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AGGIORNAMENTO AL 27.08.2013 |
ã |
Il TAR sconfessa la Regione Lombardia:
LE OPERE
EDILIZIE CHE COMPORTANO MUTAMENTO DELLA DESTINAZIONE
D'USO VANNO SEMPRE QUALIFICATE COME "RISTRUTTURAZIONE
EDILIZIA"!! |
Tempo addietro, abbiamo pubblicato la
risposta 20.07.2012 della Regione Lombardia in
ordine ad un quesito comunale sul mutamento della
destinazione d'uso senza opere edilizie in forza
della L.R. n. 12/2005. Non solo: abbiamo anche
pubblicato l'ulteriore
risposta del 10.01.2013, sempre della Regione
Lombardia, a seguito della replica di chiarimento
al primo riscontro fornito. Invero, nella replica 10.10.2012 di chiarimento è stato
sollevato un legittimo dubbio -circa la risposta
fornita del 20.07.2012- laddove è stato evidenziato
quanto segue: "Poiché nella Vs. risposta
e-mail del 20/07/2012 si sostiene che "i mutamenti
di destinazione d’uso, conformi alle previsioni
urbanistiche comunali, connessi alla realizzazione
di opere edilizie non mutano la qualificazione
dell’intervento” e dunque possono essere ricondotti
anche alla tipologia di intervento della
“manutenzione straordinaria”, è necessario
comprendere come tale affermazione sia coniugabile
con quanto stabilito dalla Corte Costituzionale con
sentenza n. 309 del 23.11.2011.". E
l'ulteriore risposta regionale del 10.01.2013 così
recita: "Se è vero che la sentenza dichiara
altresì l'illegittimità costituzionale dell'art. 103
della L.R. 12/2005 nella parte in cui disapplica
l'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, è altrettanto vero
che la disposizione regionale che detta la
definizione degli interventi di manutenzione
straordinaria [lett. b) del citato art. 27],
oltretutto successiva a quella statale, da cui
effettivamente si discosta per un profilo
significativo quale quello relativo al numero delle
unità immobiliari coinvolte, non è stata oggetto di
diretta censura da parte del giudice costituzionale
e, pertanto, la definizione di manutenzione
straordinaria data dal legislatore regionale ad oggi
rimane presente nell'ordinamento, con la conseguente
disciplina.". Ebbene, sul piano strettamente formale la risposta
parrebbe non fare una grinza ma sul piano
sostanziale stride fortemente con quanto stabilito
dalla Corte Costituzionale con
sentenza 23.11.2011 n. 309,
e tale risposta non ha convito gli addetti ai lavori
fin da subito. E neanche a farlo apposta,
recentemente il TAR Milano ha detto la propria sulla
questione come da sentenza di seguito riportata,
essendo dell'avviso contrario rispetto a quanto
sostenuto dalla Regione. |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli interventi edilizi
che comportano modifiche alla destinazione d’uso del
fabbricato sul quale incidono, nonché un aumento della
superficie dello stesso, non possono essere ricondotti alla
categoria della manutenzione straordinaria. Anche la giurisprudenza, si è orientata nel senso di
ritenere che se le opere determinano la modifica di
destinazione d’uso ovvero un aumento di superficie
dell’immobile, esse vanno qualificate quale intervento di
ristrutturazione edilizia. L’art. 27, primo comma, lett. c), della l.r. 11.03.2005 n.
12, al contrario del citato art. 3 del d.P.R. n. 380/2001,
nel fornire la definizione degli interventi di manutenzione
straordinaria, non pone il limite del mantenimento della
destinazione d’uso né quello dell’aumento di superficie.
Ritiene tuttavia il Collegio che la lacuna contenuta nella
legge regionale vada colmata attraverso l’applicazione delle
norme statali, posto che queste ultime, nella parte in cui
definiscono le categorie di interventi edilizi, vanno
considerate quali espressione di principi fondamentali della
materia (cfr. Corte Costituzionale, sent. n. 309 del
23.11.2011), e che, quindi, una diversa interpretazione
porrebbe inevitabilmente il citato art. 27 in contrasto con
l’art. 117, comma terzo, Cost. Deve pertanto ritenersi che, anche per la normativa
regionale, le opere che determinano il cambio di
destinazione d’uso o un aumento di superficie dell’immobili
su cui incidono vanno qualificate quali interventi di
ristrutturazione edilizia. In base all’art. 3, comma primo,
lett. b), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, possono
considerarsi interventi di manutenzione straordinaria “…le
opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire
parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare
ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici,
sempre che non alterino i volumi e le superfici delle
singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle
destinazioni di uso”. Come si vede questa norma è chiara nell’affermare che
gli interventi edilizi che comportano modifiche alla
destinazione d’uso del fabbricato sul quale incidono, nonché
un aumento della superficie dello stesso, non possono essere
ricondotti alla categoria della manutenzione straordinaria.
Anche la giurisprudenza, in applicazione di questa
norma, si è orientata nel senso di ritenere che se le opere
determinano la modifica di destinazione d’uso ovvero un
aumento di superficie dell’immobile, esse vanno qualificate
quale intervento di ristrutturazione edilizia (cfr. ex multis TAR Emilia Romagna Parma sez. I, 25.05.2011 n.
154). L’art. 27, primo comma, lett. c), della l.r. 11.03.2005 n. 12, al contrario del citato art. 3 del d.P.R. n.
380/2001, nel fornire la definizione degli interventi di
manutenzione straordinaria, non pone il limite del
mantenimento della destinazione d’uso né quello dell’aumento
di superficie. Ritiene tuttavia il Collegio che la lacuna
contenuta nella legge regionale vada colmata attraverso
l’applicazione delle norme statali, posto che queste ultime,
nella parte in cui definiscono le categorie di interventi
edilizi, vanno considerate quali espressione di principi
fondamentali della materia (cfr. Corte Costituzionale, sent.
n. 309 del 23.11.2011), e che, quindi, una diversa
interpretazione porrebbe inevitabilmente il citato art. 27
in contrasto con l’art. 117, comma terzo, Cost. Deve pertanto ritenersi che, anche per la normativa
regionale, le opere che determinano il cambio di
destinazione d’uso o un aumento di superficie dell’immobili
su cui incidono vanno qualificate quali interventi di
ristrutturazione edilizia
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.07.2013 n. 1985 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
QUINDI?? |
Nella fattispecie ci sono di mezzo i soldi ovverosia
il mancato introito nelle casse comunali del contributo di costruzione
(oo.uu. + costo di costruzione) laddove si
perseguisse la tesi propinata dalla Regione. Il buon
senso, invece, porta a dire che il TAR Milano ha
ragione e se non si vuole rischiare di persona
dinanzi alla Corte dei Conti (circa il mancato
incasso del contributo dovuto) sarà bene adeguarci
alla corretta interpretazione della norma siccome
proposta dal Giudice amministrativo meneghino. Tanto, è solo questione di tempo e rivedremo un "film"
già dato più volte negli ultimi anni: presto o tardi
che sia, il TAR Lombardia rimetterà gli atti alla Consulta
(non appena un comune farà pagare ed il cittadino si
opporrà impugnando il provvedimento amministrativo)
e la stessa sentenzierà, per l'ennesima volta che "è
la Terra che gira attorno al Sole, e non viceversa!!".
27.08.2013 - LA
SEGRETERIA PTPL |
dite
la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
EDILIZIA
PRIVATA:
R. Cartasegna,
IL NOVELLATO TESTO
UNICO DELL’EDILIZIA TRA IMPROBABILI “SEMPLIFICAZIONI”
E SICURE “CRITICITÁ” - Note a margine dell’art. 30
della Legge 09.08.2013 n. 98 (23.08.2013). |
UTILITA' |
EDILIZIA
PRIVATA - SICUREZZA LAVORO: Sicurezza
sui luoghi di lavoro e nei cantieri e nuove regole in
edilizia: ecco le modifiche introdotte dalla “Legge del
Fare”. La “Legge del Fare” (Legge 09.08.2013, n. 98 di conversione
del Decreto del Fare) apporta modifiche al testo unico della
sicurezza e al testo unico sull’edilizia. Tra le modifiche e le semplificazioni più interessanti,
segnaliamo: Edilizia
●
Ricostruzioni e ristrutturazioni edilizie senza vincolo di
sagoma ●
SCIA ed edilizia libera: semplificazioni per autorizzazioni
e nulla-osta ●
Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati
●
Possibilità di richiedere “Certificato di agibilità
parziale” ●
Stop al silenzio-rifiuto per il Permesso di Costruire in
caso di vincoli ●
Proroghe ai termini di inizio e fine dei Permessi di
Costruire ●
Estensione della validità del DURC
Sicurezza
●
DUVRI facoltativo e semplificazione per la valutazione dei
rischi per le attività a basso rischio
●
POS, PSC e Fascicolo dell’Opera semplificati per i cantieri
temporanei e mobili
●
Tempi più rapidi per le verifiche periodiche delle
attrezzature
●
Misure di semplificazione per le prestazioni lavorative di
breve durata La redazione di BibLus-net mette a disposizione dei lettori
lo Speciale di approfondimento con tutte le misure
introdotte dalla “Legge del Fare” in materia di
edilizia e sicurezza nei luoghi di lavoro
(22.08.2013 - link a www.acca.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA
PRIVATA:
Guida alle semplificazioni del decreto legge del Fare (20.08.2013
- Dipartimento della funzione pubblica, Ufficio per la
semplificazione amministrativa). |
SINDACATI |
ENTI
LOCALI:
Art. 208 del C.d.S. - Prima apertura della Corte
dei Conti Lombardia sul finanziamento di progetti per
l'ampliamento dei servizi
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 23.08.2013). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI - EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: DURC. Recapito del documento esclusivamente
tramite Posta Elettronica Certificata (PEC) (inps,
messaggio
23.08.2013 n. 13414). ---------------
Il Durc con la Pec. Dal 2 settembre il rilascio
online. Messaggio Inps sull'utilizzo
della posta certificata. In soffitta il Durc cartaceo. Dal 2 settembre, infatti, sia
alle pubbliche amministrazioni che alle imprese il Documento
unico di regolarità contributiva (Durc) sarà recapitato da
Inail, casse edili e Inps esclusivamente tramite posta
elettronica certificata (pec) all'indirizzo indicato dal
richiedente sul modulo telematico di richiesta.
La novità, anticipata da ItaliaOggi il 16 luglio scorso, è
illustrata dall'Inps nel
messaggio
23.08.2013 n. 13414. La novità, spiega l'Inps, deriva dalle ultime riforme in
materia di semplificazione volte a favorire la riduzione dei
costi amministrativi alle imprese, valorizzando l'utilizzo
dei nuovi canali informatici come strumento di interazione
tra pubbliche amministrazioni, cittadini, imprese e
professionisti. Un percorso di riforma che, a partire dal 1°
luglio scorso, ha imposto alle pubbliche amministrazione di
non accettare più o effettuare le comunicazioni in forma
cartacea nei rapporti con le imprese. Questo rinnovato quadro normativo, aggiunge l'Inps, ha reso
necessaria la revisione anche del sistema di trasmissione
utilizzato per notificare il Durc alle stazioni
appaltanti/amministrazioni procedenti e alle imprese che ne
fanno richiesta, nei residuali casi in cui la normativa
ancora consente l'acquisizione diretta di tale documento.
Una revisione che ha condotto a due decisioni: da una parte
che la trasmissione dei Durc avviene esclusivamente tramite
lo strumento della Pec; e dall'altra l'obbligatorietà,
all'atto dell'inserimento della richiesta del Durc, della
valorizzazione del campo relativo all'indirizzo Pec al quale
si richiede l'invio (e verrà trasmesso) il Durc. Per tali
ragioni, a partire dal 01.07.2013, sulla procedura sportello
unico previdenziale è stato inserito un messaggio
informativo che comunica la decorrenza dal 02.09.2013
dell'obbligatorietà dell'indicazione dell'indirizzo Pec
nella richiesta. Dal 2 settembre, in conclusione, l'inoltro della richiesta
di Durc sarà consentito solo se il sistema dello sportello
unico previdenziale rileva l'avvenuta registrazione,
nell'apposito campo del modulo di richiesta, dell'indirizzo
Pec della stazione appaltante/amministrazione procedente,
delle Soa e delle imprese. Dalla stessa data, sia per le
pubbliche amministrazioni che per le imprese, i Durc saranno
recapitati dall'Inail, dalle casse Edili e dall'Inps,
esclusivamente tramite pec, agli indirizzi indicati dagli
utenti nel modulo telematico di richiesta. Dal punto di vista operativo, nella nota del 15 luglio
scorso la Cnce spiega che nella richiesta del Durc le
imprese, anziché il proprio, possono indicare l'indirizzo
mail (sempre posta elettronica certificata) del loro
consulente. Infine, l'Inps precisa che le ulteriori
istruzioni operative per la compilazione della richiesta
possono essere consultate nel Manuale per la compilazione
del Durc, pubblicato sul relativo sito internet
(www.sportellounicoprevidenziale.it)
(articolo ItaliaOggi del 24.08.2013). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Oggetto: rettifica e aggiornamento prospetti polizza
professionale allegati alla circolare n. 250 del 12.07.2013
(Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 06.08.2013 n. 262). |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO:
Oggetto: Istruzioni e linee guida per la fornitura e posa
in opera di segnaletica stradale (Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti,
nota
05.08.2013 n. 4867 di prot.). ---------------
Un
freno dai Trasporti alla segnaletica creativa. La segnaletica stradale deve essere uniforme e adeguata alle
direttive ministeriali. Sono quindi fuori legge tutte le
iniziative locali finalizzate a valorizzare un
attraversamento pedonale o un incrocio senza il rispetto
delle specifiche tecniche richieste dalla normativa.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con la
circolare 05.08.2013 n. 4867 di prot. avente per oggetto «istruzioni
e linee guida per la fornitura e posa in opera di
segnaletica stradale». Nonostante l'art. 38/6° del codice
stradale richiami chiaramente la necessaria uniformità della
segnaletica stradale sono tanti gli enti proprietari delle
strade che in questi anni hanno intrapreso scelte originali
spesso molto censurabili. Nonostante le continue e ripetute
diffide e due direttive ad hoc del 24.10.2000 e del 27.04.2006 la questione è ancora molto combattuta per cui
il ministero ha ritenuto opportuno riepilogare tutta la
disciplina in materia alla luce del regolamento 305/2011/Ue
che dal 1° luglio ha definitivamente sostituito la direttiva
89/106/Ce. In particolare ai sensi di questa dettagliata
disposizione normativa ora tutta la segnaletica verticale
deve essere marcata Ce e deve rispondere a specifiche
tecniche ad hoc richiamate anche dall'art. 63 del codice
degli appalti. Per quanto non coperto da norme armonizzate,
prosegue la nota centrale, restano valide le norme nazionali
per esempio circa i vincoli e le modalità di impiego dei
segnali e dei dispositivi contemplati nell'art. 45/6° del
codice stradale per i quali è obbligatorio ricorrere a
prodotti omologati o approvati. È il caso per esempio della
segnaletica temporanea di cantiere, dei segnali
complementari previsti dall'art. 42 Cds (tra cui i
dispositivi destinati ad impedire la sosta o limitare la
velocità) e tutti gli altri dispositivi analoghi previsti
dal regolamento stradale. La questione sulla corretta e uniforme applicazione delle
norme in materia di segnaletica però è già stata
adeguatamente approfondita in particolare dalla direttiva
del 27.04.2006 che per la prima volta viene ufficializzata
dopo un periodo di grande incertezza sull'ufficialità della
stessa
(articolo ItaliaOggi del 22.08.2013). |
CORTE DEI CONTI |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Consiglieri fuori dai controlli interni. È inammissibile la partecipazione dei consiglieri comunali
al sistema dei controlli interni disciplinato dall'articolo
147 del Tuel. E ciò per due motivi. Innanzitutto,
l'elencazione dei soggetti coinvolti in tale sistema, che
include le figure organizzative di maggior livello di
responsabilità presenti negli enti locali, è da intendersi
rigorosamente tassativa. Inoltre, essendo i controlli interni l'esplicazione di
un'attività amministrativa, il loro esercizio è precluso
agli organi di natura politica, quali sono i consiglieri
comunali. È quanto ha messo nero su bianco la sezione regionale di
controllo della Corte dei conti per la regione Liguria nel
testo del
parere
10.05.2013 n. 35, con cui ha fatto chiarezza su
un particolare aspetto in merito alla disciplina dei
controlli interni novellata dal recente intervento
legislativo operato con il decreto legge «Salva enti» (art.
3 del dl n. 174/2012). Nel parere in esame, il sindaco del comune di Cervo (Im),
chiedeva l'intervento della Corte in funzione consultiva per
sapere se fosse legittima la modifica del regolamento
comunale, nel prevedere che al sistema dei controlli
interni, al segretario dell'ente, ai responsabili dei
servizi e alle unità organizzative, potessero affiancarsi
anche i componenti del consiglio comunale. Nel merito, la Corte ligure ha osservato che la lettura
dell'articolo 147 Tuel, nel testo della sua nuova
formulazione, individua distintamente i soggetti coinvolti e
che i successivi articoli definiscono chiaramente il ruolo
di ciascuno di tali soggetti «non lasciando spazio
all'inserimento di ulteriori figure con specifiche
competenze». Ne consegue che l'elencazione normativa dei
soggetti che partecipano al sistema dei controlli interni è
da considerarsi tassativa, ferma restando l'autonomia
normativa e organizzativa di ciascun ente. Inoltre, depone a favore dell'inammissibilità della
partecipazione dei consiglieri comunali a tale sistema
un'ulteriore considerazione. In pratica, i controlli interni
ex art. 147 Tuel appartengono alla categoria dei controlli
amministrativi delle pubbliche amministrazioni. In tale
categoria sono ricomprese tutte le varie forme di controllo
che hanno a oggetto atti o attività poste in essere da
organi o uffici amministrativi di un ente. Pertanto, ammette
la Corte, posto che si tratta di attività amministrativa,
anche se strumentale rispetto a quella «attiva», il suo
esercizio è precluso agli organi di natura politica, quali
sono i componenti del consiglio comunale. Questi ultimi,
piuttosto, figurano tra i soggetti referenti e beneficiari
delle risultanze dell'attività di controllo espletate
all'interno dell'apparato amministrativo e, qualora lo
ritengano opportuno, possono utilizzare altri strumenti
giuridici (su tutti, il deposito di interrogazioni e il
diritto di accesso garantito dall'articolo 43 Tuel) per
garantire il pieno soddisfacimento delle esigenze
informative connesse all'adempimento del loro ufficio
(articolo ItaliaOggi del 23.08.2013). |
NEWS |
EDILIZIA
PRIVATA: Edilizia. Il Decreto del Fare consente alle Regioni di
autorizzare la realizzazione di edifici a meno di 10 metri
l'uno dall'altro. Meno vincoli sulle costruzioni.
Derogabili le regole nazionali sulla distribuzione degli
spazi urbanistici. LA CONDIZIONE/
La normative locali non potranno comunque andare oltre il
Codice civile e le disposizioni integrative sulla proprietà. Il decreto del fare (Dl 69/2013) ha modificato uno dei
princìpi finora considerati inviolabili in edilizia:
l'inderogabilità dei limiti delle distanze tra costruzioni
stabiliti dal Dm 02.04.1968 n. 1444. La legge di
conversione del Dl (la 98/2013) ha, infatti, introdotto un
nuovo articolo –il 2-bis– al Testo unico dell'edilizia
(Tue, Dpr 380/2001), secondo cui le Regioni e le Province
autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con
proprie leggi e regolamenti, deroghe al Dm 1444/1968, che
disciplina i limiti di densità edilizia, di altezza, di
distanza fra i fabbricati. Questi enti potranno, poi, dettare disposizioni sugli spazi
da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli
produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al
verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o
revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un
assetto complessivo e unitario o di specifiche aree
territoriali. Con il nuovo articolo 2-bis, le Regioni e le Province
autonome hanno ora la possibilità di modificare l'assetto
normativo finora regolato dal Dm 1444/1968. Esso contiene il
"cuore" della normativa nazionale su densità abitativa e
dimensione e posizione degli edifici, mentre il Codice
civile si occupa principalmente di distanze rispetto a
siepi, alberi, muri di cinta, pozzi, comunioni forzose,
finestre, balconi eccetera. Il Dm 1444 prevede, in sintesi,
per i nuovi edifici una distanza minima di 10 metri, per
risanamenti conservativi e ristrutturazioni uno spazio non
inferiori a quello tra i volumi edificati preesistenti
(contati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di
epoca recente e prive di valore storico, artistico o
ambientale). Il nuovo articolo 2-bis del Tue va inquadrato in un contesto
caratterizzato, da un lato, dalla tendenza di Regioni e
Comuni di introdurre disposizioni legislative e
regolamentari derogatorie al Dm 1444/1968 e, dall'altro, da
un costante e consolidato principio giurisprudenziale che dà
efficacia precettiva e inderogabile all'articolo 9 del Dm:
spesso, i giudici sono stati chiamati a valutare norme
comunali contenute nei piani regolatori, nelle Nta (Norme
tecniche di attuazione) e negli strumenti attuativi che si
discostavano variamente dai limiti del Dm, prevedendo
distanze minori, dichiarandole illegittime. Anche la Corte costituzionale si è più volte pronunciata
sulla legittimità di alcune disposizioni regionali che,
forzando il dettato del Dm 1444/1968, introducevano
disposizioni derogatorie ai limiti fissati dal legislatore
nazionale. Nelle sue pronunce, la Consulta ha costantemente
ribadito che le Regioni che derogano ai limiti nazionali
travalicano le proprie competenze in materia di governo del
territorio interferendo con la competenza esclusiva dello
Stato a fissare le distanze minime (sentenze 232/2005,
114/212 e 6/2013). In tale quadro, tuttavia, è lo stesso Dm 1444/1968 che
qualifica i limiti in tema di distanze come «inderogabili»
ammettendo, al contempo, distanze inferiori per gruppi di
edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni plano
volumetriche. La deroga, in tali casi, è consentita perché i
piani particolareggiati e le lottizzazioni convenzionate
sono forme di pianificazione attuativa che regolamentano in
modo complessivo e unitario determinate zone. Nell'ambito di
tale normativa è consentito ai Comuni sacrificare
l'interesse al rispetto delle distanze con altri vantaggi
per il bene pubblico (ad esempio, aumento delle aree verdi). È su questa possibilità di deroga prevista dal Dm 1444/1968
che fa leva la Scheda di lettura redatta dal servizio Studi
della Camera il 7 agosto scorso, quando suggerisce che le
nuove disposizioni derogatorie introdotte dall'articolo
2-bis a favore di Regioni e Province autonome dovrebbero
essere dettate nell'ambito della definizione o revisione di
strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto
complessivo e unitario del territorio o di specifiche aree. Tuttavia, il punto sembra restare controverso in quanto il
tenore letterale dell'articolo 2-bis sembra prevedere due
distinte facoltà: quella di dettare disposizioni derogatorie
al Dm 1444/1968 accanto a quella di dettare disposizioni
sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a
quelli produttivi, a quelli riservati alle attività
collettive, al verde e ai parcheggi. ---------------
Licenze. Snellite le procedure di rilascio.
Se c'è un obbligo ambientale 30 giorni per l'ok dell'ufficio.
LA PROROGA/ Possono slittare di tre anni i termini di inizio
e fine lavori nelle convenzioni di lottizzazione. Il decreto del fare (Dl 69/2013) contiene numerose
semplificazioni nelle costruzioni. Tra queste, oltre alle
innovazioni "sostanziale" (liberalizzazione della sagoma e
derogabilità dei limiti delle distanze tra le costruzioni),
spiccano le modifiche "procedurali" che hanno mutato il
rilascio dei titoli abilitativi. In tale ambito c'è la
sostanziale riscrittura dell'articolo 20 del Testo unico
dell'edilizia (Dpr 380/2001, Tue) sulla disciplina per gli
immobili vincolati. In particolare l'articolo 20 del Tue prevede ora che quando
sia richiesto un permesso di costruire per un intervento
soggetto a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali il
dirigente (o il responsabile dell'ufficio competente) deve
adottare il provvedimento finale entro 30 giorni dal
rilascio del nulla osta da parte dell'amministrazione
preposta alla tutela del vincolo: in caso di valutazione
positiva, il procedimento amministrativo andrà concluso con
l'adozione di un provvedimento espresso. In caso di diniego
dell'atto di assenso (sia trasmesso dall'amministrazione
competente sia acquisito in conferenza di servizi), se il
dirigente non emana il provvedimento conclusivo (di rigetto)
entro 30 giorni, la domanda si intende respinta e, in tal
caso, il responsabile del procedimento sarà comunque tenuto
trasmettere al richiedente il provvedimento di diniego. La trasmissione in un termine molto celere –cinque giorni–
garantisce l'effettività dell'azione giudiziale per chi si è
visto negare il provvedimento: in tal modo, si conoscono i
motivi giuridici che ostano all'accoglimento. Novità anche per l'autorizzazione paesaggistica. Il Dl
69/2013 interviene, in primo luogo, sui termini per il
completamento dei lavori: resta fermo che l'autorizzazione è
efficace per cinque anni, ma il decreto precisa che, se i
lavori sono iniziati nel quinquennio, l'autorizzazione si
considera efficace per tutta la loro durata. Nella
precedente formulazione, scaduto il termine, i lavori ancora
da realizzare dovevano essere nuovamente autorizzati. Sempre nell'ambito del procedimento per l'autorizzazione
paesaggistica, viene dimezzato il termine di rilascio entro
il quale l'amministrazione competente provvede sulla domanda
di autorizzazione: da 90 a 45 giorni dalla ricezione degli
atti endoprocedimentali. Ulteriore agevolazione per il settore delle costruzioni è la
possibilità di ottenere una proroga per i termini di inizio
e fine lavori stabiliti dall'articolo 15 del Tue. Per
ottenerla, il titolare di un permesso di costruzione potrà
comunicare all'amministrazione di avvalersi della facoltà
riconosciuta dal comma 3 dell'articolo 30 del Dl 69/2013. La
comunicazione potrà essere presentata a condizione che:
●
i termini non siano già decorsi al momento della
presentazione; ●
i titoli abilitativi non risultino in contrasto, al momento
della comunicazione, con nuovi strumenti urbanistici
approvati o adottati;
●
la normativa regionale non preveda disposizioni differenti. Il decreto del fare prevede una proroga di validità anche
per i termini di inizio e fine lavori nell'ambito delle
convenzioni di lottizzazione o degli accordi simili comunque
nominati dalla legislazione regionale, stipulati sino al 31.12.2012: la norma, nella versione convertita dalla
legge 98/2013, accorda uno slittamento dei citati termini di
tre anni. Si ricorda che la possibilità di ottenere una proroga dei
termini di inizio e fine lavori previsti dall'articolo 15
del Tue prima della nuova disposizione del decreto del fare
esisteva già, ma era sottoposta ad una stringente
valutazione degli uffici tecnici comunali, che la
concedevano soltanto se l'istanza di proroga era
giustificata da serie e non prevedibili ragioni (articolo Il Sole 24 Ore del 25.08.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA - VARI: Arriva il tutor per le imprese.
Permessi di costruire più rapidi. Successioni snellite.
Un vademecum della camera sul ddl semplificazioni
che ha iniziato il proprio iter. In arrivo il tutor delle imprese per assistere l'aziende nei
rapporti con la p.a. Permessi di costruire più rapidi,
mentre per le varianti non essenziali basterà la Scia. Per
le successioni mortis causa si estende l'area di esonero
dalla dichiarazione degli eredi più prossimi, che potranno
avvalersi anche di copie non autentiche della
documentazione.
