spiegato che, nonostante la provvisoria consegna del servizio, il mancato esaurimento della procedura pubblicistica impedisce l'attrazione della controversia nell'alveo della fase esecutiva, mancando il necessario presupposto dato dalla stipulazione del contratto.
Pertanto l'esecuzione in via d'urgenza del servizio, in assenza della sottoscrizione del relativo contratto, non impedisce alla stazione appaltante di annullare in autotutela l'aggiudicazione definitiva, e ciò anche quando il rapporto sia ormai prossimo a scadere (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il provvedimento lacunoso ha ancora una chance. Non scatta l'annullamento ma solo l'irregolarità. E il ricorso rischia l'irricevibilità.
L'omessa indicazione, in calce al provvedimento, del termine e dell'autorità davanti alla quale è possibile contestare l'atto dell'amministrazione, determina una semplice irregolarità. Di conseguenza, il provvedimento non potrà essere annullato, e il ricorso presentato rischia di essere dichiarato irricevibile dal giudice amministrativo.

È quanto ha stabilito il TAR Campania-Napoli, Sez. IV, con la sentenza 19.03.2013 n. 1540.
Nel caso specifico, uno studente si è rivolto all'ente per il diritto allo studio, chiedendo (e ottenendo) per due anni consecutivi una borsa di studio.
Tuttavia, l'amministrazione, rilevata in un secondo momento l'assenza dei requisiti validi alla corresponsione del sussidio, ha deciso di revocare il beneficio.
Lo studente ha ignorato per sette anni la richiesta di restituzione delle somme corrisposte a titolo di borsa di studio dall'ente, tanto che quest'ultimo ha dovuto rivolgersi al giudice di pace per ottenere il recupero della somma indebitamente elargita.
Il giudice ordinario, adito per la controversia, ha però sospeso il giudizio ritenendo che lo studente avrebbe dovuto (e potuto) impugnare preliminarmente i provvedimenti di revoca del sussidio. Di conseguenza il difensore dello studente ha presentato un ricorso al giudice amministrativo chiedendo l'annullamento degli atti adottati dall'amministrazione.
Il Tribunale amministrativo per la regione Campania di Napoli, tuttavia, ha dichiarato il ricorso irricevibile.
Il rimprovero mosso allo studente è stato quello di aver aspettato troppo: il provvedimenti di revoca dei sussidi, infatti, dovevano ormai ritenersi definitivi.
A nulla è valsa la difesa dello studente, tesa a sostenere che il ritardo fosse dovuto alla mancata indicazione, nelle comunicazioni ricevute in ordine alla revoca e alla richiesta di restituzione delle somme, dell'indicazione dell'autorità e del termine entro il quale proporre ricorso.
I giudici campani hanno, infatti, osservato come l'omessa indicazione, in calce al provvedimento amministrativo, del termine e dell'autorità cui ricorrere, rappresenta una mera irregolarità che può costituire presupposto per ravvisare un errore scusabile, ma sempre che nel singolo caso sia apprezzabile una qualche giustificata incertezza sugli strumenti di tutela utilizzabili da parte del destinatario dell'atto.
Più precisamente, «la mancata indicazione del termine e dell'autorità dinanzi alla quale impugnare un provvedimento amministrativo può integrare errore scusabile non automaticamente ma solo in relazione alle circostanze concrete, da esaminarsi caso per caso, laddove tali circostanze rivelino che sussisteva una giustificata incertezza sugli strumenti di tutela utilizzabili da parte del destinatario. Altrimenti opinando l'inadempimento dell'amministrazione si tradurrebbe, in maniera del tutto illogica, in una sottrazione indiscriminata e generalizzata dall'onere di ottemperare alle prescrizioni vincolanti che disciplinano la sua impugnazione».
Applicando al caso concreto queste coordinate, è stato rilevato come non sussistessero oggettive incertezze in ordine agli strumenti di tutela, il ricorrente essendo stato destinatario di un atto di revoca che avrebbe necessitato una tempestiva impugnativa «e, pertanto, dall'omissione dell'indicazione dell'autorità e del termine per impugnare non può derivare una causa di errore scusabile tale da rimettere il ricorrente in termine per impugnare tardivamente».
Peraltro, non si esime di sottolinearlo il Consiglio di stato, lo studente è rimasto del tutto inerte, per ben sette anni, non proponendo nessuna azione di impugnativa o contestazione giudiziale, limitandosi ad instaurare il sindacato amministrativo quando ormai l'ente già aveva adito il giudice ordinario per il recupero delle somme erroneamente corrisposte (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013).

PUBBLICO IMPIEGOMazzette pericolose
L'operatore di polizia stradale che chiede denaro per chiudere gli occhi sulle multe risponde del grave reato di concussione.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sez. II penale, con la sentenza 14.03.2013 n. 11887.
Una pattuglia della stradale con il vizietto di chiedere denaro in cambio del lasciapassare è stata pizzicata dai colleghi della questura e deferita all'autorità giudiziaria. Contro la conseguente condanna confermata dalla Corte d'appello di Firenze un agente ha proposto ricorso in cassazione ma senza successo: la minaccia della multa con il ritiro della patente in caso di mancato versamento di una somma nelle tasche degli operatori rappresentano gli elementi costitutivi del reato.
Per questo non è necessario che l'attività del poliziotto sia di per sé illecita. Anche se l'automobilista ha violato il codice la richiesta di denaro è reato (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013).

AGGIORNAMENTO AL 14.08.2013

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     Mia adorata Mamma,
quanto Ti ho voluto bene ... e non Te l'ho mai detto.
     Perdonami e stammi sempre vicino, se puoi.
     Tuo T.

dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

INCARICHI PROFESSIONALI: R. Lasca, UNA GIORNATA FORMATIVA RESA ALLA P.A. DIRETTAMENTE E PERSONALMENTE DA RELATORE (PERSONA FISICA) - Storie di ordinaria follia giuridico-gestionale del III millennio italico: riflessioni sulla delibera n. 146/2013/GEST della Corte dei Conti Veneto Sez. Controllo (12.08.2013).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Adempimenti a carico delle Amministrazioni centrali previsti dal decreto-legge 08.04.2013, n. 35, recante "disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonché in materia di versamento di tributi degli enti locali", convertito, con modificazioni, dalla legge 06.06.2013, n. 64 (circolare 09.08.2013 n. 4/2013).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 33 del 13.08.2013, "Disciplina regionale per l’efficienza energetica degli edifici: gli effetti della conversione in legge del decreto 04.06.2013 n. 63" (comunicato regionale 08.08.2013 n. 100).
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Immobili. Regione in linea con lo Sviluppo economico. La Lombardia conferma la validità dei «vecchi» Ace.
È definitivamente rientrato l'allarme (e il conseguente impaccio per la contrattazione immobiliare) derivante dalla legge n. 90/2013, di conversione del decreto legge n. 63/2013, in tema di Attestato di prestazione energetica (Ape). Il decreto ha introdotto la previsione di nullità per tutti i contratti, a titolo oneroso e gratuito, che non portino in allegato il nuovo Ape (introdotto in sostituzione del "vecchio" Ace, l'Attestato di certificazione energetica), ma con la specificazione che:
fino all'emanazione dei regolamenti attuativi del decreto, l'Ape deve essere redatto secondo le prescrizioni tecniche precedenti il decreto legge 63/2013;
- nelle Regioni (e nelle Province autonome) che avessero emanato una propria legislazione in tema di Ace, si poteva procedere come si era fatto fino all'entrata in vigore del decreto.
Tuttavia, la legge di conversione n. 90/2013 aveva fatto sorgere il dubbio che le Regioni e le Province «legiferanti» fossero state spacchettate in:
- Regioni e Province che abbiano recepito la direttiva 2010/31 Ue (ad esempio, l'Emilia Romagna), nelle quali si sarebbe continuata ad applicare la normativa locale in tema di Ace;
- Regioni e Province (come la Lombardia) che si fossero limitate a recepire la precedente direttiva 2002/91/CE (ma non la successiva 2010/31), nelle quali si sarebbe dovuto applicare l'Ace/Ape nazionale e non più l'Ace locale.
Sul tema è dapprima intervenuto il ministero per lo Sviluppo economico con la tranquillizzante nota n. 416 datata 07.08.2013, affermando che la legge di conversione del decreto 63/2013 non ha comportato alcuna variazione e che, in particolare, fino all'emanazione dei decreti attuativi previsti dal decreto:
- nelle Province e nelle Regioni «non legiferanti», l'Ape va redatto con le prescrizioni vigenti ante decreto legge 63/2013;
- nelle Province e nelle Regioni «legiferanti» l'attestazione energetica deve essere compilata secondo la normativa regionale in vigore.
Da ultimo, il 12.08.2013, è intervenuta la Regione Lombardia pubblicando sul proprio sito il comunicato n. 100 dell'08.08.2013 con il quale si afferma che gli Ace, in qualunque epoca redatti, sono idonei a essere utilizzati ai fini della validità dei contratti ai quali la legge nazionale prescrive debbano essere allegati.
In particolare, la Regione Lombardia afferma che la deliberazione della Giunta regionale n. 8/8745 del 22.12.2008, pur essendo precedente alla direttiva 2010/31/Ue, contiene disposizioni puntuali che rispondono in gran parte alle previsioni contenute nella direttiva stessa; e che, allo stato attuale, le disposizioni della direttiva 2010/31/Ue che non sono ancora state oggetto di attuazione riguardano le prestazioni degli impianti per la climatizzazione estiva, mentre la mancanza di disposizioni per la realizzazione di edifici a emissioni quasi zero non può essere ritenuta un inadempimento, dato che non sono ancora scaduti i termini previsti dalla direttiva medesima.
Con il risultato che la Regione Lombardia si ritiene «legittimata ad applicare la propria disciplina per l'efficienza e la certificazione energetica degli edifici» (articolo Il Sole 24 Ore del 13.08.2013).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA - VARI: 50% previa pratica edilizia.
Domanda
Una persona fisica, che sta eseguendo nella propria abitazione lavori di manutenzione straordinaria per i quali intende usufruire del beneficio fiscale del 50%, dopo aver effettuato un primo bonifico bancario all'impresa esecutrice dei lavori con le particolari modalità previste dalla norma, si è accorta di non aver presentato al Comune interessato la dichiarazione di inizio lavori. Vi provvederà quanto prima regolarizzando il tutto presso il Comune competente.
Si chiede di conoscere se la tardiva presentazione della Dia, nell'ipotesi in cui vengano rispettati gli altri requisiti formali richiesti dalla Legge, comprometta o meno la fruizione dell'agevolazione del 50% sui predetti lavori e nel caso la si ritenga non compromessa, se la detrazione agevolata spetti anche per i bonifici eseguiti prima della regolarizzazione o solo per quelli eseguiti dopo la regolarizzazione.
Risposta
Nel quadro normativo in vigore dal 14.05.2011 non è più previsto l'obbligo per il contribuente, a pena di decadenza (dm 41/1998, artt. 1 e 4; circ. 57/1998, par. 7), di inviare con raccomandata al Centro di servizio di Pescara, prima dell'inizio dei lavori, la comunicazione su modello ministeriale della data in cui avranno inizio, allegando copia del provvedimento abilitativo, se previsto dalla legislazione edilizia, o in alternativa (circ. 121/98) dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante di essere in possesso di tutta la prescritta documentazione e di essere pronto a esibirla o trasmetterla a richiesta degli uffici finanziari.
Peraltro, anche dopo la soppressione della comunicazione preventiva, rimane un presupposto imprescindibile che i lavori siano coperti da titolo edilizio: in mancanza l'amministrazione finanziaria, se rileva l'irregolarità, potrà disconoscere il beneficio fiscale per i soli lavori realizzati prima del suo rilascio. D'altronde, anche il provvedimento direttoriale 02.11.2011 stabilisce che i contribuenti sono tenuti a conservare ed esibire, a richiesta degli Uffici, le abilitazioni richieste dalla vigente legislazione edilizia in relazione alla tipologia di lavori da realizzare, e l'art. 4 del dm 41/1998 continua a prevedere la decadenza dal beneficio per l'esecuzione di opere difformi da quelle comunicate ai sensi del suo art. 1, da intendersi (a nostro avviso, non esistendo più la comunicazione preventiva) che le opere eseguite devono essere conformi al titolo. Chiariamo anche che la regolare effettuazione di pagamenti anticipati anche in assenza di titolo edilizio, non può pregiudicare il bonus fiscale, pregiudizio che può invece derivare dalla preventiva esecuzione dei lavori prima della presentazione o del rilascio del titolo edilizio.
Inoltre, se il titolo preesiste ai lavori ma è inadeguato, rilevano le precisazioni della circ. 57/E/98 (par. 7), a nostro avviso valorizzabili anche nell'ipotesi in cui il titolo edilizio manchi nel momento in cui i lavori sono avviati: la realizzazione di opere edilizie non rientranti nella corretta categoria di intervento, per le quali sarebbe stato necessario un titolo abilitativo diverso ma, tuttavia, conformi agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi, non può essere considerato motivo di decadenza dai benefici fiscali, purché il richiedente metta in atto il procedimento di sanatoria previsto nelle normative vigenti (articolo ItaliaOggi Sette del 05.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Difformità del titolo edilizio.
Domanda
Il caso che i lavori di ristrutturazione eseguiti in una unità immobiliare siano in parte difformi da quelli indicati nella Dia comporta la perdita della detrazione fiscale del 50% e, se sì, per tutti i lavori o solo per quelli difformi?
Risposta
Il problema è stato affrontato dall'Amministrazione finanziaria nella circolare n. 57/E/98, par. 7, con precisazioni importanti per la salvaguardia dei contribuenti nei termini che seguono: si possono distinguere, anche ai fini della detrazione fiscale e in relazione alla decadenza prevista in caso di realizzazione di opere edilizie difformi, due situazioni:
a) la realizzazione di opere edilizie non rientranti nella corretta categoria di intervento, per le quali sarebbe stato necessario un titolo abilitativo diverso (quali, ad esempio, opere soggette a permesso di costruzione erroneamente considerate in una Dia, ma, tuttavia, conformi agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi. La circolare precisa espressamente che il caso in esame non può essere considerato motivo di decadenza dai benefici fiscali, purché il richiedente metta in atto il procedimento di sanatoria previsto nelle normative vigenti;
b) la realizzazione di opere difformi dal titolo abilitativo e in contrasto con gli strumenti urbanistici e i regolamenti edilizi. La circolare afferma che il caso in esame comporta invece la decadenza dai benefici fiscali, in quanto si tratta di opere non sanabili ai sensi della vigente normativa.
La circolare precisava, ulteriormente, che qualora si fosse ricaduti nella prima ipotesi, al termine della procedura di sanatoria è opportuno comunicare all'Amministrazione finanziaria, integrando la comunicazione in precedenza inviata (obbligo procedurale soppresso dal 14.05.2011), l'avvenuto rilascio del titolo in sanatoria. Nel secondo caso, viceversa, che avrebbero potuto essere attivati sistemi di comunicazioni tra l'Amministrazione finanziaria e le amministrazioni comunali, tali da consentire a queste ultime, nell'ambito dell'attività di vigilanza, di trasmettere alla prima copia dell'ordinanza di demolizione delle opere abusive, ai fini della declaratoria della decadenza dai benefici fiscali.
Pertanto, in base alla circolare 57/E/97 si devono ritenere salvaguardati, anche agli effetti fiscali, tutti i comportamenti difformi frutto di errori di scarsa gravità in quanto sanabili ed effettivamente sanati (articolo ItaliaOggi Sette del 05.08.2013).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Termine di efficacia della circolare del Ministro dell’Ambiente U.prot.GAB-2009-0014963 del 30/06/2009 (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, nota diffusa il 06.08.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Attestazioni OIV sull’assolvimento di specifici obblighi di pubblicazione per l’anno 2013 e attività di vigilanza e controllo della Commissione (CIVIT, delibera 01.08.2013 n. 71).
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Trasparenza, in campo la Gdf. La Civit potrà inviare le Fiamme gialle per le verifiche. Delibera della commissione richiama l'attenzione degli enti alle scadenze del 30/09 e 31/12.
Entro il 30 settembre su tutti i siti delle p.a. dovranno essere pubblicati i modelli con cui gli organismi di valutazione attesteranno il rispetto degli obblighi di trasparenza e le relative griglie. Entro il 31 dicembre queste informazioni dovranno essere trasmesse alla Civit, che direttamente controllerà il rispetto delle previsioni legislative e potrà inviare la Guardia di finanza per accertare la veridicità del contenuto delle attestazioni rese dagli Organismi indipendenti di valutazione.
Non siamo dinanzi a una boutade estiva, ma alla deliberazione 01.08.2013 n. 71 della Civit «Attestazioni Oiv sull'assolvimento di specifici obblighi di pubblicazione per l'anno 2013 e attività di vigilanza e controllo della commissione». Sicuramente il legislatore ha scelto negli ultimi anni di fare della trasparenza uno dei tratti essenziali che devono caratterizzare l'attività delle pubbliche amministrazioni, sia per migliorare la qualità dei servizi erogati, sia per dare corpo al cosiddetto «controllo sociale» o «diffuso» e a questa scelta occorre dare piena attuazione.
Ma la moltiplicazione degli obblighi e degli adempimenti, spesso istituendone di nuovi, determina semplicemente l'aumento degli adempimenti inutili per le amministrazioni pubbliche e il suo effetto principale è la creazione di una nuova sfera degli apparati burocratici: gli addetti al rispetto dei vincoli sulla trasparenza. Peraltro senza prevedere alcuna differenziazione tra i comuni piccolissimi e le altre amministrazioni pubbliche e senza tener conto della progressiva riduzione del numero dei dipendenti pubblici.
Si ripete quanto avviene troppo spesso: l'aumento degli obblighi di comunicazione ad altre p.a. e alla Corte dei conti; è questa una attività che sta diventando snervante e defatigante, in particolare per i responsabili finanziari e che sottrae tempo allo svolgimento di attività operative.
In questo quadro si inserisce come una ciliegina sulla torta la minaccia della segnalazione alla Guardia di finanza per «riscontrare l'esattezza e l'accuratezza dei dati attestati dagli Oiv. Il controllo della Guardia di finanza di baserà (il refuso è nel testo della delibera) sull'estrazione di un campione casuale semplice che garantisca l'imparzialità e le stesse probabilità per ogni amministrazione di entrare a far parte del campione».
Un'attenzione che è sicuramente degna di ben altri temi, tanto più che non vi sono previsioni legislative che prevedano in modo diretto irrogazioni di sanzioni al di là del taglio della indennità di risultato dei dirigenti responsabili. La deliberazione stabilisce che gli Oiv debbano verificare l'avvenuta pubblicazione sul sito internet delle informazioni richieste dal dlgs n. 33/2013. In tale ambito viene richiamata l'attenzione sui seguenti dati: le società, i pagamenti dei debiti, i procedimenti amministrativi, i servizi erogati agli utenti e l'accesso civico.
Viene sottolineato che gli obblighi relativi ai pagamenti dei debiti maturati alla data del 31.12.2012 sono contenuti nel dl n. 35/2013 e riguardano «la pubblicazione dell'elenco, in ordine cronologico e con l'indicazione dei relativi importi, dei debiti scaduti per obbligazioni giuridicamente perfezionate relative a somministrazioni, forniture, appalti e prestazioni professionali, a fronte dei quali non sussistono residui passivi anche perenti», nonché i «Piani dei pagamenti per importi aggregati per classi di debiti» e «la pubblicazione dell'elenco completo, per ordine cronologico di emissione della fattura o della richiesta equivalente di pagamento, dei debiti per i quali è stata effettuata comunicazione ai creditori, con indicazione dell'importo e della data prevista di pagamento comunicata al creditore» (articolo ItaliaOggi del 09.08.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Applicazione del regime sanzionatorio per la violazione di specifici obblighi di trasparenza (art. 47 del d.lgs. n. 33/2013) (CIVIT, delibera 31.07.2013 n. 66).

CONSIGLIERI COMUNALI: Applicazione dell’art. 14 del d.lgs. n. 33/2013 - Obblighi di pubblicazione concernenti i componenti degli organi di indirizzo politico (CIVIT, delibera 31.07.2013 n. 65).
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Redditi trasparenti, non per tutti. Patrimoni online solo nei comuni sopra i 15 mila abitanti. La Civit conferma la dicotomia prevista dalla legge dell'82. Ma la tesi non convince.
Tutti i comuni sono obbligati a pubblicare i dati riguardanti gli amministratori, ma solo quelli con popolazione superiore a 15.000 abitanti debbono inserire nel portale internet la situazione patrimoniale.
La Civit, con la delibera 31.07.2013 n. 65 interviene a chiarire uno dei punti più controversi (e peggio «digeriti» dai componenti degli organi di governo) del dlgs 33/2013, la norma sulla trasparenza.
Comuni obbligati. Il dlgs 33/2013 ha compiuto una cattiva opera di coordinamento interno, lasciando in vigore l'articolo 1, comma 1, n. 5), della legge 441/1982, che riferisce gli obblighi di pubblicazione della situazione patrimoniale solo ai comuni con oltre 15 mila abitanti.
La Civit, invece di ricavare la conclusione, che appare la più corretta, di considerare l'articolo citato della legge 441/1982 incompatibile con la nuova disciplina della trasparenza, che non ha senso sia applicata in modo differenziato tra comuni, ritiene che debbono pubblicare la situazione reddituale e patrimoniale dei titolari di cariche elettive solo i comuni con popolazione superiore ai 15 mila abitanti.
Tutti i comuni, però, sono tenuti, qualunque sia il numero di abitanti, a pubblicare i dati e le informazioni previste dall'articolo 14, lettere da a) ad e) dell'articolo 14 (atto di nomina o di proclamazione, curriculum, compensi di qualsiasi natura, importi di viaggi di servizio e missioni, dati relativi all'assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, e i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti, eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l'indicazione dei compensi spettanti).
La Civit ritiene che l'articolo 14, poi, si applichi alle forme associative dei comuni se la popolazione complessiva i 15 mila abitanti.
Decorrenza degli obblighi. L'obbligo di pubblicare quanto prevede l'articolo 14 del dlgs 33/2013, chiarisce la Civit, decorre dalla sua entrata in vigore.
Non c'è alcuna norma di diritto transitorio, sicché gli obblighi di pubblicazione debbono essere adempiuti «alla data di entrata in vigore del medesimo decreto (20.04.2013)». Aggiunge la delibera che «il riferimento alla pubblicazione dei dati entro tre mesi dalla elezione o dalla nomina (art. 14, comma 2) non riguarda, infatti, la decorrenza dell'entrata in vigore dell'obbligo ma è da intendersi riferito esclusivamente all'attuazione della disposizione successivamente alle elezioni».
Soggetti tenuti. Obbligati a pubblicare i dati sono, nei comuni, sindaco, assessori e consiglieri. Ma gli obblighi soggettivi non riguardano solo le amministrazioni pubbliche. La delibera della Civit legge in modo estensivo le disposizioni.
Il dlgs 33/2013 si estende a tutte le amministrazioni previste dall'articolo 1, comma 2, del dlgs 165/2001, nonché alle società ed enti partecipati. Gli oneri di pubblicità disciplinati dall'articolo 14, allora, impongono alle amministrazioni, agli enti e alle società di individuare al proprio interno i titolari di incarichi politici di carattere elettivo o comunque di esercizio di poteri di indirizzo politico, anche con riferimento alle norme statutarie e regolamentari che ne regolano l'organizzazione e l'attività.
Sanzioni. Altro fondamentale chiarimento della Civit riguarda le sanzioni. In primo luogo, la delibera chiarisce che gli obblighi di pubblicazione incombono direttamente sui componenti degli organi di amministrazione, i quali sono, dunque, tenuti a trasmettere al responsabile della trasparenza i dati, per la loro successiva pubblicazione. La sanzione prevista dall'articolo 47 del dlgs 33/2013, dunque, scatta nel caso di mancato adempimento al dovere di comunicare agli uffici le informazioni e i dati oggetto di pubblicazione e non va applicata nei confronti del responsabile della trasparenza o degli uffici, ma ricade sugli amministratori reticenti.
Invece, nessuna sanzione è applicabile nei confronti del coniuge non separato e dei parenti entro il secondo grado che non acconsentano alla pubblicazione delle informazioni sul proprio status patrimoniale, «stante la subordinazione prevista dal legislatore per la diffusione dei relativi dati a un espresso consenso da parte dei medesimi» (articolo ItaliaOggi del 06.08.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Intesa tra Governo, Regioni ed Enti Locali per l'attuazione dell'art. 1, commi 60 e 61, della legge 06.11.2012, n. 190, recante "Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione” (intesa 24.07.2013).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: N. D'Angelo, L'abuso di ufficio del responsabile dell'Ufficio Tecnico (L'Ufficio Tecnico n. 7-8/2013).

EDILIZIA PRIVATA: R. Balasso, La qualificazione tecnico-giuridica degli interventi edilizi (terza parte): gli interventi di tipo "manutentivo-conservativo" (L'Ufficio Tecnico n. 7-8/2013).

APPALTI: S. Usai, La procedura di verifica delle offerte anomale: competenza e procedimento (L'Ufficio Tecnico n. 7-8/2013).

APPALTI: G. Ciaglia, Responsabilità oggettiva della p.a.? Ma mi faccia il piacere ... (L'Ufficio Tecnico n. 7-8/2013).

COMPETENZE PROGETTUALI: A. Mafrica e M. Petrulli, (In)competenze progettuali fra geometri e ingegneri  - Breve rassegna di giurisprudenza (L'Ufficio Tecnico n. 7-8/2013).

EDILIZIA PRIVATA: A. Mafrica e M. Petrulli, Richiesta di utilizzo di terreni gravati da usi civici e comportamenti del Comune - Breve nota alla sentenza n. 1698 del 26.03.2013 del Consiglio di Stato, Sez. IV (L'Ufficio Tecnico n. 5/2013).

EDILIZIA PRIVATA: R. Balasso, La qualificazione tecnico-giuridica degli interventi edilizi (seconda parte): le definizioni "legali" - profili generali (L'Ufficio Tecnico n. 5/2013).

EDILIZIA PRIVATA: N. D'Angelo, Prescrizione dei reati edilizi ed imprescrittibilità delle sanzioni amministrative (L'Ufficio Tecnico n. 5/2013).

EDILIZIA PRIVATA: R. Balasso, Distanze tra edifici, la sentenza della Consulta n. 6/2013 (L'Ufficio Tecnico n. 3/2013).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: S. Usai, L'obbligo degli enti locali di ricorrere a una delle forme di mercato elettronico per le acquisizioni sotto la soglia comunitaria di beni e servizi è inderogabile - Considerazioni a margine della recente deliberazione della Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo per le Marche del 29.11.2012, n. 169 (L'Ufficio Tecnico n. 3/2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: F. Lucignano e M. Matteucci e R. Pizzi, La gestione dei materiali da scavo alla luce del nuovo d.m. 161/2012: il ruolo della p.a. (L'Ufficio Tecnico n. 3/2013).

EDILIZIA PRIVATA: P. Sciscioli, Riflessioni sulla demolizione e ricostruzione dei fabbricati (L'Ufficio Tecnico n. 3/2013).

APPALTI: G. Musolino, Appalto pubblico. La progettazione e la direzione dei lavori alla luce della giurisprudenza della corte dei conti (Rivista Trimestrale degli Appalti n. 1/2013).

APPALTI FORNITE E SERVIZI - LAVORI PUBBLICI: P. Carbone, La revisione dei prezzi nei contratti di servizi e forniture e l'adeguamento monetario degli appalti di lavori (Rivista Trimestrale degli Appalti n. 1/2013).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: S. Tatti, L'annullamento d'ufficio fra discrezionalità e doverosità (Rivista Trimestrale degli Appalti n. 1/2013).

SICUREZZA LAVORO: G. Rosa, RSSP e responsabile della sicurezza: due ruoli da tenere distinti (Progetto Sicurezza n. 1/2013).

SICUREZZA LAVORO: A. M. Moro, Il direttore dei lavori e le responsabilità in materia di sicurezza nei cantieri temporanei o mobili (Progetto Sicurezza n. 1/2013).

NEWS

APPALTIAppalti. La versione finale del decreto del fare conferma l'iniziale soppressione per quanto riguarda la sola Iva.
La solidarietà perde terreno. Resta la responsabilità congiunta sulle ritenute fiscali a carico dei dipendenti.
Rimane la responsabilità solidale di committenti o appaltatori in caso di omesso versamento all'erario delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente. A cadere è, invece, la responsabilità sull'Iva.

È quando emerge in buona sostanza nella versione finale del decreto del fare, nel quale questo argomento è stato oggetto di vari emendamenti poi non definitivamente approvati. Alla fine è stata confermata la normativa introdotta in sede di prima stesura del decreto legge.
Dallo scorso anno la disposizione prevedeva che, nel caso di appalti o subappalti, il pagamento alle imprese fosse sospeso in presenza di irregolarità sui versamenti delle ritenute e dell'Iva. L'appaltatore o committente doveva, prima di procedere alla corresponsione di quanto contrattualmente concordato, verificare l'assolvimento degli obblighi di versamento delle citate imposte, acquisendo un'autocertificazione dell'impresa oppure una dichiarazione di un professionista abilitato, nella quale era confermata l'assenza di pendenze tributarie.
Inizialmente, il decreto del fare (n. 69/2013), per semplificare alcuni adempimenti a carico delle aziende e rilanciare l'economia, aveva eliminato l'applicazione della norma sull'Iva, lasciando, invece, inalterato l'obbligo sulle ritenute fiscali. Ne conseguiva così che l'attestazione sul regolare versamento doveva riguardare solo le ritenute e non più l'Iva. In realtà, la modifica non sembrava una vera semplificazione né una misura per incentivare la ripresa economica, perché l'adempimento, ancorché ridotto, permaneva.
Durante l'iter di conversione, è stato introdotto il Durt (Documento unico di regolarità tributaria). Si trattava di una dichiarazione rilasciata dell'Agenzia delle entrate, a richiesta degli interessati, attestante l'inesistenza di debiti tributari per imposte, sanzioni o interessi, scaduti e non estinti alla data di pagamento del corrispettivo o di parte di esso. Il nuovo adempimento, sostituiva così la precedente autocertificazione dell'impresa o quella rilasciata dal professionista abilitato relativa al corretto pagamento di ritenute. Ne conseguiva, pertanto che in base ai nuovi obblighi non solo non dovevano esistere debiti per ritenute dipendenti, ma anche per interessi e sanzioni.
In considerazione, poi della presumibile tempistica per il rilascio di tale documento da parte dell'Agenzia delle entrate, indispensabile però per incassare gli importi dovuti da parte dell'impresa, era stata prevista la creazione di un apposito canale telematico. In ogni caso, era verosimile che i tempi di attesa fossero comunque maggiori di quelli attualmente impiegati autonomamente dal contribuente ad autocertificare la propria posizione tributaria. Di fatto si trattava, quindi di un aggravio per le imprese, soprattutto edili già penalizzate dalla forte crisi. Ed infatti, l'eventuale blocco del pagamento nell'attesa di ricevere la nuova attestazione dell'Agenzia, avrebbe certamente acutizzato le difficoltà finanziarie dell'azienda rischiando di impedire di provvedere anche ai propri obblighi tributari e contributivi. Da aggiungere poi, che l'assenza di un Durt positivo avrebbe precluso l'accesso ad altri lavori in appalto.
Verosimilmente alla luce anche di queste circostanze, in contrasto con l'intento di incentivare la ripresa economica, l'emendamento è stato completamente eliminato, lasciando così il decreto nella sua versione iniziale. Oggi, quindi, così come dal 22.06.2013, le imprese coinvolte in appalti o subappalti, devono attestare la propria regolarità limitatamente alle ritenute fiscali dovute sui redditi di lavoro dipendente e, non più, anche sull'Iva.
Non va dimenticato, infine, che rimane confermata anche la responsabilità in solido del committente imprenditore con l'appaltatore, nonché con eventuali subappaltatori, entro due anni dalla cessazione del contratto, per i trattamenti retributivi ai dipendenti, oltre che per i contributi previdenziali ed assistenziali (articolo 29 del decreto legislativo n. 276/2003), certificabili tramite Durc (Documento unico di regolarità contributiva) (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2013).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATADECRETO DEL FARE/ Nella conversione in legge la versione originaria della norma.
Gare, la solidarietà perde l'Iva. L'appaltatore responsabile per le ritenute dei dipendenti.

Confermato lo stop alla responsabilità solidale negli appalti ai soli fini dell'Iva. Resta la possibilità per l'erario di chiamare in causa l'appaltatore in caso di mancato versamento delle ritenute sui dipendenti da parte del subappaltatore. Per schivare il rischio sarà necessario esibire i documenti «ordinari», cioè quelli già utilizzati negli ultimi mesi, inclusa l'attestazione rilasciata da un professionista o da un Caf.
Con l'approvazione definitiva del dl n. 69/2013, avvenuta ieri, sulla responsabilità negli appalti si è tornati quindi all'origine, ossia al testo pubblicato in G.U. il 21 giugno. È venuta meno, infatti, la modifica introdotta in prima lettura alla camera che prevedeva l'esclusione della solidarietà con l'acquisizione del Documento unico di regolarità tributaria (Durt) relativo al subappaltatore.
Via libera senza stravolgimenti anche a quasi tutte le altre norme fiscali contenute nel decreto. In materia di ammorbidimento della riscossione, arriva un paniere di «beni essenziali» impignorabili. I cespiti saranno individuati da un apposito decreto del Mef, d'intesa con l'Agenzia delle entrate.
Alleggerita la tassa sulle barche, con effetti già sull'anno 2013: quelle fino a 14 metri vengono esentate dal prelievo (prima pagavano quelle con scafo superiore a 10 metri; chi ha già versato per quest'anno avrà diritto al rimborso), mentre per le imbarcazioni fino a 20 metri l'onere viene ridotto al 50%. Ulteriormente agevolato il noleggio occasionale di barche e yacht. La tassazione forfettaria del 20% sui canoni sarà possibile se l'unità è data a nolo per non più di 42 giorni nell'arco di un anno. In sede di conversione il termine ha quindi guadagnato due giorni in più rispetto ai 40 previsti originariamente.
Durante l'iter alle camere il provvedimento ha poi incorporato due importanti novità. La prima riguarda l'ampliamento dell'assistenza fiscale per chi ha perso il posto di lavoro e quindi, non avendo più un sostituto d'imposta che può effettuare il conguaglio, non può avvalersi del modello 730. Situazione nella quale, in occasione della campagna dichiarativa di quest'anno, si sono ritrovati circa 400 mila soggetti.
Il nuovo articolo 51-bis del decreto Fare stabilisce che dal 2014 anche loro avranno la possibilità di ricorrere ai Caf (compilando quindi il 730). Così i neo-disoccupati potranno ottenere già nell'anno stesso (successivo a quello del rapporto di lavoro dipendente) eventuali rimborsi da parte dell'amministrazione finanziaria. In caso contrario, effettuando la dichiarazione tramite modello Unico-PF, la restituzione del credito si sarebbe avuta dopo alcuni anni. Non solo. In un'ottica pro-contribuente, la norma reca una disposizione transitoria relativa già al 2013: viene data facoltà di presentare le dichiarazioni dei redditi dal 2 al 30.09.2013, esclusivamente se dalle stesse risulta un esito contabile finale a credito. Termini e modalità applicative saranno stabiliti nei prossimi giorni con provvedimento dell'Agenzia delle entrate.
Un'altra novità introdotta dal parlamento è l'elenco clienti-fornitori quotidiano (si veda ItaliaOggi del 19.07.2013). A far data dal 01.01.2015, i soggetti titolari di partita Iva potranno scegliere di comunicare tutti i giorni al fisco i dati analitici delle fatture di acquisto e cessione di beni e servizi, incluse le relative rettifiche in aumento e in diminuzione, nonché i corrispettivi delle operazioni verso privati (c.d. «B2C»). A fronte di questo costante sforzo di trasparenza, chi si sottopone volontariamente al nuovo regime sarà premiato con una semplificazione burocratica.
Tra gli obblighi che verranno meno ci sono le comunicazioni periodiche black-list, lo spesometro, nonché la responsabilità solidale negli appalti. Per rendere operativo il meccanismo saranno necessari un regolamento governativo e altri provvedimenti amministrativi. Si ricorda peraltro che un regime premiale per favorire la trasparenza fiscale ci sarebbe già, come introdotto dall'articolo 10 del dl n. 201/2011, ma il provvedimento direttoriale attuativo non è ancora stato emanato.
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DECRETO DEL FARE/ L'Anci supporterà i sindaci nell'invio delle domande all'Agenzia.
Demanio, dismissioni in 3 mesi. Le richieste degli enti dal 1° settembre al 30 novembre.

Il federalismo demaniale recupera il tempo perduto. Dopo essere stato tenuto tre anni in naftalina (il decreto legislativo che aveva dato il là alla riforma risale al 2010), in tre mesi il passaggio a titolo gratuito degli immobili dello stato a comuni, province e città metropolitane dovrà dirsi compiuto.
Lo prevede il «decreto del fare» (dl n. 69/2013), convertito ieri definitivamente in legge, che nel passaggio parlamentare ha incorporato un emendamento (a firma dei due relatori alla camera Francesco Boccia e Francesco Paolo Sisto) che rimette in moto i trasferimenti seppur tra qualche mugugno da parte dei comuni.
E il riferimento è alla novità introdotta al senato che riserva allo stato, oltre al 25% del ricavato della vendita degli immobili trasferiti anche il 10% di quanto i sindaci incasseranno se decideranno di vendere il proprio patrimonio originario. La ratio è contribuire all'abbattimento del debito in una «situazione economica eccezionale», ma i sindaci non ci stanno pur riconoscendo che la ripartenza del federalismo demaniale potrà rappresentare per i comuni un'opportunità da sfruttare.
Per questo l'Anci ha già fatto partire le lettere indirizzate a tutti i primi cittadini, ricordando la procedura prevista dal dl 69 e assicurando supporto attraverso i propri canali e quelli della Fondazione patrimonio comune.
Gli enti che intendono acquisire la proprietà dei beni statali, potranno inviare la richiesta all'Agenzia del demanio, nel periodo ricompreso dal 1° settembre al 30.11.2013. La richiesta, firmata dal legale rappresentante dell'ente, deve essere presentata con modalità tecniche che saranno definite dall'Agenzia la quale sta approntando un modello standard di richiesta informatizzato.
L'emendamento sul federalismo demaniale prevede tempi stretti per il riscontro delle richieste degli enti da parte dell'Agenzia del demanio: 60 giorni dalla ricezione dell'istanza per comunicare l'esito positivo o negativo. Qualora sullo stesso immobile giungano richieste di attribuzione da parte di più livelli di governo, il bene sarà trasferito in via prioritaria al comune o alla città metropolitana (e in subordine alle province e alle regioni) sulla base del principio di sussidiarietà. Gli immobili trasferiti agli enti locali torneranno allo stato qualora l'Agenzia accerti che, a distanza di tre anni dal trasferimento, essi non vengano utilizzati dalle amministrazioni.
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DECRETO DEL FARE/ Alcune delle modifiche introdotte per gli interventi in edilizia.
Scia sì o no: parola ai comuni. Sulle distanze tra fabbricati decidono regioni e province.

Delegificate le distanze tra fabbricati (ma solo ai fini edilizi): saranno stabilite con leggi regionali; ai comuni la decisione sulla esclusione della Scia per la ricostruzione di edifici demoliti nei centri storici (con potere sostitutivo regionale e statale in caso di inerzia).
Sono alcune delle novità in materia edilizia apportate al decreto del fare dagli emendamenti approvati in corso di conversione. Ma vediamo i singoli punti del provvedimento.
Distanze. È stata introdotta una modifica al testo unico per l'edilizia in materia di limiti di distanza tra fabbricati (nuovo articolo 2-bis del dpr 380/2001). La nuova disposizione consente alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano, di prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al dm n. 1444/1968: il decreto, all'articolo 9, fissa i limiti di distanza tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee.
Pertanto le regioni e le province autonome possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali. Rimane allo stato il potere legislativo sulle distanze con riferimento alla regolamentazione del diritto di proprietà.
Titoli edilizi. Viene spostato al 30.06.2014 il termine entro cui i comuni devono individuare, con propria deliberazione, le aree, comprese all'interno delle zone omogenee A) di cui al dm 1444/1968 (centri storici) e in quelle equipollenti, nelle quali non è applicabile la Segnalazione certificata di inizio attività (Scia) per interventi di demolizione e ricostruzione, o per varianti a permessi di costruire, comportanti modifiche della sagoma.
In caso di inutile decorso del termine concesso ai comuni e in mancanza di intervento sostitutivo della regione nei termini previsti dalla normativa vigente, è prevista l'ulteriore sostituzione con deliberazione di un commissario nominato dal ministro delle infrastrutture e dei trasporti. Conseguentemente viene eliminata la scadenza del 30/06/2014, oltrepassata la quale, in assenza della deliberazione comunale, non avrebbe trovato applicazione la Scia per interventi con modifica della sagoma.
Termine lavori. Salva diversa disciplina regionale e previa comunicazione del soggetto interessato, è prevista la proroga di due anni dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori relativi ai permessi di costruire, come indicati nei titoli abilitativi rilasciati o comunque formatisi antecedentemente all'entrata in vigore del decreto legge. La disposizione è estesa anche alle Denunce di inizio attività (Dia) e alle Segnalazioni certificate di inizio attività (Scia) presentate entro lo stesso termine.
Gli emendamenti introducono alcune condizioni per l'operatività della proroga. In particolare la proroga opera purché i suddetti termini non siano già decorsi al momento della comunicazione dell'interessato; sempre che i titoli abilitativi non risultino in contrasto, al momento della comunicazione dell'interessato, con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati. Vengono prorogati di tre anni il termine di validità, e i termini di inizio e fine dei lavori nell'ambito delle convenzioni di lottizzazione o degli accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale, stipulati sino al 31.12.2012.
Ristrutturazioni. Rientrano nel concetto di ristrutturazione (e non di nuova costruzione) le demolizioni e ricostruzioni, anche senza il rispetto della sagoma originaria. Da qui conseguono semplificazioni burocratiche sui procedimenti di permesso. In particolare si tratta degli interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli che gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente.
Conseguenza è che la modifica della sagoma non è rilevante ai fini della individuazione del permesso di costruire come titolo abilitativo necessario (eliminazione del riferimento contenuto nell'articolo 10, comma 1, lettera c) del Testo unico per l'edilizia) (articolo ItaliaOggi del 10.08.2013).

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGODebiti p.a., labirinto di sanzioni. Responsabilità dirigenziale, disciplinare e pecuniaria. Circolare della Funzione pubblica richiama l'attenzione sugli obblighi di comunicazione.
Pagamenti p.a., i dirigenti rischiano grosso. Tali e tante sono le sanzioni di carattere non solo erariale e disciplinare, ma anche pecuniario a cui i vertici amministrativi delle p.a. centrali e locali vanno incontro in caso di mancato adempimento degli obblighi di comunicazione.
Nella circolare 09.08.2013 n. 4/2013, il ministro della funzione pubblica Gianpiero D'Alia passa in rassegna tutta la mole di scadenze previste dal dl 35 chiedendo ai manager pubblici e ai responsabili di spesa di «predisporre tempestivamente», in materia di pagamento dei propri debiti scaduti al 31.12.2012, «tutte le attività necessarie e funzionali al puntuale adempimento delle scadenze».
Perché i rischi per gli organi di vertice sono dietro l'angolo. Vediamoli.
Trasmissione trimestrale del prospetto dei pagamenti. Per consentire il costante monitoraggio dei pagamenti effettuati con il fondo di 500 milioni stanziato dal dl 35, si prevede che le p.a. centrali trasmettano con cadenza trimestrale agli uffici centrali di bilancio il prospetto dei pagamenti, evidenziando i debiti non ancora estinti. La mancata trasmissione trimestrale del prospetto, ricorda palazzo Vidoni, è causa di responsabilità amministrativa a carico del soggetto responsabile del mancato o tardivo invio.
Comunicazioni ai creditori di data e importo dei pagamenti. Il dl 35 obbligava non solo le amministrazioni dello stato, ma anche tutti gli altri soggetti pubblici coinvolti (regioni, province, comuni, enti del Servizio sanitario nazionale) a comunicare ai creditori entro lo scorso 30 giugno l'importo e la data entro la quale avrebbero provveduto ai pagamenti. Entro il 5 luglio l'elenco completo (per ordine cronologico di emissione di fattura) dei debiti avrebbe dovuto essere pubblicato sui siti internet degli enti nella sezione «amministrazione trasparente».
Come sappiamo, sono stati molti gli enti ad aver disatteso l'adempimento (si veda ItaliaOggi del 5/7/2013) e la Funzione pubblica ricorda che la mancata pubblicazione è rilevante ai fini della misurazione della performance individuale e disciplinare dei dirigenti responsabili. Gli stessi, inoltre, saranno assoggettati a una sanzione pecuniaria pari a 100 euro per ogni giorno di ritardo.
Ricognizione dei debiti e certificazioni. La certificazione dei crediti necessaria per completare la liquidazione dei debiti commerciali maturati al 31/12/2012 dovrà essere effettuate tramite la piattaforma elettronica della Ragioneria generale dello stato a cui le p.a. avrebbero dovuto registrarsi entro il 28 aprile. Anche in questo caso, ricorda D'Alia, la mancata registrazione sarà rilevante ai fini della valutazione delle performance dei dirigenti e potrà costare 100 euro per ogni giorno di ritardo. Le p.a. avranno tempo fino al 15 settembre per comunicare, utilizzando la piattaforma, l'elenco dei debiti certi, liquidi e esigibili maturati al 31/12/2012 non ancora estinti alla data della comunicazione.
Dal 1° gennaio dell'anno prossimo, a regime, le comunicazioni relative all'elenco completo dei debiti certi, liquidi ed esigibili al 31 dicembre di ciascun anno dovranno essere trasmesse sempre tramite la piattaforma elettronica entro il 30 aprile dell'anno successivo. Anche in questo caso le conseguenze dell'inadempimento saranno di triplice natura: dirigenziale, disciplinare e pecuniaria  (articolo ItaliaOggi del 10.08.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: In discarica solo rifiuti già trattati
Tritovagliare i rifiuti prima che finiscano in discarica non sarà più un trattamento sufficiente. In discarica devono finire solo i rifiuti trattati.

Lo ha chiarito il ministro dell'ambiente in una circolare resa nota il 06.08.2013 e indirizzata a tutte le regioni e alle province autonome di Trento e Bolzano.
Il ministro dell'ambiente, in linea con le indicazioni interpretative della Commissione europea, ha chiarito quali sono le attività di trattamento alle quali devono essere sottoposti i rifiuti urbani per poter essere ammessi e smaltiti in discarica, superando di fatto la circolare emanata «pro tempore» dal ministero dell'ambiente il 30.06.2009.
La circolare del 2009 definiva «trattamento» ai fini dello smaltimento dei rifiuti in discarica anche la tritovagliatura e stabiliva che a predeterminate condizioni la «raccolta differenziata spinta» poteva far venir meno l'obbligo di trattamento ai fini del conferimento in discarica precisando come queste indicazioni avrebbero avuto natura «transitoria» senza stabilire però in modo espresso un chiaro termine finale.
Lo scorso 13 giugno la commissione europea ha però rilevato la necessità di un trattamento adeguato anche sui rifiuti residuali provenienti da raccolta differenziata stabilendo come la tritovagliatura non soddisfi di per sé l'obbligo di trattamento dei rifiuti previsto dalle normative europee. Per evitare il rischio di esporre l'Italia a nuove procedure europee di infrazione il ministro dell'ambiente ha quindi deciso di intervenire chiarendo così ogni possibile ambiguità in materia.
Nella circolare emanata si invitano quindi le regioni e le province autonome ad osservare con urgenza le nuove disposizioni adottando ogni ulteriori iniziativa necessaria in termini di attuazione della pianificazione con particolare riferimento alla gestione dei rifiuti urbani, al fine di rispettare gli obiettivi stabiliti dalle norme comunitarie (articolo ItaliaOggi del 10.08.2013).

EDILIZIA PRIVATASenza Durc i lavori realizzati direttamente dai privati.
LE NOVITÀ/ La validità dell'attestazione è stata portata a 120 giorni In caso di irregolarità l'impresa è invitata a sanare la propria posizione.

In caso di lavori privati di manutenzione in edilizia realizzati in economia non sussiste l'obbligo della richiesta del documento unico di regolarità contributiva (Durc) agli istituti o agli enti abilitati al rilascio.
L'emendamento approvato al Senato all'articolo 31 del Dl 69/2013 –che ieri è stato convertito in legge dalla Camera– risolve la questione dei Comuni che chiedevano, comunque, il Durc anche se la denuncia dei lavori evidenziava che gli stessi erano effettuati in economia, ossia direttamente dal proprietario del fabbricato senza conferire l'incarico a un'impresa edile.
Peraltro, già il ministero del Lavoro con circolare 848 del 14.07.2004 a proposito dei «lavori in economia realizzati direttamente da privati» precisava che «l'unico ambito di attività che esula dall'applicazione della disciplina sul rilascio del Durc appare quella dei lavori in economia realizzati direttamente da privati». Infatti l'articolo 86, comma 10, del decreto legislativo 276/2003, fa esplicito riferimento alle sole imprese e, nell'ambito di tale nozione, evidentemente, non rientrano i privati che realizzano direttamente e per proprio conto le opere edili.
Questa disposizione si interseca con quella del comma 10 dell'articolo 90 del decreto legislativo 81 del 2008 il quale prevede che l'efficacia del titolo abilitativo sia sospesa in assenza del documento unico di regolarità contributiva delle imprese o dei lavoratori autonomi. Il che non ha certo chiarito il tema complesso dei lavori in economia.
Con l'entrata in vigore dell'articolo 31, comma 1-bis, in caso di lavori in economia –svolti dal proprietario che assume i lavoratori o che affida all'impresa l'esecuzione dei lavori ma non l'acquisto dei materiali– non deve essere richiesto il Durc.
L'articolo 31, peraltro, modifica in più parti la disciplina relativa al rilascio del documento di regolarità contributiva, con particolare riferimento alla sua validità, all'utilizzo negli appalti pubblici, e per quanto attiene il diritto ai benefici economici di fonte pubblica, ed alle agevolazioni oggetto di cofinanziamento comunitario. Si conferma l'obbligo delle stazioni appaltanti e degli enti aggiudicatori di acquisire il documento unico di regolarità contributiva (Durc), d'ufficio e per via telematica, in tutte le fasi che interessano i contratti di appalto; è però innalzato a 120 giorni dalla data del rilascio il periodo di validità del documento, che se in corso di validità può essere utilizzato in tutte le fasi contrattuali e può valere anche per contratti pubblici di lavori, servizi e forniture diversi da quelli per i quali è stato espressamente acquisito.
Per il pagamento del saldo finale è però necessario un nuovo Durc. L'innalzamento a 120 giorni della validità del Durc si applica anche per le erogazioni di sovvenzioni, contributi, sussidi e per la fruizione di benefici normativi e contributivi in materia di lavoro e legislazione sociale.
Se mancano i requisiti per il rilascio del Durc, gli enti preposti (Inps, Inail, Cassa edile), prima dell'emissione o dell'annullamento del documento già rilasciato, devono invitare l'interessato, mediante posta elettronica certificata o attraverso il consulente del lavoro, a regolarizzare la propria posizione entro 15 giorni (articolo Il Sole 24 Ore del 10.08.2013).

EDILIZIA PRIVATACambio d'uso. Regole e oneri. Per gli interventi edilizi conseguenze variabili.
La riqualificazione del patrimonio edilizio esistente richiede spesso il mutamento della destinazione d'uso che in origine è stata data ai fabbricati. Il tema è particolarmente complesso in quanto non esiste una regola organica nazionale e molte sentenze sono intervenute sulla questione.
A livello nazionale il mutamento d'uso viene trattato all'articolo 10, comma 2, del Testo unico in materia edilizia (Dpr 380/2001) che dispone solo che sono le regioni a stabilire con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività.
A loro volta, le legislazioni regionali normalmente demandano agli strumenti urbanistici comunali l'identificazione delle conseguenze legate alle singole tipologie di mutamento d'uso. Non è, però, una babele totale, perché sussistono alcuni principi comuni derivanti da primarie nozioni urbanistiche e dall'evoluzione giurisprudenziale in materia.
I principi di fondo
La «destinazione d'uso» di un fabbricato, intesa in senso urbanistico, è quella impressa all'unità immobiliare dal titolo edilizio e non quella in concreto esistente nell'immobile (consiglio di Stato, sentenza 583/2001). La nozione di «uso» è infatti ancorata alla tipologia dell'immobile –individuata nel titolo edilizio– senza che essa possa essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori (così afferma il Tar Lombardia con la sentenza 219/1992).
Il titolo edilizio, in particolare, assegna ai fabbricati una destinazione d'uso individuata tra quelle che sono generalmente ammesse per l'area dagli strumenti urbanistici generali e di attuazione. Il mutamento della destinazione impressa a un fabbricato in favore di altra funzione è assoggettato alla medesima regola e sarà, dunque, ammesso solo se la destinazione che si intende assegnare ricada tra quelle astrattamente ammesse per l'area dallo strumento urbanistico generale.
Le diverse tipologie
I mutamenti d'uso possono essere diversi. Innanzitutto, il mutamento d'uso può avvenire con o senza opere edilizie. I mutamenti di destinazione con opere, in linea generale, sono soggetti al regime che governa le stesse opere.
Per quanto attiene, invece, ai mutamenti senza opere l'assenza di un intervento edilizio non implica in sé l'esenzione dal pagamento del contributo di costruzione. La giurisprudenza ha, infatti, precisato che il mutamento di destinazione è comunque urbanisticamente rilevante quando sussista un passaggio tra due categorie autonome dal punto di vista urbanistico, aventi diverso regime contributivo. La circostanza che le modifiche di destinazione d'uso senza opere non siano soggette a preventivo titolo edilizio, pertanto, non comporta automaticamente l'esenzione dagli oneri di urbanizzazione e la gratuità dell'operazione (Tar Lombardia, sentenza 1787/2010).
Gli effetti sulle aree
Occorre poi distinguere tra mutamenti d'uso che comportano l'adeguamento della dotazione di aree a standard e mutamenti che non lo richiedono. L'articolo 32, lettera a) del Testo unico edilizia ricomprende nella nozione di "variazioni essenziali" ai progetti approvati anche il mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standard previsti dal decreto ministeriale del 02.04.1968. Quindi le sentenze hanno precisato che ogni volta che si passa da una categoria edilizia a un'altra, anche senza opere, va verificata la compatibilità dell'uso e la dotazione di standard urbanistici.
È stato, quindi, statuito che si configura una "trasformazione edilizia" quando questa sia produttiva di vantaggi economici connessi all'utilizzazione del bene immobile, anche senza l'esecuzione di opere edilizie (consiglio di Stato, sentenza 5539/2011 e Tar Lombardia 468/2011).
In questo quadro complessivo, i giudici amministrativi hanno recentemente rilevato che, rispetto alla destinazione produttiva, la destinazione terziaria o residenziale comporta il pagamento di un contributo di costruzione più elevato e il conferimento di standard urbanistici in misura maggiore (Tar Lombardia, sentenza 1066/2013). La riqualificazione del patrimonio edilizio esistente avrà, dunque, una diversa incidenza urbanistica ed economica a seconda che essa comporti o meno un cambio d'uso tra categorie edilizie funzionalmente autonome (articolo Il Sole 24 Ore del 10.08.2013).

EDILIZIA PRIVATAL’Ape non è l’Ace, affitti bloccati. Confedilizia conferma lo stop dei contratti. Il Notariato no. L’organizzazione della proprietà edilizia contesta la nota dello Sviluppo economico.
Fino a che non verranno emanati i decreti attuativi previsti dal dl 63/2013 convertito nella legge n. 90/2013 nessun certificatore autorizzato potrà infatti rilasciare l’Attestato di prestazione energetica (da rispondere ai criteri indicati dalla direttiva 2010/31/Ue). Da allegare a pena di nullità sia nei contratti di compravendita sia in quelli di locazione. Decreti attuativi che dovranno intervenire anche a modifi care le linee guida per la certificazione energetica, emanate con il dm del ministro dello sviluppo economico (MiSe) 26.06.2009.