È quanto prevede il ddl semplificazioni,
approvato dal consiglio dei ministri lo scorso 19 giugno e
assegnato nei giorni scorsi alla commissione affari
costituzionali del Senato per l'avvio dell'iter
parlamentare. Riguardo al permesso di costruire, oggi i 60
giorni concessi al responsabile del procedimento per
formulare una proposta di provvedimento e richiedere
documentazione integrativa sono raddoppiati in due ipotesi:
nei comuni con più di 100 mila abitanti e per i progetti
ritenuti particolarmente complessi. In futuro dovranno
sussistere entrambe le condizioni. Stop, quindi, al
raddoppio automatico nelle grandi città, con un
significativo abbattimento dei tempi. Sempre in tema di
edilizia, le varianti al permesso di costruire saranno
possibili presentando la Scia (segnalazione certificata di
inizio attività). Se i lavori non violano le prescrizioni urbanistico-edilizie già accordate, ci si potrà discostare
dal permesso con la procedura facilitata. È però necessario
acquisire prima i dovuti atti di assenso (ambientale,
paesaggistico ecc.) e la modifica non deve configurare una
variazione essenziale dell'immobile. Ok, quindi, a modifiche
sulle entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e
sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.
Inoltre, in attesa degli opportuni accertamenti
dell'amministrazione non si darà luogo alla sospensione dei
lavori prevista dall'articolo 27 del dpr n. 380/2001. Una
novità che, come evidenzia in un dossier il servizio studi
di palazzo Madama, tramite la presentazione della Scia
«consente l'avvio dei lavori il giorno stesso della sua
presentazione, mentre con la Dia occorre attendere 30
giorni». Per quanto attiene le varianti al permesso di
costruire si ricorda che l'articolo 32 del dpr n. 380/2001
attribuisce alle regioni il compito di stabilire quali siano
le variazioni essenziali al progetto approvato (in via
generale: mutamento della destinazione d'uso, aumento
consistente della cubatura, modifiche sostanziali di
parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato,
violazione delle norme vigenti in materia di edilizia
antisismica). Importanti novità in arrivo anche in materia di Pubblico
registro automobilistico. Dal 01.07.2014 chi subisce il
furto dell'auto non dovrà più comunicare al Pra la perdita
di possesso: provvederanno le forze dell'ordine cui il
cittadino abbia presentato la denuncia. Situazione analoga
in caso di cambio di residenza (ci penserà l'anagrafe).
Semaforo rosso anche alle dichiarazioni unilaterali di
vendita del veicolo: per evitare fenomeni fraudolenti e/o
intestazioni fittizie dei mezzi, saranno necessari atti
bilaterali recanti la sottoscrizione autenticata del
venditore e dell'acquirente. Per quanto concerne le imprese sarà istituito un vero e
proprio tutor che guiderà le aziende in tutti quei
procedimenti amministrativi che, secondo la normativa
vigente, si devono concludere con provvedimento espresso. A
fornire il servizio saranno gli sportelli unici per le
attività produttive (Suap), nella persona del responsabile
dello sportello stesso o di un suo delegato. Tra le diverse norme tributarie recate dal ddl, una è volta
a semplificare gli adempimenti in materia di dichiarazione
di successione. La soglia di esenzione dell'asse ereditario
viene elevata dagli attuali 25 mila a 75 mila euro, purché
non siano interessati immobili o diritti reali immobiliari.
Ad avvalersi dell'agevolazione saranno il coniuge o i
parenti in linea retta (per esempio i figli) del de cuius.
Laddove la dichiarazione debba essere presentata, inoltre,
viene data facoltà ai contribuenti di allegare anche copie
non autentiche della documentazione (accompagnate da una
dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà). Resta
facoltà dell'Agenzia delle entrate, tuttavia, chiedere agli
eredi di esibire gli originali in sede di controllo. Interventi anche a tutela di chi investe sui mercati
finanziari. Viene inserito nel Tuf un nuovo articolo
4-quater, che estende a tutte le aree di vigilanza della
Consob i più penetranti poteri di indagine già previsti
dall'articolo 187-octies del Tuf in materia di abusi di
mercato. Introdotta anche una specifica sanzione
amministrativa pecuniaria a danno degli amministratori di
società quotate che commettono gravi violazioni in materia
di operazioni con parti correlate
(articolo ItaliaOggi del 23.08.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA: DECRETO DEL FARE/ La disposizione osteggiata dai presidenti
di Veneto e Friuli Campeggi, spazio ai bungalow.
Al posto delle roulotte e senza permesso di costruire. Bungalow nei campeggi al posto delle piazzole per le
roulotte e senza più la necessità di chiedere il permesso di
costruire. Il decreto legge Fare (dl 69/2013, legge conv.
98/2013, in G.U. del 20 agosto) non ha introdotto alcun
nuovo obbligo a danno di camper e roulotte, ma ha soltanto
aggiunto un inciso al fine di chiarire che è consentito ciò
che invece si temeva fosse inibito. Pare, invece, che
l'obiettivo non sia stato raggiunto, se anche la Commissione
ambiente della Camera, nella seduta dell'11 luglio scorso,
ha ritenuto utile sostituire l'articolato proposto dal
governo, in sede di conversione del decreto legge, con altro
testo, «più consono alla soluzione del problema proposto».
La norma contesa. Il dpr 380/2001, ovvero il Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia, all'articolo 3, contiene le definizioni degli
interventi edilizi. E, specificatamente al comma 1, lettera
e) elenca gli «interventi di nuova costruzione», ovvero
quelli assoggettati alla procedura autorizzatoria precisando
che, sono comunque da considerarsi tali, tra gli altri,
«l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati,
e di strutture di qualsiasi genere, quali roulotte, camper,
case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare
esigenze meramente temporanee». Il decreto legge Fare
69/2013, entrato in vigore il 21 giugno scorso e che per la
parte in questione non è stato modificato dalla legge di
conversione 98/2013 pubblicata in G.U. il 20 agosto, non ha
fatto altro che aggiungere al testo preesistente un inciso
che è stato interpretato nei modi più vari, inducendo anche
i presidenti Zaia e Serracchiani a una levata di scudi
contro il governo, reo di ostacolare lo sviluppo del turismo
rispettivamente in Veneto e Friuli-Venezia Giulia. Sta di
fatto che l'inciso sibillino altro non aggiunge che un
laconico: «Ancorché siano posizionati, con temporaneo
ancoraggio al suolo, all'interno di strutture ricettive
all'aperto, in conformità alla normativa regionale di
settore, per la sosta e il soggiorno di turisti».
Il senso della norma.
Opposto, rispetto alla levata di scudi, il fine del governo.
Lo rivela la relazione di accompagnamento della legge di
conversione del dl Fare. Vi si legge, infatti, che «con
il comma 4 (dell'art. 40) si intende chiarire meglio la
portata di alcune norme applicate in relazione all'attività
di collocazione di allestimenti mobili di pernottamento e
relativi accessori, temporaneamente ancorati al suolo,
all'interno di strutture ricettive all'aperto per la sosta e
il soggiorno di turisti, in modo da risolvere alcune
questioni interpretative sorte nell'applicazione concreta
delle stesse, suscettibili di ostacolare l'attività delle
strutture ricettive per turisti all'aperto». Ancora più preciso, il dossier dell'ufficio studi del Senato
(n. 13/2013). Si legge infatti che «il comma 4 integra la
definizione di interventi di nuova costruzione recata
dall'art. 3 del T.u. edilizia (dpr 380 del 2001), escludendo
le installazioni posizionate, con temporaneo ancoraggio al
suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto, in
conformità alla normativa regionale di settore, per la sosta
ed il soggiorno di turisti». Nessun dubbio invece per
Italia nostra che, attraverso il consigliere nazionale
Montini, denuncia come sia «paradossale che, in un
momento nel quale praticamente tutte le forze politiche
dichiarano che una delle priorità di queste Paese è quella
di evitare l'indiscriminato consumo di territorio, il
governo e l'attuale maggioranza facciano a gara per
massacrare le nostre coste e le zone d'Italia più suggestive»
(articolo ItaliaOggi del 23.08.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Privacy per chi fa gli straordinari.
Provvedimento del garante. Vietato affiggere in bacheca l'elenco nominativo dei
lavoratori che hanno fatto straordinario. Ed è vietato
trasmettere tale elenco ai sindacati.
Lo ha precisato il
garante con il
provvedimento
18.07.2013 n. 358, a
seguito della segnalazione di un appartenente alla polizia
penitenziaria: diffusione e comunicazione alle
organizzazioni sindacali violano il codice della privacy. Nella segnalazione si è fatto presente che viene affisso
mensilmente, nei locali della segreteria e nel locale corpo
di guardia, l'elenco del personale appartenente al corpo di
polizia penitenziaria presente nella struttura, nei
confronti del quale è stata disposta la liquidazione del
compenso per prestazioni di lavoro straordinario, con
l'indicazione del numero di ore effettuate e delle ore
retribuite compensate con turni di riposo. Inoltre tale elenco viene trasmesso anche alle
organizzazioni sindacali. In materia esiste un accordo sindacale, che, però, prevede
che l'elenco non debba essere nominativo: il personale
dovrebbe essere indicato in forma anonima e aggregata,
distinto per qualifica. Il garante ha ritenuto illegittima la pubblicazione
nominativa per le seguenti ragioni. Oltre al codice della privacy, il garante ha richiamato le
sue «Linee guida in materia di trattamento di dati personali
di lavoratori per finalità di gestione del rapporto di
lavoro in ambito pubblico», del 14.06.2007 (pubblicate
sulla Gazzetta Ufficiale del 13.07.2007, n. 161): in
linea generale e salvo ipotesi previste da specifiche
disposizioni legislative o regolamentari, non è di regola
lecito diffondere informazioni personali riferite a singoli
lavoratori attraverso la loro pubblicazione in comunicazioni
e documenti interni affissi nei luoghi di lavoro o atti e
circolari destinati alla collettività dei lavoratori. Con riferimento specifico alle comunicazioni ai sindacati,
le linee guida citate precisano che ad esclusione dei casi
in cui il contratto collettivo applicabile preveda
espressamente che l'informazione sindacale abbia ad oggetto
anche dati nominativi del personale per verificare la
corretta attuazione di taluni atti organizzativi,
l'amministrazione può fornire alle organizzazioni sindacali
dati numerici o aggregati e non anche quelli riferibili a
uno o più lavoratori individuabili. È il caso, ad esempio,
delle informazioni inerenti ai sistemi di valutazione
dell'attività dei dirigenti, alla ripartizione delle ore di
straordinario e alle relative prestazioni, nonché
all'erogazione dei trattamenti accessori. Nel caso dell'amministrazione penitenziaria, nessuna fonte
normativa o contrattuale prevede che gli elenchi relativi al
personale che effettua lavoro straordinario, oggetto di
affissione e comunicazione alle organizzazioni sindacali,
debba essere compilato con l'indicazione del nominativo dei
lavoratori interessati, anziché in forma aggregata per
categoria. Non sono state ritenute sufficienti le prescrizioni
contrattuali riferite alle comunicazioni ai sindacati
relative alla gestione del personale che non prevedono la
pubblicazione di elenchi nominativi. Tale pubblicazione,
così come la comunicazione ai sindacati, viola l'articolo 11
del codice della privacy, secondo cui i dati personali
oggetto di trattamento debbono essere non eccedenti rispetto
alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente
trattati; e viola anche l'articolo 19, comma 3, del codice,
che prevede che la comunicazione di dati personali da parte
di un soggetto pubblico a privati o a enti pubblici
economici e la diffusione di tali dati da parte di un
soggetto pubblico sono ammesse unicamente quando sono
previste da una norma di legge o di regolamento. Al ministero della giustizia-dipartimento
dell'amministrazione penitenziaria, quindi, sono stati
vietati l'affissione e la trasmissione alle organizzazioni
sindacali dell'elenco nominativo del personale che ha
effettuato ore di lavoro straordinario. In materia va sottolineato che gli obblighi di trasparenza
sui dati del personale sono regolati dal decreto legislativo
33/2013, relativo agli obblighi di pubblicità in capo alle
amministrazioni pubbliche. Il principio formulato dal garante vale sia per i lavoratori
pubblici sia per i dipendenti privati
(articolo ItaliaOggi del 23.08.2013). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P.a., tagli a incarichi e auto blu.
Ridotta del 20% la spesa 2012. Tutele per i precari.
Oggi in consiglio dei ministri il pacchetto di
riforma (decreto legge e ddl) del pubblico impiego.
Taglio del 20% sull'acquisto delle auto blu e dei buoni per
i taxi, soppressione del 20% della spesa per le consulenze
(a eccezione degli enti di ricerca e delle università) e
norme per la stabilizzazione dei precari della p.a.. Sono
alcune delle misure (si veda ItaliaOggi del 21.08.2013)
contenute nel pacchetto di riforma del pubblico impiego (che
sarà sdoppiato in un decreto legge e in un disegno di legge)
oggi all'esame del consiglio dei ministri. Secondo il testo che sarà certamente oggetto di limature
fino all'ultimo, le amministrazioni dello stato non potranno
superare, per le auto blu e le consulenze, l'80% della spesa
sostenuta nel 2012. Il taglio comprende anche le spese per
«la manutenzione, il noleggio e l'esercizio» delle
automobili di servizio di tutte le amministrazioni
pubbliche. Precari. Nel provvedimento ci sarà anche una soluzione per
gli statali con contratto a tempo determinato. Coloro che
negli ultimi cinque anni hanno avuto contratti per almeno
tre anni, secondo la bozza, si vedranno «riservato» il 50%
dei posti messi a disposizione nei concorsi che si terranno
fino al 31.12.2015. Non solo: le amministrazioni
che prevedono di effettuare un concorso potranno prorogare i
rapporti di lavoro con il loro personale a tempo
determinato. Con il decreto si rimette poi «in moto» il meccanismo della
spending review, introdotta dal governo Monti, posticipando
a dicembre molte delle scadenze fissate per il giugno
scorso. In particolare si introducono norme per il
prepensionamento del personale, che avrà così a disposizione
due anni in più (fino al 2016) per maturare i requisiti
necessari per lasciare il lavoro con le regole precedenti
alla riforma voluta dall'ex ministro del welfare, Elsa
Fornero. Il pacchetto sul pubblico impiego si occupa anche della
mobilità nelle società partecipate dalle amministrazioni
pubbliche. Quelle partecipate, per esempio, da un comune
secondo lo schema dovrebbero entrare a far parte di una
«rete», in modo da organizzare le eventuali eccedenze di
personale. Altri due capitoli riguardano uno l'assunzione di
mille vigili del fuoco e l'altro la soluzione del caso dei
concorsi per dirigente scolastico attraverso l'affidamento
temporaneo di direzione ai presidi. Una misura,
quest'ultima, che dovrebbe garantire il regolare avvio
dell'anno scolastico. Mobilità. Il decreto legge di modifica del lavoro pubblico
chiarisce alcuni presupposti per la funzionalità
dell'istituto della mobilità (che regola il «trasferimento»
da un ente all'altro, non il licenziamento) e ne cancella il
requisito di presupposto di legittimità per l'espletamento
dei concorsi. Consenso ai fini del trasferimento. Il dlgs 150/2009 aveva
modificato l'articolo 30, comma 1, del dlgs 165/2001,
stabilendo che «il trasferimento è disposto previo parere
favorevole dei dirigenti responsabili dei servizi e degli
uffici cui il personale è o sarà assegnato sulla base della
professionalità in possesso del dipendente in relazione al
posto ricoperto o da ricoprire». La disposizione, nonostante fosse piuttosto chiara nel senso
di richiedere il parere favorevole del dirigente dell'ente
di provenienza (personale che «è assegnato»), come dell'ente
di destinazione (personale che «sarà assegnato»), ha fatto
ritenere minoritaria la dottrina, che però ha trascinato
molti operatori, che fosse stato abolito il nulla osta da
parte del dirigente dell'ente di provenienza. Insomma, una
lettura sommaria della disposizione, aveva sollevato il
dubbio, per la verità risolto negativamente dal dipartimento
della funzione pubblica col parere 10395/2013, che bastasse
il solo consenso al trasferimento dell'ente presso il quale
il dipendente si trasferisse. Il legislatore, allo scopo di scongiurare qualsiasi
applicazione distorta dell'istituto della mobilità, risolve
il problema modificando il comma 1 del citato articolo 30,
il quale ora dispone che il trasferimento è disposto previo
parere favorevole «sia dei dirigenti responsabili dei
servizi e degli uffici cui il personale è assegnato sia dei
dirigenti responsabili dei servizi e degli uffici cui il
personale sarà assegnato». Mobilità non più presupposto per i concorsi. Sempre il dlgs
150/2009 aveva stabilito, nei commi 2 e 2-bis, dell'articolo
30 che le amministrazioni pubbliche avrebbero dovuto
procedere obbligatoriamente alla mobilità volontaria, prima
di svolgere i concorsi, a pena di illegittimità. Si era trattato di un irrigidimento illogico della
disciplina del reclutamento nel lavoro pubblico. La sola
mobilità obbligatoria, prevista dall'articolo 34-bis del
dlgs 165/2001, come strumento di tutela di dipendenti in
disponibilità e, dunque, alle soglie del licenziamento, si
giustifica come presupposto obbligatorio prima
dell'indizione dei concorsi. La mobilità volontaria, invece,
altro non è se non un razionale strumento per distribuire
meglio il personale, mediante trasferimenti tra enti. Il decreto legge prende atto dell'eccessivo carico
burocratico dovuto alla mobilità volontaria come passo
necessario per i concorsi. Così, dal comma 2-bis
dell'articolo 30 sparisce la previsione secondo la quale «le
amministrazioni, prima di procedere all'espletamento di
procedure concorsuali, finalizzate alla copertura di posti
vacanti in organico, devono attivare le procedure di
mobilità di cui al comma 1», che appunto obbliga alla
mobilità prima dei concorsi. Al posto di tale disposizione,
si prevede, invece semplicemente che le amministrazioni
intenzionate ad attivare le procedure di mobilità (tornate a
essere una facoltà) per coprire posti vacanti in organico
seguono gli ordini di priorità nelle assunzioni fissati
dalla restante parte del comma 2. Distribuzione del personale. Il fine di utilizzare la
mobilità volontaria per distribuire meglio il personale tra
amministrazioni non sarà, dunque, più perseguito con
l'obbligatorietà dell'istituto, ma mediante un decreto del
ministro della funzione pubblica. Tale provvedimento avrà lo scopo di fissare misure per
agevolare i processi di trasferimento dei dipendenti, per
rafforzare gli organici delle amministrazioni in difficoltà. In particolare, da subito si prevede che fino al 31.12.2014 i dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, di
amministrazioni che dichiarino esuberi lavorativi, potranno
chiedere la mobilità volontaria presso il ministero della
giustizia, per essere impiegati nell'ambito del personale
amministrativo operante presso gli uffici giudiziari. Allo
scopo, il ministero dovrà effettuare delle selezioni e
accollarsi l'onere di assegni ad personam,
riassorbibili, laddove il lavoratore trasferito disponga di
un trattamento più favorevole, a parità di qualifica
(articolo ItaliaOggi del 23.08.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - VARI: P.a., semplificazioni a raffica.
Indennizzi da ritardo, adempimenti unici, multe scontate.
Tutte le novità per le
amministrazioni locali della legge di conversione del dl
fare. Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 194 del 20
agosto della legge n. 98 di conversione del cosiddetto
«decreto del fare» (dl 69/2013) inizia ufficialmente la
sperimentazione del nuovo indennizzo da ritardo nella
conclusione dei procedimenti amministrativi. Ma per le p.a.
il provvedimento contiene anche numerose altre novità. In caso di mancato rispetto del termine per concludere le
pratiche, l'amministrazione responsabile dovrà corrispondere
all'interessato, a titolo di indennizzo per il mero ritardo
e con decorrenza dalla data di scadenza, una somma pari a 30
euro per ogni giorno di ritardo e comunque complessivamente
non superiore a 2.000 euro. In sede di prima applicazione, la misura si applicherà solo
ai procedimenti amministrativi relativi all'avvio e
all'esercizio dell'attività di impresa. Dopo 18 mesi, un
regolamento statale, sulla base del monitoraggio relativo
alla sua applicazione, ne stabilirà la conferma, la
rimodulazione, anche con riguardo ai procedimenti
amministrativi esclusi, o la cessazione, nonché
eventualmente il termine a decorrere dal quale essa verrà
estesa, anche gradualmente, ad altri procedimenti. Anche a
regime, comunque, l'indennizzo potrà essere previsto solo
nei procedimenti a iniziativa di parte per i quali sussiste
l'obbligo di pronunziarsi, con esclusione, quindi, di quelli
avviati d'ufficio. Rimangono fuori dall'ambito di
applicazione del nuovo istituto anche le ipotesi di silenzio
qualificato (silenzio assenso e silenzio rigetto) e i
concorsi pubblici. Come detto, però, per le p.a. sono previste altre rilevanti
novità. Fra queste, spicca il nuovo sistema delle date
uniche di efficacia dei nuovi obblighi amministrativi, che
scatteranno dal 1° luglio o dal 1° gennaio successivi
all'entrata in vigore delle norme che li prevedono (fatte
salve particolari esigenze di celerità dell'azione
amministrativa), e la definitiva messa al bando delle
comunicazioni a mezzo fax, oramai del tutto soppiantato
dalle trasmissioni per via telematica. Cambiano anche le modalità di pagamento delle sanzioni per
infrazioni al codice della strada: chi si presenterà alla
cassa entro cinque giorni beneficerà di uno sconto del 30%.
La misura (destinata ad avere un impatto notevole
soprattutto sulle casse dei comuni) riguarda i verbali
notificati da oggi, mentre per i preavvisi non ancora
notificati occorre attendere istruzioni più precise. È
invece saltato per le difficoltà applicative cui avrebbe
dato luogo lo sconto per gli automobilisti virtuosi. Assai ricco il pacchetto per gli enti territoriali.
Innanzitutto, ritorna in auge il federalismo demaniale,
lanciato in pompa magna nella scorsa legislatura, ma finora
rimasto sulla carta. Entro il prossimo 30 novembre, gli enti
locali potranno richiedere l'assegnazione di beni statali
all'Agenzia del demanio, specificando le finalità di
utilizzo e indicando le eventuali risorse finanziarie a ciò
preordinate. La richiesta dovrà essere evasa dal Demanio
entro 60 giorni, previamente interpellando le
amministrazioni che hanno in uso i beni opzionati. In caso
di alienazione, i proventi dovranno essere destinati, per il
75%, alla riduzione del debito dell'ente che li acquisiti e
solo in assenza di debito potranno finanziare spese di
investimento. Il restante 25%, invece, dovrà confluire nel
fondo ammortamento dei titoli di stato. Province e comuni incassano anche una serie di norme che
alleggeriscono i limiti alla rispettiva capacità di spesa.
Diventa meno rigido il tetto alle uscite per l'acquisto di
mobili e arredi (attualmente fissato al 20% della spesa
media 2010/2011), che non si applica più a quelli destinati
all'uso scolastico e ai servizi per l'infanzia. Inoltre,
viene agevolata l'assunzione mediante forme di lavoro
accessorio del personale impegnato in attività sociali. Misure
ad hoc riguardano gli enti dissestati e quelli in predissesto. Questi ultimi, se si trovano ad inizio mandato,
possono rimodulare il piano di riequilibrio (se non ancora
esaminato dalla Corte dei conti) entro 60 giorni dalla
sottoscrizione della relazione di inizio legislatura. Agli
enti che hanno deliberato il dissesto negli ultimi due anni
è riservata una quota annua (fino a 100 milioni di euro)
delle risorse stanziate dal decreto «sblocca pagamenti» (dl
35/2013), al fine di agevolare il pagamento dei rispettivi
debiti. Novità anche per il servizio di tesoreria: i gestori che
rivestono la qualifica di società per azioni (spa) hanno
facoltà di delegare, anche nell'ambito dei contratti in
essere, la gestione di singole fasi o processi del servizio
a loro controllate, ferma restando la loro responsabilità e
in ogni caso senza costi aggiuntivi per gli enti. Previste risorse aggiuntive a favore dei comuni con meno di
5.000 abitanti, che potranno accedere al programma «6.000
campanili» per finanziare investimenti infrastrutturali sul
patrimonio, reti viarie, telematiche e wi-fi, nonché per la
messa in sicurezza del territorio. Prevista, inoltre, la
possibilità di finanziare i progetti di recupero urbano del
«piano città» con i fondi strutturali. A tal fine, potranno
essere stipulati accordi diretti fra i singoli municipi e le
autorità, nazionali o regionali, di gestione dei predetti
fondi. L'operatività di Equitalia nel settore della riscossione
delle entrate locali viene procrastinata fino al prossimo 31
dicembre, in attesa della riforma organica del settore. La
proroga vale anche per le società private, che potranno
proseguire le attività di accertamento e riscossione. Infine, da segnalare gli interventi sulle società pubbliche,
con il taglio dei compensi ai manager e lo slittamento a
fine anno dei termini per la dismissione di quelle
strumentali
(articolo ItaliaOggi del 23.08.2013). |
TRIBUTI: Scadenze Tares entro il 2013.
Il gettito della maggiorazione va assicurato entro l'anno.
Lo ha chiarito il ministero
dell'economia e delle finanze in una nota inviata a un
comune.
Il comune nel disciplinare il numero e la scadenza delle
rate della Tares per l'anno 2013 incontra il vincolo
costituito dalla riserva allo stato della maggiorazione
standard. È questa la conclusione a cui è giunto il
ministero dell'economia e delle finanze in una recente nota
inviata a un comune. L'art. 10, c. 2, del dl 35/2013 ha
previsto che, per l'anno 2013 e in deroga alle previsioni
contenute nella disciplina della Tares a regime (art. 14, c.
35, dl 201/2011), la scadenza e il numero delle rate di
versamento del tributo sono stabilite con deliberazione,
adottata dal Consiglio comunale (circolare Mef n. 1/Df/2013),
anche nelle more della regolamentazione comunale del
tributo. A tale proposito, mentre a regime il citato comma
35 stabilisce che la scadenza delle rate della Tares è
fissata nei mesi di gennaio, aprile, luglio e ottobre di
ogni anno, salvo diversa regolamentazione comunale, per
l'anno 2013 i comuni erano liberi di determinare le
tempistiche di pagamento del tributo, anche anticipando la
prima scadenza fissata dalla legge nel mese di luglio. Gli
enti potevano, per il 2013, derogare le norme di legge sia
per quanto concerne la scadenza delle rate che per la loro
quantificazione. Era sorta, invece, più di qualche
perplessità sulla possibilità di stabilire termini di
pagamento del tributo riferito all'anno 2013 scadenti dopo
il 31 dicembre del medesimo anno. Ciò per effetto della
disposizione contenuta nel c. 2 dell'art. 10 del dl 35/2013
in virtù della quale, sempre per il 2013, la maggiorazione
alla Tares, disciplinata dall'art. 14, c.13, del dl 201/2011
e pari ad 0,30 a metro quadrato, viene riservata allo stato
e versata in unica soluzione unitamente all'ultima rata del
tributo, a mezzo del modello F24 o dell'apposito bollettino
di conto corrente postale approvato con il dm 14/05/2013 (e
non anche mediante le nuove modalità di pagamento tramite
servizi elettronici di incasso e di pagamento interbancari,
introdotte in aggiunta agli altri strumenti appena ricordati
dal citato dl 35/2013). Come già precisato dalla circolare
del ministero dell'economia n. 1/Df del 29/04/2013, il
versamento della maggiorazione da effettuarsi in favore
dello stato è rinviato all'ultima rata del tributo, scadente
nel mese di ottobre o alla data stabilita dal comune con la
deliberazione prevista dal c. 2 dell'art. 10 del dl 35/2013.