All’indomani della pubblicazione del decreto legge n. 63 e cioè partire dal 5 giugno, ci si era chiesti un cittadino che, per esempio, dà in locazione la propria abitazione che tipo di attestato deve consegnare all’affittuario? L’Ace o l’Ape? Una risposta a queste domande è arrivata con la circolare MiSe del 25.06.2013 n. 12976.
Con essa, i tecnici di prassi chiariscono che dal 5 giugno la certificazione energetica degli edifici dovrà essere attuata con l’attestato di prestazione energetica, utilizzando la metodologia di calcolo stabilita dal dpr 59/2009. E cioè le stesse già utilizzate per redigere l’Ace. La vecchia metodologia potrà però essere utilizzata solo fino a quando verranno emanati i decreti attuativi. Nel frattempo il decreto legge n. 63 del 2013 è stato convertito nella legge n. 90.
Con l’entrata in vigore dal 4 agosto delle nuove norme sull’attestato di prestazione energetica il MiSe interviene al fine di fare chiarezza con una nota del 07/08/20113 prot. n. 16416 (dipartimento per l’energia, struttura Dr-Enre). Nota che è dello stesso tenore della circolare del 25 giugno n. 12976 e fornisce la stessa soluzione proposta all’indomani del decreto legge n. 63/2013 senza centrare l’attenzione sulla principale questione posta dalla legge di conversione n. 90 del 2013. E cioè «l’Attestato di prestazione energetica deve essere allegato al contratto di vendita, agli atti di trasferimento di immobili a titolo gratuito o ai nuovi contratti di locazione, pena la nullità degli stessi contratti».
Attestato che dovrà essere redatto in modo da rispondere ai criteri indicati dalla direttiva 2010/31/Ue, ma che ad oggi non è possibile ottenere da alcun certificatore autorizzato mancando il decreto interministeriale che deve con esattezza fissarne i contenuti. Il ministero infatti non affronta lo specifico problema né nella circolare del 25 giugno né nella sua nota del 7 agosto, ma si limita a dare chiarimenti in merito all’applicazione delle disposizioni di cui al decreto legge n. 63.
La posizione di Confedilizia. Con un comunicato stampa dell’8 agosto, la Confedilizia ritiene di dover confermare le disposizioni già date alle proprie associazioni territoriali per il blocco della stipula di nuovi contratti di locazione fino a che il governo non avrà rimediato alla grave situazione in essere.
Come noto, ricorda la Confedilizia, nel decreto legge n. 63/2013 è stata inserita dalla camera una disposizione del seguente, letterale tenore: «L’Attestato di prestazione energetica deve essere allegato al contratto di vendita, agli atti di trasferimento di immobili a titolo gratuito o ai nuovi contratti di locazione, pena la nullità degli stessi contratti». Sottolinea Confedilizia, autorevole opinamento ritiene, in base a riflessioni di carattere sistematico, di assimilare, ai fini della norma precitata sulla nullità, così superando il suo letterale tenore, l’«Attestato di prestazione energetica» all’«Attestato di certificazione energetica».
Tale opinamento espone peraltro i contraenti al rischio che esso, di ordine sistematico, possa non essere condiviso dall’Autorità giudiziaria e, in particolare, comporta che gli stessi debbano (a proprio rischio) valutare se (ai fini della normativa applicabile e della clausola di cedevolezza di cui all’articolo 17 del dlgs. n. 192/2005 come modificato dal dl n. 63) le singole regioni e province autonome abbiano già o meno provveduto al recepimento della direttiva 2010/31/Ue e dettato la propria normativa rispettando i vincoli derivanti dall’ordinamento europeo e i principi fondamentali desumibili dal dlgs. n. 192/2005 come modificato.
La posizione del Notariato. Il Notariato al contrario in una nota dell’8 agosto aderisce alla tesi del MiSe sostenendo che possono essere utilizzati attestati di certificazione energetica rilasciati dal 04.08.2013 sulla base della disciplina dettata con legge regionale emanata in ossequio alla direttiva 2002/91/Ce, ma non ancora aggiornata alla direttiva 2010/31/ Ue.
Il tutto, come chiarisce lo stesso ministero, fino all’emanazione dei decreti di aggiornamento della metodologia di calcolo e requisiti della prestazione energetica di cui all’art. 4 del decreto legge n. 63/2013, come convertito, con modificazioni, dalla legge n. 90/2013 (articolo ItaliaOggi del 09.08.2013).

ENTI LOCALIProvince messe in naftalina. Commissari fino al 30/06/2014. Prefetture senza tagli. Il cdm ha approvato la proroga. Saitta (Upi): senza elezioni la democrazia è sospesa.
Proroga delle province commissariate fino al 30.06.2014 e prefetture esonerate ad libitum dalla spending review.
Sono questi gli effetti del decreto legge approvato ieri dal consiglio dei ministri contenente una specifica norma sulle province: si tratta dell'ennesimo provvedimento in materia dalla metà di luglio, a seguito della sentenza della Corte costituzionale 220/2013, che ha dichiarato l'incostituzionalità del riordino delle province previsto dalla «spending review».
Vecchie gestioni commissariali. Proseguiranno nel loro compito le gestioni commissariali delle province. I commi 1 e 2 dell'articolo 13 del decreto legge fanno espressamente salvi i provvedimenti amministrativi che, in applicazione delle disposizioni del decreto «salva Italia» (il dl 201/2011, convertito in legge 214/2011), avevano impedito la convocazione dei comizi elettorali per il rinnovo degli organi delle province scaduti nel 2012 e nel 2013 e, contestualmente, tutti gli atti e provvedimenti adottati dalle gestioni commissariali alla data della sua entrata in vigore.
Si tratta, ovviamente, di una previsione il cui scopo è colmare il vuoto normativo derivante dalla dichiarazione di incostituzionalità delle norme sul riordino delle province. Venendo a mancare, infatti, l'articolo 23 del dl 201/2011 (le sentenze della Consulta eliminano retroattivamente le norme incostituzionali), le gestioni commissariali e i loro provvedimenti erano da considerare illegittime, in quanto non fondate su una norma.
Cessazione delle gestioni commissariali. Il comma 3 dell'articolo stabilisce che i commissari cesseranno il 30.06.2014, data entro la quale evidentemente il governo pensa che sarà completato il processo di revisione dell'ordinamento delle province impostato col disegno di legge presentato dal ministro Graziano Delrio (si veda ItaliaOggi del 26/07/2013)
Nuovi commissariamenti. Il comma 4 intende estendere i commissariamenti a tutte le amministrazioni provinciali i cui mandati scadranno in via anticipata o per scadenza naturale nel periodo compreso tra il primo gennaio e il 30.06.2014.
Prefetture. Per effetto del comma 5, invece, le prefetture vengono sostanzialmente esentate dall'onere di fare la spending review e riorganizzarsi. Infatti, la norma sospende fino al 30.06.2014 quanto previsto dall'articolo 2, comma 2, del dl 95/2012, convertito in legge 135/2012, che ha previsto che per il personale dipendente del Viminale le riduzioni della dotazione organica previste dalla spending review si applicheranno solo all'esito della procedura di razionalizzazione delle province di cui all'articolo 17. Ma, siccome la razionalizzazione delle province non vi sarà mai perché destinate all'abolizione, si tratta di un rinvio ad libitum della riorganizzazione dell'amministrazione dell'interno.
Il decreto legge desta molteplici dubbi di legittimità costituzionale. In primo luogo per violazione del giudicato: infatti, ripropone uno degli effetti delle norme considerate incostituzionali, cioè, appunto, i commissariamenti. E lo fa, per altro, esattamente con lo stesso strumento ritenuto dalla Corte costituzionale inadeguato a una riforma dell'ordinamento: il decreto legge. In secondo luogo, il decreto legge ripropone un medesimo vizio presente anche nei decreti del governo Monti, ma non esaminato in modo approfondito dalla Consulta: basa, cioè, i commissariamenti sull'articolo 141 del dlgs 267/2000: ma, tale norma considera possibili i commissariamenti solo per cessazione anticipata dei mandati elettorali, non per effetto della loro scadenza naturale, come invece previsto dalle norme di riordino.
Ancora, il comma 3 dell'articolo 13 del decreto legge, allo scopo di estendere i commissariamenti alle amministrazioni provinciali scadute nel 2013 richiama l'articolo 1, comma 115, della legge 228/2012. Ma, questa ultima norma si poggia proprio sulle norme della manovra Monti dichiarata incostituzionale. Per il governo il decreto serve a evitare che la fase di transizione della soppressione delle province duri eccessivamente e impedisca il dipanarsi della riforma.
Ma il presidente dell'Upi Antonio Saitta, la pensa diversamente. ««Siamo un paese a democrazia sospesa, dove, in attesa di una riforma molto di là da venire, si calpesta la Costituzione e si impediscono le elezioni. Come se, in attesa della riforma del senato, si mandassero a casa tutti i senatori eletti», ha dichiarato (articolo ItaliaOggi del 09.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTIRevisione del Catasto a due velocità.
Revisione del Catasto a due velocità. Con una procedura accelerata per i grandi centri urbani in attesa che si completi la riforma contenuta nella delega fiscale. L'entrata a regime del nuovo Catasto, infatti, necessiterà di molto tempo. Anche ipotizzando che la delega fiscale venga approvata entro ottobre e che i successivi decreti attuativi diventino operativi dal 01.01.2014, ci vorranno almeno cinque anni per aggiornare i valori catastali rendendoli più aderenti a quelli di mercato. Per questo, già dal 2014, si potrebbero adottare misure provvisorie per i soli centri urbani di grandi dimensioni, passando al criterio dei metri quadri e utilizzando le stime dell'Osservatorio immobiliare (si veda ItaliaOggi del 12/07/2013) salvo prova contraria.

È questo l'auspicio della commissione finanze del senato che ieri ha approvato il documento conclusivo dell'indagine conoscitiva sulla tassazione degli immobili.
La commissione presieduta da Mauro Maria Marino propone di iniziare la costruzione del nuovo catasto sopprimendo le categorie catastali ormai completamente superate dalle mutate caratteristiche del patrimonio immobiliare italiano. La categoria A5, per esempio, ricomprende ancora un milione di abitazioni di tipo ultrapopolare (senza servizi igienici e di bassissimo livello costruttivo) che non corrispondono più alla realtà in quanto verosimilmente ristrutturate e messe a norma. Per questo, tale categoria potrebbe essere eliminata salvo prova contraria da parte del proprietario.
A regime la commissione propone l'adozione di un meccanismo automatico di revisione periodica delle rendite. Per quanto riguarda più specificamente la finanza locale, la commissione ribadisce la necessità di rinviare al 2014 l'entrata in vigore della Tares (si veda ItaliaOggi di ieri). Il nuovo tributo dovrà contemperare il criterio della metratura e del numero degli occupanti dell'immobile per definire l'imponibile.
Infine, per quanto riguarda l'annunciata riforma dell'Imu, la commissione auspica «un intervento volto a eliminare la scadenza del versamento della prima rata 2013 dell'Imu prima casa» (articolo ItaliaOggi del 09.08.2013).

ENTI LOCALIMini enti, convenzioni a perdere. Tra 5 anni solo unioni per le funzioni fondamentali. Il ddl Delrio pone molti dubbi sulla disciplina transitoria in materia di forme associative.
Per l'esercizio in forma associata delle proprie funzioni fondamentali i piccoli comuni potranno continuare a optare, in alternativa alla costituzione di unioni, per la stipula di una o più convenzioni.

Lo prevede il disegno di legge «Delrio», approvato dal consiglio dei ministri il 19 luglio scorso. Il testo, che ora dovrà passare al vaglio del parlamento, non chiarisce, però, quale sarà il destino delle convenzioni già in essere e di quelle che verranno sottoscritte nel prossimo futuro.
In base alla disciplina vigente, le convenzioni sono poste quasi sullo stesso piano delle unioni, anzi in un certo senso sono favorite dalla mancata previsione di una consistenza demografica minima, che per le unioni è fissata a 10.000 abitanti, salvo diverse decisioni assunte dalle regioni. I due modelli, inoltre, possono coesistere, nel senso che ogni comune, che può aderire a una sola unione, può anche decidere di svolgere alcune funzioni mediante una o più convenzioni.
Gli unici paletti sono previsti dall'art. 14, comma 31-bis, del dl 78/2010, ai sensi del quale le convenzioni devono avere durata non inferiore a un triennio, alla scadenza del quale dovrà essere comprovato il conseguimento, da parte dei comuni aderenti, di significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione, secondo le modalità stabilite da un decreto del ministro dell'interno che avrebbe dovuto vedere la luce alla fine dello scorso anno, ma che non è ancora stato adottato (anche se alcune bozze sono già circolate). Laddove tale verifica dia esito negativo, i comuni interessati sono obbligati a esercitare le funzioni fondamentali esclusivamente mediante unione. In pratica, si tratterebbe di una sorta di condizione risolutiva, il cui avverarsi determinerebbe lo scioglimento delle convenzioni inefficaci e inefficienti, con l'obbligo per i predetti comuni di dare vita a unioni o di confluire in unioni esistenti. Una disciplina analoga è prevista dall'art. 16, comma 12, del dl 138/2011 per i comuni che optino per l'esercizio associato di tutte le proprie funzioni (e non solo di quelle fondamentali).
Il ddl appena approvato dal governo punta a modificare tale quadro, individuando nell'unione il modello privilegiato (e, di conseguenza, incentivato, anche finanziariamente) per adempiere agli obblighi di gestione associata. Come detto, tuttavia, esso consente comunque il ricorso alla convenzione, stabilendo, però, un'ulteriore condizione: l'art. 1, comma 4, ultimo periodo, infatti, prevede che, a decorrere dalla scadenza del quinto anno dall'entrata in vigore della nuova disciplina, non potranno più essere stipulate nuove convenzioni per l'esercizio delle funzioni fondamentali, dovendo i piccoli «ricorrere esclusivamente» alla costituzione di unioni.
Tale formulazione pone diversi dubbi. In primo luogo, non è chiaro se, decorsi i cinque anni, le convenzioni si intendano comunque sciolte o se, invece, possano restare in piedi laddove prevedano una scadenza successiva. La formulazione letterale della norma sembrerebbe vietare solo la stipula di «nuove convenzioni», a differenza di quanto prevedeva la prima bozza del ddl, che al contrario limitava espressamente a un lustro la durata di «tutte» le convenzioni.
In secondo luogo, non si capisce come la nuova disciplina interagisca con la precedente: le convenzioni già stipulate e quelle che verranno sottoscritte in futuro saranno comunque soggette alla verifica triennale o no? Sembrerebbe di sì, dato che né l'art. 14, comma 31-bis, del dl 78, né l'art. 16, comma 12, del dl 138 sono inclusi fra le disposizioni destinate a essere abrogate. Ma sarebbe in ogni caso utile un migliore raccordo fra le vecchie e le nuove previsioni.
Più in generale, pare opportuno prevedere una disciplina transitoria che detti tempi e modalità certi per l'adeguamento delle attuali forme associative (convenzioni, ma anche unioni) alle novità in itinere (che riguardano l'intera governance).
In proposito, infatti, occorre tenere conto che, nella migliore delle ipotesi, la nuova legge entrerà in vigore a pochi mesi dalla scadenza del termine (fissato al 31.12.2013) entro il quale i piccoli comuni dovranno gestire in forma associata tutte le funzioni fondamentali (escluse solo anagrafe, stato civile e servizi elettorali). In questa prospettiva, tuttavia, la scelta più saggia sarebbe prevedere una proroga di tale scadenza, come giustamente richiesto dall'Anci (articolo ItaliaOggi del 09.08.2013).

VARIPer lo sconto sulle multe conta la data di contestazione o notifica.
I trasgressori che riceveranno la notifica di una multa nei prossimi giorni dovranno controllare bene la data indicata sulla busta del verbale. Se questa data sarà successiva (o vicinissima) all'imminente entrata in vigore della legge di conversione del dl del fare tutto a posto. Nessuno sconto sarà invece possibile per le vecchie multe già notificate da tempo. Attenzione infine ai preavvisi non ancora notificati per i quali i singoli comandi dovranno fornire istruzioni ad hoc in attesa di indicazioni ministeriali uniformi.

Sono queste in sintesi le indicazioni operative che dovranno essere divulgate dalla polizia alla vigilia di Ferragosto con la prevista conversione in legge del dl del fare.
La questione dello sconto sulle multe è stata semplificata nell'ultimo passaggio parlamentare eliminando la possibilità di fare accedere al beneficio anche i conducenti virtuosi. Nello spirito della massima semplificazione il legislatore ha ridotto lo sconto solo ai buoni pagatori. Insomma se un trasgressore riconoscerà di avere torto e vorrà limitare al massimo i danni potrà procedere entro cinque giorni al pagamento scontato della multa. Letteralmente la novella specifica che questa facoltà è ammessa entro cinque giorni dalla contestazione o dalla notificazione.
Questo significa che in pratica potrà essere ammesso allo sconto chi verrà pizzicato dalla polizia con contestazione diretta, successivamente alla pubblicazione in Gazzetta dalla legge di conversione del dl del fare (o nei due o tre giorni precedenti). Ovvero che potrà beneficiare della riduzione anche chi pur avendo trasgredito precedentemente alla data di messa a regime della riforma (prevista per i prossimi giorni), riceverà la notifica della multa successivamente a tale data. In buona sostanza per avere diritto allo sconto occorrerà fare riferimento al momento della conoscenza dell'infrazione. Se questa data è successiva all'imminente novella tutto a posto.
Resta sul piatto la questione dei preavvisi di sosta, i verbali di cortesia che vengono lasciati sul parabrezza senza notifica e contestazione immediata. In attesa di improbabili indicazioni ministeriali è opportuno che anche queste infrazioni vengano attratte nell'alveo del pagamento ridotto, anche se non ancora notificate al proprietario del veicolo (articolo ItaliaOggi del 09.08.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOLe norme anticorruzione perdono i primi pezzi.
Tutti sono incompatibili, ma alcuni lo sono meno degli altri: quelli i cui mandati erano in corso al momento dell'entrata in vigore del dlgs 39/2013 sulle inconferibilità e incompatibilità degli incarichi, per conflitto di interessi.

La normativa «anticorruzione» perde i primi pezzi, grazie al «decreto del fare», che con un accorto emendamento approvato in senato pone nel nulla le cause di incompatibilità incombenti su amministratori e dirigenti pubblici, in carica alla data del 4 maggio, quando entrò in vigore il dlgs 33/2013.
L'emendamento dispone che «in sede di prima applicazione, con riguardo ai casi previsti dalle disposizioni di cui ai capi V e VI del decreto legislativo 08.04.2013, n. 39, gli incarichi conferiti e i contratti stipulati prima della data di entrata in vigore del medesimo decreto legislativo in conformità alla normativa vigente prima della stessa data, non hanno effetto come causa di incompatibilità fino alla scadenza già stabilita per i medesimi incarichi e contratti».
Si tratta delle incompatibilità, da una parte, tra incarichi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti privati in controllo pubblico e, dall'altra, cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dalle pubbliche amministrazioni nonché lo svolgimento di attività professionali; e, ancora, incompatibilità tra incarichi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti privati in controllo pubblico e cariche di componenti di organi di indirizzo politico.
Una gamma molto ampia di incompatibilità che coinvolge tanto i componenti degli organi politici di governo, quanto i dirigenti pubblici, allo scopo evidente di evitare conflitti di interessi di due tipologie.
La prima è la commistione tra controllore e controllato: il dlgs 39/2013 interviene per evitare che un amministratore o dirigente pubblico di un'amministrazione, possa, contemporaneamente, anche svolgere incarichi amministrativi e direzionali presso enti partecipati a capitale pubblico. La seconda tipologia è il conflitto tra l'obbligo di prestare in via esclusiva il munus all'amministrazione presso la quale si svolge la funzione politica o si presta l'attività lavorativa, e l'interesse personale a cumulare incarichi e remunerazioni.
L'emendamento fa piazza pulita del conflitto di interessi per diversi anni, affermando che le cause di incompatibilità non coinvolgono chi al 4 maggio 2013 già fosse incaricato in cariche politiche o svolgesse il ruolo di dirigente pubblico.
È evidente l'irrazionalità di questa norma, sorretta solo apparentemente dall'intento di creare un regime di diritto transitorio. Il dlgs 39/2013, in applicazione della legge 190/2012 «anticorruzione» ha individuato appunto casi di incompatibilità, che non consentono ad amministratori e dirigenti pubblici di cumulare cariche, visto il potenziale molto alto di incorrere nella violazione dei principi di corretta gestione ed eticità, imposti dalla normativa anticorruzione.
È evidente che coi fini esplicitati dalla normativa la circostanza di rivestire una carica o condurre un rapporto di lavoro al momento dell'entrata in vigore del dlgs 39/2013 non ha alcuna rilevanza: se la legge considera il cumulo delle cariche causa di incompatibilità, essa resta causa di incompatibilità, prescindendo dal resto. D'altra parte, l'incompatibilità permette all'interessato di optare se mantenere la funzione di amministratore o dirigente pubblico o l'incarico incompatibile. Dunque, non si vede la ratio che giustifichi una sospensione lunghissima di anni dell'efficacia di una delle norme considerate un vero e proprio caposaldo della normativa anticorruzione (articolo ItaliaOggi del 09.08.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl danno ambientale va sempre risarcito. Legge europea. Per sanare le procedure di infrazione.
PIÙ SEVERITÀ/ In caso di dolo o colpa non basta l'intervento di bonifica Chi ha inquinato deve anche pagare un indennizzo.

Diventa più severa la disciplina sul danno ambientale. Lo prevede la legge europea 2013, approvata definitivamente dal Parlamento il 31 luglio e in attesa di pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale». Infatti, la legge rimedia alla procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea, che contestava –nella nostra legislazione– la mancanza del risarcimento per il danno ambientale. Tra gli altri interventi ambientali, la legge europea prevede poi una semplificazione per lo smaltimento dei Raee a favore dei rivenditori.
Vediamo nel dettaglio: l'articolo 25 della nuova legge argina la procedura d'infrazione 2007/4679. Con l'aggiunta dell'articolo 298-bis al Dlgs 152/2006 (il Codice ambientale) il danno ambientale e la minaccia sono estese a tutte le attività antropiche in presenza di comportamenti dolosi o colposi. La legge prevede che la riparazione del danno ambientale deve avvenire anche attraverso procedimenti idonei a reperire dal danneggiante «le risorse per coprire i costi per la riparazione».
È abrogato l'articolo 303, comma 1, lettera i), del Dlgs 152/2006 che (in difformità rispetto alla direttiva 2004/35/Ce) escludeva la disciplina sul risarcimento ambientale in caso di avvio di procedure di bonifica o di intervenuta bonifica. Viene inoltre modificata la procedura risarcitoria: ora scompare il ripristino e il danno ambientale va riparato a spese di chi lo ha cagionato. Il ministero dell'Ambiente, con decreto, definirà criteri e i metodi, anche di valutazione monetaria, per determinare la portata delle misure di riparazione complementare e compensativa. Scompaiono i riferimenti al danno per equivalente patrimoniale perché (in armonia con l'Europa) le misure di riparazione non possono essere sostituite dai risarcimenti pecuniari.
Per quanto riguarda i Raee l'articolo 22 della nuova legge affronta la procedura d'infrazione 2009/2264 e amplia il campo di applicazione del Dlgs 151/2005 sui Raee estendendolo agli apparecchi fissi di grandi dimensioni, alle apparecchiature per il condizionamento e agli elettromedicali per il test di fecondazione.
Inoltre, dopo anni, si riescono a modificare i limiti del Dm 65/2010 che hanno frenato la raccolta dei Raee domestici conferiti dai consumatori presso i distributori all'atto dell'acquisto di un nuovo elettrodomestico equivalente.
I raggruppamenti, sia presso il punto vendita sia presso qualsiasi altro luogo comunicato all'Albo gestori ambientali, continuano ad essere momenti della raccolta soggetti solo alla iscrizione all'Albo gestori in categoria 1, ma ora si stabilisce che vi entrano solo i Raee di cui al Dlgs 151/2005 derivanti da nuclei domestici.
I rifiuti sono trasportati ai centri di raccolta comunale con cadenza mensile e comunque quando ciascuno dei raggruppamenti 1 (apparecchiature refrigeranti), 2 (grandi bianchi: lavatrici, lavastoviglie eccetera) e 3 (tv e monitor) raggiunge i 3.500 chili. Invece, per i raggruppamenti 4 (stampanti, telefonini, apparecchi di illuminazione eccetera) e 5 (sorgenti luminose) i 3.500 chili sono complessivi. Finora, invece, si sono avuti 3.500 chili complessivi per tutte le categorie di Raee, il che limitava l'operatività e confondeva tutti.
Cancellato anche il limite quantitativo previsto per gli automezzi (portata non superiore a 3.500 chili e massa complessiva non superiore a 6mila chili) affinché questi possano viaggiare senza formulario per i rifiuti ma con il solo documento di trasporto previsto dal Dm 65/2010. Inoltre, i centri di raccolta possono essere realizzati e gestiti sia nel rispetto del Dm 8 aprile 2008, sia delle autorizzazioni ordinarie o agevolate previste per i rifiuti, sia dell'Aia (autorizzazione integrata ambientale).
Il consumatore deve sempre ricordare che il distributore non può indebitamente rifiutare il ritiro di un Raee oppure ritirarlo a pagamento. L'articolo 16 del Dlgs 151/2005 prevede la sanzione amministrativa pecuniaria da 150 a 400 euro per ogni Raee non ritirato o ritirato a titolo oneroso. Il consumatore deve conferire un Raee equivalente all'apparecchio nuovo acquistato (articolo Il Sole 24 Ore del 09.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Le locazioni franano sull'Ape. Mancano le norme per adempiere all'obbligo imposto. Le misure prese dalla Confedilizia dopo il vincolo dell'Attestazione di prestazione energetica.
L'Attestazione di prestazione energetica (Ape) si è scontrata con la realtà. E l'urto è stato delle dimensioni attese. In mancanza di norme che dettano i criteri per poter ottenere l'Ape, Confedilizia ha dovuto imporre alle proprie associazioni territoriali il blocco immediato della stipula dei contratti di locazione sia abitativi, sia a uso diverso.
In questo momento, infatti, stipulare un contratto di locazione ne comporterebbe l'automatica nullità. Da un lato, infatti, non è più valido il vecchio Attestato di certificazione energetica, dall'altro lato, però, non è possibile ottenere l'Ape. E se Confedilizia si è dovuta limitare al blocco delle locazioni, il Consiglio nazionale del notariato si è occupato dei contratti di compravendita. Nelle linee guida appositamente dettate per l'Ape, rese note il 1° agosto (si veda ItaliaOggi del 02.08.2013), i notai hanno, infatti, fatto presente come in questo momento, possa essere rischioso stipulare un contratto di compravendita a causa dell'incertezza che regna sulla materia. Dal governo, inoltre, non è arrivata nessuna indicazione circa modi e tempi per una possibile eliminazione della norma.
A questo proposito però, si restringe il numero delle strade percorribili. L'ipotesi principale è che venga inserita all'interno del «decreto del fare bis», oggetto del prossimo consiglio dei ministri di venerdì 9 agosto, una norma ad hoc. In alternativa, l'ipotesi a più breve scadenza è quella dell'inserimento, entro il 31 agosto, di una disposizione all'interno dei lavori per la riforma della tassazione immobiliare e l'eliminazione dell'aumento dell'Iva. Ultima alternativa, l'inserimento della disposizione abrogativa all'interno del disegno di legge per il patto di stabilità. In questa ultima ipotesi, però, i tempi rischierebbero di dilatarsi fino a dicembre 2013.
Il problema Ape. Prevedere l'obbligo di allegazione dell'Ape a pena di nullità assoluta dei contratti di locazione e compravendita, senza che però esista l'apposito decreto interministeriale che spieghi come ottenere l'Attestazione stessa. Questo il vero problema della norma che è stata inserita da Montecitorio. In base alla circolare del ministero dello sviluppo economico del 25.06.2013, il nuovo attestato non può, infatti, essere predisposto prima dell'emanazione del previsto decreto interministeriale, avente ad oggetto l'adeguamento del precedente provvedimento sulla documentazione energetica e la fissazione dei criteri e dei contenuti obbligatori dell'Ape.
Il nuovo Ape sostituisce, infatti, il precedente Attestato di certificazione energetica (Ace), senza stabilire, però, un periodo di transizione durante il quale, in assenza di norme che spieghino come ottenere l'Ape, sia possibile continuare a utilizzare il vecchio Ace. Conseguenza diretta di questa disposizione, il fatto che, ad oggi, chiunque si accinga a stipulare un contratto di compravendita o locazione, non ha alcun tipo di via d'uscita. Incorre, infatti, in nullità assoluta sia che alleghi solo l'Ace, che è, quindi, equiparabile a carta straccia, sia che non alleghi nulla.
«La situazione è talmente grave», ha spiegato a ItaliaOggi il presidente di Confedilizia, Corrado Sforza Fogliani, «che abbiamo chiesto alle nostre associazioni sul territorio di bloccare tutti i contratti di locazione fino a che la norma non verrà eliminata. Il problema vero e proprio», ha continuato Sforza Fogliani «è che non solo si appesantisce ulteriormente il carico burocratico ed economico a carico dei soggetti interessati (mediamente il vecchio Ace costava intorno ai 700 euro), ma lo si fa senza dare alcun tipo di garanzia».
A questa situazione si aggiungono, poi, le sanzioni economiche che potranno essere irrogate da comuni e regioni, nel caso in cui l'Ape manchi. Queste, infatti, vanno da un minimo di 3 mila euro fino a un massimo di 18 mila per i costruttori e i proprietari che non allegano l'attestazione, sia per i nuovi edifici che per quelli ristrutturati o oggetto di compravendita. Diminuita, invece, la multa, da un minimo di 300 euro a un massimo di 1.800, per i proprietari che vogliono affittare la casa, per arrivare da 500 a 3 mila euro per gli agenti immobiliari che omettono l'Ape già nell'annuncio.
Le soluzioni. Se, da un lato, è stata più volte espressa la volontà politica di rimediare alla stortura normativa introdotta alla camera durante i lavori sul decreto energia, ora legge 90/2013, dall'altro lato però, al senato è stato ritirato l'emendamento al decreto del fare (69/2013) che prevedeva l'eliminazione della disposizione. Quando l'ecobonus è approdato in commissione finanze al senato per l'ultima lettura proprio a ridosso della scadenza del 4 agosto, non è stato più possibile inserire alcuna modifica al decreto. Il rischio, infatti, era quello di farne saltare la conversione. La scelta, quindi, è stata quella di proporre un emendamento all'interno del primo decreto utile, in questo caso il dl fare, per rimediare al problema nel più breve tempo possibile.
«Martedì, però, durante i lavori al dl 69 in senato, è stato chiesto il ritiro di quasi tutti gli emendamenti, tra cui quello che prevedeva l'eliminazione dell'obbligo di allegazione dell'Ape a pena di nullità», ha spiegato a ItaliaOggi il presidente della commissione finanze di palazzo Madama, Mauro Maria Marino, «in questo modo quindi, è stato perso uno degli ultimi treni possibili prima della pausa estiva, lasciando in vigore una norma assolutamente dannosa sotto tutti i punti di vista. Spero solo», ha concluso Marino, «che il governo provveda ad abrogarla nel più breve tempo possibile, tramite il dl fare bis» (articolo ItaliaOggi dell'08.08.2013).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATADecreto del fare, via libera del senato. L'ultima parola alla camera.
Il decreto del fare lascia il senato e approda alla camera. Attesa, quindi, per oggi, la terza e ultima lettura prima del via libero definitivo per la conversione del dl 69. Palazzo Madama ha, infatti, licenziato il decreto del fare nel pomeriggio di ieri, dopo aver chiesto nei giorni scorsi, il ritiro e l'accorpamento degli oltre 700 emendamenti che erano stati presentati. Il decreto si appresta, quindi, a diventare legge nonostante la dead line per la conversione fosse stabilita per il 19 agosto.
L'imminente chiusura estiva di camera e senato ha reso, infatti, necessario accelerare i tempi (si veda ItaliaOggi del 07.08.2013). A uscire non del tutto vincitore da questi giorni di lavori frenetici è stato, però, il governo che in aula è stato battuto due volte. La prima, martedì, quando è stato approvato un ordine del giorno su cui aveva dato parere contrario, avente a oggetto l'impegno ad abolire la tassa sui telefonini. La seconda, ieri, quando è stata respinta la proposta di riformulazione di una norma che prevedeva la soppressione dell'art. 73 del decreto che permette a chi ha fatto uno stage presso gli uffici giudiziari di accedere al concorso in magistratura.
Sempre durante la seduta di ieri, l'assemblea ha, inoltre, respinto una proposta di modifica del Pdl, che avrebbe alzato il limite all'uso del contante da 1.000 a 3 mila. Ha trovato, invece, accoglimento un odg che impegna l'esecutivo a correggere la riforma che riorganizza le circoscrizioni giudiziarie. Al di là della giornata di ieri, molte le novità che sono state introdotte in senato. Prima tra tutte la cancellazione del Durt (Documento unico di regolarità tributaria), a cui poi ha fatto seguito l'abbattimento del 25% del compenso complessivo dei manager pubblici che non rientrano nel tetto dei circa 300 mila euro fissato dal decreto salva Italia.
Passate poi anche le disposizioni che prevedono sia l'Iva agevolata sui biglietti d'ingresso all'Expo, sia la possibilità nelle ristrutturazioni di modificare la sagoma degli edifici con la Scia (Segnalazione certificata di inizio attività), fermo restando la tutela dei centri storici. Confermato poi, anche lo sconto del 30% a chi paga la multa entro cinque giorni. Ha trovato, infine, conferma anche la norma che prevedeva la proroga al 13.08.2014 dell'obbligo di stipulare un'assicurazione professionale, per chi svolge una professione sanitaria.
Se, però, si escludono i soggetti attivi in campo sanitario e gli avvocati, già sottoposti al regime specifico dettato dal loro ordine, tutte le altre di categorie di professionisti saranno tenute, entro il prossimo 13 agosto, a stipulare il contratto di assicurazione professionale a pena di illecito disciplinare (articolo ItaliaOggi dell'08.08.2013).

EDILIZIA PRIVATAEdilizia, torna la semplificazione. Decreto del fare: reinserita in extremis la norma sulla sagoma - Il pressing di Confindustria.
GOVERNO BATTUTO/ Abolite le misure che consentivano a chi ha fatto uno stage presso gli uffici giudiziari, di poter accedere al concorso in magistratura.

Via libera del Senato al decreto del fare con 190 sì, 67 no e un astenuto. Oggi si torna alla Camera per la terza e ultima lettura prima che il Parlamento chiuda i battenti dal 10 agosto al prossimo 6 settembre.
L'approvazione del decreto e delle oltre 70 modifiche apportate dalle Commissioni Affari costituzionali e Bilancio di Palazzo Madama ha vissuto in Aula più di un momento di frizione e contrasto tra la stessa maggioranza e Governo: almeno due volte l'Esecutivo è stato battuto su due emendamenti firmati Pdl-Lega e relativi alle regole di accesso per il concorso in magistratura. In particolare sono state abolite le misure che consentivano a chi ha fatto uno stage presso gli uffici giudiziari, di poter accedere al concorso in magistratura. Due voti contrari alla volontà dell'Esecutivo che si vanno ad aggiungere a quello di martedì sera sull'ordine del giorno della Lega per lo stop alla tassa sui telefonini.
Non solo. Il Governo, per mano dei due relatori Anna Maria Bernini (Pdl) e Paolo Guerrieri Paleotti (Pd), ha poi rivisto la norma sulle sagome degli edifici. Norma su cui in commissione era stato battuto per mano di un emendamento Pd. Per ripristinare la semplificazione in edilizia privata, che consentirà con la sola Scia (segnalazione certificata di inizio attività) di demolire e ricostruire modificando le sagome degli edifici, è intervenuto in aula lo stesso ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi. Con il risultato che la maggioranza ha approvato la proposta sottoscritta dai relatori e che prevede il ripristino della norma licenziata da Montecitorio ma con alcuni vincoli per gli interventi nei centri storici. Forte pressing di Confindustria che ha lavorato per il ripristino delle norme di semplificazione.
La norma licenziata dal Senato impone ai Comuni di definire, entro il 30.06.2014, nell'ambito delle zone omogenee A (centri storici), le aree in cui non si può applicare la Scia per interventi di demolizione o ricostruzione che comportino modifiche della sagoma. Se i municipi non si attiveranno, in mancanza di intervento sostitutivo della Regione, la deliberazione sarà adottata da un Commissario nominato dal ministro delle Infrastrutture.
Per una semplificazione che torna, una complicazione che scompare. L'Aula ha bocciato con oltre 200 voti il tanto contestato Durt (Documento unitario di regolarità tributaria) da presentare negli appalti. C'è poi da registrare un «primo importante passo», come lo ha definito il sottosegretario all'Economia Pier Paolo Baretta, sulla disciplina dei compensi ai manager: il taglio del 25% agli stipendi dei manager delle società pubbliche, al primo rinnovo di contratto, per presidenti e amministratori delegati delle società quotate e non quotate (si veda Il Sole 24 Ore di ieri).
Tra le modifiche approvate dal Senato l'estensione della legge Sabatini: gli investimenti in hardware, in software e in tecnologie digitali (oltre a macchinari, impianti, beni strumentali d'impresa) saranno inseriti tra i beni per i quali le Pmi potranno fruire del credito agevolato (2,5 miliardi anticipati dalla Cdp). Sempre per le Pmi torna la riserva del 30% delle risorse per operazioni di contro-garanzia dei Confidi.
Inoltre addio al fax negli uffici pubblici, mentre per gli automobilisti lo sconto del 30% sulle multe scatterà, virtuosi e non, solo per chi paga entro 5 giorni. Confermata la norma che sospende fino a metà settembre il pagamento dei canoni per le spiagge, così come l'obbligo per gli enti territoriali di devolvere il 10% dei ricavati delle dismissioni di beni demaniali al Fondo riduzione del debito (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA:  Immobili. Una nota del ministero dello Sviluppo economico sulle modalità dell'attestazione di prestazione energetica
Doppio binario per l'attestato Ape. Le vecchie regole nazionali valgono nelle regioni prive di disciplina autonoma.
LE ISTRUZIONI/ Prevalgono le norme «territoriali» quando sono rispettati i parametri della direttiva 2010/2013.

Alla paralisi della contrattazione immobiliare provocata dalla nuove norme in tema di attestazione energetica (si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri) tenta di porre rimedio il ministero dello Sviluppo economico con la nota 07.08.2013 n. 16416 di prot. (dipartimento per l'energia, struttura Dg-Enre).
Al fine di fare chiarezza, il ministero, in sostanza, afferma che nulla sarebbe cambiato con l'entrata in vigore della legge 90/2013 di conversione del decreto legge 63/2013, rispetto alla situazione preesistente; in particolare, la nota asserisce che, fino all'emanazione dei decreti attuativi previsti dal Dl 63/2013:
nelle Regioni "non legiferanti", l'Ape andrebbe redatto con le prescrizioni vigenti ante decreto legge 63/2013;
nelle "Regioni legiferanti" l'attestazione energetica dovrebbe essere compilata secondo la normativa regionale in vigore.
La nota prot. n. 16416 è l'esatta fotocopia (le espressioni usate sono infatti identiche) della circolare n. 12976 del 25.06.2013, emanata dallo Sviluppo economico all'indomani dell'entrata in vigore del Dl 63/2013. Il tema è che mentre la circolare n. 12976 recava contenuti senz'altro condivisibili, la nota n. 16416 propone la medesima soluzione proposta all'indomani del Dl 63/2013 senza puntare l'attenzione sulla principale questione che è posta dall'entrata in vigore della legge di conversione, vale a dire il cambiamento di rotta che il legislatore ha compiuto in merito al cosiddetto "principio di cedevolezza". Questo principio è dettato dall'articolo 17 del Dlgs 192/2005, la legge fondamentale del nostro ordinamento in tema di prestazione energetica degli edifici. Si tratta del principio in base al quale, nelle materie (come quella energetica) che la Costituzione indica come ambito di "legislazione concorrente" (cioè dove la normativa regionale, se emanata, prevale su quella nazionale), al ricorrere di certi presupposti, la legge statale "cede" rispetto alla legge regionale. In altri termini, la legge statale si deve applicare fino al momento in cui si verifica l'evento per effetto del quale essa "cede" il passo alla legge regionale.
Ebbene, secondo il Dl 63/2013, il principio di cedevolezza recitava che (una volta, beninteso, emanata la occorrente normativa regolamentare):
la legge statale doveva applicarsi nelle Regioni e Province autonome che non avessero ancora provveduto a emanare proprie norme in recepimento della direttiva 2002/91/Ce;
l'attestazione energetica diveniva invece di competenza regionale ove la Regione o la Provincia autonoma avesse recepito nella propria legislazione la direttiva 2002/91.
Il fatto ora è invece che, secondo la legge di conversione, ciò che determina la cedevolezza della legge statale rispetto alla legislazione regionale o provinciale è che quest'ultima abbia recepito non più la direttiva 2002/91/Ce, bensì la direttiva 2010/31Ue. Questo recepimento è stato bensì operato in alcuni casi (ad esempio, in Emilia Romagna), ma in altri casi (come pare essere quello della Lombardia) in effetti esiste una normativa regionale (che ha finora disciplinato la materia dell'attestazione energetica), ma è una normativa prodotta appunto in esito alla direttiva 2002/91 e non alla direttiva 2010/13.
Allora, se prevale il profilo che la normativa transitoria del Dl 63/2010 si impone anche sul "nuovo" principio di cedevolezza, ci si trova nella situazione indicata nella nota n. 16416 e nella circolare n. 12976 dello Sviluppo economico. Se invece il "nuovo" principio di cedevolezza prevale verso qualsiasi altro ragionamento, si dovrebbe concludere che, dal 04.08.2013:
a) la legge statale dovrebbe cedere rispetto alla legge regionale in quelle Regioni che abbiano attuato la direttiva 2010/13; quindi, in queste Regioni, non c'è nessun cambiamento rispetto a quanto accadeva prima del 6 giugno scorso o del 4 agosto scorso;
b) la legge statale dovrebbe invece applicarsi sia nelle Regioni che non abbiano emanato alcuna legislazione sull'attestazione energetica (che sono la maggior parte) sia nelle Regioni bensì legiferanti, ma non in attuazione della direttiva 2010/13: cioè dal dal 4 agosto in avanti bisognerebbe usare l'Ape confezionato così come vuole la legge nazionale (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2013).

EDILIZIA PRIVATADemolizioni, basta la Scia se dopo c'è la ricostruzione. La modifica al testo unico dell'edilizia rende sufficiente la segnalazione certificata di inizio attività.
Con le modifiche al Testo unico in materia edilizia contenute all'art. 30 del decreto del Fare, gli interventi di demolizione e ricostruzione che comportano la modifica della sagoma dell'edificio preesistente (a eccezione di quelli che hanno come oggetto immobili vincolati in base al codice dei beni culturali) saranno eseguibili presentando una Scia (Segnalazione certificata d'inizio attività). L'operatore potrà, quindi, dare inizio ai lavori il giorno dopo la presentazione della segnalazione, salvo che l'immobile da demolire si trovi all'interno delle parti storiche degli insediamenti urbani, le zone omogenee A. In quest'ultimo caso, invece, si potrà presentare una Scia, ma sarà necessario attendere 30 giorni per avviare i lavori.
A riprova della non necessità e urgenza dell'intervento normativo, il governo, nel medesimo decreto, prima ha sospeso l'efficacia delle modifiche al dpr 380/2001 alla data di conversione del decreto, quindi ha ulteriormente rinviato l'efficacia della norma relativa all'applicabilità della scia agli interventi di demolizione e ricostruzione degli immobili siti all'interno delle parti storiche degli insediamenti.
È stata riconosciuta ai comuni, infatti, la facoltà (da esercitare entro il 31.12.2013) di individuare le parti delle zone A rispetto alle quali non sarà possibile procedere, con la Scia, per realizzare interventi di demolizione e ricostruzione che comportano la modifica della sagoma dell'edificio preesistente. E, nello stesso tempo, è stato stabilito che la norma in questione non trova, comunque, applicazione per le zone omogenee A fino al 30.06.2014.
Questa ennesima operazione di taglia e cuci del testo unico è stata condotta senza aver compiuto alcuna valutazione sull'effettivo impatto delle precedenti modifiche, che vanno misurate in termini di titoli abilitativi richiesti, di autorizzazioni rilasciate e di interventi eseguiti in base alle norme che si sono stratificate nel corso dell'ultimo quinquennio. Va, inoltre, anche osservato che le modifiche contenute nel dl fare presentano almeno un problema applicativo.
La mancata coincidenza fra il termine entro il quale i comuni possono restringere il campo di applicazione della norma, e quello fino al quale la disposizione non sarà efficace, sarà all'origine di problemi interpretativi e contenziosi. Basti pensare all'eventualità nella quale i comuni approveranno la delibera dopo il termine del 31 dicembre.
In questo caso, non è sicuro se la restrizione del campo di applicazione produrrà o no un effetto giuridico. Il legislatore non ha chiarito la questione e dunque, se ne dovranno occupare i tribunali amministrativi che saranno chiamati a giudicare i contenziosi che si apriranno (articolo ItaliaOggi del 07.08.2013).

APPALTIIl Durt esce dal dl del fare. Cancellata la norma che ne prevedeva l'acquisizione. Lavori delle Commissioni bilancio e affari costituzionali del Senato al decreto 69/2013.
Il Durt (Documento unico di regolarità tributaria) esce dal decreto del fare. Durante la seduta di ieri, infatti, le Commissioni bilancio e affari costituzionali del Senato hanno cancellato dal testo del dl 69/2013 la modifica che era stata apportata alla camera alla norma relativa alla responsabilità solidale negli appalti.
La disposizione (art. 50) prevedeva l'esclusione della responsabilità solidale dell'appaltatore, nei confronti del subappaltatore, qualora acquisisse da quest'ultimo il Durt. Conseguenza diretta di questa disposizione, il fatto che l'appaltatore, fino all'acquisizione del Durt, poteva sospendere il pagamento del corrispettivo.
Si torna quindi al testo originario del governo in tema di responsabilità solidale fiscale negli appalti. La questione, però, non sembra essere definitivamente archiviata. Le Commissioni affari costituzionali e bilancio di palazzo Madama hanno, infatti, approvato un ordine del giorno che prevede il rinvio della questione alla delega fiscale (al momento all'attenzione della Commissione finanze a Montecitorio).
Il Durt. La norma introdotta da Montecitorio prevedeva che la responsabilità solidale dell'appaltatore, nei confronti del subappaltatore, fosse esclusa nel caso in cui fosse verificata la corretta esecuzione degli adempimenti attraverso l'acquisizione del nuovo Documento unico di regolarità tributaria relativa al subappaltatore. La norma prevedeva, inoltre, che le imprese dovessero comunicare periodicamente all'Agenzia delle entrate i dati contabili e i documenti primari relativi alle retribuzioni erogate, ai contributi versati e alle imposte dovute. Se da un lato l'adempimento era facoltativo, per chi in realtà voleva ottenere le certificazioni in tempo reale era, di fatto, un obbligo.
A dichiarare la propria parziale soddisfazione a seguito dell'abolizione del Durt, Ivan Malavasi, presidente di Rete imprese Italia. «Il Durt introduceva adempimenti punitivi per le imprese, però la soluzione è incompleta. Serve, infatti, anche l'abolizione definitiva della responsabilità solidale negli appalti». Sulla stessa lunghezza d'onda anche il vicepresidente della Commissione finanze della camera, Enrico Zanetti: «Senza l'abrogazione del regime di responsabilità solidale negli appalti, restano in vigore adempimenti inutili che mettono a rischio la filiera dei pagamenti».
Stipendi. Le Commissioni fanno retromarcia anche sul tetto ai compensi dei manager pubblici. La norma, introdotta alla Camera, prevedeva un limite ai compensi sulla base di un sistema differenziato per le società non quotate controllate da società con titoli azionari quotati, rispetto a quelle controllate da società emittenti altri strumenti finanziari. Per le quotate a controllo pubblico, era prevista una riduzione del 25% dei compensi, rispetto a quelli deliberati per il precedente mandato. Era, inoltre, stabilito il divieto di corrispondere agli amministratori con deleghe bonus, di fine mandato.
Si torna, quindi, a quanto previsto dal decreto Salva Italia (201/2011), in base al quale, il compenso degli amministratori dotati di particolari cariche fissato dal cda delle società non quotate direttamente e indirettamente controllate dalle pubbliche amministrazioni, non può comunque essere superiore al trattamento economico del primo presidente della Corte di cassazione (300 mila euro). La modifica escludeva, invece, dal tetto il trattamento economico degli amministratori dotati di particolari cariche delle società quotate e a controllo pubblico diretto o indiretto che svolgono servizi di interesse generale anche di rilevanza economica (articolo ItaliaOggi del 06.08.2013).

TRIBUTITares, agevolazioni applicabili anche alla maggiorazione. Non conta il fatto che per il 2013 il prelievo aggiuntivo venga incassato dallo stato.
Le agevolazioni e le riduzioni tariffarie che i comuni deliberano per la nuova tassa sui rifiuti si applicano anche alla maggiorazione, nonostante per il 2013 sia destinata a essere incassata dallo stato. I comuni, inoltre, possono concedere esenzioni e riduzioni oltre quelle tipiche previste dalla legge, ma in questo caso, come per la tassa, anche per la maggiorazione serve la copertura finanziaria assicurata da risorse diverse dai proventi del tributo di competenza dell'esercizio.
I comuni hanno il potere di concedere, con regolamento, riduzioni tariffarie ed esenzioni per il nuovo tributo sui rifiuti e i servizi.
I benefici fiscali deliberati dal comune si applicano non solo alla tassa, ma anche alla maggiorazione dovuta dai contribuenti sui servizi indivisibili. Il consiglio comunale può stabilire agevolazioni Tares, oltre quelle già previste dalla legge, purché l'ente abbia le risorse economiche per finanziarle.
Del resto, se la copertura finanziaria serve per la tassa sui rifiuti, che è un'entrata comunale, a maggior ragione è necessaria per coprire il minor gettito della maggiorazione standard, nella misura di 0,30 euro al metro quadrato, che spetta allo stato.
L'articolo 10 del dl «pagamenti p.a.» (35/2013), infatti, ha stabilito che il gettito della maggiorazione standard è riservato allo stato. Questa addizionale alla tassa rifiuti è dovuta in misura pari a 0,30 euro per metro quadrato e non è più consentito ai comuni di aumentarla fino a 0,10 euro, come previsto prima dell'intervento normativo. Questa norma, però, dispone la deroga rispetto alla disciplina Tares, contenuta nell'articolo 14 del dl 201/2011, solo per quanto concerne la destinazione del gettito della maggiorazione. Invece, continuano ad applicarsi alla maggiorazione le agevolazioni di cui ai commi da 15 a 20 dello stesso articolo 14. Quindi, le riduzioni tariffarie per mancata raccolta, mancato svolgimento del servizio o per i rifiuti assimilati agli urbani.
Nello specifico, i comuni hanno il potere di fissare riduzioni tariffarie per particolari situazioni espressamente individuate dalla legge. L'articolo 14 gli riconosce la facoltà di stabilire riduzioni del tributo dovuto in presenza di determinate situazioni in cui si presume che vi sia una minore capacità di produzione di rifiuti. A queste riduzioni viene fissato dalla norma un tetto massimo: non possono superare il limite del 30%.
Questo beneficio può essere concesso per: abitazioni con unico occupante; abitazioni tenute a disposizione per uso stagionale o altro uso limitato e discontinuo; locali e aree scoperte adibiti a uso stagionale; abitazioni occupate da soggetti che risiedono o hanno la dimora, per più di sei mesi all'anno, all'estero; fabbricati rurali a uso abitativo. Oltre a queste agevolazioni tariffarie, meramente facoltative, sono contemplate riduzioni che spettano ai contribuenti ex lege.
Per esempio, per locali e aree situati nelle zone in cui non è effettuata la raccolta, per le quali il tributo è dovuto nella misura del 40% della tariffa. Questa misura massima deve essere graduata tenendo conto della distanza dal più vicino punto di raccolta rientrante nella zona perimetrata o di fatto servita.
La percentuale scende al 20% in caso di mancato o irregolare svolgimento del servizio. La stessa misura si applica nel caso di interruzione del servizio, dal quale possa derivare un danno o un pericolo di danno alle persone o all'ambiente. La riduzione obbligatoria della tariffa è inoltre disposta per le utenze domestiche ed è finalizzata a incentivare la raccolta differenziata. Per le utenze non domestiche, invece, va applicato un coefficiente di riduzione proporzionale alle quantità di rifiuti assimilati che il produttore dimostri di aver avviato al recupero. Tuttavia, al di là dei benefici elencati espressamente dalla norma, il comune può deliberare ulteriori agevolazioni, come indicato nella relazione governativa, «per ragioni meritevoli di considerazione, anche non collegate alla capacità di produzione dei rifiuti».
Bisogna poi ricordare che nelle linee guida sul nuovo tributo il ministero dell'economia ha affermato che le riduzioni tariffarie, anche per le utenze domestiche, si applicano sia sulla parte fissa che sulla parte variabile della tariffa.
Questa presa di posizione è discutibile, perché normalmente il benefico fiscale dovrebbe essere limitato alla sola quota variabile della tariffa. Inoltre, ha chiarito che per attività stagionale si intende quella di durata non superiore a 183 giorni nel corso dello stesso anno solare. Mentre, per le utenze non domestiche la natura stagionale dell'attività deve essere comprovata dalla licenza rilasciata dagli organi competenti o deve risultare da dichiarazione del titolare a pubbliche autorità.
Le riduzioni tariffarie spettano dal momento in cui sussistono le condizioni per poterne fruire, purché denunciate al comune nei termini di presentazione della dichiarazione iniziale o di variazione. A meno che per i contribuenti residenti il comune non sia già a conoscenza delle informazioni che li riguardano (per esempio, l'occupante unico di un immobile) (articolo ItaliaOggi del 06.08.2013).

APPALTIDebiti p.a., Durc retrodatato. Per la regolarità conta il momento in cui è sorto il credito. Una nota dell'Inail illustra le caratteristiche del documento richiesto dal dl 35/2013.
Pronto il Durc per la liquidazione dei vecchi debiti delle p.a.: la situazione di regolarità contributiva va retrodatata al momento di accensione del credito.

Lo spiega l'Inail in una nota del 31.07.2013, illustrando la nuova versione del gestionale (versione 4.0.1.26 www.sportellounicoprevidenziale.it) dopo le novità del dl n. 35/2013 (sblocco pagamenti della p.a.), in vigore dall'8 giugno.
Nei riguardi delle imprese che vantano crediti nei confronti delle p.a., l'accertamento della regolarità finalizzata all'emissione del Durc per la liquidazione degli stessi crediti, va condotta prendendo a riferimento la situazione aziendale esistente alla data dell'emissione della fattura non pagata o altro equivalente documento di richiesta di pagamento, senza considerare scoperture successive.
È con riferimento a tale data quindi che devono scattare anche l'invito alla regolarizzazione e l'intervento sostitutivo da parte della stazione appaltante in caso di inadempienze contributive.
Debiti p.a. La novità è una delle misure a favore dello sblocco del pagamento dei debiti della p.a. Il dl n. 35/2013 infatti ne ha previsto un'accelerazione, disponendo una procedura ad hoc che ha visto le p.a. comunicare ai creditori, entro lo scorso 30 giugno, importo e data entro cui procederanno a pagare i debiti maturati alla data del 31.12.2012. Le stesse informazioni, inoltre, le p.a. hanno dovuto pubblicare entro il 5 luglio sui rispettivi siti internet, insieme all'elenco completo dei debiti, per ordine cronologico di emissione della fattura o della richiesta equivalente di pagamento.
Conta la data d'insorgenza del debito. Proprio la data di emissione della fattura o dell'equivalente richiesta di pagamento è il riferimento cardine per la regolarità contributiva delle imprese. Che senza tale espediente si sarebbero ritrovate nell'impasse totale di non poter incassare il credito per irregolarità contributiva (perché prive di un Durc). L'Inail precisa che, relativamente ai debiti di enti locali, regioni e province autonome, enti di servizio sanitario nazionale e amministrazioni dello stato maturati al 31.12.2012, la regolarità contributiva dell'impresa o dell'operatore economico va accertata alla data dell'emissione della fattura o della equivalente richiesta di pagamento.
La regolarizzazione del Durc. Di conseguenza, aggiunge l'Inail, in occasione di richieste di Durc da parte di stazioni appaltanti e di amministrazioni procedenti per pagamenti relativi a debiti della p.a., le sedi dell'Inail dovranno invitare alla regolarizzazione il soggetto inadempiente con riferimento ai debiti scaduti alla data di emissione della fattura, che risultino ancora insoluti alla data di verifica della regolarità. Allo stesso modo l'intervento sostitutivo della stazione appaltante, in occasione d'inadempienza contributiva da parte dell'appaltatore e/o del subappaltatore riguarderà le irregolarità accertate nel Durc sempre con riferimento alla data di emissione della fattura.
Il nuovo gestionale. Le novità spiega infine l'Inail sono state tradotte nel gestionale www.sportellounicoprevidenziale.it e nella relativa modulistica. Le tipologie di richiesta per le quali è possibile indicare la data della fattura sono indicate in tabella. Infine, l'Inail accenna al fatto che la materia del Durc è interessata da altre importanti disposizioni (tra cui l'art. 31 del dl n. 69/2013, il dl Fare in corso di conversione e il dm 13.03.2013) su cui, però, fa riserva di successive comunicazioni (articolo ItaliaOggi del 06.08.2013).

LAVORI PUBBLICISindaci, neocommissari per la sicurezza delle scuole. Avranno poteri sostitutivi. prevenzione incendi, il ministero dell'interno ha tempo fino al 2015.
Il ministero dell'interno avrà tempo fino al 31.12.2015 per dare attuazione alle norme di prevenzione degli incendi per l'edilizia scolastica.
Il termine è previsto in una bozza di decreto legge attesa al prossimo consiglio dei ministri. Lo stesso decreto prevede anche una procedura d'urgenza per la messa in sicurezza e la costruzione delle scuole.
Procedura che prevede l'attribuzione della qualifica operativa di commissari governativi ai sindaci e ai presidenti delle province.
Norme antincendio
Le vigenti disposizioni legislative e regolamentari in materia di prevenzione incendi e per l'edilizia scolastica saranno attuate entro il 31.12.2015. La normativa di dettaglio sarà emanata con un decreto del ministro dell'interno entro 6 mesi dall'entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge. E dovrà tener conto delle disposizioni sulla costituzione delle classi contenute negli articoli 9, 10, 11 e 12 del decreto del presidente della repubblica 20.03.2009, n. 81. Le prescrizioni saranno definite e articolate con scadenze differenziate. Il rinvio alle norme del decreto 81 lascia intendere che sarà rivisto al rialzo il limite dei 26 alunni per classe ordinariamente previsto dal decreto del ministero dell'interno 26.08.1992.
E probabilmente sarà rivisto al ribasso anche il limite di 1,80 metri quadri netti per persona in ogni classe, previsto per le scuole dell'infanzia, primarie e medie. Lo spazio vitale minimo di 1,80 metri quadri per persona è previsto nel decreto interministeriale 18 dicembre 1975, emanato dai ministeri dei lavori pubblici e della pubblica istruzione. Va detto subito, peraltro, che quest'ultimo decreto regola una materia che dovrebbe essere regolata con leggi regionali (si veda la legge 23/96). Ma siccome le regioni non hanno ancora provveduto, resta ancora in vigore. Tanto si evince dal confronto con i parametri che sono espressamente indicati nel decreto 81.
Il provvedimento dispone che le sezioni di scuola dell'infanzia devono essere costituite, di norma, con un numero di bambini non inferiore a 18 e non superiore a 26. Nella primaria il limite minimo è di 15 alunni e quello massimo è di 27. E fin qui si rimane grosso modo nel vecchio parametro dei 26 alunni. Per la scuola secondaria di I grado, però, il limite massimo è di 28 e può arrivare anche a 30 in presenza di determinate condizioni. Il provvedimento non fa riferimento ai parametri della scuola secondaria. E dunque, salvo rettifiche e integrazioni dell'ultima ora, il provvedimento dovrebbe riguardare solo le scuole che rientrano nella competenza dei comuni.
Competenza enti locali
La bozza di decreto–legge prevede inoltre che fino al 31.12.2014 i sindaci e i presidenti delle province opereranno in qualità di commissari governativi. Il commissariamento servirà ad attuare misure urgenti in materia di riqualificazione e di messa in sicurezza delle istituzioni scolastiche statali, e per garantire il regolare svolgimento del servizio scolastico. La procedura d'urgenza si applicherà solo per le attività inerenti alla costruzione di nuovi edifici scolastici e alla messa in sicurezza, ristrutturazione e manutenzione straordinaria di quelli esistenti.
Per consentire ai commissari di svolgere agevolmente l'incarico, il presidente del consiglio dei ministri emanerà un decreto da adottare su proposta del ministro dell'istruzione, di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze. Il decreto sarà emanato entro 60 giorni dall'entrata in vigore del decreto-legge, e recherà l'elenco delle disposizioni di legge e regolamento alle quali i commissari potranno derogare (articolo ItaliaOggi del 06.08.2013).

APPALTIDecreto del fare, cancellato il Durt
Via libera nella notte al tetto-stipendi per i manager: taglio del 25% «a qualsiasi titolo» oltre quota 300mila
SCONTRO SUGLI STIPENDI/ Prima passa la modifica della maggioranza che ritornava al salva-Italia ma poi l'Esecutivo chiede di ripristinare il taglio.
Il destino del decreto del Fare è stato intrecciato fino all'ultimo al tetto di stipendio dei manager pubblici. Al Senato si è ripetuto il copione che era andato in scena alla Camera durante il primo via libera parlamentare. La controprova si è avuta ieri.
La scelta delle commissioni Affari costituzionali e Bilancio di Palazzo Madama di approvare a larga maggioranza un emendamento che ripristinava la stretta originaria dal salva-Italia non è piaciuta al Governo. Al punto da spingere la stessa maggioranza a tornare sui suoi passi. E dopo un rapido passaggio in commissione del capogruppo Pdl, Renato Schifani, è stata riformulata la proposta governativa di introdurre un taglio del 25% agli stipendi degli amministratori delle Spa non quotate emittenti titoli. L'emendamento è stato approvato a tarda notte dalle commissioni Affari costituzionali e Bilancio e prevede il taglio del 25% al compenso complessivo "a qualsiasi titolo determinato" per tutti i manager pubblici che non rientrano nel tetto dei circa 300mila euro del primo presidente della Cassazione.
Una maggiore concordia si è invece registrata sull'abolizione del Durt. Tra le principali modifiche apportate ieri al decreto spicca proprio la soppressione del Documento unico di regolarità tributaria attraverso il via libera a tre emendamenti presentati da Pdl, Pd e Scelta Civica, che hanno assorbito le proposte analoghe di M5S e Lega. Viene meno così l'aggravio per le imprese che era stato introdotto a Montecitorio. Per la gioia delle aziende. Soddisfatte per l'addio al Durt si sono dette sia Rete imprese Italia che l'Ance.
In commissione è passata poi un'altra ventina di modifiche. A cominciare da quella della Lega sull'esonero dall'obbligo di presentare il Durc in caso di lavori privati in edilizia realizzati direttamente in economia dal proprietario dell'immobile. E proseguendo con uno snellimento delle verifiche sulle attrezzature aziendali. La prima delle quali, per effetto di un emendamento a firma Giorgio Santini (Pd), andrà effettuata entro 45 giorni dall'Inail, altrimenti il datore di lavoro potrà ricorrere ad altri soggetti pubblici o privati abilitati. Senza dimenticare l'allargamento della cerchia dei certificati considerati inutili: scompaiono l'obbligo di libretto sanitario per chi produce o vende alimenti e l'attestato di idoneità fisica per i titolari di un'impresa di revisione degli autoveicoli.
Agli emendamenti di matrice parlamentare se n'è aggiunta un'altra decina di stampo governativo (su cui si vedano le schede qui accanto). Incluso uno sull'Expo 2015. La norma licenziata in commissione, da un lato, riduce al 10% l'Iva al 10% sui biglietti e, dall'altro, consente alle società in house degli enti locali soci di Expo spa di assumere, fino a fine 2015, personale a tempo determinato oltre i limiti. Laddove sono state ritirate le modifiche sull'Authority dei trasporti e sul rinvio dell'armonizzazione dei sistemi contabili degli enti locali.
Il nodo del tetto ai manager che ha avvolto il decreto per gran parte della giornata. Al punto da fare slittare il suo approdo in Aula prima dalle 17 alle 19.15 e poi -sembrava- a stamattina. Quando -era stato ipotizzato ieri- l'Esecutivo avrebbe potuto porre la fiducia con l'obiettivo di incassare stesso oggi il via libera dell'assemblea e spedire il Dl alla Camera per il terzo e definitivo ok parlamentare prima della pausa estiva.
Lo scontro sugli stipendi degli amministratori delle Spa pubbliche si è all'inizio tradotto nel via libera a larga maggioranza a un emendamento che sopprimeva l'articolo 12-bis introdotto a Montecitorio e che dunque faceva rivivere il tetto di 302mila euro per tutte le Spa (tranne le quotate). E successivamente si è manifestato con un dietrofront in tarda serata. Quando –dando seguito all'appello del ministro per i rapporti con il Parlamento, Dario Franceschini, a ripristinare il taglio del 25% dei compensi– è stato inizialmente riformulato un precedente emendamento governativo (articolo Il Sole 24 Ore del 06.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA - VARIDalle ristrutturazioni ai mobili. Sconti a chi investe nell'edilizia. Spinta al settore dal dl Energia. Detrazione al 65% per interventi di riqualificazione.
Detrazioni 65% per la riqualificazione energetica degli edifici e adeguamento antisismico. Bonus 50% per le ristrutturazioni, mobili ed elettrodomestici. Recepimento della direttiva Edifici a energia quasi zero.
Queste le novità più importanti contenute nella legge di conversione (approvata definitivamente dal senato il 1° agosto scorso) del dl n. 63/2013 recante «Disposizioni urgenti per il recepimento della direttiva 2010/31/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio del 19.05.2010, sulla prestazione energetica nell'edilizia per la definizione delle procedure d'infrazione avviate dalla Commissione europea, nonché altre disposizioni in materia di coesione sociale», pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 181 del 3 agosto. Ma vediamo che cosa cambia.
Prestazione energetica nell'edilizia. Per quanto riguarda la prestazione energetica nell'edilizia, in particolare, una delle novità principali è la sostituzione dell'attestato di certificazione energetica (Ace) con quello di prestazione energetica (Ape), che definisce le caratteristiche di un edificio attraverso l'utilizzo di specifici descrittori e fornisce raccomandazioni per il miglioramento dell'efficienza. In proposito il Consiglio nazionale del notariato ha pubblicato le prime note interpretative relative all'allegazione dell'Ape (il documento è scaricabile dal sito www.italiaoggi.it).
Da segnalare poi la previsione di una riforma strutturale nella metodologia di calcolo delle prestazioni energetiche negli edifici le cui modalità di applicazione verranno definite da successivi decreti del ministero dello sviluppo economico. Disciplinati inoltre i termini per il miglioramento delle prestazioni energetiche degli edifici a energia quasi zero. Mentre è stata modificata la progettazione delle costruzioni e delle ristrutturazioni degli edifici tramite l'integrazione del contenuto dei documenti progettuali e la previsione di una valutazione preliminare della possibilità di inserimento di sistemi ad alta efficienza (quali cogenerazione, teleriscaldamento, pompe di calore e controllo attivo dei consumi).
Ridefinite inoltre le sanzioni in materia di certificazione energetica degli edifici e, tra i requisiti per la qualifica professionale degli installatori degli impianti a fonti rinnovabili, è stata introdotta anche la prestazione lavorativa esercitata alle dipendenze di un'impresa abilitata.
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Premiata l'impresa antisismica.
Innalzamento dal 50 al 65% del bonus fiscale per interventi antisismici su abitazioni ed edifici destinati all'attività produttiva. Estensione della detrazione del 50% introdotta per l'acquisto di mobili e arredi anche ai grandi elettrodomestici a basso consumo energetico. Impegno del governo a stabilizzare gli ecoincentivi entro il 31.12.2013. Sono queste le principali novità inserite dal legislatore nel dl 63/2013 (dl ecobonus), che ha superato l'intero iter parlamentare per la conversione in legge.
Il decreto, che recepisce la direttiva europea sulla prestazione energetica degli edifici, proroga fino al 31.12.2013 la fruizione del bonus 50% per le ristrutturazioni e rafforza le agevolazioni fiscali per la riqualificazione energetica, elevando la misura della detrazione dal 55 al 65% per le spese sostenute dal 06.06.2013 al 31.12.2013 (30.06.2014 per i condomini).
Il bonus del 65% per gli interventi antisismici è riservato agli edifici, purché abitazione principale e purché nelle zone a massimo rischio sismico (zone 1 e 2 delle mappe 2003 della protezione civile). La detrazione del 65% è ammessa anche per la messa in sicurezza antisismica degli edifici per attività produttive (precedentemente erano del tutto esclusi anche dal 36-50%). Per le abitazioni nelle zone 3 e 4 e per le abitazioni non principali restano le detrazioni del 50%.
Il bonus mobili diventa operativo, ma per fruire dell'agevolazione i beni per l'arredo devono essere acquistati dopo aver iniziato i lavori edili sul fabbricato. Mancando nel decreto le indicazioni circa le modalità operative, per arredi e i grandi elettrodomestici in classe A (forni) e A+ (frigoriferi, lavastoviglie ecc.) occorre fare riferimento alla circolare dell'Agenzia delle entrate n. 21/2010.
Misure antisismiche. Con la conversione in legge del dl 63/2013, per gli interventi relativi all'adozione di misure antisismiche spetterà una detrazione dall'imposta lorda pari al 65%, fino a un ammontare complessivo della spesa non superiore a 96.000 euro per unità immobiliare. A tal fine, le procedure autorizzatorie dovranno essere attivate dopo l'entrata in vigore della legge, su edifici ricadenti nelle zone sismiche ad alta pericolosità (zone 1 e 2) di cui all'ordinanza del presidente consiglio dei ministri n. 3274 del 20.03.2003. Rientrano nella tipologia di immobili agevolabili, fino al 31.12.2013, le costruzioni adibite non solo ad abitazione principale (che aveva già il 50%), ma anche ad attività produttive (che invece erano escluse dal 36-50%) e, in entrambi i casi, solo gli edifici situati nelle zone sismiche ad alta pericolosità (zone 1 e 2 della classificazione della protezione civile). Le detrazioni del 65% delle spese per l'adeguamento preventivo saranno spalmate in dieci anni, così come avviene per le detrazioni per il recupero edilizio e l'efficienza energetica.
Bonus mobili. Il testo finale del dl 63/2013 conferma la detrazione del 50% valida per l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici di classe minima A+ oppure A per i forni, destinati all'arredo dell'immobile oggetto di ristrutturazione. La detrazione è calcolata su un ammontare complessivo non superiore a 10 mila euro e va ripartita tra gli aventi diritto in dieci quote annuali di pari importo.
Per l'applicazione della detrazione occorre fare ricorso alle indicazioni di cui alla circolare dell'Agenzia delle entrate n. 21/2010, in cui viene chiarito che i lavori edilizi sul fabbricato devono iniziare prima dell'acquisto dei mobili.
Pertanto la data di inizio lavori deve essere anteriore all'acquisto dell'arredo e degli elettrodomestici. Non risulta invece necessario che le spese di ristrutturazione siano pagate prima di quelle per l'arredo dell'abitazione. Occorre pertanto stabilire la data di decorrenza dei lavori, attraverso la sottoscrizione e conservazione di una dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà.
Nel documento deve essere indicata la data di inizio dei lavori e attestata la circostanza che gli interventi di ristrutturazione edilizia posti in essere rientrano tra quelli agevolabili pur se i medesimi non necessitano di alcun titolo abilitativi ai sensi della normativa edilizia vigente (provvedimento 02/11/2011 n. 149646 punto 1). Sarebbe invece utile un chiarimento dagli organi preposti circa l'individuazione della data dell'acquisto. Si tratta di stabilire se a tal fine occorre riferimento alla consegna o al suo pagamento tramite bonifico.
Per fruire del bonus, si ricordano le istruzioni già comunicate dall'Agenzia delle entrate. Ovvero, il pagamento deve essere effettuato tramite bonifico bancario o postale, con le stesse modalità già previste per la ristrutturazione edilizia, indicando causale del versamento attualmente utilizzata dalle banche e da Poste italiane per i bonifici relativi ai lavori di ristrutturazione fiscalmente agevolati, codice fiscale dell'acquirente, partita Iva o codice fiscale dell'intestatario del bonifico.
Edifici vincolati. In seguito all'introduzione di un emendamento approvato dalla camera, è stato precisato che saranno le amministrazioni titolari delle autorizzazioni relative al vincolo a chiarire se «il rispetto della prescrizione imposta implichi un'alterazione sostanziale del carattere o aspetto» dell'edificio «con particolare riferimento ai profili storici, artistici e paesaggistici».
Attestazione. Novità anche per quanto riguarda le modalità di rilascio dell'attestazione della prestazioni energetica per lo specifico caso di un'unica attestazione per più unità immobiliari facenti parte dello stesso edificio. Ora il rilascio unico sarà più difficile. Era previsto infatti che questa attestazione unica si potesse concedere solo nel caso di una «medesima destinazione d'uso» delle diverse unità immobiliari. Ora le unità immobiliari dovranno avere anche «la medesima situazione al contorno, il medesimo orientamento e la medesima geometria»
Impegni governativi. Nel corso dell'iter parlamentare, il governo ha fornito il proprio consenso affinché vengano definiti entro il 31.12.2013 misure e incentivi selettivi di carattere strutturale, finalizzati a favorire la realizzazione di interventi per il miglioramento e la messa in sicurezza degli edifici esistenti, oltre che per l'incremento del rendimento energetico degli stessi. Il testo prevede inoltre che il governo si impegni a comprendere tra le attività incentivate anche l'installazione di impianti di depurazione delle acque da contaminazione di arsenico anche di tipo domestico, produttivo e agricolo. L'agenda del governo prevede inoltre che entro il 2014 vengano introdotti sgravi fiscali per azioni di rimozione dell'amianto negli edifici (articolo ItaliaOggi Sette del 05.08.2013).

CONDOMINIO: Piscine, paga l'amministratore. In caso di danni la responsabilità è del condominio. Gli adempimenti per una corretta gestione delle strutture che fanno parte degli immobili.
Piscine in sicurezza sotto la responsabilità dell'amministratore condominiale. Nel periodo estivo funzionano a pieno regime gli impianti artificiali di acqua per la balneazione installati non solo presso i condomini e i supercondomini, ma anche ad esempio negli immobili in multiproprietà (che la legge di riforma del condominio ha espressamente sottoposto all'applicazione degli articoli 1117 e seguenti del codice civile).
Tuttavia la corretta gestione di queste strutture, per i tanti pericoli insiti nel loro utilizzo, necessita di tutta una serie di adempimenti preliminari espressamente previsti dalla normativa nazionale e regionale. In caso contrario il condominio, in quanto custode dell'impianto, in persona del suo amministratore, potrà essere chiamato a rispondere dei danni causati agli utenti.
La disciplina giuridica delle piscine. Anche le piscine condominiali sono considerate impianti a uso pubblico, come tali sottoposte alla disciplina nazionale (accordo stato-regioni del 16 gennaio 2003) e alle specifiche normative regionali. In generale sono quindi regolati i requisiti igienico-sanitari degli impianti, con particolare riferimento alla qualità dell'acqua, nonché di illuminazione dello stesso e delle aree adiacenti.
L'accordo stato-regioni prevede inoltre che sia individuato il soggetto responsabile dell'igiene e della sicurezza dell'impianto (il c.d. bagnino), abilitato alle operazioni di salvataggio e di primo soccorso, la cui assistenza deve essere assicurata agli utenti durante l'intero orario di funzionamento della piscina. È poi necessario redigere anche uno specifico documento di valutazione dei rischi.
La piscina quale bene comune. Gli impianti siti nelle aree condominiali sono generalmente beni comuni. Ogni condomino è naturalmente legittimato a utilizzare la piscina e a farla usare ai propri parenti e amici, ovviamente nel rispetto del regolamento condominiale, a tutela del diritto di pari uso degli altri comproprietari. Da quanto sopra consegue che, normalmente, nessun condomino potrà sottrarsi alle spese di gestione dell'impianto, anche nel caso di non utilizzo dello stesso.
Dette spese si distinguono solitamente in una parte fissa, relativa alla manutenzione dell'impianto, e in una parte variabile, relativa all'utilizzo del bene (si pensi, ad esempio, alle spese stagionali del bagnino). In relazione a queste ultime il regolamento condominiale potrebbe però anche addossarle di fatto ai soli frequentatori della piscina, ad esempio prevedendo una sorta di biglietto di ingresso.
La responsabilità dell'amministratore condominiale. Poiché, come detto, la piscina costituisce solitamente un bene comune, la relativa gestione spetta all'amministratore condominiale, sulla base delle richiamate norme di legge e delle particolari disposizioni regolamentari o assembleari indicate dal condominio. Tra l'altro, trattandosi di impianti dai quali possono verificarsi danni a terzi, la gestione delle piscine rientra sicuramente tra le attività definite pericolose dall'art. 2050 c.c., con la conseguenza che in caso di incidente spetterà all'amministratore condominiale provare di avere adottato tutte le necessarie misure di sicurezza idonee a evitare il danno.
In questo caso il condominio, in quanto custode del bene ai sensi dell'art. 2051 c.c., risponde nei confronti dei terzi solo che sia provato il nesso causale tra l'impianto e l'evento dannoso, salvo che la condotta del danneggiato sia stata causa esclusiva del pregiudizio lamentato. Tra l'altro la responsabilità dell'amministratore, quale legale rappresentate del condominio, sussiste anche nel caso in cui sia stato nominato il soggetto responsabile dell'igiene e della sicurezza dell'impianto, poiché lo stesso rimane obbligato a vigilare sull'operato del proprio dipendente o collaboratore (art. 2049 c.c.), rispondendo nei confronti dei terzi dei danni che siano conseguenza degli inadempimenti contrattuali posti in essere da questi ultimi (articolo ItaliaOggi Sette del 05.08.2013).

INCARICHI PROGETTUALI: LA RESPONSABILITÀ/ La check list per scegliere.
Professionisti, corsa alla polizza. Per gli iscritti agli Ordini il 15 agosto diventa operativo l'obbligo di assicurarsi.

È partito il conto alla rovescia per i professionisti alla ricerca della polizza migliore. Diventa infatti operativo fra dieci giorni, il 15 agosto, l'obbligo per gli iscritti agli Albi di assicurarsi contro i danni provocati ai clienti nell'esercizio dell'attività professionale.
E se il mercato delle assicurazioni mette a disposizione una serie di prodotti mirati, per ogni professionista può essere complesso orientarsi tra garanzie, massimali e prezzi per individuare la polizza più adatta alle proprie esigenze. Il grafico a fianco riassume gli elementi fondamentali da tenere in considerazione per scegliere.
I professionisti coinvolti
Previsto dal decreto legge 138 del 2011 e atteso al debutto nell'agosto dello scorso anno, l'obbligo di sottoscrivere una polizza professionale è già stato dilazionato di un anno dal Dpr di riforma delle professioni (137 del 2012). E un nuovo rinvio, di un altro anno, sta per essere varato a favore dei professionisti della sanità: è stato inserito dalla Camera nel decreto del fare (69 del 2013), ora all'esame del Senato per la conversione in legge. Una proroga motivata dall'esigenza di attendere il regolamento, previsto dal Dl 158/2012, incaricato di disciplinare in modo organico proprio le polizze per i sanitari.
Saltano l'appuntamento di Ferragosto anche gli avvocati, che si muovono lungo la corsia tracciata dalla riforma forense (legge 247 del 2012): che prevede l'obbligo di stipulare le polizze professionali ma in base alle condizioni che il ministero della Giustizia deve ancora stabilire.
Medici e avvocati a parte, a doversi assicurare entro il 15 agosto è tutto l'universo dei professionisti iscritti agli Ordini: dai commercialisti ai consulenti del lavoro, dagli ingegneri e gli architetti ai periti industriali e ai biologi. Si tratta di un obbligo introdotto a tutela dei clienti, che, al momento dell'incarico, devono essere informati sugli estremi delle polizze e i massimali.
Resta invece solo una possibilità la copertura assicurativa per tutti i professionisti non iscritti agli Albi, dai tributaristi ai consulenti.
L'offerta del mercato
Le compagnie di assicurazione hanno lanciato polizze ad hoc per alcune categorie, come commercialisti e ingegneri. Mentre per gli altri professionisti, per i quali non sono stati studiati prodotti mirati, resta la possibilità di affidarsi a strumenti generici modulati sulle loro esigenze. In questo quadro si innestano le convenzioni che molti Ordini hanno stipulato con le assicurazioni per offrire una polizza ai loro iscritti: in genere molto convenienti, offrono una copertura di base, che però non sempre può essere sufficiente per i professionisti impegnati su molti fronti.
A censire l'offerta del mercato è l'indagine condotta nei mesi scorsi dal progetto Iridia, sostenuto dalle associazioni dei broker (Aiba) e degli agenti (Uea). In particolare, i ricercatori hanno analizzato 22 prodotti, nel carnet di dieci compagnie. E in primo luogo hanno distinto tra le polizze offerte dalle compagnie nazionali e anglosassoni, a cui corrisponde un diverso disegno delle coperture. Infatti, i prodotti di matrice anglosassone sono "all inclusive", a massimale unico e con garanzie poco modulabili. Le polizze italiane sono invece più analitiche e complesse: il massimale è sempre affiancato da limiti specifici e le garanzie possono essere strutturate per tenere conto delle diverse attività del singolo professionista. Si tratta di due modelli che presentano pro e contro, secondo l'indagine: ogni professionista deve valutare in base alle sue esigenze quale sia il migliore per sé.
Il peso del prezzo
Tra gli elementi da valutare per scegliere la polizza giusta c'è naturalmente anche il prezzo. Che però non può essere l'unico criterio, come spesso invece accade. Dall'indagine emerge infatti che di rado le differenze di prezzo corrispondono a differenti ampiezze delle coperture. Piuttosto che ai contenuti, infatti, i prezzi sono correlati alle politiche delle imprese e al target di riferimento. Spazio, quindi, alla comparazione tra i prodotti, da valutare, poi, anche alla luce dei costi (articolo Il Sole 24 Ore del 05.08.2013).

ENI LOCALIDdl «Delrio». Riforma degli ordinamenti. Unioni di Comuni sempre escluse dal Patto di stabilità.
Le Unioni di Comuni diventano lo strumento privilegiato per la gestione associata delle funzioni comunali, sono suddivise in tre tipologie e viene rafforzato il ruolo dei sindaci al loro interno. Sono inoltre previsti incentivi per Unioni e fusioni. Nessun tipo di Unione è assoggettato al Patto di stabilità.

Possono essere così riassunte le principali scelte in materia di Unioni nel Ddl Delrio di riforma dell'ordinamento locale. Le finalità del progetto -come si legge nella relazione illustrativa- sono quelle di «irrobustire l'associazionismo comunale, di avere Unioni con Presidenti forti» e di giungere al «riordino della caotica situazione oggi esistente rispetto agli innumerevoli diversi ambiti intermedi di gestione di funzioni statali e spesso anche regionali».
A tal fine viene anche rilanciato l'istituto delle Unioni speciali tra i piccoli Comuni che tanto era stato criticato, anche da parte dell'Anci: si prevede infatti che esso possa essere scelto come strumento per la gestione associata da parte dei Comuni fino a 5mila abitanti e non più solo fino a mille.
Le Unioni vengono distinte in tre tipologie: quelle ordinarie, quelle costituite tra i comuni con meno di 5mila abitanti (3mila per i centri che fanno o hanno fatto parte di comunità montane) e quelle «speciali». La seconda e la terza tipologia di unioni differiscono fra loro perché una è limitata alla gestione delle funzioni fondamentali, l'altra si estende a tutte le attività. Al primo tipo di Unioni si applica l'articolo 32 del Tuel, salve le nuove disposizioni sugli organi e sull'autonomia statutaria. Alle altre due tipologie si applicano anche le regole dettate dall'articolo 16 del Dl 138/2011.
Il legislatore esprime una chiara preferenza per la gestione associata tramite le Unioni, preferenza che si trasforma nel divieto di dare vita a convenzioni per la gestione associata delle funzioni fondamentali decorsi cinque anni dalla data di entrata in vigore della legge.
Gli organi di tutte le unioni diventano tre: il Presidente, il Comitato dei sindaci e il Consiglio. Il primo è eletto, dal Consiglio, anche con ballottaggio, tra i sindaci dei Comuni aderenti all'unione. Il Comitato dei sindaci, che nelle Unioni con più di 30 Comuni può prevedere un comitato ristretto e l'articolazione in sottocomitati, svolge i compiti di collaborazione con il Presidente, che ha i poteri di rappresentanza e di sovrintendenza all'esercizio delle funzioni.
In altri termini la sua figura è modellata su quella del sindaco. Il Consiglio svolge i compiti di indirizzo e di adozione degli atti fondamentali. Esso è composto dai sindaci e da due consiglieri per ogni Comune, di cui uno in rappresentanza della minoranza. I consiglieri dei Comuni e i sindaci hanno un peso ponderato in relazione alla dimensione demografica dell'ente che rappresentano. Si riconferma l'autonomia statutaria e regolamentare delle Unioni, con l'assegnazione della competenza alla loro adozione da parte del Consiglio della Unione. Da rilevare che scompare il voto dei singoli consigli comunali sullo Statuto dell'Unione: si affrancano così le Unioni dal vincolo del consenso di tutti i comuni alle scelte di maggiore rilievo.
Le Unioni, comprese quelle per la gestione associata dell'insieme di attività dei comuni, sono esclude dal Patto. Sono previsti incentivi statali per le unioni e le fusioni; nel caso di fusioni, i Comuni preesistenti possono diventare municipi e mantenere, fino all'ultimo anno del primo mandato amministrativo del nuovo Comune, tributi e tariffe differenziate (articolo Il Sole 24 Ore del 05.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Planimetrie gratis, il Territorio resiste. Nonostante la nota di Palazzo Chigi.
Le vecchie abitudini sono dure a morire, anche per l'agenzia del Territorio, incorporata dal 01.12.2012 nell'agenzia delle Entrate.

Alcuni Comuni hanno chiesto all'Agenzia il rimborso delle somme pagate per la fornitura in formato digitale delle planimetrie «raster», acquisite per controlli Tares, ma la risposta è stata negativa. La richiesta di rimborso è motivata sulla base del parere n. 37/2013 reso dalla Corte dei conti, sezione regionale di controllo dell'Emilia Romagna, che ha stabilito la gratuità delle planimetrie.
Le regole per l'utilizzo dei dati catastali sono definite dal decreto del direttore del Territorio del 13.11.2007, nel quale si precisa che sono a carico della Pubblica amministrazione richiedente solo «eventuali costi eccezionali» sostenuti dall'Agenzia per realizzare ed erogare servizi specifici connessi a particolari esigenze, mentre la pretesa di circa 0,20 euro a planimetria avanzata dall'Agenzia non rispondeva a questi criteri.
Sul tema della gratuità dell'accesso alla banche dati è intervenuta di recente anche la Presidenza del Consiglio dei Ministri (si veda Il Sole 24 Ore del 13.07.2013), la quale ha rammentato che la sussistenza del diritto all'acquisizione, senza oneri, era già esercitabile dal 09.12.2000, in virtù dell'articolo 25 della legge 340/2000, e successivamente ribadito dall'articolo 43 del Dpr 445/2000 e dal combinato disposto degli articoli 50 e 58 del Codice dell'amministrazione digitale (Dlgs 82/2005).
L'Agenzia, nel rigettare la richiesta di rimborso del Comune, ha evidenziato che l'obbligo di fornitura dei dati ai fini del controllo delle superfici assoggettabili a Tares è stato adempiuto dal provvedimento 29.03.2013 del direttore dell'Agenzia, che in attuazione dell'articolo 14, comma 9 del Dl 201/2011 ha messo a disposizione dei Comuni, sulla piattaforma informatica «Portale per Comuni», le superfici catastali dei fabbricati a destinazione ordinaria.
In realtà non si considera che oggi la superficie da assoggettare a Tares non è data dall'80% della superficie catastale -che potrà essere utilizzata solo a seguito dell'allineamento dei dati catastali con i dati riguardanti la toponomastica e la numerazione civica (articolo 13, comma 9-bis, Dl 201/2011)- ma dalla superficie calpestabile, per cui le planimetrie sono ancora necessarie per i controlli comunali.
La disponibilità delle planimetrie non rileva solo ai fini della Tares, ma anche ai fini Imu; basti pensare alla possibilità di individuare eventuali pertinenze accatastate con l'abitazione.
Infine, nella risposta dell'Agenzia si effettua un distinguo tra forniture massive, che sarebbero soggette al pagamento, e forniture collegate ad accertamenti sui singoli contribuenti, per i quali il rilascio delle planimetrie avverrebbe in totale esenzione di spese e diritti. Anche qui non si considera che le procedure di controllo possono essere massive, e non per singolo contribuente, e che la normativa (articolo 14, comma 37, Dl 201/2011) non effettua alcun distinguo, ai fini della gratuità delle forniture, tra controlli singoli o massivi (articolo Il Sole 24 Ore del 05.08.2013).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGOPrivacy. Pubblica amministrazione. Non si pubblicizza la malattia del dipendente.
RISERVATEZZA/ Il sindaco non può riportare all'Albo pretorio i dati sensibili di un'impiegata anche se c'è un contenzioso.

La pubblica amministrazione non può divulgare lo stato di malattia dei propri dipendenti, mentre è tenuta a mantenere sul proprio sito i dati identificativi del personale anche nel caso in cui tra le parti sia aperto un contenzioso davanti al giudice.
La I Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 08.08.2013 n. 18980 ha accolto il ricorso dell'impiegata di un comune bolognese che aveva visto affissi i sui «dati sensibili» all'albo pretorio, con l'aggiunta di informazioni sul processo in corso e, contemporaneamente, si era vista scomparire dall'organigramma pubblicato sul sito municipale.
Nell'interpretare le regole del Codice della privacy (Dlgs 196/2003), tra l'altro, la Corte sottolinea che anche le novità introdotte dal Dlgs 33/2013 («Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni») non cambiano gli obblighi del datore di lavoro pubblico sul tema dei motivi che causano l'astensione dal lavoro.
La questione era nata dal rifiuto del tribunale di Bologna di dichiarare illecito il trattamento dei dati dell'impiegata operato dal comune, e pertanto di statuire la cancellazione del suo "profilo personale" dall'albo pretorio. A giudizio dei magistrati emiliani, in sostanza, erano stati rispettati i principi di pertinenza e di necessità e comunque non erano stati diffusi dati riguardanti lo stato di salute della ricorrente «essendo generica la dizione "assenza per malattia"» né dati giudiziari, per aver genericamente indicato un processo in corso «per mobbing».
Sul tema però nel tempo il Garante aveva più volte espresso una posizione chiara, specificando che «l'indicazione del dato relativo all'assenza per "convalescenza" dà luogo ad un trattamento di dati sensibili, dal momento che tale informazione, pur non facendo riferimento a specifiche patologie, è comunque suscettibile di "rivelare lo stato di salute" dell'interessato».
Anche le linee guida in materia di trattamento dei dati personali di lavoratori per finalità di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico avevano ribadito che, tra i dati idonei a rivelare lo stato di salute, può rientrare anche una informativa relativa all'assenza dal servizio per malattia, anche se non sia contestualmente indicata la diagnosi.
Quanto invece all'oscuramento dal sito dei dati dell'impiegata, «va apprezzata quale violazione del principio di completezza dei dati personali trattati dall'amministrazione» (articolo Il Sole 24 Ore del 09.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo il diniego di una variante urbanistica col SUAP adducendo motivazioni di carattere ambientale senza tenere in considerazione della conclusione positiva sia della VAS che della conferenza di servizi e, non da ultimo, delle aspettative sorte in capo agli istanti e delle particolari situazioni di affidamento.
L’art. 5 del D.P.R. 20.10.1998 n. 447 prevede una procedura semplificata per la variazione di strumenti urbanistici preordinati all’autorizzazione di insediamenti produttivi contrastanti con il vigente strumento urbanistico, allorché il progetto sia conforme alle norme in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza sul lavoro e lo strumento urbanistico non individui aree destinate all’insediamento di impianti produttivi ovvero questi siano insufficienti rispetto al progetto presentato.
Il procedimento si conclude con una conferenza di servizi la cui determinazione costituisce proposta di variante urbanistica sulla quale, tenuto conto delle osservazioni, proposte ed opposizioni formulate, il Consiglio comunale si pronuncia entro sessanta giorni.
La proposta di variazione dello strumento urbanistico assunta dalla Conferenza di servizi, da considerare alla stregua di un atto di impulso del procedimento volto alla variazione urbanistica, non è vincolante per il Consiglio comunale che conserva le proprie attribuzioni e valuta autonomamente se aderirvi.
Sicché, la speciale procedura semplificata di cui al cennato art. 5 DPR n. 447/1998 non comporta abdicazione della istituzionale potestà pianificatoria del Comune, tale da rendere la proposta della Conferenza di servizi come obbligatoria, ma lascia integra la possibilità per l’Ente territoriale di discostarsene, sulla base di valutazioni urbanistiche.
Tuttavia, quando la stessa amministrazione comunale abbia, con una serie univoca di atti, considerato procedibile il ricorso allo strumento dell’approvazione della variante per l’insediamento di impianti produttivi ex art. 5 DPR n. 447/1998 –che ha lo scopo di semplificare l’acquisizione dei pareri tecnici dei soggetti preposti alla tutela dei diversi interessi coinvolti– e, nel corso del procedimento, siano stati espressi i favorevoli pareri culminati nella proposta di tutte le autorità pubbliche e dei soggetti interessati, compreso lo stesso Comune, riuniti in conferenza di servizi, vadano valutate attentamente, e con particolare pregnanza sul versante motivazionale, le scelte del Comune, richiedendosi, nell’ambito delle valutazioni urbanistiche, anche una ponderazione degli opposti interessi, in considerazione delle aspettative sorte in capo agli istanti e delle particolari situazioni di affidamento.
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Si ritiene che gli argomenti portati dall’Amministrazione comunale a sostegno del diniego non integrino quella puntuale motivazione richiesta in un caso in cui la completezza dei pareri favorevoli acquisiti sotto i plurimi aspetti richiesti dalla normativa (ambientale, sanitario, di sicurezza sul lavoro) e la condotta tenuta dallo stesso Comune in tutte le fasi antecedenti quella della determinazione finale, anche sotto il profilo della compatibilità dell’intervento con le scelte urbanistiche, hanno ingenerato un legittimo affidamento in capo all’interessato.

Nel merito, l’appello del Comune è da respingere.
L’art. 5 del D.P.R. 20.10.1998 n. 447 prevede una procedura semplificata per la variazione di strumenti urbanistici preordinati all’autorizzazione di insediamenti produttivi contrastanti con il vigente strumento urbanistico, allorché il progetto sia conforme alle norme in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza sul lavoro e lo strumento urbanistico non individui aree destinate all’insediamento di impianti produttivi ovvero questi siano insufficienti rispetto al progetto presentato.
Il procedimento si conclude con una conferenza di servizi la cui determinazione costituisce proposta di variante urbanistica sulla quale, tenuto conto delle osservazioni, proposte ed opposizioni formulate, il Consiglio comunale si pronuncia entro sessanta giorni.
La proposta di variazione dello strumento urbanistico assunta dalla Conferenza di servizi, da considerare alla stregua di un atto di impulso del procedimento volto alla variazione urbanistica, non è vincolante per il Consiglio comunale che conserva le proprie attribuzioni e valuta autonomamente se aderirvi.
Si conviene, quindi, con il Comune sul fatto che la speciale procedura semplificata di cui al cennato art. 5 DPR n. 447/1998 non comporta abdicazione della istituzionale potestà pianificatoria del Comune, tale da rendere la proposta della Conferenza di servizi come obbligatoria, ma lascia integra la possibilità per l’Ente territoriale di discostarsene, sulla base di valutazioni urbanistiche (Cons. St. Sez. IV, n. 2170/2012; n. 4498/2012; n. 5471/2007).
Occorre, tuttavia, osservare che, quando la stessa amministrazione comunale abbia, con una serie univoca di atti, considerato procedibile il ricorso allo strumento dell’approvazione della variante per l’insediamento di impianti produttivi ex art. 5 DPR n. 447/1998 –che ha lo scopo di semplificare l’acquisizione dei pareri tecnici dei soggetti preposti alla tutela dei diversi interessi coinvolti– e, nel corso del procedimento, siano stati espressi i favorevoli pareri culminati nella proposta di tutte le autorità pubbliche e dei soggetti interessati, compreso lo stesso Comune, riuniti in conferenza di servizi, vadano valutate attentamente, e con particolare pregnanza sul versante motivazionale, le scelte del Comune, richiedendosi, nell’ambito delle valutazioni urbanistiche, anche una ponderazione degli opposti interessi, in considerazione delle aspettative sorte in capo agli istanti e delle particolari situazioni di affidamento (cfr. sulla necessità di motivazione in materia di varianti agli strumenti urbanistici incidenti su situazioni di affidamento, Cons. St. Sez. IV, 26.10.2012, n. 5492; 13.10.2010, n. 7478).
Sotto questo profilo, non vi è dubbio che lo spiegarsi del procedimento, iniziato sull’istanza della Donadi di spostamento del proprio impianto colpito dalla procedura espropriativa per effetto della realizzazione dell’Autostrada Pedemontana, abbia mostrato ampie aperture del Comune, sia nella fase iniziale, dove la deliberazione di procedibilità dell’istanza è stata accompagnata da un parere favorevole dell’Ufficio tecnico non solo circa la sussistenza dei presupposti per l’avvio del procedimento semplificato ex art. 5 DPR n. 447/1998, ma anche sull’opportunità della conservazione dell’impianto produttivo per i vantaggi all’occupazione ed allo sviluppo industriale dell’area, sia dopo l’acquisizione della favorevole valutazione ambientale strategica, all’esito della quale è stato richiesto dal Comune ed ottenuto dall’impresa il versamento di un congruo anticipo sugli oneri di urbanizzazione.
Né vale la considerazione per cui, essendo il Consiglio Comunale l’unico organo competente a deliberare in ordine alla variante, gli atti compiuti ed i comportamenti tenuti da organi diversi, in vista della finale determinazione, non avrebbero potuto avere l’effetto di ingenerare alcun affidamento.
Occorre invero distinguere tra l'operatività del principio di tutela del legittimo affidamento che presuppone, sul piano soggettivo, l’affidamento ragionevole generato dal comportamento univoco di una amministrazione pubblica, unitariamente considerata, dalla competenza dell’organo che eserciti la potestà pubblica, rilevante, sul piano oggettivo, ai fini della legittimità dell’atto emanato.
Una volta accertata, quindi, la necessità di una puntuale motivazione sotto il profilo delle scelte urbanistiche oppositive alla realizzazione dell’impianto, deve convenirsi con il primo giudice che le ragioni poste a base del diniego, fondate quasi esclusivamente su valutazioni di carattere paesaggistico- ambientale, da un lato si pongano in contrasto con accertamenti già positivamente raggiunti in sede di procedimento di VAS, divenuti inoppugnabili, e, dall’altro, non rivelino precise scelte di tipo urbanistico idonee a supportare il rifiuto di variante.
Sotto il primo profilo, va osservato che la valutazione ambientale strategica (VAS) è lo strumento volto a garantire gli effetti sull’ambiente dei piani e dei programmi, così da anticipare la valutazione della compatibilità ambientale ad un momento anteriore alla loro elaborazione ed adozione, in una prospettiva globale di sviluppo sostenibile idonea a conciliare, anche attraverso soluzioni alternative, l’utilizzazione del territorio e la localizzazione degli impianti con la tutela dei valori ambientali (Cons. St. Sez. IV, 06.05.2013, n. 2446; 13.11.2012, n. 5715).
La valutazione favorevole compiuta in sede di VAS non può, quindi, essere rimessa in discussione per i profili attinenti alla compatibilità con l’ambiente del piano.
Inoltre, nella fattispecie, anche la Provincia, deputata, ex art. 3-ter L.R. Lombardia n. 86/1983 , a controllare la compatibilità dei piani con la Rete Ecologica Regionale, ha espresso parere favorevole in sede di conferenza di servizi, come attestato nella nota 27.01.2011, pur avendo posto un diverso ostacolo circa la compatibilità dell’attività di fresatura dell’asfalto con il piano rifiuti.
Deve notarsi che le valutazioni contenute nella Relazione allegata alla delibera impugnata fanno riferimento alla Rete ecologica regionale –alla quale occorre riconoscere prevalenza su difformi previsioni contenute in altri piani (Cons. St. Sez. IV, 16.04.2012), ai sensi della L.R. n. 86 del 1983- senza tuttavia chiarire se l’area d’intervento vi ricada interamente o se, come si afferma in un passaggio, risulti “localizzata nelle immediate vicinanze del tracciato infrastrutturale della Pedemontana lombarda”, a 200 metri dal suo limite, rilevando solo come zona di rispetto; parimenti, la c.d. Greenway, consistente in una misura di mitigazione su paesaggi caratterizzati da vulnerabilità paesistico ambientale, delimita, ma non attraversa il terreno oggetto dell’intervento.
Tali incongruità non paiono allora idonee, conformemente a quanto ritenuto dal primo giudice, a rimettere in discussione la compatibilità dell’intervento con la tutela dei valori ambientali e naturalistici, accertata in sede di VAS.
Sotto il profilo urbanistico, quanto alla vicinanza all’abitato, si condivide l’argomento della resistente, non smentito dall’appellante, secondo cui il nuovo impianto, sebbene realizzato su diversa area, manterrebbe la stessa distanza dall’abitato del vecchio impianto, con la conseguenza che le condizioni dal punto di vista urbanistico rimarrebbero immutate.
In merito alla valutazione compiuta dal Comune circa la conservazione dell’area a destinazione agricola, l’affermazione del Tar è corretta nel senso che una simile scelta avrebbe dovuto essere operata al termine di una ponderata valutazione circa le implicazioni dell’insediamento produttivo (quindi, anche valutando le opportunità di sviluppo che erano state tenute in considerazione al momento dell’avvio del procedimento), nella specie del tutto mancata.
In merito, poi, al richiamo contenuto nella Relazione alle misure che potrebbero essere messe in atto in esecuzione della deliberazione del Consiglio Comunale n. 22/2010 nella zona oggetto di richiesta di variante, non si rinvengono precise previsioni di PGT da cui discenda un obbligo per il Comune nei sensi indicati nella Relazione, che non contengono vere e proprie scelte pianificatorie, ma idee progettuali dalla scarsa concretezza e non verificata fattibilità.
Concludendo sull’appello del Comune, si ritiene che gli argomenti portati dall’Amministrazione comunale a sostegno del diniego non integrino quella puntuale motivazione richiesta in un caso in cui la completezza dei pareri favorevoli acquisiti sotto i plurimi aspetti richiesti dalla normativa (ambientale, sanitario, di sicurezza sul lavoro) e la condotta tenuta dallo stesso Comune in tutte le fasi antecedenti quella della determinazione finale, anche sotto il profilo della compatibilità dell’intervento con le scelte urbanistiche, hanno ingenerato un legittimo affidamento in capo all’interessato (Cons. St. Sez. IV, 13.10.2010, n. 7478) e che, pertanto, la sentenza del Tar vada confermata
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.08.2013 n. 4151 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Pur riconoscendo che il fresato d’asfalto viene generalmente classificato come rifiuto in quanto come tale disciplinato dal DM 05.02.1998 e contemplato dal codice europeo dei rifiuti, nondimeno può essere trattato alla stregua di un sottoprodotto quando viene inserito in un ciclo produttivo e viene utilizzato senza nessun trattamento in un impianto che ne preveda l’utilizzo nello stesso ciclo di produzione senza operazioni di stoccaggio a tempo indefinito.
Considerato che nell’impianto in questione l’asfalto verrebbe quotidianamente fresato e riutilizzato, nell’ambito dell’ordinario ciclo produttivo, esso deve essere considerato sottoprodotto e non rifiuto speciale, con la conseguenza che non soggiacerebbe alle regole del Piano gestione rifiuti che ne impedirebbero la localizzazione.
Ai sensi dell’art. 183, n. 1, lett. a), del codice dell’ambiente (d.lgs. n. 152/2006), costituisce «rifiuto» qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi.
Ai sensi dell’art. 184, comma 3, lett. b), sono rifiuti speciali i rifiuti derivanti da attività di demolizione, costruzione o derivanti dall’attività di scavo.
Ai sensi dell’art. 184-bis, aggiunto dal comma 1 dell’art. 12 d.lgs. 03.12.2010, n. 205, è sottoprodotto e non rifiuto qualsiasi prodotto che soddisfi tutte (cumulativamente) le seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale.
La norma delinea le caratteristiche essenziali del sottoprodotto consistenti nell’appartenenza della sostanza ad un ciclo di produzione di cui non costituisce scopo principale e nella consapevolezza, al momento della sua produzione, della sua riutilizzazione senza alcun trattamento diverso dalla normale pratica industriale. Il sottoprodotto nasce, quindi, con la certezza di essere riutilizzato senza particolari interventi manipolativi e non disfatto, non divenendo per questo mai rifiuto.
Data la novità della classificazione del sottoprodotto rispetto a quella contenuta nel codice CER, la giurisprudenza amministrativa ha già considerato non vincolante la classificazione recata dal codice CER anteriore alla definizione dei sottoprodotti alla stregua dei criteri sostanziali dell’art. 184-bis giungendo, per alcune sostanze classificate come rifiuto, al riconoscimento come sottoprodotto (quali la pollina).
Anche la Cassazione penale giudica essenziale ai fini della qualificazione di una sostanza come sottoprodotto la sussistenza contestuale di tutte le condizioni richieste e l’assenza di trasformazione preliminare ai fini del riutilizzo, oltre alla circostanza che il materiale sia destinato con certezza e non come mera eventualità ad un ulteriore utilizzo.
Si tratta dunque di verificare, dal punto di vista sostanziale e fattuale, se la fresatura d’asfalto rivesta i requisiti indicati dalla norma di cui all’art. 184-bis per essere considerata sottoprodotto e non rifiuto speciale.
Alla luce di tali criteri, che il Collegio non può che condividere, deve ritenersi corretto il metodo di verifica utilizzato dal Tar, che ha tenuto conto delle seguenti circostanze: che il bitume d’asfalto si inserisse nel processo produttivo dell’impianto; che venisse rimosso con la certezza di essere integralmente riutilizzato; che non venisse sottoposto ad un processo di trasformazione; che venisse riutilizzato in tempi ravvicinati (quotidianamente) rispetto al prelievo, senza particolari operazioni di stoccaggio; che non si potesse porre a priori in senso assoluto il problema di doversene disfare, essendo esso sempre riutilizzabile e riutilizzato.
Le conclusioni cui è giunto il Tar sono in linea non solo con la normativa interna, ma anche con la giurisprudenza comunitaria secondo cui, quando oltre che riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, “la sostanza non può essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di disfarsi, bensì un autentico prodotto”.
Secondo la giurisprudenza europea “E’ ammesso, alla luce degli obeittivi della direttiva 75/442, qualificare un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo non come rifiuto, bensì come sottoprodotto di cui il detentore non desidera disfarsi ai sensi dell’art. 1, lett. a) della Direttiva, a condizione che il suo riutilizzo sia certo, senza trasformazione preliminare e nel corso del processo di produzione”.

Va, a questo punto, esaminato l’appello incidentale della Provincia di Monza e della Brianza, con cui è stata censurata la sentenza di primo grado per avere annullato la sua nota del 27.01.2011, nella parte in cui diffida formalmente il Comune di Arcore a non procedere all’autorizzazione dell’impianto essendo l’attività di fresa di asfalto in contrasto con il Piano provinciale di gestione dei rifiuti che ne esclude la localizzazione.
La Provincia, muovendo dalla classificazione del fresato d’asfalto come rifiuto speciale (codice CER 17.0.002- materiale di demolizione) e considerando che la caratteristica del “sottoprodotto” di cui all’art. 184-bis del d.lgs. n. 152/2006 è costituita dall’essere la sostanza originata da un processo di produzione di cui costituisce parte integrante, pur non essendone lo scopo primario, ritiene che il fresato d’asfalto non sia prodotto originato da un processo produttivo bensì materiale di risulta ricavato dalla demolizione di fondi stradali e, conseguentemente, rifiuto speciale recuperabile, come tale non utilizzabile nell’impianto di cui si chiede l’autorizzazione alla realizzazione.
In ordine a tale questione ha proposto intervento la SITEB Associazione Italiana Bitume Asfalto Strade che, vantando l’interesse dei propri associati allo svolgimento della propria attività conformemente alla normativa in tema di rifiuti, ha illustrato sia la natura del ciclo di riutilizzazione dell’asfalto, che non prevede trasformazione e non viene, quindi, riciclato, e può essere recuperato in situ senza operazioni di stoccaggio e deposito. Sostiene, alla luce dell’art. 183 del Codice dell’ambiente, che caratteristica del rifiuto è che di esso il detentore intenda disfarsi, mentre del fresato d’asfalto il detentore non si disfa, ma le sue caratteristiche permettono un immediato ed integrale reimpiego. Considera quindi che, conformemente a quanto deciso dal Tar, il materiale in parola rivesta tutte le caratteristiche indicate dall’art. 184-bis per i sottoprodotti.
Occorre a riguardo osservare che il Tar, pur riconoscendo che il fresato d’asfalto viene generalmente classificato come rifiuto in quanto come tale disciplinato dal DM 05.02.1998 e contemplato dal codice europeo dei rifiuti, nondimeno possa essere trattato alla stregua di un sottoprodotto quando venga inserito in un ciclo produttivo e venga utilizzato senza nessun trattamento in un impianto che ne preveda l’utilizzo nello stesso ciclo di produzione senza operazioni di stoccaggio a tempo indefinito.
Considerato che nell’impianto in questione l’asfalto verrebbe quotidianamente fresato e riutilizzato, nell’ambito dell’ordinario ciclo produttivo, esso deve essere considerato sottoprodotto e non rifiuto speciale, con la conseguenza che non soggiacerebbe alle regole del Piano gestione rifiuti che ne impedirebbero la localizzazione.
Ai sensi dell’art. 183, n. 1, lett. a), del codice dell’ambiente (d.lgs. n. 152/2006), costituisce «rifiuto» qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi.
Ai sensi dell’art. 184, comma 3, lett. b), sono rifiuti speciali i rifiuti derivanti da attività di demolizione, costruzione o derivanti dall’attività di scavo.
Ai sensi dell’art. 184-bis, aggiunto dal comma 1 dell’art. 12 d.lgs. 03.12.2010, n. 205, è sottoprodotto e non rifiuto qualsiasi prodotto che soddisfi tutte (cumulativamente) le seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale.
La norma delinea le caratteristiche essenziali del sottoprodotto consistenti nell’appartenenza della sostanza ad un ciclo di produzione di cui non costituisce scopo principale e nella consapevolezza, al momento della sua produzione, della sua riutilizzazione senza alcun trattamento diverso dalla normale pratica industriale. Il sottoprodotto nasce, quindi, con la certezza di essere riutilizzato senza particolari interventi manipolativi e non disfatto, non divenendo per questo mai rifiuto.
Data la novità della classificazione del sottoprodotto rispetto a quella contenuta nel codice CER, la giurisprudenza amministrativa ha già considerato non vincolante la classificazione recata dal codice CER anteriore alla definizione dei sottoprodotti alla stregua dei criteri sostanziali dell’art. 184-bis giungendo, per alcune sostanze classificate come rifiuto, al riconoscimento come sottoprodotto (quali la pollina, Cons. St. Sez. IV, 28.02.2013, n. 1230).
Anche la Cassazione penale (Sez. III, 14.06.2012, n. 28609) giudica essenziale ai fini della qualificazione di una sostanza come sottoprodotto la sussistenza contestuale di tutte le condizioni richieste e l’assenza di trasformazione preliminare ai fini del riutilizzo, oltre alla circostanza che il materiale sia destinato con certezza e non come mera eventualità ad un ulteriore utilizzo.
Si tratta dunque di verificare, dal punto di vista sostanziale e fattuale, se la fresatura d’asfalto rivesta i requisiti indicati dalla norma di cui all’art. 184-bis per essere considerata sottoprodotto e non rifiuto speciale.
Alla luce di tali criteri, che il Collegio non può che condividere, deve ritenersi corretto il metodo di verifica utilizzato dal Tar, che ha tenuto conto delle seguenti circostanze: che il bitume d’asfalto si inserisse nel processo produttivo dell’impianto; che venisse rimosso con la certezza di essere integralmente riutilizzato; che non venisse sottoposto ad un processo di trasformazione; che venisse riutilizzato in tempi ravvicinati (quotidianamente) rispetto al prelievo, senza particolari operazioni di stoccaggio; che non si potesse porre a priori in senso assoluto il problema di doversene disfare, essendo esso sempre riutilizzabile e riutilizzato.
Le conclusioni cui è giunto il Tar sono in linea non solo con la normativa interna, ma anche con la giurisprudenza comunitaria secondo cui, quando oltre che riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, “la sostanza non può essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di disfarsi, bensì un autentico prodotto” (CGCE sent. 18.04.2002, causa C9/00 Palin Granit).
Secondo la giurisprudenza europea “E’ ammesso, alla luce degli obeittivi della direttiva 75/442, qualificare un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo non come rifiuto, bensì come sottoprodotto di cui il detentore non desidera disfarsi ai sensi dell’art. 1, lett. a) della Direttiva, a condizione che il suo riutilizzo sia certo, senza trasformazione preliminare e nel corso del processo di produzione” (sent. 11.09.2003, causa C114/01, Avesta Potarit Chrome).
Alla stregua di tali considerazioni, l’appello della Provincia deve essere respinto
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.08.2013 n. 4151 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACave, il comune non ferma tutto. Cds: la Conferenza di servizi prevale.
Se la procedura avviata in conferenza di servizi ha avuto esito positivo, l’impresa proponente ha maturato una valida aspettativa. E, quindi, è illegittima la decisione del Consiglio comunale che decide di esprimere parere contrario alla variante urbanistica per il trasferimento della cava per inerti, solo perché intende conservare la destinazione agricola dell’area. In sostanza, se il comune non avesse voluto l’impianto, avrebbe dovuto deciderlo prima e anche valutando le opportunità di sviluppo che erano state tenute in considerazione al momento del procedimento avviato dallo sportello unico attività produttive in base all’art. 5 del dpr n. 447/1998 (ora articolo 8 dpr 160/2010). Ciò in quanto l’impresa è già attiva nel territorio comunale ma si è vista costretta al suo trasferimento in quanto sull’area attuale correrà la futura strada Pedemontana.
La questione che è stata decisa dal Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.08.2013 n. 4151, che ha messo in evidenza il fatto che la decisione del consiglio comunale, che si appella a questioni ambientali e paesaggistiche, non può porsi in contrasto con gli accertamenti già positivamente raggiunti in sede di procedimento di Vas, divenuti inoppugnabili, a meno che la decisione non riveli precise scelte di tipo urbanistico idonee a supportare il rifiuto di variante.
Insomma, ha torto il comune nel ritenere che essendo il consiglio comunale l’unico organo competente a deliberare in ordine alla variante, gli atti compiuti e i comportamenti tenuti da organi diversi, in vista della finale determinazione, non avrebbero potuto avere l’effetto di ingenerare alcun affidamento.
Infatti, ha precisato il collegio, «occorre distinguere tra l’operatività del principio di tutela del legittimo affidamento che presuppone, sul piano soggettivo, l’affidamento ragionevole generato dal comportamento univoco di una amministrazione pubblica, unitariamente considerata, dalla competenza dell’organo che eserciti la potestà pubblica, rilevante, sul piano oggettivo, ai fini della legittimità dell’atto emanato» (articolo ItaliaOggi del 09.08.2013).