La legge e la circolare appena citata nulla dicono però su
quali limiti temporali incontri la fissazione della scadenza
dell'ultima rata del pagamento da parte del comune,
spingendo taluni enti a stabilire scadenze cadenti anche nel
2014 (specie quelli che ordinariamente ponevano in
riscossione la Tarsu nell'anno successivo a quello di
competenza, nel rispetto del termine annuale di decadenza
stabilito dall'art. 72 del dlgs 507/93). Tuttavia, come
precisato dalla recente nota del ministero, la presenza
della riserva della maggiorazione allo stato pone dei limiti
ben precisi alla potestà regolamentare comunale che, come
noto, non può estendersi oltre i tributi di propria
competenza. L'esigenza di assicurare all'erario il gettito
della maggiorazione entro il 2013 impone che il versamento
della stessa scada entro la fine del predetto anno. Ciò, in
base alla nota ministeriale, anche per la necessità di
quantificare il gettito della maggiorazione standard
(operazione che sarebbe pregiudicata negli anni successivi
dalla facoltà attribuita ai comuni di incrementare la
maggiorazione fino a 0,40 a mq e dalla possibilità di
adottare canali di pagamento diversi dal F24 e dal
bollettino postale unico nazionale). Tuttavia, da un'attenta
lettura, la nota non pare precludere del tutto la
possibilità di riscuotere una o più rate Tares nel 2014,
premurandosi solo di precisare che in ogni caso il comune
deve porre in essere le attività necessarie ad assicurare
che la maggiorazione sia corrisposta nel 2013. In tale modo
viene lasciato spazio all'interpretazione per la quale i
comuni potrebbero fissare scadenze di versamento della Tares
anche oltre il 31/12/2013, purché la maggiorazione sia
versata, con le modalità previste dalla legge, con l'ultima
rata scadente nel 2013 (vedasi nota Ifel 10/05/2013).
Tuttavia una tale soluzione appare in contrasto con il
dettato normativo che impone il versamento della
maggiorazione in unica soluzione unitamente all'ultima rata
del tributo (art. 10, c. 2, lett. c, dl 35/2013). Per il
ministero la fissazione di scadenze oltre il 2013 desta
perplessità dal punto di vista contabile, con riferimento
all'accertamento della corrispondente entrata
(articolo ItaliaOggi del 23.08.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/
Riprese con regolamento.
Norme ad hoc sulle trasmissioni audio-video.
Senza regole certe impossibile rispettare il codice della
privacy. È possibile effettuare le riprese audio-video delle sedute
del consiglio comunale?
Nell'ambito dell'attribuzione al consiglio comunale
dell'autonomia funzionale e organizzativa (art. 38, comma 3,
Tuel) si riconduce quella potestà di regolare
opportunamente, con apposite norme, ogni aspetto attinente
al funzionamento dell'assemblea, tra cui anche quello della
registrazione del dibattito e delle votazioni con mezzi
audiovisivi, sia da parte degli uffici di supporto
all'attività di verbalizzazione del segretario comunale, sia
da parte dei consiglieri, degli organi di informazione e dei
cittadini che assistono alla sedute pubbliche. Sulla materia è intervenuta la sentenza n. 826 del 16/3/2010
con la quale il Tar per il Veneto ha respinto un ricorso
avverso il diniego opposto da un sindaco ad una richiesta di
registrazione audio-video delle sedute del consiglio
comunale, nella considerazione che, in assenza di
un'apposita disciplina regolamentare adottata dall'ente, non
possano essere garantiti i diritti previsti dal codice sul
trattamento dei dati personali di cui al dlgs n. 196 del
2003 e successive modifiche. In tale pronuncia, infatti, gli
adempimenti previsti dal suddetto codice «non possono per
certo conseguire da estemporanei assensi alla
videoregistrazione emanati dal sindaco-presidente del
consiglio comunale nel corso delle sedute del consiglio
medesimo, ma necessitano di essere disciplinati da
un'apposita fonte regolamentare di competenza consiliare».
Il citato giudice amministrativo ha ritenuto immediatamente
concedibile da parte del presidente del consiglio comunale,
nei confronti di emittenti televisive nazionali e locali
l'autorizzazione a riprendere, in via non sistematica,
gratuitamente e senza diritti di esclusiva, talune brevi
fasi delle sedute del consiglio comunale in quanto da tale
autorizzazione non conseguono obblighi di sorta per
l'amministrazione comunale quale «titolare» o «responsabile»
del trattamento dei dati personali. Si ritiene opportuno che l'ente locale in oggetto, al fine
di poter corrispondere ad eventuali richieste formulate dai
gruppi consiliari o da singoli consiglieri di poter
effettuare videoriprese delle sedute del consiglio comunale,
si doti di un'apposita normativa regolamentare recante la
disciplina della materia in argomento
(articolo ItaliaOggi del 23.08.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Consigli, revoca del presidente. Per poter ritenere valida la presentazione di una proposta
di revoca del presidente del consiglio comunale, quale deve
essere il numero dei sottoscrittori?
Nel caso di specie, la possibilità di revocare il presidente
del consiglio comunale è prevista dallo statuto del comune,
in base al quale «il presidente e il vice presidente restano
in carica per l'intera durata del mandato del consiglio
comunale. Tuttavia, su proposta motivata di un terzo dei
componenti il consiglio comunale, possono essere revocati
dall'incarico con il voto favorevole della maggioranza
assoluta dei componenti il consiglio comunale». Considerato che il terzo dei componenti corrisponde, nel
comune in esame, ad un numero decimale, si ritiene che, in
mancanza di apposite prescrizioni statutarie o
regolamentari, sia legittimamente applicabile il criterio
dell'arrotondamento aritmetico, in quanto richiamato
espressamente, a vario titolo, in più disposizioni del
citato dlgs n. 267/2000 (cfr artt. 47, comma 1, 71, comma 8,
73, comma 1, 75, comma 8). Detto criterio implica, com'è noto, che in caso di cifra
decimale uguale o inferiore a 50, l'arrotondamento debba
essere effettuato per difetto, mentre nel caso in cui essa
sia superiore a 50 si procederà ad arrotondamento per
eccesso
(articolo ItaliaOggi del 23.08.2013). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Caldaie in condominio sempre con camino sul tetto.
Regole tecniche. La modifica con la
legge 90/2013. LA PRESCRIZIONE/ Dal 1° settembre sarà precluso installare
ex novo impianti verdi con scarico a parete.
Sull'obbligo di canna fumaria esterna per le caldaie
individuali e centralizzate in condominio il Dl 63/2013,
recentemente convertito nella legge 90/2013, ha chiuso un
complicato cerchio normativo, intervenendo sulla questione
del "distacco". Ma bisogna partire dall'anno scorso per
ricostruire il sistema normativo. La riforma del condominio (legge 220/2012) ha così
modificato l'articolo 1118, comma 4 del Codice civile: «Il
condomino può rinunciare all'utilizzo dell'impianto
centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, se dal
suo distacco non derivano notevoli squilibri di
funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini. In
tal caso il rinunziante resta tenuto a concorrere al
pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria
dell'impianto e per la sua conservazione e messa a norma».
Il legislatore ha reso di fatto possibile il distacco
dall'impianto di riscaldamento centrale, recependo le
indicazioni della Cassazione. Ma esisteva ancora un ostacolo al distacco, costituito
dall'articolo 5, comma 9, del Dpr 412/1993, come modificato
dal Dpr 551/1999: la norma prescriveva in ogni caso lo scarico
dei prodotti della combustione sopra il tetto dell'edificio,
obbligo concretamente possibile da rispettare soltanto per
gli utenti dell'ultimo piano. Questo ostacolo è stato
rimosso con il Dl 179/2012, coordinato con la legge di
conversione 221/2012, che ha infatti sostituito
quell'articolo del Dpr 412/1993 con una norma più permissiva
che consentiva lo scarico a parete a condizione di
installare generatori a condensazione della classe più
efficiente e meno inquinante. Queste disposizioni e la possibilità di scaricare a parete i
prodotti della combustione hanno generato lo sconcerto di
molti operatori. In particolare gli amministratori di
stabili sono sommersi da richieste di distacco che non sanno
come contrastare, in considerazione del fatto che la legge
non richiede il loro consenso, né il consenso dell'assemblea
del condominio. D'altra parte sono molti i tecnici che
sostengono che, se è incerto dimostrare i "gravi squilibri"
(quando sono lievi, medi, o gravi?), è invece certo che vi è
sempre un aggravio di spesa per gli altri condomini, se non
altro perché è uno in meno a pagare le spese fisse, quali
conduzione, manutenzione e dispersioni delle parti comuni.
Erano intense anche le proteste dei condomini sovrastanti,
sinora costretti a respirare i fumi di quelli sottostanti. La protesta di condomini e aziende portatrici di interesse è
stata raccolta dal legislatore che, con la legge 90/2013 di
conversione del Dl 63/2013, ha introdotto l'articolo 17-bis,
che ha di nuovo sostituito l'articolo 5, comma 9, del Dpr
412/1993 con un nuovo testo: ora è sempre consentito lo
scarico a parete ma solo per gli impianti termici esistenti
prima del 31.08.2013 e a condizione che si tratti di
generatori a condensazione della classe più efficiente e
meno inquinante. Per tutti gli altri diventa obbligatorio «lo sbocco sopra il
tetto», tranne, appunto, che si tratti di sostituzione di
impianti individuali già esistenti in «stabili
plurifamiliari» (qualora non esistano già canne fumarie
individuali idonee da sfruttare), oppure quando si tratti di
stabili soggetti a interventi solo «conservativi» (case
storiche o con vincoli di vario genere), sempre che non
abbiano già canne fumarie idonee. Gli scaldacqua
unifamiliari non sono considerati «impianti termici». Restano quindi pochissimi giorni per installare
ex novo
impianti individuali «puliti» che non impongano la canna
fumaria sino al tetto. Dal 1° settembre il "distacco", anche
con generatori "verdi", diventerà di fatto impossibile, dato
che installare la propria canna fumaria sino al tetto
comporta problemi davvero enormi nella maggior parte dei
casi. Solo in caso di «impossibilità tecnica» la relazione
asseverata di un tecnico consentirà comunque di evitare la
canna fumaria sino al tetto (articolo Il Sole 24 Ore del 23.08.2013). |
SICUREZZA LAVORO: DECRETO
DEL FARE/ Molte le novità contenute nella legge di
conversione 98/2013. Al restyling la sicurezza lavoro. Semplificazioni per
valutazione rischi, Duvri, infortuni.
Un professionista al posto del Duvri (il documento di
valutazione rischi da interferenza obbligatorio quando più
aziende operano contemporaneamente). Per sovrintendere al
coordinamento con le altre aziende, infatti, invece di
predisporre il Duvri il datore di lavoro può nominare un
proprio incaricato in possesso di formazione, esperienza e
competenze professionali adeguate.
Lo prevede la legge n.
98/2013 di conversione del decreto fare (n. 69/2013), agli
artt. 32-35, con diverse semplificazioni in materia di
sicurezza sul lavoro (al T.u. approvato dal dlgs n.
81/2008). Valutazione rischi più semplice Una prima novità concerne la valutazione dei rischi,
operazione già semplificata dalla previsione della procedura
standard a favore delle piccole aziende: obbligatoria per
quelle fino a 10 addetti e facoltativa per quelle con più di
10 e fino a 50 addetti. Il decreto fare prevede che, con dm
del ministro del lavoro, da adottarsi sulla base delle
indicazioni della commissione consultiva permanente per la
salute e sicurezza sul lavoro, vengano individuati i settori
di attività a basso rischio di infortuni e di malattie
professionali, sulla base di criteri e parametri oggettivi
desunti dagli indici infortunistici e delle malattie
professionali dell'Inail. Individuati i settori le imprese
che vi operano potranno fare la valutazione rischi
utilizzando un modello semplificato che sarà previsto (e
allegato) dal medesimo dm di individuazione dei nuovi
settori. La nuova previsione lascerà ferma la facoltà già
riconosciuta alle piccole aziende di utilizzare le procedure
standardizzate attualmente in vigore. Un professionista invece del Duvri Sempre riguardo alle imprese operanti in settori a basso
rischio di infortuni e malattie professionali, il decreto
fare prevede inoltre che, in alternativa alla
predisposizione del Duvri, il datore di lavoro possa
nominare un proprio incaricato in possesso di adeguata
formazione, esperienza e competenze professionali per
sovrintendere alla cooperazione e coordinamento con le altre
imprese. In tal caso, dell'individuazione dell'incaricato (o
della sua eventuale sostituzione) va immediatamente data
evidenza nel contratto di appalto o di opera. Sempre in tema di Duvri, ancora, il decreto Fare prevede che
ai dati presenti nel documento accedano il rappresentante
dei lavoratori per la sicurezza (Rls) e le organizzazioni
sindacali locali dei lavoratori comparativamente più
rappresentative a livello nazionale. Ancora, il decreto
stabilisce che l'obbligo di redazione del Duvri non trova
applicazione per i servizi di natura intellettuale, per le
mere forniture di materiali o attrezzature, nonché per i
lavori o servizi la cui durata non sia superiore a cinque
uomini-giorno, e che non comportino rischi derivanti dal
rischio incendio alto (dm 10.03.1998), dallo svolgimento
di attività in ambienti confinati (dpr n. 177/2011), o dalla
presenza, oltre ad agenti cancerogeni nonché biologici,
atmosfere esplosive o dalla presenza dei rischi particolari
(Allegato XI del T.u. sicurezza) anche di agenti mutageni e
amianto. Verifiche attrezzature di lavoro Vengono ridotti da 60 a 45 giorni i termini per effettuare
la prima verifica periodica delle attrezzature di lavoro. E
viene inoltre introdotto l'obbligo a carico dei soggetti
pubblici di comunicare al datore di lavoro, entro 15 giorni,
l'impossibilità di effettuare la verifica di propria
competenza. In caso di comunicazione negativa o comunque
dopo 45 giorni, il datore di lavoro si potrà rivolgere, a
propria scelta, a soggetti pubblici o privati abilitati alle
verifiche. Pos e Psc semplificati nei cantieri Un decreto interministeriale (lavoro e infrastrutture,
sentite la commissione consultiva permanente e previa intesa
con la conferenza permanente per i rapporti tra stato e
regioni) dovrà semplificare la vita «burocratica» nei
cantieri temporanei e mobili. Tale decreto, infatti, dovrà
adottare modelli semplificati per la redazione del piano
operativo di sicurezza (Pos), del piano di sicurezza e
coordinamento (Psc) e del fascicolo dell'opera.
Denuncia infortuni Dal prossimo anno basterà la sola denuncia all'Inail, in
caso di infortunio sul lavoro. Diversamente da oggi, quando
il datore di lavoro è tenuto ad effettuare la denuncia
all'Inail (obbligatoriamente per via telematica, dallo
scorso 1° luglio) e all'autorità di pubblica sicurezza (che
a sua volta ne invia copia all'azienda sanitaria locale,
Asl) generalmente per raccomandata postale a/r, entro due
giorni, in caso di infortunio con conseguenza di morte del
lavoratore o di inabilità al lavoro per più di tre giorni,
dal 01.01.2014 andrà effettuata unicamente la denuncia
all'Inail. Sarà poi l'istituto a farsi carico di trasmettere
le denunce, per via telematica, all'autorità di pubblica
sicurezza, all'Asl e alle altre autorità competenti
(articolo ItaliaOggi del 22.08.2013). |
ENTI
LOCALI - VARI: Multa
con lo sconto, vincono i timbri. Le multe con lo sconto accertate dalla polizia stradale in
questa prima fase di avvio della riforma possono essere
pagate solo in posta o con bonifico annotando correttamente
nelle quietanze tutta una serie di dati obbligatori. Nessun
pagamento in contante può però essere ammesso oltre a quelli
già previsti per legge in materia di trasporto professionale
o veicoli stranieri.
Sono queste le ultime indicazioni fornite dal Ministero
dell'interno con la
circolare
19.08.2013 n. 6409 di prot. e la
circolare 20.08.2013 n. 6464 di prot..
La questione delle
multe con lo sconto sta assumendo dimensioni burocratiche
impreviste, specialmente per le forze di polizia stradale
dello stato. Per gestire al meglio la contabilità dei
proventi delle multe in saldo il Ministero dell'interno ha
attivato un conto corrente ad hoc dove il trasgressore deve
obbligatoriamente versare l'importo scontato. Sia che
utilizzi questo conto corrente postale ovvero il nuovo conto
bancario appena predisposto occorrerà prestare molta
attenzione all'intestazione e alle causali da compilare,
stante la mancata disponibilità in un primo tempo di
bollettini prestampati. In pratica andrà obbligatoriamente
indicato nella formula di pagamento da compilare a penna su
bollettino bianco, oltre all'importo dovuto, il numero e la
data del verbale con la targa del veicolo e il nome e
cognome del trasgressore. In attesa dell'attivazione dei
sistemi di pagamento elettronici, specifica la circolare del
20 agosto, il pagamento in contanti nelle mani dell'agente
resta riservato alle ipotesi obbligatorie previste dalla
legge ovvero per le violazioni commesse dai conducenti
professionali e da un conducente munito di un veicolo
immatricolato all'estero. Problemi in vista anche per
l'applicazione dello sconto da parte delle polizie locali.
Come evidenziato dal portale poliziamunicipale.it alcuni
comandi dei vigili hanno disposto di non ammettere lo sconto
ai preavvisi di accertamento di divieto di sosta. In buona
sostanza trattandosi di multe non ancora notificate o
contestare ci sarebbero dubbi formali ad ammettere il
pagamento ridotto. Sul punto è stato pertanto richiesto un
parere urgente al Ministero dell'interno
(articolo ItaliaOggi del 22.08.2013). |
APPALTI: Appalti, la solidarietà resta senza l'Iva.
La responsabilità fiscale e sanzionatoria rimane per le
ritenute operate sulle buste paga. Decreto del fare. Nella legge 98 eliminata qualunque
verifica della controparte contrattuale rispetto al
pagamento dell'imposta sul valore aggiunto. PER IL LAVORO DIPENDENTE/
L'appaltatore risponde in solido verso l'erario nei limiti
del corrispettivo. Al committente sanzioni fino a 200mila
euro. Molto rumore per nulla. Così potrebbe essere definita
sinteticamente la vicenda della conversione del Decreto del
fare (Dl 69/13), approdata in Gazzetta il 20 agosto scorso
(legge 98/2013). Scampato il pericolo di dover ricorrere alla richiesta del
Durt per effettuare qualunque pagamento "smarcandosi" da
possibili responsabilità e sanzioni (con l'aggravio di dover
comunicare mensilmente all'Agenzia i dati per il rilascio
del documento), committenti, appaltatori e subappaltatori
devono continuare con i precedenti adempimenti almeno sinché
non arriverà l'abrogazione integrale auspicata dall'ordine
del giorno approvato dalla Camera lo scorso 8 agosto.
Altrimenti, dal 2015, chi vorrà potrà comunicare
quotidianamente alle Entrate i dati delle fatture d'acquisto
e di vendita (articolo 50-bis del Decreto), "guadagnandosi"
così, tra l'altro, l'integrale disapplicazione della
disciplina in esame. La situazione attuale, pertanto, è
quella dell'originaria versione del Dl 69/2013, che già
conteneva l'eliminazione di qualunque verifica della
controparte contrattuale con riferimento ai versamenti Iva,
ma manteneva intatta la disciplina per le ritenute di lavoro
dipendente. Resta fermo, pertanto che, prima di effettuare
qualunque pagamento con riferimento a contratti di
appalto/subappalto stipulati o rinnovati dal 12.08.2012:
a) l'appaltatore deve richiedere al subappaltatore
l'asseverazione di un soggetto qualificato (o, in
alternativa, l'autocertificazione) attestante che i
versamenti delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro
dipendente inerenti il subappalto, già scaduti a tale data,
siano stati «correttamente eseguiti»;
b) il committente deve comportarsi allo stesso modo nei
confronti dell'appaltatore, il quale deve fornire anche la
documentazione rilasciata da tutti i subappaltatori. In assenza dell'attestazione cartacea (e in caso
d'irregolarità nel versamento delle ritenute riferite alle
prestazioni effettuate nell'ambito dell'appalto o dei vari
subappalti), l'appaltatore risponde in solido verso l'erario
con il subappaltatore "infedele" nei limiti dell'ammontare
del corrispettivo dovuto, mentre il committente è passibile
della sanzione da 5mila a 200mila euro. Guai, pertanto, a
dimenticarsi, all'atto del pagamento dei corrispettivi, di
richiedere l'ormai ben nota certificazione (che, emendata
della parte riguardante gli adempimenti Iva, può essere
redatta come da facsimile a lato). Nel caso in cui
l'appaltatore (o il subappaltatore) non abbia dipendenti o
assimilati, ovvero nessuno di questi abbia partecipato alle
prestazioni connesse allo specifico rapporto contrattuale
(e, quindi, non sia sorto alcun obbligo di ritenuta), si
ritiene che debba essere rilasciata un'attestazione in tal
senso. Onde evitare guai peggiori è comunque più che
opportuno conservare ampia prova dell'effettività dei lavori
svolti, delle modalità di pagamento e dell'esistenza
"fiscale" del prestatore. È altresì confermato che committente e appaltatore possono,
fino a quando non ricevono una documentazione idonea,
sospendere i pagamenti. Pur con la limitazione alle sole
ritenute, restano ferme le limitazioni di legge, tra cui
l'esclusione della sanzione quando il committente (persona
fisica, condominio o società semplice) non opera in ambito
Iva o applica il codice dei contratti pubblici (Dlgs
163/2006), e restano attuali tutti i chiarimenti forniti
dall'Agenzia (Circolari 40/E/2012 e 2/E/2013). Naturalmente, nulla cambia per quanto riguarda il vincolo di
solidarietà, negli appalti di opere o servizi, con
riferimento agli obblighi previdenziali ed assicurativi dei
lavoratori e per le loro retribuzioni (articolo 29, comma 2,
Dlgs 276/2003, modificato dal Dl 76/2013). L'Amministrazione deve chiarire le conseguenze
dell'eliminazione dei riferimenti ai versamenti Iva operata
dall'articolo 50 del Dl 69/2013. In virtù del principio del
"favor rei", la sanzione non potrà più essere comminata,
nella specifica ipotesi, al committente (anche per
inadempimenti precedenti al 22 giugno scorso), mentre è da
definire se vige ancora la solidarietà Iva per gli
inadempimenti anteriori ai pagamenti di corrispettivi
effettuati in assenza di attestazione/autocertificazione nel
periodo dall'11.10.2012 al 22.06.2013 (articolo Il Sole 24 Ore del 22.08.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: I
ritardi della Pa punibili per le istanze inviate da oggi. Parte da oggi l'indennizzo automatico per i ritardi della
pubblica amministrazione ma solo per le imprese.
Lo
stabilisce il comma 10 dell'articolo 28 del decreto del fare
(Dl 63/2013), che limita molto il principio dello stesso
articolo, secondo cui il diritto all'indennizzo è
generalizzato: il comma 10 prevede un avvio sperimentale
limitato alle pratiche legate all'«avvio e all'esercizio
delle attività d'impresa» e il comma 12 fissa in 18 mesi la
durata del test. La norma fa partire la propria applicabilità dalla data di
entrata in vigore della legge di conversione del Dl (la
98/2013) –ieri– ma riguarda i procedimenti iniziati
«successivamente» a tale data. Se ne deduce che potranno
beneficiare del diritto all'indennizzo in caso di ritardo
solo le istanze presentate da oggi. Interpretazione
confermata dalla guida messa online sul sito del ministero
della Pubblica amministrazione. Dopo la sperimentazione, sarà emanato un decreto del
presidente del Consiglio, sentite Regioni e Comuni, che
stabilirà se confermare l'indennizzo, se rimodularlo e se
estenderlo agli altri procedimenti. Quindi il Governo è
cosciente della delicatezza della partita: riconoscere un
rimborso di 30 euro per ogni giorno di ritardo significa
rischiare o un'emorragia di denaro pubblico (anche se la
legge pone un limite di 2mila euro a procedimento) o forzare
il lavoro degli uffici pubblici, con possibili errori nei
procedimenti. Va poi considerato che la norma è indeterminata: per
esempio, quando parla di procedimenti relativi all'esercizio
dell'attività d'impresa, potrebbe riferirsi anche
all'immatricolazione di un veicolo aziendale, mentre la
stessa operazione, se richiesta da un cittadino, non sarebbe
coperta da indennizzo. Probabilmente serviranno molti
chiarimenti attuativi. In ogni caso, l'indennizzo andrà chiesto entro 20 giorni dal
termine che l'ufficio avrebbe dovuto rispettare. Occorre
rivolgersi al responsabile nominato dall'amministrazione,
che dovrà concludere il procedimento nella metà del tempo
originariamente previsto o liquidare l'indennizzo. Se
neanche il responsabile provvedesse, ci si può rivolgere al
Tar (il contributo unificato è dimezzato). In caso di
condanna, i dipendenti possono essere puniti
disciplinarmente e chiamati a rimborsare il danno erariale
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.08.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: DECRETO
DEL FARE/ In G.U. la legge 98 (in vigore da oggi). Risparmi
per 500 mln l'anno. P.a., indennizzi non retroattivi. Domande limitate all'avvio
o all'esercizio di impresa.
Al via da oggi l'indennizzo per i ritardi della burocrazia.
E le prime a beneficiarne saranno le imprese. Per il
momento, infatti, la chance di vedersi corrispondere dalla
p.a. 30 euro per ogni giorno di ritardo nella conclusione
del procedimento (fino a un massimo di 2.000 euro) si
applicherà solo alle domande relative all'avvio o
all'esercizio dell'attività di impresa. E solo a quelle
presentate successivamente all'entrata in vigore della legge
n. 98/2013 che ha convertito in legge il decreto del fare
(dl n. 69/2013) ed è stata pubblicata ieri sulla Gazzetta
Ufficiale n. 194 (Supplemento ordinario n. 63/L). Il
provvedimento sarà pienamente operativo da oggi e le
pubbliche amministrazioni dovranno adeguarsi subito,
informando gli utenti della possibilità di ricevere
l'indennizzo e indicando a chi rivolgersi e come
richiederlo. Nel giorno stesso della pubblicazione del
decreto in G.U. il ministro della funzione pubblica
Gianpiero D'Alia (che ha anche la delega alla
semplificazione) ha diffuso le linee guida per
l'applicazione delle nuove norme, nella convinzione che ora
tutto dipenderà dalla fase attuativa. «Le norme sono
importanti, ma non bastano», ha dichiarato. «Per
semplificare occorre cambiare i comportamenti quotidiani
delle amministrazioni. Per questo è essenziale», ha
sottolineato il ministro, «che cittadini e imprese siano
informati delle nuove opportunità che la legge offre loro.
Il decreto, infatti, contiene misure di semplificazione e di
riduzione degli oneri burocratici che contribuiranno a
recuperare lo svantaggio competitivo dell'Italia e a
liberare risorse per la crescita e lo sviluppo del paese».
Il governo stima in 500 milioni di euro l'anno i risparmi
originati dal decreto che interviene su adempimenti
burocratici pari a 7,7 miliardi di euro l'anno per le pmi.
Indennizzo per i ritardi della burocrazia. Per chiedere
l'indennizzo, le imprese interessate, entro 20 giorni dalla
scadenza dei termini, dovranno rivolgersi al responsabile
appositamente nominato dalla p.a. il quale dovrà concludere
il procedimento nella metà del tempo originariamente
previsto, oppure liquidare l'indennizzo. Una terza
possibilità non sarà ammessa. In caso di inerzia da parte
del responsabile del potere sostitutivo, l'interessato potrà
rivolgersi al Tar. Come detto, l'indennizzo per il momento
non potrà essere richiesto dai cittadini. La misura è
infatti considerata sperimentale dal governo, che si è dato
18 mesi di tempo per valutarne l'efficacia e impatto sui
conti pubblici. Entro la fine della sperimentazione,
l'indennizzo per il ritardo della p.a. potrà essere
confermato, rimodulato o esteso anche gradualmente ad altri
procedimenti. E a quel punto potranno entrare in gioco anche
gli interessi dei privati cittadini che per il momento
restano fuori dalla misura. Infine, le linee guida di D'Alia
chiariscono che in caso di procedure complesse, in cui
intervengono più soggetti pubblici, sarà l'amministrazione
responsabile del ritardo a pagare l'indennizzo.
Date uniche di efficacia degli obblighi amministrativi.