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocato colpevole se non è diligente. La Cassazione sulla responsabilità del professionista.
Il contrasto giurisprudenziale non libera l'avvocato dalla colpa grave. Anzi, proprio in questi casi in cui la soluzione giuridica diventa più opinabile, il professionista deve avere perizia e diligenza tali da far cadere la scelta professionale sulla soluzione che maggiormente tutela il cliente.
Per esempio, in presenza di due diverse visioni sui termini prescrizionali, il professionista deve riferirsi al termine più breve così da scongiurare possibili danni al cliente.

Lo stabilisce la Corte di Cassazione nella sentenza 05.08.2013 n. 18612.
La vicenda riguarda il contenzioso tra alcuni cittadini e una compagnia di assicurazioni, con esito di prescrizione per sopraggiunto orientamento giurisprudenziale. Avendo così perso il diritto al ristoro dei danni, i cittadini hanno denunciato il loro avvocato di responsabilità professionale, per non aver tempestivamente fatto valere i diritti dei rappresentanti.
La Corte di appello però non ha ravvisato la responsabilità in capo all'avvocato, in quanto la questione, sebbene abbia trovano un componimento in una specifica sentenza (Cassazione sezioni unite), all'epoca dei fatti era aperta e l'avvocato ha operato in presenza di «opinioni interpretative diversificate».
La cassazione, però, è di parere contrario. Infatti ritiene che la soluzione della Corte di appello confligga con il principio per cui «le obbligazioni inerenti all'esercizio dell'attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l'incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato ma non a conseguirlo. Pertanto, ai fini del giudizio di responsabilità nei confronti del professionista, rilevano le modalità di svolgimento della sua attività in relazione al parametro della diligenza fissato dall'art. 1176, secondo comma, cod. civ., che è quello della diligenza del professionista di media attenzione e preparazione. Sotto tal profilo, rientra nell'ordinaria diligenza dell'avvocato il compimento di atti interruttivi della prescrizione del diritto del suo cliente, i quali, di regola, non richiedono speciale capacità tecnica, salvo che, in relazione alla particolare situazione di fatto, che va liberamente apprezzata dal giudice di merito, si presenti incerto il calcolo del termine».
In definitiva, la corte di cassazione statuisce che l'opinabilità stessa della soluzione giuridica impone al professionista una diligenza e una perizia adeguate alla contingenza, nel senso che la scelta professionale deve cadere sulla soluzione che consenta di tutelare maggiormente il cliente e non già danneggiarlo e, dunque, nella specie egli era tenuto ad avere il comportamento riferito alla decorrenza del termine più breve (articolo ItaliaOggi del 06.08.2013).

VARIAll'Enel il taglio degli alberi pericolosi.
Enel è responsabile della manutenzione degli alberi che crescono sotto le linee aeree di distribuzione dell'elettricità, almeno nei limiti di sicurezza previsti dalla legge.

La III Sez. civile della Corte di Cassazione (sentenza 05.08.2013 n. 18609) ha riconosciuto il diritto al risarcimento degli eredi di un giardiniere deceduto 18 anni fa mentre potava una pianta ad alto fusto in un giardino privato.
Durante l'operazione l'uomo fu raggiunto dalla scarica elettrica proveniente da un cavo di rame posto a otto metri dal suolo che, stando alle risultanze del processo, aveva inavvertitamente sfiorato mentre si trovava a cavalcioni su un ramo. In primo grado il tribunale aveva escluso la responsabilità del gestore pubblico, classificando «imprudente» il comportamento del giardiniere e argomentando che la distanza minima di sicurezza fissata dalla legge (70 centimetri secondo il Dpr 1062/1962, modificato dal decreto ministeriale del 21/03/1988) è imposta dalla legge «per il corretto esercizio del servizio, e non per evitare danni a chi possa salire sui rami».
In appello però, riqualificata la responsabilità «da attività pericolose» (articolo 2050 del codice civile) in extracontrattuale (art. 2043 del codice civile), i giudici avevano riconosciuto il diritto al risarcimento per gli eredi. La Cassazione ha avallato la decisione, sottolinenando che, se non sono richieste ulteriori indagini sul fatto, nulla vieta la conversione dell'imputazione. La legge sulle distanze minime (Dpr 1062/62) pone a capo dell'Enel un obbligo inderogabile (articolo Il Sole 24 Ore del 06.08.2013).

EDILIZIA PRIVATAStop alle reclame. Niente cartelloni nei centri storici. Il Cds impone ci sia prima l'ok della Soprintendenza.
Niente pubblicità in centro storico senza il nulla osta della Soprintendenza. E non c'è nessuna lesione ingiusta degli interessi dell'impresa che si è vista, in parte, annullare i provvedimenti con i quali era stato autorizzato il posizionamento della cartellonistica pubblicitaria, dopo che da anni gli stessi erano stati collocati con il placet del comune anche in centro storico.
Ciò in quanto ciò che prevale è l'interesse pubblico al decoro.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 30.07.2013 n. 4010 affermando, tra l'altro, il carattere di beni culturali delle pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani. Nel senso dal 01.05.2004, data di entrata in vigore del codice Urbani (dlgs 22.01.2004, n. 42) non solo sugli immobili in senso stretto, ma anche per gli spazi urbani, sussiste lo specifico vincolo imposto ex lege di bene culturale.
Vincolo che, ha precisato il Collegio, non necessita di verifiche, perché è automatico a norma dell'art. 10, comma 1, del Codice, e dunque opera fin dall'entrata in vigore del codice stesso. Tra l'altro, ha osservato anche la Sezione nella citata sentenza, è infondata la critica di contraddittorietà del provvedimento di indizione della gara per il nuovo sistema di arredo urbano e di approvazione del progetto inerente l'intervento stesso e la posizione contraria della Soprintendenza, con i precedenti provvedimenti. Ciò in quanto i poteri della Soprintendenza, non possono considerarsi circoscritti alla facoltà di richiedere adattamenti e specifiche modifiche, ben potendo la stessa precludere in toto la presenza di installazioni in un determinato contesto.
Il Collegio, in sostanza, ha condiviso il rilievo del giudice di primo grado circa il fatto che anche se si fosse trattato di indicazioni stradali, nulla sarebbe mutato. La disposizione dell'art. 23, comma 7, dlgs. 285/1992 (Nuovo codice della strada), infatti, riguarda gli interessi pubblici connessi alla viabilità stradale, in primis quello della sicurezza della circolazione e quindi quelli di informazione. Nel senso che le ponderazioni di interessi si esauriscono in una comparazione tra i due.
Invece la disposizione dell'art. 49 (manifesti e cartelli pubblicitari) per i beni culturali, e art. 153 (cartelli pubblicitari) per i beni paesaggistici del dlgs 42/2004 (codice Urbani) è finalizzata alla cura dell'interesse culturale e paesaggistico. Questa seconda cura, anche per ragioni costituzionali (l'art. 9 Cost., prevede che la Repubblica tutela il patrimonio culturale), è preminente e in pratica in ogni caso condizionante la prima.
In altri termini anche nei casi in cui il Codice della strada presume la compatibilità dell'installazione, per consentire di legittimare definitivamente l'installazione, ci deve essere un concreto e positivo giudizio di compatibilità del Soprintendente che dal 01.05.2004, è con «i valori paesaggistici degli immobili o delle aree soggetti a tutela» (articolo ItaliaOggi del 06.08.2013).

URBANISTICALe osservazioni presentate dai privati ad uno strumento urbanistico si considerano meri apporti collaborativi e pertanto l’amministrazione non è onerata dall’obbligo di fornire una dettagliata motivazione delle ragioni per cui si è determinata nel senso di respingerle, “essendo sufficiente che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base del piano regolatore o della variante generale”.
In ordine al primo motivo di ricorso va ricordato che le osservazioni presentate dai privati ad uno strumento urbanistico si considerano meri apporti collaborativi e pertanto l’amministrazione non è onerata dall’obbligo di fornire una dettagliata motivazione delle ragioni per cui si è determinata nel senso di respingerle, “essendo sufficiente che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base del piano regolatore o della variante generale” (tra le più recenti si veda C.d.S. sez. III n. 2836 del 24.05.2013) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 25.07.2013 n. 939 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Va attribuita all’attività di pianificazione urbanistica un elevato tasso di discrezionalità, per il quale oneri di specifica motivazione vengono ravvisati solo qualora si verifichino le seguenti evenienze:
a) superamento degli standard minimi di cui al D.M. 02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi col Comune, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto;
c) modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.

La giurisprudenza è pacifica nell’attribuire all’attività di pianificazione urbanistica un elevato tasso di discrezionalità, per il quale oneri di specifica motivazione vengono ravvisati solo qualora si verifichino le seguenti evenienze: “a) superamento degli standard minimi di cui al D.M. 02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree; b) lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi col Comune, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto; c) modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (Cons. St., Ad. Plen., 22.12.1999, n. 24; Cons. St., IV, 09.04.1999, n. 594; Cons. St., IV, 21.05.2004, n. 3314)” (TAR Piemonte, sez. I 2071/2006) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 24.07.2013 n. 927 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'individuazione di una distanza minima delle stazioni radio base di telefonia mobile da particolari tipologie di insediamenti abitativi, in quanto essenzialmente preordinata a garantire la tutela della pubblica salute da ipotizzabili fonti di inquinamento, non costituisce attribuzione che l'amministrazione comunale può autonomamente esercitare, spettando tale competenza alla amministrazione statale, e tale conclusione vale anche per il generalizzato divieto di installazione delle stazioni radio base per la telefonia cellulare in tutte le zone territoriali omogenee a destinazione residenziale ovvero per l'introduzione di misure che, pur essendo astrattamente e tipicamente urbanistiche, quali le distanza, le altezze o altro, non sono in realtà funzionali al governo del territorio, ma alla tutela dei rischi dell'elettromagnetismo.
Secondo consolidati e condivisi principi giurisprudenziali, “l'individuazione di una distanza minima delle stazioni radio base di telefonia mobile da particolari tipologie di insediamenti abitativi, in quanto essenzialmente preordinata a garantire la tutela della pubblica salute da ipotizzabili fonti di inquinamento, non costituisce attribuzione che l'amministrazione comunale può autonomamente esercitare, spettando tale competenza alla amministrazione statale, e tale conclusione vale anche per il generalizzato divieto di installazione delle stazioni radio base per la telefonia cellulare in tutte le zone territoriali omogenee a destinazione residenziale ovvero per l'introduzione di misure che, pur essendo astrattamente e tipicamente urbanistiche, quali le distanza, le altezze o altro, non sono in realtà funzionali al governo del territorio, ma alla tutela dei rischi dell'elettromagnetismo” (TAR Piemonte, sez. I, 19.12.2008, n. 3150; TAR Catanzaro, sez. I, 03.10.2012, n. 981; Consiglio di Stato, sez, VI, 06.09.2010, n. 6473) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 23.07.2013 n. 901 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARIImmobili. La Corte di cassazione conferma la condanna del titolare di un edificio non a norma che era stato ceduto a terzi.
Il proprietario garantisce l'agibilità. Scatta l'omicidio colposo in caso di decesso dell'ospite per una fuga di gas.
Scatta la condanna per omicidio colposo per il proprietario di un appartamento inagibile che, consentendone l'uso a terzi, nonostante il cattivo funzionamento del l'impianto di riscaldamento, abbia causato la morte dell'occupante. La responsabilità è legata alla posizione di garanzia rivestita dal titolare.

Lo precisa la Corte di Cassazione, Sez. IV penale, nella sentenza 22.07.2013 n. 31356.
La vicenda ha avuto come vittima un uomo, deceduto per le lesioni causate dal crollo dell'immobile che lo ospitava. A innescare l'esplosione, era stata una fuga di gas all'interno dell'edificio, determinata –secondo l'accusa– dalla fatiscenza delle apparecchiature, sprovviste di adeguate aperture di aerazione e ventilazione. Di qui, la contestazione di omicidio colposo mossa nei confronti del proprietario dell'appartamento, colpevole di aver violato la normativa di prevenzione antincendi. L'aver consentito, poi, l'uso del bene a terzi, disattendendo l'obbligo di sgombero, ne aveva aggravato la posizione.
Assolto in primo grado –per insufficienza delle prove sul nesso causale tra le omissioni contestate e il decesso– il verdetto si ribalta in appello, e la Corte territoriale condanna l'imputato senza sconti. Dalla dinamica dei fatti, puntualizzano i giudici di secondo grado, emerge con estrema chiarezza il rapporto tra la condotta dell'imputato e la morte della vittima, cui era stato consentito l'uso di un fabbricato in cui era installato un impianto non conforme a regole cautelari. Come proprietario garante del bene –sottolinea la Corte d'appello– egli era tenuto ad adottare ogni dispositivo per assicurarne la sicurezza, o, quantomeno, a impedirvi l'accesso. Contro la sentenza arriva il ricorso: per la difesa, bisogna valutare che i locali erano stati affidati all'ospite con autonomia gestionale. Non è stata vagliata, inoltre, l'eventuale incidenza di cause alternative atte a escludere la riconducibilità del decesso a presunte carenze dell'impianto.
La Cassazione boccia il ricorso. È colpevole di omicidio colposo –spiegano i giudici di legittimità– il proprietario che abbia ceduto a terzi il godimento di un appartamento dotato di un impianto per il riscaldamento in pessimo stato di manutenzione, ove l'evento lesivo sia riconducibile al suo cattivo funzionamento. Nel sostenerlo, la Corte richiama il noto orientamento giurisprudenziale, secondo il quale il titolare di un immobile riveste una «specifica posizione di garanzia nei confronti del cessionario delle facoltà di godimento del bene». In virtù di questo ruolo, è tenuto a consegnare «un impianto di riscaldamento revisionato, in piena efficienza e privo di carenze funzionali e strutturali» (Cassazione, 34843/10).
Nel caso specifico, non poteva valere a sollevare il ricorrente dalla responsabilità penale, per il decesso della vittima, l'aver eventualmente trasferito al proprio ospite il compito di assumere in piena autonomia la gestione dei processi di ristrutturazione (circostanza, tra l'altro, non provata). Gli unici attestati di conformità, peraltro, riguardavano interventi eseguiti su parti diverse dell'impianto. È corretta, dunque, la decisione della Corte d'appello sulla colpevolezza del ricorrente, consapevole dello stato dell'immobile, e delle situazioni di rischio che ne potevano conseguire per i soggetti cui era stata consentita l'utilizzazione dell'appartamento.
Era necessario esigerne, perciò, la resa in conformità alla normativa e, comunque, il divieto di accesso a eventuali frequentatori, teso a scongiurarne ogni possibile comportamento imprudente, potenzialmente idoneo a determinare eventi lesivi. Da questa violazione di obblighi precisi deriva, senza dubbio, la «colpa idonea a integrare gli estremi del contestato delitto» di omicidio colposo.
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I punti cardine
01 | IL PRINCIPIO
Risponde di omicidio colposo, per il decesso dell'ospite, il proprietario di un appartamento inagibile, che ne abbia consentito l'uso, nonostante il cattivo funzionamento dell'impianto di riscaldamento. Responsabilità penale, legata alla posizione di garanzia che fa capo al titolare del bene, tenuto ad adottare tutte le cautele idonee a garantirne la sicurezza o, quantomeno, a impedirne l'accesso a terzi
02 | I PRECEDENTI
- Scatta la condanna per omicidio colposo, per il decesso dell'inquilino conseguente a esalazioni di monossido di carbonio provenienti dalla caldaia, per il comproprietario dell'appartamento che, occupandosi degli adempimenti legati alla locazione, sia divenuto garante del regolare funzionamento dell'impianto - Cassazione 34843/2010
- Si configura la responsabilità penale, a titolo di omicidio colposo, per il proprietario di un immobile che, non consegnando all'affittuario un impianto di riscaldamento revisionato, in piena efficienza e privo di carenze funzionali e strutturali, ne abbia provocato il decesso - Cassazione 32298/2006
03 | LA NORMA
In base all'articolo 40, comma 2, del Codice penale, non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a causarlo (articolo Il Sole 24 Ore del 05.08.2013).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, atteso che a seguito dell'istanza di sanatoria l'ordinanza di demolizione deve essere sostituita o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento sanzionatorio.
Sul punto, la giurisprudenza non fa distinzioni tra istanza di sanatoria e istanza di condono, dal momento che in entrambi i casi il provvedimento demolitorio è destinato ad essere sostituito da un nuovo provvedimento, a seconda dei casi di accoglimento dell’istanza oppure nuovamente sanzionatorio.

Infatti, secondo consolidati principi giurisprudenziali più volte affermati da questo stesso Tribunale, la presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, atteso che a seguito dell'istanza di sanatoria l'ordinanza di demolizione deve essere sostituita o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento sanzionatorio (TAR Piemonte sez. I, 07.12.2012, n. 1310; TAR Piemonte sez. II, 05.07.2012, n. 813; TAR Brescia, sez. I, 28.12.2012, n. 2022; TAR Bari, sez. III, 12.12.2012, n. 2142).
Sul punto, la giurisprudenza non fa distinzioni tra istanza di sanatoria e istanza di condono, dal momento che in entrambi i casi il provvedimento demolitorio è destinato ad essere sostituito da un nuovo provvedimento, a seconda dei casi di accoglimento dell’istanza oppure nuovamente sanzionatorio (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 12.07.2013 n. 880 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse.
Il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall’istanza di sanatoria, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ex se comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l’amministrazione dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi.

Considerato:
- che, come ritenuto da un consistente filone giurisprudenziale (cfr., ex multis, di recente, Cons. Stato, sez. IV, n. 5228 del 2011), già fatto proprio anche da questa Sezione, la presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse;
- che, infatti, il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall’istanza di sanatoria, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ex se comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l’amministrazione dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 05.07.2013 n. 865 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: È concussione imporre al privato l'affido dei lavori.
Risponde di concussione il pubblico ufficiale che costringe il proprietario di un terreno ad affidare a un terzo da lui indicato l'appalto per realizzare unità abitative, mettendo la stipula di quel contratto come condizione al rilascio di una legittima concessione edilizia.

Lo afferma la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, nella sentenza 09.07.2013 n. 29338.
Per i giudici di legittimità, la struttura astratta del rapporto tra il pubblico ufficiale e il privato era quella del cittadino che si è posto nelle condizioni di ottenere un provvedimento amministrativo (avendo soddisfatto le richieste tecniche della Pa), e tuttavia si vede negato il rilascio dell'atto di rilevante interesse economico se prima non dà un'utilità non dovuta a un terzo indicato dal pubblico ufficiale. In questa ipotesi si ha dunque –scrive la Corte– «la prospettazione (...) di un danno ingiusto che può essere evitato solo ottemperando all'intimidazione del pubblico ufficiale».
La determinazione del reato
La Cassazione è stata chiamata a stabilire se, nel caso specifico, ricorreva la concussione prevista dall'articolo 317 del Codice penale o l'induzione indebita a dare o promettere utilità, punita dall'articolo 319-quater (nuova fattispecie introdotta dalla legge 190/2012).
L'articolo 317 incriminava condotte sia di costrizione sia di induzione. Nel 2012 le due condotte sono state collocate in due reati distinti, senza che si sia creato alcun vuoto sanzionatorio e senza che il pubblico ufficiale autore di fatti-reato previsti dall'originario testo dell'articolo 317 possa beneficiare di alcuna sopravvenuta irrilevanza penale (così già Cassazione 21701/2013). Cambia la sanzione, perché la pena prevista dal l'articolo 319-quater è inferiore.
Ma come si distingue la costrizione dall'induzione?
I giudici di legittimità affermano che si può costringere anche con una minaccia o con qualsiasi forma di pressione psicologica, purché essa non lasci alcuna scelta al privato che la subisce. L'induzione va ravvisata nei casi in cui la pressione esercitata dal pubblico ufficiale lasci al privato spazi di autonomia «orientati anche da una valutazione del rapporto costo/beneficio personale». In questo senso, assume chiara efficacia discriminante non tanto la verifica dell'intensità della minaccia, quanto un'accurata indagine sul tipo di male minacciato dal pubblico ufficiale al cittadino.
Se il male si connota per la sua oggettiva ingiustizia, la vittima non ha margini di autonomia perché l'unica ragione per la quale dà o promette un'utilità al pubblico ufficiale è proprio la costrizione subita. Se invece il danno minacciato non presenta in sé un'oggettiva ingiustizia, il destinatario della sollecitazione da parte del pubblico ufficiale è allora orientato a perseguire un vantaggio personale e aderisce alle richieste da dare o promettere utilità non solo per la pressione ricevuta ma anche per la valutazione comparativa dei maggiori vantaggi che per questa via può ottenere.
Nel caso specifico, la Cassazione ha escluso che si potesse applicare l'articolo 319-quater: non si può parlare di induzione, ma di vera e propria costrizione (articolo Il Sole 24 Ore del 05.08.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIARumori azienda. Giudici divisi. Due sentenze opposte della Cassazione.
Se gli impianti tecnologici (in particolare condizionatori) a servizio di un centro commerciale arrecano disturbo non tollerabile agli occupanti dei soprastanti alloggi, il direttore va condannato.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. I penale, con la sentenza 08.07.2013 n. 28874 che ha richiamato le sue precedenti decisioni per ribadire che quando il rumore supera la normale tollerabilità scatta il reato di cui l'art. 659 Cod. pen..
Nella citata sentenza è stato anche precisato che il superamento dei valori soglia di rumorosità, stabiliti dalle competenti autorità amministrative, prodotto da una attività economica integra il reato previsto dal comma secondo dell'art. 659 cod. pen. che non è stato implicitamente abrogato dall'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma secondo, legge 26.10.1995 n. 447, che è posto a tutela del diverso bene della salute umana.
Di segno opposto, invece, un'altra recente pronuncia della medesima Sezione, (sentenza 11.06.2013 n. 25601) nella quale si afferma che dalla comparazione tra l'art. 659, commi 1 e 2, c.p. si desume che costituisce oggetto della disposizione di cui al secondo comma ogni ipotesi di esercizio di un mestiere naturalmente rumoroso, norma attenuata rispetto a quella contenuta nel primo comma, per il ritenuto necessario contemperamento tra le esigenze della quiete pubblica con quelle della produzione.
Esigenze, quest'ultime, che sono all'origine della disciplina dettata in materia di contenimento dei rumori fastidiosi, da quella relativa alle emissioni o immissioni sonore a quelle relative alle cautele da adottare in sede costruttiva o successivamente per contenere la rumorosità degli impianti produttivi.
In sostanza, con l'emanazione della legge quadro sull'inquinamento acustico (legge 26.10.1995, n. 447) il superamento dei limiti di accettabilità delle emissioni sonore integra gli estremi di un illecito amministrativo. E da ciò ne consegue che la condotta relativa, proveniente dall'esercizio di mestieri rumorosi, è stata depenalizzata, ma resta circoscritta alla violazione delle prescrizioni per rumorosità diverse da quelle concernenti i limiti delle emissioni o immissioni sonore (articolo ItaliaOggi del 09.08.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIOCondominio. Reato di disturbo alla quiete delle persone anche se a lamentarsi è un solo nucleo familiare.
No al condizionatore rumoroso.
È condannabile penalmente per disturbo alla quiete delle persone nelle loro abitazioni chi installa condizionatori rumorosi in casa sua o nel luogo dove svolge la sua attività, anche se dei rumori si lamenti solo uno dei nuclei familiari residenti nel condominio.

La Corte di Cassazione, I Sez. penale, con la sentenza 08.07.2013 n. 28874, nell'applicare questo principio, ha confermato la pronuncia emessa dal tribunale che aveva inflitto un'ammenda, con la sospensione della pena, al gestore di un centro commerciale che aveva messo dei condizionatori le cui emissioni si sentivano fino al quarto piano del condominio soprastante ed erano percepiti negli appartamenti anche a finestre chiuse.
L'imputato, a sua difesa, aveva sostenuto che non sussisteva l'elemento essenziale della fattispecie del reato previsto dall'articolo 659, comma 1, del Codice penale (disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone), ossia una rumorosità tale da disturbare una pluralità di persone e non i soli vicini (aspetto, quest'ultimo che, nel caso concreto, non era stato accertato).
Ma la Cassazione, nel respingere il ricorso, ha precisato che per la «la rilevanza penale della condotta produttiva di rumori» basta «l'incidenza sulla tranquillità pubblica, in quanto l'interesse tutelato dal legislatore è la pubblica quiete, sicché i rumori devono avere una tale diffusività che l'evento di disturbo sia potenzialmente idoneo a essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluna se ne possa lamentare». È poi coerente con la giurisprudenza della Corte che la condizione sia verificata allorché i rumori molesti siano provocati e si diffondano nell'ambito del condominio (si veda la sentenza 18517/2010 della Cassazione penale).
Il problema della rumorosità dei condizionatori è molto frequente in condominio. La legge di riforma 220/2012, ha annoverato formalmente, tra le presunte parti comuni, anche i sistemi centralizzati per il condizionamento dell'aria (articolo 1117, n. 3, del Codice civile). Nel caso di rumorosità di un impianto che superi la normale tollerabilità, in base all'articolo 844 del Codice civile, l'amministratore del condominio deve intervenire in modo da assicurarne il miglior godimento a ciascuno dei condomini.
Egli ha la legittimazione passiva dell'azione inibitoria del danneggiato prevista dal l'articolo 844 del Codice civile per fare cessare le immissioni intollerabili mentre non ha la legittimazione per l'azione di risarcimento dei danni derivanti dalle immissioni, che spetta ai proprietari delle singole unità immobiliari i cui patrimoni risultano lesi (articolo Il Sole 24 Ore del 05.08.2013).

AGGIORNAMENTO AL 09.08.2013

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UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: PRINCIPALI INTERVENTI NORMATIVI DI SEMPLIFICAZIONE PER LE IMPRESE ADOTTATI A LIVELLO NAZIONALE NEL PERIODO 2008‐2012 - Guida ragionata delle disposizioni normative (Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, giugno 2013).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: G.U. 08.08.2013 n. 185 "Patto di stabilità interno per il triennio 2013-2015 per le provincie e i comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti (articoli 30, 31 e 32 della legge 12.11.2011, n. 183, come modificati dalla legge 24.12.2012, n. 228)" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, circolare 07.02.2013 n. 5).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 08.08.2013 n. 185 "Modifiche agli articoli 3 e 6 del decreto 26.02. 2013, in materia di procedure di monitoraggio sullo stato di attuazione delle opere pubbliche" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 01.08.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: OGGETTO: PRIMI INDIRIZZI REGIONALI IN MATERIA DI AUTORIZZAZIONE UNICA AMBIENTALE (AUA) (Regione Lombardia, circolare 05.08.2013 n. 19).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Chiarimenti in merito all'applicazione delle disposizioni di cui al decreto-legge 04.06.2013, n. 63 come convertito, con modificazioni, dalla legge 03.08.2013, n. 90, in materia di attestazione della prestazione energetica degli edifici (Ministero dello Sviluppo Economico, nota 07.08.2013 n. 16416 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: PRIME NOTE INTERPRETATIVE RELATIVE ALLA ALLEGAZIONE DELL’APE (attestato prestazione energetica) A PENA DI NULLITA’ (anche per gli atti traslativi a titolo gratuito) (Consiglio Nazionale del Notariato, 07.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Oggetto: Dichiarazioni in catasto di Unità Collabenti (categoria F/2) (Agenzia delle Entrate, Direzione Centrale Catasto e Cartografia, nota 30.07.2013 n. 29440 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI: NOTA INTERPRETATIVA ANCI SU VIGENZA ED OPERATIVITA’ DELLE COMMISSIONI DI VIGILANZA SUI LOCALI DI PUBBLICO SPETTACOLO (ANCI, 25.07.2013).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: F. Vanetti, Terre e rocce da scavo e riporti: i decreti «Emergenze» e «Fare» introducono ulteriori dubbi (Ambiente & Sviluppo n. 8-9/2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Spina, Le immissioni intollerabili nella recente giurisprudenza di legittimità (Ambiente & Sviluppo n. 8-9/2013).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consiglio, sedute distinte. Senza numero legale, seconda convocazione. È legittimo trattare solo gli argomenti all'odg della nuova seduta.
È regolare lo svolgimento di una seduta consiliare, il cui ordine del giorno includeva argomenti di prima e di seconda convocazione se, a seguito di accertata mancanza del numero legale, i lavori venivano fatti proseguire per la trattazione dei soli argomenti di seconda convocazione?

L'art. 38, comma 2, del Tuel n. 267/2000 demanda la disciplina del funzionamento del consiglio comunale al regolamento consiliare che, nell'ambito dei principi stabiliti dallo statuto, stabilisce anche le modalità per la convocazione e per la presentazione e la discussione delle proposte. Lo stesso comma 2 del citato art. 38 prevede che il regolamento indichi il numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute, prescrivendo come unico limite la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente.
Nella fattispecie, il regolamento consiliare del comune disciplina le sedute di prima e seconda convocazione prevedendo, per la validità della seduta di prima convocazione, la presenza di almeno la metà dei consiglieri assegnati al comune e stabilendo che, qualora in corso di seduta si accerti che il numero dei consiglieri sia inferiore a quello necessario, il presidente dichiara deserta la stessa «per gli argomenti a quel momento rimasti da trattare».
La norma regolamentare richiede inoltre, per la validità della seduta di seconda convocazione, che intervengano almeno un terzo dei membri del consiglio e prevede che «la seduta che segue a una prima iniziatasi col numero legale dei presenti ed interrotta nel suo corso per essere venuto meno il numero minimo dei consiglieri, è pure di seconda convocazione per gli affari rimasti da trattare nella prima».
Le richiamate disposizioni regolamentari, in particolare per quel che concerne il numero minimo di consiglieri presenti alle sedute, sono coerenti con le previsioni di legge.
Sulla problematica sollevata il Tar Campania, seppure con una risalente sentenza del 12.12.1985, n. 397, ha ritenuto che «perché possa parlarsi di seduta di seconda convocazione, non è necessario che la mancanza del numero legale si sia verificata a inizio di seduta ma può anche constatarsi in corso di seduta. In tali casi occorrerà tener presente che non si avrà seduta di seconda convocazione per quegli oggetti che siano stati rinviati oppure discussi ma non deliberati, mentre si avrà seduta di seconda convocazione per quei punti dell'ordine del giorno che non è stato possibile trattare a causa della sopravvenuta mancanza del numero legale».
Pertanto, si ritiene che la procedura adottata dall'ente sia conforme alle previsioni regolamentari (articolo ItaliaOggi del 02.08.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Sindaco eletto alla Camera.
Quali effetti determina sull'amministrazione locale l'eventuale elezione del sindaco alla camera dei Deputati?
Sul tema si richiamano le disposizioni di cui all'art. 13, comma 3, decreto legge 13.08.2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14.09.2011, n. 148, che prevede una nuova ipotesi d'incompatibilità, applicata per la prima volta a decorrere dall'attuale legislatura, tra le cariche di deputato e quelle di sindaco con popolazione superiore ai 5.000 abitanti.
La stessa norma riconosce all'interessato l'esercizio dell'opzione per la carica sopraggiunta (articolo ItaliaOggi del 02.08.2013).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALII comuni a rischio default possono vendere i propri immobili.
Patrimonio immobiliare degli enti locali a rischio default in vendita. Utilizzandone i proventi per mettere una toppa ai bilanci.

Dopo che la sezione autonomie della Corte dei conti (con delibera 20.05.2013 n. 14) ha ritenuto che il generale divieto di usare gli incassi delle cessioni immobiliari per la copertura dei disavanzi non debba valere per gli enti in predissesto, vista l'eccezionalità della situazione economica nazionale, arriva ora la prima legge regionale a istituzionalizzare il principio anche sul piano normativo per quanto riguarda l'edilizia residenziale pubblica, ancora soggetta a limitazioni.
Si tratta della legge 02.05.2013, n. 20 della regione Calabria, che ha passato il 26 giugno scorso il vaglio del Consiglio dei ministri venendo giudicata pienamente legittima. La legge, che modifica la disciplina del 1996, si avvia a essere assunta come modello anche dalle altre amministrazioni regionali, come ha spiegato Stefano Pozzoli, professore ordinario di ragioneria generale all'università degli studi di Napoli Parthenope, il 29 luglio scorso nel corso di un convegno svoltosi in consiglio regionale a Reggio Calabria.
La disciplina copre un vulnus normativo parificando la situazione degli enti in predissesto a quella degli enti in dissesto, che possono utilizzare qualsiasi tipo di provento per mettere a posto i bilanci. Nella legge si individua dunque una strada alternativa per le amministrazioni che hanno in atto piani di riequilibrio finanziari pluriennali (solo in Calabria sono oltre 60). Non soltanto aumento delle tasse ma anche valorizzazione del patrimonio immobiliare con un duplice scopo: consentire alle famiglie di divenire proprietarie delle case in cui vivono e garantire ai comuni un gettito extra utile alla parziale sistemazione dei conti in rosso, depennando peraltro dai bilanci l'onerosa voce delle spese di manutenzione.
«Ora le amministrazioni locali devono preoccuparsi di razionalizzare la spesa, prendendo atto che il mutato contesto dalla finanza locale lo rende necessario: è più facile e comodo aumentare le tasse (in teoria), ma non è la strada giusta. E non si usi il comodo alibi di dire che è un obbligo di legge, perché non è così: il comma 8 dell'art. 243-bis del Tuel, quello sul predissesto, è chiaro: si può, e non si deve, aumentare le imposte. Ma è una possibilità di cui non si deve approfittare in un momento come questo, in cui è anzi necessario lavorare per ridurre le imposte, a tutti i livelli di governo», ha commentato Giuseppe Scopelliti, presidente della regione Calabria (articolo ItaliaOggi del 02.08.2013).

NEWS

EDILIZIA PRIVATAIL DECRETO DEL «FARE»/ Niente semplificazioni per le ricostruzioni. Nuova legge Sabatini estesa anche all'Ict - Stop all'uso del fax nella Pubblica amministrazione.
L'ESAME AL SENATO/ Accantonato l'emendamento dell'esecutivo sugli stipendi dei manager. Sospesi i pagamenti dei canoni per concessioni demaniali.
Governo battuto a sorpresa sulla modifica della sagoma degli edifici nei casi di demolizione e ricostruzione. Venerdì notte è stato approvato dalle commissioni Bilancio e Affari costituzionali un emendamento della senatrice Pd Lucrezia Ricchiuto che cancella una delle semplificazioni-chiave del decreto legge del fare. Si torna all'antico: per ricostruire un edifico cambiandone la sagoma sarà necessario il permesso di costruire; l'intervento semplificato con Scia che il decreto legge prevedeva e la Camera aveva approvato con molta sofferenza salta.
A votare l'emendamento il Pd e il Movimento Cinque stelle. Chi pensa a un segnale politico al Governo e al Pdl è confortato dal fatto che la presentatrice dell'emendamento è una dei tre dissidenti del Pd che avevano votato la sfiducia ad Angelino Alfano.
Lo schiaffo delle commissioni è soprattutto al ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, che alla Camera si era battuto per far passare la norma. Dopo due giorni di scontro, ne era venuto fuori un compromesso con il pd Morassut che prevedeva di salvare la semplificazione nei centri storici, a condizione che il comune deliberasse esplicitamente le zone in cui questo era possibile.
Compromesso azzerato ieri. La norma è molto complessa. In sostanza il Dl spostava dalla categoria «ristrutturazione urbanistica» a quella «manutenzione straordinaria» l'intervento di demolizione e ricostruzione con modifica della sagoma. Prima del Dl era compresa nella «manutenzione straordinaria» -e così torna a essere con la conversione del decreto- la demolizione e ricostruzione con volumetrie e sagoma invariate, mentre apparteneva alla categoria della «ristrutturazione urbanistica» la demolizione e ricostruzione in cui uno di questi due elementi (volume e sagoma) fosse modificato. La norma azzerata consentiva di mutare sagoma restando nella «manutenzione straordinaria».
La differenza sul piano pratico non è di poco conto (anche se bisognerà valutare le incongruenze che restano nel decreto per la permanenza di alcune norme accessorie). Per la «ristrutturazione urbanistica» occorre -secondo il TU dell'edilizia e gran parte delle leggi regionali- il rilascio da parte del comune del permesso di costruire. Per la «manutenzione straordinaria» si può invece procedere con Scia (segnalazione certificata di inizio attività), avviando i lavori 60 giorni dopo aver presentato domanda.
Nella seduta notturna di venerdì le commissioni hanno approvato anche modifiche su imprese e Pubblica amministrazione. L'esame riprenderà domani mattina con l'obiettivo di un rapido via libera, perché il testo è atteso in Aula nel pomeriggio. Da segnalare l'accantonamento di diversi temi caldi, a partire dall'emendamento del governo sul tetto agli stipendi dei manager sul quale manca l'accordo nella maggioranza. Accantonato anche l'emendamento per le agevolazioni fiscali alle tv locali.
Approvata invece l'estensione della nuova legge Sabatini. Anche gli investimenti in hardware, in software e in tecnologie digitali saranno inclusi tra i beni per i quali le Pmi possono usufruire del credito agevolato nell'ambito di un plafond di 2,5 miliardi anticipati dalla Cassa depositi e prestiti alle banche. Novità rilevanti anche sul Fondo di garanzia per il credito. Viene ripristinata la riserva del 30% delle risorse per operazioni di contro-garanzia dei Confidi. Passa poi il compromesso sulla quota da riservare a interventi di taglia inferiore (non oltre 500mila euro d'importo garantito per impresa): la riserva viene ripristinata, ma scende dall'80 al 50%.
Stop all'uso dei fax nella Pa. Un emendamento di Lega e Pd dispone che le comunicazioni dovranno avvenire per via telematica ed «è in ogni caso esclusa la trasmissione di documenti a mezzo fax». Un emendamento di analogo contenuto era già stato proposto alla Camera ma era poi sfumato per il parere contrario del governo rappresentato dal sottosegretario allo Sviluppo Claudio De Vincenti.
Vengono sospesi, fino al 15 settembre, i pagamenti dei canoni per le concessioni demaniali per le spiagge, anche se sono «stati iscritti al ruolo esattoriale e siano state emesse le cartelle». Nasce inoltre il dossier farmaceutico all'interno del fascicolo sanitario elettronico, a cura del farmacista che dispensa i medicinali. Con una modifica applicativa al bonus fiscale per i gestori di carburanti, si sblocca la liberalizzazione della rete permettendo la definizione di forme contrattuali sostitutive rispetto al contratto di fornitura standard.
Scattano deroghe alla spending review nella Pa sugli acquisti di mobili e arredi nel caso di spese destinate «all'uso scolastico e dei servizi all'infanzia». Poteri da commissario per i sindaci nella gestione dei fondi per la messa in sicurezza delle scuole (articolo Il Sole 24 Ore del 04.08.2013).

EDILIZIA PRIVATAApe, ok solo su nuove locazioni. Certificato non necessario in caso di rinnovi contrattuali. Le linee guida del notariato sull'obbligo dell'Attestazione di prestazione energetica.
L'obbligo di presentare l'Attestazione di prestazione energetica (Ape) vale solo per i nuovi contratti di locazione. La previsione, contenuta nel dl 63/2013, non si applica, infatti, ai contratti di locazione, leasing e affitto d'azienda che devono essere oggetto solo di rinnovo. L'obbligo di presentazione dell'Ape è, inoltre, previsto per i contratti di compravendita, o meglio per tutti quei contratti che immettono nel mercato immobiliare edifici che comportano un consumo energetico.
Questo è quanto emerge dalle prime note interpretative fornite dal Consiglio nazionale del notariato, in seguito alle modifiche che il decreto ecobonus ha apportato all'art. 6, comma 3-bis del dlgs 192/2005, recante norme per l'attuazione della direttiva 2002/91/Ce, relativa al rendimento energetico nell'edilizia.
La norma, così come modificata, prevede la sanzione della nullità assoluta del contratto di compravendita o locazione, nel caso in cui, al momento della stipula, l'Ape non sia allegata.
Gli oneri in caso di locazione. Il dl 63/2013, la cui legge di conversione, licenziata giovedì dalla camera, sarà pubblicata oggi in Gazzetta Ufficiale, ha stabilito che in caso di stipula di un contratto di locazione è necessaria, a pena di nullità assoluta del contratto, l'allegazione dell'Attestato di prestazione energetica. La norma però, si limita genericamente a parlare di locazione, senza entrare troppo nel dettaglio. Dalle linee guida dettate dal Consiglio nazionale emerge, però, che la norma non deve essere applicata tout court a ogni tipo di contratto di locazione, ma solo a quelli nuovi.
Il dlgs 192/2005, recante norme per l'attuazione della direttiva 2002/91/Ce relativa al rendimento energetico nell'edilizia stabilisce, infatti, che «l'Ape deve essere rilasciato solo per unità immobiliari costruite, vendute o locate a un nuovo locatario». Diretta conseguenza di questa previsione, l'applicazione dell'obbligo di presentazione dell'Ape, sempre a pena di nullità, anche per la stipula di contratti di leasing (aventi a oggetto un edificio comportante consumo energetico) e la stipula di contratti d'affitto d'azienda (avente per oggetto un edificio comportante consumo energetico). Il tutto, fermo restando la regola del nuovo contratto.
Atti traslativi. Non meno complessa la questione relativa ai contratti di compravendita. La norma, infatti, stabilisce che l'attestato di prestazione energetica debba essere allegato al contratto di vendita e a tutti gli atti a titolo gratuito, lasciando in questo modo il dubbio circa gli adempimenti in caso di atti a titolo oneroso. Proprio a sviscerare questo dubbio è intervenuto il Consiglio nazionale del notariato. «Una limitazione dell'applicabilità della nuova disciplina al solo atto di vendita», si legge nelle linee guida dei notai, «apparirebbe poco coerente con quelli che sono gli scopi che si intendono perseguire, ragion per cui, in prima battuta, se ne deve ammettere l'applicazione all'atto di permuta».
Non è, però, finita qui. Nelle linee guida è, infatti, specificato che «ritenendo opportuno adottare un'interpretazione estensiva della norma per quanto riguarda gli altri atti traslativi a titolo oneroso, si dovrà ritenere plausibile la sussistenza dell'obbligo di allegazione, in occasione della stipula di tutti quei contratti che comportino l'immissione nel mercato immobiliare e la successiva commercializzazione, di edifici con un consumo energetico». La conseguenza. Se, da un lato, l'art. 6, comma 3-bis, stabilisce l'obbligo di allegazione dell'Ape a pena di nullità del contratto, non viene però precisato di che tipo di nullità si tratta.
A questo proposito, i notai hanno fatto presente come, il tipo di nullità in questione sia da intendersi in senso assoluto. «Diretta conseguenza della scelta operata dal legislatore», hanno spiegato i notai, «è il fatto che la nullità, non solo può essere fatta valere da chiunque ed essere rilevata d'ufficio dal giudice, ma anche che, l'azione per far dichiarare la nullità non è, quindi, soggetta a prescrizione e il contratto nullo, non può essere convalidato» (articolo ItaliaOggi del 03.08.2013).

APPALTI: Dl fare, Durt verso la cancellazione. Manager, tetto agli stipendi a due vie.
Si va verso la cancellazione al senato del Durt, il documento unico di regolarità tributaria introdotto nel dl fare alla camera.

La conferma è arrivata da uno dei relatori al decreto, il senatore Paolo Guerrieri Paleotti (Pd). «Il governo», ha affermato, «dovrà prendere atto che l'intero arco di forze politiche ritiene che questo emendamento, non per gli obiettivi ma per il modo in cui li persegue, vada cancellato. Non si può, per un provvedimento che si prefigge di semplificare la vita degli imprenditori, complicargliela ulteriormente».
Per il tetto ai compensi dei manager pubblici arriva un sistema differenziato per le società non quotate controllate da società con titoli quotati rispetto a quelle controllate da società emittenti altri strumenti finanziari.
Lo prevede un emendamento del governo depositato nelle commissioni affari costituzionali e bilancio di palazzo Madama, che corregge una disposizione introdotta dalla camera. La norma prevede che il tetto ai compensi dei manager non si applica soltanto alle società controllate da capogruppo con titoli azionari quotati. Il relatore ha spiegato che si sta lavorando anche sul tema della base degli operatori che hanno accesso alle garanzie per il credito.
In particolare sulla possibilità che la base sia ulteriormente allargata ad altri comparti, come per esempio quelli dell'agricoltura, della pesca e piccole imprese. Altro tema importante riguarda le agevolazioni per chi acquista beni strumentali tra cui potrebbero rientrare anche beni non tangibili come il software (articolo ItaliaOggi del 03.08.2013).

APPALTI: Appalti, diventa obbligatoria l'anticipazione del 10%.
FONDI UE AL PIANO CITTÀ/ Sarà la Conferenza delle Regioni a definire una lista di progetti urbani cui si potranno destinare i fondi comunitari a rischio spesa.

Torna nella notte al Senato, in commissione Bilancio, la discussione sull'anticipazione del 10% per gli appalti di lavori pubblici. La Camera l'aveva reintrodotta, eliminando il divieto imposto fin dalla legge Merloni ma lasciando al tempo stesso alle amministrazioni appaltanti la scelta discrezionale di applicarla o meno. Ora a Palazzo Madama si affaccia un emendamento, concordato dai relatori con i gruppi di maggioranza e il Governo, che esclude la facoltatività per passare invece a un regime obbligatorio.
Nel testo le parole «è possibile» vengono sostituite con le parole «è prevista» e, quel che è più rilevante, viene soppressa la condizione introdotta dalla Camera che l'anticipazione si sarebbe pagata «purché la stessa sia già prevista e pubblicizzata nella gara di appalto». L'amministrazione non potrebbe più aggirare ora l'istituto reintrodotto limitandosi a non segnalarlo nel bando di gara.
L'emendamento possiede anche il timbro esplicito della Ragioneria generale che aveva una perplessità specifica per gli appalti di durata pluriennale. In passato, l'anticipazione data dall'amministrazione pubblica all'impresa per avviare il cantiere veniva poi riassorbita nell'arco dei pagamenti dei primi due anni. La Ragioneria generale temeva che l'anticipazione potesse comportare anche una maggiore erogazione di cassa nell'anno in corso rispetto alle previsioni di spesa. Per questo ha preteso l'inserimento nel testo di un paletto che mette al riparo da questo rischio. «Nel caso di contratti di appalto relativi a lavori di durata pluriennale -afferma l'emendamento- l'anticipazione va compensata fino alla concorrenza dell'importo sui pagamenti effettuati nel corso del primo anno contabile».
Il problema sollevato potrebbe riproporsi qualora il contratto di appalto fosse sottoscritto nell'ultimo trimestre dell'anno. In questo caso -afferma un comma ulteriormente aggiunto alla disposizione- «l'anticipazione è effettuata nel primo mese dell'anno successivo ed è compensata nel corso del medesimo anno contabile». Una posizione più rigida di quella presente in tutti gli emendamenti di origine parlamentare che ammettevano il pagamento nell'ultimo trimestre dell'anno ma solo fino a un importo di 90,8 milioni. La cifra corrisponde alle risorse previste nella legge di stabilità 2013 per l'allentamento del patto di stabilità interno, ma non utilizzate dalle Regioni entro la data del 30.06.2013.
Su un altro emendamento in materia di infrastrutture si registra una larga convergenza tra forze politiche di maggioranza, relatori e Governo. È la modifica all'articolo 9 che prevede la destinazione ai progetti del «piano città» non ancora finanziati dei fondi Ue a rischio di spesa nella fase finale della programmazione 2007-2013.
Nel testo della Camera si prevedevano «accordi diretti» fra le «autorità di gestione dei programmi operativi» e i singoli comuni, scavalcando di fatto le Regioni e senza una priorità chiara fra i progetti. Ora verrebbe reintrodotto il livello regionale: sarà la Conferenza delle regioni a stilare, entro 90 giorni, una lista di possibili interventi dotati delle caratteristiche tecnico-finanziarie di ammissibilità (articolo Il Sole 24 Ore del 03.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Immobili. Il Governo correggerà il Dl Ecobonus che inficia i trasferimenti senza documento ma l'intervento non sarà immediato.
Attestati energetici, nodo nullità.
Il sottosegretario Vicari: «In ogni caso servono meccanismi di controllo sostitutivi»
I TEMPI/ Quasi impraticabile la strada di un ritocco nel Dl del Fare Forse l'intervento con il Dl del Fare 2.
Il Governo intende rimettere mano alla normativa sul nuovo attestato di prestazione energetica (Ape) contenuta nel decreto ecobonus (Dl 63/2013) convertito in legge giovedì scorso. L'obiettivo è quello di eliminare la sanzione della nullità assoluta degli atti di trasferimento di immobili a cui non sia stato allegato il documento, ma in alternativa si dovrà prevedere un meccanismo in grado di garantire la verifica dell'esistenza dell'Ape al momento della stipula. Come conseguenza, è difficile che sia presentato un emendamento sul punto nel Dl del fare oggetto di discussione in Aula in questi giorni, come emerso in un primo momento, mentre più probabile potrebbe essere il suo inserimento in un decreto del fare 2 se verrà messo in cantiere, come sembra, l'8 o il 26 agosto prossimi.
Il problema nasce dall'inserimento del comma 3-bis all'articolo 6 del Dl 63/2013 nel testo convertito in legge. In esso si è stabilito che l'Ape, destinato a sostituire il vecchio Ace (attestato di certificazione energetica), «deve essere allegato al contratto di vendita, agli atti di trasferimento di immobili a titolo gratuito o ai nuovi contratti di locazione, a pena di nullità degli stessi».
«Questa norma –ha sottolineato ieri Simona Vicari, sottosegretario al ministero dello Sviluppo economico– nasce alla luce della reiterata mancata applicazione delle prescrizioni della Commissione europea in tema di efficienza energetica in edilizia da parte dell'Italia, che ci aveva portato a una procedura d'infrazione e a una condanna della Corte di giustizia europea. Era quindi necessario agire per evitare pesanti sanzioni economiche all'Italia».
Il Governo, come anticipato, è disponibile a rivedere quanto stabilito dalla nuova legge in riferimento alla nullità dei contratti, ha confermato Vicari, «ma deve essere chiaro che sarà necessario prevedere dei meccanismi che consentano di verificare l'esistenza di tale documentazione all'atto della stipula di un contratto o di una compravendita. In pratica, le modifiche che potranno essere apportate dovranno comunque garantire una piena conoscenza e conoscibilità dell'Ape. Questo ce lo chiede la Ue e a questo obbligo comunitario dobbiamo necessariamente attenerci».
Prima di conoscere le intenzioni del Governo, la previsione di nullità assoluta dell'atto per il quale non si fosse adempiuto all'obbligo di allegazione dell'Ape aveva allarmato per motivi diversi sia il Consiglio nazionale del notariato, sia Confedilizia, anche perché destinato a scavare un solco rispetto alla prassi precedente. Se nel testo originario del Dlgs 192/2005 la presenza dell'Aqe (poi Ace) era stata prescritta a pena di nullità, il Dl 112/2008 aveva però poi soppresso la sanzione e l'obbligo di "dotazione" era stato da allora interpretato come norma derogabile.
Un'offerta di collaborare al restyling della norma è giunta ieri dagli stessi notai, da cui sono arrivate anche le prime note interpretative (si legga anche l'articolo più in basso). «Il notariato –ha detto il consigliere nazionale Domenico Cambareri– è ben consapevole degli interessi generali, ribaditi dalla Ue e stabiliti con il Protocollo di Kyoto, che possono essere perseguiti anche con l'obbligo di allegazione dell'Ape. In particolare, l'allegazione all'atto notarile dà maggiore certezza alla documentazione energetica e la rende immediatamente conoscibile nella fase della successiva circolazione del bene. Il notariato è disponibile a collaborare con il Governo per trovare possibili soluzioni volte a migliorare l'attuale disciplina, senza tradire lo spirito delle norme imposte a livello europeo».
«Siamo grati al Senato e al Governo per la pronta percezione della gravosità di una previsione che non solo avrebbe imposto obblighi cartacei e burocratici di nessun giovamento –ha sottolineato a sua volta il presidente della Confedilizia, Corrado Sforza Fogliani– ma avrebbe peraltro dato un segnale di estrema pericolosità ai mercati della compravendita e, in particolare, della locazione, che già fortemente languono».
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L'interpretazione. Il vincolo vale per donazioni, permute, conferimenti, rendite vitalizie.
Obbligo per tutti gli atti traslativi.
OLTRE IL FEDERALISMO/ Le regole regionali in fuorigioco poiché la disciplina contrattuale costituisce esclusiva dello Stato.

Nullità per i contratti di «vendita», per gli «atti di trasferimento di immobili a titolo gratuito» e per i «nuovi contratti di locazione» se l'attestato di prestazione energetica (Ape) non sia «allegato al contratto»: è questa la novità, dirompente, della legge di conversione del Dl 63/2013, in tema di prestazione energetica nell'edilizia (il cosiddetto dl "ecobonus"), la quale introduce, con tale tenore letterale, il nuovo comma 3-bis all'articolo 6 del decreto legislativo. 192/2005.
La novità è dirompente perché dispone una sanzione civilistica gravissima, quando invece l'introduzione, con il Dl 63/2013, di un largo panorama di notevoli sanzioni pecuniarie, aveva fatto credere che, sul discorso sanzionatorio in tema di Ace/Ape fosse stata posta la parola fine. La norma finirà inevitabilmente per porre seri ostacoli alla contrattazione immobiliare, almeno per qualche tempo (e cioè fino a che gli operatori non avranno preso dimestichezza con questa complicata materia).
I temi che la norma solleva sono molteplici e, in taluni casi, niente affatto semplici. Anzitutto, va notato che la nuova disciplina ha un ampio spettro applicativo: essa si occupa infatti di qualsiasi contratto di «vendita» (e quindi anche i contratti che abbiano a oggetto solo quote di comproprietà oppure diritti reali parziari), di qualsiasi atto «a titolo gratuito» (e quindi, ad esempio, di donazioni, di patti di famiglia e di trust traslativi) e di qualsiasi nuovo contratto di locazione.
Quanto ai contratti traslativi a titolo oneroso, ci sarà da verificare se la nuova norma riguardi le sole compravendite, come il suo dato testuale farebbe pensare, oppure se essa concerna qualsiasi tipologia di atto traslativo: permute, conferimenti in società, transazioni, rendite vitalizie eccetera. Su questo punto c'è da dire, da un lato, che finora l'interpretazione della normativa sull'Ace/Ape era stata largheggiante e che, in tal senso, farebbe deporre l'ampio spettro della nuova norma quando essa concerne gli «atti di trasferimento di immobili a titolo gratuito»; d'altro lato, essendo invece oggi disposta la sanzione di nullità, si potrebbe pensare a una interpretazione più rigorosa, perché, quando si parla di sanzioni, specie se pesanti, per principio generale l'attività di interpretazione si fa inevitabilmente restrittiva.
Peraltro, è molto probabile che la soluzione in senso estensivo sia destinata a prevalere, se è vero che, già dalle primissime note interpretative del Consiglio nazionale del Notariato, si propende nettamente per questa opinione; in altri termini, solo le divisioni, in quanto negozi non traslativi ma dichiarativi, si sottrarrebbero alla nuova norma, la quale invece riguarderebbe dunque qualsiasi tipologia di contratto a titolo oneroso che abbia come effetto il trasferimento della proprietà o di diritti reali immobiliari.
Altro problema sarà quello di stabilire che valenza abbiano le norme regionali emanate in materia di Ace/Ape con riguardo all'attività negoziale. Essendo la materia contrattuale sottratta per definizione al legislatore regionale (articolo 117, comma 2, lettera l) della Costituzione) ed essendo disposta una sanzione così grave come la nullità ad opera della legge statale, inevitabilmente ciò finisce per mettere fuori gioco qualsiasi altra prescrizione di rango gerarchico inferiore.
Il problema più imbarazzante sarà senz'altro quello che la mancanza del certificato è destinata, quasi inevitabilmente, a essere parificata a un certificato irregolare o difettoso e, insomma, non redatto come vorrebbe la disciplina applicabile. Tra l'altro, non sarà facile controllare la congruenza dei singoli certificati, spesso redatti in base a prassi localistiche e quindi privi di uniformità.
Ancora, si tratta di capire se, nelle Regioni che abbiano legiferato in tema di Ace, si possa ancora o non si possa più allegare l'Ace al posto dell'Ape (e, almeno, gli Ace emanati prima del 6 giugno). La risposta pare essere positiva, come confermato dalle prime note interpretative diramate dal consiglio nazionale del Notariato (articolo Il Sole 24 Ore del 03.08.2013).

VARIIn Gazzetta. Oggi la pubblicazione. Per mobili e lavatrici il bonifico «parlante» è valido dal 6 giugno.
LA PRECISAZIONE/ La causale del versamento deve indicare alla banca la necessità di effettuare la ritenuta del 4% nei confronti del beneficiario.

Da domani, dovrebbero essere possibili, per le persone fisiche, i pagamenti agevolati al 50% per l'acquisto dei grandi elettrodomestici e al 65% per i condizionatori (anche estivi, ma con pompa di calore efficiente), degli scaldacqua verdi, degli impianti geotermici a bassa entalpia o per l'adozione di misure antisismiche.
È questa la conseguenza della probabile pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale» di oggi della legge che ha convertito il decreto ecobonus. Queste agevolazioni, infatti, non erano presenti nell'originario decreto legge 04.06.2013, n. 63. Circa la durata del bonus per mobili e grandi elettrodomestici la conversione in legge non ha posto alcun limite finale, rendendo ora difficile un'interpretazione che limiti l'incentivo al 31.12.2013. Ciò nonostante, si consiglia di effettuare i pagamenti entro l'anno (principio di cassa).
Tranne che per le misure antisismiche, per tutti gli altri interventi sembra probabile, però, che prevalga la retroattività al 06.06.2013 delle modifiche introdotte, la quale consentirebbe di considerare validi, ai fini della detrazione fiscale, anche tutti i pagamenti effettuati dai privati da questa data in poi, tramite bonifico parlante.
La causale del versamento può essere anche descrittiva (ad esempio, «detrazione del 50% per le spese di manutenzione straordinaria»), se consente all'istituto bancario o postale, che accredita l'importo sul conto corrente del beneficiario, di capire che deve trattenere la ritenuta d'acconto del 4 per cento. Ma se chi accredita il bonifico all'impresa, non trattiene la ritenuta d'acconto del 4%, questa omissione è imputabile al contribuente, se ha «compilato il bonifico in modo tale da non permettere alla banca di codificare il versamento come soggetto alla ritenuta d'acconto» (risoluzione Dre Piemonte 901-184/2013, protocollo 2013/41381).
Se la fonte normativa viene inserita, deve essere quella corretta: quindi, per il 36-50% (65% per le misure antisismiche) va indicato l'articolo 16-bis, Dpr 22.12.1986, n. 917 (anche Dpr 917/1986 o Tuir), mentre per il 55-65% l'articolo 1, commi da 344 a 347, legge 27.12.2006, n. 296 (anche legge 296/2006 o Finanziaria 2007).
La detrazione Irpef del 36% (50% per i pagamenti effettuati dal 26.06.2012 al 31.12.2013) è rivolta alle persone fisiche, imprese, professionisti e società di persone e agevola le manutenzioni (ordinarie, solo per le parti comuni condominiali), le ristrutturazioni edilizie e i restauri e risanamenti conservativi. Agli stessi soggetti è rivolta la detrazione Irpef del 50% per i mobili e i grandi elettrodomestici di classe non inferiore alla A+, nonché A per i forni. Il bonus del 65% per le misure antisismiche (costruzioni adibite ad abitazione principale o ad attività produttive) è rivolta a tutti i contribuenti e dovrà essere chiarito se si dovranno applicare le regole del 36-50% o del 55-65% (ad esempio, principio di competenza per i soggetti Ires e invio della scheda tecnica all'Enea).
La detrazione Irpef ed Ires del 55% (65% per i pagamenti dal 06.06.2013 al 31.12.2013), infine, si applica a tutti i contribuenti per i pannelli solari termici (non fotovoltaici), impianti di climatizzazione invernale, condizionatori (anche estivi, ma con pompa di calore efficiente), scaldacqua verdi, impianti geotermici a bassa entalpia, pareti isolanti, coperture, pavimenti, finestre e riqualificazione energetica generale degli edifici (articolo Il Sole 24 Ore del 03.08.2013).

EDILIZIA PRIVATAEcobonus, l'Ape è obbligatoria. Senza il certificato nulli i contratti di vendita e locazione. Il decreto energia convertito in legge impone l'Attestazione di prestazione energetica.
Il decreto energia (63/2013) è legge. Con 249 voti favorevoli e 2 contrari, ieri l'Aula di palazzo Madama ha dato il via libera alla versione del testo uscita pochi giorni fa da Montecitorio. Rispettata, quindi, sul filo del rasoio, la scadenza del 4 agosto (si veda ItaliaOggi del 31 luglio).
Resta ancora aperta, però, la questione relativa all'obbligatorietà dell'Attestato di prestazione energetica, a pena di nullità del contratto, in caso di compravendite di immobili e locazioni. «La previsione è stata introdotta durante la seconda lettura alla Camera», ha spiegato a ItaliaOggi il presidente della Commissione finanze del Senato, Mauro Maria Marino, «senza considerare gli effetti che una norma di questo tipo potrebbe avere soprattutto sul mercato delle locazioni, già in forte crisi».
La soluzione. Con l'obiettivo di limitare quanto più possibile i danni, senza far saltare la conversione del decreto, è arrivata la soluzione della Commissione finanze del Senato. «Abbiamo deciso di inserire all'interno del decreto del fare, un emendamento ad hoc», ha dichiarato Marino, «in modo da eliminare la previsione inserita alla Camera, limitandone gli effetti quanto più possibile. Siamo rammaricati del fatto che, però, intercorrerà comunque un lasso di tempo fisiologico prima che il decreto del fare arrivi in Gazzetta Ufficiale, durante il quale non avremo nessun potere sui danni che la vigenza norma in questione potrà causare».
Ecobonus 65%. Il decreto, così come è stato approvato, prevede la possibilità per i privati che intendano effettuare un intervento di riqualificazione energetica, compresa la sostituzione delle caldaie e l'installazione delle pompe di calore, di portare in detrazione dall'Irpef il 65% della spesa sostenuta. Il tutto, tramite una rata l'anno per dieci anni. Ad essere ricompresi all'interno dell'ecobonus sono anche i lavori di rimozione dell'amianto dagli edifici, i lavori di adeguamento antisismico, sia per le abitazioni principali sia per le imprese, nelle zone più a rischio e i lavori di depurazione delle acque contaminate da arsenico.
Bonus 50%. Sarà possibile detrarre dall'Irpef, con una rata l'anno per dieci anni, il 50% delle spese sostenute sia, per effettuare interventi di ristrutturazione, entro il tetto dei 96 mila euro, sia per l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici (entro il tetto dei 10 mila euro), destinati all'arredamento di immobili ristrutturati.
Confermato, poi, anche l'emendamento votato all'unanimità alla Camera che impegna il governo a garantire gli incentivi (non necessariamente con le aliquote attuali del 65%) agli interventi di consolidamento antisismico del patrimonio edilizio esistente, rendendo obbligatoria la certificazione antisismica degli edifici pubblici e privati e i relativi controlli strutturali periodici, e a rivedere i vincoli del Patto di stabilità, per consentire agli enti locali che abbiano risorse da investire, di realizzare interventi di manutenzione e messa in sicurezza del territorio, di riduzione del rischio idrogeologico.
Iva. Nessuna modifica nemmeno sul fronte Iva. Confermata quindi l'aliquota agevolata al 4% per l'editoria scolastica, così come l'aumento al 10% per i prodotti dei distributori automatici e l'approdo all'aliquota ordinaria del 21% per i gadget editoriali.
Le reazioni. «Il provvedimento ha una notevole importanza e produrrà sicuramente effetti positivi sull'economia», ha dichiarato il sottosegretario allo sviluppo economico, Simona Vicari. Soddisfatto, inoltre, del risultato anche Gianpiero Dalla Zuanna (Sc), secondo cui «il provvedimento è un primo passo importante, ora dobbiamo lavorare per rendere strutturali gli ecoincentivi» (articolo ItaliaOggi del 02.08.2013).

EDILIZIA PRIVATAConto termico, contratto tipo per avere gli incentivi.
Definito il contratto tipo per usufruire degli incentivi del conto termico per gli interventi di piccole dimensioni per l'incremento dell'efficienza energetica e la produzione di energia termica da fonti rinnovabili.

È con la delibera 25.07.2012 338/2013/R/Fer che l'Autorità per l'energia elettrica e il gas ha fornito la definizione di contratto tipo per accedere agli incentivi previsti dal decreto interministeriale del 28/12/2012.
Il contratto disciplina il rapporto tra il gestore dei servizi energetici, in qualità di soggetto attuatore del decreto, che deve verificare il rispetto dei requisiti per l'accesso agli incentivi, e il soggetto responsabile, cioè chi fa domanda per gli incentivi.
 Il soggetto responsabile può essere di sei tipi: pubblica amministrazione, persona fisica, persona fisica nata all'estero, persona fisica titolare di una ditta individuale, persona fisica con partita Iva e persona giuridica. Il soggetto responsabile deve usare solo le applicazioni informatiche predisposte dal Gse e comunicare eventuali variazioni solo attraverso il portale informatico dedicato. Allo stesso tempo, il Gse è responsabile del monitoraggio del processo di assegnazione degli incentivi, dell'erogazione e dell'eventuale revoca.
Il soggetto responsabile può cedere il credito dell'incentivo secondo le condizioni stabilite dal Gse per minimizzare i costi delle procedure di gestione. Sull'ammontare dell'incentivo, che deve essere riportato in una tabella riepilogativa, il Gse può trattenere fino a 150 euro come copertura delle attività svolte. La prima rata viene erogata l'ultimo giorno del mese successivo a quello della fine del semestre in cui ricade la data di attivazione del contratto. Le altre rate avranno cadenza annuale.
Se l'importo dell'incentivo non supera i 600 euro, la somma viene erogata in un'unica rata. Nei casi di ritardo nei pagamenti vengono riconosciuti gli interessi moratori. Il Gse cura l'effettuazione dei controlli mediante verifiche documentali e controlli in sito , direttamente o tramite terzi, al fine di accertare la veridicità delle informazioni e dei dati trasmessi (articolo ItaliaOggi del 02.08.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa multa va in pensione. Ai fondi integrativi parte delle contravvenzioni. Le indicazioni Covip sulla destinazione. Quota decisa dai comuni.
L'autovelox sovvenziona la pensione di scorta ai vigili urbani. Parte delle multe stradali, infatti, può essere destinata al fondo pensione, anche aperto, a cui aderisce il personale di polizia municipale e provinciale. Spetta all'ente locale, comune o provincia, fissare ogni anno l'ammontare di multe da destinarvi. Se il fondo scelto è quello aperto l'adesione è individuale senza possibilità, pertanto, di scontare le spese e senza facoltà di riscatto agli iscritti.
Lo precisa la Covip, con parere conforme della funzione pubblica.
Due interrogativi. Due le questioni entrambe sull'adesione a fondi pensione aperti del personale di polizia municipale e provinciale con destinazione delle sanzioni per violazioni del codice della strada (ex art. 208 del codice), ossia se sia possibile:
• applicare le riduzioni alle spese di partecipazione al fondo (ex art. 8, comma 2, dello schema di regolamento dei fondi pensione aperti);
• riconoscere la facoltà di riscatto per «altre cause» (ex art. 14, comma 5, del dlgs n. 252/2005).
La Covip ha rappresentato le questioni al ministero del lavoro e all'Inps, ricevendo riscontro dalla funzione pubblica.
Cosa dice la funzione pubblica. La funzione pubblica spiega che l'istituzione di forme pensionistiche complementari collettive per i dipendenti pubblici contrattualizzati, qual è il personale di polizia, spetta solo alla contrattazione nazionale (che non si è ancora espressa). In attesa di tali regole, che specificheranno le modalità di devoluzione delle multe alla previdenza integrativa, la funzione pubblica ritiene che spetti a ogni ente locale fissare, ogni anno, il quantum da destinare alle diverse finalità (ex art. 208 codice della strada), tra cui quelle assistenziali e previdenziali. Inoltre precisa che spetta all'organismo sindacale istituito presso il singolo ente provvedere invece alla finalizzazione e gestione delle quote destinate alle predette finalità.
I chiarimenti Covip. La Covip precisa che le adesioni a fondi aperti da parte del personale di polizia municipale o provinciale con la destinazione delle multe (ex art. 208 codice della strada) sono da assimilare a adesioni individuali, anche se effettuate sulla base di convenzioni con i relativi enti di appartenenza. Di conseguenza non possono trovare applicazione le riduzioni alle spese di partecipazione, né la facoltà di riscatto della posizione per «altre ragioni» da parte degli iscritti, trattandosi in entrambi i casi di situazioni la cui applicazione è limitata alle adesioni su base collettiva (articolo ItaliaOggi del 02.08.2013).

TRIBUTITributi locali, vietato allargarsi. I comuni non possono ampliare l'oggetto dei contratti. La legge europea 2013 cancella la norma di favore per i gestori dell'imposta sulla pubblicità.
I comuni non potranno più ampliare l'oggetto dei contratti di affidamento del servizio di accertamento e riscossione dell'imposta sulla pubblicità, assegnando ai concessionari anche la riscossione di altre entrate comunali senza indire nuove gare.
Lo vieta la legge europea 2013 approvata mercoledì dall'aula della camera.
Il ddl di 34 articoli pone rimedio ai numerosi casi di non corretto recepimento della normativa Ue nell'ordinamento italiano che hanno portato all'avvio di 10 procedure di pre-infrazione e 19 procedure di infrazione nei confronti del nostro paese.
E tra i rilievi mossi alla legislazione italiana, Bruxelles ha posto sotto la lente anche l'attività di riscossione locale, un campo su cui da tempo l'Europa chiede una maggiore apertura al mercato e alla concorrenza.
La soppressione della norma (art. 10, comma 2, legge n. 448/2001) si è resa necessaria a seguito di una specifica richiesta di informazioni da parte della Commissione europea, nell'ambito del caso Eu Pilot 3452/12/Markt. Secondo la Commissione infatti tale fattispecie di affidamento diretto, non rispettando il principio di libera concorrenza, avrebbe potuto generare violazioni della normativa europea sui contratti pubblici.
In verità, fin dalla sua introduzione all'interno della Finanziaria 2002 (legge 448/2001), l'art. 10, comma 2 (a sua volta precisato e integrato dalla legge 75/2002) ha rappresentato una norma molto controversa. A originarla fu il tentativo dell'allora governo Berlusconi di compensare i concessionari della pubblicità comunale della perdita di introiti derivanti dall'abbattimento della soglia minima di imposizione. In pratica, visto che cartelloni e insegne al di sotto dei cinque metri quadri non erano più soggetti al pagamento dell'Icp, i concessionari chiesero al governo di poter estendere il proprio giro d'affari ad altre attività, fino a mettere le mani su larghe fette della riscossione locale, senza alcuna gara ad evidenza pubblica. E questo è accaduto non solo nei piccoli comuni, ma anche in quelli medio-grandi. Paradigmatico il caso di Brindisi dove Tributi Italia, partendo dall'affidamento dell'accertamento e riscossione dell'Icp, arrivò a gestire tutti i tributi dell'ente.
Per rimediare a queste storture, da più parti gli operatori del settore chiesero una revisione della norma che limitasse la quota di ulteriori tributi affidabile senza gara al solo mancato guadagno sofferto dai concessionari per l'esenzione delle insegne sotto i cinque metri quadri. Tra i più fermi oppositori della norma si è distinta l'Anutel (l'Associazione che raggruppa gli uffici tributi degli enti locali) che oggi applaude alla decisione del governo Letta di abrogarla all'interno della legge europea 2013.
Nel provvedimento ha inoltre trovato posto un articolo che consente ai familiari di cittadini dell'Unione europea, ai soggiornanti di lungo periodo, ai rifugiati e ai titolari dello status di protezione sussidiaria di poter accedere ai ruoli della pubblica amministrazione. Anche in questo caso le modifiche sono state originate da rilievi critici mossi dalla Commissione europea (nell'ambito dei casi Eu Pilot 1769/11/Just e 2368/11/Home) (articolo ItaliaOggi del 02.08.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLotta all'evasione. Vigili in campo. Anci: ma non sono poliziotti tributari.
Gli operatori di polizia municipale che partecipano all'attività di recupero dell'evasione fiscale non possono fregiarsi della qualifica di polizia tributaria che è una specialità propria della guardia di finanza. Le squadre operative dei vigili urbani dedicate al recupero dei tributi possono comunque denominarsi nuclei antievasione.

Lo ha chiarito l'Anci con la circolare 26.07.2013 n. 163/sip/ar/mcc-13 di prot.
La partecipazione dei comuni al contrasto dell'evasione fiscale è ormai una pratica molto diffusa tra i comandi di polizia locale che in alcune realtà hanno costituito dei gruppi operativi specificamente dedicati a questo tipo di attività, nello spirito di una normativa sempre più rivolta all'estensione dei poteri di intervento del controllo fiscale e tributario. L'autonomia organizzativa dei comuni e dei singoli comandi di polizia locale però non deve interferire con le competenze e le attribuzioni della guardia di finanza.
Per questo motivo, specifica la nota dell'Associazione dei comuni, nella denominazione dei gruppi di lavoro municipale deve essere evitato l'utilizzo del termine polizia tributaria. Questa denominazione è infatti una attribuzione tipica e specifica solo della guardia di finanza. Le competenze dei militari discendono infatti ancora dalla legge n. 4/1929 che identifica gli incaricati all'accertamento dei reati finanziari esclusivamente nel personale di polizia tributaria.
In buona sostanza solo gli ufficiali e gli agenti di polizia tributaria possono accertare ordinariamente qualsiasi tipo di violazione in materia fiscale e tributaria. Solo il personale della guardia di finanza quindi ha una competenza principale in questa delicata materia. Tutta la restante attività di polizia e degli organi pubblici in generale è subordinata a questa specialità tanto è vero che con le modifiche innestate dal dl 223/2006 all'art. 36 del dpr 600/1973 sono obbligati a comunicare alla guardia di finanza tutti i soggetti pubblici che nell'espletamento delle loro funzioni sono venuti a conoscenza di violazioni di natura tributaria. Ai vigili di finanza non resta quindi che fregiarsi del termine nuclei antievasione (articolo ItaliaOggi del 02.08.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCivit subissata di pareri? Il dl fare la alleggerisce.
Troppe richieste di pareri sui temi anticorruzione alla Civit? Rimedia il «decreto del fare», che nel testo approvato alla Camera pensa bene di ridurre il carico di lavoro della Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche (Civit).

Eppure, la Civit, istituita dalla «legge Brunetta», il dlgs 150/2009, aveva fatto di tutto per rimediare a una carenza di «status» che aveva sempre un po' sofferto: il non essere stata qualificata, al momento della sua istituzione, come «autorità».
Ci aveva pensato a rimediare, in proposito, proprio la legge «anticorruzione», che all'articolo 1, comma 2, dispone: «La Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche, di cui all'articolo 13 del decreto legislativo 27.10.2009, n. 150, e successive modificazioni, di seguito denominata «Commissione», opera quale Autorità nazionale anticorruzione, ai sensi del comma 1 del presente articolo».
Sull'entusiasmo della ritrovata qualificazione di «autorità», la Civit era stata incaricata di esprimere pareri facoltativi a tutte, ma proprio tutte, le amministrazioni pubbliche su temi rilevanti, in merito alle iniziative anti corruzione: la conformità di atti e comportamenti dei funzionari pubblici alla legge, ai codici di comportamento e ai contratti, collettivi e individuali, regolanti il rapporto di lavoro pubblico. Evidentemente, però, le amministrazioni pubbliche debbono aver preso molto sul serio la funzione consultiva della Civit, subissandola di richieste di pareri.
Così c'ha pensato il decreto del «fare» ad arginare le richieste delle amministrazioni pubbliche. La Civit mantiene il ruolo di amministrazione consultiva sui temi anti corruzione, ma non per tutti. Esprimerà pareri facoltativi, ma solo agli organi dello stato e alla Funzione pubblica. Tutte le altre amministrazioni, dalle regioni agli enti locali, dalle aziende sanitarie alle camere di commercio, non avranno più la possibilità di rivolgersi direttamente all'autorità anti corruzione.
Lo stesso varrà per i pareri facoltativi riguardanti le autorizzazioni ai dipendenti pubblici per lo svolgimento di attività lavorativa o di collaborazione presso altri soggetti pubblici o privati. Solo la Funzione pubblica, invece, avrà la possibilità di rivolgersi alla Civit perché si esprima sul possibile conflitto di interessi dei dipendenti pubblici (articolo ItaliaOggi del 02.08.2013).

EDILIZIA PRIVATALa correzione. L'ipoteca dell'«Ape» sulla validità degli accordi.
Torna inaspettatamente l'obbligo, per il proprietario, di produrre l'Ape (attestato di prestazione energetica) a pena di nullità per tutti i contratti di vendita, di donazione e di locazione.

Il Senato ha infatti introdotto, all'articolo 6 del Dl 63, il comma 3-bis, che dice «L'attestato di prestazione energetica deve essere allegato al contratto di vendita, agli atti di trasferimento di immobili a titolo gratuito o ai nuovi contratti di locazione, pena la nullità degli stessi contratti».
L'obbligo era già previsto comunque, al comma 1, dove più o meno sono usate le stesse parole. Il nodo della questione, però, non è nell'obbligatorietà della disposizione ma nella sanzione della nullità. Per le locazioni si parla comunque di «nuovi contratti», il che escluderebbe l'allegazione dell'Ape in caso di semplice rinnovo di contratto già esistente.
A parte il caso degli immobili nuovi (che comunque dovevano e devono avere l'Ape, in precedenza chiamato Ace e prima ancora Aqe), la normativa vigente sino a ieri imponeva che, se veniva trasferita una unità immobiliare non nuova, essa doveva essere dotata del certificato energetico. Nel testo originario del Dlgs 192/2005 la presenza dell'Aqe era prescritta a pena di nullità, ma poi, con il Dl 112/2008 (articolo 35, comma 2-bis) la sanzione di nullità veniva soppressa e l'obbligo di "dotazione" è stato da allora interpretato come norma derogabile. In sostanza, i contraenti potevano accordarsi che fosse l'acquirente a farsi carico dell'obbligo di dotare di Ace-Ape l'immobile acquistato.
La nullità di fatto è una sanzione molto forte, perché incidendo direttamente sull'esistenza delle pattuizioni può avere un effetto devastante sugli effetti dei contratti stipulati, anche dal punto di vista economico. Una vera spada di Damocle sospesa sull'accordo tra le parti, il cui filo potrebbe essere liberamente tagliato in qualunque momento e da una qualunque delle parti (articolo Il Sole 24 Ore del 02.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA - VARIFisco e immobili. Convertito il Dl 63/13: il beneficio del 65% sino a fine anno esteso anche a condizionatori e pompe di calore
Ecobonus, sconto allargato. Misure antisismiche detraibili al 65% - Senza attestato energetico contratti nulli.
NEI CONDOMINI/ Alla luce delle procedure di approvazione più complicate ampliati i tempi per beneficiare dell'incentivo «verde».

Nell'ambito degli incentivi per il risparmio energetico, ritornano detraibili al 65% da Irpef e Ires i condizionatori, anche estivi, con pompa di calore efficiente, gli impianti geotermici a bassa entalpia e scaldacqua verdi. Per il bonus ristrutturazioni (agevolato al 50% ancora sino a fine 2013), le misure antisismiche saranno detraibili dall'Irpef al 65% sino a fine anno. Torna, inoltre, l'allegazione obbligatoria dell'Ape (attestato di prestazione energetica) per vendite, donazioni o nuove locazioni.
Sono queste le principali modifiche al decreto legge 63/2013 introdotte in sede di conversione in legge ed approvate ieri in via definitiva dal Senato con 249 voti favorevoli, due contrari e nessun astenuto.
Per quanto concerne il risparmio energetico, la detrazione Irpef ed Ires del 55% sugli interventi negli edifici, che sarebbe scaduta il 30.06.2013, è stata prorogata definitivamente dall'01.07.2013 al 31.12.2013, aumentandone la detrazione dal 55% al 65% per le spese sostenute (cioè, pagate per i privati) dal 06.06.2013 al 31.12.2013.
Con la conversione in legge del Dl 63/2013, rientrano, poi, a pieno titolo tra le spese sul risparmio energetico, agevolabili al 65% fino al 31.12.2013, gli interventi di «sostituzione di impianti di climatizzazione invernale con pompe di calore ad alta efficienza e con impianti geotermici a bassa entalpia» e di «sostituzione di scaldacqua tradizionali con scaldacqua a pompa di calore dedicati alla produzione di acqua calda sanitaria». Per la data di entrata in vigore di questa modifica, valgono le stesse considerazioni indicate per i grandi elettrodomestici (si legga l'articolo a fianco).
Considerando i tempi lunghi di approvazione dei lavori da parte dei condòmini, essi avranno più tempo per beneficiare della maxi-detrazione del 65% per i lavori verdi. In particolare, per i pagamenti dal 06.06.2013 al 30 giugno 2014 si potrà beneficiare della detrazione del 65% per gli interventi sul risparmio energetico «relativi a parti comuni degli edifici condominiali di cui agli articoli 1117 e 1117-bis del Codice Civile» o che interessano «tutte le unità immobiliari di cui si compone il singolo condominio».
Per le parti comuni, la detrazione del 65% spetta dall'anno «di effettuazione del bonifico bancario da parte dell'amministratore e nel limite delle rispettive quote dello stesso imputate ai singoli condomini e da questi ultimi effettivamente versate al condominio al momento della presentazione della dichiarazione» dei redditi. Per gli interventi che interessano «tutte le unità immobiliari di cui si compone il singolo condominio», invece, solo se tutti i condomini effettueranno le spese verdi, si potrà avere il bonus per le spese sostenute dall'01.01.2014 al 30.06.2014 (dal 06.06.2013 al 31.12.2013, non conviene utilizzare questa norma specifica, ma è preferibile beneficiare del bonus per la singola unità immobiliare).
Per gli interventi sul recupero del patrimonio edilizio (manutenzioni, ristrutturazioni e restauro e risanamento conservativo), l'aumento della detrazione Irpef dal 36% al 50% (con limite di spesa passato da 48.000 a 96.000 euro per singola unità immobiliare), in vigore per i pagamenti effettuati dal 26.06.2012, sarebbe scaduto lo scorso 30 giugno, ma l'articolo 16 del Dl 63/2013 l'ha prorogato fino al 31.12.2013. Chi non è riuscito ad effettuare tutti i pagamenti entro giugno 2013, quindi, avrà ancora qualche mese per beneficiare del maxi-sconto fiscale del 50%, che da gennaio 2014 ritornerà al 36 per cento.
La detrazione tipica delle ristrutturazioni edilizie (36-50%) è stata aumentata al 65% per i bonifici effettuati dalla data di entrata in vigore della conversione in legge del decreto e fino al 31.12.2013 per le spese sostenute per gli interventi relativi all'adozione di misure antisismiche, le cui procedure autorizzative saranno attivate dopo l'entrata in vigore della legge di conversione del decreto eco-bonus. Questi interventi potranno essere eseguiti «su edifici ricadenti nelle zone sismiche ad alta pericolosità (zone 1 e 2) di cui all'ordinanza del presidente del Consiglio dei ministri 3274 del 20.03.2003» e dovranno essere riferiti «a costruzioni adibite ad abitazione principale o ad attività produttive». Solo in questi casi, potranno beneficiare della detrazione del 65%, con un massimo della spesa agevolata di 96.000 euro per unità immobiliare (articolo 16, comma 1-bis, Dl 63/2013).
Negli altri casi, per le misure antisismiche senza questi requisiti, si potrà beneficiare della classica detrazione del 36%, aumentata al 50% per i pagamenti effettuati dal 26.06.2012 al 31.12.2013 (articolo Il Sole 24 Ore del 02.08.2013).

VARIArredamento. Detrazione Irpef al 50%. L'aiuto per i mobili copre anche i grandi elettrodomestici.
LA TEMPISTICA/ L'agevolazione per questi prodotti sarà operativa dopo la pubblicazione della nuova legge in «Gazzetta Ufficiale».

Via libera all'acquisto agevolato per i grandi elettrodomestici (frigoriferi, congelatori, lavatrici, lavastoviglie), purché energeticamente efficienti e utilizzati per arredare l'immobile ristrutturato.
Con la conversione in legge del Dl 63/2013 è stata estesa ai «grandi elettrodomestici di classe non inferiore alla A+, nonché A per i forni», la nuova detrazione Irpef del 50% per l'acquisto dei mobili, «finalizzati all'arredo dell'immobile oggetto di ristrutturazione», la quale può essere anche una manutenzione straordinaria o, ad esempio, un'opera volta ad evitare gli infortuni domestici.
Prima di pagare il mobile è necessario aver iniziato dei lavori che consentiranno di fruire della detrazione del 36-50% (65% per le misure antisismiche), cioè dei lavori indicati nell'articolo 16-bis, Tuir e soprattutto nelle circolari delle Entrate sul tema. A differenza della vecchia detrazione del 20% per l'acquisto di mobili, elettrodomestici, tv e pc, pagati dal 07.02.2009 al 31.12.2009, per quella in vigore per i pagamenti dal 06.06.2013, gli interventi sulle parti comuni condominiali, la realizzazione di autorimesse o posti auto pertinenziali e l'acquisto di un'abitazione, facente parte di un fabbricato interamente ristrutturato dall'impresa costruttrice, possono essere considerati interventi che consentono la fruizione della detrazione del 36-50-65%, al fine di poter acquistare, successivamente, gli arredi, detraibili al 50 per cento.
Per i mobili, l'articolo 16, comma 2, del Dl 63/2013 è in vigore dallo scorso 06.06.2013 e non vi sono dubbi che siano agevolati tutti i bonifici "parlanti" effettuati da questa data in poi. Per i grandi elettrodomestici, invece, oggi la norma non è in vigore, in quanto non ancora pubblicata in Gazzetta Ufficiale. Dalla data successiva alla pubblicazione, i bonifici, obbligatoriamente "parlanti" (si usa sempre l'articolo 16-bis, Tuir), saranno sicuramente agevolati. Anche se ad oggi non si segnalano molti acquisti agevolati di elettrodomestici (perché non esisteva la norma), va detto che questa novità potrebbe avere efficacia retroattiva al 06.06.2013.
La legge di conversione, oltre ad aggiungere la categoria dei grandi elettrodomestici, ha previsto, infatti, anche che siano agevolate le spese «sostenute», cioè pagate, «dalla data di entrata in vigore del presente decreto» (63/2013), cioè dal 06.06.2013. Anche se, in generale, le modifiche apportate ad un decreto legge in sede di conversione non sono retroattive (articolo 15, comma 15, Legge 400/1988), va considerato che la Corte costituzionale, con la sentenza 51 del 22.02.1985 (confermata dalla 367 del 15.12.2010), ha affermato che «nel caso di conversione con emendamenti, spetta all'interprete» stabilire se la modifica possa avere anche effetto ex tunc, cioè dall'entrata in vigore del Dl. Sarà compito delle Entrate, quindi, confermare l'efficacia retroattiva al 6 giugno 2013 dell'acquisto agevolato dei grandi elettrodomestici.
La precedente detrazione del 20% per l'acquisto di mobili, elettrodomestici, tv e pc, concedeva il bonus solo se venivano effettuati «interventi di recupero del patrimonio edilizio effettuati su singole unità immobiliari residenziali». Per questa ragione, quindi, la condizione della ristrutturazione non era rispettata da chi detraeva il 36% per interventi su parti comuni condominiali, per la realizzazione di autorimesse o posti auto pertinenziali e per chi acquistava un'abitazione in un fabbricato interamente ristrutturato dall'impresa costruttrice (circolare 16.07.2009, n. 35/E, paragrafo 2). Ora il requisito dei lavori su «unità immobiliari residenziali» non è più richiesto ed è necessario beneficiare della detrazione del 36% (50% per i lavori pagati dal 26.06.2012 al 31.12.2013) per qualsiasi intervento agevolato in base all'articolo 16-bis, Tuir e soprattutto in base alle circolari delle Entrate sul tema.
Rilevano, quindi, anche le suddette spese (parti comuni, box o abitazioni ristrutturate), ai fini del rispetto della condizione che consente la fruizione del 50% sull'acquisto dei mobili (comunque, "finalizzati all'arredo dell'immobile oggetto di ristrutturazione"). Ad esempio, i condomini che faranno interventi nelle parti comuni condominiali (ad esempio, portineria, alloggio del portiere, lavanderia, stenditoi ecc.), possono beneficiare del bonus anche per l'acquisto dei mobili e degli elettrodomestici finalizzati ad arredare questi spazi comuni (articolo Il Sole 24 Ore del 02.08.2013).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGO - VARI«Pc» dei dipendenti inviolabili. Il terminale contiene dati sensibili tutelati dalle regole sulla privacy. Cassazione. Il datore di lavoro non può esaminare il computer per accertare violazioni disciplinari.
L'INDICAZIONE/ La verifica «a strascico» travalica la proporzionalità fra l'infrazione sospettata e la garanzia sulla riservatezza.
Il computer del dipendente non può essere "perquisito" dal datore di lavoro per contestare una violazione disciplinare. Il pc contiene infatti dati sensibili il cui tracciamento viola la riservatezza del lavoratore e l'attività di scandagliamento a strascico, inoltre, travalica la «proporzionalità» che deve comunque essere rispettata tra l'infrazione commessa e la tutela della privacy della persona.
Con una lunga motivazione la I Sez. civile della Corte di Cassazione (sentenza 01.08.2013 n. 18443) ha respinto il ricorso di una casa di cura siciliana contro l'addetto alla accettazione della struttura. L'uomo, durante l'orario di lavoro e dalla sua postazione, si collegava abitualmente alla rete internet (attività peraltro non prevista per la mansioni cui era applicato) visitando siti sindacali, religiosi e anche pornografici. Tre ambiti, questi, attinenti i diritti fondamentali della persona, e sui quali il Garante della riservatezza –interpellato dall'impiegato appena ricevuta la contestazione disciplinare– aveva statuito la massima e doverosa tutela, almeno fino al fondato sospetto di violazione di diritti costituzionali di pari grado.
L'Authority era stata tranciante circa il metodo risoluto seguito della clinica, sia sul versante tecnico (accesso diretto al pc del dipendente e copia della cartella di tutte le operazioni registrate, invece di accedere dal back up) sia sulla procedura. In particolare, secondo il Garante, il lavoratore «non era stato previamente informato dell'eventualità di tali controlli e del tipo di trattamento che sarebbe stato effettuato», in violazione del Codice della privacy, ma soprattutto il trattamento che era stato fatto dell'enorme mole di file era andato ben oltre i limiti di pertinenza e di «non eccedenza rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati», come previsto dall'articolo 11 del decreto legislativo 196/2003.
Contro le scelte dell'azienda deponeva anche l'autorizzazione 1/2004 del Garante, citata agli atti dalla ricorrente, secondo cui «il trattamento dei dati sensibili deve essere effettuato unicamente con operazioni, nonché con logiche e mediante forme di organizzazione dei dati strettamente indispensabili in rapporto ai sopra indicati obblighi, compiti o finalità».
In sostanza, secondo la Cassazione, l'azienda nel caso specifico avrebbe potuto procedere alle contestazioni disciplinari limitandosi alla circostanza che il dipendente si collegava a internet senza che ciò fosse previsto, e nemmeno indispensabile, per le sue mansioni.
Tra le pieghe della motivazione, anche uno spaccato importante sulla valutazione di «dato sensibile». L'azienda contestava la circostanza che la registrazione relativa a siti sindacali, poi religiosi, infine pornografici, non era in grado di connotarsi come «dato sensibile», idoneo a svelare gli orientamenti del dipendente, In realtà, spiega la Corte, il legislatore italiano è stato più restrittivo di quello europeo parlando non solo di «dati sensibili», ma anche «dati idonei a rilevare». Come una navigazione su internet (articolo Il Sole 24 Ore del 02.08.2013).

EDILIZIA PRIVATAFotovoltaico abusivo, rischi anche nel lungo periodo.
Nella costruzione di un impianto fotovoltaico senza autorizzazione unica il periculum in mora non può essere limitato esclusivamente al «carico urbanistico» (o all'interesse paesaggistico e ambientale), dal momento che «l'interesse tutelato dalla norma precettiva comprende anche l'esigenza che il concreto controllo sul corretto esercizio di impianti di questo genere sia svolto dall'autorità regionale e non da quella comunale».

E il sistema dei controlli regionali deve svolgersi per tutta la durata dell'esercizio.
Questo è quanto afferma la Corte di Cassazione, III Sez. penale, con la sentenza 30.07.2013 n. 32941.
I giudici ricordano che la costruzione e l'esercizio degli impianti stessi sono soggetti ad autorizzazione unica, rilasciata dalla regione o da altro soggetto istituzionale delegato dalla regione, nel rispetto delle normative in materia di tutela dell'ambiente e del territorio (articolo 12, comma 3, del dlgs n. 387/2003).
Pertanto la rilevanza dell'autorizzazione unica ambientale emerge sia nella mera edificazione degli impianti fotovoltaici e delle opere e delle infrastrutture connesse ma anche per l'esercizio degli stessi. L'intento del legislatore è quello di far sì che il controllo amministrativo da parte dell'autorità regionale venga assicurato non solo nella fase di realizzazione dell'impianto fotovoltaico, ma anche e soprattutto nella fase del suo esercizio.
Secondo i giudici della Suprema corte, però, «anche dopo l'ultimazione della sua realizzazione, l'utilizzazione dell'impianto senza il possesso del titolo abilitativo occorrente continua a produrre una lesione del bene giuridico protetto, ossia dell'interesse alla permanente vigilanza da parte dell'autorità competente anche sull'esercizio dell'impianto stesso, e pertanto aggrava o comunque protrae le conseguenze negative del reato ipotizzato» (articolo ItaliaOggi del 02.08.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl part-time non è più blindato. Contratti ante dl 112/2008 trasformabili in tempo pieno. La Corte costituzionale ha confermato la legittimità della norma del collegato lavoro.
È legittima la possibilità di trasformare a tempo pieno i rapporti che erano diventati part-time prima dell'entrata in vigore del dl n. 112/2008, in base al quale le pubbliche amministrazioni possono rigettare le domande di trasformazione in presenza di pregiudizi alla propria attività.
Ciò non vuol dire che le amministrazioni possono decidere arbitrariamente: esse sono comunque tenute al rispetto degli obblighi di motivazione dettati dal legislatore. In tale previsione non si riscontrano ragioni di contrasto con la normativa comunitaria.

Possono essere così riassunte le principali indicazioni contenute nella recente sentenza 19.07.2013 n. 224 della Corte Costituzionale.
La pronuncia ha confermato la legittimità della disposizione contenuta nell'articolo 16 della legge n. 183/2010 (cosiddetto collegato lavoro). Con tale misura è stata data facoltà alle amministrazioni pubbliche di rivedere i rapporti di lavoro trasformati da tempo pieno a part-time prima dell'entrata in vigore del dl n. 112/2008, norma che ricordiamo ha consentito alle amministrazioni di rigettare le domande non solo per conflitto di interessi nel caso in cui finalizzate allo svolgimento di una seconda attività lavorativa, ma anche nel caso in cui la trasformazione rechi nocumento alle attività dell'ente.
Alla base del rigetto vi è la considerazione che siamo nella fase di prima applicazione delle nuove disposizioni che aumentano i poteri delle p.a. rispetto alle richieste di part-time, per cui si stabilisce un nesso assai stretto tra le sue disposizioni e si determina una condizione sostanzialmente paritaria nel trattamento.
Non vi è contrasto con le disposizioni comunitarie in quanto «il diritto europeo è primariamente finalizzato a tutelare il lavoro part-time e a impedirne ogni forma di discriminazione, anche in fase di trasformazione del rapporto. Nel contempo, però, esso dà la necessaria rilevanza alle esigenze organizzative, tecniche o produttive che possono imporre modifiche della posizione lavorativa ovvero del regime temporale della prestazione».
Il legislatore consente, e la motivazione è la stessa nel caso di rigetto della istanza, di rivedere i part-time già concessi applicando i principi di buona fede e correttezza, laddove «la trasformazione comporti, in relazione alle mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal dipendente, pregiudizio alla funzionalità dell'amministrazione stessa». Questo elemento è ripreso in modo esplicito dalla sentenza della Consulta: «il potere di rivalutazione dei rapporti di lavoro part-time a suo tempo concessi automaticamente, in applicazione della normativa dell'epoca, non è arbitrario, né indiscriminato, ma saldamente ancorato alla presenza obiettiva di verificabili esigenze di funzionalità dell'organizzazione amministrativa e condizionato a modalità di esercizio scrupolosamente rispettose dei canoni generali di correttezza e di buona fede».
Di queste indicazioni le amministrazioni locali devono fare tesoro. Le loro scelte di negazione della trasformazione in part-time di un rapporto di lavoro a tempo pieno devono essere adeguatamente motivate in relazione alle esigenze organizzative dell'ente; in tal senso, per esempio, il riferimento ai drastici limiti imposti alle assunzioni di personale, ivi compreso quello con rapporti flessibili, costituisce un elemento di giustificazione più che valido.
Occorre infine ricordare che la competenza ad assumere queste decisioni spetta ai dirigenti, in quanto soggetti dotati delle competenze gestionali e, in particolare, dei poteri e delle capacità dei privati datori di lavoro. Agli organi di governo compete, al più, il dettare specifiche linee guida ed indicazioni di carattere generale, che non devono in ogni caso entrare nel merito del caso concreto (articolo ItaliaOggi del 02.08.2013).

LAVORI PUBBLICICassazione. A carico dell'ente gestore. Se manca la legge resta l'obbligo di adeguare la strada.
L'ente gestore di una strada deve adeguarla ai più moderni standard di sicurezza anche se non c'è un espresso obbligo giuridico: basta il principio del neminem laedere. E la responsabilità del mancato adeguamento ricade direttamente sui vertici aziendali, se hanno deciso di non intervenire per motivi economici e non hanno adottato misure alternative per garantire la sicurezza.

Princìpi innovativi, stabiliti dalla IV Sez. penale della Corte di Cassazione, con la sentenza 12.07.2013 n. 30190 diventata di attualità dopo la tragedia del bus precipitato domenica scorsa da un viadotto dell'autostrada A16 a Monteforte Irpino (Avellino).
In effetti, i princìpi di questa sentenza potrebbero essere applicati –in tutto o in parte– anche a questo incidente, perché i teatri dei due sinistri sono analoghi: viadotti con guard-rail non adeguati. La Cassazione si è pronunciata sul caso di un'auto che percorreva l'autostrada A20 ed è caduta dal pericoloso viadotto Ritiro, nell'abitato di Messina.
Su quel tratto di strada non erano state installate barriere in linea con i requisiti di sicurezza attuali, nonostante dal 1994 al 2003 dai viadotti dell'A20 ci siano stati 32 cadute (22 mortali e 10 con feriti): la direzione Tecnica e di esercizio del Cas (Consorzio autostrade siciliane) aveva escluso quel tratto dalla riqualificazione, per motivi economici. La carenza riguardava un solo senso di marcia, quello verso Palermo, in cui procedeva l'auto; l'altra carreggiata era ben protetta.
La sostituzione dei guard-rail era avvenuta volontariamente, perché in quel caso non c'era alcun obbligo specifico: la normativa attuale (Dm Lavori pubblici 223/92 e Dm Infrastrutture 21.06.2004) non si applica alle strade costruite prima del 1992, salvo che siano sottoposte a lavori significativi. E questo non era il caso del viadotto Ritiro al momento dell'incidente.
La pubblica accusa aveva così configurato una forma di colpa generica, come richiesto dalla parte civile, assistita dai legali dell'Aifvs (Associazione italiana familiari vittime della strada). La difesa aveva ribattuto che tale colpa non sarebbe configurabile quando gli imputati si sono comunque attenuta alle «disposizioni chiare e precise» del Dm 223/92.
La Corte ha richiamato una sua precedente sentenza (la 15229/08) per affermare che «l'osservanza delle norme precauzionali scritte non fa venir meno la responsabilità colposa dell'agente, perché esse non sono esaustive delle regole prudenziali realisticamente esigibili rispetto alla specifica attività o situazione pericolosa cautelata, potendo residuare una colpa generica in relazione al mancato rispetto della regola cautelare non scritta del neminem laedere, la cui violazione costituisce colpa per negligenza o imprudenza».
I giudici "suggeriscono" anche un modo per superare la mancanza di fondi: restringere la carreggiata per rallentare i veicoli e imporre un limite di velocità prudenziale (articolo Il Sole 24 Ore del 03.08.2013).

TRIBUTISul verde pubblico non si paga l'Ici. Ctr Milano: nei parchi l'inedificabilità è palese.
Un'area compresa in una zona destinata dal piano regolatore generale a verde pubblico attrezzato non è soggetta al pagamento dell'Ici. Il vincolo di destinazione, infatti, non consente di dichiarare l'area edificabile poiché al contribuente viene impedito di operare qualsiasi trasformazione del bene.

È quanto ha affermato la Commissione Tributaria regionale di Milano, sezione XXXV, con la sentenza 13.05.2013 n. 71.
Per il giudice d'appello, lo strumento urbanistico vigente destina l'area a spazio pubblico per parco, giochi e sport «rendendo palese e percepibile il vincolo di utilizzo meramente pubblicistico con la conseguente inedificabilità».
Nella sentenza vengono richiamate alcune pronunce della Cassazione che hanno fissato questo principio, che però non è assolutamente pacifico. In particolare, la Cassazione (sentenza 25672/2008) ha stabilito che se il piano regolatore generale del comune stabilisce che un'area sia destinata a verde pubblico attrezzato, questa prescrizione urbanistica impedisce al privato di poter edificare. Dunque, l'area non è soggetta al pagamento dell'Ici anche se l'edificabilità è prevista dallo strumento urbanistico.
La natura edificabile delle aree comprese in zona destinata a verde pubblico attrezzato impedisce ai privati la trasformazione del suolo riconducibile alla nozione tecnica di edificazione. In questi casi, la finalità è quella di assicurare la fruizione pubblica degli spazi. Mentre, con la sentenza 19131/2007 aveva sostenuto che l'Ici fosse dovuta su un'area edificabile anche se sottoposta a vincolo urbanistico e destinata a essere espropriata: quello che conta è il valore di mercato dell'immobile nel momento in cui è soggetto a imposizione.
Con questa decisione, tra l'altro, i giudici avevano precisato che l'Ici non «ricollega il presupposto dell'imposta all'idoneità del bene a produrre reddito o alla sua attitudine a incrementare il proprio valore o il reddito prodotto».
Il valore dell'immobile assume rilievo solo per determinare la misura dell'imposta. L'area doveva essere considerata edificabile anche se qualificata «standard» e, quindi, vincolata a esproprio (articolo ItaliaOggi del 02.08.2013).

TRIBUTIAumenti Tarsu da non motivare. Tar Puglia: causa è la copertura costi.
Il comune non è tenuto a motivare l'aumento delle tariffe Tarsu. L'aumento può essere giustificato dalla necessità di coprire i costi del servizio.
Lo ha affermato il TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 30.05.2013 n. 1238.
Secondo i giudici amministrativi, per coprire i costi del servizio, l'amministrazione comunale ha disposto «un incremento percentuale nei confronti di tutte le categorie di utenti/contribuenti, senza operare alcuna discriminazione/differenziazione tra di essi, rendendo meno stringente l'obbligo di una più puntuale motivazione». Sulla necessità di motivare gli aumenti tariffari per lo svolgimento del servizio di raccolta e smaltimento rifiuti non c'è un'uniformità di vedute nella giurisprudenza amministrativa.
Il Consiglio di stato (sentenza 5616/2010), infatti, ha sostenuto che il comune deve motivare la delibera che prevede un aumento delle tariffe Tarsu per coprire i costi del servizio. E non si può invocare genericamente la necessità di assicurare la tendenziale copertura totale della spesa, senza avere dati certi sullo scostamento tra entrate e costo del servizio.
Per i giudici di palazzo Spada il comune non è esonerato da uno specifico obbligo di motivare l'incremento delle tariffe, nonostante la Cassazione (sentenza 22804/2006) abbia escluso questo adempimento per gli atti generali, come previsto dall'articolo 3 della legge 241/1990. In effetti l'articolo 69 del decreto legislativo 507/1993, ai fini del controllo di legittimità, dispone che la deliberazione debba indicare le ragioni dei rapporti stabiliti tra le tariffe, i dati consuntivi e previsionali relativi ai costi del servizio discriminati in base alla loro classificazione economica, nonché le circostanze che abbiano determinato l'aumento per la copertura minima obbligatoria del costo.
Gli enti sono poi tenuti ad adottare un regolamento che deve contenere non solo la classificazione delle categorie ed eventuali sottocategorie, ma anche la graduazione delle tariffe ridotte per particolari condizioni d'uso. Nell'ambito del potere regolamentare possono essere individuate anche le fattispecie agevolative, con le relative condizioni, le modalità di richiesta e le eventuali cause di decadenza (articolo ItaliaOggi del 02.08.2013).

AGGIORNAMENTO AL 05.08.2013

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IN EVIDENZA

URBANISTICA: Sul termine ordinatorio e non perentorio dei 90 gg. entro cui bisogna approvare il PGT a pena di inefficacia degli atti assunti.
Il comma 7 dell’art. 13 L.R. n. 12/2005 dispone che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di p.g.t. le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti, provvede all'adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la Provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui all'articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo”.
Il Collegio ritiene di non potere accedere ad una interpretazione letterale della previsione di cui al comma 7.
Una soluzione che individui la ratio dell’art. 13 nell’esigenza di dettare una rigida tempistica procedimentale a fini acceleratori correlando alla mera violazione del termine previsto dal comma 7 l’inefficacia degli atti del p.g.t., non è percorribile, in quanto conduce ad esiti contrastanti con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa, posto dall’art. 97 Cost.
Difatti, qualora si ritenesse che all’inutile scadenza del termine entro il quale il Consiglio Comunale deve decidere sulle osservazioni consegua la perdita di efficacia del provvedimento di adozione del p.g.t., invero, l’attività amministrativa precedentemente esercitata verrebbe posta nel nulla, con conseguente obbligo per l’amministrazione di rinnovare l’intero procedimento, il tutto in contrasto con il principio di economicità oltre che con la ratio acceleratoria sottesa alla norma.
Insomma, l’esigenza di celerità sarebbe, invero, del tutto vanificata ove il termine previsto dall’art. 13, c. 7, della legge regionale n. 12/2005 fosse sanzionato con la perdita di efficacia dell’atto di adozione del piano di governo del territorio, in quanto l’amministrazione dovrebbe reiterare l’intera procedura amministrativa. Proprio il palese contrasto con i principi costituzionali già richiamati esclude la condivisibilità dell’interpretazione ora esaminata.
Questa interpretazione della norma non può, dunque, essere accolta, in quanto in netto contrasto con i principi costituzionali.
Il Collegio ritiene tuttavia che sia, comunque, possibile accedere ad una lettura della legge regionale in senso conforme alla Costituzione.
La norma così dispone: “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni”.
La previsione dell’inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell’articolo e ciò consente di riferire la sanzione della inefficacia alla inosservanza non del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della norma, ma di quanto stabilito nella seconda parte della disposizione, ossia alla violazione dell’obbligo di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del p.g.t. le conseguenti modificazioni.
Pertanto, l’inefficacia integra una sanzione dettata non a tutela di adempimenti formali, come il mero rispetto della tempistica procedimentale, ma di esigenze sostanziali, emergenti nell’ipotesi in cui il piano di governo del territorio sia approvato in assenza di una decisione sulle osservazioni o non recepisca le osservazioni accolte.
Ecco, allora, che l’inefficacia degli atti assunti si verifica solo quando la loro adozione non sia stata preceduta dalla decisione delle osservazioni presentate dagli interessati.
Questa lettura sostanzialistica può essere riferita anche alle altre ipotesi in cui la legge regionale prevede la sanzione dell’inefficacia degli atti assunti.
Così, seguendo questa linea interpretativa, la seconda parte del comma 7 –secondo cui il Consiglio Comunale “contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti, provvede all’adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo”– punisce non la mera inosservanza del termine previsto nella prima parte dell’articolo ma la violazione dell’obbligo di adeguare il documento di piano alle incompatibilità ravvisate dalla Provincia con il proprio p.t.c.p..
Ugualmente, il comma 4 -secondo cui “entro novanta giorni dall’adozione, gli atti di p.g.t. sono depositati, a pena di inefficacia degli stessi, nella segreteria comunale per un periodo continuativo di trenta giorni, ai fini della presentazione di osservazioni nei successivi trenta giorni”- sanziona non tanto il mancato rispetto del termine per il deposito quanto una violazione sostanziale, consistente nel non lasciare gli atti del p.g.t. a disposizione degli interessati, per un periodo di trenta giorni, al fine di presentare le osservazioni.
In conclusione, dunque, la violazione del termine di novanta giorni previsto dall’art. 13, c. 7, che si è verificata nel caso di specie, non comporta alcuna conseguenza, dovendo lo stesso ritenersi meramente ordinatorio.
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E' legittimo il pgt dimensionato sulla base di un previsione decennale anziché quinquennale.
Invero, la norma richiamata (art. 8, c. 4, l. Regione Lombardia n. 12/2005) -nel prevedere che “il documento di piano ha validità quinquennale ed è sempre modificabile”- si riferisce unicamente al documento di piano e non all’intero pgt e non impedisce quindi che quest’ultimo abbia un orizzonte temporale più ampio, fermo restando l’obbligo per il Comune di provvedere all’approvazione di un nuovo documento di piano allo scadere del quinquennio.

Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 13, c. 7, l. Regione Lombardia n. 12/2005: l’amministrazione non avrebbe rispettato, nella decisione sulle osservazioni, il termine, ivi previsto, -di novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni- che scadeva il 20.01.2007, in quanto, oltre alla delibera del 19.01.2007, sarebbero state assunte due ulteriori delibere, il 22 gennaio ed il 24 gennaio dello stesso anno. La ricorrente deduce, inoltre, l’incongruenza e lo sviamento di potere per avere la p.a. approvato in data 19.01.2007 quanto esaminato e determinato in data successiva.
Nonostante il Comune non abbia effettivamente rispettato il termine previsto dalla legge regionale, la censura non può trovare accoglimento.
L’art. 13, c. 7, l. Regione Lombardia n. 12/2005 dispone che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di p.g.t.. le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni”.
Nel caso di specie, gli atti del p.g.t. sono stati depositati presso la segreteria comunale sino al 22.09.2006, mentre il 22.10.2006 scadeva il termine per la presentazione delle osservazioni.
Il 20.01.2007 era, quindi, il termine ultimo entro il quale l’amministrazione comunale avrebbe dovuto decidere sulle osservazioni presentate.
Il Consiglio Comunale ha, invece, ultimato la decisione sulle osservazioni il 24.01.2007, e, pertanto, oltre la scadenza del termine previsto dalla legge regionale.
Il Collegio non condivide quanto prospettato dall’amministrazione comunale, laddove sostiene che, siccome la seduta del 19 gennaio sarebbe proseguita, senza nuove convocazioni, il 22 ed il 24 gennaio, le controdeduzioni alle osservazioni ed il p.g.t. sarebbero stati approvati con un processo deliberativo unitario che porta legittimamente la data dell’unica convocazione, ossia, il 19.01.2007.
La delibera n. 3 del 19.01.2007 dà atto che il Consiglio, il 19 gennaio, ha esaminato le osservazioni dalla n. 1 al n. 48, si è poi aggiornato il 22 gennaio e, in tale data, ha esaminato le osservazioni dalla n. 49 alla n. 106.
Infine, nella seduta del 24 gennaio, il Consiglio ha esaminato le osservazioni dalla n. 107 alla n. 148.
La data del 19.01.2007, indicata sulla delibera, è, dunque, palesemente erronea: l’amministrazione avrebbe difatti dovuto datare tale atto 24.01.2007, poiché solo in tale giorno il procedimento decisionale ha avuto termine, non potendo, certamente, avere deliberato il 19.01.2007 ciò che invece è stato deciso il 24 gennaio.
Prima di esaminare quali conseguenze derivino da tale violazione, occorre delineare la disciplina del procedimento di formazione del piano di governo del territorio, dettata dall’art. 13 della l. Regione Lombardia n. 12/2005.
Il Consiglio Comunale adotta il piano di governo del territorio dopo aver pubblicato l’avviso di avvio del procedimento e dopo aver acquisito suggerimenti e proposte da parte degli interessati ed i pareri delle parti economiche e sociali.
Successivamente, il comma 4 prevede che “entro novanta giorni dall'adozione, gli atti di p.g.t. sono depositati, a pena di inefficacia degli stessi, nella segreteria comunale per un periodo continuativo di trenta giorni, ai fini della presentazione di osservazioni nei successivi trenta giorni”.
Contemporaneamente, gli atti del p.g.t. sono trasmessi alla Provincia, la quale valuta la compatibilità del documento di piano con il proprio piano territoriale di coordinamento -entro il termine di centoventi giorni dal ricevimento della relativa documentazione, decorsi inutilmente i quali la valutazione si intende espressa favorevolmente- ed il documento di piano è trasmesso anche all'a.s.l. e all'a.r.p.a., che, entro i termini per la presentazione delle osservazioni di cui al comma 4, possono formulare osservazioni, rispettivamente per gli aspetti di tutela igienico-sanitaria ed ambientale, sulla prevista utilizzazione del suolo e sulla localizzazione degli insediamenti produttivi.
Il comma 7 dell’art. 13 dispone, poi, che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di p.g.t. le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti, provvede all'adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la Provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui all'articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo”.
Infine, gli atti del p.g.t., definitivamente approvati, sono depositati presso la segreteria comunale ed inviati per conoscenza alla Provincia ed alla Giunta regionale ed acquistano efficacia con la pubblicazione dell’avviso della loro approvazione definitiva sul Bollettino Ufficiale della Regione, da effettuarsi a cura del Comune.
Il Collegio ritiene di non potere accedere ad una interpretazione letterale della previsione di cui al comma 7.
Una soluzione che individui la ratio dell’art. 13 nell’esigenza di dettare una rigida tempistica procedimentale a fini acceleratori correlando alla mera violazione del termine previsto dal comma 7 l’inefficacia degli atti del p.g.t., non è percorribile, in quanto conduce ad esiti contrastanti con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa, posto dall’art. 97 Cost.
Difatti, qualora si ritenesse che all’inutile scadenza del termine entro il quale il Consiglio Comunale deve decidere sulle osservazioni consegua la perdita di efficacia del provvedimento di adozione del p.g.t., invero, l’attività amministrativa precedentemente esercitata verrebbe posta nel nulla, con conseguente obbligo per l’amministrazione di rinnovare l’intero procedimento, il tutto in contrasto con il principio di economicità oltre che con la ratio acceleratoria sottesa alla norma.
Insomma, l’esigenza di celerità sarebbe, invero, del tutto vanificata ove il termine previsto dall’art. 13, c. 7, della legge regionale n. 12/2005 fosse sanzionato con la perdita di efficacia dell’atto di adozione del piano di governo del territorio, in quanto l’amministrazione dovrebbe reiterare l’intera procedura amministrativa. Proprio il palese contrasto con i principi costituzionali già richiamati esclude la condivisibilità dell’interpretazione ora esaminata.
Questa interpretazione della norma non può, dunque, essere accolta, in quanto in netto contrasto con i principi costituzionali.
Il Collegio ritiene tuttavia che sia, comunque, possibile accedere ad una lettura della legge regionale in senso conforme alla Costituzione.
La norma così dispone: “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni”.
La previsione dell’inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell’articolo e ciò consente di riferire la sanzione della inefficacia alla inosservanza non del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della norma, ma di quanto stabilito nella seconda parte della disposizione, ossia alla violazione dell’obbligo di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del p.g.t. le conseguenti modificazioni.
Pertanto, l’inefficacia integra una sanzione dettata non a tutela di adempimenti formali, come il mero rispetto della tempistica procedimentale, ma di esigenze sostanziali, emergenti nell’ipotesi in cui il piano di governo del territorio sia approvato in assenza di una decisione sulle osservazioni o non recepisca le osservazioni accolte.
Ecco, allora, che l’inefficacia degli atti assunti si verifica solo quando la loro adozione non sia stata preceduta dalla decisione delle osservazioni presentate dagli interessati.
Questa lettura sostanzialistica può essere riferita anche alle altre ipotesi in cui la legge regionale prevede la sanzione dell’inefficacia degli atti assunti.
Così, seguendo questa linea interpretativa, la seconda parte del comma 7 –secondo cui il Consiglio Comunale “contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti, provvede all’adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo”– punisce non la mera inosservanza del termine previsto nella prima parte dell’articolo ma la violazione dell’obbligo di adeguare il documento di piano alle incompatibilità ravvisate dalla Provincia con il proprio p.t.c.p.
Ugualmente, il comma 4 -secondo cui “entro novanta giorni dall’adozione, gli atti di p.g.t. sono depositati, a pena di inefficacia degli stessi, nella segreteria comunale per un periodo continuativo di trenta giorni, ai fini della presentazione di osservazioni nei successivi trenta giorni”- sanziona non tanto il mancato rispetto del termine per il deposito quanto una violazione sostanziale, consistente nel non lasciare gli atti del p.g.t. a disposizione degli interessati, per un periodo di trenta giorni, al fine di presentare le osservazioni.
In conclusione, dunque, la violazione del termine di novanta giorni previsto dall’art. 13, c. 7, che si è verificata nel caso di specie, non comporta alcuna conseguenza, dovendo lo stesso ritenersi meramente ordinatorio.
Con il secondo motivo di ricorso, la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 8, c. 4, l. Regione Lombardia n. 12/2005 in quanto il p.g.t. sarebbe stato dimensionato sulla base di un previsione decennale anziché quinquennale, in contrasto anche con quanto segnalato dall’a.r.p.a. nel parere del 23.10.2006.
La censura è infondata atteso che la norma richiamata -nel prevedere che “il documento di piano ha validità quinquennale ed è sempre modificabile”- si riferisce unicamente al documento di piano e non all’intero p.g.t. e non impedisce quindi che quest’ultimo abbia un orizzonte temporale più ampio, fermo restando l’obbligo per il Comune di provvedere all’approvazione di un nuovo documento di piano allo scadere del quinquennio
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2010 n. 7508 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: art. 2 del decreto legge n. 95 del 2012, convertito in legge n. 135 del 2012, c.d. "Spending review" - pensionamenti in caso di soprannumero (circolare 29.07.2013 n. 3).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALIOggetto: sedi vacanti e reggenze a scavalco (Ministero dell'Interno, circolare 08.07.2013 n. 23581 di prot.)