Sulla falsariga di quanto da anni accade in Europa, anche in
Italia vengono introdotte le date uniche di efficacia dei
nuovi obblighi amministrativi. Il 1° luglio e il 1° gennaio
saranno le due finestre da tenere a mente per l'entrata in
vigore degli adempimenti che impongono a cittadini e imprese
di raccogliere, presentare o trasmettere atti e documenti
(domande, certificati, dichiarazioni). Le amministrazioni
dovranno pubblicare sul proprio sito internet le scadenze
dei nuovi obblighi amministrativi. Semplificazioni per l'edilizia. Anche in questo settore
fortemente colpito dalla crisi, il governo punta a
risparmiare grazie al decreto del fare circa 500 milioni
l'anno, agevolando così la ripresa delle costruzioni. Le
semplificazioni in questo campo sono molteplici. Per gli
interventi edilizi che modificano la sagoma degli edifici (a
parità di volumetria e nel rispetto dei vincoli) non sarà
più necessario il permesso di costruire, ma basterà la Scia.
E ancora, i procedimenti di rilascio del permesso di
costruire in presenza di vincoli dovranno concludersi con un
provvedimento espresso (di accoglimento o diniego) e non col
semplice silenzio-rifiuto come oggi. Infine, è introdotta la
facoltà per l'interessato di chiedere il rilascio del
certificato di agibilità parziale anche prima del
completamento dell'opera. Durc. La validità del Durc
passa da 90 a 120 giorni. Il documento dovrà essere
richiesto solo per le fasi fondamentali del contratto (e non
più per ciascuna fase della procedura di aggiudicazione e
stipula). Sarà acquisito d'ufficio dalle stazioni appaltanti
utilizzando gli strumenti informatici e sarà valido anche
per contratti pubblici diversi da quelli per cui è stato
richiesto (articolo
ItaliaOggi del 21.08.2013). |
ENTI
LOCALI - VARI: Multe,
più comodi sullo sconto. Il pagamento con lo sconto decorre dal giorno successivo a
quello della contestazione o notificazione. Le pattuglie
della polizia stradale non dovranno usare il terminale pos
per i pagamenti delle sanzioni stradali con la riduzione del
30%. Sono queste alcune delle indicazioni fornite dal
ministero dell'interno alle questure e alla polizia di stato
con la
circolare 19.08.2013 n. 6399 di
prot. in relazione
alle novità previste dalla legge n. 98 del 09.08.2013,
recante la conversione del decreto legge del fare n. 69 del
21.06.2013. In seguito alle modifiche dell'art. 202 del
codice della strada, introdotte dalla legge di conversione
n. 98/2013, in vigore da oggi, la somma da pagare per le
violazioni è ridotta del 30% se il pagamento è effettuato
entro cinque giorni dalla contestazione o dalla
notificazione. La riduzione non è applicabile alle
violazioni per cui non è ammesso il pagamento in misura
ridotta e alle infrazioni non incluse nel codice della
strada, ma previste dalla legislazione complementare. La
riduzione non spetta altresì quando è prevista la confisca
del veicolo o la sospensione della patente di guida. Il
ministero dell'interno, con la circolare n. 6399 del 19.08.2013, ha trasmesso alle questure e alla polizia di
stato le indicazioni operative sulla redazione dei verbali e
sulla riscossione delle somme. La circolare precisa che la
riduzione del 30% spetta anche nei casi di pagamento
immediato obbligatorio previsti dall'art. 202, comma 2-bis, cds, per le violazioni commesse da un conducente titolare di
patente di guida di categoria C, C+E, D o D+E nell'esercizio
dell'attività di autotrasporto di persone o cose, nonché
dall'art. 207 per il conducente di un veicolo immatricolato
all'estero o munito di targa EE. La riduzione spetta anche per le violazioni elencate
all'art. 195, comma 2-bis, le cui sanzioni pecuniarie sono
aumentate di un terzo se l'illecito è commesso dopo le ore
22 e prima delle ore 7. L'espressa indicazione dell'importo
scontato del 30% dovrà essere riportata su tutti i verbali
utilizzati dalle pattuglie della polizia stradale; gli
agenti dovranno integrare i verbali già in dotazione prima
della novella (articolo
ItaliaOggi del 21.08.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Per i «Raee» stoccaggio mensile.
Tempi più ravvicinati quando si supera la soglia di 3.500
chilogrammi. Ambiente. Pubblicata la
legge europea 97/2013 che prova a snellire gli obblighi dei
rivenditori di prodotti tecnologici. GLI ALTRI PUNTI/
Aboliti i limiti di portata dei mezzi di trasporto
L'attivazione di un solo sito può mettere in difficoltà i
distributori.
Nella legge europea 97/2013 pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale n. 194 di ieri si tenta di agevolare la raccolta
differenziata dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed
elettroniche (Raee) da parte dei distributori. L'esigenza di semplificazione è molto sentita dalle imprese
commerciali anche perché in Italia, per adempiere
all'obbligo comunitario di ritirare gratuitamente i rifiuti
tecnologici, oltre a dover sopportare i costi connessi
all'uso degli spazi di magazzino e al trasporto presso i
centri di raccolta comunali, i distributori devono acquisire
una autorizzazione ad hoc. Il permesso si ottiene con
un'iscrizione "semplificata" all'Albo nazionale gestori
ambientali. La direttiva quadro comunitaria in materia di
rifiuti, invece, ricorda che i sistemi di raccolta non
gestiti su base professionale, tra cui figurano i sistemi di
ritiro dei beni di consumo nei negozi, non dovrebbero essere
soggetti ad autorizzazione in quanto «presentano rischi
inferiori e contribuiscono alla raccolta differenziata».
La legge 97/2013 incorpora parte di quanto stabilito dal Dm
65/2010 e prescrive che il trasporto dei rifiuti ai centri di
raccolta «con cadenza mensile e, comunque, quando il
quantitativo raggruppato raggiunga complessivamente i 3.500
chilogrammi». Nella nuova formulazione della norma il
quantitativo "complessivo" si riferisce a ciascuno dei
raggruppamenti 1 (freddo e clima), 2 (altri grandi
elettrodomestici bianchi) e 3 (TV e monitor) definiti dal
decreto ministeriale 185/2007, mentre nel caso dei
raggruppamenti 4 (information technology, consumer
electronics e apparecchi di illuminazione) e 5 (sorgenti
luminose) i 3.500 chilogrammi sono relativi all'insieme di
questi due raggruppamenti. Resta disattesa è l'esigenza di ridurre la frequenza dei
trasporti ai centri di raccolta comunale, che dovrà essere
almeno mensile o più ravvicinata se si supera il limite dei
3.500 chilogrammi. Secondo le osservazioni della commissione
Ambiente della Camera la previsione di una frequenza mensile
«non sembra muoversi nella direzione della semplificazione»,
comportando un aggravio dei costi per i negozianti che non
determina alcun vantaggio ambientale. Da rivedere, sempre
secondo la commissione Ambiente della Camera, anche la
formulazione della disposizione sui luoghi di deposito,
secondo cui «il raggruppamento dei Raee è effettuato presso
il punto di vendita o presso altro luogo». La norma,
infatti, sembra prescrivere «che il distributore possa
attivare un solo sito di raggruppamento Raee, non tenendo
conto della realtà operativa e logistica delle imprese
distributive». Vengono aboliti, infine, sia il limite di portata dei mezzi
di trasporto, in precedenza fissato a 6mila chilogrammi, sia
l'esclusione dall'ambito di applicazione del Dlgs 151/2005
degli elettrodomestici fissi di grandi dimensioni e di
alcune altre tipologie di apparecchi esemplificativamente
indicate nell'allegato 1B, deroga ora riconosciuta come non
conforme alle disposizioni comunitarie (articolo Il Sole 24 Ore del
21.08.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il peso dei rifiuti pericolosi verificato anche a
destinazione. Sistri. Da ottobre
tracciabilità obbligatoria per i produttori con più di 10
dipendenti.
Fervono i preparativi per il riavvio del Sistri, programmato
per il 1° ottobre. Da quel giorno il sistema per la
tracciabilità dei rifiuti diventerà obbligatorio per i
produttori di rifiuti pericolosi con più di 10 dipendenti e
per tutti gli operatori che assicurano le diverse fasi di
gestione di questa tipologia di scarti.
In vista della scadenza il ministero dell'Ambiente ha
pubblicato sul portale (www.sistri.it) una nuova versione
del manuale operativo del sistema. L'aggiornamento del
software e del vademecum avrebbero dovuto dare corpo alle
esigenze di semplificazione operativa espresse dal mondo
delle imprese e compendiate in un documento sottoscritto da
pressoché tutte le associazioni imprenditoriali. In qualche
caso ciò è avvenuto, ma sono ancora molte le procedure che
andrebbero riviste. Quantità del rifiuto Nelle "schede area movimentazione del rifiuto", il nuovo
nome dei formulari utilizzati in fase di trasporto, è ora
possibile esprimere la quantità del rifiuto in metri cubi,
riservandosi di far verificare il peso a destino.
L'innovazione è importante per tutte le imprese che non
dispongono di una pesa o che depositano i rifiuti in
contenitori dal volume noto, ma per essere realmente
efficace dovrebbe essere associata alla possibilità, non
ancora prevista, di utilizzare il volume anche per le
registrazioni di carico del rifiuto che precedono l'avvio al
recupero o allo smaltimento. Movimentazione del rifiuto Il nuovo manuale delinea meglio la possibilità di affidare i
rifiuti al trasportatore senza che la chiavetta Usb del
veicolo debba essere fisicamente inserita nel computer del
produttore, consentendo che la data e l'ora d'inizio del
trasporto siano prima riportate sulla scheda area
movimentazione stampata su carta e, in seguito, inserite nel
sistema informatico dal trasportatore. Il dispositivo Usb
del mezzo, in precedenza presentato come lo strumento che
avrebbe dato garanzia sia dell'effettiva partenza di un
carico di rifiuti da una determinata unità locale del
produttore, sia dell'avvenuta consegna all'impianto
autorizzato preliminarmente indicato, diviene ora solo un
supporto per la memorizzazione e il trasferimento dei dati
dal sistema telematico alla black box installata sul
veicolo. Allineamento dati anagrafici Nel caso di cambiamenti nella titolarità dell'azienda o del
ramo d'azienda –spiega il manuale riportando le
prescrizioni del Dm 52/2011– gli operatori subentranti
dovranno accedere all'area riservata del portale Sistri e
trasmettere copia degli atti che hanno comportato la
variazione «prima che tali cambiamenti acquisiscano
efficacia». Si è quindi tenuti a inviare al Sistri la
documentazione già trasmessa al Registro delle imprese ma,
nel caso in cui l'impresa subentrante non sia ancora
iscritta al sistema, l'accesso all'area "gestione azienda"
del portale non è possibile. Conservazione dati trasmessi L'articolo 188-bis del Dlgs 152/2006, che entrerà in vigore
dal giorno successivo all'avvio del Sistri, sancisce
l'obbligo di «conservazione in formato elettronico» dei dati
già sottoscritti digitalmente e inviati al ministero
dell'Ambiente con le procedure telematiche previste dal
sistema. Il nuovo manuale non chiarisce, però, come sia
concretamente possibile adempiere l'obbligo di "scaricare"
le registrazioni e si spinge a indicare che è necessario
conservarle «presso la sede legale dell'azienda», malgrado
ciò non sia prescritto dalle norme che disciplinano l'uso
del sistema (articolo
Il Sole 24 Ore del 21.08.2013). |
ENTI
LOCALI: Il Garante della privacy fissa la trasparenza.
Web. I requisiti del sito istituzionale. Privacy all'insegna della trasparenza. Il Garante ha
predisposto un regolamento che recepisce il decreto 33/2013,
che ha imposto alle pubbliche amministrazioni di inserire
sui propri siti tutta una serie di informazioni (redditi dei
dipendenti, consulenze, curricula, acquisti, documenti
eccetera). Il regolamento 1/2013 –pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale
193 del 19 agosto (entrerà in vigore il 18 ottobre)–
prevede che nella home-page del sito del Garante sia creata
una sezione ad hoc denominata "Autorità trasparente" da cui
il cittadino possa accedere a molte informazioni, che
saranno caricate tempestivamente (in ogni caso, entro tre
mesi dalla loro origine) e aggiornate con cadenza annuale. L'Authority si impegna a garantire la qualità delle notizie
pubblicate, la loro integrità, completezza, esattezza,
semplicità di consultazione, comprensibilità, facilità di
accesso e riutilizzabilità. Nel caso di ritardo o mancata
pubblicazione di un atto, il cittadino può azionare
l'accesso civico. Si tratta del diritto di sollecitare –senza alcuna limitazione riguardo alla legittimazione
soggettiva del richiedente e senza che l'istanza debba
essere motivata– la pubblicazione dei documenti omessi. Il perseguimento della trasparenza –ricorda il Garante nel
regolamento– è «condizione delle libertà individuali e
collettive, nonché dei diritti civili, politici e sociali,
integra il diritto a una buona amministrazione e concorre
alla realizzazione di un'amministrazione aperta, al servizio
del cittadino» (articolo Il Sole 24
Ore del 21.08.2013). |
QUESITI & PARERI |
PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO:
Accesso a documenti inerenti attribuzione assegni familiari
e congedi previsti dalla legge 104/1992 da parte del coniuge
separato. Il Dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo “.....” di
Sava (TA) espone che il coniuge separato di un dipendente
dell’Istituto, genitore di due bambini portatori di
handicap, che usufruisce di permessi ex art. 33 della legge
n. 104/1992 per 6 giorni al mese, ha chiesto di conoscere i
giorni in cui il dipendente usufruisce di tali permessi, al
fine di verificare se in tali giornate presta o meno
assistenza ai figli. Chiede di conoscere se una tale motivazione possa
legittimare il diritto di accesso. Il controinteressato, ritualmente avvertito, ha proposto
opposizione all’istanza di accesso contestando che il
proprio coniuge possa avere un qualunque interesse a
conoscere i giorni in cui usufruisce dei permessi ex lege
104/1992, tenuto conto che si tratta esclusivamente del
rapporto intrattenuto dall’insegnante con l’Istituto. Ciò premesso ritiene la Commissione che nel caso di specie
la richiesta di accesso possa essere positivamente definita. E’ evidente, invero, che il controinteressato usufruisce dei
permessi in questione per il fatto di essere genitore di due
bambini portatori di handicap, ed è di conseguenza
altrettanto evidente che il coniuge separato abbia interesse
a conoscere i giorni in cui i permessi vengano accordati, al
fine di verificare se in tali giornate i figli abbiano o
meno assistenza. Al riguardo non ha nessun rilievo il fatto che il tribunale
di Taranto non abbia riconosciuto al coniuge separato la
veste di controinteressato, per la decisiva ragione che
l’oggetto di quel giudizio è tutt’affatto diverso
dall’istanza di accesso proposta. Deve pertanto concludersi che nella specie la richiesta di
accesso sia sufficientemente motivata
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 20.12.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Accesso ai cedolini di busta paga dei dipendenti comunali da
parte dei consiglieri comunali. Il Sig. ..., Consigliere di maggioranza del Comune di
Copiano, espone di aver chiesto all’Amministrazione comunale
la visione ed il rilascio dei cedolini di busta paga
riguardanti la dipendente comunale dott.ssa ..., relativi ad
alcuni mesi del 2011 e del 2012. Il Sindaco del suddetto Comune, nel rappresentare
all’esponente che analoga richiesta di altro Consigliere
comunale aveva avuto esito negativo, ha tuttavia evidenziato
che la suddetta dipendente percepisce lo stipendio
contrattuale Enti locali livello C2 con una indennità di
posizione invariata rispetto a quella iniziale. Ciò premesso, pur volendo prescindere da ogni considerazione
in ordine alla circostanza che la risposta
dell’Amministrazione è pervenuta oltre il prescritto termine
di 30 giorni, va sottolineato che questa Commissione, nella
scia di una ormai consolidata giurisprudenza del giudice
amministrativo, ha avuto più volte occasione di affermare
che il “diritto di accesso” ed il “diritto di
informazione” dei Consiglieri comunali sono
specificamente disciplinati dall’art. 43 del d.lgs. n.267
del 2000 che riconosce loro (ed ai consiglieri provinciali)
il diritto di ottenere dagli uffici tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del
loro mandato. Si tratta all’evidenza, di un diritto dai confini più ampi
del diritto di accesso riconosciuto al cittadino nei
confronti del Comune di residenza (art. 10 T.U.E.L) o, più
in generale, nei confronti della P.A. disciplinato dalla
legge n. 241 del 1990 Tale maggiore ampiezza trova la propria giustificazione nel
particolare “munus” espletato dal Consigliere
comunale (ma ciò parimenti vale anche per il Consigliere
circoscrizionale), affinché questi possa valutare con piena
cognizione di causa la correttezza e l’efficacia
dell’operato dell’Amministrazione, onde poter esprimere un
giudizio consapevole sulle questioni di competenza della
P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia
democratica e la funzione pubblicistica da questi
esercitata. Per queste ragioni il Consigliere comunale ed il Consigliere
circoscrizionale non devono neppure motivare le proprie
richieste d’informazione, perché altrimenti la P.A. si
ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà
pubblicistiche degli organi deputati all’individuazione ed
al perseguimento dei fini collettivi, con la conseguenza che
gli uffici comunali e circoscrizionali non hanno il potere
di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle
richieste d’informazione e le modalità di esercizio della
funzione esercitata dai Consiglieri comunali e
circoscrizionali. Giova tuttavia sottolineare che l’unico limite è
rappresentato dal fatto che: Consiglieri comunali e
circoscrizionali non possono abusare del diritto
all’informazione riconosciuto loro dall’ordinamento,
interferendo pesantemente sulla funzionalità e
sull’efficienza degli uffici dell’Ente civico, con richieste
che travalichino i limiti della proporzionalità e della
ragionevolezza. Per le suesposte ragioni, il diniego espresso
dall’Amministrazione comunale nel caso di specie non può
essere condiviso
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 20.12.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO:
Richiesta di parere in tema di esercizio del diritto di
accesso alle schede valutative di una selezione per
progressione orizzontale. Un messo comunale ha impugnato dinanzi al Difensore civico
territoriale il provvedimento con cui il Comune aveva negato
l’accesso alle schede valutative dei partecipanti alla
selezione indetta per le progressioni nei profili
professionali, lamentando di essere stato ingiustamente
discriminato. Il Difensore civico adito, pur intendendo
accogliere il ricorso, ha inoltrato richiesta di parere a
questa Commissione al fine di conoscere se possa concedersi
l’accesso ai documenti valutativi dei concorrenti e se sia
necessario notiziare i controinteressati nonché quali siano
le modalità di accesso più idonee (accesso integrale,
limitato alla visione ovvero omissis) in caso di accesso a
documenti contenenti dati personali. Questa Commissione, premesso che nutre alcune perplessità in
ordine alla propria competenza ad esprimere pareri inerenti
decisioni di ricorsi pendenti innanzi al Difensore Civico,
nel merito osserva quanto segue. Sulla prima questione, la Commissione ribadisce che i
partecipanti ad una procedura concorsuale o selettiva
pubblica, sono titolari di un interesse endoprocedimentale,
ai sensi dell'art. 10 legge n. 241/1990, ad accedere alle
schede valutative degli altri candidati, senza alcuna
necessità di una preventiva notifica agli altri dipendenti
in graduatoria, dal momento che questi ultimi, partecipando
ad una selezione, hanno implicitamente accettato che i loro
dati personali potessero essere resi conoscibili da tutti
gli altri concorrenti a ciò interessati (arg. ex TAR Lazio,
Roma, Sez. III, 08.07.2008, n. 6450). Circa il secondo aspetto, come è noto, argomentando dal
combinato disposto degli artt. 24, co. 7, della legge n.
241/1990 e 60 d.lgs. n. 196/2003, nel caso di documenti
contenenti dati personali sensibili e giudiziari ovvero
supersensibili l'accesso è consentito rispettivamente alla
stregua del principio di stretta indispensabilità ovvero se
la situazione giuridicamente rilevante che si intende
tutelare con la richiesta di accesso ai documenti
amministrativi è di rango almeno pari ai diritti
dell'interessato, ovvero consiste in un diritto della
personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e
inviolabile, in esito ad un sostanziale bilanciamento di
interessi operato già dalla legge come regola di massima. In esito a tale comparazione, qualora la riservatezza sia
considerata recessiva, il diritto di accesso dovrà
esercitarsi in forma “piena” ed “integrale” mediante
il congiunto esercizio della visione e dell’estrazione di
copia, dovendo ritenersi scomparsa la figura dell'accesso
limitato alla sola visione, alla stregua della nuova
formulazione testuale dell’art. 24 e dell’art. 25 della
legge n. 241/1990 (Tar Bari, sez. I, 05.02.2007, n. 337). Tuttavia, come è stato autorevolmente sostenuto in dottrina
e in giurisprudenza, "il giudizio di bilanciamento tra
interessi in conflitto non va effettuato allorché sia
possibile celare, mediante l’apposizione di opportuni
omissis, l’identità del soggetto, cui si riferiscono i dati
sensibili o sensibilissimi e che la tutela dei dati
sensibili può essere operata mediante tecniche di
mascheramento riguardanti i dati relativi ai terzi ovvero
oscurando i dati supersensibili se riferiti direttamente ai
contro interessati” (cfr TAR Campania, Napoli, sez. V
del 13.07.2006, n. 7475 nonché TAR Toscana, sez. II del
09.02.2007, n. 152; vedi anche Cons. Stato Sez. IV,
06.05.2010, n. 2639). Tali principi dovranno essere integrati, caso per caso,
secondo le concrete valutazioni, prima della p.a. e poi
degli organi giustiziali e giurisdizionali in fase di
controllo, in considerazione delle specifiche esigenze
dell'interessato
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 20.12.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Richiesta di parere in tema di accesso di un cittadino
residente. Un cittadino, residente nel Comune di Nocera Inferiore,
intende conoscere il parere di questa Commissione sulla
legittimità del comportamento tenuto da un funzionario
comunale che, a fronte della richiesta di visione dei
documenti relativi alla gestione di un istituto locale da
parte di un Comitato di Quartiere, aveva richiesto, oltre ad
una serie di notizie e documenti, “l’assenso” del
Presidente del Comitato stesso. In linea generale, la Commissione ribadisce che ogni
cittadino residente (siano essi persone fisiche,
associazioni o persone giuridiche) ha diritto di accedere,
in generale, alle informazioni di cui è in possesso
l'amministrazione ai sensi dell'ultima parte del 2° comma
dell'art. 10 del TUEL. Come è noto, tale disposizione,
diversamente da quanto previsto nel regime generale di cui
alla legge n. 241/1990, configura il diritto di accesso del
cittadino alla stregua di un'azione popolare che non deve
essere accompagnata né dalla titolarità di una situazione
giuridicamente rilevante né da un'adeguata motivazione. Pertanto, con riguardo al caso di specie, non pare possa
negarsi il diritto del cittadino ad ottenere le informazioni
richieste. Tuttavia, seppur non è chiara l’utilità o
necessità delle notizie richieste dal funzionario comunale,
permane l’obbligo della p.a. di inviare l’istanza di accesso
al controinteressato ex art. 3 d.P.R. n. 184/2006 al fine di
un’eventuale opposizione
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 20.12.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Accesso agli atti preparatori e a bozza di
accordo da parte di un Consigliere comunale. Il Comune di Valle Aurina ha rappresentato di essere da
tempo impegnato in trattative con locali imprenditori nel
settore energetico. A tale fine è stata elaborata da parte
dell’Amministrazione comunale una bozza di accordo, che è
stata accantonata in quanto non condivisa tra le parti. Tale
bozza è stata oggetto di richiesta di accesso da parte di un
consigliere comunale che, in esito al relativo rigetto, ha
ritenuto opportuno chiedere una consulenza giuridica al
Consorzio dei Comuni di Bolzano. Il Comune interessato invece, chiede il parere di questa
Commissione al fine di conoscere “l'accessibilità di atti
preparatori in trattative negoziali successivamente
accantonati in quanto ritenuti pregiudizievoli oppure
irrilevanti per le parti”. Nonché, in particolare, se
una bozza di accordo -successivamente accantonata e quindi
divenuta irrilevante per l'ulteriore prosieguo dell'azione
amministrativa- possa essere assimilata al concetto di
documento amministrativo, accessibile ai sensi dell'art. 22,
legge n. 241/1990. Tanto premesso, si evidenzia che la natura di atto interno
non ufficiale non ne giustifica il diniego all’accesso,
considerato che l’art. 22, c. 1, lett. D), definisce
documento amministrativo ogni rappresentazione del contenuto
di atti, anche interni o non relativi a uno specifico
procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale (cfr. decisione della
Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi nella
seduta del 14.12.2010). Peraltro, considerato che la fattispecie “de qua”
concerne trattative negoziali caducate non è dato ipotizzare
eventuali differimenti dell’accesso. Infatti, secondo il
consolidato orientamento giurisprudenziale il differimento
può essere disposto per salvaguardare specifiche esigenze
dell’Amministrazione, soprattutto nella fase preparatoria
dei provvedimenti, in relazione ai documenti la cui
conoscenza possa compromettere il buon andamento dell’azione
amministrativa (TAR Lazio, sent. N. 13139/2009; TAR Liguria,
sent. N. 1644/1007; cfr. decisione della Commissione per
l’accesso ai documenti amministrativi nella seduta del
16.11.2010). Si soggiunge, che i Consiglieri comunali e provinciali
godono, comunque, di un pieno diritto d’accesso a tutti i
documenti utili all’espletamento del proprio mandato, ai
sensi dell’articolo 43 del TUEL, che, in quanto norma
speciale, prevale rispetto alle disposizioni generali in
materia d’accesso di cui alla legge n. 241 del 1990. In particolare, il diritto del consigliere comunale ad
ottenere dall’Ente locale e da tutte le aziende o enti
partecipati dal Comune o affidatarie di servizi pubblici
locali, tutte le notizie ed le informazioni utili
all’espletamento del mandato non può essere in alcun modo
compresso e non incontra alcuna limitazione derivante dalla
eventuale natura riservata dei documenti, atteso che il
diritto alla riservatezza viene comunque salvaguardato,
essendo il consigliere istante vincolato al segreto
d’ufficio, nei casi specificatamente determinati dalla
legge, ai sensi del comma 2 del citato articolo 43 del TUEL.