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Il foglio dei lavoratori della Funzione Pubblica (CGIL-FP di Bergamo, luglio 2013).

PUBBLICO IMPIEGOSul blocco del trattamento economico accessorio la Corte dei Conti s'incarta (CGIL-FP di Bergamo, nota 29.07.2013).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 03.08.2013 n. 181 "Testo del decreto-legge 04.06.2013, n. 63, coordinato con la legge di conversione 03.08.2013, n. 90, recante: «Disposizioni urgenti per il recepimento della Direttiva 2010/31/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19.05.2010, sulla prestazione energetica nell’edilizia per la definizione delle procedure d’infrazione avviate dalla Commissione europea, nonché altre disposizioni in materia di coesione sociale.»".

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 31 del 01.08.2013, "Direzione centrale Programmazione integrata e finanza - Circolare esplicativa per l’attuazione degli artt. 26 e 27 del d.lgs. 14.03.2013, n. 33" (circolare regionale 25.07.2013 n. 16).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 31 del 30.07.2013, "Quinto aggiornamento 2013 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 26.07.2013 n. 7134).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

INCARICHI PROFESSIONALI: G. Manfredi, Appunti sull’affidamento degli incarichi legali delle pubbliche amministrazioni: competenza, procedimento, forma (Urbanistica e appalti n. 8-9/2013 - tratto da www.ipsoa.it).

APPALTI SERVIZI: F. Dello Sbarba, Illegittimo l’affidamento diretto mediante convenzione a cooperative sociali (Urbanistica e appalti n. 8-9/2013).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: A. Nicola, Gli impianti non centralizzati di ricezione radiotelevisiva e di produzione di energia da fonti rinnovabili (Immobili & proprietà n. 6/2013 - tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: N. D'Angelo, Abusi edilizi e falsità dei tecnici (L'Ufficio Tecnico n. 6/2013).

URBANISTICA: G. Ciaglia, La distinzione tra vincolo conformativo ed espropriativo nella giurisprudenza più recente (L'Ufficio Tecnico n. 6/2013).

APPALTI: M. Spagnuolo, L'erronea aggiudicazione determina la mancanza di contatto sociale qualificato (L'Ufficio Tecnico n. 6/2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: V. Tarroni, Conferenza di Servizi: la semplificazione amministrativa "inseguita" (L'Ufficio Tecnico n. 6/2013).

ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALI: T. Grandelli e M. Zamberlan, Il trattamento economico del segretario comunale  e provinciale (Risorse Umane, n. 3/2013).

APPALTI: O. Cristante, Sulle competenze del RUP, con riguardo alle procedure di aggiudicazione di contratti pubblici e, in particolare, al sub-procedimento di verifica dell'anomalia (I contratti dello Stato e degli Enti pubblici n. 2/2013).

INCARICHI PROGETTUALI: LA RESPONSABILITA' DEGLI INGEGNERI - PROFILI DEONTOLOGICI, CIVILISTICI E PENALISTICI (17.09.2009 - tratto da www.lavatellilatorraca.it).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: L’incentivo alla progettazione di cui all'art. 92, comma 5, dlgs 163/2006  può venire riconosciuto solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria attività di progettazione.
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L’art. 92, comma 6, dlgs 163/2006 non può costituire titolo per l’erogazione di speciali compensi ai dipendenti che svolgono attività sussidiarie, strumentali o di supporto alla redazione di atti di pianificazione affidata a professionisti esterni. Tale disposizione, infatti, abilita (nella misura autoritativamente fissata dalla legge) a riconoscere uno speciale compenso, al di là del trattamento economico ordinariamente spettante, solo in presenza dei due seguenti elementi di fattispecie:
a) sul piano dell’oggetto, che la prestazione consista nella diretta “redazione di un atto di pianificazione”, non in attività variamente sussidiarie che rientrano nei doveri d’ufficio dei dipendenti, nel contesto dell’attività di governo del territorio;
b) implicitamente, che la redazione dello stesso non sia stata esternalizzata ad un professionista esterno ai sensi dell’art. 90, comma 6.
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L’atto di pianificazione, comunque denominato, deve necessariamente riferirsi alla progettazione di opere pubbliche e non ad un mero atto di pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione.
Stante la sedes materiae della norma sugli incentivi alla progettazione (Codice degli appalti), nonché la ratio della disposizione (contenere i costi connessi alla progettazione delle opere pubbliche valorizzando le professionalità interne alla pubblica amministrazione), si condivide l’argomentazione secondo cui “la norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente”.
In conclusione, ciò che rileva ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale (piano regolatore o variante generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante.
La circostanza che nella fattispecie prospettata gli atti di pianificazione siano stati redatti da professionisti esterni esclude il diritto al compenso di cui al comma 6, art. 92, dlgs 163/2006.
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Il sindaco del comune di Casorate Primo, con nota n. 7926 del 02.07.2013, chiedeva all’adita Sezione l’espressione di un parere in ordine all’articolo 92, commi 5 e 6, del codice dei contratti.
In particolare, il Sindaco precisava quanto segue:
- che il comune di Casorate Primo (PV), nella seduta del Consiglio Comunale del 20/07/2010, con deliberazioni n. 40, 41, 42 e 43, ha approvato in via definitiva n. 4 Programmi Integrati di Intervento in variante al Piano Regolatore Generale;
- che gli atti di pianificazione suddetti sono stati predisposti da professionisti esterni all'Ente e prevedono, tra l'altro, la realizzazione di opere pubbliche sul territorio comunale, in aggiunta alle normali opere di urbanizzazione riferibili ai singoli Programmi di Intervento;
- che tali opere pubbliche saranno oggetto di separata progettazione e poi realizzate a seguito di espletamento di appalto di lavori pubblici da parte dell'Amministrazione comunale;
- che nell'ambito delle singole convenzioni urbanistiche sono stati posti a carico dell'operatore privato anche le spese riconducibili al compenso previsto dall'art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 e s.m.i., definite nelle convenzioni stesse quali generiche "spese tecniche".
Sulla base di tali premesse, il Sindaco dell’ente locale formulava i seguenti quesiti:
1) se può essere riconosciuto ai dipendenti che hanno istruito le pratiche inerenti i Programmi Integrati di Intervento specificati in premessa, l’incentivo di cui all'art. 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006 in ragione della futura utilizzazione delle opere pubbliche individuate nei singoli programmi integrati di intervento;
2) se, in alternativa, deve essere riconosciuto ai dipendenti interessati l'incentivo di cui all’art. 92, comma 5, del D.Lgs. n. 163/2006 all'atto della futura progettazione interna e successivo appalto delle opere pubbliche riferite ai Programmi Integrati di Intervento in argomento;
3) se sia legittimo, qualora non si dovesse procedere al riconoscimento degli incentivi ex art. 92 D.Lgs. n. 163/2006 a favore del personale dipendenti, introitare definitivamente gli importi suddetti, destinando tali risorse al Bilancio dell'Ente per il potenziamento ed il miglioramento delle strutture tecniche dell'Ente stesso.
...
La questione in esame concerne la corretta interpretazione dell’articolo 92, commi 5 e 6, del d.lgs. n. 63/2006, questione su cui la giurisprudenza di questa Sezione è ormai più che consolidata.
Più nel dettaglio, l’istanza di parere concerne separatamente il comma 5 citato (incentivi per la progettazione e l’appalto di opere pubbliche) ed il comma 6 (incentivi per la redazione di varianti allo strumento urbanistico generale), così da rendere opportuna una separata trattazione.
Seguendo l’ordine numerico, il menzionato comma 5 prevede che “una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, (…), è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti (…); le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie”.
La disciplina in discorso è stata già oggetto di attenzione da parte di precedenti pronunce della Corte dei conti (cfr., fra le altre,
Sezione Autonomie delibera 13.11.2009 n. 16/2009, Sezione Veneto parere 26.07.2011 n. 337, Sezione Piemonte parere 30.08.2012 n. 290, Sezione Lombardia parere 06.03.2012 n. 57 e parere 30.05.2012 n. 259) alle cui motivazioni e conclusioni può farsi riferimento per l’analisi dei profili generali.
La norma va letta nel complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli incarichi tecnico professionali, previste dalla legislazione in materia di contratti pubblici. Quest’ultima (si rinvia agli artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006) è informata da un principio generale, già codificato dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale i predetti incarichi possono essere conferiti a soggetti esterni al plesso amministrativo solo se non si disponga di professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di gestione delle risorse umane. Tale presupposto mira a preservare le finanze pubbliche oltre che a valorizzare il personale interno alle amministrazioni.
Pertanto,
nelle ipotesi ordinarie in cui gli incarichi tecnici sono espletati da personale interno, ai fini della loro remunerazione, occorre far riferimento alle regole generali previste per il pubblico impiego, il cui sistema retributivo è conformato da due principi cardine, quello di definizione contrattuale delle componenti economiche e quello di onnicomprensività della retribuzione (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Puglia, sentenze nn. 464, 475 e 487 del 2010). Secondo questi ultimi nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri d’ufficio, anche se di particolare complessità.
Il c.d. “incentivo alla progettazione”, previsto dal Codice dei contratti pubblici, costituisce uno di quei casi nei quali il legislatore, derogando al principio per cui il trattamento economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice, previa contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione.
L’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006 deroga ai principi di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico e, come tale, costituisce un’eccezione che si presta a stretta interpretazione e per la quale sussiste il divieto di analogia posto dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al codice civile (in tal senso Sezione Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008).
Come evincibile dalla lettera del comma,
la legge pone alcuni paletti per l’attribuzione del predetto incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“criteri e modalità”) ad un regolamento interno assunto previa contrattazione decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno deve rispettare (sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non previsti, si rimanda al
parere 30.05.2012 n. 259) paiono essere i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di servizi). La norma non presuppone, tuttavia, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione) purché, come sarà meglio specificato, il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni;
- ammontare complessivo non superiore al due per cento dell’importo a base di gara. Di conseguenza la somma concretamente prevista dal regolamento interno può essere stabilita in misura percentuale inferiore;
- ancoramento del fondo incentivante alla base di gara (non all’importo oggetto del contratto, né a quello risultante dallo stato finale dei lavori). Si deduce che non appare ammissibile la previsione e l’erogazione di alcun compenso nel caso in cui l’iter dell’opera o del lavoro non sia giunto, quantomeno, alla fase della pubblicazione del bando o della spedizione delle lettere d’invito (cfr., per esempio, l’art. 2, comma 3, del DM Infrastrutture n. 84 del 17/03/2008). Quanto detto non esclude che, in sede di regolamento interno, al fine di ancorare l’erogazione dell’incentivo a più stringenti presupposti, l’amministrazione possa prevedere la corresponsione solo subordinatamente all’aggiudicazione dell’opera;
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza (cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, Deliberazioni n. 315 del 13/12/2007, n. 70 del 22/06/2005, n. 97 del 19/05/2004;
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione (si rinvia alle Deliberazioni dell’Autorità di vigilanza n. 315 del 13/12/2007, n. 35 del 08/04/2009, n. 18 del 07/05/2008 e n. 150 del 02/05/2001).
Sulla base di quanto esposto si può così rispondere al quesito n. 2 formulato dal comune di Casorate Primo:
l’incentivo alla progettazione di cui al comma 5 può venire riconosciuto solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria attività di progettazione.
Ai sensi dell’articolo 92, comma 6, decreto legislativo n. 163/2003 “il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
Anche su tale disposto normativo la Sezione si è già più volte pronunciata con le deliberazioni n. 57, 259 e 440 del 2012 cui si rinvia per la completezza del quadro giurisprudenziale.
Richiamati le suesposte considerazioni sull’eccezionalità della previsione normativa, va ricordato che le condivisibili conclusioni di questa Sezione sono pertanto che “
l’art. 92, comma 6, non potrebbe costituire titolo per l’erogazione di speciali compensi ai dipendenti che svolgono attività sussidiarie, strumentali o di supporto alla redazione di atti di pianificazione affidata a professionisti esterni. Tale disposizione, infatti, abilita (nella misura autoritativamente fissata dalla legge) a riconoscere uno speciale compenso, al di là del trattamento economico ordinariamente spettante, solo in presenza dei due seguenti elementi di fattispecie:
a) sul piano dell’oggetto, che la prestazione consista nella diretta “redazione di un atto di pianificazione”, non in attività variamente sussidiarie che rientrano nei doveri d’ufficio dei dipendenti, nel contesto dell’attività di governo del territorio (cfr. la deliberazione del 27.01.2009, n. 9 di questa Sezione);
b) implicitamente, che la redazione dello stesso non sia stata esternalizzata ad un professionista esterno ai sensi dell’art. 90, comma 6
”.
Quanto al corretto significato da attribuire alla locuzione “atto di pianificazione” inserita nel testo dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, la Sezione richiama il condivisibile orientamento espresso dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte (cfr.
parere 30.08.2012 n. 290), a tenore del quale, l’atto di pianificazione, comunque denominato, debba necessariamente riferirsi alla progettazione di opere pubbliche e non ad un mero atto di pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione.
Stante la sedes materiae della norma sugli incentivi alla progettazione (Codice degli appalti), nonché la ratio della disposizione (contenere i costi connessi alla progettazione delle opere pubbliche valorizzando le professionalità interne alla pubblica amministrazione), si condivide l’argomentazione secondo cui “la norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente (in termini, Sezione contr. Piemonte deliberazione cit.; cfr. altresì Sezione contr. Lombardia, 30.05.2012, n. 259; 06.03.2012, n. 57; Sezione contr. Puglia,
parere 16.01.2012 n. 1; Sezione contr. Toscana, parere 18.10.2011 n. 213).
In conclusione,
ciò che rileva ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale (piano regolatore o variante generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante.
La circostanza che nella fattispecie prospettata gli atti di pianificazione siano stati redatti da professionisti esterni esclude il diritto al compenso di cui al comma 6
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 29.07.2013 n. 351).

INCENTIVO PROGETTAZIONEUn atto regolamentare non può essere assimilato, per il suo contenuto intrinseco, ad un progetto di lavori comunque denominato mentre l’art. 90 del D.lgs. n. 163/2006, sia alla rubrica che al c. 1, fa riferimento esclusivamente ai lavori pubblici, e l’art. 92, c. 1, presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell’opera pubblica progettata".
A fortiori, lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che
l’incentivo alla progettazione venga ripartito <tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto” e, dunque, è di palmare evidenza come il riferimento normativo e la conseguente voluntas legis sia ascrivibile solo alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse>”.
Altresì, "La norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente”, dovendosi, pertanto, escludere dall’incentivo economico la redazione di atti di pianificazione urbanistica.

Ad ulteriore sostegno del riconoscimento dell’incentivo agli incaricati della redazione di un atto di progettazione o pianificazione solo qualora questo abbia ad oggetto la realizzazione di un’opera pubblica, il Decreto del Ministero dell’Interno 22.04.2013, n. 66, recante norme per la ripartizione dell’incentivo economico al personale del Dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile, detta disposizioni pregnanti anche ai fini della risoluzione del caso di specie, laddove prevede, all’art. 2, commi 2 e 3, che gli incentivi di cui all’art. 92, c. 5, del Codice dei contratti “sono riconosciuti per le attività del responsabile del procedimento e degli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione lavori, del collaudo, nonché dei loro collaboratori.
Gli incentivi di cui al comma 1 del presente articolo sono riconosciuti soltanto quando i relativi progetti siano stati formalmente approvati e posti a base di gara e riguardino lavori pubblici di competenza dell'amministrazione, quali attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro e manutenzione straordinaria e ordinaria, comprese le eventuali progettazioni di connesse campagne diagnostiche e le eventuali redazioni di perizie di variante e suppletive nei casi previsti dall'art. 132, comma 1, del codice, ad eccezione della lettera e)”.

Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla Sezione, con nota prot. n. 11287/1.13.9 del 26.06.2013, una richiesta di parere formulata dal Sindaco del Comune di Borgo San Lorenzo, in materia di incentivi alla progettazione di cui all’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 (Codice dei contratti).
In particolare si chiede, alla luce delle diverse interpretazioni, se possa essere erogato l’incentivo “ai dipendenti facenti parte dell’ufficio di piano” costituito al fine di redigere il Regolamento urbanistico dell’ente, la cui attività di pianificazione è ritenuta strumentale alla progettazione di opere pubbliche.
...
Nel merito, l’art. 92, comma 5, del D.Lgs. 163/2006 (codice degli appalti) recita: “Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, (…) è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare(…)”. L’art. 92, comma 6, del D.Lgs. 163/2006 (codice degli appalti) recita: “Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, (…) tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
Questa Sezione si è già pronunciata su un quesito analogo a quello proposto con
parere 18.10.2011 n. 213 (come ricordato dall’ente richiedente) e ancor più di recente con il parere 27.11.2012 n. 389 e con il parere 12.12.2012 n. 459, ove ha chiarito che “un atto regolamentare non può essere assimilato, per il suo contenuto intrinseco, ad un progetto di lavori comunque denominato mentre l’art. 90 del D.lgs. n. 163/2006, sia alla rubrica che al c. 1, fa riferimento esclusivamente ai lavori pubblici, e l’art. 92, c. 1, presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell’opera pubblica progettata".
A fortiori, lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che
l’incentivo alla progettazione venga ripartito <tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto” e, dunque, è di palmare evidenza come il riferimento normativo e la conseguente voluntas legis sia ascrivibile solo alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse>”, in sintonia, peraltro, con un parere di altra sezione della Corte dei conti (Piemonte
parere 30.08.2012 n. 290), che, in riferimento alla disciplina normativa di cui trattasi, afferma: “La norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente”, dovendosi, pertanto, escludere dall’incentivo economico la redazione di atti di pianificazione urbanistica.
Ad ulteriore sostegno del riconoscimento dell’incentivo agli incaricati della redazione di un atto di progettazione o pianificazione solo qualora questo abbia ad oggetto la realizzazione di un’opera pubblica, il decreto 22.04.2013 n. 66 del Ministero dell'Interno, recante norme per la ripartizione dell’incentivo economico al personale del Dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile, detta disposizioni pregnanti anche ai fini della risoluzione del caso di specie, laddove prevede, all’art. 2, commi 2 e 3, che gli incentivi di cui all’art. 92, c.5, del Codice dei contratti “sono riconosciuti per le attività del responsabile del procedimento e degli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione lavori, del collaudo, nonché dei loro collaboratori.
Gli incentivi di cui al comma 1 del presente articolo sono riconosciuti soltanto quando i relativi progetti siano stati formalmente approvati e posti a base di gara e riguardino lavori pubblici di competenza dell'amministrazione, quali attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro e manutenzione straordinaria e ordinaria, comprese le eventuali progettazioni di connesse campagne diagnostiche e le eventuali redazioni di perizie di variante e suppletive nei casi previsti dall'art. 132, comma 1, del codice, ad eccezione della lettera e)
”.

Nelle sopra esposte considerazioni è il parere della Corte dei conti –Sezione regionale di controllo per la Toscana- in relazione alla richiesta formulata dal Sindaco del Comune di Borgo San Lorenzo per il tramite del Consiglio delle autonomie con nota prot. n. 11287/1.13.9 del 26.06.2013 (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 29.07.2013 n. 252).

ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALISegretari, i costi non si dividono. Delibera Corte conti sulle convenzioni.
Le spese del personale relative al segretario comunale che opera anche in altri comuni in convenzione, devono essere classificate per intero nel bilancio dell'ente e non in quota parte. Infatti, il rapporto di servizio del segretario che presta la sua opera anche presso un ente diverso da quello di assegnazione principale rimane, sotto il profilo del rapporto organico, in capo al comune capofila e l'inscindibilità del rapporto stesso non consente di considerare la spesa per il dipendente solo per una quota parte.

È quanto ha affermato la sezione delle autonomie della Corte dei conti, nella deliberazione 26.07.2013 n. 17, facendo chiarezza su un aspetto delle disposizioni previste dall'articolo 76, comma 6, del dl n. 112/2008, in materia di rapporto tra spesa del personale e quella corrente.
La vicenda. Il comune di Terranova del Pollino ha in regime di convenzione con altri due enti il servizio del segretario comunale. Essendo comune capofila, anticipa per il predetto servizio l'intero onere finanziario, comprensivo di contributi fiscali e previdenziali, mentre gli altri due enti versano mensilmente a quest'ultimo la propria quota, a scadenze diverse.
Il comune afferma che le quote di rimborso provenienti dagli altri due enti andrebbero escluse in bilancio dalla voce «spese di personale», perché legate a prestazioni che il segretario svolge nell'interesse degli altri enti e che le stesse, per i limiti ex dl n. 112/2008, andrebbero considerate solo per la propria quota spettante, mentre le altre dovrebbero rientrare nelle spese per prestazioni di servizi.
La decisione. Per la Corte, anche se non esiste una disposizione attuale che indichi quali siano le componenti dell'aggregato spesa di personale per il vincolo che fa riferimento al rapporto spesa di personale e spesa corrente, si ritiene preferibile non ammettere l'esclusione.
Rafforza questa conclusione l'evidenza che il rapporto di servizio del segretario che presta la sua opera anche presso un ente diverso da quello di assegnazione principale rimane, in capo al comune capofila. Tale inscindibilità, pertanto, non consente di considerare la spesa per il dipendente solo per una quota parte (articolo ItaliaOggi del 31.07.2013).

URBANISTICAL’art. 31, comma 48, della legge n. 448/1998 così dispone: “Il corrispettivo delle aree cedute in proprietà è determinato dal comune, su parere del proprio ufficio tecnico, in misura pari al 60 per cento di quello determinato ai sensi dell'articolo 5-bis, comma 1, del decreto-legge 11.07.1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 08.08.1992, n. 359, escludendo la riduzione prevista dall'ultimo periodo dello stesso comma, al netto degli oneri di concessione del diritto di superficie, rivalutati sulla base della variazione, accertata dall'ISTAT, dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati verificatasi tra il mese in cui sono stati versati i suddetti oneri e quello di stipula dell'atto di cessione delle aree. Comunque il costo dell'area così determinato non può essere maggiore di quello stabilito dal comune per le aree cedute direttamente in diritto di proprietà al momento della trasformazione di cui al comma 47”.
La suddetta disposizione deve essere intesa secondo la lettera della disposizione medesima e cioè nel senso che il calcolo per la determinazione del corrispettivo per la trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà deve essere effettuato nella misura del 60 per cento del valore venale del bene con conseguente riduzione del 40 per cento.

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Il Comune di Ferrara, rappresentato dal Sindaco, con lettera del 16.05.2013, n. prot. 40015 del 20.05.2013, ha chiesto un parere a questa Sezione in materia di contabilità pubblica, ai sensi dell’art. 7 comma 8, della legge n. 131 del 2003, ed in particolare sulla corretta interpretazione ed applicazione dell’art. 31, comma 48, della legge n. 448 del 1998 (Finanziaria per il 1999), riguardante la determinazione del corrispettivo per la trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà, anche in considerazione delle deliberazioni della Corte dei conti, Sezioni riunite n. 22/CONTR/11 del 14.11.2011 e Sezione Regionale per la Lombardia n. 1 del 2009.
Fa rilevare il Comune richiedente che “dalla lettura della normativa (art. 31, comma 48, della legge n. 448 del 1998) e dal disposto della Corte, appare una difformità in merito alla percentuale da applicare:
A) valore venale del bene calcolato al 60% e pertanto riduzione del 40% (secondo l’art. 31, comma 48, della legge n. 448 del 1998);
B) valore venale del bene calcolato al 40% e pertanto riduzione del 60% (secondo quanto scritto dalla Corte dei conti a Sezioni riunite che, peraltro, richiama la medesima normativa)
”.
...
Ai fini della soluzione del quesito occorre preliminarmente richiamare la lettera dell’art. 31, comma 48, della legge n. 448 del 1998: “Il corrispettivo delle aree cedute in proprietà è determinato dal comune, su parere del proprio ufficio tecnico, in misura pari al 60 per cento di quello determinato ai sensi dell'articolo 5-bis, comma 1, del decreto-legge 11.07.1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 08.08.1992, n. 359, escludendo la riduzione prevista dall'ultimo periodo dello stesso comma, al netto degli oneri di concessione del diritto di superficie, rivalutati sulla base della variazione, accertata dall'ISTAT, dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati verificatasi tra il mese in cui sono stati versati i suddetti oneri e quello di stipula dell'atto di cessione delle aree. Comunque il costo dell'area così determinato non può essere maggiore di quello stabilito dal comune per le aree cedute direttamente in diritto di proprietà al momento della trasformazione di cui al comma 47”.
Con specifico riferimento all’esegesi della locuzione “Il corrispettivo delle aree cedute in proprietà è determinato dal comune, su parere del proprio ufficio tecnico, in misura pari al 60 per cento…” deve rilevarsi che il dubbio interpretativo sollevato dal Comune richiedente è solo apparente in quanto v’è nella sostanza coincidenza tra la lettera della norma citata e i deliberati della Corte, nel senso che il calcolo per la determinazione del corrispettivo per la trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà deve essere effettuato nella misura del 60 per cento del valore venale del bene con conseguente riduzione del 40 per cento.
L’ipotesi della riduzione del 60 per cento del valore del bene deve essere dunque esclusa dalla lettura complessiva delle due citate deliberazioni che pure utilizzano un’impropria sintetica locuzione riportata peraltro sia nel dispositivo della deliberazione delle Sezioni riunite n. 22 del 2010: “…applicando la riduzione del 60 per cento al valore individuato facendo riferimento ai vigenti criteri di calcolo dell’indennità di espropriazione…” (punto 5 della pronuncia), sia in quello del parere reso dalla Sezione di controllo per la Lombardia n. 1 del 2009 al Sindaco di Bertonico: “…va affermato che nella determinazione del prezzo per la trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà deve prendersi a base di calcolo l’equa riparazione stabilita dall’art. 2, comma 89, della Finanziaria per il 2008, da decurtare nei limiti del 60% come previsto dall’art. 31, comma 48, della Finanziaria per il 1999”.
Conclusivamente
la disposizione di cui all’art. 31, comma 48, della legge n. 448 del 1998 deve essere intesa secondo la lettera della disposizione medesima e cioè nel senso che il calcolo per la determinazione del corrispettivo per la trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà deve essere effettuato nella misura del 60 per cento del valore venale del bene con conseguente riduzione del 40 per cento (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 25.07.2013 n. 258).

INCARICHI PROFESSIONALI: Il maggior onere finanziario che l’ente locale deve sostenere per il pagamento, a saldo, di parcelle di avvocati esterni che hanno assunto il patrocinio dell’ente in un giudizio non costituisce una fattispecie di debito fuori bilancio, ex art. 191, lett. e), TUEL, tutte le volte in cui, essendoci la capienza del capitolo di bilancio relativo al pagamento delle spese legali, possa essere disposta una integrazione dell’originario atto di impegno registrato nel momento di conferimento dell’incarico professionale.
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Il Sindaco del Comune di Parma ha formulato alla Sezione una richiesta di parere con la quale intende conoscere quale sia il corretto procedimento di natura contabile da seguire per poter assumere il maggior onere finanziario relativo al pagamento, a saldo, delle parcelle di avvocati esterni incaricati della difesa giudiziale dell’Ente originato, rispetto alle previsioni iniziali, da imprevedibili complessità e peculiarità del giudizio penale.
In particolare, vengono posti i seguenti quesiti:
1) se, in ipotesi di inadeguata previsione di spesa da parte di un professionista incaricato della difesa dell’Ente –motivata dalla difficoltà di apprezzamento “a priori” delle prestazioni richieste, in ragione della peculiarità, complessità ed imprevedibilità del giudizio penale– la richiesta di pagamento della somma residua “non impegnata” costituisca -una volta intervenuta la sentenza che definisce il giudizio– un debito fuori bilancio;
2) "se, diversamente, in caso di capienza del capitolo destinato al pagamento delle spese legali, sia possibile procedere all’impegno della somma residua richiesta dal professionista a titolo di saldo parcella -quest’ultima regolarmente opinata dall’ordine forense-, facendola gravare, con determinazione dirigenziale di liquidazione, su esercizio finanziario successivo rispetto a quello in cui l’incarico si sia concluso.
...
Ai fini della soluzione del quesito posto occorre preliminarmente richiamare la deliberazione n. 311/2012/PAR nella quale questa Sezione si è ampiamente occupata del rapporto tra la procedura contabile “ordinaria” per l’assunzione di spese che gravano sui bilanci degli enti locali e la procedura per il riconoscimento dei cd. debiti fuori bilancio.
In tale pronuncia la Sezione ha rilevato, che gli enti locali, al pari di tutte le altre pubbliche amministrazioni, per poter legittimamente assumere a carico del proprio bilancio obbligazione giuridiche nei confronti dei terzi, devono seguire una procedura, articolata in più fasi, prevista e disciplinata negli articoli 182-185 e 191 TUEL. Tale ultima disposizione, al comma 1, stabilisce che gli enti locali possono effettuare spese solo a seguito dell’assunzione, da parte del responsabile del servizio finanziario, dell’atto di impegno da registrarsi sul pertinente intervento o capitolo di bilancio, munito dell’attestazione della relativa copertura finanziaria.
Il rispetto di tale procedura, oltre a garantire l’obbligo della copertura finanziaria degli atti da cui derivano impegni di spesa e la salvaguardia degli equilibri di bilancio, consente di evitare la formazione di debiti originati in via extracontabile.
Pur tuttavia, qualora vengano in essere obbligazioni giuridiche al di fuori della descritta procedura ordinaria, l’ordinamento giuscontabile prevede, comunque, la possibilità di ricondurle nella contabilità ordinaria dell’ente, purché si tratti di obbligazioni rientranti nelle fattispecie tassativamente elencate nell’articolo 191 TUEL e purché venga adottato un atto di riconoscimento del debito da parte dell’organo consiliare.
Ciò premesso, la Sezione rileva che,
in ossequio ai principi di prudenza e di sana gestione finanziaria, nel momento in cui l’ente locale assume obbligazioni giuridiche nei confronti dei terzi deve, contestualmente, procedere a determinare, secondo la stima più precisa possibile, le somme da corrispondere al fine di poter adottare i relativi atti della procedura contabile, evitando la formazione di debiti che si originano con una procedura extracontabile.
Per le ipotesi di assunzione di atti di impegno derivanti da contratti di prestazione d’opera intellettuale si richiama il principio contabile n. 2, cpv. 108, del Testo approvato dall’Osservatorio del Ministero dell’Interno il 12.03.2008, ai sensi del quale <l’ente deve determinare compiutamente, anche in fasi successive temporalmente, l’ammontare del compenso (esempio gli incarichi per assistenza legale) al fine di evitare la maturazione di oneri a carico del bilancio non coperti dall’impegno di spesa inizialmente assunto. Il regolamento di contabilità dell’ente potrà disciplinare l’assunzione di ulteriore impegno, per spese eccedenti l’impegno originario, dovute a cause sopravvenute ed imprevedibili>.
Ne deriva, pertanto, che
è onere dell’ente trovare, nel momento del conferimento dell’incarico professionale, la copertura finanziaria della spesa per gli onorari da pagare quale compenso per la prestazione resa che tenga conto non solo degli acconti, ma anche del saldo in modo da coprire la spesa complessiva e nella sua interezza.
Ciò nonostante
nell’ipotesi in cui vi sia uno scostamento tra la previsione di spesa iniziale (ricompresa nel formale atto di impegno) e quella finale, il cui superiore ammontare sia derivato, nella specie, da fatti sopravvenuti ed imprevedibili, quali la peculiarità, complessità e imprevedibilità del giudizio penale, questa Sezione, in conformità all’orientamento già formatosi presso altre Sezioni regionali di controllo (cfr. Sez. Lombardia, deliberazioni nn. 19/2009/PAR e 441/2012/PAR; Sez. Campania, deliberazione n. 9/2007; Sez. Sardegna deliberazione n. 2/2007), ritiene che il maggior onere di imprevedibile quantificazione debba essere coperto integrando l’originario atto di impegno di spesa, poiché è necessario solo aumentare l’importo delle somme da corrispondere al professionista, restando invariati il titolo giuridico e gli altri elementi dell’obbligazione assunta dall’Ente (atto di conferimento dell’incarico professionale, soggetto creditore).
Si rileva, infine, che,
pur potendo il conferimento di incarichi di natura professionale astrattamente rientrare nell’ipotesi di cui alla lettera e) all’articolo 191 TUEL, in quanto trattasi di acquisizione di un servizio, ritiene la Sezione che non sia necessario utilizzare la procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio nell’ipotesi, quale quella in esame, nei limiti dell’ipotesi di maggiori oneri di imprevedibile quantificazione, poiché l’incarico era stato regolarmente conferito ed il relativo impegno era stato assunto secondo la ordinaria procedura di spesa di cui all’art. 183 TUEL, seppur con un importo inferiore rispetto a quello necessario a soddisfare interamente la pretesa creditoria del professionista esterno.
Il presente parere ed i principi in esso espressi vengono resi dalla Sezione prescindendo dalla verifica, rimessa all’amministrazione istante, del rispetto della procedura di conferimento dell’incarico professionale, della valutazione circa la convenienza e congruità del compenso pattuito, nonché delle ragioni che non hanno consentito l’utilizzazione di risorse interne all’amministrazione (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 25.07.2013 n.
256).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Il ricorso ai sistemi telematici o agli strumenti elettronici messi a disposizione dalla Regione Lombardia non debbono essere intese quale ulteriore specificazione delle fattispecie di acquisto autonomo (tanto nei casi in cui l’oggetto dell’acquisizione sia già presente sul MEPA, quanto nelle ipotesi in cui non sia ivi rinvenibile), bensì quale vera e propria forma equipollente di e-procurement che permette l’approvvigionamento di beni e servizi mediante procedure telematiche previste dalla legge.
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... il Presidente della Regione Lombardia mediante nota del 20.06.2013, ha posto un quesito sulla disciplina e sulle modalità di accesso da parte delle pubbliche amministrazioni lombarde al Sistema telematico regionale (Sintel), quale piattaforma tecnologica alternativa al MEPA, agli altri mercati elettronici descritti nell’art. 328 comma1 del regolamento al Codice degli Appalti (D.P.R. n. 207/2010), al ricorso alla centralizzazione degli acquisti tramite convenzioni Consip.
...
Tutto ciò premesso, si rileva che il Sistema Telematico “regionale”:
- rappresenta un’alternativa al MEPA o altri mercati elettronici di cui all'articolo 328, comma 1, del regolamento del Codice degli Appalti (DPR 2010, n. 207) nell’ipotesi prevista dal richiamato comma 450, articolo 1, della legge 27 dicembre 2006, n.296.
- rappresenta un’alternativa alla centralizzazione delle acquisizioni (anche in ambito di lavori) dettate per i Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti nell’ipotesi prevista dall’articolo 33, comma 3-bis del Dlgs n. 163/2006.
Tuttavia i pareri svolti dalla Corte dei Conti, Sezioni di Controllo della Regione Marche (n. 169/2012) e della Regione Lombardia sul tema (n. 165/2013 e n. 89/2013) non compiono alcun riferimento ai Sistemi Telematici messi a disposizione dalle Centrali di Committenza Regionali. Infatti tali pareri, nel descrivere le ipotesi in cui un Ente Locale è legittimato ad effettuare un acquisto autonomo, compiono riferimento unicamente alla fattispecie in cui l’oggetto dell’acquisizione non è presente nelle categorie merceologiche del MEPA o altro Mercato Elettronico non considerando l’alternativa fornita dai richiamati Sistemi Telematici delle centrali regionali.
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Tutto ciò esposto e in particolare alla luce della differenza sia formale che sostanziale richiamata, si chiede pertanto a codesta spettabile Sezione di confermare l’ambito di alternativa/equipollenza rappresentato dalla predetta locuzione sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento (nelle diverse accezioni sopra elencate) con riguardo al concetto di Mercato Elettronico. In particolare si richiede di confermare la legittimità delle modalità di acquisto descritte nelle ipotesi sub a) e sub b) ovvero che l’ente locale possa adempiere al dettato normativo anche utilizzando la piattaforma telematica regionale Sintel. Tale invero sembra essere senza alcun dubbio l’intenzione del legislatore e cioè quello di promuovere l’utilizzo di strumenti telematici di acquisto, siano essi gestiti dalla centrale di committenza nazionale (MEPA, da Consip) siano essi gestiti da centrali di committenza regionali (Sintel, in Lombardia, da ARCA).
Analogamente, alla luce delle considerazioni svolte in merito alle differenze tra diversi sistemi, si chiede a codesta spettabile Sezione di confermare l’ambito di alternatività portato dall’articolo 33, comma 3-bis, del D.Lgs. n. 163/2006, per le acquisizioni di lavori, servizi e forniture dei Comuni con popolazione non superiore a 5.000, e segnatamente: in alternativa, gli stessi Comuni possono effettuare i propri acquisti attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di committenza di riferimento.
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L’amministrazione regionale ha delineato nel contesto del quesito il quadro normativo che disciplina il sistema degli acquisti in rete mediante il quale le pubbliche amministrazioni devono conformarsi nel procurarsi beni e servizi.
Con riferimento alle questioni di coordinamento fra le varie discipline che si sono stratificate a partire dall’art. 26, commi 1 e 3, della legge n.488/1999, per concludere con i precetti dell’art. 1 del D.L. n. 95/2012, è sufficiente rinviare all’ampia disamina del quadro normativo delineato nei precedenti consultivi di questa Sezione, cui la stessa amministrazione istante si è riferita, tanto con riferimento al (SRC Lombardia, deliberazione n. 89/2013/PAR; deliberazione n. 165/2013/PAR, ed in termini SRC Marche deliberazione n. 169/2012/PAR; SRC Piemonte, deliberazione n. 271/2012/PAR).
I pilastri su cui si fonda il sistema di e-procurement possono essere individuati in primo luogo, nel vincolo di benchmark rispetto alle convenzioni Consip; in secondo luogo, nell’utilizzo del MEPA. per la generalità degli acquisti ed, infine, nella possibilità di aderire ai sistemi telematici e agli strumenti elettronici di negoziazioni messi a disposizioni dalle Centrali di committenza regionali e/o da altre Centrali di committenza di riferimento.
Ciò posto, ai fini della tenuta complessiva del sistema di e-procurement via via delineato dal legislatore, occorre ribadire la natura vincolistica dei recenti interventi che hanno profondamente innovato il quadro normativo relativo agli acquisti di beni e servizi della Pubblica Amministrazione in genere. Di qui l’adozione di un’interpretazione rigorosa delle disposizioni di cui trattasi tale da non frustrarne o eluderne i sottesi principi informatori, con prioritario rilievo al criterio letterale.
In particolare, per quanto concerne le convenzioni Consip, ai sensi del sopracitato art. 1, comma 449, l. n. 296/2006, le amministrazioni pubbliche non statali di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, possono ricorrere alle convenzioni di cui al presente comma e al comma 456 del presente articolo, ovvero ne utilizzano i parametri di prezzo-qualità come limiti massimi per la stipulazione dei contratti.
Ergo, in linea di principio, le sanzioni stabilite dall’art. 1, comma 1, del citato decreto legge n. 95 appaiono applicabili anche ai contratti stipulati dagli enti locali senza tener conto dei parametri prezzo-qualità delle convenzioni Consip quale limite massimo per l’acquisto di beni o servizi comparabili.
Per quanto concerne i Comuni di minore dimensione, dal momento dell’entrata in vigore dell’art. 33, comma 3-bis, del d.lgs. n. 163/2006 l’obbligo di avvalersi delle convenzioni Consip, degli strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di committenza di riferimento trova applicazione per tutti gli enti inferiori a 5.000 abitanti, quale possibilità alternativa al ricorso ad un’unica centrale di committenza nell’alveo di un’unione o di un consorzio di comuni.
Resta fermo il disposto dell’art. 1, comma 7, del D.L. n. 95/2012, relativo ad alcune tipologie specifiche di acquisti da parte delle amministrazioni pubbliche e delle società inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'ISTAT ai sensi dell'articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196, a totale partecipazione pubblica diretta o indiretta (senza esclusioni soggettive). Siffatti enti, relativamente alle categorie merceologiche di energia elettrica, gas, carburanti rete e carburanti extra-rete, combustibili per riscaldamento, telefonia fissa e telefonia mobile, sono tenuti ad approvvigionarsi attraverso le convenzioni o gli accordi quadro messi a disposizione da Consip S.p.A. e dalle centrali di committenza regionali di riferimento (costituite ai sensi dell'articolo 1, comma 455, della legge 27.12.2006, n. 296), ovvero ad esperire proprie autonome procedure nel rispetto della normativa vigente utilizzando i sistemi telematici di negoziazione messi a disposizione dai soggetti sopra indicati.
È fatta salva la possibilità di procedere ad affidamenti, nelle indicate categorie merceologiche, anche al di fuori delle predette modalità, ma a condizione che gli stessi conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di committenza o a procedure di evidenza pubblica, e prevedano corrispettivi inferiori a quelli indicati nelle convenzioni e accordi quadro messi a disposizione da Consip S.p.A. e dalle centrali di committenza regionali. In tali casi i contratti dovranno comunque essere sottoposti a condizione risolutiva con possibilità per il contraente di adeguamento ai predetti corrispettivi nel caso di intervenuta disponibilità di convenzioni Consip e delle centrali di committenza regionali che prevedano condizioni di maggior vantaggio economico. La mancata osservanza delle disposizioni del presente comma rileva ai fini della responsabilità disciplinare e per danno erariale.
Passando al Mercato elettronico della P.A. (c.d. MEPA), il richiamato art. 1, comma 450, l. n. 296/2006 distingue il regime normativo delle “amministrazioni statali centrali e periferiche” rispetto a quello delle “altre amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 D.Lgs. n.165/2001”. Gli Enti locali, ai fini dell’affidamento di appalti pubblici di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario, debbono obbligatoriamente ricorrere al mercato elettronico.
Cionondimeno, non sussiste un obbligo assoluto di ricorso al Mercato Elettronico della P.A. (c.d. MEPA), essendo espressamente prevista la facoltà di scelta tra le diverse tipologie di mercato elettronico richiamate dall’art. 328 del d.p.r. 207/2010: segnatamente, tra il mercato elettronico realizzato dalla medesima stazione appaltante e quello realizzato dalle centrali di committenza di riferimento di cui all’art. 33 del Codice dei contratti.
Emerge, dunque, evidente un favor del legislatore per modalità di acquisto effettuata mediante sistemi c.d. di e-procurement tali da assicurare alla amministrazione la possibilità di entrare in contatto con una più ampia platea di fornitori; ma, soprattutto, emerge l’esigenza di garantire la tracciabilità dell’intera procedura di acquisto ed una maggiore trasparenza della stessa, attesa l’automaticità del meccanismo di aggiudicazione con conseguente riduzione dei margini di discrezionalità dell’affidamento.
Giova osservare che, a parte la gamma di possibilità offerta alla stazione appaltante alla stregua del richiamato art. 328 del Regolamento di esecuzione ed attuazione, lo stesso MEPA., diversamente dal sistema delle Convenzioni Consip, si atteggia come un mercato aperto cui è possibile l’adesione da parte di imprese che soddisfino i requisiti previsti dai bandi relativi alla categoria merceologica o allo specifico prodotto e servizio e, quindi, anche di quella o quelle asseritamente in grado di offrire condizioni di maggior favore rispetto a quelle praticate sul MEPA ovvero un bene/servizio conforme alle esigenze funzionali della amministrazione procedente.
L’amministrazione regionale riferisce di una carenza previsionale, allo stato dell’arte, negli approdi consultivi delle varie Sezioni regionali di Controllo, ed in particolare nell’omissione di ulteriori casi di legittimo acquisto autonomo da parte dell’Ente Locale, oltre le ipotesi nelle quali il bene o il servizio richiesto non è presente nelle categorie merceologiche del MEPA o di altro mercato elettronico, non considerando l’alternativa fornita dai richiamati Sistemi telematici messi a disposizione dalle Centrali Acquisti Regionali.
Come si può notare, l’orientamento consultivo già espresso dalla Sezione nella citata deliberazione n. 89/2013/PAR, conteneva alcuni richiami espliciti “agli strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di committenza di riferimento”, quale forma alternativa di e-procurement previsto dal legislatore.
Orbene,
non vi è dubbio che la costituzione dell’Agenzia Regionale Centrale Acquisti, abbia ricevuto copertura legislativa attraverso la legge regionale n. 33/2007, quale organismo di committenza previsto dall’art. 33 del D.Lgs. n. 163/2006.
Il favor del legislatore per la costituzione e l’utilizzo delle centrali di committenza regionali è avallato dalla previsione testuale dell’art. 1, commi 449 e 450, della legge 27.12.2006, n. 296 e dall’art. 2, comma 574, della legge 24.12.2007, n. 244.
Peraltro, i servizi di centralizzazione presi in considerazione dalla norma di riferimento non si limitano all’acquisto centralizzato, ma anche alla predisposizione d’infrastrutture informatiche in grado di aumentare trasparenza, celerità e quindi economicità degli acquisti (piattaforme telematiche).
Ne consegue che
il ricorso ai sistemi telematici o agli strumenti elettronici messi a disposizione dalla Regione Lombardia non debbono essere intese quale ulteriore specificazione delle fattispecie di acquisto autonomo (tanto nei casi in cui l’oggetto dell’acquisizione sia già presente sul MEPA, quanto nelle ipotesi in cui non sia ivi rinvenibile), bensì quale vera e propria forma equipollente di e-procurement che permette l’approvvigionamento di beni e servizi mediante procedure telematiche previste dalla legge (sugli obblighi di utilizzare le strutture telematiche di e-procurement messe a disposizione dalla Regione per gli enti del Servizio Sanitario Regionale si veda il recente approdo del Consiglio di Stato, sentenza 18.01.2013, n. 288).
Occorre inoltre rilevare che
le funzionalità offerte dai sistemi telematici resi fruibili dalle centrali di committenza regionali alla platea delle amministrazioni locali possono garantire talune funzionalità aggiuntive rispetto ai cataloghi predefiniti di beni e di servizi presenti sul MEPA, consentendo l’individuazione selettiva di una categoria merceologica non presente nel sistema o nel mercato elettronico, ovvero la possibilità di utilizzare una piattaforma telematica per la gestione dell’intera procedura di acquisto, indipendentemente dalla forma di gara in concreto utilizzata.
Analogamente,
i Comuni con popolazione non superiore ai 5.000 abitanti, possono accedere ai sistemi telematici messi a disposizioni dalle amministrazioni regionali anche per l‘acquisizione di lavori, servizi e forniture di cui al richiamato art. 33, comma 3-bis, del D.Lgs. n.163/2006.
Quanto, infine, alla distinzione concettuale fra Mercato Elettronico della Pubblica Amministrazione e strumento telematico da utilizzare per le procedure di gara, c
orrettamente l’amministrazione istante individua nell’art. 289 del D.P.R. 05.10.2010, n. 207 la nozione di Sistema informatico di negoziazione quale piattaforma telematica strumentale mediante la quale possono essere gestite le diverse tipologie di procedure di gara disciplinate nel Codice degli Appalti, rispetto alla nozione di Mercato Elettronico richiamata dall’art. 328 del medesimo regolamento.
Va da sé, infine, sottolineare che
le piattaforme telematiche regionali debbano rispettare le condizioni legali di trasparenza, semplificazione ed efficacia delle procedure descritte nell’art. 295 del D.P.R. n. 207/2010, le caratteristiche tecniche delle comunicazioni telematiche previste dall’art. 77 del Codice degli Appalti, nonché l’utilizzo delle previsioni contenute nel D.Lgs. 07.03.2005, n. 82 (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 18.07.2013 n. 312).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante è ancorato dalla normativa al presupposto che la redazione dell’atto di pianificazione o il rinnovo delle previsioni di piano regolatore scadute debbano essere riferibili alla realizzazione di opere pubbliche ed avvenire interamente all’interno dell’Ente.
Pertanto l’incentivo di cui al comma 6 dell’art. 92 del D. Lgs. 163/2006 deve essere riconosciuto per la redazione di varianti al piano regolatore collegate alla realizzazione di opere pubbliche, sempre che il relativo incarico sia interamente affidato al personale comunale in possesso delle specifiche professionalità richieste dalla legge.

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Con la nota indicata in premessa il Comune di Cascia, dopo aver premesso che in sede di redazione della Variante Generale del vigente P.R.G., la cui "parte strutturale" è stata affidata all'esterno, l’Ente valuterà la possibilità di affidare la progettazione della “parte operativa” del piano medesimo al personale interno, ha formulato i seguenti quesiti:
1. se l'incarico di pianificazione urbanistica da affidare internamente, fermo restando la disponibilità tecnica, costituisce deroga rispetto al principio generate della onnicomprensività dei trattamento economico dei dipendenti pubblici e pertanto può essere incentivato. La considerazione scaturisce nell'ottica della complessità dell'attività svolta, nonché il carattere aggiuntivo dell'incarico, e in particolare per remunerare i dipendenti ed i dirigenti che svolgono direttamente l'attività di progettazione, considerando questa come il maggiore valore aggiunto;
2. se l'incarico di redazione della "parte operativa" del PRG possa essere inquadrata tra gli atti di pianificazione per i quali il comma 6 dell'art. 92 del D.Lgs 163/2006 riconosce l'incentivazione. Tale atto di pianificazione, infatti, individua e progetta in maniera puntuale e non separabile la localizzazione di infrastrutture e servizi necessari ai bisogni della collettività locale (in termini di Opere pubbliche e di pubblica utilità, servizi, pubblici, parcheggi; aree sportive, parchi pubblici, urbanizzazioni, ecc.);
3. se il rinnovo delle previsioni di piano regolatore scadute, ai fini della reiterazione delle previsioni, o la redazione di varianti puntuali per la realizzazione di opere pubbliche, affidate internamente agli uffici comunali, possono essere suscettibili di incentivazione ai sensi del comma 6 art. 92 del D.Lgs. 163/2006.
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Quanto al merito, con il primo quesito il Comune di Cascia intende conoscere l’avviso di questa Corte in merito alla possibilità di corrispondere, in deroga al principio normativo di onnicomprensività del trattamento economico dei dipendenti pubblici, l’incentivo di progettazione al personale interno al quale venga conferito dall’ente un incarico di pianificazione urbanistica.
La risposta ai quesiti proposti dall’ente rende necessario enucleare preliminarmente la normativa che disciplina l’erogazione del compenso incentivante per gli incarichi di pianificazione.
Il comma 6 dell’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 recita: “Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto.”
La norma succitata, nonché quella contenuta nel comma 5, esprime un preciso favor dl legislatore per l’affidamento di incarichi concretanti prestazioni d’opera professionale a dipendenti di ruolo dell’ente locale, disponendo misure volte a remunerare le specifiche professionalità coinvolte e rinviando ai regolamenti comunali e alla contrattazione collettiva decentrata la determinazione di “criteri e modalità” di riparto del compenso.
Comportando una deroga al principio di onnicomprensività del trattamento economico dei dipendenti pubblici, tali disposizioni, secondo un condivisibile orientamento (ex multis, Sezione controllo Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008), costituiscono norme di stretta interpretazione, per le quali opera il divieto di analogia ai sensi dell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile.
Va quindi ben delimitato l’ambito di applicazione della succitata normativa derogatoria. In tale ottica appare necessario precisare, preliminarmente, l’esatto significato della locuzione “atto di pianificazione”, contenuta nel comma 6 della norma citata. L’indirizzo affermatosi al riguardo in seno alle Sezioni di controllo della Corte dei conti (ex multis, Sez. contr. Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259; parere 06.03.2012 n. 57; Sez. contr. Puglia, parere 16.01.2012 n. 1; Sez. contr. Toscana, parere 18.10.2011 n. 213 e parere 13.11.2012 n. 293; Sez. Piemonte, parere 30.08.2012 n. 290, dal quale questa Sezione non ha motivo di discostarsi, è nel senso che l’atto di pianificazione comunque denominato” indicato nel comma 6 del citato art. 92 si riferisce ad atti che abbiano ad oggetto la pianificazione del territorio collegata alla realizzazione di opere pubbliche (ad es. variante necessaria per la localizzazione di un’opera) e non si estende alla mera attività di pianificazione del territorio, quale la redazione del Piano regolatore o una variante generale.
A tale conclusione conduce peraltro, a giudizio di questa Corte, un’interpretazione sistematica della normativa che disciplina l’incentivo di progettazione, atteso che la previsione di cui al comma 6 va coordinata sia con i commi precedenti del medesimo art. 92 sia con l’art. 90 del codice dei contratti pubblici. Invero, l’intero impianto dell’art. 92, rubricato “Corrispettivi, incentivi per la progettazione e fondi a disposizione delle stazioni appaltanti”, ruota intorno all’attività di progettazione di un’opera o di un lavoro che l’amministrazione pubblica, in veste di stazione appaltante, deve aggiudicare.
Nel comma 1 del citato art. 92 si parla di “compensi relativi allo svolgimento della progettazione e delle attività tecnico-amministrative ad essa connesse all'ottenimento del finanziamento dell'opera progettata”. Il successivo comma 2 si occupa delle tabelle dei corrispettivi che la stazione appaltante può utilizzare quale criterio per determinare l’importo da porre a base dell’affidamento. Il comma 3 si occupa a sua volta dei criteri di calcolo dei corrispettivi dei vari livelli di progettazione (preliminare, definitiva ed esecutiva). Il comma 5 dispone che “Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori…”.
L’art. 90 del medesimo D.Lgs. 163/2006 dispone, in relazione alle “prestazioni relative alla progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori, nonché alla direzione dei lavori e agli incarichi di supporto tecnico-amministrativo alle attività del responsabile del procedimento e del dirigente”, che tali attività siano espletate da risorse interne alla stazione appaltante, purché in possesso dei requisiti di abilitazione professionale. In effetti, l’affidamento a soggetti comunque interni al plesso pubblicistico viene considerato dal codice dei contratti preferenziale, tanto che il comma 6 dello stesso articolo 90 stabilisce i casi in cui l’incarico di progettazione preliminare può essere legittimamente affidato a professionalità esterne all’Amministrazione.
Le suesposte considerazioni consentono al Collegio di affermare che,
ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante, assume rilevanza non già il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, bensì il suo contenuto specifico, intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica quale, ad esempio, una variante necessaria per la localizzazione di un’opera (cfr. Corte conti, sez. controllo Toscana
parere 18.10.2011 n. 213), ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante.
Va ulteriormente precisato che
il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante è ancorato dalla normativa suindicata all’ulteriore presupposto che la redazione dell’atto di pianificazione -comunque riferibile alla realizzazione di opere pubbliche– avvenga interamente all’interno dell’Ente.
Alla luce di quanto sopra esposto, questa Sezione ritiene, pertanto, che nessun compenso possa essere corrisposto al personale interno nella fattispecie in esame, tanto più che l’incarico che l’ente intende conferire a detto personale riguarda la redazione della “parte operativa” della variante al piano regolatore generale, mentre l’incarico di redigere la “parte strutturale” del piano risulta già conferito dall’ente a professionalità esterne.
Quanto all’ultimo quesito proposto, la Sezione ritiene, in applicazione delle suesposte coordinate interpretative, che
al personale interno non può essere corrisposto alcun incentivo per progettare il rinnovo delle previsioni di piano regolatore scadute, ai fini della reiterazione delle previsioni in esso contenute. Viceversa, l’incentivo di cui al comma 6 dell’art. 92 del D.Lgs. 163/2006 deve essere riconosciuto per la redazione di varianti al piano regolatore collegate alla realizzazione di opere pubbliche, sempre che il relativo incarico sia interamente affidato al personale comunale in possesso delle specifiche professionalità richieste dalla legge (Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria, parere 09.07.2013 n. 119).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONo alla pubblicazione del bando per l’assunzione di personale se lo stesso comporta il superamento del limite di spesa previsto dal patto di stabilità interno.
Enti locali - Limite di spesa per il personale - Estensione del patto di stabilità interno ai piccoli comuni.