(C.d.S., sez. V, 04.05.2004, n. 2716)
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 20.12.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Notifica ai controinteressati. La dott.ssa ..., responsabile dei Servizi Pubblici della
Provincia di Rovigo, pone una serie di quesiti riguardanti
il comportamento della P.A. quando, a fronte di una
richiesta di accesso ai documenti amministrativi, deve darne
comunicazione ai controinteressati. Al riguardo la Commissione osserva che il termine “notifica”
rinvenibile nella rubrica dell’art. 3 del d.P.R. n. 184/2006
deve essere inteso in senso atecnico, come si desume
agevolmente dal testo della norma stessa che, in modo del
tutto chiaro, dispone che la comunicazione ai
controinteressati deve essere fatta mediante raccomandata
con avviso di ricevimento. Quanto poi all’ipotesi che l’avviso di ricevimento pervenga
all’Amministrazione decorsi i 30 giorni dalla domanda di
accesso, è evidente che non si forma il silenzio rigetto
impugnabile perché questo presuppone la totale inerzia
dell’Amministrazione. Infine, nell’ipotesi in cui la raccomandata ritorni al
mittente per qualunque ragione (compiuta giacenza,
destinatario trasferito o irreperibile, etc.), la richiesta
di accesso può essere senza dubbio definita, avendo la P.A.
posto in essere tutti gli incombenti previsti dalla vigente
normativa
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 27.11.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Parere in merito alla ostensibilità dei
documenti acquisiti in esito all’accesso. La dott.ssa ... –dottore commercialista e revisore
contabile– chiede di conoscere se a seguito di accesso agli
atti e al rilascio di copia della documentazione, il
richiedente l’accesso possa condividerne il contenuto con i
soggetti componenti la propria lista elettorale ed i
componenti la lista collegata. Al riguardo precisa che la
documentazione è afferente alle liste presentate ai sensi
degli artt. 64 e ss. del d.lgs. 139/2005 in materia di
elezioni presso l’ordine dei dottori commercialisti ed
esperti contabili. In relazione al quesito formulato, la Commissione
rappresenta che, ai sensi della normativa vigente in materia
di accesso ai documenti amministrativi, non sussistono
limitazioni di sorta in merito alla ostensibilità degli atti
acquisiti in esito all’accoglimento delle relative richieste
d’accesso, ad eccezione degli accessi dei Consiglieri
comunali e provinciali che, ai sensi dell’articolo 43 del
d.lgs. n. 267 del 2000 (TUEL), sono tenuti al segreto nei
casi specificamente determinati dalla legge, con riferimento
alle notizie ed informazioni ottenute, rispettivamente dagli
uffici del Comune e della Provincia, per l’espletamento del
proprio mandato
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 27.11.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Richiesta di parere in merito ad una richiesta
di accesso ad un atto di Servizi Ambientali S.p.A. (società
interamente pubblica). La Società (interamente pubblica) S.p.A.., rappresenta di
avere ricevuto in data 02.10.2012 una richiesta da parte
dell'lng. ... -di cui si allega copia- finalizzata ad
ottenere copia della delibera del consiglio di
amministrazione avente ad oggetto non l'attribuzione di un
incarico, bensì la possibilità di procedere a detta
attribuzione nei di lui confronti. Al riguardo sostiene che
detta delibera non aveva e non ha alcuna relazione, nemmeno
indiretta, con le funzioni pubbliche della società e che non
è sorto in capo al richiedente alcun diritto, non avendo il
consiglio preso alcuna decisione in merito al conferimento
dell'incarico ed avendo successivamente formalizzato la
contraria intenzione di non procedere ad alcun conferimento. Sostiene, poi, che la richiesta di accesso sembra
finalizzata unicamente ad esercitare pressioni sull’organo
amministrativo e che la delibera contiene considerazioni
espresse dai consiglieri di amministrazione del tutto
inconferenti rispetto all’oggetto dell’istanza. Tanto premesso, la predetta S.p.A. chiede alla Commissione
se, contrariamente all’orientamento giurisprudenziale – a
suo dire prevalente - debba ritenersi fondata l’istanza del
richiedente e, in questo caso, se l’eventuale copia del
documento possa essere rilasciata rendendo visibile solo la
parte strettamente legata all’espressione non deliberativa
relativa all’ipotesi di conferimento dell’incarico. La Commissione reputa che sussista la legittimazione
all’accesso del ricorrente limitatamente alla parte del
documento, pertinente all’oggetto della richiesta, essendo
stata motivata correttamente, a scopo accertativo, la
relativa istanza. La circostanza che il procedimento si sia già concluso
negativamente nei confronti dell’accedente, non vale a
giustificare il rigetto della stessa. Infatti, l’art. 22, c.
1, della legge 241/1990 garantisce espressamente il diritto
di accesso ai documenti amministrativi anche interni,
sancendo in tale modo l’autonomia dell’interesse sottostante
alla relativa istanza rispetto alla esistenza o alla
pendenza di uno specifico procedimento al quale l’istante
sia interessato. Si precisa che, solo qualora la delibera -oggetto della
richiesta- contenga argomenti ultronei, del tutto
inconferenti ed estranei al tema dell’attribuzione
dell’incarico, tali dati potranno essere cancellati, in
occasione della visura e del rilascio del documento
all’interessato
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 27.11.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Richiesta di parere sull’obbligo di pagamento
del costo di riproduzione di copie di documenti rilasciati
da Amministrazione statale, richiesti ex art. 25 L. 241/1990.
Il Policlinico Militare di Roma rappresenta di avere
ricevuto n. 2 richieste di rilascio di copie fotostatiche di
documentazione sanitaria (le cartelle cliniche dei Sigg. ...
e ...) da parte di uno studio legale, che ha rappresentato,
ai sensi della L. 241/1990, l'interesse concreto ed attuale
nell’ambito dei ricorsi giudiziali dei suoi assistiti e o
degli eredi in controversie in materia pensionistica.
L’Amministrazione ha chiesto, pertanto, il versamento del
corrispettivo onere ristorativo dei diritti di riproduzione
correlato al numero di pagine rilasciate ed inviate a mezzo
R.A. rispettivamente di euro 7.50 (sette/50) per le due
cartelle del Signor ... e di euro 2.50 (due/50) per la
cartella del signor ...). Ad ambedue le richieste lo Studio Legale opponeva rifiuto al
versamento dell'onere richiesto, adducendo che la normativa
dell'art. 12, tab. b, d.P.R. 642/1972 sull'imposta di bollo
prevede l’esenzione di imposte per "controversie in materia
di pensioni dirette" e che, altresì, l'art. 10 legge
533/1978 contempla tra gli atti esenti da qualsiasi "spesa,
tassa o diritto di qualsiasi specie e natura" gli atti
inerenti "controversie individuali di lavoro" (all. E e all.
F). Per il primo caso, relativo al Signor ..., il Policlinico
inviava, comunque, la documentazione richiesta a favore
della patrocinata vedova ...- anticipando il credito del
corrispettivo richiesto per il ristoro delle spese di
riproduzione - avvertendo contestualmente il predetto studio
legale che sarebbe stata attivata una richiesta di parere a
codesta Commissione per un eventuale successivo recupero
della somma dovuta. Per il secondo caso, relativo al Sig. ..., al rifiuto
opposto dallo Studio Legale ... al versamento delle spese di
riproduzione della documentazione sanitaria richiesta,
l’Amministrazione confermando le indicazioni di cui alle
precedenti comunicazioni e rinviando a quanto chiarito dalla
Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi della
Presidenza del Consiglio dei Ministri nella seduta del
14/09/2010, non inviava copia della cartella clinica
comunque estratta. Tanto premesso, il Direttore del Policlinico Militare di
Roma chiede a codesta Commissione di esprimere chiarimenti e
linee applicative in merito ai seguenti quesiti: se risulta legittimo l'obbligo e la conseguente richiesta
del Policlinico Militare di corresponsione del rimborso
delle spese di riproduzione di documenti rilasciati su
richiesta di accesso ex art. 25 legge 241/1990 e successive
integrazioni, ex d.P.R. 184/2006, ex circolari applicative e
regolamenti interni, nei casi della normativa riferita dallo
Studio Legale ... in materia di pensioni e contenzioso
lavoristico (l. 533/1978 e d.P.R. 642/1972); se i costi di spedizione della documentazione al domicilio
del richiedente siano a carico del richiedente stesso e
dell'Amministrazione (rectius o
dell’Amministrazione). Si evidenzia che la legge n. 241/1990 – norma di rango
primario rispetto alle disposizioni regolamentari - nel
riconoscere a chiunque vi abbia interesse il diritto di
accesso ai documenti amministrativi, ha indicato
sinteticamente i concreti modi per l’esame e l’estrazione di
copia della documentazione, stabilendo che il rilascio di
copia dei documenti è subordinato soltanto al rimborso del
costo di riproduzione, salve le disposizioni in materia di
bollo, nonché i diritti di ricerca e visura ove
espressamente previsti. In conformità a tale previsione legislativa, il d.p.r.
12.04.2006, n. 184, all’art. 7, c. 6, stabilisce che “...in
ogni caso, la copia dei documenti è rilasciata
subordinatamente al pagamento degli importi dovuti ai sensi
dell’art. 25 della legge, secondo le modalità determinate
dalle singole Amministrazioni. Su richiesta
dell’interessato, le copie possono essere autenticate”. Conseguentemente, a ciascuna Amministrazione è stato
demandato, in attuazione degli artt. 5 e 6 del d.P.R. n.
352/1992 di fissare l’importo dovuto per i relativi costi di
riproduzione per ciascuna copia degli atti richiesti con
criteri di uniformità e di praticità. Peraltro, la lettera e la
ratio delle disposizioni in
materia di accesso ai documenti amministrativi contenute
nelle leggi 241/1990 e 142/1990 escludono che sia dovuta
l’imposta di bollo tanto sulla richiesta di accesso quanto
sulla copia informe eventualmente rilasciata, ferma
restando, invece, l’assoggettabilità a bollo, ove prevista “ex
lege”, della copia autenticata, eventualmente richiesta. Tanto premesso, per quanto riguarda l’assoggettabilità a
bollo nel caso specifico, nell’ipotesi di rilascio a
richiesta di copie conformi, trova applicazione la Tabella –
Allegato B - di cui al d.P.R. n. 642/1972 (così come
modificata dal d.P.R. n. 955/1982 e s.m.i.) che all’art. 12
individua tra gli atti, documenti e registri amministrativi
esenti in modo assoluto dall’imposta stessa gli atti,
documenti e provvedimenti dei procedimenti
giurisdizionali–amministrativi relativi a controversie in
materia di pensioni dirette o di reversibilità. Pertanto, le suesposte disposizioni normative di rango
primario prevalgono su eventuali, difformi disposizioni
regolamentari. Si soggiunge, peraltro, che i costi di spedizione della
documentazione a domicilio, in esito a specifica istanza,
sono a carico del richiedente
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 27.11.2012 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Parere - accesso ai documenti concorso pubblico. La sig.ra ..., partecipante al Concorso per esami e titoli
per il reclutamento dei Dirigenti Scolastici per la Scuola
Primaria, Secondaria di I grado, Secondaria di II grado e
degli Istituti Educativi, chiede parere a questa Commissione
sulla legittimità dei provvedimenti adottati dall'USR Puglia
in merito alle proprie richieste di accesso ai documenti
amministrativi del concorso stesso. A tal riguardo, precisa di essere stata ammessa a sostenere
le prove scritte del Concorso per D.S., dopo avere superato
la prova preselettiva del 12 Ottobre 2011 e di essere, poi,
risultata tra i candidati non ammessi alla prova orale. La
professoressa, dubitando della corretta applicazione delle
griglie di valutazione che l'avrebbero penalizzata –a suo
dire- oltre misura sino ad escluderla dal sostenere la prova
orale, inoltrava richiesta di accesso agli elaborati dei
canditati ammessi a sostenere le prove orali (in numero di
228) ed alle relative valutazioni adottate dalla Commissione
d'esame. Dopo una prima istanza di accesso, differita dall’USR
Puglia, l’interessata riferisce infine di essere stata
invitata, dopo l’assegnazione degli incarichi, per un
accesso solo parziale, percentualizzato rispetto al totale
degli elaborati dei candidati ammessi all’orale e che in
tale occasione l’impiegato non ha mostrato alcun originale,
limitandosi a consegnare delle copie fotostatiche. La
professoressa, pertanto, reputa che non sia stato corretto
sia differire l’accesso sia limitarlo ad una sola quota dei
documenti. Conclusivamente, chiede quindi il parere di
questa Commissione, nella prospettiva di intraprendere
eventuali azioni necessarie alla tutela dei propri diritti.
Tanto premesso, questa Commissione evidenzia come da
consolidato indirizzo e anche da copiosa giurisprudenza del
giudice amministrativo sia acclarata l’accessibilità dei
documenti formati dalla commissione esaminatrice e prodotti
da altri candidati (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. III,
08.07.2008, n. 6450; Commissione decisione del 04.05.2010).
Va riconosciuto, pertanto, il diritto di essere ammessa a
visionare tutti i documenti e di estrarne copia, perché
l’esercizio del diritto di accesso, ai sensi delle
disposizioni vigenti, deve intendersi comprensivo di
entrambe le modalità. Tuttavia, l’accesso potrà
legittimamente essere limitato dall’amministrazione ai soli
elaborati con voti utili per l’ammissione all’esame orale
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 13.11.2012 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso al
nominativo di un esposto. L’istante ha segnalato che il Comune ove risiede nega
sistematicamente l’accesso agli atti della Polizia
Municipale (verbali o accertamenti) relativi al procedimento
conseguente ai numerosi esposti presentati per molestie
provocate, ad esso istante e ai cittadini del comune, da
cani di grossa taglia lasciati incustoditi sulla pubblica
via. In conformità all’orientamento espresso da questa
Commissione, nel caso in cui l’istante -come nella specie-
sia un cittadino residente nel comune, il diritto di accesso
è soggetto alla disciplina speciale di cui all’art. 10, co.
1, del d.lgs. n. 267/2000, che sancisce espressamente il
principio della pubblicità di tutti gli atti ed il diritto
dei cittadini di accedere alle informazioni in possesso
delle autonomie locali, senza fare menzione alcuna della
necessità di dichiarare la sussistenza di tale situazione al
fine di poter valutare la legittimazione all’accesso del
richiedente. Pertanto, considerato che il diritto di accesso ex art. 10
TUEL si configura alla stregua di un’azione popolare, il
cittadino residente può accedere agli atti amministrativi
dell'ente locale di appartenenza senza alcun condizionamento
e senza necessità della previa indicazione delle ragioni
della richiesta, dovendosi cautelare la sola segretezza
degli atti la cui esibizione è vietata dalla legge o da
esigenze di tutela della riservatezza dei terzi
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 23.10.2012 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Richiesta di parere sul diritto di accesso ad un esposto. L’Autorità istante ha chiesto a questa Commissione se sia
ostensibile un “esposto” che avrebbe innescato
contemporaneamente un procedimento amministrativo ed
un’indagine penale relativa ad una non meglio precisata
gara, non essendo certo se le segnalazioni e le denunce
costituiscano documenti amministrativi e se siano o meno
atti sottoposti a segreto. La Commissione ribadisce il proprio orientamento secondo
cui: - ogni soggetto deve poter conoscere con precisione i
contenuti e gli autori di esposti o denunce che,
fondatamente o meno, possano costituire le basi per l'avvio
di un procedimento ispettivo o sanzionatorio. Ciò vale a
maggior ragione quando tali denunce hanno sviluppi così
penetranti come quelli che coinvolgono la sfera personale o
professionale di un soggetto che, per i fatti oggetto di
quell’esposto, sia stato sottoposto a procedimento
ispettivo-disciplinare e a procedimento penale (cfr., Cons.
Stato, Sez. V 19.05.2009 n. 3081; Sez. VI, 25.06.2007 n.
3601); - non può essere esclusa l'ostensione di esposti e di
segnalazioni di privati, pervenuti alla P.A., anche se già
trasmessi al giudice penale che, per effetto di quelli,
abbia incardinato un procedimento ancora pendente (Cons.
Stato Sez. IV, 04.04.2011, n. 2118; TAR Lazio-Roma, Sez. I,
n. 33041/2010). Con riguardo al caso in esame, pur nella penuria di maggiori
e più precisi elementi di fatto ricavabili dall’istanza
(essendo ignoto chi abbia chiesto l’accesso, il tenore della
relativa istanza e le specifiche motivazioni dell’accesso),
si ritiene in linea generale che sia lecito far conoscere
l’esposto dal quale è scaturito un procedimento
amministrativo, soprattutto quando sia dedotta la necessità
concreta di curare e difendere i propri interessi giuridici
e non vi siano dati sensibili o supersensibili rilevanti ex
art. 24, comma 7, legge n. 241/1990
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 23.10.2012 - link a
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CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Richiesta di accesso di consigliere comunale al protocollo
del Comune. Un consigliere comunale ha chiesto il parere di questa
Commissione in ordine alla possibilità e modalità di visione
del protocollo del proprio Comune. Questa Commissione ritiene, a conferma di un orientamento
ormai consolidato, che il “diritto di accesso” ed il
“diritto di informazione” dei consiglieri comunali
nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina
specifica nell’art. 43 del d.lgs. n. 267/2000 (TU degli Enti
locali) che riconosce ai consiglieri comunali e provinciali
il “diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente,
del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed
enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro
possesso, utili all’espletamento del proprio mandato”. Dal contenuto della citata norma si evince il riconoscimento
in capo al consigliere comunale di un diritto dai confini
più ampi sia del diritto di accesso ai documenti
amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del
Comune di residenza (art. 10, T.U. enti locali) sia, più in
generale, nei confronti della P.A. quale disciplinato dalla
l. n. 241/1990. Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in
ragione del particolare munus espletato dal
consigliere comunale, affinché questi possa valutare con
piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia
dell’operato dell’Amministrazione, onde poter esprimere un
giudizio consapevole sulle questioni di competenza della
P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia
democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata
(a maggior ragione, per ovvie considerazioni, qualora il
consigliere comunale appartenga alla minoranza,
istituzionalmente deputata allo svolgimento di compiti di
controllo e verifica dell’operato della maggioranza). A tal
proposito, il Giudice amministrativo individua la situazione
giuridica in capo ai consiglieri comunali con l’espressione
“diritto soggettivo pubblico funzionalizzato”, vale a
dire un diritto che “implica l’esercizio di facoltà
finalizzate al pieno ed effettivo svolgimento delle funzioni
assegnate direttamente al consiglio comunale”. A tal fine il consigliere comunale non deve motivare la
propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente
opinando, la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di
esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato
all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di
sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle
richieste di informazioni avanzate da un Consigliere
comunale e le modalità di esercizio del munus da
questi espletato. Anche per quanto riguarda le modalità di accesso alle
informazioni e alla documentazione richieste dal consigliere
comunale, costituisce principio giurisprudenziale
consolidato (cfr., fra le molte, Cons. Stato, Sez. V,
22.05.2007 n. 929) quello secondo cui il diritto di accesso
agli atti di un consigliere comunale non può subire
compressioni per pretese esigenze di natura burocratica
dell’Ente, tali da ostacolare l’esercizio del suo mandato
istituzionale, con l’unico limite di poter esaudire la
richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità) secondo
i tempi necessari per non determinare interruzione alle
altre attività di tipo corrente e ciò in ragione del fatto
che il consigliere comunale non può abusare del diritto
all’informazione riconosciutogli dall’ordinamento
pregiudicando la corretta funzionalità amministrativa
dell’ente civico con richieste non contenute entro i limiti
della proporzionalità e della ragionevolezza. Proprio al fine di evitare che le continue richieste di
accesso si trasformino in un aggravio della ordinaria
attività amministrativa dell’ente locale, questa Commissione
ha riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale
di avere accesso diretto al sistema informatico interno
(anche contabile) dell’ente attraverso l’uso di password di
servizio (fra gli ultimi, cfr. parere del 29.11.2009) e, più
recentemente, anche al protocollo informatico. Quanto alla natura generalizzata della richiesta rivolta a
conoscere tutta la corrispondenza del comune, la Commissione
ritiene che, seppur anche le richieste di accesso ai
documenti avanzate dai Consiglieri comunali ai sensi
dell'art. 43, co. 2, d.lgs. n. 267/2000 debbano rispettare
il limite di carattere generale -valido per qualsiasi
richiesta di accesso agli atti- della non genericità della
richiesta medesima (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, n. 4471
del 02.09.2005 e n. 6293 del 13.11.2002), l’eventuale
istanza di accesso al protocollo non appare inammissibile
per genericità atteso che il registro generale di protocollo
costituisce di per sé documento autonomo -come tale
suscettibile di accesso- dalla lettura del quale il
consigliere comunale potrà acquisire tutte le informazioni
che, ai sensi dell’art. 43, comma 2, T.U. n. 267/2000 ha
diritto di conoscere per poi, eventualmente, richiedere
l’accesso a specifici documenti. La domanda di accesso deve, pertanto, essere accolta,
consentendo la visione e l’acquisizione di copia del
protocollo
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 23.10.2012 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
OGGETTO: Richiesta di parere concernente il diritto di
accesso ad atti in materia di inquinamento acustico. Il Comune in indirizzo ha rappresentato che -a fronte della
richiesta di un cittadino di accedere alla documentazione
relativa ad un procedimento in materia di inquinamento
acustico avviato nei confronti di una ditta confinante-
quest’ultima si era opposta all’accesso in quanto non
sussisterebbe un interesse giuridicamente rilevante né la
dimostrazione che gli atti di interesse avessero effetti
pregiudizievoli sulla posizione del cittadino istante. Tanto
premesso, ha chiesto a questa Commissione un parere sulla
legittimità dell’opposizione all’accesso manifestata dalla
controinteressata. La Commissione ribadisce il proprio consolidato orientamento
secondo cui qualora l’istante risieda nel territorio
comunale, si deve ritenere che egli possa accedere a tutte
le informazioni inerenti al procedimento in questione ai
sensi della speciale disciplina ex art. 10, comma 1, del
decreto legislativo n. 267/2000, senza necessità di motivare
la sua istanza con riferimento ad uno specifico interesse
all’accesso. Ed a nulla può valere l’opposizione manifestata dal
controinteressato, dal momento che nel caso di specie non si
applica l’art. 3 del d.P.R. n. 184 del 2006, la cui
applicazione anche all’ambito delle autonomie locali
finirebbe per operare un’indebita compressione dei più ampi
diritti riconosciuti dalla disciplina speciale in favore dei
cittadini residenti
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
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PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Richiesta di parere in tema di accesso ai
documenti relativi ad un procedimento disciplinare di un
dipendente. A fronte della richiesta avanzata da alcuni cittadini per
ottenere copia degli atti (memorie difensive, relazioni dei
dipendenti, etc.) del procedimento disciplinare, ormai
archiviato, instaurato a carico di un dipendente comunale,
l’ente civico ha chiesto di conoscere se detta istanza sia
accoglibile dubitando della sussistenza di un interesse
personale e concreto all’accesso ai sensi della legge n.
241/1990. E’ noto che la diversità di posizione tra cittadino
residente e quello non residente nel Comune dà luogo ad un
doppio regime del diritto di accesso secondo quanto disposto
dall’art. 10 del d.lgs. n. 267/2000 che ha presupposti
diversi dal diritto di accesso previsto dalla normativa
generale di cui all’art 22 della l. n. 241/1990 (arg. ex TAR
Puglia Lecce Sez. II, 12.04.2005, n. 2067; TAR Marche,
12.10.2001, n. 1133). In conformità al consolidato orientamento espresso da questa
Commissione (e da cui non v’è motivo di discostarsi),
qualora l’istante sia un cittadino residente nel comune il
diritto di accesso non è soggetto alla disciplina dettata
dalla legge n. 241/90 - che in effetti richiede la
titolarità di un interesse diretto, concreto ed attuale
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento richiesto - bensì alla speciale
disciplina di cui all’art. 10, co. 1, del d.lgs. n.
267/2000, che sancisce espressamente ed in linea generale il
principio della pubblicità di tutti gli atti ed il diritto
dei cittadini di accedere alle informazioni in possesso
delle autonomie locali, senza fare menzione alcuna della
necessità di dichiarare la sussistenza di tale situazione al
fine di poter valutare la legittimazione all’accesso del
richiedente. Pertanto, considerato che il diritto di accesso ex art. 10
TUEL si configura alla stregua di un’azione popolare, il
cittadino residente può accedere alle informazioni dell'ente
locale di appartenenza senza alcun condizionamento e senza
necessità della previa indicazione delle ragioni della
richiesta, dovendosi cautelare la sola segretezza degli atti
la cui esibizione è vietata dalla legge o da esigenze di
tutela della riservatezza dei terzi, che nella specie non
risultano né dedotti né sussistenti
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
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ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
Richiesta di parere sul diritto di accesso al nominativo di
un esposto. Il Comune istante ha chiesto di conoscere se due cittadini,
destinatari di una denuncia per presunti abusi edilizi e
maltrattamenti su animali d’affezione, possano accedere al
nominativo del denunciante e al contenuto dell’esposto, che
aveva innescato un procedimento istruttorio per la verifica
di quanto lamentato. L’amministrazione ritiene di poter rilasciare copia dello
stesso esposto ma epurata dei nomi degli esponenti a tutela
della loro riservatezza, segnalando un contrasto nella
giurisprudenza del Consiglio di Stato in tema di accesso ad
esposti di privati e domandando quale sia il comportamento
da tenere in simili occasioni per contemperare le esigenze
dell’accesso con quelle della riservatezza. La Commissione ribadisce il proprio costante orientamento
(vedi pareri plenum 26.10.2010 e 14.12.2010) secondo cui la
riservatezza non può essere invocata quando venga richiesto
di conoscere il nominativo di coloro che hanno reso
segnalazioni, denunce o rapporti informativi nell'ambito di
un procedimento ispettivo, foss’anche per coprire o
difendere il denunciante da eventuali reazioni da parte del
denunciato, le quali, comunque, non sfuggirebbero al
controllo dell'autorità giudiziaria (Cons. Stato, decisione
n. 3601/2007; n. 3081/2009), poiché il nostro ordinamento
non tollera le denunce segrete (in questi termini, anche
Cons. Stato, sez. V, 22.06.1998, n. 923). Tale impostazione non è smentita dalla decisione del
Consiglio di Stato (n. 895/2011) richiamata
dall’amministrazione, poiché il contrasto delineato dal
Comune è soltanto apparente. Infatti, nella fattispecie,
seppure i Giudici hanno ritenuto corretta la decisione
dell’amministrazione di criptare i nominativi dei soggetti
denuncianti per salvaguardarne la riservatezza e sottrarli
ad ipotetiche azioni ritorsive, tuttavia hanno anche
affermato che tali esigenze possono divenire recessive se
sussista la necessità della difesa in giudizio del
richiedente l'accesso. Si tenga anche conto peraltro, come emerge da una più
attenta lettura della sentenza, che nella specie le
generalità dei denuncianti erano comunque note al
richiedente l’accesso poiché evincibili dai documenti resi
ostensibili
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
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PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO:
Richiesta di parere in materia di accesso ad atti del
procedimento disciplinare nei confronti di un dipendente. I Monopoli di Stato hanno chiesto a questa Commissione di
esprimere parere sulla possibilità da parte di una
lavoratrice di ottenere l’accesso agli atti del procedimento
disciplinare, non ancora concluso, instaurato a carico di
altro dipendente, accusato di presunte molestie sessuali.
L’amministrazione istante ha segnalato una serie di ostacoli
alla ostensione degli atti che, invece, a parere della
Commissione, sono privi di pregio giuridico. In particolare, viene segnalato che costituirebbe un
ostacolo all’accesso: 1) la natura privatistica del procedimento disciplinare
instaurato nei confronti di dipendenti della p.a con
rapporto di lavoro privatizzato; 2) l’inapplicabilità del principio, enucleabile dalla
decisione dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n.
7/2006, che garantisce all’autore di un esposto il diritto
di accesso agli atti di un procedimento disciplinare
innescato nei confronti di un professionista, attese le
diversità tra rapporto di lavoro privatizzato e lavoro
autonomo; 3) l’inconfigurabilità tecnico-giuridica di un
controinteressato nel procedimento disciplinare che non può
in linea generale pregiudicare terzi diversi dal dipendente
interessato; 4) la mancanza di interesse all’impugnativa del
provvedimento di archiviazione del procedimento disciplinare
da parte del terzo che richieda di accedere agli atti,
traducendosi tale richiesta in una forma di controllo
generalizzato sulla pa; 5) il potenziale pregiudizio alle esigenze di riservatezza
dei terzi che hanno reso dichiarazioni nel corso
dell’istruttoria (testimoni). Tanto premesso, la Commissione osserva che: -) quanto alle prime due questioni, esaminabili
congiuntamente, è assolutamente irrilevante la natura
pubblicistica o privatistica della disciplina del
procedimento cui ineriscono gli atti oggetto dell’accesso.
Infatti, per documento amministrativo ex art. 22, co. 1,
lettere d) ed e), della legge 07.08.1990, n. 241 si intende
ogni rappresentazione del contenuto di atti concernenti
attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla
natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina
sostanziale e detenuti da soggetto di diritto pubblico o di
diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico
interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario
e, dunque, anche dall'amministrazione autonoma dei monopoli
di stato; -) le altre due questioni, per come formulate, ineriscono
alla veste di “controinteressato” in senso tecnico
processuale in capo all’autore di un esposto. Come tali,
attengono al giudizio amministrativo contro l'eventuale
annullamento di un determinato provvedimento e sono,
pertanto, estranee alla valutazione della p.a. che deve
limitarsi a sindacare la sussistenza di un interesse
personale, diretto e concreto all’accesso da parte
dell’autore dell’esposto, interesse che, nella specie, pare
indubbio in relazione alle presunte molestie sessuali
oggetto della segnalazione che ha innescato il procedimento
disciplinare nei confronti del dipendente; -) circa l’ultima questione, l’amministrazione non può
opporre alcun interesse antagonista di terzi al rilascio
della copia dei documenti, come quello alla riservatezza,
quand’anche fosse destinato a coprire o difendere eventuali
testimoni da eventuali reazioni, giacché il diritto alla
privacy non può essere opposto all’autore della segnalazione
che agisca per difendere o curare i propri interessi
giuridici. Pertanto, parendo illegittimo un eventuale diniego di
accesso alla documentazione richiesta, la Commissione invita
l’amministrazione istante a rivalutare la richiesta di
accesso alla luce delle suesposte considerazioni
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 23.10.2012 - link a
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CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Richiesta di parere relativo al diritto di accesso a
documenti da parte di un consigliere comunale. L’ente civico istante chiede un parere relativo alla
problematica dell’accesso di un consigliere comunale agli
elenchi dei nominativi dei cittadini nei confronti dei quali
il Comune ha effettuato segnalazioni e inoltrato notizie
utili nell’ambito della collaborazione con l’agenzia delle
entrate per la lotta all’evasione fiscale. L’amministrazione
dubita della legittimità dell’accesso, ritenendo che i
documenti richiesti siano esclusi dall’accesso rientrando
nella categoria dei procedimenti tributari ai sensi
dell’art. 24, co. 1, lett. b), della legge n. 241/1990. La Commissione osserva che la disposizione contenuta
nell'art. 43, comma 2, TUEL riconosce al consigliere
comunale il diritto di ottenere dagli uffici comunali "tutte
le notizie e le informazioni utili all'espletamento del
proprio mandato e gli impone l'obbligo del segreto "nei
casi specificamente determinati dalla legge".
Indipendentemente dall'inclusione della divulgazione dei
contribuenti assoggettati a segnalazioni o notizie fra i
casi soggetti all’esclusione citata, gli Uffici comunali non
possono limitare in alcun caso il diritto di accesso del
consigliere comunale, ancorché possa sussistere il pericolo
della divulgazione di dati di cui il medesimo entri in
possesso. La responsabilità di aver messo in condizione il consigliere
comunale di conoscere dati sensibili cede di fronte al
diritto di accesso incondizionato del medesimo, potendo
essere semmai essere invocata dal terzo eventualmente
danneggiato solo nei confronti di chi (consigliere comunale)
del suo diritto abbia fatto un uso contra legem
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta dell'11.09.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Richiesta di parere sul diritto di accesso alla
registrazione informatica di una telefonata al numero di
soccorso “115”. L’amministrazione istante chiede di conoscere se sia
accoglibile la domanda di accesso alla copia della
registrazione informatica della telefonata con richiesta
d’intervento al numero di soccorso “115” effettuata da un
privato, destinatario di un intervento tecnico conseguente
ad un incendio alla propria autovettura, motivata da
presunte contestazioni rivolte dalla compagnia assicuratrice
del veicolo da indennizzare (che paventa una tardiva
effettuazione del soccorso). Vengono avanzati dubbi sulla conoscibilità di tale
documento, attesa la particolare natura dell’atto (dovendo
la telefonata essere riversata su supporto informatico)
nonché la necessità di tutela della riservatezza del
controinteressato (ovvero l’operatore telefonico), la
possibile esclusione dell’accesso perché documento afferente
a strutture, mezzi, dotazioni, personale ed azioni
strumentali alla tutela dell'ordine pubblico ex art. 24, co.
6, lett. c), della legge n. 241/1990 nonché la finalità di
controllo generalizzato sui tempi e modi di prestazione del
soccorso. A parere della Commissione sarebbe illegittimo escludere
l’accesso alla registrazione della telefonata di soccorso,
soprattutto quando siano insorte contestazioni tra il
privato e la propria compagnia assicuratrice sul diritto
all’indennizzo collegato all’incidente oggetto
dell’intervento dei VV FF e sempre che la registrazione
della telefonata non sia stata oggetto di un espresso
provvedimento di sequestro giudiziario, idoneo ad impedire
l'ostensibilità del documento. Infatti, la registrazione della telefonata può essere
equiparata, ex art. 22, legge n. 241/1990, ad un esposto
riprodotto su supporto magnetico e, per tale ragione, può
farsi rientrare nella categoria degli atti amministrativi
aventi la forma di rappresentazioni elettromagnetiche.
Inoltre, ogni ragione di eventuale riservatezza cede di
fronte alla necessità di cura e difesa degli interessi del
richiedente l’intervento di soccorso, come è indubbiamente
nel caso di specie. Infine, non paiono invocabili i casi di esclusione
dell’accesso ex art. 24, co. 6, lett. c), della legge n
241/1990 categoria eccezionale che concerne non tutti i
documenti genericamente riconducibili all'ordine pubblico e
alla prevenzione e alla repressione della criminalità ma
solo gli atti in concreto pregiudizievoli degli interessi
sopra indicati e soltanto nei limiti e nell’ambito di tale
connessione. Nella specie, poiché la registrazione della
telefonata di soccorso consiste sostanzialmente in una sorta
di segnalazione/denuncia effettuata telefonicamente alla
pubblica autorità, non pare che investa in concreto gli
interessi indicati nell'art. 24, co. 6, della legge
07.08.1990, n. 241. Né del resto, atteso l’effettivo interesse alla conoscenza
dedotto dal richiedente l’accesso, può ritenersi che la
conoscenza della specifica registrazione della telefonata
sia diretta a configurare un controllo generalizzato sulla
pa
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
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CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Richiesta di parere sul diritto di accesso ai documenti
amministrativi da parte di consigliere comunale. Il consigliere comunale istante ha rappresentato che il
Sindaco aveva rigettato la richiesta di accesso urgente al
protocollo generale dell’anno 2011 e 2012 poiché contenente
informazioni riservate e segrete e comunque ritenendola
eccessivamente generica ed onerosa in termini di risorse
necessarie per evaderla. Pertanto, ha chiesto a questa
Commissione di esprimere un parere al riguardo, segnalando
di essersi reso disponibile, in caso di eccessiva gravosità
della richiesta, a visionare preventivamente il protocollo
per le sue esigenze. Questa Commissione ritiene che il diniego opposto dal Comune
appare del tutto illegittimo. Come è noto Il “diritto di accesso” ed il “diritto
di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti
della P.A. trovano la loro disciplina specifica nell’art. 43
del d.lgs. n. 267/2000 (T.U. degli Enti locali) che
riconosce ai consiglieri comunali e provinciali il “diritto
di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e
della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro
possesso, utili all’espletamento del proprio mandato”. Dal contenuto della citata norma si evince il riconoscimento
in capo al consigliere comunale di un diritto dai confini
più ampi sia del diritto di accesso ai documenti
amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del
Comune di residenza (art. 10, T.U. Enti locali) sia, più in
generale, nei confronti della P.A. quale disciplinato dalla
l. n. 241/1990. Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in
ragione del particolare munus espletato dal
consigliere comunale, affinché questi possa valutare con
piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia
dell’operato dell’Amministrazione, onde poter esprimere un
giudizio consapevole sulle questioni di competenza della
P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia
democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata
(a maggior ragione, per ovvie considerazioni, qualora il
consigliere comunale appartenga alla minoranza,
istituzionalmente deputata allo svolgimento di compiti di
controllo e verifica dell’operato della maggioranza). A tal fine il consigliere comunale non deve motivare la
propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente
opinando, la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di
esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato
all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di
sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle
richieste di informazioni avanzate da un Consigliere
comunale e le modalità di esercizio del munus da
questi espletato. Pertanto, al consigliere comunale e provinciale non può
essere opposto alcun diniego -salvi i casi in cui l’accesso
sia piegato ad esigenze meramente personali, al
perseguimento di finalità emulative o che comunque aggravino
eccessivamente, al di là dei limiti di proporzionalità e
ragionevolezza, la corretta funzionalità amministrativa-
determinandosi altrimenti un illegittimo ostacolo al
concreto esercizio della sua funzione, che è quella di
verificare che il Sindaco e la Giunta municipale esercitino
correttamente la loro funzione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.09.2005, n. 4471). Anche per quanto riguarda le modalità di accesso alle
informazioni e alla documentazione richieste dal consigliere
comunale, costituisce principio giurisprudenziale
consolidato (cfr., fra le molte, Cons. Stato, sez. V,
22.05.2007 n. 929) quello secondo cui il diritto di accesso
agli atti di un consigliere comunale non può subire
compressioni per pretese esigenze di natura burocratica
dell’Ente, tali da ostacolare l’esercizio del suo mandato
istituzionale, con l’unico limite di poter esaudire la
richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità) secondo
i tempi necessari per non determinare interruzione alle
altre attività di tipo corrente e ciò in ragione del fatto
che il consigliere comunale non può abusare del diritto
all’informazione riconosciutogli dall’ordinamento
pregiudicando la corretta funzionalità amministrativa
dell’ente civico con richieste non contenute entro i limiti
della proporzionalità e della ragionevolezza. Tale essendo il consolidato orientamento del giudice
amministrativo e di questa Commissione, le motivazioni del
diniego opposto alla istanza del consigliere comunale non
sono (in generale e tanto più nella fattispecie)
condivisibili né in termini di segretezza (in quanto il
protocollo non contiene il testo del documento che possa
contenere dati sensibili di cui, peraltro, il consigliere
che ne venga a conoscenza rimane responsabile ai sensi
dell’art. 43, comma 2, TUEL) né in punto di indeterminatezza
ed onerosità della istanza (in quanto la richiesta specifica
di atti potrà avvenire eventualmente dopo che il protocollo
sarà stato visionato dall’interessato, come peraltro
sollecitato dallo stesso). Si rappresenta, infine, che lo “stigmatizzato”
comportamento del Comune potrà essere valutato da questa
Commissione ai fini della segnalazione alla Camera e al
Presidente del Consiglio dei Ministri, in sede di redazione
della relazione annuale sulla trasparenza dell'attività
della pubblica amministrazione ex art. 27 della legge n.
241/1990
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta dell'11.09.2012 - link a
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CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Richiesta di parere sul diritto di accesso dei consiglieri
comunali. Il Sindaco del Comune istante rappresenta che i consiglieri
di un gruppo di minoranza avrebbero “tempestato” gli
uffici comunali di irragionevoli, sproporzionate e generiche
richieste di estrazione di copie di atti, in tal modo
impedendo ai dipendenti comunali, già in organico ridotto,
di provvedere alla gestione delle ordinarie attività (tra
cui la pubblicazione delle delibere di giunta). Tale
situazione avrebbe ingenerato una condizione di “malessere”
nei dipendenti, portando addirittura il revisore dei conti a
rassegnare le dimissioni. La Commissione non ritiene opportuno di esprimere alcun
apprezzamento sulla fondatezza delle lamentele esposte
perché sulla fattispecie rappresentata risultano proposti
due ricorsi al giudice amministrativo (in specie, il Tar
Campania) che non pare si sia ancora pronunciato. In ogni
caso, dalla documentazione allegata all’istanza non
risultano concreti e specifici elementi idonei a valutare
l’abnormità delle richieste dei consiglieri comunali e le
conseguenze ingenerate nel personale del comune. Quanto ai dedotti impedimenti sull’attività di pubblicazione
delle delibere di giunta, si rammenta, qualora Codesto
Comune non avesse già provveduto, che il legislatore (art.
32 della Legge n. 69/2009) ha espressamente previsto lo
specifico obbligo dei Comuni di provvedere alla
pubblicazione on-line di tutti gli atti amministrativi che
necessitano di pubblicità legale, ivi comprese le delibere
di Giunta, con conseguenti riduzioni di risorse umane e
economiche
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta dell'11.09.2012 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: richiesta di accesso agli atti di una procedura
di selezione per contratto a progetto. L’istante, avendo partecipato per due anni (2010 e 2011) di
seguito ad una selezione indetta dall’Ordine degli Avvocati
di Nola per l'attribuzione di un contratto annuale a
progetto presso la locale camera arbitrale e di
conciliazione, rivolgeva una domanda all’Ordine stesso per
ottenere l'accesso agli atti della procedura selettiva (in
particolare, ai verbali integrali delle sedute consiliari ed
ai nomi dei consiglieri) anche al fine di tutelare i propri
interessi. L'ente aveva consentito un parziale accesso, comunicando,
tra l’altro, lo stralcio di un verbale (con relativi
omissis), non fornendo gli atti della procedura del 2010 e
nemmeno i nomi dei consiglieri presenti alle sedute di
interesse in quanto difetterebbe un interesse personale,
diretto e attuale e l’istante non avrebbe indicato i motivi
dell’accesso. Pertanto, l’istante, dolendosi della
illegittimità della mancata ostensione dei documenti
richiesti, ha chiesto di esprimere un parere sulla
questione. Ad avviso della Commissione, poiché l’istante ha partecipato
alle selezioni in oggetto per due anni ha interesse ad
accedere a tutta la documentazione richiesta, potendo il
diritto di accesso essere affermato sulla base della natura
di atti endoprocedimentali dei documenti richiesti, ai sensi
del combinato disposto degli articoli 7 e 10 della legge n.
241/1990 al fine di valutare la legittimità dell'operato
dell’Ordine professionale e quindi di curare e difendere i
propri interessi
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 24.07.2012 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Richiesta di parere concernente il diritto di accesso a
studi interni propedeutici alla formazione dei piani di
bacino. L’amministrazione provinciale di Genova dubita che siano
accessibili gli atti relativi agli studi interni
propedeutici alla pianificazione di Bacino (in particolare,
elaborati cartografici e indagini territoriali) poiché
l’art. 24, co. 1, lett. c), della legge n. 241 del 1990 non
consente, tra l’altro, l’accesso agli atti di pianificazione
e di programmazione. Inoltre, se altro ente (in particolare,
il Comune in possesso di siffatti studi ai fini
dell’elaborazione della propria pianificazione territoriale)
consegnasse ai privati tale documentazione, sarebbe di fatto
eluso il dovere di riserbo previsto dal citato art. 24 a
fronte di richieste di accesso dei privati. Tanto premesso, l’amministrazione istante chiede a questa
Commissione di sapere: - se gli “studi interni” siano documenti accessibili
ai sensi della legge n. 241/1990; - come si risolva il conflitto tra il dovere di riserbo
della Provincia ed il diritto di informazione del privato,
cui il Comune, in possesso di copia informale dei documenti,
abbia consentito l’accesso, per approfondire lo stato di
alcune aree di frana. La Commissione osserva che, nel caso di specie, è richiamata
impropriamente la normativa generale dei casi di esclusione
dell’accesso ex art. 24 legge n. 241/1990, dovendosi invece
considerare operante la disciplina decisamente più
favorevole dettata dal d.lgs. n. 152/2006, che detta norme
in materia ambientale. Infatti, è indubbio che in base alla citata normativa, i
piani di bacino costituiscano lo strumento fondamentale di
pianificazione in materia di difesa del suolo e delle acque
e che, come tali, rientrino nella materia tutela
dell'ambiente. Pertanto, va garantito l’accesso alla cd. “informazione
ambientale“ alla stregua dell’art. 3-sexies del d.lgs.
cit. che, risolvendo anche l’eventuale contrasto tra diritto
di accesso e riservatezza (cfr art. 9 d.lgs. n. 152/2006),
afferma un principio di accessibilità generale ed
indifferenziata in base al quale le autorità pubbliche sono
tenute a rendere disponibili le informazioni relative allo
stato dell’ambiente e del paesaggio a chiunque ne faccia
richiesta, senza che questi debba dimostrare il proprio
interesse. Sulla base dei principi esposti, qualora l’informazione
richiesta attenga allo stato dell’ambiente (aria, suolo,
territorio, siti naturali ecc.), nonché ai fattori
(sostanze, energia, rumore, radiazioni, emissioni ecc.) che
possono incidere sull'ambiente, l’amministrazione
interpellata dovrà ammettere l'accesso anche agli studi
interni alla pianificazione di bacino (pur se formati o
detenuti da altra amministrazione)
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 24.07.2012 - link a
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CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Richiesta di parere circa il diritto d'accesso del
consigliere comunale alla documentazione attinente a
procedimenti disciplinari dei dipendenti comunali. A fronte della istanza presentata da un consigliere comunale
per ottenere copia del provvedimento di sospensione
cautelare dal servizio riguardante un dipendente comunale,
investito da un procedimento disciplinare (ancora in corso)
avviato in esito ad un procedimento penale promosso nei suoi
confronti, il Comune ha dubitato della legittimazione
all’accesso del consigliere, trattandosi di documenti
coperti da segreto istruttorio ex art. 329 cpp e comunque
riservati. Tanto premesso, ha chiesto a questa Commissione se il
consigliere comunale abbia diritto di accesso al citato
provvedimento e, in caso positivo, se debba essere inviata
comunicazione preventiva al controinteressato, se debbano
essere oscurati i riferimenti alle fattispecie del codice
penale e se possano essere rilasciati gli atti presupposti,
e richiamati, nel provvedimento, tra cui anche i verbali del
procedimento disciplinare e gli atti del procedimento penale
in corso. La Commissione ritiene che eventuali “restrizioni” al
diritto di accesso del consigliere comunale, anche se
interessato a conoscere atti cd riservati o segreti, non
siano conformi alla disciplina ex art. 43 del TUEL che
riconosce ampia legittimazione al consigliere comunale,
tenuto peraltro al rispetto del segreto d’ufficio (arg ex
Cons. St., sez. V, 08.09.2011, n. 5053). Ne consegue che il consigliere comunale ha diritto ad
accedere alla documentazione in esame, senza che possano
essere opposti oscuramenti o altri ostacoli di sorta, come
la notifica ai contro interessati che risulta incompatibile
con l’ampia prerogativa consiliare
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 03.07.2012 - link a
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CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Richiesta di parere in merito al diritto di
accesso del consigliere comunale agli atti dell’organo
straordinario di liquidazione. L’Organo in indirizzo sostiene che i consiglieri comunali
non abbiano facoltà di avvalersi della prerogativa di cui
all’art. 43 TUEL per l’accesso agli atti dello stesso Organo
in quanto -esercitando attività “straordinaria”- non
rientra nell’ambito dell’ordinaria attività istituzionale,
cui invece è funzionale il diritto di accesso riconosciuto
al consigliere. Chiede pertanto a questa Commissione un
parere al riguardo e, nel contempo, se debba essere
pubblicato il contenuto dei provvedimenti di liquidazione
delle competenze al personale, interno ed esterno all’ente
locale, anche con riguardo all’entità dei compensi
corrisposti. Circa il primo quesito, l’orientamento di questa Commissione
(cfr. plenum 25.05.2010) è nel senso che l’ampia
legittimazione all’accesso del consigliere comunale è
correlata all’attività istituzionale dell’ente locale.
Invece, l’attività gestita dall’organo di liquidazione, che
nasce dalla dichiarazione di dissesto finanziario dell’ente
locale, è un’attività straordinaria che non appartiene più
agli organi di governo dell’ente locale. Per tale motivo, il
consigliere comunale non può esercitare le prerogative ex
art. 43 del TUEL né comunque può accedere agli atti ai sensi
dell’art. 10 dello stesso TUEL che presuppone l’esercizio
del diritto di accesso nei confronti di atti espressione
dell’ordinaria attività amministrativa dell’ente locale.
Semmai, l’accesso agli atti della Commissione Straordinaria
di liquidazione potrà essere riconosciuto al ricorrere dei
presupposti di cui agli artt. 22 e ss della legge n.
241/1990. In merito al secondo quesito, la Commissione rammenta che,
ai sensi dell’art. 11, co. 1, del d.lgs. n. 150/2009, la
trasparenza amministrativa è intesa come “…accessibilità
totale delle informazioni concernenti ogni aspetto
dell'organizzazione e dell'utilizzo delle risorse per il
perseguimento delle funzioni istituzionali. In tale ottica,
“ogni amministrazione provvede altresì alla
contabilizzazione dei costi e all'evidenziazione dei costi
effettivi e di quelli imputati al personale per ogni
servizio erogato, nonché al monitoraggio del loro andamento
nel tempo, pubblicando i relativi dati sui propri siti
istituzionali” (art. 11, comma 4); ha, peraltro,
l'obbligo di pubblicare sul proprio sito istituzionale le
retribuzioni dei dirigenti, con specifica evidenza sulle
componenti variabili della retribuzione e sulle componenti
legate alla retribuzione di risultato nonché le retribuzioni
di coloro che rivestono incarichi di indirizzo politico
amministrativo (articolo 11, comma 8, lettere g) e h), del
d.lgs. n. 150 del 2009). In tal senso è il su esteso parere
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 03.07.2012 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Richiesta di parere in merito al diritto di accesso da parte
di un’impresa ai documenti contabili presentati da
candidati-sindaco per spese di propaganda elettorale. Un’impresa ha chiesto al Comune istante di avere copia della
dichiarazione preventiva e del rendiconto delle spese,
previste per la campagna elettorale dei candidati sindaco ai
sensi dell’art. 30, co. 2, legge n. 81/1993, al fine di
difendersi in un contenzioso in corso con un
candidato-sindaco per il pagamento dei corrispettivi dei
manifesti elettorali. L’ente civico ha negato l’accesso
sostenendo che i citati documenti, oltre ad essere scaduto
il termine di pubblicazione sull’albo pretorio (in
concomitanza con il procedimento elettorale), non
costituirebbero documenti formati dalla p.a. provenendo da
privati e non conterrebbero alcun riferimento a rapporti
contrattuali intavolati dai candidati sindaco con terze
imprese. La Commissione osserva che il diniego di accesso appare del
tutto illegittimo. Anzitutto -contrariamente a quanto affermato
dall’amministrazione istante- anche il bilancio preventivo e
il successivo rendiconto delle spese di pubblicità
elettorale presentati dal candidato sindaco (ai sensi
dell’art. 30, co. 2, legge n. 81/1993) rientrano
oggettivamente nella nozione di documento amministrativo.
Infatti, per documento deve intendersi ogni rappresentazione
grafica o di qualunque altra specie del contenuto di atti,
anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento,
detenuti da una pubblica amministrazione, indipendentemente
dalla natura pubblicistica o privatistica della loro
disciplina sostanziale. In tale senso è la definizione
contenuta nell’art. 22 della legge 241/1990, applicabile
alla fattispecie in quanto si tratta pacificamente di
accesso di impresa non avente sede nel Comune. Inoltre, nel caso di specie non può negarsi l’interesse
diretto, concreto ed attuale dell’istante a conoscere
elementi inerenti il rapporto patrimoniale controverso con
il candidato sindaco, come confermato anche dalla
sussistenza di una vertenza giudiziale relativa al pagamento
dei corrispettivi dei manifesti elettorali. Né comunque
l’ente comunale ha il potere di sindacare l’utilità o il
nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di accesso
e il manifestato diritto di cura e difesa dei propri
interessi. Infine, devono ritenersi soggetti all’accesso i documenti
anche quando gli stessi siano stati già portati a conoscenza
degli interessati mediante pubblicazione sull’albo pretorio
(arg. ex TAR Marche, 20.11.1997, n. 1181)
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 03.07.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Richiesta di parere in tema di accesso dei consiglieri
comunali. L’istante chiede di sapere se un consigliere comunale possa
accedere ad una concessione demaniale; se le copie
rilasciate debbano essere identificate da attestazioni o
sigle dell’ufficio; se il consigliere debba presentare
istanza; se si possa accedere all’istanza presentata dal
consigliere comunale per curare i propri interessi. La Commissione osserva che ai sensi dell’art. 43 TUEL il
consigliere comunale ha diritto di ottenere qualsiasi
informazione ritenuta utile all'espletamento del mandato
elettivo; che è rimessa alla libera valutazione del comune
la scelta di voler identificare e contraddistinguere le
copie dei documenti rilasciate ai consiglieri comunali; che
il diritto di accesso può essere esercitato sia formalmente
sia in via informale mediante richiesta, anche verbale
all’amministrazione; che è in astratto possibile fare
richiesta di accesso all’istanza del consigliere comunale
per tutelare i propri interessi
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 14.06.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Richiesta di parere sull’accessibilità da parte di
consiglieri comunali di atti interni. Il Comune istante chiede a questa Commissione se un
consigliere comunale possa accedere anche ad un “atto
interno” -inviato da un dipendente del servizio finanziario
al responsabile del servizio e al competente assessore e
contenente osservazioni relative al patto di stabilità-
tenendo conto della classifica a protocollo come “riservato
o personale”. La Commissione richiama l’orientamento consolidato della
giurisprudenza amministrativa che riconosce pacificamente la
conoscibilità di tali atti, ove non rimangano relegati nella
sfera interna e privata dell'autorità che li elabora, ai
sensi dell’art. 22, co. 1, lett. d), della legge n. 241/1990
che annovera tra i documenti accessibili anche gli atti
interni (relativi o meno ad uno specifico procedimento). Né
rileva in senso contrario il fatto che l’atto richiesto
contenga dati riservati poiché ai sensi dell'art. 43, comma
2, TUEL ai consiglieri comunali è imposto l'obbligo di non
divulgare il contenuto delle informazioni e degli atti
(segreti o riservati) ai quali ha avuto accesso, incorrendo
in caso negativo in responsabilità personale, ma nessun
documento o atto può essere loro sottratto in ragione della
sua eventuale segretezza o riservatezza
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 14.06.2012 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Richiesta di parere in tema di accesso ai documenti
amministrativi mediante P.E.C. L’Arma dei Carabinieri ha chiesto a questa Commissione di
conoscere: a. se sussista “l’obbligo” dell’amministrazione,
nell’esercizio del diritto di accesso da parte dei
cittadini, di trasmettere i documenti d’interesse
avvalendosi della posta elettronica certificata (cd P.E.C.)
ovvero se sia possibile avvalersi delle più usuali modalità
cartacee; b. quali siano i criteri di quantificazione dei diritti di
ricerca e visura per la trasmissione di documenti
informatici. Circa il primo quesito, la Commissione ritiene che in base
al quadro normativo vigente l’accesso telematico “deve”
essere consentito, ove richiesto, nei rapporti con il
cittadino e soprattutto per corrispondere alle richieste di
accesso dei documenti amministrativi. Infatti, in base all'art. 13, comma 1, d.P.R. n. 184/2006
(disposizione che rinvia all’art. 38 del d.P.R. n. 445/2000)
“le pubbliche amministrazioni assicurano che il diritto
d'accesso possa essere esercitato anche in via telematica”.
Inoltre, il d.lgs. n. 82/2005 “codice dell’amministrazione
digitale” sancisce in favore dei cittadini, oltre al diritto
di chiedere ed ottenere l’accesso ai documenti con l'uso
delle tecnologie telematiche (art. 3 e 4), il diritto
all’utilizzo della PEC per ogni scambio di documenti ed
informazioni (art. 6). Infine, l’art. 3-bis della L. 241/1990
(introdotto dalla legge n. 15/2005) ha previsto che, per
conseguire maggiore efficienza nelle loro attività, le p.a.
incentivano l’uso della telematica. Con riguardo al caso in esame, è evidente, anche alla luce
del generale dovere della p.a. di inspirare la propria
attività al principio di buon andamento ex art. 97 Cost., che
la formazione e l’invio di copie digitali (anziché cartacee)
degli atti amministrativi consente non solo di risparmiare
denaro pubblico (pur a fronte dell'iniziale investimento per
le acquisizioni sia dell'hardware che del software), ma
anche minori tempi di lavorazione delle richieste di
accesso, con più conveniente utilizzazione del personale
preposto alle relative incombenze. Sul secondo quesito, la Commissione ritiene di dover
confermare l’orientamento già espresso (cfr parere plenum
del 13.09.2011) per cui l’importo dei costi
concernenti i diritti di ricerca e visura, anche
relativamente ai documenti da rilasciare in via telematica
(a mezzo pec), non può essere predeterminato a livello
generale, ma deve costituire oggetto di responsabile
valutazione da parte di ogni singola amministrazione
nell’esercizio dei poteri organizzatori previsti dall’art. 8,
lett. c, d.P.R. n. 184/2006, in modo da essere equo e non
esoso, in quanto la richiesta di un importo elevato
costituisce un limite all'esercizio del diritto di accesso
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 14.06.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Parere sulla legittimità dei costi di riproduzione dei
documenti richiesti. L’istante -che a seguito di parere espresso da questa
Commissione ha ricevuto conferma dal Comune di Celenza sul
Trigno del diritto di accesso alla documentazione richiesta- si lamenta del fatto che l’amministrazione comunale abbia
richiesto il versamento della somma di euro 784,00, a titolo
di costi di riproduzione sostenuti, in quanto a suo dire
l’accesso dovrebbe essere gratuito, trattandosi di documenti
da produrre in una causa di lavoro (per mobbing). Questa Commissione ha già sostenuto in altra occasione (vedi
plenum del 20.09.2010) che la regola della gratuità
degli atti inerenti alle controversie di lavoro pubblico e
privato (prevista dall’art. 10 della legge n. 533/1973)
incontra il limite specifico nell’onere di rimborso del
costo di riproduzione dei documenti richiesti ex art. 25
della legge n. 241/1990 sia perché la citata esenzione è
riferibile alle spese ricollegabili alla fruizione del
servizio giustizia, ma non anche a procedimenti di diversa
natura e finalità, come nella specie, quello di accesso a
documenti amministrativi sia perché non pare che la citata
esenzione, attesa la sua natura eccezionale, sia
suscettibile di interpretazione analogica ad atti non
giudiziari. Ne consegue la apparente legittimità della
richiesta di rimborso da parte della p.a.