La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Toscana, si è pronunciata sulla richiesta di parere proveniente dal sindaco di un piccolo comune, relativamente alla possibilità di non rispettare il limite di spesa dell’anno precedente per poter effettuare l’assunzione di una unità di personale in base alla programmazione già avvenuta con atto del febbraio 2012.
Come fatto osservare dall’ente proponente infatti, pur non essendo ancora stato pubblicato il bando di concorso, un parere del ministero dell’Economia e delle finanze “farebbe salve” le assunzioni dei piccoli comuni
compresi tra i 1.001 e i 5.000 abitanti.
Nel merito, la Corte ha preliminarmente ripercorso la normativa relativa alla limitazione di spesa per il personale delle pubbliche amministrazioni. Invero, inizialmente il legislatore ha imposto due differenti discipline a seconda che gli enti interessati siano stati sottoposti al patto di stabilità interno o meno. Invero, in relazione ai primi si applica l’art. 1, comma 557, della legge n. 296/2006 (legge finanziaria per il 2007) che impone una riduzione di spesa rispetto all’esercizio finanziario dell’anno precedente. Per i secondi invece, si applicano le disposizioni contenute nel comma 562 della legge richiamata, che impone sì una riduzione di spesa, ma l’anno di riferimento è il 2008.
Tuttavia, l’art. 16, comma 31, del Dl n. 138/2011 (conv. con la legge n. 148/2011) ha sottoposto al patto di stabilità interno anche i comuni con popolazione superiore ai 1.000 abitanti, ampliando in modo esponenziale l’applicazione del comma 557 richiamato, anziché del comma 562. Tale circostanza è stata peraltro già trattata dalla sezione delle autonomie, con la deliberazione n. 6 depositata l’11.05.2012.
Nella stessa, la Corte ha avuto modo di affermare che “sebbene non siano state previste specifiche disposizioni di diritto intertemporale volte a regolare il passaggio tra i due assetti normativi, l’estensione della disciplina del patto di stabilità ai comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti è avvenuta assicurando, comunque, un congruo arco temporale durante il quale gli stessi enti potranno provvedere a riprogrammare non soltanto le procedure di reclutamento, in linea con il preannunciato regime vincolistico, ma anche i livelli complessivi di spesa”.
Pertanto la Corte adita, non ravvisando ragioni per sottrarre tali tipologie di comuni all’immediata e uniforme applicazione dei vincoli per la spesa pubblica, ha ritenuto opportuno per l’ente interessato non procedere alla pubblicazione del bando relativo al concorso per l’assunzione di personale, in quanto lo stesso comporterebbe una violazione del limite di spesa previsto dal patto di stabilità interno (Corte dei Conti, Sez. reg. controllo Toscana, parere 18.06.2013 n. 190 - commento tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 7-8/2013).

ENTI LOCALI: Le spese per la revisione dei veicoli della pubblica amministrazione possono e devono essere debitamente preventivate.
Spesa pubblica - Limite di spesa per la manutenzione dei veicoli della pubblica amministrazione - Specificità delle deroghe previste al limite di spesa di cui all’art. 6, comma 14, Dl n. 78/2010.

La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Toscana, si è pronunciata sulla richiesta di parere di un sindaco, relativamente alla possibilità di sostenere le spese per la manutenzione dei veicoli superando il limite previsto dall’art. 6, comma 14, del Dl n. 78/2010 (convertito in legge n. 122/2010) al solo fine di ottenere la revisione del veicolo ai sensi dell’art. 80 del Dlgs n. 285/1992 e consentire l’utilizzo del mezzo già in possesso all’amministrazione.
La Corte non ritenendo necessario investire della questione la sezione delle autonomie ai sensi dell’art. 6, comma 4, del Dl n. 174/2012 (conv. con modifiche in legge n. 213/2012) si è espressa nei seguenti termini.
La Corte inizialmente ha condiviso la criticità delle ragioni esposte dal sindaco toscano in merito ai tagli lineari disposti dal legislatore, i quali hanno finito di fatto per premiare gli enti meno virtuosi che nell’anno preso come base di riferimento abbiano sostenuto una spesa alta, colpendo invece ingiustificatamente gli enti che hanno contenuto sin da subito la spesa in determinati settori, trovandosi così ad avere un margine di spesa più contenuto.
Tuttavia, relativamente allo stesso argomento la Corte si era già espressa (cfr. deliberazione n. 74 del 13.05.2011) ritenendo che la ratio della norma di cui all’art. 6, comma 14 citato, esprimesse “l’intenzione del legislatore di introdurre un’ampia limitazione in riferimento all’utilizzo delle autovetture”. Posizione peraltro confermata dalla nuova disciplina in materia contenuta nell’art. 5, comma 2, del Dl n. 95/2012 (convertito dalla legge n. 135/2012), disposizione peraltro ancora più stringente rispetto alla precedente normativa.
Nel caso di specie, secondo l’organo adito la revisione obbligatoria delle autovetture risultava ampiamente preventivabile sia in relazione ai tempi che ai costi che ne conseguono.
La Corte ha quindi sottolineato la cogenza delle norme relative al limite di spesa per le pubbliche amministrazioni.
Peraltro, laddove il legislatore ha voluto ampliare le maglie di tali limiti lo ha fatto in modo espresso e pertanto, ulteriori deroghe non possono assolutamente essere estese in via analogica (cfr. anche la deliberazione n. 1076/2010 della Corte dei conti, sez. Lombardia) (Corte dei Conti, Sez. reg. controllo Toscana, parere 18.06.2013 n. 189 - commento tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 7-8/2013).

APPALTI SERVIZILa corretta interpretazione dell’espressione “accordo consortile” e le acquisizioni in economia mediante amministrazione diretta.
Enti locali - Accordo consortile - Art. 30 Tuel - Acquisizioni in economia - Gestione obbligatoria da parte della centrale unica di committenza.

La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per l’Umbria, si è pronunciata sulla richiesta di un parere avanzata dal sindaco di un comune relativa a due quesiti. In primo luogo veniva richiesto quale fosse la corretta interpretazione dell’espressione “accordo consortile” contenuta nel comma 3-bis dell’art. 33 del Dlgs n. 163/2006 (comma aggiunto dal Dl n. 201/2011) e quale sia il suo rapporto con la disposizione contenuta nell’art. 2, comma 186, della legge n. 191/2009, che ha invece sancito la soppressione dei consorzi di funzioni tra enti locali. In secondo luogo veniva richiesto alla Corte se nell’obbligo di acquisizione mediante la centrale unica di committenza rientrino anche le acquisizioni in economia ai sensi dell’art. 125 del citato Dlgs n. 163/2006.
Nello specifico, relativamente al primo quesito il sindaco umbro demandava se, stante soppressione dei consorzi disposta dalla legge n. 191/2009 richiamata, sia possibile assolvere l’obbligo previsto dal comma 3-bis dell’art. 33 del Dlgs n. 163/2006 mediante la stipula di una convenzione ex art. 30 del Tuel.
A parere della Corte, il termine “accordo consortile” di cui alla norma richiamata, deve essere considerato come un’espressione “atecnica” con la quale il legislatore ha inteso genericamente riferirsi alle convenzioni di cui all’art. 30 del Tuel, come strumento alternativo all’unione dei comuni. In tale ottica interpretativa dunque, l’espressione “accordi consortili” deve essere intesa non già come accordi istitutivi di un vero e proprio consorzio, ai sensi dell’art. 31 del Tuel (al quale spetterebbe successivamente la competenza a istituire una propria centrale di committenza) bensì come atti convenzionali volti ad adempiere l’obbligo normativo di istituire una centrale di committenza, evitando però la costituzione di organi ulteriori e con essi le relative spese. Pertanto, i comuni con meno di 5.000 abitanti possono assolvere l’obbligo di cui all’art. 33, comma 3-bis,
del Dlgs n. 163/2006 o nell’ambito dell’unione dei comuni ovvero mediante una convenzione, nei termini di cui all’art. 30 Tuel.
Quanto al secondo quesito, ovvero se nell’obbligo di acquisizione mediante la centrale unica di committenza rientrino anche le acquisizioni in economia ai sensi dell’art. 125 del citato Dlgs n. 163/2006, la Corte evidenzia che sulla stessa questione si era già espressa la stessa Corte dei conti, sezione di controllo per il Piemonte, con la deliberazione n. 271/2012, in base alla quale sono da ritenersi escluse dalla gestione obbligatoria da parte della centrale unica di committenza sia le acquisizioni in economia mediante amministrazione diretta sia le ipotesi eccezionali di affidamento diretto consentite dalla legge, quali quelle previste all’art. 125, commi 8 e 11, del Dlgs n. 163/2006 (Corte dei Conti, Sez. reg. controllo Umbria, parere 04.06.2013 n. 112 - commento tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 7-8/2013).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIAcquisto di beni o servizi da parte del comune: possibilità di derogare agli obblighi nei confronti di Consip.
Obbligatorio il ricorso al Mepa - Enti locali - Acquisto di prodotti e servizi - Obbligo di utilizzare gli strumenti offerti dalla Consip o dalle centrali committenti - Obbligo di ricorso al Mepa - Principi di economicità ed efficienza della spesa pubblica
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La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Toscana, ha pronunciato un parere sulla richiesta del sindaco di un comune relativa all’acquisto dell’ente di prodotti e servizi.
Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte la prima richiesta del sindaco riguardava la possibilità per l’ente di rientrare nel concetto di “Amministrazione dello Stato” ai sensi dell’art. 1, comma 6, del Dl n. 95/2012, (convertito dalla legge n. 135/2012, da ultimo modificato dall’art. 1, comma 153, della legge n. 288/2012) e conseguentemente avere quindi la possibilità di poter stipulare contratti con fornitori non inseriti nell’elenco della Consip, qualora gli stessi vengano stipulati a prezzi più bassi rispetto ai parametri di qualità/prezzo messi a disposizione dalla richiamata società.
In subordine, ovvero qualora la risposta a tale quesito fosse risultata negativa, il sindaco richiedeva alla Corte:
a) se qualora l’ordinativo minimo sia superiore alle necessità reali, il comune fosse comunque obbligato a utilizzare gli strumenti offerti dalla Consip o dalle centrali di committenza, oppure vi sia la possibilità di procedere al di fuori di tale procedura;
b) la possibilità per l’ente, dopo aver individuato il fornitore su Consip o nelle centrali di committenza, di procedere direttamente con lo stesso per l’adattamento dell’offerta al di fuori del mercato elettronico;
c) se sia possibile ricorrere a un fornitore esterno qualora quest’ultimo proponga un prezzo più basso rispetto a quello offerto dalle centrali di committenza, a parità di caratteristiche sia qualitative che quantitative;
d) se vi sia la possibilità di evitare il ricorso al Mepa e alle centrali uniche di committenza nel caso di acquisti di beni o servizi per importi inferiori a 40.000 euro.
Al primo quesito la Corte dà risposta negativa, ovvero un comune non può esser considerato nel novero delle “Amministrazioni dello Stato” ritenute esenti dall’applicazione del primo periodo dell’art. 1, comma 1, del Dl n. 95/2012. Ciò in riferimento al significato letterale della norma che destina la possibilità di deroga alle amministrazioni rientranti nello Stato, secondo l’accezione propria di cui all’art. 114 della Costituzione.
Invero, la Corte evidenzia che se il legislatore avesse voluto destinare tale facoltà derogatoria indistintamente a tutte le amministrazioni pubbliche lo avrebbe indicato in modo chiaro, come ha fatto in altre disposizioni normative in materia. Quanto ai quesiti sub a) e b) la Corte sottolinea la cogenza delle norme in materia ed evidenzia che le possibili deroghe alle procedure dettate in tema di approvvigionamento di beni e servizi non possono essere oggetto di trattazione e interpretazione nell’ambito dell’attività consultiva delle sezioni regionali
della Corte dei conti.
Quanto al quesito sub c), la Corte sottolinea che la domanda avanzata trova la sua naturale risposta nella ratio delle norme richiamate, che poggiano sui principi di economicità ed efficienza della pubblica amministrazione.
Invero, l’art. 1, comma 7, del Dl n. 95/2012, nel far salvo quanto previsto dall’art. 1, commi 449 e 450, della legge n. 296/2006 lascia inalterata la norma contenuta nel comma 449 richiamato, che espressamente dispone: “le restanti amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 del Dlgs 30.03.2001, n. 165 e successive modificazioni, possono ricorrere alle convenzioni di cui al presente comma e al comma 456 del presente articolo, ovvero ne utilizzano i parametri di prezzoqualità come limiti massimi per la stipulazione dei contratti”. In tal senso l’obbligo di ricorrere agli strumenti di approvvigionamento descritti va mitigato ogni qual volta che il ricorso a un fornitore esterno persegue la ratio del contenimento della spesa pubblica contenuta nella normativa. Come evidenziato dalla Corte, a tal proposito chiara risulta anche la tabella stilata da ConsipMef “tabella Obbligo facoltà dal primo gennaio 2013 Strumenti del Programma di razionalizzazione degli acquisti” nello stabilire la possibilità di operare acquisti autonomi a corrispettivi inferiori a quelli delle convenzioni Consip e della categoria di riferimento, anche in relazione alle tipologie merceologiche di cui al comma 7 sopra richiamato.
Quanto all’ultimo quesito oggetto di parere, sempre dal riferimento alla tabella appena richiamata, risulta chiaro per le amministrazioni territoriali non regionali l’obbligo, sottosoglia comunitaria, di ricorrere al Mepa o ad altri mercati elettronici o al sistema telematico della Cat di riferimento, ovvero fare ricorso alle convenzioni Consip. In caso di assenza delle stesse, è invece prevista la facoltà di utilizzo degli acquisti Consip e dello Sdapa, con obbligo di rispettare comunque il benchmark della Consip (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 30.05.2013 n. 151 - commento tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 7-8/2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Niente danno all’immagine in caso di mancata percezione di denaro o altra utilità - Danno erariale all’immagine - In caso di mancata percezione di denaro o altra utilità - Non sussiste.
Con la decisione in rassegna, i giudici contabili emiliani si sono pronunciati sulla novità normativa di cui all’art. 1, comma 62, della legge n. 190 del 06.11.2012, (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), che ha modificato l’art. 1 della legge n. 20 del 14.01.1994 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), introducendovi il comma 1-sexies che dispone quanto segue: “Nel giudizio di responsabilità, l’entità del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente”.
Ad avviso dei giudici contabili dell’Emilia Romagna, l’ulteriore inciso secondo cui “l’entità del danno all’immagine […] si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente” induce il collegio a ritenere che il legislatore abbia inteso circoscrivere ulteriormente la tipologia di illeciti da cui può scaturire un danno all’immagine, fissando il principio che solo laddove il dipendente abbia illecitamente “percepito” una somma di danaro o altra utilità sia possibile ipotizzare la sussistenza di un danno all’immagine della pubblica amministrazione (commento tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 7-8/2013 - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Emilia Romagna, sentenza 23.04.2013 n. 57 - sentenza tratta da www.respamm.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Cosa si intende per legittimo affidamento nel rapporto con la P.A.?
Domanda
Nel nostro ordinamento vige il principio comunitario di tutela del legittimo affidamento che presuppone l'affidamento ragionevole generato da un precedente comportamento dell'amministrazione pubblica, e la correlativa tutela è funzionale alla protezione di situazioni consolidate contro revoche di atti amministrativi ampliativi o attributivi di benefici economici, i cui effetti siano stati acquisiti dal privato in buona fede.
Risposta
Una particolare disciplina di tale istituto è stata introdotta nella L. 27.07.2000, n. 212 "Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente" il cui articolo 10 è dedicato alla "Tutela dell'affidamento e della buona fede. Errori del contribuente".
La norma prevede che i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria siano improntati al principio della collaborazione e della buona fede.
Ne consegue che non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell'Amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall'Amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell'amministrazione stessa.
Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta.
La giurisprudenza (Cass. civ. Sez. V, 03.07.2013, n. 16692) ha già dato attuazione a tale principio in vari ambiti, ad esempio con riferimento alle circolari ministeriali in materia tributaria che non costituiscono fonte di diritti ed obblighi, per cui, qualora il contribuente si sia conformato ad un'interpretazione erronea fornita dall'Amministrazione in una circolare, è esclusa l'irrogazione delle relative sanzioni, in base al principio di tutela dell'affidamento.
In senso opposto (Cons. Stato Sez. III, 24.05.2013, n. 2838) si è ritenuto che nelle gare pubbliche d'appalto l'aggiudicazione provvisoria, quale atto endoprocedimentale, è inidonea ad ingenerare il legittimo affidamento che impone l'instaurazione del contraddittorio procedimentale prima della revoca in autotutela (01.08.2013 - tratto da www.ipsoa.it).

PATRIMONIO: L. 228/2012, art. 1, comma 141. Limiti di spesa per l'acquisto di mobili e arredi.
L'art. 1, comma 143, della L. 228/2012 dispone che le amministrazioni pubbliche non possono effettuare spese di ammontare superiore al 20 per cento della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili e arredi, salvo che l'acquisto dia funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili.
Spetta, pertanto, all'Ente valutare la sussistenza o meno delle condizioni al fine di procedere all'acquisto degli arredi sulla base di una puntuale quantificazione preventiva dei costi e dei risparmi conseguenti.

Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di procedere all'acquisto di mobili e arredi funzionali alla conduzione del centro di aggregazione giovanile di proprietà comunale, destinato all'uso non gratuito da parte di terzi, stante il disposto di cui all'articolo 1, comma 143, della legge 24.12.2012, n. 228.
In via preliminare, si fa presente che la decisione sulla sussistenza o meno delle condizioni al fine di procedere all'acquisto degli arredi attiene al merito dell'azione amministrativa e rientra nella piena ed esclusiva discrezionalità e responsabilità di codesto ente, non potendo lo scrivente sostituirsi agli organi e uffici dello stesso.
Sentito il Servizio finanza locale, si formulano le seguenti considerazioni di carattere generale.
La norma in argomento, facendo salve le misure di contenimento della spesa già previste dalle vigenti disposizioni, stabilisce che, per gli anni 2013 e 2014, «le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, ... omissis... non possono effettuare spese di ammontare superiore al 20 per cento della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili e arredi, salvo che l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili. In tal caso il collegio dei revisori di conti verifica preventivamente i risparmi realizzabili, che devono essere superiori alla minore spesa derivante dall'attuazione del presente comma».
Alla luce del fatto che la violazione della disposizione in argomento è valutabile ai fini della responsabilità amministrativa e disciplinare dei dirigenti, si ritiene necessario che l'Ente effettui un'analisi approfondita dell'operazione, nell'ottica di una puntuale quantificazione preventiva dei costi e dei risparmi conseguenti, avendo presente che la norma impone che:
a) l'acquisto di mobili e arredi deve essere funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili. Si tratta di un aspetto che solo l'Ente è in grado di valutare pienamente;
b) i risparmi realizzabili con l'acquisto devono essere superiori all'entità della spesa di conduzione degli immobili.
In via collaborativa, si riporta quanto specificato da un articolo di dottrina
[1], avente ad oggetto 'L'applicazione dei limiti sulle singole tipologie di spesa: il caso dell'acquisto di mobili e arredi (articolo 1, comma 141, legge di stabilità n. 228/2012', secondo il quale occorre che il collegio dei revisori certifichi che i nuovi mobili e arredi consentono un risparmio sulla base di una motivata analisi economica che dimostri come tali risparmi siano ottenibili dal mancato taglio e li quantifichi.
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[1] Pubblicato sulla newsletter quindicinale 'Bilancio e contabilità news' di martedì 07.05.2013 (01.08.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Smaltimento in proprio.
Domanda
L'azienda, di cui sono titolare, ha smaltito a proprie spese i cartoni, gli imballaggi e altro utilizzati nel ciclo produttivo. Il Comune chiede il pagamento di una non irrilevante tassa per lo smaltimento di detti rifiuti, che ripeto sono stati smaltiti a spese dell'azienda. L'azienda è tenuta a detto pagamento?
Risposta
La Corte di cassazione, sezione tributaria, con la sentenza del 30.11.2009, numero 25126, ha affermato che in tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (Tarsu), per effetto della legge numero 128, del 1998, articolo 17, comma 3, che ha abrogato la legge numero 146 del 1994, articolo 39, pur essendo venuta meno l'assimilazione «ope legis» ai rifiuti urbani di quelli speciali, purché avanti una composizione merceologica analoga a quella urbana, secondo i dettagli tecnici contenuti nella deliberazione del Cipe del 27.07.1984, è al contempo divenuto pienamente operante il decreto legislativo numero 22, del 1997, articolo 21, comma 2, lettera g), (cosiddetto decreto Ronchi) che ha attribuito ai Comuni la facoltà di assimilare ai rifiuti urbani ordinari quelli derivanti da attività economiche.
Pertanto, aggiungono i Supremi giudici, con riferimento alle annualità di imposta dal 1997 in poi, assumono decisivo rilievo le indicazioni proprie dei Regolamenti comunali con la conseguenza che l'auto-smaltimento da parte di chi occupa o conduce i locali dove si producono i rifiuti resta circostanza irrilevante per l'esonero dalla tassazione allorché risulti esercitato il potere di assimilazione riconosciuto al Comune per l'applicazione della Tarsu sulle aree dove si producono i rifiuti in questione.
Per la specifica materia si richiamano anche le sentenze della predetta Corte di cassazione, sezione tributaria, numero 16878, del 2009, e numero 1172, del 22.01.2010 (articolo ItaliaOggi Sette del 29.07.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI: D.Lgs. 267/2000, art. 79. Permessi assessore esterno per la partecipazione al consiglio comunale.
L'assessore esterno che partecipa, quale referente, alle sedute del consiglio comunale ha diritto alla fruizione dei permessi retribuiti previsti dal comma 4 dell'art. 79 del D.Lgs. 267/2000, per un massimo di 24 ore mensili.
Il Comune ha chiesto di conoscere se l'assessore esterno possa usufruire dei permessi retribuiti di cui all'articolo 79, comma 3, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, per la partecipazione alle sedute del consiglio comunale quale referente.
La norma citata prevede che «i lavoratori dipendenti facenti parte delle giunte comunali, provinciali, metropolitane, delle comunità montane, nonché degli organi esecutivi dei consigli circoscrizionali, dei municipi, delle unioni dei comuni e dei consorzi fra enti locali, ovvero facenti parte delle commissioni consiliari o circoscrizionali formalmente istituite nonché delle commissioni comunali previste per legge ... omissis... hanno diritto di assentarsi dal servizio per partecipare alle riunioni di cui fanno parte per la loro effettiva durata...».
Dal tenore della disposizione si evince che l'elencazione ha carattere tassativo e non può essere estesa all'ipotesi della partecipazione alle sedute del consiglio comunale, del quale l'assessore esterno non è componente e la cui disciplina, peraltro, è contenuta al comma 1 dell'articolo 79.
Pertanto, l'assessore esterno che partecipa, quale referente, alle sedute del consiglio comunale ha diritto alla fruizione dei permessi retribuiti previsti dal comma 4 dell'articolo 79 per un massimo di ventiquattro ore lavorative al mese (26.07.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

APPALTI: Ritenuta dello 0,5% ex art. 4, comma 3, D.P.R. 207/2010.
L'art. 4, comma 3, del D.P.R. 05.10.2010, n. 207 stabilisce l'obbligo, per le stazioni appaltanti, di trattenere la percentuale dello 0,50% sull'importo netto progressivo delle prestazioni al fine di accantonare una somma da utilizzare nel caso in cui, nel corso del contratto, venga ravvisata un'inadempienza contributiva da parte dei soggetti affidatari del servizio.
Lo svincolo delle somme così accantonate, secondo l'interpretazione letterale delle disposizioni e secondo quanto ribadito nelle circolari del Ministero del lavoro e della politiche sociali e dell'Inps, non può avvenire in un momento anticipato a quello della fine del contratto, ma unicamente in sede di liquidazione finale e previa approvazione, da parte della stazione appaltante, del certificato di collaudo o di verifica di conformità e rilascio del documento unico di regolarità contributiva.

L'Ente instante riferisce che il Comune ha appaltato i servizi di una Casa anziani a più ditte e che alcune di queste intendono fatturare solamente al termine del contratto, mentre altre stanno emettendo, accanto alla fattura mensile per il servizio, una pari allo 0,5%, specificando nella stessa che essa andrà liquidata a fine appalto.
L'Ente chiede di sapere se, in vista di un aumento dell'I.V.A. che potrebbe comportare un incremento dello 0,5% sugli importi, il secondo modus operandi risulta essere corretto. Viene, inoltre, domandato se, nel caso in cui si abbia un immediato riscontro sulla corretta esecuzione del servizio, come quello di mensa o quello assistenziale, l'Ente possa liquidare annualmente lo 0,5% o se debba farlo comunque alla fine dell'appalto.
In via preliminare, si osserva che non compete a questo Ufficio fornire suggerimenti in merito alle modalità o alle tempistiche di fatturazione dei servizi appaltati dagli enti locali. Verranno in questa sede, invece, espresse alcune considerazioni generali sulla normativa richiamata dall'Ente instante.
L'art. 4, comma 3, del D.P.R. 05.10.2010, n. 207, stabilisce che: 'In ogni caso sull'importo netto progressivo delle prestazioni è operata una ritenuta dello 0,50 per cento; le ritenute possono essere svincolate soltanto in sede di liquidazione finale, dopo l'approvazione da parte della stazione appaltante del certificato di collaudo o di verifica di conformità, previo rilascio del documento unico di regolarità contributiva'.
Tali disposizioni attuano quanto previsto dall'art. 5, comma 5, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici), laddove si stabilisce che la disciplina esecutiva del Codice debba contenere disposizioni volte a regolare l'intervento sostitutivo della stazione appaltante in caso di inadempienza retributiva e contributiva.
Come osservato in precedenti pareri rilasciati da questo Ufficio
[1], l'art. 4, comma 3, del Regolamento, stabilisce l'obbligo, per le stazioni appaltanti, di trattenere la percentuale dello 0,5% sull'importo netto progressivo delle prestazioni al fine di accantonare una somma da utilizzare nel caso in cui, nel corso del contratto, il responsabile del procedimento ravvisi un'inadempienza contributiva da parte dei soggetti affidatari del servizio.
Seguendo l'interpretazione letterale della norma, la ritenuta va effettuata sempre ed 'in ogni caso' dalla stazione appaltante e non solo a fronte di una irregolarità contributiva certificata da un DURC negativo
[2].
E' pertanto compatibile con tali previsioni operare la ritenuta dello 0,50% nei contratti di servizi, come paiono essere quelli menzionati dall'Ente instante, in sede di liquidazione delle singole fatture periodiche emesse secondo le scadenze preventivamente stabilite nel contratto.
Lo svincolo delle somme così accantonate, secondo l'interpretazione letterale delle disposizioni e secondo quanto ribadito nelle circolari n. 3/2012 del Ministero del lavoro e della politiche sociali e n. 54/2012 dell'Inps
[3], non può avvenire in un momento anticipato a quello della fine del contratto, ma unicamente in sede di liquidazione finale e previa approvazione, da parte della stazione appaltante, del certificato di collaudo o di verifica di conformità e rilascio del documento unico di regolarità contributiva.
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[1] V. pareri prot. n. 11525 dd. 28.03.2012, n. 22950 del 03.07.2012 e n. 27828 del 30.08.2012.
[2] In senso concorde anche l'ANCI con il parere dd. 15.01.2013.
[3] Circolare n. 3 del 16.02.2012 del Ministero e circolare n. 54 del 13.04.2012 dell'INPS
(24.07.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito alla possibilità di riduzione della zona di rispetto cimiteriale per l'attuazione di un "intervento urbanistico", ai sensi dell'art. 338, comma 5, del R.D. 1265 del 1934 (Regione Lazio, parere 05.07.2013 n. 184453 di prot.).

NEWS

APPALTIDurt, il senato corre ai ripari. L'obiettivo è quello di tornare alle origini della norma. Il presidente della VI Commissione di Palazzo Madama spiega i lavori sul decreto del fare.
Revisione del Durt. Dilazione del debito tributario in 10 anni anche per i soggetti che aderiscono agli istituti deflattivi del contenzioso. Reinserimento del tetto ai compensi dei manager che gestiscono aziende che forniscono servizi pubblici. Abolizione della norma che blocca i rimborsi Iva per i tour operator extra Ue.

Queste le principali modifiche che la Commissione finanze del senato, intende apportare al cosiddetto decreto del fare, il dl 69/2013, approvato la scorsa settimana dalla camera e trasmesso a Palazzo Madama.
Il problema Durt (Documento unico di regolarità tributaria). Il senato deve correre ai ripari. Questo il grido di allarme che Palazzo Madama è stato, chiamato a raccogliere nel più breve tempo possibile. E così è stato. A tale richiesta, infatti, non ha tardato ad arrivare la risposta da parte del presidente della Commissione finanze del senato, Mauro Maria Marino: «ridimensionare il Durt è il nostro obiettivo principale. Non è, infatti, possibile che una norma nata con il preciso scopo di agevolare le imprese che già versano in situazione di difficoltà sia diventata una sorta di tranello del diavolo, utile solo a complicare gli adempimenti burocratici».
Una precisa dichiarazione di intenti, quindi, che lascia capire la volontà di voler porre rimedio il prima possibile a una situazione che, altrimenti, sarebbe insostenibile per le imprese della filiera degli appalti. Il mancato possesso del Durt da parte del subappaltatore impedisce, infatti, all'appaltatore di effettuare i pagamenti dovuti. Requisito di base per ottenere il Durt da parte dell'Agenzia delle entrate è l'essere in regola con i pagamenti fiscali.
Rateizzazione del debito. Possibilità in vista anche per i contribuenti che decideranno di usufruire di un istituto deflattivo del contenzioso. A oggi, l'art. 52 del decreto del fare, prevede che i contribuenti che versano in difficoltà economiche, possano chiedere la dilazione del pagamento dei propri debiti tributari fino a 120 rate mensili, ovvero fino a 10 anni. La stessa possibilità però non è prevista per chi decide di usufruire dell'accertamento con adesione. Obiettivo della Commissione finanze del senato, quindi, quello di estendere la possibilità di usufruire delle 120 rate mensili anche a quei contribuenti che abbiano optato per l'istituto deflattivo del contenzioso. «Siamo estremamente soddisfatti del lavoro che la camera ha fatto su questa norma», ha dichiarato a ItaliaOggi il presidente Marino, «ma riteniamo che il lavoro potrà dirsi completo solo con questo ampliamento».
Gli stipendi dei manager. Se durante i lavori alla camera era saltata, o meglio, era stata sbagliata la trascrizione della norma relativa al tetto sugli stipendi d'oro dei manager pubblici, è intenzione del senato farla tornare alle origini. Durante il passaggio del testo dalle Commissioni all'aula di Montecitorio, all'interno della disposizione contenente la norma sul tetto agli stipendi dei manager era, infatti, stato inserito un «non» di troppo che vanifica l'intento della disposizione. «Riteniamo importante», ha sottolineato Marino, «che tutti i manager, anche quelli delle società non quotate che erogano servizi pubblici, debbano avere un tetto ai loro compensi, così come avviene per gli altri amministratori delle società non quotate che possono arrivare al massimo a 300 mila euro».
Iva. Tra gli obiettivi del senato, infine, anche quello di abolire la norma che impedisce ai tour operator extra Ue di poter usufruire dei rimborsi Iva in caso di acquisto in Italia di beni e servizi per i lori clienti. «La disposizione, così come strutturata, è controproducente perché limita il settore turistico che per il nostro paese è vitale, ragion per cui» ha concluso il presidente della Commissione finanze del senato, «è necessario che la questione sia regolata livello comunitario per evitare discriminazioni tra i vari paesi europei» (articolo ItaliaOggi del 31.07.2013).

APPALTIAppalti, accelerata sulla verifica con Avcpass.
Entro metà novembre la banca dati dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici sarà l'unico strumento di verifica dei requisiti degli appaltatori, nonostante il sistema Avcpass sia obbligatorio soltanto da gennaio 2014.

È questo uno degli effetti della modifica introdotta al testo del cosiddetto decreto legge del fare, approvato alla camera la scorsa settimana e adesso al vaglio del senato (si veda articolo principale in pagina).
La semplificazione delle procedure di affidamento di contratti pubblici è materia sulla quale è intervenuto già l'articolo 6-bis del codice dei contratti pubblici, al fine di ridurre gli oneri amministrativi, prevedendo che la verifica dei requisiti dichiarati in gara, a partire dal 01.01.2013, avvenga attraverso la banca dati, istituita presso l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici.
L'Autorità sui contratti pubblici, con la delibera 111/2012, ha quindi introdotto l'Avcpass (Authority virtual company passport), sistema al quale gli operatori economici devono registrarsi dal 01.07.2013. A metà giugno, però la stessa Autorità ha differito il termine al primo gennaio 2014. Adesso con l'articolo 49-ter del decreto 69 si rafforza la vigenza della Banca dati nazionale dei contratti pubblici come unico strumento idoneo alla verifica dei requisiti. In particolare si stabilisce che per i contratti «sottoscritti dalle pubbliche amministrazioni a partire da tre mesi successivi alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, la documentazione comprovante il possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario è acquisita esclusivamente attraverso la banca dati di cui all'articolo 6-bis del codice». In teoria dalla prima metà di novembre scatterebbe quindi un obbligo che però l'Autorità ha differito a gennaio 2014.
In realtà la norma non brilla per chiarezza, perché il riferimento alla «sottoscrizione» dei contratti sembra volere dire che i documenti concernenti i requisiti relativi ai contratti che verranno stipulati a decorrere da tre mesi dalla conversione del decreto 69, dovrà essere acquisita esclusivamente, per le gare future, soltanto attraverso la Bdncp (Banca dati nazionale contratti pubblici).
È evidente, infatti, che la verifica dei requisiti non avviene mai dopo la sottoscrizione dei contratti, ma prima. Sarebbe bastato fare riferimento, invece che ai «contratti», alle «procedure affidate nei tre-quattro mesi successivi» (articolo ItaliaOggi del 31.07.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Prepensionati gli esuberi p.a.. Ai dipendenti in eccesso si applicano le regole ante Fornero. Una circolare della funzione pubblica sui requisiti previsti dal dl sulla spending review.
Porte spalancate alla pensione per i soprannumerari delle p.a. Se ci sono volontari, bene. Altrimenti sarà la p.a. a mettere a riposo i dipendenti in esubero, licenziando quelli con più anni di contributi e che, in base alle regole previgenti alla riforma Fornero, ottengono la pensione entro il 31.12.2014 (vecchia finestra inclusa).
Lo stabilisce la circolare 29.07.2013 n. 3 emessa ieri dalla funzione pubblica in accordo con i ministeri del lavoro e dell'economia e con l'Inps. La circolare detta istruzioni al prepensionamento degli esuberi delle pubbliche amministrazioni in applicazione della spending review (dl n. 95/2012).
Spending review. Il dl n. 95/2012 sulla spending review, nel prevedere una riduzione degli organici delle p.a (almeno il 20% per i dirigenti e 10% negli altri casi), ha stabilito che, relativamente al personale risultante in esubero, possano applicarsi i vecchi requisiti di età e contribuzione per la pensione, ossia quelli in vigore prima della riforma Fornero, a quei soggetti ai quali la «decorrenza» della pensione si venga così a fissare entro il 31.12.2014. Nello scorso mese di gennaio sono arrivati i decreti sulla riduzione degli organici per nove ministeri, 21 enti di ricerca, 20 enti pubblici non economici, Inps, Enac e 24 enti parco nazionali. Adesso le singole p.a., in attuazione di tali provvedimenti, devono predisporre i piani delle cessazioni di personale fino al 31.12.2014.
I pensionamenti in deroga. La circolare di ieri, in seguito alla direttiva n. 10/2012, spiega i criteri che le p.a. devono seguire per individuare il personale destinatario del pensionamento. L'applicazione della norma, spiega la circolare, può comportare o l'esodo volontario, in caso di dimissioni del dipendente, o la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro (ossia il licenziamento) da parte dell'amministrazione. In questo secondo caso, a cui la p.a. dovrà ricorrere in caso di insufficienza delle domande di pensionamento volontario, andrà seguito il criterio della maggior anzianità contributiva: chi ha più anni maturati di contributi verrà, dunque, licenziato prima. Per questo tipo di licenziamento, aggiunge la circolare, non c'è necessità di motivazione e va riconosciuto un preavviso di sei mesi. In presenza di più soggetti destinatari del licenziamento la p.a. dovrà seguire il criterio del minor pregiudizio dal punto di vista pensionistico per gli interessati. Per i casi di dubbio circa l'anzianità contributiva posseduta dai dipendenti, le p.a. potranno rivolgersi all'Inps (o altri enti previdenziali).
Attenzione alla «finestra». Trattandosi di requisiti previgenti alla riforma Fornero, precisa più volte la circolare, dovrà tenersi conto anche della vecchia finestra. Di conseguenza, nella scelta del personale da licenziare si dovrà considerare che entro il 31 dicembre 2014 il lavoratore deve maturare, non solo il diritto, ma anche la decorrenza della pensione.
I requisiti. Infine, la circolare riepiloga i requisiti per la pensione applicabili agli esuberi (si veda tabella). Tra l'altro, ricorda che fino al 2015 la riforma Fornero ha previsto la possibilità, alle donne, di andare in pensione con un'anzianità contributiva di almeno 35 anni e un'età di almeno 57 anni, a condizione di optare per il calcolo della pensione con il sistema contributivo. Precisa che tale facoltà può essere invocata dalla lavoratrice in esubero dimissionaria, ma non può essere invece applicata dalla p.a. (articolo ItaliaOggi del 30.07.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Assistenza disabili, allargate le tutele. La Consulta sui beneficiari dei congedi straordinari. ora l'intervento del legislatore.
Ennesimo intervento il 18 luglio scorso –quarto in ordine di tempo– dei giudici della Corte Costituzionale sui soggetti legittimati a beneficiare del congedo straordinario per l'assistenza ai disabili in situazione di gravità, introdotto dalla legge n. 388/2000 e disciplinato dall'art. 42 del decreto legislativo n. 151/2001 e successivi modificazioni e integrazioni.
Nella formulazione originaria del comma 5 dell'art. 42, il diritto a fruire del congedo straordinario per assistere un figlio con handicap in situazione di gravità, non ricoverato a tempo pieno in strutture specializzate, previsto per la durata massima di due anni nell'arco della vita lavorativa, era limitato alla lavoratrice madre o, in alternativa, al lavoratore padre o, dopo la loro scomparsa, a uno dei fratelli o sorelle conviventi con il soggetto disabile.
Per effetto delle sentenze emanate dei giudici della Consulta, le n. 233 dell'08.06.2005, n. 158 del 18.04.2007 e n. 19 del 26.01.2009, il comma 5 dell'art. 42 oggi in vigore ha esteso la platea dei pubblici dipendenti, ivi compresi i dipendenti della scuola aventi diritto del congedo straordinario anche: ai fratelli e sorelle conviventi nell'ipotesi in cui i genitori siano impossibilitati a provvedere all'assistenza del figlio handicappato, perché totalmente inabili; anche al coniuge convivente con soggetto con handicap in situazione di gravità,in via prioritaria rispetto agli altri congiunti indicati nel comma 5; al figlio convivente, in assenza di altri soggetti idonei a prendersi cura della persona in situazione di disabilità grave.
Con la sentenza 18.07.2013 n. 203, i giudici della Corte Costituzionale hanno dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma 5 dell'art. 42 attualmente in vigore, nella parte in cui non include nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo straordinario ivi previsto, e alle condizioni ivi stabilite, il parente o l'affine entro il terzo grado convivente –nonché, per evidenti motivi di coerenza e ragionevolezza, gli altri parenti e affini più prossimi all'assistito, comunque conviventi ed entro il terzo grado- in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti degli altri soggetti individuati dalla predetta norma secondo un ordine di priorità, idonei a prendersi cura della persona in situazione di disabilità grave.
Spetterà ora al legislatore recepire con apposita norma quanto dispone la sentenza e inserirla nel contesto del più volte citato comma 5.
Per effetto degli interventi dei giudici della Consulta, il congedo straordinario in questione, originariamente concepito come strumento di tutela rafforzata della maternità in caso di figli portatori di handicap grave, ha assunto una portata più ampia. La progressiva estensione del complesso dei soggetti aventi titolo a richiedere il congedo ne ha infatti dilatato l'ambito di applicazione oltre i rapporto genitoriali, per ricomprendere anche le relazioni tra figli e genitori disabili, e ancora, in altra direzione, i rapporti tra coniugi e fratelli.
Una estensione che certamente rafforza le possibilità di assistenza dei soggetti disabili in situazione di gravità. Occorre ora individuare ogni strumento idoneo ad evitare che un istituto di alta civiltà, quale deve essere considerato il congedo straordinario, possa essere utilizzato in maniera impropria, come sta avvenendo nell'utilizzo di un altro beneficio previsto dall'art, 33 della legge 104/1992, quello cioè che consente di fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito per assistere un parente handicappato in situazione di gravità, ancorché con i limiti indicati dal comma 3-bis dell'art. 6 del decreto legislativo 18.07.2011, n. 119.
In particolare il comma impone al lavoratore che chiede di assistere un parente disabile residente in comune situato a distanza stradale superiore a 150 chilometri rispetto a quella di residenza del lavoratore, di attestare con titolo di viaggio, o altra documentazione idonea, il raggiungimento del luogo di residenza dell'assistito nei giorni di permesso (articolo ItaliaOggi del 30.07.2013).

APPALTI: DECRETO DEL FARE/ Maggiori oneri e burocrazia nel settore appalti dal documento approvato dalla camera.
Durt, corsa al credito a ostacoli. Nuovi adempimenti per l'impresa. O niente pagamenti.

Il decreto del Fare partorisce un nuovo meccanismo infernale: il Durt. Il Documento di regolarità tributaria lascia subito intendere che ci sono guai in arrivo per le imprese che appartengono alla filiera dell'appalto: maggiori oneri, maggiore burocrazia, maggiore difficoltà a incassare i crediti.
Ma anche notevoli contraddizioni nella norma che appare, su diversi passaggi, a dir poco controversa. Anche se il Durt è rubricato nel capo II del decreto del Fare denominato «semplificazioni in materia fiscale», nel caso in cui il testo approvato dalla camera non venisse modificato durante l'esame del senato (ma il governo, viste le polemiche suscitate, ha annunciato una pesante revisione, se non addirittura la cancellazione del provvedimento), sarebbe ben lungi da apportare un alleggerimento ai pesanti oneri che gravano sulle imprese già interessate dalle problematiche sulla responsabilità solidale negli appalti. Al contrario. Scimmiottando l'architettura dell'ormai tristemente noto Durc (documento di regolarità contributiva), il Durt, sostanzialmente, impedisce al committente di effettuare i pagamenti dovuti all'appaltatore se quest'ultimo non è in regola con determinati adempimenti fiscali, per i quali l'impresa deve effettuare un ulteriore sforzo organizzativo e sopportare ulteriori costi amministrativi e non solo.
Per esempio, per poter ottenere in tempo reale il Durt (rilasciato dall'Agenzia delle entrate), le imprese dovranno impegnarsi a liquidare l'Iva con periodicità mensile, a prescindere dal volume d'affari realizzato, con una forte penalizzazione per le piccole imprese che dovranno sostenere maggiori costi per l'assistenza fiscale.
Particolarmente gravoso sarebbe, sotto questo aspetto, la posizione del soggetto in regime dei minimi che anziché adempiere alle formalità una volta l'anno, sarebbe costretto a farlo ogni mese, con un non indifferente aggravio di oneri.
Cosa cambia con il Durt. Pur lasciando inalterata l'impalcatura generale delle diverse responsabilità tra i soggetti partecipanti all'appalto o al sub-appalto, l'attestazione che veniva rilasciata da ciascuna impresa per ottenere il pagamento dal proprio cliente, verrà sostituita dal Durt (il cui rilascio avviene da parte dell'Agenzia delle entrate).
Dopo il voto alla camera, l'Iva è stata esclusa dal decreto del Fare dal meccanismo della responsabilità solidale, ma solo apparentemente. Da un esame del testo licenziato con il voto di fiducia, appare evidente che le trasmissioni telematiche da effettuare con cadenza mensile non riguardino solo le ritenute dei dipendenti utilizzati per la realizzazione del subappalto, ma anche la liquidazione dell'Iva.
Viene pure confermato che il committente principale ha una responsabilità amministrativa al versamento di una sanzione da 5 mila a 200 mila euro, per il committente che non riceve la documentazione comprovante il corretto versamento delle ritenute da parte dell'appaltatore e degli eventuali subappaltatori.
Attualmente la documentazione che il subappaltatore deve rilasciare al proprio appaltatore e lo stesso appaltatore al proprio committente, consiste alternativamente:
1) nella documentazione comprovante il versamento delle ritenute dei dipendenti;
2) in un'asseverazione del corretto versamento delle ritenute dei dipendenti da parte di un professionista o Caf imprese;
3) in una autocertificazione sostitutiva dell'impresa subappaltatrice del corretto versamento delle ritenute.
Con le nuove regole del decreto del Fare, il subappaltatore e l'appaltatore devono chiedere all'Agenzia delle entrate il rilascio del Durt, che dovrà essere rilasciato all'appaltatore ovvero al committente.
Con tale documento l'Agenzia delle entrate dichiara che l'impresa è in regola con il versamento di debiti tributari per imposte, sanzioni o interessi, scaduti e non estinti dal subappaltatore alla data di pagamento del corrispettivo.
La trasmissione dei dati contabili. La nuova norma prevede inoltre la nascita di un portale dell'Agenzia delle entrate nel quale si può ricevere in tempo reale il Durt. Si tratta di un cassetto fiscale costantemente aggiornato sulla propria posizione tributaria. Per accedere a questo portale, occorre tuttavia impegnarsi alla trasmissione telematica periodica dei «dati contabili e i documenti primari relativi alle retribuzioni erogate; ai contributi versati e alle imposte dovute». Appare evidente che da tali adempimenti scattino nuovi costi amministrativi (consulenza, assistenza, personale amministrativo ecc.) a carico delle imprese già pericolosamente in debito di ossigeno.
È evidente che l'Agenzia delle Entrate può certificare solamente che l'impresa ha versato le ritenute, ma non che l'impresa è in regola con il pagamento delle ritenute relative alla prestazioni di appalto. L'unica certificazione che può rilasciare l'Agenzia si riferisce ai versamenti riferiti all'anno solare per cui è già stato presentato il modello 770, alla data della richiesta da parte dell'impresa appaltatrice o subappaltatrice. Pertanto, attualmente, può essere certificato solamente il corretto versamento delle ritenute operate sull'anno 2011 in quanto il modello 770 relativo ai compensi erogati nel 2012 deve essere presentato entro il 20.09.2013.
La comunicazione periodica dei dati prevista dalla norma, pertanto, avendo lo scopo di controllare la regolarità dei versamenti delle ritenute con una probabilità elevata, sarà a carattere mensile, anche se non è specificato dalla norma.
Se questo sarà confermato in sede di approvazione al senato, la norma si pone in contraddizione con l'art. 51 dello stesso decreto del Fare, laddove si abroga a scopo di semplificazione, l'obbligo di comunicare mensilmente i dati contenuti nelle buste paga dei dipendenti, ossia di presentare mensilmente il modello 770 (articolo ItaliaOggi Sette del 29.07.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIARecupero dei rifiuti, linea dura. Classificazione dei materiali legata al tipo di riutilizzo. Il ministero dell'ambiente conferma la rigidità delle norme sulle materie prime secondarie.
I materiali prodotti da un impianto di recupero possono essere considerati già «materie prime secondarie» o restare ancora nello status di «rifiuti», a seconda del tipo di riutilizzo cui sono destinati.
A confermarlo è il ministero dell'ambiente con la nota 07.03.2013 n. 18563 di prot., dettata in risposta alle perplessità sollevate da una amministrazione provinciale sull'interpretazione precedentemente data dallo stesso dicastero sull'attuale normativa tecnica in materia di recupero dei rifiuti.
In particolare, per il Minambiente i materiali prodotti da un impianto di recupero di rifiuti inerti, se destinati ad essere riutilizzati in edilizia, cessano di essere tali all'esito del solo trattamento, mentre se destinati alla realizzazione di sottofondi stradali continuano ad essere rifiuti fin quando non sono effettivamente reimpiegati.
Recupero dei rifiuti, le regole. L'interpretazione del dicastero ha ad oggetto il dm 05.02.1998, ossia uno degli storici provvedimenti (insieme dm 161/2002) che, sebbene adottato sotto l'antico dlgs 22/1997 (cosiddetto «Decreto Ronchi»), continua a costituire sotto l'attuale dlgs 152/2006 («Codice ambientale») la norma tecnica di riferimento per il corretto recupero dei rifiuti non pericolosi.
Confermando la propria lettura di analogo caso data nel 2011 (con nota n. 26749), il Minambiente ricorda infatti come solo il preciso rispetto delle modalità operative di recupero dettate dal dm in parola per le singole tipologie di rifiuti contemplate (tra cui carta, vetro, metallo, plastica) permette di riabilitare a veri e propri «beni» i residui processati.
E può accadere che, oltre alle condizioni generali del rispetto di standard qualitativi dei materiali in uscita e del loro reimpiego effettivo ed oggettivo, il decreto pretenda condotte ben precise e differenziate per poter considerare concluso il procedimento di recupero. Ciò effettivamente accade per gli inerti provenienti da demolizioni e costruzioni edili, che se destinati al reimpiego nello stesso settore perdono il loro status di rifiuti con il semplice trattamento conforme agli allegati tecnici del dm 5 febbraio 1998, ma che se destinati ad diverso impiego lo perdono solo all'atto del riutilizzo.
Recupero dei rifiuti, la realtà. Ma se riconoscere agli stessi materiali sia lo status di «materie prime secondarie» sia quello di «rifiuti» suscita nella stessa pubblica amministrazione (provinciale, come accennato in apertura) solo delle «perplessità», la stessa schizofrenia normativa rischia di avere effetti ben più seri per gli operatori privati. Come nel caso posto alla base della stessa ultima nota del Minambiente, può infatti verificarsi che un'impresa sottoponga dei rifiuti inerti a un trattamento di recupero all'esito del quale ottiene materiali riutilizzabili nell'edilizia (come assicurato dal punto 7.1.3, lettera a), Allegato 1, Sub allegato 1 al dm 5 febbraio 1998) per poi cederli ad altra impresa.
Ma se l'impresa che li riceve li riutilizza nella diversa attività di realizzazione di sottofondi stradali (come permesso dal punto 7.1.3, lettera c), stesso provvedimento), ebbene (conferma il ministero dell'ambiente) gli stessi materiali sono da considerarsi ancora come rifiuti, con la conseguenza che tutte le attività di gestione dei medesimi sono giuridicamente (e retroattivamente) inquadrabili come attività di gestione (appunto) di rifiuti.
Recupero dei rifiuti, in futuro. Lo storico dm 05.02.1998 oggetto della controversa interpretazione ministeriale conserva, come accennato, la propria operatività in virtù del dlgs 152/2006, ed in particolare in forza dei suoi articoli 184-ter (in tema di «end of waste», ossia di cessazione della qualifica di rifiuti dei residui sottoposti a recupero) e 214 (sulle procedure autorizzatorie semplificate per la gestione dei rifiuti).
La valenza del dm del 1998 nel sancire, in particolare, il confine tra «rifiuti» e «materie prime secondarie» è circoscritta dallo stesso articolo 184-ter del «Codice ambientale», che la assicura solo fino all'adozione di nuove e specifiche norme comunitarie e nazionali sull'end of waste che ne detteranno in sostanza l'abrogazione, espressa o tacita, e in modo totale o parziale.
Si ricorda che proprio in materia di end of waste sono già stati adottati dall'Ue i regolamenti n. 1179/2012 (per il recupero dei rifiuti in vetro) e n. 1179/2012 (recupero dei rottami metallici) e dal governo nazionale il dm Ambiente 22/2013 (sul recupero dei combustibili solidi secondari - c.d. «Css»). E tutti e tre i citati provvedimenti di nuova generazione appaiono essere molto meno ambigui del dm 05.02.1998 nel fissare il momento di cessazione della qualifica di rifiuto: per i regolamenti Ue tale momento coincide infatti con la fase di «cessione» dei materiali recuperati dal produttore al soggetto utilizzatore; per il dm nazionale con l'emissione da parte del produttore dei materiali del certificato di loro conformità alle prescrizioni tecniche sul recupero (articolo ItaliaOggi Sette del 29.07.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Edifici, per l'Ape c'è il software. Ora è possibile redigere l'ecoattestato.
Con la nuova aggiornata metodologia di calcolo del software Docet di Enea-Cnr è ora possibile redigere l'attestato di prestazione energetica («Ape»).
Docet è uno strumento di simulazione a bilanci mensili per la certificazione energetica degli edifici residenziali esistenti, mentre per la certificazione degli edifici di nuova costruzione ed esistenti, residenziali e non residenziali, si può utilizzare DocetPro, disponibile sul sito xclima.com.
La procedura di calcolo semplificata per la certificazione energetica degli edifici, si legge nel sito Docet, è stata aggiornata al decreto legge n. 63/2013 e alla circolare del Mise del 25.06.2013.
Si ricorda che con il decreto legge n. 63 del 2013 è stato sostituito l'Attestato di certificazione energetica («Ace») con il nuovo Ape, redatto da esperti qualificati e indipendenti.
Con la circolare del 25 giugno scorso, il MiSe ha chiarito che, fino a quando non sarà definita la nuova metodologia di calcolo della prestazione energetica degli edifici, l'Attestato di prestazione energetica (Ape), che ha sostituito l'Attestato di certificazione energetica (Ace), dovrà essere redatto secondo la vecchia metodologia di calcolo di cui al dpr n. 59/2009.
L'Ape va prodotta nel caso di vendita o di nuova locazione di edifici o unità immobiliari. Il nuovo articolo 6 del dlgs n. 192/05 (così come modificato dal dl n. 63/2013) prevede nei contratti di vendita o nei nuovi contratti di locazione di edifici o di singole unità immobiliari, l'inserimento di apposita clausola con la quale l'acquirente o il conduttore danno atto di aver ricevuto le informazioni e la documentazione, comprensiva dell'attestato, in ordine alla attestazione della prestazione energetica degli edifici.
L'Ape può riferirsi a una o più unità immobiliari facenti parte di un medesimo edificio. E ha una validità temporale massima di dieci anni a partire dal suo rilascio ed è aggiornato a ogni intervento di ristrutturazione o riqualificazione che modifichi la classe energetica dell'edificio o dell'unità immobiliare (articolo ItaliaOggi Sette del 29.07.2013).