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 14.06.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Richiesta parere in ordine al diritto di accesso da parte
degli “eredi” alla documentazione medica del de cuius. L’istante, nell’interesse del proprio padre –di cui
asserisce la qualità di coerede legittimo di una zia–
chiede il parere su una richiesta di accesso, in esito alla
quale la ASL 2 di Milano avrebbe risposto (presumibilmente in via informale),
differendone l’accoglimento dopo l’instaurazione di
giudizio. La richiesta attiene all’acquisizione di documentazione
medica (cartelle cliniche, relazione), formata dall’Azienda
sanitaria in occasione della concessione della pensione di
invalidità alla de cuius, al fine di verificare lo stato di
infermità mentale della parente in vista dell’impugnativa
giudiziale del testamento olografo. Tanto premesso, questa Commissione ritiene che, qualora
l’avente causa fornisca la prova della sua qualità di erede
legittimo, sussistano tutti gli elementi per l’accoglimento
dell’istanza di accesso in suo favore, in quanto titolare di
un interesse diretto, attuale e concreto ad ottenere la
documentazione medica della de cuius al fine di curare e
difendere i propri interessi nell’instaurando giudizio
civile. Del resto, il diritto di accesso non può essere intaccato o
subordinato all’effettiva utilità “in
giudizio” dei documenti richiesti, non potendo
l’amministrazione ingerirsi nelle strategie difensive della
parte né comunque anticipare una valutazione sulla rilevanza
della documentazione richiesta nel giudizio di merito che
spetta esclusivamente al giudice (Consiglio di Stato n.
741/2009)
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 29.05.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Modalità di tutela del cittadino in caso di inottemperanza
da parte della PA a decisioni rese dalla Commissione per
l’accesso. L’istante, a seguito di favorevoli decisioni rese da questa
Commissione, rappresenta che aveva richiesto al Console
Generale d’Italia a Toronto di poter accedere ad alcuni atti
di interesse. Precisa che, contrariamente a quanto sostenuto
dal Consolato (nella nota prot. n. 5113 del 13.04.2012),
l’amministrazione non avrebbe ottemperato alle predette
pronunce, così perpetuando l’atteggiamento ostruzionistico
all’accesso. Ha chiesto pertanto a questa Commissione di
esprimere un parere in merito alla vicenda. In caso di perdurante ritardo dell’amministrazione nel
concedere l’accesso, pur dopo una decisione favorevole al
cittadino in sede di ricorso, la Commissione -nell’esercizio della propria attività consultiva o
giustiziale- non può obbligare l’amministrazione,
difettando in capo alla prima poteri ordinatori nei
confronti della p.a. (ex art. 25 legge n. 241/1990), fatta
salva l’eventuale possibilità del cittadino di adire il
competente Giudice amministrativo, dotato di poteri
coercitivi per dare attuazione concreta al diritto di
accesso
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 29.05.2012 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Richiesta di parere in ordine alla competenza del Difensore
Civico regionale. L’istante ha chiesto a questa Commissione di esprimere
parere in merito alla competenza del difensore civico
regionale sulle determinazioni negative inerenti il diritto
di accesso dei consiglieri comunali e provinciali, non
essendo chiaro se debba applicarsi l’art. 25 della legge n.
241/1990 (che attribuisce una competenza ripartita tra
Commissione per l’accesso e difensore civico) ovvero l’art.
43 TUEL (che -a dire dell’istante- implicherebbe la
competenza del Tar o della Commissione per l’accesso). La Commissione osserva che dal combinato disposto degli
articoli 25, comma 4, legge n. 241/1990 e 12 d.P.R. n.
184/2006 si evince -sul piano procedurale- come la
Commissione sia competente a decidere sui ricorsi avverso i
dinieghi, espressi o taciti, o i differimenti di accesso, a
condizione, però, che l’amministrazione decidente partecipi
delle caratteristiche proprie di quelle centrali e
periferiche dello Stato. Qualora, viceversa, si tratti di
impugnare un provvedimento emanato da un’amministrazione
locale, il ricorso, ai sensi del citato art. 25, dovrà
essere indirizzato al Difensore Civico competente per ambito
territoriale. In tale chiarissimo contesto normativo, non hanno quindi
alcun pregio giuridico i dubbi manifestati dall’istante,
poiché la disposizione dell’art. 43 TUEL (che attribuisce la
prerogativa dell’accesso ai consiglieri comunali) è norma di
diritto sostanziale che non incide sull’ambito di
applicazione delle citate disposizioni in tema di competenza
a decidere sulle determinazioni negative dell’accesso
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 29.05.2012 - link a
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CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Richiesta di parere sul diritto del consigliere comunale di
accedere agli atti istituzionali mediante uso delle
tecnologie informatiche. Il responsabile dell’URP del Comune di Vittoria si preoccupa
che la richiesta di accesso pervenuta da due consiglieri
comunali (appartenenti tra l’altro al medesimo gruppo
consiliare) relativa ad un ingente mole di documenti
concernenti, in particolare, i progetti delle installazioni
fotovoltaiche, possa “paralizzare” lo svolgimento
dell’attività dell’Ufficio copie, comportando anche elevati
costi. Chiede, pertanto, a questa Commissione il parere se
l’ente possa “….opporsi temporaneamente alla riproduzione e
alla consegna interrompendo i termini delle richieste,
richiedendo nel contempo alle ditte che hanno presentato i
progetti di rinviare il tutto in formato digitale e,
consegnare ai consiglieri i files dei progetti
evitando….spreco di tempo e denaro“. La Commissione ha già avuto modo di affermare che: 1) l’esercizio dell’incondizionato diritto dei consiglieri
comunali riconosciuto dall’art. 43 TUEL deve essere
concordato con l’amministrazione comunale, allorché il
contenuto complesso dei documenti richiesti renda gravoso il
suo adempimento pregiudicando il regolare espletamento
dell’ordinaria attività amministrativa dell’Ente o comporti
anche spese di copia che potrebbero essere evitate (cfr.
plenum del 22.02.2011); 2) il ricorso a supporti magnetici è uno strumento di
accesso certamente consentito al consigliere comunale che
consente non solo di risparmiare denaro pubblico (pur a
fronte dell'iniziale investimento per le acquisizioni sia
dell'hardware che del software), ma anche minori tempi di
lavorazione delle richieste di accesso, con più conveniente
utilizzazione del personale preposto alle relative
incombenze (cfr plenum del 10.01.2011). Alla luce di tali principi, la soluzione prospettata dal
Comune pare corretta, fermo restando che l’accesso non potrà
essere differito sine die o sino al momento in cui l’ente
abbia ottenuto i files dei progetti da parte delle ditte
presentatrici senza consentire, nelle more dell’adeguamento,
che i consiglieri comunali possano visionare i progetti,
acquisendo tutte le informazioni che, ai sensi dell’art. 43
del T.U. n. 267/2000 hanno diritto di conoscere
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 29.05.2012 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO:
Procedimento disciplinare –Accesso agli atti.
Quantificazione dei costi di riproduzione. Il Ministero della Giustizia –Dipartimento della Giustizia
minorile – Direzione Generale del Personale e della
Formazione– Risorse umane ha inoltrato a questa Commissione
richiesta di parere, concernente il rimborso delle spese di
riproduzione e di imposta bollo per il rilascio di copie di
atti a dipendente,che eserciti il diritto di accesso,
sancito dall’art. 55-bis n. 5 del d.lgs. n. 165/2001, nel
corso del procedimento disciplinare cui è sottoposto. In particolare, l’Amministrazione istante ha rappresentato
che il preventivo pagamento degli oneri di riproduzione è
stato chiesto secondo quanto previsto dalla circolare del
Ministero della Giustizia emessa - vista la legge 07.08.1990 n. 241 e s.m.i.- in data 8 marzo 2006 (pubblicata sulla
G.U. 12.04.2006 n. 86), che non prevede in tale
fattispecie esenzioni nell’ipotesi di rilascio di copie
documentali. Va premesso che la legge n. 241/1990 –norma di rango primario
rispetto alle disposizioni regolamentari- nel riconoscere a
chiunque vi abbia interesse il diritto di accesso ai
documenti amministrativi, ha indicato sinteticamente i
concreti modi per l’esame e l’estrazione di copia della
documentazione, stabilendo che il rilascio di copia dei
documenti è subordinato soltanto al rimborso del costo di
riproduzione, salve le disposizioni in materia di bollo,
nonché i diritti di ricerca e visura ove espressamente
previsti. In conformità a tale previsione legislativa, il d.p.r. 12.04.2006, n. 184, all’art. 7, c. 6, stabilisce che “...in
ogni caso, la copia dei documenti è rilasciata
subordinatamente al pagamento degli importi dovuti ai sensi
dell’art. 25 della legge, secondo le modalità determinate
dalle singole Amministrazioni. Su richiesta
dell’interessato, le copie possono essere autenticate”. Conseguentemente, a ciascuna Amministrazione è stato
demandato, in attuazione degli artt. 5 e 6 del D.P.R. n.
352/92 di fissare l’importo dovuto per i relativi costi di
riproduzione per ciascuna copia degli atti richiesti con
criteri di uniformità e di praticità. Peraltro, la lettera e la
ratio delle disposizioni in
materia di accesso ai documenti amministrativi contenute
nelle leggi 241/1990 e 142/1990 escludono che sia dovuta
l’imposta di bollo tanto sulla richiesta di accesso quanto
sulla copia informe eventualmente rilasciata, ferma
restando, invece, l’assoggettabilità a bollo, ove prevista
“ex lege”, della copia autenticata, eventualmente richiesta. Tanto premesso, per quanto riguarda l’assoggettabilità a
bollo nel caso specifico, nell’ipotesi di rilascio a
richiesta di copie conformi, trova applicazione la Tabella –
Allegato B - di cui al D.P.R. n. 642/1972 (così come
modificata dal D.P.R. n. 955/1982 e s.m.i.) che all’art. 3
individua tra gli atti, documenti e registri esenti in modo
assoluto dall’imposta stessa gli atti, documenti e
provvedimenti dei procedimenti in materia disciplinare, pure
escludendo taluni atti di cui all’art.21, Tariffa – Allegato
A – Parte I^ del predetto D.P.R. n. 642/1972, aggiornato al
28.12.2007 con la finanziaria 2008. Pertanto, le suesposte disposizioni normative di rango
primario prevalgono su eventuali, difformi disposizioni
regolamentari
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta dell'11.05.2012 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO:
Richiesta parere sull’accesso a documenti amministrativi
utili alla difesa in un giudizio in corso. L’istante, ex responsabile dell’U.T.C. del Comune di Celenza
sul Trigno, ha domandato al predetto Comune di accedere ad
una serie di documenti inerenti il rapporto di lavoro, ormai
cessato per collocamento in quiescenza del dipendente, al
fine di difendersi in alcuni procedimenti giudiziari (di cui
uno civile, intentato contro l’amministrazione locale
innanzi al Giudice del Lavoro per demansionamento ed altro
penale, intentato nei suoi confronti dal Sindaco e
conclusosi con un proscioglimento). A fronte di tale richiesta, il Comune, oltre a precisare che
una parte dei documenti di interesse era già in possesso
dell’istante (come emergente dallo stesso indice atti e
documenti prodotti nel giudizio in corso presso il giudice
del lavoro), si è opposto al rilascio della restante parte
difettando un collegamento funzionale tra i documenti
richiesti ed il giudizio pendente. Tanto premesso, il geometra istante ha chiesto a questa
Commissione il parere circa l’obbligo del Comune di
rilasciare la documentazione richiesta. Quanto alla prima parte di documenti, si osserva che se
effettivamente una parte dei documenti risulta già
consegnata all’istante, come emerge da quanto riferito
dall’amministrazione, pare legittimo il diniego del Comune,
attesa la avvenuta soddisfazione dell’interesse all’accesso. Quanto alla restante parte degli atti, il diniego opposto
dall’amministrazione locale, a motivo della carenza di un
nesso causale tra documenti richiesti e giudizio in corso,
pare illegittimo. Infatti -oltre a sussistere un evidente interesse personale
e concreto del dipendente pubblico che, seppur in
quiescenza, intende accedere ai documenti amministrativi
inerenti il rapporto di lavoro cessato al fine di difendere
i propri interessi giuridici nel corso dei procedimenti
giudiziari pendenti- il diritto di accesso non può essere
intaccato o subordinato all’effettiva utilità “in giudizio”
dei documenti richiesti, non potendo l’amministrazione
ingerirsi nelle strategie difensive della parte né comunque
anticipare una valutazione sulla rilevanza della
documentazione richiesta nel giudizio di merito che spetta
esclusivamente al giudice (Consiglio di Stato n. 741/2009)
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta dell'11.05.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
APPALTI SERVIZI: OGGETTO:
Richiesta di parere sul diritto di accesso agli atti di una
gara d’appalto per l’affidamento di servizi sociali. L’unione di comuni in indirizzo ha rappresentato che una
cooperativa, classificatasi al terzo posto della graduatoria
di gara ad evidenza pubblica indetta per l'affidamento di
servizi sociali, aveva chiesto l’accesso agli atti relativi
all’offerta tecnica presentata dalle imprese concorrenti,
classificatesi al primo e secondo posto. L’amministrazione,
pur avendo differito l’accesso sino alla approvazione
dell’aggiudicazione, ha avanzato alcuni dubbi sulla
accoglibilità dell’istanza sia per l’opposizione della
seconda classificata, che intendeva tutelare la propria
“formula commerciale”, sia per l’impossibilità di
identificare, ai fini dell’eventuale oscuramento, le parti
dell’offerta tecnica che costituiscono segreto tecnico e
commerciale. Tanto esposto, l’ente istante ha chiesto a questa
Commissione, anche al fine di orientare la propria condotta
nelle future procedure di gara, se e in quali limiti
l’opposizione della controinteressata possa ritenersi
giustificata e se possano ravvisarsi segreti tecnico
commerciali anche in servizi “di natura intellettuale”. Ricorda la Commissione che, nel caso in esame, si
confrontano due opposte esigenze da contemperare. Da un
lato, infatti, vi è la doverosa garanzia di tutela dei
segreti tecnici e commerciali che esclude il diritto di
accesso e ogni forma di divulgazione con riferimento "alle
informazioni fornite dagli offerenti nell'ambito delle
offerte o a giustificazione delle medesime, che
costituiscano, secondo motivata e comprovata motivazione
dell'offerente, segreti tecnici o commerciali" (art 13, co.
5, d.lgs. n. 163/06). Dall’altro, vi è la tutela della
difesa in giudizio collegata alla massima trasparenza
dell'attività amministrativa, come indicato dal successivo
comma 6 dello stesso articolo. Così se è noto che "anche a fronte di documentazione
suscettibile di rivelare il know how industriale e
commerciale, deve essere in ogni caso garantito l'accesso se
e nella misura in cui la sua acquisizione sia utile per la
difesa dei propri interessi" (Consiglio di Stato, sezione
sesta, 01/02/2010 n. 524), va escluso tale accesso ove
l'impresa non abbia dimostrato la concreta necessità di
utilizzare tale documentazione in uno specifico giudizio
(Tar Lazio, sezione prima, 25.01.2010 n. 25). E
tuttavia deve essere ricordata ulteriore giurisprudenza
secondo la quale "l'art 13 d.lgs. n. 163/2006 costituisce una
ipotesi speciale di deroga, da applicare esclusivamente nei
casi in cui l'accesso sia inibito in ragione della tutela
dei segreti tecnici o commerciali motivatamente evidenziati
dall'offerente in sede di offerta" (Tar Puglia, sezione
prima, 27.05.2010, n. 2066). Pertanto, spetta alla p.a. valutare caso per caso, da un
lato, se la controinteressata abbia dichiarato la
sussistenza di esigenze di tutela del segreto tecnico o
commerciale e se l'offerta della ditta aggiudicataria
contenga davvero segreti tecnici e/o commerciali; dall’altro
se sussista l'effettiva necessità di utilizzare il chiesto
documento in uno specifico giudizio, potendosi concedere
l'accesso soltanto se effettivamente finalizzato ad esigenza
di tutela giurisdizionale. Nella specie, appare congrua la opposizione all’accesso
addotta dalla seconda classificata in quanto puntualmente
esplicitata con la tutela dei segreti tecnici e commerciali
contenuti nell’offerta nella quale la ditta specifica di
avere consolidato per la prestazione dei servizi oggetto
d’appalto una serie di conoscenze pratiche definite da anni
di esperienza e capacità organizzative “in grado di
determinare un elemento migliorativo nella qualità dei
propri servizi”. D’altra parte non essendo stato allegato
dal richiedente alcuna necessità di utilizzo del documento
in sede giurisdizionale, l’accesso pare possa essere negato
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 17.04.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Richiesta parere in merito all’accesso a documentazione
amministrativa (pareri legali, esposti). L’istante lamenta che il Comune di Savona avrebbe negato, in
varie forme, l’accesso ad alcuni documenti, in particolare: a) oscurando i nominativi degli autori di esposti rivolti
dai vicini nei suoi confronti, quale proprietario di una
strada oggetto di lavori di scavo; b) rifiutando l’accesso alle memorie difensive prodotte
dall’ente locale nell’ambito di un contenzioso in atto; c) negando l’accesso ad una relazione redatta dalla Polizia
locale, atto poi rinvenuto presso altra amministrazione; d) negando la visione preventiva di un fascicolo
procedimentale che lo riguardava; e) omettendo la consegna di alcuni verbali nel corso di un
procedimento di esproprio sino a violare i termini di
conclusione del procedimento. Tanto premesso, chiedeva a questa Commissione un parere
sulla legittimità delle determinazioni assunte dall’ente
locale. Quanto al punto sub a), la commissione osserva che, secondo
il costante orientamento seguito, deve essere reso
accessibile il nome di coloro che hanno reso segnalazioni,
denunce o rapporti informativi nell'ambito di un
procedimento ispettivo, non potendo essere invocato in tali
casi il diritto alla riservatezza che recede quando venga in
rilievo l’accesso per le necessità di cura e difesa degli
interessi giuridici del richiedente ai sensi dell’art. 24,
co. 7, legge n. 241/1990, salvo i casi di dati sensibili o
supersensibili (arg. ex CdS Sez. V, 27.5.2008 n. 2511; vedi
anche TAR Lombardia-Brescia, Sez. I 29.10.2008 n. 1469). Quanto al punto sub b), si segnala che nell'ambito dei
segreti sottratti all'accesso ai documenti rientrano gli
atti redatti dai legali e dai professionisti in relazione a
specifici rapporti di consulenza con l'Amministrazione,
trattandosi di un segreto che gode di una tutela
qualificata, dimostrata dalla specifica previsione degli
articoli 622 codice penale e 200 codice di procedura penale
(arg. ex CdS Sez. VI, 30.09.2010, n. 7237). Quanto al punto sub c), è assorbente il rilievo che il
documento è stato rinvenuto e dunque l’interesse all’accesso
risulta soddisfatto. Quanto al punto sub d), pur non parendo sussistere riscontri
certi del lamentato rifiuto dell’amministrazione di far
visionare il fascicolo, si ribadisce che il soggetto
partecipante al procedimento amministrativo -diversamente
da quello estraneo ad esso- null'altro deve dimostrare per
legittimare il diritto di visionare ed ottenere copia dei
documenti di interesse se non la veste di parte dello stesso
procedimento (cfr.: Consiglio di Stato, VI Sezione, 13.04.2006 n. 2068). Infine, i punti sub e) e f) ineriscono a questioni del tutto
estranee alla materia dell’accesso e dunque questa
Commissione si ritiene incompetente a pronunciarsi su di
essi
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 17.04.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Richiesta parere in merito all’accesso dei consiglieri
comunali a perizia di stima di una farmacia. L’ente civico chiede se, una volta consentita ad un
consigliere la sola visione della perizia di stima della
farmacia comunale nell’ambito della procedura di
aggiudicazione avviata, sia lesivo o meno delle prerogative
del consigliere negare l’estrazione di copia della perizia,
tenuto conto che il Sindaco ha differito l’accesso alla
perizia fino alla pubblicazione dell’avviso d’asta. La Commissione rammenta che nel diritto di accesso del
consigliere deve ricomprendersi sia la visione sia il
rilascio di copia del documento (attesa anche l'abrogazione
dell'art. 24, co. 2, lett. d), nella formulazione originaria
della l. n. 241 del 1990, che fa ritenere superata ogni
possibilità di distinguere tra le due indicate modalità di
accesso). Peraltro, nessuna limitazione può derivare
all'istituto dell'accesso del consigliere comunale
dall'eventuale natura segreta o riservata delle informazioni
richieste, essendo il consigliere stesso vincolato al
segreto d'ufficio (arg. ex CdS Sez. V, 29.08.2011, n. 4829). Alla luce di quanto sopra, la Commissione non ritiene
ravvisabili giusti motivi per negare al consigliere
l’estrazione di copia del documento, fermo restando il
rispetto del segreto e le eventuali responsabilità esistenti
in capo al consigliere
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 17.04.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Richiesta di parere in merito al diritto di accesso dei
consiglieri comunali ai tabulati telefonici. In seguito ad un’annosa vertenza, tuttora non risolta, in
corso tra consiglieri comunali di opposizione e sindaco del
Comune di Poggio Sannita relativamente all’accesso ai
tabulati telefonici degli uffici comunali, questa
Commissione si era già pronunciata per ben due volte (cfr
pareri plenum del 14.12.2010 e del 06.04.2011), affermando -in
particolare- che il Sindaco era tenuto a consentire ai
consiglieri comunali l’accesso ai citati tabulati sempre che
fossero in possesso dell’ente, circostanza di cui non v’era
alcun riscontro certo negli atti. Recentemente, con la nota del 29 febbraio u.s., il
consigliere istante ha segnalato che il Sindaco -diversamente da quanto riferito in precedenza- aveva
ammesso di essere in possesso dei tabulati telefonici
richiesti ma di non poterli mostrare ai consiglieri sino al
pronunciamento del garante della privacy e della locale
Prefettura, interpellati sulla vicenda. Tanto premesso, viene chiesto a questa Commissione di
riconsiderare il parere formulato lo scorso 06.04.2011
alla luce dell’emersione di nuove circostanze di fatto. In effetti, dalla nota sindacale del 05.10.2011 risulta che
il Sindaco sia in possesso di non meglio precisati tabulati
telefonici, trasmessi all’ente locale dal gestore del
servizio telefonico pur in assenza di una esplicita
richiesta del Sindaco. Rebus sic stantibus, la Commissione -ribadendo l’ampio
diritto dei consiglieri comunali di ottenere dagli Uffici
comunali tutte le notizie e informazioni in loro possesso ex
art. 43 Tuel- invita l’amministrazione a rendere
accessibili i tabulati di cui effettivamente risulti a
disposizione, ponendo fine a tale annosa controversia. In difetto, la Commissione valuterà eventuali segnalazioni
del comportamento dell’amministrazione locale in sede di
redazione dell’annuale rapporto ex art. 27 legge n.
241/1990
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 17.04.2012 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Accessibilità tesi di laurea. Il sig. ... dell’Archivio generale
dell’Università di Pisa chiede, in sostanza, se le tesi di
laurea possano essere considerate documenti amministrativi
e, in caso affermativo, se possano essere consultate prima
dei termini del passaggio nella sezione separata
dell’archivio storico. Al riguardo la Commissione osserva che ai sensi delle
disposizioni della legge n. 241 del 1990 le tesi di laurea,
in quanto detenute da una pubblica amministrazione
(università) devono essere considerate a tutti gli effetti
documenti amministrativi. Problema più complesso è quello relativo all’esercizio del
diritto di accesso alle tesi di laurea perché queste,
essendo opere originali dell’ingegno, sono tutelate dalla
legge sul diritto di autore e sugli altri diritti connessi
al suo esercizio (legge 22.04.1941, n.633). La tesi di laurea, invero, al pari di qualunque altra
espressione del lavoro intellettuale dell’autore, è
meritevole di tutela dal momento in cui viene creata e
riceve espressione in forma compiuta, e cioè dal momento in
cui lo studente laureando la deposita presso la segreteria
della facoltà di appartenenza che provvederà a catalogarla e
custodirla presso la biblioteca dell’università. Ne consegue
che la tesi di laurea non può essere consultata né tanto
meno utilizzata da eventuali soggetti interessati senza il
consenso del laureando/laureato, titolare dei relativi
diritti di autore morali e patrimoniali, che permangono in
capo all’autore medesimo anche se una copia del testo viene
ceduta alla Facoltà
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 27.03.2012 - link a
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CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Richiesta di parere inerente l’accesso di un consigliere
regionale ai dati di bilancio della Provincia. Il dr. ..., Direttore Generale della
Provincia di Avellino, espone che un Consigliere regionale
ha chiesto di poter visionare, eventualmente estraendone
copia, l’elenco dei residui attivi e passivi distinti per
anno di provenienza di cui al comma 5 dell’art. 227 del
d.lgs. 18.08.2000, n. 267, allegato al rendiconto della
gestione dell’anno 2010 dell’Amministrazione provinciale di
Avellino. La motivazione della richiesta è stata rappresentata in
ragione della qualità di Consigliere regionale del
richiedente, portatore di interessi pubblici o diffusi in
quanto rappresentante le comunità della Regione, ai sensi
del comma 4, lett. p, dell’art. 26 dello Statuto della
Regione Campania, secondo cui “il Consiglio vigila su tutti
i servizi regionali prestati sul territorio.” Ad avviso del
richiedente, pertanto, il suindicato elenco dei residui
attivi e passivi dovrebbe essere oggetto di ostensione in
ragione del fatto che lo stesso contiene informazioni
fondamentali per verificare la correttezza dell’operato di
una delle aziende di trasporto a capitale interamente
regionale. Tutto ciò premesso il Direttore della Provincia di Avellino
formula una richiesta di parere molto articolata, citando
anche la più recente giurisprudenza del giudice
amministrativo e di questa Commissione, al fine di conoscere
se l’istanza di accesso avanzata dal Consigliere regionale
possa trovare o meno accoglimento. Ad avviso della Commissione l’istanza di accesso agli atti
fatta dal Consigliere regionale, per come è stata formulata
e per le ragioni che la sorreggono, non è suscettibile di
una positiva definizione. Questa Commissione invero ha più volte avuto occasione di
affermare (cfr, ad es., parere 14.10.2003) che la
disciplina dettata dall’art. 43 del d.lgs. 18.08.2000, n.