CONDOMINIOAbitazioni, sicurezza vs privacy. Telecamere ok per effettivi pericoli. D'obbligo il cartello. Alcune cautele da osservare per lasciare la propria casa senza creare problemi ai vicini.
Case da mettere in sicurezza prima di ogni partenza. Accanto alle misure più tradizionali, dagli interventi strutturali (inferriate, tapparelle blindate, vetri antisfondamento, porte blindate ecc.) all'installazione di impianti di antifurto, dalla stipula di polizze assicurative alla vigilanza privata, occorre fare i conti con le nuove tecnologie, senza però tralasciare di adempiere agli obblighi previsti dalla legge a tutela dei terzi, con particolare riferimento ai sistemi di videosorveglianza.
Una nuova e forse inaspettata fonte di rischio deriva, ad esempio, dai social network, ormai sempre più diffusi tra giovani e meno giovani.
Tuttavia l'ansia di condivisione delle foto e delle altre informazioni relative alle ferie può essere abilmente sfruttata dai malintenzionati per essere sicuri di potere avere mano libera nell'appartamento.
Occorre quindi sforzarsi di utilizzare con maggiore attenzione i vari Facebook, Twitter e servizi simili, quanto meno restringendo le possibilità di accesso da parte di estranei alle proprie informazioni personali.
Ma lo stesso consiglio vale anche per la più classica segreteria telefonica (o per l'impostazione di risposta automatica alle e-mail): meglio evitare di inserire messaggi che chiariscano in modo inequivocabile la prolungata assenza da casa.
Le innovazioni tecniche riguardano anche strumenti di protezione tradizionali come le porte blindate: meglio essere sempre aggiornati sugli ultimi modelli di serratura e sulle chiavi di nuova generazione, falsificabili con maggiore fatica.
L'innovazione tecnologica la fa poi da padrona in materia di antifurti e videosorveglianza (alcune videocamere o più semplici webcam sono ad esempio in grado di inviare le immagini anche sugli smartphone).
Vi sono poi delle telecamere con specifici sensori che possono avvertire via e-mail il proprietario di casa sulla rilevazione di movimenti o variazioni di temperatura nell'appartamento (segnali che potrebbero ad esempio seguire all'apertura di una porta o di una finestra).
Tuttavia occorre considerare che l'installazione di telecamere, pur costituendo sicuramente un ottimo deterrente per scoraggiare i terzi malintenzionati, può anche condizionare la libertà degli altri condomini di muoversi all'interno delle aree comuni. Di conseguenza se il proprietario vuole installare degli impianti di videosorveglianza per registrare e conservare le immagini dovrà rispettare determinati principi e adottare particolari cautele a tutela della privacy degli altri condomini.
L'installazione di telecamere è infatti possibile a condizione che ricorrano concrete situazioni di pericolo, di regola costituite da furti o danneggiamenti già verificatisi.
È comunque vietata l'installazione con scopo deterrente di telecamere finte o non funzionanti, in quanto la sola loro presenza può condizionare il movimento e il comportamento delle persone. Inoltre, il sistema di videosorveglianza può essere installato soltanto quando altre misure (es. sistemi comuni di allarme, blindatura o protezione rinforzata di porte e portoni, cancelli automatici ecc.) siano valutate insufficienti o inattuabili. Si deve comunque escludere qualsiasi uso superfluo o eccessivo del sistema.
Il singolo condomino che abbia installato un sistema di videosorveglianza a protezione dell'appartamento o di eventuali pertinenze è tenuto a informare i vicini con appositi cartelli, che devono essere collocati prima del raggio di azione della telecamera e devono essere visibili in ogni condizione di illuminazione, allorché il sistema di videosorveglianza sia eventualmente attivo in orario notturno.
Inoltre è importante sottolineare che le immagini registrate potranno essere conservate per un periodo limitato, cioè sino a un massimo di 24 ore, fatte salve specifiche esigenze per indagini della polizia.
Da sottolineare, infine, che l'angolo visuale delle riprese deve essere comunque limitato ai soli spazi antistanti l'accesso all'abitazione. Il mancato rispetto di queste prescrizioni, a seconda dei casi, può comportare l'applicazione di sanzioni amministrative o penali, oltre ovviamente a eventuali richieste di risarcimento da parte dei soggetti danneggiati (articolo ItaliaOggi Sette del 29.07.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Distanza tra edifici senza deroghe. Il limite legale di dieci metri si applica anche alle tettoie e alle autorimesse.
Costruzioni e ristrutturazioni. Le interpretazioni dei giudici rafforzano il divieto di procedere sul confine tra fabbricati limitrofi.
Le questioni relative alle distanze dai confini e tra fabbricati continuano a dare vita ad un notevole contenzioso giudiziale, tanto che ormai è possibile individuare orientamenti consolidati, anche nella giurisprudenza della seconda Sezione della Cassazione, secondo la quale ad esempio sono soggette ai limiti di distanze anche le autorimesse e le tettoie.
Le disposizioni in tema di distanze tra edifici sono contenute nel Codice civile (articoli 873 e seguenti), in cui si prescrive che le costruzioni su fondi finitimi devono essere tenute a distanza non minore di tre metri, a meno che non siano realizzate in unione, cioè strutturalmente collegate, oppure in aderenza. In questo caso (sentenza n. 21227/2009) è necessario che la nuova opera e quella preesistente combacino perfettamente da uno dei lati, in modo che non rimanga tra i due muri, nemmeno per un breve tratto o ad intervalli, una intercapedine, che lasci scoperte anche solo parzialmente le relative facciate.
I casi
Il termine "costruzione" viene riferito dalla giurisprudenza a qualsiasi opera non completamente interrata e che abbia i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione rispetto al suolo, anche se realizzata mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente; e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell'opera stessa, dai suoi caratteri e dalla sua destinazione, come nel caso di elementi accessori e pertinenze, quali le autorimesse, che abbiano dimensioni consistenti e siano stabilmente incorporati al resto dell'immobile (sentenze n. 72/2013, n. 13389/2011 e n. 4277/2011). È stata ritenuta una «costruzione» anche il manufatto che, anche se privo di pareti, come nel caso delle tettoie, determini un incremento del volume, della superficie e della funzionalità dell'immobile (sentenze n. 16776/2012, n. 5934/2011 e n. 22127/2009).
Rientrano nella nozione di "costruzione" anche tutte quelle parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (cosiddetti «aggettanti») che, pur non essendo volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato, salvo siano di ridotte dimensioni o abbiano un carattere meramente decorativo. Non sono infatti computabili ai fini delle distanze, solo quegli elementi con funzione ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni o le grondaie (sentenza n. 17242/2010)
La sopraelevazione
le distanze vanno rispettate anche nel caso di sopraelevazione, «per tale intendendosi qualsiasi costruzione che si eleva al di sopra della linea di gronda di un preesistente fabbricato» (sentenza n. 22895/2004), allorquando sviluppi effettivamente una nuova cubatura. Anche la modifica del tetto di un fabbricato integra una sopraelevazione, ma viene considerata "costruzione" solo se produce aumento della superficie esterna e della volumetria dei piani sottostanti (sentenza n. 20786/2006)
Al regime delle distanze legali, secondo quanto previsto dall'articolo 879, comma 2, del Codice civile, non sono soggette le costruzioni realizzate a confine con le piazze e le vie pubbliche, anche di proprietà privata gravate da servitù pubbliche di passaggio (sentenza n. 6006/2008).
Le previsioni del codice civile vengono integrate da quelle dei regolamenti edilizi locali, che possono anche fissare distanze superiori, purché nel rispetto della disciplina urbanistico-edilizia nazionale e regionale, in particolare quella del Dm 1444/1968. Le distanze minime tra costruzioni indicate dall'articolo 9 del decreto variano in relazione alle zone territoriali omogenee in cui ricadono gli edifici, alla loro altezza ed alla presenza o meno di strade destinate al traffico veicolare.
Solo per i centri storici (le zone A), in caso di ristrutturazione vi è l'obbligo di mantenere le distanze intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, mentre nelle altre zone omogenee per gli edifici di nuova costruzione è prescritta in ogni caso una distanza minima di dieci metri tra le pareti finestrate e quelle degli edifici antistanti. In presenza di strade, le distanze minime corrisponderanno alla larghezza della sede stradale maggiorata, per ciascun lato, ad una misura variabile dai 5 ai 10 metri, a seconda dell'ampiezza della strada. Di conseguenza, in questo caso, la distanza minima potrà andare dai 17 ai 35 metri.
La norma ammette distanze inferiori, ma solo nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate, con esclusione degli interventi diretti, realizzati sulla base di un singolo permesso di costruire.
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Gli orientamenti
01 | A TUTTE LE FINESTRE LO STESSO PESO
La distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'articolo 9 del Dm 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e con riguardo a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza n. 7731/2010)
02 | NESSUNA DEROGA NEI PIANI URBANISTICI
L'articolo 9 del Dm 02.04.1968 n. 1444, che impone la distanza minima di dieci metri tra costruzioni vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima, essendo consentita all'amministrazione locale solo la fissazione di distanze superiori (Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza n. 1491/2009)
03 | I BALCONI E LE LOGGE ESCLUSI DAL CALCOLO
La distanza dei dieci metri (fissati dall'ex Dm n. 1444/1968) tra pareti finestrate è stata stabilita in funzione della tutela della riservatezza delle abitazioni situate in fabbricati che si fronteggiano, ratio che viene meno in presenza di balconi e di logge, che quindi non debbono essere tenuti presenti ai fini del calcolo della distanza (Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza n. 3889/2006)
04 | L'ASCENSORE SUPERA I VINCOLI DI LEGGE
L'installazione di un ascensore, al fine dell'eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte di un cortile e di un muro comuni, deve considerarsi indispensabile ai fini dell'accessibilità dell'edificio e della reale abitabilità dell'appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell'articolo 1102 del Codice civile, senza che, ove siano rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da tale norma, rilevi la disciplina dettata dall'articolo 907 del Codice civile sulla distanza delle costruzioni dalle vedute (Cassazione civile, sezione II, sentenza n. 14096/2012)
05 | NESSUNA SANATORIA PER LE VIOLAZIONI
In tema di distanze legali nelle costruzioni, le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi comunali, essendo dettate, contrariamente a quelle del Codice civile, a tutela dell'interesse generale a un prefigurato modello urbanistico, non tollerano deroghe convenzionali da parte dei privati. Tali deroghe, se concordate, sono invalide, né tale invalidità può venire meno per l'avvenuto rilascio di concessione edilizia, poiché il singolo atto non può consentire la violazione dei principi generali dettati, una volta per tutte, con gli indicati strumenti urbanistici (Consiglio di Stato, sezione II, sentenza. n. 9751/2010)
06 | NON BASTA UNO SPIGOLO PER I FONDI FINITIMI
In materia di rispetto delle distanze legali delle costruzioni rispetto al confine, la nozione di fondi finitimi è diversa da quella di fondi meramente "vicini", dovendo per fondi finitimi intendersi quelli che hanno in comune, in tutto o in parte, la linea di confine, ossia quelli le cui linee di confine, a prescindere dall'essere o meno parallele, se fatte avanzare idealmente l'una verso l'altra, vengono ad incontrarsi almeno per un segmento; ne consegue che non possono essere invocate le norme sul rispetto delle distanze ove i fondi abbiano in comune soltanto uno spigolo o i cui spigoli si fronteggino pur rimanendo distanti (Cassazione civile, sezione II, sentenze n. 3036/2009)
07 | PER LE APERTURE SUFFICIENTE UNA PARETE
In tema di distanze tra le costruzioni, l'articolo 9, n. 2), del Dm 02.04.1968 n. 1444 prescrive, con disposizione tassativa e inderogabile, la distanza minima assoluta di dieci metri tra i fabbricati anche nel caso in cui solo una delle pareti antistanti risulti finestrata e non entrambe (Cassazione civile, sezione II, sentenza n. 22495/2007)
08 | PER I CENTRI STORICI VIGE L'ESONERO
L'articolo 9, comma 1, n. 2), del Dm 02.04.1968 n. 1444 in base al quale la distanza tra pareti finestrate di edifici frontisti non deve essere inferiore a dieci metri, si riferisce alle sole nuove edificazioni consentite in zone diverse dal centro storico (zona A), posto che in questo ultimo, dove vige il generale divieto di costruzioni ex novo, la norma si limita a prescrivere che la distanza non sia inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati preesistenti (Cassazione civile, sezione II, sentenza n. 12767/2008)
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FOCUS
La finestra è decisiva

La Cassazione ha precisato per le pareti finestrate il rispetto della distanza di dieci metri dagli edifici prospicienti si riferisce esclusivamente alle pareti munite di finestre qualificabili come vedute, cioè quelle che permettono di affacciarsi per guardare di fronte, ma non comprende anche le pareti cui si aprono finestre cosiddette "lucifere", che consentono solo il passaggio di luce e aria, senza possibilità di affaccio (sentenza n. 6604/2012). Per questa ragione e in quanto l'articolo 9 del Dm 1444/1968 è da considerarsi «norma eccezionale, e perciò insuscettibile di interpretazione analogica», la Cassazione ha anche affermato che non possono ricomprendersi tra le pareti finestrate né le vetrate fisse e prive di aperture, poiché non consentono l'affaccio, né un terrazzo di copertura, il quale non è elemento integrante della parete sottostante, ma costituisce parte distinta e sovrapposta dell'edificio (sentenza n. 19092/2012).
Per le sole zone C), l'articolo 9 del Dm stabilisce inoltre che la distanza minima tra pareti finestrate di edifici antistanti debba essere pari all'altezza del fabbricato più alto. Questa previsione si applica anche nel caso in cui una sola parete sia finestrata, se gli edifici si fronteggiano per oltre dodici metri lineari.
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I paletti. Norma statale invalicabile.
Comuni vincolati nei regolamenti e nei piani urbani.

Le distanze fissate dalle norme nazionali (Dm 1444/1968) non possono essere scavalcate dai regolamenti comunali.
Le Sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 14953/2011) hanno da tempo riconosciuto a questo decreto efficacia analoga a quella della legge statale, con la conseguenza che i Comuni hanno l'obbligo di conformarsi alle sue previsioni nella formazione di nuovi strumenti urbanistici o nella revisione di quelli esistenti, e che le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle previsioni eventualmente contrastanti contenute in un regolamento locale.
Proprio in ragione della sua forza di legge, la Cassazione penale (Sezione III, sentenze n. 10431/2012) ha stabilito che il pubblico ufficiale che rilascia il titolo abilitativo edilizio, in caso di dolosa violazione della disciplina in tema di distanze legali, risponde del delitto di abuso d'ufficio ai sensi dell'articolo 323 del Codice penale.
La seconda Sezione della Cassazione (n. 7563/2006) ha comunque precisato che la norma non è immediatamente operante nei rapporti fra i privati e va interpretata nel senso che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con questa disposizione comporta l'obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente le previsioni dell'articolo 9 del Dm, che è divenuto, «per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico».
La stessa sezione (sentenze n.13547/2011 e n. 5741/2008) ha anche chiarito che la finalità perseguita dalla norma non è la tutela della riservatezza, bensì la salubrità e la sicurezza, quindi essa va applicata «indipendentemente dall'altezza degli edifici antistanti».
Resta comunque salva la possibilità per gli strumenti attuativi di derogare legittimamente alle prescrizioni generali sulle distanze, purché gli stessi risultino effettivamente «volti a disciplinare l'attività urbanistico-edilizia in particolari zone del territorio comunale, secondo uniformi criteri planovolumetrici, organici e funzionali, adeguati alla specificità di singoli settori urbani» (Cassazione, sezione II, sentenza n. 56/2010).
Anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato si è espressa nello stesso senso, stabilendo che la norma vincola i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con il limite minimo è illegittima, essendo consentita all'amministrazione locale solo la fissazione di distanze superiori ai dieci metri (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 844/2013).
Unica eccezione è costituita dagli edifici situati nei centri storici (zone A), (Sezione IV, n. 3614/2006), anche se oggetto di ricostruzione a seguito di demolizione, volontaria o per evento naturale, ma a condizione che l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro (sezione IV, n. 844/2013).
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La Consulta. Gli aspetti da contemperare. Le lottizzazioni fanno eccezione.
LE PRONUNCE/ Le Regioni hanno margini di manovra in presenza di interessi legati alla materia del governo del territorio.

Il carattere inderogabile delle norme sulle distanze legali (articolo 9 del Dm 1444/1968) e la sua portata integrativa delle disposizioni del Codice civile, sono stati ripetutamente affermati anche dalla Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi in sede di conflitto di attribuzione tra il legislatore statale e quello regionale. Quest'ultimo, infatti, è spesso intervenuto in materia rivendicando la propria potestà legislativa concorrente nella materia del governo del territorio.
Secondo la Consulta (da ultimo sentenza n. 232/2005) le norme sulle distanze legali costituiscono uno dei limiti alla proprietà previsti dalla legge per assicurarne la funzione sociale, così come previsto dall'articolo 832 del Codice civile e dall'articolo 42 della Costituzione. Al fine di garantire la coesistenza dei diritti dei singoli proprietari, «alle facoltà di ciascuno sono imposti dalla legge limiti atti a conciliare il godimento del diritto sul proprio bene con quello degli altri sui loro beni». Tra questi limiti vi sono le norme che impongono di rispettare determinate distanze minime nell'eseguire costruzioni, «la cui violazione è suscettibile anche della drastica forma di risarcimento in forma specifica, attraverso la riduzione in pristino», ai sensi dell'articolo 872, comma 2, del Codice.
Le norme degli strumenti urbanistici che prescrivono le distanze tra le costruzioni in forza del rinvio contenuto nell'articolo 873 del Codice hanno carattere integrativo dello stesso Codice, in quanto concorrono alla stessa configurazione del diritto di proprietà, disciplinando i rapporti di vicinato, assicurando un'equità nell'utilizzazione edilizia dei suoli privati ed attribuendo il diritto reciproco al loro rispetto.
Ne discende che anche le norme degli strumenti urbanistici devono essere rispettose della normativa statale anche di livello regolamentare. Secondo la Consulta alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall'esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. In particolare, le deroghe sono legittime se funzionali «agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati».
Sulla base di questi presupposti, con la sentenza n.114/2012, la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale delle norme della legge della Provincia di Bolzano n. 13/1997 (modificate dalla Lp n. 15/2011), nella parte in cui, ai fini dell'isolamento termico degli edifici, consentiva di derogare nella misura massima di 20 cm alle distanze tra edifici, alle altezze degli edifici e alle distanze dai confini previsti nel piano urbanistico comunale, con il solo rispetto «delle distanze prescritte dal codice civile» e non anche di quelle del Dm n. 1444/1968.
Più di recente, la sentenza n. 6/2013 ha ribadito questo principio, ricordando che le deroghe all'ordinamento civile delle distanze tra edifici vanno lette con riferimento all'articolo 9 del decreto, il quale «consente che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche»
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.07.2013).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: L'obbligo di seduta pubblica, per la fase di apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche, va ritenuto operativo solo per le gare indette dopo l'entrata in vigore dell'art. 12 del d.l. 07.05.2012 n. 52.
Sulla questione riguardante l'applicazione, anche alle procedure che si erano svolte prima della decisione dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 13 del 28/07/2011 (e dell'emanazione dell'art. 12 del d.l. 07/07/2012 n. 52), del principio secondo il quale (anche) l'apertura delle buste contenenti le offerte tecniche deve avvenire in seduta pubblica, si è recentemente espressa di nuovo l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, con le decisioni n. 8 del 22/04/2013 e n. 16 del 27/06/2013, ha affermato l'ulteriore principio secondo cui l'obbligo di seduta pubblica, per la fase di apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche, va ritenuto operativo solo per le gare indette dopo l'entrata in vigore dell'art. 12 del d.l. 07/05/2012 n. 52, conv., con modif., dalla l. 06/07/2012 n. 94, non potendo ritenersi applicabile anche alle gare indette prima di tale data.
Infatti il citato art. 12 non ha portata ricognitiva del principio affermato con la pronuncia dell'Adunanza Plenaria n. 13 del 2011, ma ha la specifica funzione transitoria di salvaguardare gli effetti delle procedure concluse o pendenti alla data del 09/05/2012, nelle quali si sia proceduto all'apertura dei plichi in seduta riservata, recando in sostanza, per questo aspetto, una sanatoria di tali procedure.
Del resto, come affermato dall'Adunanza Plenaria, il riconoscimento della natura sanante del suddetto art. 12 "è diretto a contenere gli oneri amministrativi ed economici che deriverebbero della caducazione, altrimenti inevitabile, di centinaia di gare che, diversamente, sarebbero di fatto travolte per il mero mancato rispetto dei canoni di pubblicità dell'apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche, in assenza di qualsivoglia indizio circa la manomissione o l'occultamento degli stessi da parte dell'amministrazione" (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 31.07.2013 n. 4037 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

LAVORI PUBBLICI: La qualità di associazione di protezione ambientale non legittima il Codacons al ricorso proposto in ordine alla sponsorizzazione del restauro sull'Anfiteatro Flavio di Roma, più comunemente noto come "Colosseo".
Secondo un indirizzo giurisprudenziale le associazioni ambientaliste sarebbero legittimate a ricorrere in sede giurisdizionale, anche con riferimento ai beni culturali ed agli strumenti urbanistici, tenuto conto della nozione allargata di "ambiente" come complesso dei valori che caratterizzano il territorio. Tuttavia, il sistema normativo vigente, è fondato su una distinta scansione concettuale tra patrimonio culturale e ambiente.
La Costituzione accomuna nella tutela di cui all'art. 9 paesaggio e patrimonio storico e artistico (vale a dire il patrimonio culturale come definito nel codice di cui al d.lgs. n. 42/2004) e invece designa separatamente, tra le materie di competenza esclusiva dello Stato, le funzioni di tutela dell'ambiente e dei beni culturali (art. 117, c. 2, lett. s) e, tra le materie di competenza concorrente (art. 117, c. 3), le funzioni di valorizzazione dei beni ambientali e culturali. In sintesi, quindi, l'ambiente è un bene immateriale unitario ma vi sono sue componenti che sono oggetto di disciplina, cura e tutela isolatamente e separatamente: tra queste, i beni culturali.
Ciò che occorre distinguere, al fine di valutare l'ambito della legittimazione a ricorrere delle associazioni di protezione ambientale, è se l'interesse fatto valere attenga all'ambiente inteso unitariamente ovvero al singolo bene culturale considerato isolatamente e separatamente.
Nel caso di specie, non viene in considerazione il possibile impatto che piani, programmi o progetti possono avere sul patrimonio culturale, né qualsiasi altro fatto che rientri nella funzione di tutela dell'ambiente. Viene invece in considerazione un intervento su beni culturali pubblici, che l'Amministrazione dei beni culturali governa con lo strumento dell'autorizzazione ai sensi degli artt. 21 e 24 del d.lgs. n. 42/2004; in particolare, un intervento di restauro, ossia di "intervento diretto sul bene attraverso un complesso di operazioni finalizzate all'integrità materiale ed al recupero del bene medesimo, alla protezione ed alla trasmissione dei suoi valori culturali" (art. 29, c. 4, d.lgs. n. 42/2004), anzi, un contratto di sponsorizzazione stipulato in vista del restauro di un bene culturale: un fatto, dunque, che rientra nella funzione di tutela non dell'ambiente, ma dei beni culturali.
La qualità di associazione di protezione ambientale non legittimava, quindi, il Codacons al ricorso proposto in ordine alla sponsorizzazione del restauro sull'Anfiteatro Flavio di Roma, più comunemente noto come "Colosseo" (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 31.07.2013 n. 4034 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sulla legittimità del provvedimento con il quale la stazione appaltante procede, in autotutela, alla revoca dell'intera procedura di gara.
L'amministrazione è titolare del potere, riconosciuto dall'art. 21-quinquies della l. n. 241 del 1990, di revocare per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di una nuova valutazione dell'interesse pubblico originario, un proprio precedente provvedimento amministrativo e che, con riguardo ad una procedura di evidenza pubblica, deve ritenersi legittimo il provvedimento di revoca di una gara di appalto, disposta prima del consolidarsi delle posizioni delle parti e quando il contratto non è stato ancora concluso, motivato anche con riferimento al risparmio economico che deriverebbe dalla revoca stessa, ciò in quanto la ricordata disposizione ammette un ripensamento da parte della amministrazione a seguito di una nuova valutazione dell'interesse pubblico originario.
Anche di recente è stato affermato che, ai sensi del citato art. 21-quinquies, è legittimo il provvedimento con il quale la stazione appaltante procede, in autotutela, alla revoca dell'intera procedura di gara dopo averne individuato i presupposti nei sopravvenuti motivi di pubblico interesse di natura economica, derivanti da una forte riduzione dei trasferimenti finanziari, nonché da una nuova valutazione delle esigenze nell'ambito dei bisogni da soddisfare, a seguito di una ponderata valutazione che ha evidenziato la non convenienza di procedere all'aggiudicazione sulla base del capitolato predisposto precedentemente ed al fine di ottenere un risparmio economico.
Pertanto, nel caso di specie, sussistevano le ragioni di pubblico interesse all'esercizio del potere di autotutela dell'Amministrazione e che tali ragioni erano state chiaramente indicate dall'amministrazione negli atti impugnati (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 30.07.2013 n. 4026 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ove un provvedimento amministrativo sia sorretto da una pluralità di motivazioni, in base al cd. principio di resistenza, la validità anche di una sola delle argomentazioni autonomamente poste a base del provvedimento stesso è sufficiente di per sé a sorreggerne il contenuto, con il corollario che il venir meno di un’altra motivazione non potrà determinare l’annullamento del provvedimento impugnato.
Tanto premesso, si deve, quindi, osservare come alla fattispecie in esame sia applicabile il principio fatto proprio dalla giurisprudenza consolidata (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. VI, 18.05.2012, n. 2894; TAR Puglia Bari, Sez. III, 10.02.2011, n. 240; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 12.04.2010, n. 1923; TAR Lazio, Roma, Sez. I, 26.01.2010, n. 949), anche di questa Sezione (TAR Lazio, Latina, Sez. I, 08.03.2012, n. 197), per cui, ove un provvedimento amministrativo sia sorretto da una pluralità di motivazioni, in base al cd. principio di resistenza, la validità anche di una sola delle argomentazioni autonomamente poste a base del provvedimento stesso è sufficiente di per sé a sorreggerne il contenuto, con il corollario che il venir meno di un’altra motivazione non potrà determinare l’annullamento del provvedimento impugnato.
Il dispositivo di questo, infatti, si regge del tutto sufficientemente sulla sola enunciata ragione che ha superato il vaglio di legittimità, ed anzi ciò comporta, sotto il versante processuale, la sopravvenuta carenza di interesse o comunque l’irrilevanza dell’esame dei motivi di doglianza relativi agli ulteriori profili motivazionali dell’atto (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 23.10.2012, n. 4202) (TAR Lazio-Latina, sentenza 29.07.2013 n. 678 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 143, primo comma, lett. a), del r.d. n. 1775/1933 ha attribuito alla cognizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche i ricorsi avverso i provvedimenti definitivi della P.A. in materia di acque pubbliche e cioè, secondo la giurisprudenza, tutti i ricorsi contro i provvedimenti caratterizzati dall’incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, ancorché adottati da autorità diverse da quelle preposte specificamente alla tutela delle acque.
Ai fini del riparto di giurisdizione, perciò, il discrimine è dato dall’incidenza diretta o meno del provvedimento amministrativo sul governo delle acque pubbliche: criterio, questo dell’incidenza diretta, su cui concordano la Corte regolatrice e la giurisprudenza amministrativa.

Ed invero, l’art. 143, primo comma, lett. a), del r.d. n. 1775/1933 ha attribuito alla cognizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche i ricorsi avverso i provvedimenti definitivi della P.A. in materia di acque pubbliche e cioè, secondo la giurisprudenza (cfr., da ultimo, TAR Lazio, Roma, Sez. I, 14.05.2012, n. 4314), tutti i ricorsi contro i provvedimenti caratterizzati dall’incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, ancorché adottati da autorità diverse da quelle preposte specificamente alla tutela delle acque.
Ai fini del riparto di giurisdizione, perciò, il discrimine è dato dall’incidenza diretta o meno del provvedimento amministrativo sul governo delle acque pubbliche: criterio, questo dell’incidenza diretta, su cui concordano la Corte regolatrice (Cass. civ., Sez. Un., 09.11.2011, n. 23300) e la giurisprudenza amministrativa (cfr. C.d.S., Sez. V, 02.08.2011, n. 4557; id., 25.05.2010, n. 3325; id., Sez. VI, 31.05.2012, n. 3279), anche di questa Sezione (TAR Lazio, Latina, Sez. I, 27 maggio 2011, n. 441).
Nel caso di specie, tuttavia, deve senz’altro escludersi un’incidenza diretta delle deliberazioni impugnate (aventi ad oggetto il regime tariffario del S.I.I.) sul regime delle acque pubbliche, potendosi ravvisare, al più, un’incidenza indiretta, che, però, non è idonea a radicare la cognizione della controversia in capo al T.S.A.P.: la giurisprudenza ha, infatti, chiarito che restano al di fuori della giurisdizione del T.S.A.P. ex art. 143, primo comma, lett. a), cit., le controversie aventi ad oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti volti ad incidere sul regime delle acque pubbliche, ovvero provvedimenti aventi un’incidenza indiretta su detto regime (C.d.S., Sez. V, n. 4557/2011, cit.; id., n. 3325/2010, cit.), le quali, conseguentemente, rimangono assoggettate alla giurisdizione del G.A. (v., pure, TAR Lazio, Latina, Sez. I, 25.07.2012, n. 600) (TAR Lazio-Latina, sentenza 29.07.2013 n. 676 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Le domande di partecipazione alle procedure di gara possono essere presentate anche per telefono o per via elettronica.
Dall'esame delle disposizioni contenute negli artt. 73 e 77 del d.lvo n. 163 del 2006 non è dato scorgere, nella fase di presentazione delle domande di partecipazione alla procedura di gara, alcuna formalità da rispettare, atteso che la domanda può essere presentata anche per telefono o per via elettronica.
Va, anche, osservato che in sede di valutazione delle domande di partecipazione oggetto di esame è soltanto la documentazione atta a dimostrare la capacità tecnica, economica ed i requisiti morali dei partecipanti, i quali possono essere semplicemente dichiarati, per cui vengono valutati dalla stazione appaltante, ai fini dell'eventuale ammissione alle offerte, in modalità non pubblica (TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, sentenza 25.07.2013 n. 7636 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: La regola posta dal disciplinare di gara per la valutazione delle offerte anomale deve essere letta complessivamente alla luce dei principi che governano la materia, così come posti dal codice dei contratti pubblici.
L'art. 1363 cod. civ. valido per l'interpretazione anche degli atti amministrativi prevede che le singole disposizioni di un provvedimento devono essere interpretate le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che deriva dal complesso dell'intero provvedimento; a ciò va aggiunto il principio di conservazione degli atti giuridici, art. 1367, le disposizioni devono essere interpretate rinvenendone un effetto, e l'art. 1369, vale a dire che le singole disposizioni devono essere inteso in senso più appropriato alla natura dell'articolato.
Pertanto, nel caso di specie, non si può prescindere dalla regola primaria posta dal disciplinare di gara, cioè che la valutazione della congruità della non congruità delle offerte deve essere svolta sulla base delle relative norme di legge, a partire dall'art. 86 e ss. D. Lgs 163/2006 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.07.2013 n. 3964 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

LAVORI PUBBLICI: Non è necessario l'indicazione del subappaltatore allorché l'entità delle opere scorporabili trova capienza in un surplus di qualificazione nella categoria principale.
L'art. 92 del d.p.r. n. 207 del 2010, in materia di partecipazione alla gara stabilisce che "il concorrente singolo può partecipare alla gara qualora sia in possesso dei requisiti economico-finanziari e tecnico organizzativi relativi alla categoria prevalente per l'importo totale dei lavori ovvero sia in possesso dei requisiti relativi alla categoria prevalente ed alle categorie scorporabili per singoli importi".
E', dunque, l'esistenza della totale copertura della categoria prevalente a legittimare la partecipazione alla gara, pur in carenza dei requisiti nelle categorie scorporabili, purché accompagnata dalla dichiarazione di voler subappaltare le scorporabili. In sintesi, la qualificazione mancante deve essere posseduta in relazione alla categoria prevalente, dal momento che ciò tutela la stazione appaltante circa la sussistenza della capacità economico-finanziaria da parte dell'impresa.
Quanto alla identificazione del subappaltatore ed alla verifica del possesso da parte di questi di tutti i requisiti richiesti dalla legge e dal bando, essa attiene solo al momento dell'esecuzione. In tal senso, da ultimo, è anche la determinazione dell'AVCP n. 4 del 10/10/2012 che nello stilare le norme che le stazioni appaltanti devono tenere in fase di stesura dei bandi di gara, rammenta che, come voluto dall'art. 92 del d.p.r. n. 207/2010, "i requisiti relativi alle categorie scorporabili non posseduti dall'impresa devono da questa essere posseduti con riferimento alla categoria prevalente". La stessa determinazione precisa che la normativa "non comporta l'obbligo di indicare i nominativi dei subappaltatori in sede di offerta, ma solamente di indicare le quote che il concorrente intende subappaltare, qualora non in possesso della qualificazione per le categorie scorporabili".
Tale scelta è stata voluta dal legislatore, infatti, la prima stesura del d.lgs. n. 163/2006 prevedeva esplicitamente che le opere specializzate eccedenti il 15% potessero essere eseguite solo da a.t.i. nel caso in cui il partecipante alla gara non avesse avuto i requisiti tecnico-organizzativi ed economico-finanziari relativi alla categoria scorporabile; successivamente, con la modifica operata dal d.lgs. n. 152 dell'11/09/2008 è stata prevista la possibilità del subappalto anche per le opere specialistiche, senza alcuna specificazione, rinviando il tutto a quanto disposto dall'art. 118, c. 2, terzo periodo del d.lgs. n. 163/2006, non ritenendo di delineare in modo diverso le condizioni di partecipazione alla gara neppure nel caso in cui l'opera specialistica superi il 15% dell'importo complessivo.
Non può, quindi, nel caso di specie, che trovare applicazione la regola generale dettata dall'art. 118 del d. lgs. n. 163/2006 e dall'art. 109 del d.p.r. n. 207/2010, che non impongono di indicare già in sede di qualificazione l'appaltatore, rimandando anche il controllo dei requisiti al momento in cui verrà depositato il contratto di subappalto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.07.2013 n. 3963 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In ambito amministrativo per ordinanze si intendono tutti quegli atti che creano obblighi o divieti ed in sostanza impongono ordini.
Segnatamente, le ordinanze di necessità ed urgenza sono statuizioni straordinarie adottate nei casi espressamente previsti dalla legge, espressione di un potere amministrativo “extra ordinem”, al fine di fronteggiare situazioni di urgente necessità (in materia di ordine e sicurezza pubblica nonché di sanità ed igiene pubblica), là dove, all'uopo si rivelino inutili gli strumenti ordinari posti a disposizione dal legislatore.
In ordine ai limiti, entro i quali può essere esercitato il potere in questione, la recente giurisprudenza amministrativa ha, in più occasioni, rimarcato che la possibilità concessa all’amministrazione di adottare provvedimenti, in deroga alla disciplina di legge, impone il rigido rispetto di alcuni adempimenti a garanzia dell’operato della stessa pubblica amministrazione. Tra questi l’obbligo di munire i provvedimenti in questione di una motivazione adeguata: … ”in grado di far comprendere le ragioni del provvedimento e di adottare il provvedimento all’esito di una istruttoria congrua”.
Ne consegue che il ricorso al potere extra ordinem può essere esercitato dall’amministrazione previa adeguata istruttoria e con l’espressa indicazione delle ragioni di necessità ed urgenza che lo giustificano.
E’ vero che l’art. 7 della legge n. 241 del 1990 esclude che, in ipotesi di adozione di provvedimenti contingibili ed urgenti, l’Autorità procedente abbia necessità di comunicare all’interessato, ai fini della validità del provvedimento adottato, l’avvio del procedimento; è altrettanto vero, tuttavia che, nella specie, in ragione della documentazione prodotta in atti, sembra inequivocabilmente evincersi come il provvedimento qui impugnato, pur rivestendo formalmente le sembianze di una ordinanza contingibile ed urgente, non specifica adeguatamente a quali esigenze la stessa deve sovvenire, tanto più che l’accesso non è peraltro inibito alle altre categorie di persone.
Ed invero, il potere del Sindaco di emanare ordinanze contingibili ed urgenti postula, per giurisprudenza costante, “la necessità di provvedere con immediatezza in ordine a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile, cui sia impossibile far fronte con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento”.
Allo stesso tempo va rimarcato che l’amministrazione può utilizzare lo strumento in questione solo ove occorra far fronte ad una effettiva ed imprevedibile situazione di emergenza.
In tal senso si è pronunciata la giurisprudenza amministrativa, secondo cui: “il potere del Sindaco di emanare ordinanze contingibili ed urgenti presuppone la necessità di provvedere con immediatezza in ordine a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile, cui sia impossibile far fronte con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento, nonché l'esistenza e l'indicazione nel provvedimento impugnato di una situazione di pericolo, quale ragionevole probabilità che accada un evento dannoso nel caso in cui l'Amministrazione non intervenga prontamente".

Osserva, preliminarmente, il Collegio che in ambito amministrativo per ordinanze si intendono tutti quegli atti che creano obblighi o divieti ed in sostanza impongono ordini.
Segnatamente, le ordinanze di necessità ed urgenza sono statuizioni straordinarie adottate nei casi espressamente previsti dalla legge, espressione di un potere amministrativo “extra ordinem”, al fine di fronteggiare situazioni di urgente necessità (in materia di ordine e sicurezza pubblica nonché di sanità ed igiene pubblica), là dove, all'uopo si rivelino inutili gli strumenti ordinari posti a disposizione dal legislatore.
In ordine ai limiti, entro i quali può essere esercitato il potere in questione, la recente giurisprudenza amministrativa ha, in più occasioni, rimarcato che la possibilità concessa all’amministrazione di adottare provvedimenti, in deroga alla disciplina di legge, impone il rigido rispetto di alcuni adempimenti a garanzia dell’operato della stessa pubblica amministrazione. Tra questi l’obbligo di munire i provvedimenti in questione di una motivazione adeguata: … ”in grado di far comprendere le ragioni del provvedimento e di adottare il provvedimento all’esito di una istruttoria congrua” (cfr. TAR Lazio, sez. III-quater, 15.09.2006, n. 8614).
Ne consegue che il ricorso al potere extra ordinem può essere esercitato dall’amministrazione previa adeguata istruttoria e con l’espressa indicazione delle ragioni di necessità ed urgenza che lo giustificano.
E’ vero che l’art. 7 della legge n. 241 del 1990 esclude che, in ipotesi di adozione di provvedimenti contingibili ed urgenti, l’Autorità procedente abbia necessità di comunicare all’interessato, ai fini della validità del provvedimento adottato, l’avvio del procedimento; è altrettanto vero, tuttavia che, nella specie, in ragione della documentazione prodotta in atti, sembra inequivocabilmente evincersi come il provvedimento qui impugnato, pur rivestendo formalmente le sembianze di una ordinanza contingibile ed urgente, non specifica adeguatamente a quali esigenze la stessa deve sovvenire, tanto più che l’accesso non è peraltro inibito alle altre categorie di persone.
Sotto altro profilo va rilevato che l’esercizio del potere contingibile ed urgente esercitato, nel caso di specie, dal Sindaco del Comune di Castro dei Volsci, non è accompagnato dai requisiti necessari che caratterizzano indefettibilmente tali atti eccezionali, assumendo viceversa le caratteristiche di un ordinario provvedimento assunto all’esito di una situazione che non rivestiva ragionevolmente i caratteri eccezionali ed imprevedibili.
Ed invero, il potere del Sindaco di emanare ordinanze contingibili ed urgenti postula, per giurisprudenza costante, “la necessità di provvedere con immediatezza in ordine a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile, cui sia impossibile far fronte con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento”.
Allo stesso tempo va rimarcato che l’amministrazione può utilizzare lo strumento in questione solo ove occorra far fronte ad una effettiva ed imprevedibile situazione di emergenza.
In tal senso si è pronunciata la giurisprudenza amministrativa (cfr. TAR Toscana, sez. II, 09.04.2004, n. 1006), secondo cui: “il potere del Sindaco di emanare ordinanze contingibili ed urgenti presuppone la necessità di provvedere con immediatezza in ordine a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile, cui sia impossibile far fronte con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento, nonché l'esistenza e l'indicazione nel provvedimento impugnato di una situazione di pericolo, quale ragionevole probabilità che accada un evento dannoso nel caso in cui l'Amministrazione non intervenga prontamente" (TAR Lazio-Latina, sentenza 23.07.2013 n. 664 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di reati edilizi, l'ordine di demolizione di cui all'art. 31, comma 9, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 è una sanzione amministrativa di tipo ablatorio, accessoria rispetto alla condanna principale, che costituisce esplicitazione di un potere sanzionatorio, non residuale o sostitutivo ma svincolato rispetto a quelli dell'autorità amministrativa, attribuito dalla legge al giudice penale.
Il relativo provvedimento, pertanto, al pari delle altri statuizioni della sentenza, una volta che questa sia passata in giudicato, è assoggettato all'esecuzione nelle forme previste dagli art. 655 e ss. c.p.p., onde l'organo promotore dell'esecuzione va identificato nel p.m..

La giurisprudenza spiega che “in tema di reati edilizi, l'ordine di demolizione di cui all'art. 31, comma 9, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 è una sanzione amministrativa di tipo ablatorio, accessoria rispetto alla condanna principale, che costituisce esplicitazione di un potere sanzionatorio, non residuale o sostitutivo ma svincolato rispetto a quelli dell'autorità amministrativa, attribuito dalla legge al giudice penale. Il relativo provvedimento, pertanto, al pari delle altri statuizioni della sentenza, una volta che questa sia passata in giudicato, è assoggettato all'esecuzione nelle forme previste dagli art. 655 e ss. c.p.p., onde l'organo promotore dell'esecuzione va identificato nel p.m.” (Cassazione penale sez. III 28.04.2010 n. 32952)
(TAR Lazio-Latina, sentenza 17.07.2013 n. 646 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La scelta operata dall’Amministrazione resistente di adottare in autotutela il provvedimento di annullamento del permesso di costruire in sanatoria costituisce espressione di potere discrezionale, a fronte del quale sussisteva l’obbligo dell’Amministrazione di comunicare agli interessati l’avvio del procedimento.
Sul punto è infatti principio consolidato che “la preventiva comunicazione di avvio del procedimento, prescritta dall'art. 7 della legge 07.08.1990 n. 241 sul procedimento amministrativo, costituisce una regola generale dell'azione amministrativa, soprattutto quando l'amministrazione eserciti il potere d'annullamento d'ufficio (nella specie, di un permesso di costruire) per il quale occorre dare adeguatamente conto della sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione dell'atto o alla cessazione dei suoi effetti”.

Pertanto, la scelta operata dall’Amministrazione resistente di adottare in autotutela il provvedimento di annullamento del permesso di costruire in sanatoria costituisce espressione di potere discrezionale, a fronte del quale sussisteva l’obbligo dell’Amministrazione di comunicare agli interessati l’avvio del procedimento.
Sul punto è infatti principio consolidato che “la preventiva comunicazione di avvio del procedimento, prescritta dall'art. 7 della legge 07.08.1990 n. 241 sul procedimento amministrativo, costituisce una regola generale dell'azione amministrativa, soprattutto quando l'amministrazione eserciti il potere d'annullamento d'ufficio (nella specie, di un permesso di costruire) per il quale occorre dare adeguatamente conto della sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione dell'atto o alla cessazione dei suoi effetti” (Consiglio di Stato 25.05.2012 n. 3060)
(TAR Lazio-Latina, sentenza 17.07.2013 n. 646 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il verbale con cui si accerta l’inottemperanza all’ordine di demolizione è un mero atto procedimentale avente contenuto conoscitivo e di accertamento di un fatto storico, di per sé inidoneo a ledere situazioni giuridiche.
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Il fatto che il verbale sottoscritto da dipendenti incaricati, di accertamento dell’inottemperanza, sia, in sé, mero atto endoprocedimentale della P.A., privo di efficacia esterna, fino a che non venga emanata la determinazione finale della P.A., comporta, tra l’altro, che la presenza alle operazioni di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolire, di cui viene formato verbale, non fa decorrere il termine per impugnare il successivo provvedimento terminale, dal quale soltanto conseguono effetti esterni.
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La presentazione di un’istanza di accertamento di conformità o sanatoria ex art. 13 della l. n. 47/1985 ed ora art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, a fronte di un provvedimento di demolizione precedentemente emesso, fa venir meno l’efficacia dell’ordine repressivo, dovendo quest’ultimo venir sostituito o dalla concessione in sanatoria, o, in caso di diniego della stessa, da un nuovo provvedimento sanzionatorio.
Ciò, giacché il riesame dell’abusività dell’opera, onde verificarne l’eventuale sanabilità, comporta la (necessaria) formazione di un nuovo provvedimento, che va a superare l’ordine di demolizione originariamente adottato dalla P.A..
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Il
verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione conserva la sua natura di mero atto endoprocedimentale e di accertamento di un fatto storico, non impugnabile in quanto di per sé non lesivo, mentre l’unico effetto che consegue alla perdita di efficacia dell’ingiunzione a demolire è la necessaria inidoneità del verbale stesso a costituire il presupposto dei successivi atti della sequenza procedimentale prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
Considerato, infatti, che per consolidata giurisprudenza (cfr. ex multis, C.G.A.R.S., Sez. giurisd., 12.11.2008, n. 930; TAR Puglia, Bari, Sez. III, 16.02.2006, n. 538; TAR Campania, Napoli, Sez. II, 14.12.2012, n. 5202), il verbale con cui si accerta l’inottemperanza all’ordine di demolizione è un mero atto procedimentale avente contenuto conoscitivo e di accertamento di un fatto storico, di per sé inidoneo a ledere situazioni giuridiche;
Osservato, sul punto, che il fatto che il verbale sottoscritto da dipendenti incaricati, di accertamento dell’inottemperanza, sia, in sé, mero atto endoprocedimentale della P.A., privo di efficacia esterna, fino a che non venga emanata la determinazione finale della P.A. (cfr. TAR Trentino Alto Adige, Trento, 02.06.1999 n. 200; TAR Sicilia, Catania, 18.11.1999, n. 2393), comporta, tra l’altro, che la presenza alle operazioni di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolire, di cui viene formato verbale, non fa decorrere il termine per impugnare il successivo provvedimento terminale, dal quale soltanto conseguono effetti esterni (cfr. TAR Friuli Venezia Giulia, 25.03.2002, n. 124);
Considerato che la contraria tesi sostenuta dal ricorrente –basata sull’assunto per cui il verbale di accertamento dell’inottemperanza costituirebbe, nel caso di specie, il vero provvedimento, avendo l’ordine di demolizione che ne integra il presupposto perso efficaci – non può essere accolta, per le seguenti ragioni:
   - alla luce della giurisprudenza prevalente (cfr., ex plurimis, TAR Puglia, Bari, Sez. II, 11.04.2012, n. 705; TAR Lombardia, Milano. Sez. IV, 08.09.2010, n. 5159), cui ha aderito anche questa Sezione (cfr., ex plurimis, TAR Lazio, Latina, 06.02.2002, n. 67), la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità o sanatoria ex art. 13 della l. n. 47/1985 ed ora art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, a fronte di un provvedimento di demolizione precedentemente emesso, fa venir meno l’efficacia dell’ordine repressivo, dovendo quest’ultimo venir sostituito o dalla concessione in sanatoria, o, in caso di diniego della stessa, da un nuovo provvedimento sanzionatorio. Ciò, giacché il riesame dell’abusività dell’opera, onde verificarne l’eventuale sanabilità, comporta la (necessaria) formazione di un nuovo provvedimento, che va a superare l’ordine di demolizione originariamente adottato dalla P.A. (TAR Lazio, Latina, Sez. I, 15.10.2012, n. 762);
   - nel caso di specie, ciò è indubbiamente avvenuto, avendo il sig. Angelè presentato al Comune di Sabaudia, in data 01.07.2005, istanza di sanatoria ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 per le opere già oggetto dell’ordinanza di demolizione n. 08 del 09.05.2005, collocate sul terreno distinto in catasto al fg. n. 119, part. n. 578, con il corollario del venire meno dell’efficacia dell’ordinanza de qua in data ben anteriore al verbale di accertamento della sua inottemperanza, impugnato in questa sede;
   - quanto si è più sopra illustrato, tuttavia, non vale a mutare il verbale gravato in un provvedimento impugnabile –come preteso dal ricorrente– poiché tale verbale conserva la sua natura di mero atto endoprocedimentale e di accertamento di un fatto storico, non impugnabile in quanto di per sé non lesivo, mentre l’unico effetto che consegue alla perdita di efficacia dell’ingiunzione a demolire è la necessaria inidoneità del verbale stesso a costituire il presupposto dei successivi atti della sequenza procedimentale prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 e dall’art. 15 della l.r. n. 15/2008 (atto di acquisizione al patrimonio comunale del manufatto e dell’area di sedime; irrogazione della sanzione pecuniaria ex art. 15 cit.): atti che, dunque, allo stato, laddove venissero emanati, sarebbero di per sé illegittimi;
   - non potrebbe opporsi che la sanatoria è stata rigettata dalla P.A. (che ha contestualmente ingiunto nuovamente la demolizione), sia perché tale rigetto è stato annullato da questa Sezione con sentenza n. 538 del 04.07.2012, sia perché, casomai, la P.A. avrebbe dovuto accertare l’inottemperanza alla nuova ingiunzione a demolire (TAR Lazio-Latina, sentenza 17.07.2013 n. 639 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: La progettazione delle opere di viabilità, non strettamente connesse ai singoli fabbricati, è di pertinenza degli ingegneri.
Con atto spedito per la notifica il 25.02.2013, depositato il 05.03.2013, il ricorrente espone di aver ricevuto avviso, di cui all’articolo 11 del d.P.R. 08.06.2001, n. 327, per la realizzazione della strada alternativa di collegamento “Via Calarossano - Via Parata Grande” interessante un’area in cui è compreso anche suolo di sua proprietà, al quale è seguito avviso di occupazione di urgenza in forza di decreto n. 4389 del 21.12.2012. Agisce quindi per l’annullamento di tutti gli atti in epigrafe indicati.
Con decreto presidenziale n. 86 del 06.03.2013, è stata respinta la tutela cautelare anticipata.
Il comune di Ventotene ha depositato documentazione il 09.05.2013 ed opposto, con memoria del successivo 17, l’infondatezza del ricorso.
Alla pubblica udienza del 20.06.2013, il ricorso è stato chiamato e dopo la discussione è stato introdotto per la decisione.
Il Collegio ritiene di dover esaminare in primo luogo il quarto motivo di diritto con il quale il ricorrente, nel prospettare la violazione degli articoli 51, 52 e 54 del R.D. 23.10.1925, n. 2537 argomenta l’illegittimità degli atti impugnati versandosi in ipotesi di progettazione di un’opera viaria pubblica di indubbia rilevanza, costituente infrastruttura primaria non riconducibile alla competenza dell’architetto.
Il motivo è fondato e va accolto.
Il regolamento di cui al R.D. 23.10.1925, n. 2537, adottato in esecuzione della legge 24.06.1923, n. 1395, disciplina le competenze dell’ingegnere e dell’architetto.
L’articolo 51 riconduce a quella degli ingegneri la progettazione e conduzione dei lavori per “estrarre ed utilizzare i materiali direttamente od indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto di deflusso e di comunicazione, alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali, nonché, in generale, alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le operazioni di estimo.”. In tale previsione sono incluse le costruzioni per opere stradali ed igienico-sanitarie (acquedotti, fognature, impianti di depurazione), gli impianti elettrici, le opere idrauliche e le opere di edilizia civile riconducibili alle “costruzioni di ogni specie”.
Per l’articolo 52 rientrano nella competenza comune, di ingegneri ed architetti, le “opere di edilizia civile”. Il secondo comma di detta norma poi, riconduce alla competenza degli architetti le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico e di restauro ed il ripristino degli edifici di interesse storico-artistico.
Le citate norme sono state pacificamente interpretate (Tar Venezia Veneto sez. I 08.07.2011, n. 1153; in termini anche: Tar Lecce Puglia sez. III, 18.04.2012, n. 708) nel senso che la progettazione delle opere di viabilità, non strettamente connesse ai singoli fabbricati, sia di pertinenza degli ingegneri (Consiglio Stato, sez. V, 06.04.1998, n. 416; sez. IV, 19.02.1990, n. 92).
Tale ricostruzione resiste agli argomenti addotti dal comune in sede di memoria conclusiva.
In via preliminare deve esser evidenziato che la progettazione riguarda una struttura di trasporto, deflusso e comunicazione, quindi un’opera di rilevante importanza perché tesa ad eliminare lo stato di pericolo e gli inconvenienti, conseguenti allo sgrottamento dell’ambito sottostante la strada comunale Calarossano, elencati nella relazione tecnica predisposta dal progettista, quali:
- l’isolamento di circa quindici nuclei familiari, comprese due attività turistico-ricettive, irraggiungibili in caso di emergenza sanitaria;
- l’impossibilità di accesso all’area dell’eliporto, in caso di emergenza sanitaria;
- l’impossibilità di accesso al cimitero comunale, con conseguenze igienico-sanitarie in caso di decesso;
- l’impossibilità di raggiungere le aree destinate all’approvvigionamento delle merci, del gas g.p.l. e del carburante;
- l’impossibilità di provvedere alla raccolta dei r.s.u. Ciò posto il comune ha contrastato il motivo in esame: - depositando copia del titolo di studio del progettista (Laurea Specialistica in Architettura Classe N. 4/S Architettura ed Ingegneria Edile) nonché l’allegato 2 tabella di Corrispondenza tra le Classi di laurea relative al D.M. 270/04 e le Classi di laurea relative al D.M. 509/99;
- argomentando che la Classe di Laurea Specialistica 4/S Architettura ed ingegneria edile di cui al D.M. 509/1999 corrisponde, attualmente alla Classe di Laurea Magistrale LM - 4 Architettura e ingegneria edile - architettura con l’ovvia conseguenza per la quale gli architetti che hanno conseguito il titolo posseduto dal progettista incaricato sono abilitati alla progettazione di cui alle norme in esame, anche di quelle viarie.
Tuttavia tale tesi non può esser condivisa dovendosi ad essa opporre, in via risolutiva, come dette indicazioni rilevano sul piano delle condizioni fissate per il conseguimento del titolo di studio quindi di accesso alle distinte professioni, nel mentre la disciplina invocata dai ricorrenti, diversamente, annette rilievo alla natura delle attività professionali svolte e che sostanziano i contenuti della competenza presupposta ai fini dell’applicazione delle menzionate norme regolamentari.
In definitiva i provvedimenti impugnati presuppongono una progettazione predisposta in violazione delle norme che fissano le competenze degli ingegneri e degli architetti, in particolare delle prescrizioni che impediscono a quest’ultimi di progettare opere di urbanizzazione primaria (opere viarie). La fondatezza del motivo in esame travolge, anche in via derivata ed assorbente rispetto ad ogni altra censura, tutti gli atti della procedura. Il ricorso va quindi accolto con l’annullamento degli atti impugnati (TAR Lazio-Latina, sentenza 12.07.2013 n. 609 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANiente condono per lavori in negozio oltre i termini.
Niente condono edilizio e certificato di agibilità per la bottega se i lavori non sono conclusi entro il termine stabilito dalla legge: decisivo il sopralluogo dei tecnici del comune che rilevano come all'immobile manchino ancora le finiture. Non può tuttavia essere il sindaco, come livello politico dell'amministrazione, a far chiudere l'esercizio dell'artigiano.

È quanto emerge dalla sentenza 03.06.2013 n. 3034, pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di stato.
- Tempo massimo. Ai fini del condono edilizio, ricordano i giudici, l'opera da assoggettare è identificabile se l'immobile risulta già eseguito, sia pure al rustico in tutte le sue strutture essenziali, fra le quali devono essere comprese le tamponature che sono necessarie per stabilire la relativa volumetria e la sagoma esterna.
In questo caso sono i tecnici del comune a inchiodare l'artigiano che ha chiesto il colpo di spugna fuori tempo massimo: per dimostrare il completamento dell'edificio entro la data prevista dalla legge, in alternativa alla dichiarazione sostitutiva dell'atto notorio, l'operatore economico avrebbe dovuto produrre documentazione con data certa, per esempio le fatture e le bolle di accompagnamento dei materiali necessari per la realizzazione dell'opera. Ma non lo ha fatto e trova ingresso il ricorso dell'ente locale.
- Urgenza esclusa. Sbaglia ancora il Tar quando sostiene che il comune abbia torto nel negare all'immobile il documento che attesta l'abitabilità-agibilità: il rilascio del certificato risulta, infatti, condizionato non soltanto alla salubrità degli ambienti, ma anche alla conformità edilizia dell'opera. E l'artigiano non ha presentato la documentazione prescritta dall'articolo 4 del dpr 425/1994, necessaria anche nel caso di condono edilizio.
L'errore dell'amministrazione sta invece nel provvedimento che chiude l'esercizio, laddove l'ordinanza del sindaco può essere emessa unicamente per situazioni contingibili e urgenti che comportano rischi per la collettività. E non è il caso della bottega (mezza) abusiva (articolo ItaliaOggi del 31.07.2013).

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