267, che indubbiamente assicura ai Consiglieri comunali e
provinciali un diritto di accesso ai documenti
amministrativi dell’amministrazione di appartenenza dai
confini più ampi di quello riconosciuto agli altri soggetti,
nel senso che le istanze di accesso non devono neppure
essere motivate, non è applicabile ai Consiglieri regionali
tenuto conto che si tratta di una norma avente carattere
speciale come tale in suscettibile di altra interpretazione
che non sia quella strettamente letterale. Non giova d’altra parte al richiedente far leva sulla sua
qualità di Consigliere regionale, portatore quindi di
interessi pubblici o diffusi quale rappresentante della
comunità della Regione, tenuto conto che questa Commissione
ha più volte avuto occasione di affermare che la sfera di
legittimazione del soggetto interessato non può tradursi in
iniziative di preventivo e generalizzato controllo
dell’attività dell’Amministrazione, sulla base del chiaro
disposto dell’art. 24, terzo comma, della legge n. 241/1990,
nel testo novellato dall’art. 16 della legge n. 15/2005. Ne deriva che la domanda di accesso, ancorché applicata
nell’esercizio delle funzioni connesse alla qualità di
Consigliere regionale, non può non soggiacere al filtro
dell’esistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata che
trovi collegamento nel documento amministrativo che si vuole
conoscere. Va ancora sottolineato che nella fattispecie i dati
contabili richiesti, riferibili ad alcune aziende di
trasporto a capitale interamente regionale, comprese le voci
relative ai residui attivi e passivi, per espressa
affermazione della Provincia di Avellino sono stati
pubblicati con carattere permanente sul sito istituzionale
della provincia medesima e ciò equivale a realizzazione del
diritto di accesso (cfr. parere di questa Commissione 20.04.2004). Non va infine sottovalutata la circostanza che la Regione
Campania, ex lege, esercita una vigilanza ed un controllo
diretti sulle aziende di trasporto a capitale interamente
regionale e quindi ha sicuramente nella propria
disponibilità tutti i dati contabili richiesti. Alla luce delle considerazioni svolte ritiene la Commissione
che la richiesta di accesso agli atti, nei termini in cui è
stata formulata dal Consigliere regionale, non possa trovare
accoglimento
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 27.03.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
Accesso a concessione edilizia in presenza di opposizione
dei controinteressati. Il Comune di Canicattì espone di aver definito il
procedimento relativo alla realizzazione di un impianto
tecnologico a servizio della rete di connettività della
banda internet tramite tecnologia Hiperleu del gestore High
Tel S.p.A. e della rete di telefonia cellulare UMTS del
gestore H3G S.p.A in contrada Bardaro, adottando il relativo
provvedimento autorizzativo di cui fanno parte integrante
gli elaborati tecnici progettuali. Avendo alcuni cittadini chiesto di prendere visione ed
estrarre copia di tutta la documentazione amministrativa del
suddetto procedimento, il Comune, nei termini, ha provveduto
a comunicare ai controinteressati la suddetta richiesta di
accesso e tra questi la High tel S.p.A ha ritualmente
manifestato la propria motivata opposizione. Tutto ciò premesso il Comune chiede se la richiesta di
accesso in questione possa ritenersi ammissibile e, in caso
affermativo, entro quali limiti. Deve essere immediatamente evidenziato che l’opposizione
manifestata dalla High Tel S.p.A. alla richiesta di accesso
avanzata da alcuni cittadini del Comune di Canicattì poggia
su due ordini di considerazioni e cioè da una parte si
sostiene che i richiedenti non avrebbero alcune
legittimazione all’accesso, non avendo alcun interesse
diretto, concreto ed attuale collegato alla autorizzazione
rilasciata alla controinteressata; dall’altra si sottolinea
che la documentazione richiesta contiene informazioni che
costituiscono segreto aziendale-industriale che pertanto
non possono essere oggetto di comunicazione e divulgazione,
dovendo rimanere nella sfera di conoscenza della società e
di pochi altri soggetti all’uopo dalla stessa espressamente
autorizzati. Al riguardo la Commissione osserva che i cittadini
richiedenti, proprietari di terreni confinanti o comunque
vicini al sito prescelto per la realizzazione della stazione
radiobase, sono sicuramente legittimati ad accedere alla
documentazione amministrativa riguardante il rilascio della
concessione edilizia al fine di verificarne la legittimità
sia sotto il profilo urbanistico che ambientale. In
proposito si osserva che ai sensi dell’articolo 10 del TUEL
il cittadino residente ha diritto di accedere a tutti gli
atti dell’amministrazione comunale. E’ evidente che, ove
tali documenti contenessero dati e informazioni riservate
assoggettate al segreto aziendale - industriale, ricade
direttamente nella responsabilità personale dell’accedente,
in campo sia civile che penale, un uso eventualmente
distorto dei dati stessi
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 27.03.2012 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Richiesta di parere in merito all’accesso tra pubbliche
amministrazioni. Il Servizio Tributi del comune istante ha rappresentato che
l’INPS -a fronte della richiesta di fornire informazioni e
documenti sulla posizione di un contribuente qualificatosi
imprenditore agricolo- aveva negato l’accesso a parte della
documentazione di interesse (in particolare, attestazione di
regolarità nel versamento dei contributi, copia modello Inps
CD1, quadro C), rendendosi disponibile a fornirla soltanto
su richiesta dell’autorità giudiziaria. L’ente civico, ritenendo immotivato il diniego, ha chiesto a
questa Commissione un parere sulla sua legittimità,
segnalando che la documentazione richiesta è necessaria per
produrla ritualmente ed articolare note difensive
nell’ambito del contenzioso innescato dal contribuente
innanzi alla Commissione Tributaria, peraltro priva del
potere di ordinare l’acquisizione di documenti (art. 7, co. 3,
d.lgs. n. 546/1992). Tanto premesso, la Commissione osserva che ai sensi
dell’art. 22, comma 5, della legge n. 241/1990 (introdotto
dalla legge n. 15 del 2005) e dell’art. 5, co. 4, del d.P.R.
n. 184/2006, “l’acquisizione di documenti amministrativi da
parte di soggetti pubblici“ - diversamente dal diritto di
accesso che viene riservato ai soggetti privati - si informa
al principio di leale cooperazione istituzionale”, principio
successivamente costituzionalizzato, con la denominazione di
“leale collaborazione”, dall’attuale art. 120 Cost., con la
conseguenza che pare inapplicabile la disciplina contenuta
nel Capo V della legge n. 241/1990. Tale principio, ad avviso della Commissione, va interpretato
ed applicato in modo da favorire e semplificare i rapporti
tra le pubbliche amministrazioni, e cioè nel senso di
garantire possibilità di accesso tra p.a. superiori, ma non
certo inferiori, a quelle di un richiedente privato, poiché
per esse l’interesse all’accesso dovrebbe -almeno in linea
di massima- ritenersi in re ipsa. In base a tale principio, e la considerazione appare
assorbente, è da ritenere che il servizio tributi comunale
abbia senz’altro diritto di ottenere dall’Inps la
documentazione di interesse, soprattutto quando, come nella
specie, i documenti o le informazioni richieste attengano
alla funzione di accertamento dei tributi locali di cui è
titolare il Comune, potendo l’eventuale diniego dell’Inps
incidere negativamente sulle potestà comunali. Del resto, a
prescindere dal paventato difetto di poteri acquisitivi
della Commissione tributaria, non si ravvedono particolari
motivi per negare la conoscenza da parte del Comune degli
atti richiesti
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
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ATTI
AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Richiesta di parere sul diritto di accesso a informazioni da
parte di un comitato civico. Il Comune istante ha chiesto un parere sulla legittimità
della richiesta di accesso, rivolta da un locale Comitato
civico, per conoscere il nominativo delle persone in
possesso delle chiavi di accesso ai locali della sede
municipale e quello dei soggetti abilitati alla
consultazione delle banche dati ed archivi elettronici del
comune, oltre che gli eventuali atti formali ovvero alle
disposizioni normative attributive di tali facoltà. La Commissione osserva che, ai sensi dell’art. 10, comma 2,
d.lgs. n. 267/2000, è riconosciuto ai cittadini comunali,
singoli o associati, il diritto di accedere, in generale,
alle informazioni di cui è in possesso l'amministrazione,
senza essere subordinato ad uno specifico interesse
sostanziale giuridicamente tutelato. Infatti, tale diritto è
equiparabile all'attivazione di un’azione popolare
finalizzata ad una più efficace e diretta partecipazione del
cittadino all'attività amministrativa dell'ente locale e
alla realizzazione di un più immanente controllo sulla
legalità dell'azione amministrativa. Ne consegue che non pare possibile negare l’accesso alle
dette informazioni, sempre che la comunicazione delle
informazioni indicate non richieda complesse indagini ed
elaborazioni
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 27.03.2012 - link a
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CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Accesso agli atti dei consiglieri comunali. Il Sig. ..., consigliere di minoranza del
Comune di Castelcovati (BS), espone che semplici richieste
di accesso agli atti vengono evase dopo 27/28 giorni e
quindi al limite dello spazio di tempo concesso che, ai
sensi del regolamento comunale è di 30 giorni. Fa inoltre
presente che gli viene negato di visionare personalmente
delibere o determine ma gli viene invece imposto di seguire
l’iter previsto per l’accesso agli atti. Ritiene questa Commissione che il comportamento
ostruzionistico assunto dal Comune di Castelcovati nei
confronti del sig. ... non possa essere
condiviso. La Commissione invero, nella scia di una ormai consolidata
giurisprudenza del Giudice amministrativo, ha avuto più
volte occasione di affermare che il “diritto di accesso” ed
il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali sono
specificamente disciplinati dall’art. 43 del d.lgs. 267/2000
(T.U. Enti locali) che riconosce loro (e ai consiglieri
provinciali) il diritto di ottenere dagli uffici tutte le
notizie e le informazioni in loro possesso, utili
all’espletamento del loro mandato. Si tratta, all’evidenza, di un diritto dai confini più ampi
del diritto di accesso riconosciuto al cittadino nei
confronti del Comune di residenza (art. 10 T.U. Enti locali)
o, più in generale, nei confronti della P.A., disciplinato
dalla legge n. 21 del 1990. Tale maggiore ampiezza trova la propria giustificazione nel
particolare “munus” espletato dal consigliere comunale,
affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa
la correttezza e l’efficacia dell’operato
dell’Amministrazione, onde poter esprimere un giudizio
consapevole sulle questioni di competenza della P.A.,
opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica
e la funzione pubblicistica da questi esercitata,
soprattutto se, come nel caso di specie, il consigliere
comunale appartenga alla minoranza, istituzionalmente
deputata allo svolgimento di compiti di controllo e verifica
dell’operato della maggioranza. Per queste ragioni il consigliere comunale non deve neppure
motivare la propria richiesta di informazioni, perché
altrimenti la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di
esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato
all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi,
con la conseguenza che gli uffici comunali non hanno il
potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto
delle richieste di informazione e le modalità di esercizio
della funzione esercitata dal consigliere comunale. Va infine sottolineato che, per antico principio
giurisprudenziale, il diritto di accesso agli atti di un
consigliere comunale non può subire compressioni per pretese
esigenze di ordine burocratico dell’Ente, tali da ostacolare
l’esercizio del suo mandato istituzionale; l’unico limite è
rappresentato dal fatto che il consigliere comunale non può
abusare del diritto all’informazione riconosciutagli
dall’ordinamento, interferendo pesantemente sulla
funzionalità e sull’efficienza dell’azione amministrativa
dell’Ente civico, con richieste che travalicano i limiti
della proporzionalità e della ragionevolezza
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 12.03.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Accesso di Organizzazione Sindacale ad atti relativi
all’incarico conferito ad un avvocato convenzionato con il
servizio legale dell’Ente. La dott.ssa ..., responsabile dell’Area
affari generali e legali del Comune di Arzano (NA) espone
che una sigla sindacale (CGIL), tramite il proprio
rappresentante territoriale, ha richiesto copia degli atti
relativi all’incarico conferito ad un avvocato convenzionato
con il servizio legale dell’Ente nonché copia dell’atto per
la selezione del dirigente dell’Area risorse umane senza
specificare i motivi della richiesta comunque inoltrata all’URP. A tal riguardo il suddetto sindacato ha asserito che la
richiesta non dovrebbe configurarsi come un’ipotesi di
accesso agli atti e quindi non dovrebbe transitare per l’URP
ma dovrebbe essere inoltrata all’Ufficio relazioni sindacali
presso il settore del Personale, che dovrebbe rilasciare gli
atti a domanda, sulla base della semplice richiesta
presentata dal rappresentante sindacale. Ad avviso della Commissione la tesi sostenuta dalla
suindicata organizzazione sindacale non può essere
condivisa. Le organizzazioni sindacali sono sicuramente legittimate ad
esercitare il diritto di accesso per la cognizione di
documenti che possono coinvolgere sia le prerogative del
sindacato, quale istituzione esponenziale di una determinata
categoria di lavoratori, sia le posizioni di lavoro di
singoli iscritti nel cui interesse e rappresentanza opera
l’organizzazione. Ciò posto, occorre sottolineare che l’unanime ed ormai
consolidata giurisprudenza del Giudice amministrativo (CdS
VI, 06.03.2009, n. 1351; IV, 30.12.2003, n. 9158)
che questa Commissione non ha motivo di disattendere,
ritiene che detta sfera di legittimazione non può tuttavia
tradursi in iniziative di preventivo e generalizzato
controllo dell’intera attività dell’Amministrazione, datrice
di lavoro, sovrapponendosi e duplicando compiti e funzioni
demandati ai soggetti istituzionalmente e ordinariamente
preposti nel settore di impiego alla gestione del rapporto
di lavoro. Questa preclusione, inoltre, è espressamente codificata
all’art. 24, comma terzo, della legge 241/1990, nel testo
novellato dall’art. 16 della legge 15/2005 in base al quale
“non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un
controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche
amministrazioni”. Ne deriva che la domanda di accesso,
ancorché esplicata nell’esercizio delle prerogative
dell’organizzazione sindacale, soggiace al filtro
dell’esistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata che
trovi collegamento nel documento che si vuole conoscere. Alla luce delle suesposte argomentazioni, la richiesta di
accesso dell’organizzazione sindacale deve necessariamente
essere motivata e non può non essere sottoposta all’iter
procedimentale all’uopo previsto dal regolamento dell’Ente
cui è indirizzata
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 12.03.2012 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il procedimento di
rilascio del permesso di costruire ha un rapporto di
autonomia e non di interdipendenza rispetto al rilascio del
parere ambientale, posto che l’art. 159 del D.L.vo
22.01.2004 n. 42, in via transitoria sino al 31.12.2009 e,
susseguentemente a tale data, in via definitiva, l’art. 146
del medesimo D.L.vo, egualmente dispongono nel senso che
“l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri
titoli legittimanti ‘'intervento urbanistico edilizio” e che
“i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa”.
Da ciò pertanto discende che l’autorizzazione paesaggistica
non può essere intesa quale mero presupposto di legittimità
del titolo legittimante l’edificazione, connotandosi
piuttosto per una sua autonomia strutturale e funzionale
rispetto al permesso di costruire; e che il rapporto tra
autorizzazione paesaggistica e titolo edilizio si sostanzia
pertanto in un rapporto di presupposizione necessitato e
strumentale tra valutazioni paesistiche ed urbanistiche, nel
senso che questi due apprezzamenti si esprimono entrambi
sullo stesso oggetto, ma con diversi e separati
procedimenti, l’uno nei termini della compatibilità
paesaggistica dell’intervento edilizio proposto e l’altro
nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia. Il Collegio –per parte propria– ribadisce che
il procedimento di rilascio del permesso di costruire ha un
rapporto di autonomia e non di interdipendenza rispetto al
rilascio del parere ambientale, posto che l’art. 159 del
D.L.vo 22.01.2004 n. 42, in via transitoria sino al 31.12.2009 e, susseguentemente a tale data, in via
definitiva, l’art. 146 del medesimo D.L.vo, egualmente
dispongono nel senso che “l’autorizzazione paesaggistica
costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso
di costruire o agli altri titoli legittimanti ‘'intervento
urbanistico edilizio” e che “i lavori non possono essere
iniziati in difetto di essa”. Da ciò pertanto discende che l’autorizzazione paesaggistica
non può essere intesa quale mero presupposto di legittimità
del titolo legittimante l’edificazione, connotandosi
piuttosto per una sua autonomia strutturale e funzionale
rispetto al permesso di costruire; e che il rapporto tra
autorizzazione paesaggistica e titolo edilizio si sostanzia
pertanto in un rapporto di presupposizione necessitato e
strumentale tra valutazioni paesistiche ed urbanistiche, nel
senso che questi due apprezzamenti si esprimono entrambi
sullo stesso oggetto, ma con diversi e separati
procedimenti, l’uno nei termini della compatibilità
paesaggistica dell’intervento edilizio proposto e l’altro
nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia (cfr.
sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 27.11.2010 n. 8260)
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.08.2013
n. 4234 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO - EDILIZIA
PRIVATA:
La domanda di rilascio
del permesso di costruire ovvero la denuncia di inizio di
attività possono essere presentate dal proprietario
dell’immobile ovvero da chi ne abbia titolo. L’espressione “titolo per richiederlo” è correntemente
intesa dalla giurisprudenza amministrativa nel senso di
posizione che civilisticamente costituisca titolo per
esercitare sul fondo un’attività costruttiva, ammettendosi
in tal senso che la posizione legittimante enunciata nella
disposizione normativa in esame non coincide con il solo
diritto di proprietà, ma anche con altri diritti reali o
addirittura personali di godimento, purché attribuiscano al
titolare la facoltà di attuare interventi sull’immobile. A fronte di ciò, l’Amministrazione comunale è per certo
chiamata a svolgere un’attività istruttoria per accertare la
sussistenza del titolo legittimante di colui che chiede il
rilascio del titolo edilizio, anche mediante d.i.a.,
competendo in tal senso all’Amministrazione medesima la
verifica, in capo al richiedente, di un titolo sostanziale
idoneo a costituire la posizione legittimante senza alcuna
ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla
ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o
estintivi del titolo di disponibilità dell’immobile allegato
da colui che presenta l’istanza. Significativo –del resto– è al riguardo anche l’art. 42,
comma 8, lett. a), della L. R. 12 del 2005, laddove si
dispone che il dirigente o il responsabile dell’ufficio
competente verifichi, in relazione alla d.i.a., “la
regolarità formale e la completezza della documentazione”. La verifica del possesso del titolo a costruire costituisce
pertanto un presupposto, la cui mancanza impedisce
all’Amministrazione comunale di procedere oltre nell’esame
del progetto, anche se deve escludersi un obbligo
dell’Amministrazione comunale stessa di effettuare complessi
accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende
riguardanti l’immobile. --------------- L’Amministrazione comunale, allorquando inizia l’istruttoria
per il rilascio di un titolo edilizio formale (nonché, ora,
allorquando svolge l’istruttoria conseguente all’avvenuta
presentazione di una segnalazione certificata di inizio di
attività – s.c.i.a. edilizia, a’ sensi dell’art. 19 della L.
07.08.1990 n. 241 nel testo ad oggi in vigore), non è per
certo obbligata ad acquisire informazioni sulla circostanza
che l’assemblea condominiale abbia eventualmente inibito al
singolo condomino di realizzare le opere sostanzianti un
sopralzo dell’edificio: ma il richiedente il titolo edilizio
ovvero chi presenta la s.c.i.a. è comunque onerato, prima di
iniziare i lavori, ad impugnare la deliberazione
dell’assemblea condominiale lesiva del proprio diritto, a’
sensi e per gli effetti dell’art. 1137, secondo comma, cod.
civ., essendo anche ammesso al riguardo l’incidente di
sospensione cautelare della deliberazione medesima. Risulta altrettanto assodato che il condominio, ove abbia
adottato una deliberazione che vieti l’esecuzione dei lavori
al singolo condomino, può pure incidere nella sfera
giuridica di quest’ultimo e –segnatamente– sulla sua
posizione di interesse legittimo intervenendo a’ sensi
dell’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990 nel procedimento
relativo al rilascio del permesso di costruire ovvero in
quello conseguente alla presentazione della s.c.i.a. e
chiedendo quindi all’Amministrazione comunale di non
accogliere le richieste del condomino medesimo conformemente
al predetto deliberato assembleare, ovvero anche l’adozione
di ogni possibile provvedimento in autotutela.
Il Collegio,
per parte propria, rileva che, a’ sensi dell’art. 11, comma
1, e dell’art. 23, comma 1, del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380, la domanda di rilascio del permesso di
costruire, ovvero la denuncia di inizio di attività possono
essere presentate dal proprietario dell’immobile ovvero da
chi ne abbia titolo. Tali disposizioni riproducono nella sostanza l’art. 4, primo
comma, della L. 28.01.1977 n. 10, in forza del quale
“la concessione (edilizia) è data dal sindaco al
proprietario dell’area o a chi abbia titolo per
richiederla”, e sono a loro volta recepite in Lombardia
dall’art. 35, comma 1, della L. R. 12 del 2005, laddove –per l’appunto– analogamente si dispone che il permesso di
costruire sia rilasciato “al proprietario dell’immobile o a
chi abbia titolo per richiederlo”. Va precisato che l’espressione “titolo per richiederlo” è
correntemente intesa dalla giurisprudenza amministrativa nel
senso di posizione che civilisticamente costituisca titolo
per esercitare sul fondo un’attività costruttiva (cfr. al
riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 28.05.2001 n.
2882 e 15.03.2001 n. 1507, nonché Sez. IV, 15.02.1985 n. 47), ammettendosi in tal senso che la posizione
legittimante enunciata nella disposizione normativa in esame
non coincide con il solo diritto di proprietà, ma anche con
altri diritti reali o addirittura personali di godimento,
purché attribuiscano al titolare la facoltà di attuare
interventi sull’immobile. A fronte di ciò, il Collegio reputa che l’Amministrazione
comunale era ed è per certo chiamata a svolgere un’attività
istruttoria per accertare la sussistenza del titolo
legittimante di colui che chiede il rilascio del titolo
edilizio, anche mediante d.i.a., competendo in tal senso
all’Amministrazione medesima la verifica, in capo al
richiedente, di un titolo sostanziale idoneo a costituire la
posizione legittimante senza alcuna ulteriore e minuziosa
indagine che si estenda fino alla ricerca di eventuali
fattori limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di
disponibilità dell’immobile allegato da colui che presenta
l’istanza (così, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 04.02.2004 n. 368). Significativo –del resto– è al riguardo anche l’art. 42,
comma 8, lett. a), della L. R. 12 del 2005, laddove si
dispone che il dirigente o il responsabile dell’ufficio
competente verifichi, in relazione alla d.i.a., “la
regolarità formale e la completezza della documentazione”. La verifica del possesso del titolo a costruire costituisce
pertanto un presupposto, la cui mancanza impedisce
all’Amministrazione comunale di procedere oltre nell’esame
del progetto, anche se deve escludersi un obbligo
dell’Amministrazione comunale stessa di effettuare complessi
accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende
riguardanti l’immobile. --------------- L’Amministrazione
comunale, allorquando inizia l’istruttoria per il rilascio
di un titolo edilizio formale (nonché, ora, allorquando
svolge l’istruttoria conseguente all’avvenuta presentazione
di una segnalazione certificata di inizio di attività – s.c.i.a. edilizia, a’ sensi dell’art. 19 della L. 07.08.1990 n. 241 nel testo ad oggi in vigore), non è per certo
obbligata ad acquisire informazioni sulla circostanza che
l’assemblea condominiale abbia eventualmente inibito al
singolo condomino di realizzare le opere sostanzianti un
sopralzo dell’edificio: ma il richiedente il titolo edilizio
ovvero chi presenta la s.c.i.a. è comunque onerato, prima di
iniziare i lavori, ad impugnare la deliberazione
dell’assemblea condominiale lesiva del proprio diritto, a’
sensi e per gli effetti dell’art. 1137, secondo comma, cod.
civ., essendo anche ammesso al riguardo l’incidente di
sospensione cautelare della deliberazione medesima (cfr.
ivi, nonché la corrispondente disciplina contenuta nel nuovo
testo dell’articolo medesimo, conseguente alla novella
introdotta al riguardo dall’art. 15 della L. 11.12.2012 n. 220, che trova peraltro applicazione solo a
decorrere dal 18.06.2013). Non consta che nella specie la deliberazione adottata
dall’assemblea condominiale sia stata sospesa. Risulta altrettanto assodato che il condominio, ove abbia
adottato una deliberazione che vieti l’esecuzione dei lavori
al singolo condomino, può pure incidere nella sfera
giuridica di quest’ultimo e –segnatamente– sulla sua
posizione di interesse legittimo intervenendo a’ sensi
dell’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990 nel procedimento
relativo al rilascio del permesso di costruire ovvero in
quello conseguente alla presentazione della s.c.i.a. e
chiedendo quindi all’Amministrazione comunale di non
accogliere le richieste del condomino medesimo conformemente
al predetto deliberato assembleare, ovvero anche l’adozione
di ogni possibile provvedimento in autotutela
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.08.2013
n. 4234 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il giudice amministrativo
può riconoscere, caso per caso, la legittimazione ad
impugnare atti amministrativi incidenti sull'ambiente ad
associazioni locali (indipendentemente dalla loro natura
giuridica), purché perseguano statutariamente in modo non
occasionale obiettivi di tutela ambientale ed abbiano un
adeguato grado di rappresentatività e stabilità in un'area
di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il
bene a fruizione collettiva che si assume leso. Pertanto la legittimazione processuale delle associazioni
ambientaliste deve essere apprezzata, almeno in astratto, in
presenza di tre requisiti tradizionalmente utilizzati al
riguardo in giurisprudenza, rispettivamente relativi alle
finalità statutarie dell'ente, alla stabilità del suo
assetto organizzativo, nonché alla c.d. vicinitas dello
stesso stesso ente rispetto all'interesse sostanziale che si
assume leso per effetto dell'azione amministrativa e a
tutela del quale, pertanto, l'ente esponenziale intende
agire in giudizio. A tali considerazioni deve aggiungersi, in relazione ad un
profilo più concreto e vicino alla questione in esame, che,
nonostante la concezione giuridicamente rilevante del
concetto di ambiente, occorre che il provvedimento che si
intenda impugnare leda in modo diretto ed immediato
l'interesse alla preservazione del bene ambiente. ... chiarito il contesto decisionale, si può ben riprendere
la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, che in più
occasioni ha evidenziato i limiti alla legittimazione delle
associazioni ambientaliste avverso le varianti urbanistiche.
Si è perciò detto, in via generale, che il giudice
amministrativo può riconoscere, caso per caso, la
legittimazione ad impugnare atti amministrativi incidenti
sull'ambiente ad associazioni locali (indipendentemente
dalla loro natura giuridica), purché perseguano
statutariamente in modo non occasionale obiettivi di tutela
ambientale ed abbiano un adeguato grado di rappresentatività
e stabilità in un'area di afferenza ricollegabile alla zona
in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si
assume leso (Consiglio di Stato, sez. VI, 23.05.2011, n.
3107). Pertanto la legittimazione processuale delle
associazioni ambientaliste deve essere apprezzata, almeno in
astratto, in presenza di tre requisiti tradizionalmente
utilizzati al riguardo in giurisprudenza, rispettivamente
relativi alle finalità statutarie dell'ente, alla stabilità
del suo assetto organizzativo, nonché alla c.d. vicinitas
dello stesso stesso ente rispetto all'interesse sostanziale
che si assume leso per effetto dell'azione amministrativa e
a tutela del quale, pertanto, l'ente esponenziale intende
agire in giudizio. A tali considerazioni deve aggiungersi, in relazione ad un
profilo più concreto e vicino alla questione in esame, che,
nonostante la concezione giuridicamente rilevante del
concetto di ambiente, occorre che il provvedimento che si
intenda impugnare leda in modo diretto ed immediato
l'interesse alla preservazione del bene ambiente (Consiglio
di Stato, sez. IV, 09.11.2004 n. 7246). Nel caso di specie, devono quindi condividersi le
considerazioni del primo giudice, sulla carente indicazione
del rapporto tra i provvedimenti urbanistici adottati e la
lesione lamentata, per cui va ribadito come manchi del tutto
un meccanismo di collegamento tra l’associazione appellante
e la tutela di cui questa si afferma portatrice (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.08.2013
n. 4233 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
La necessità dell'avviso
di avvio del procedimento amministrativo è affermazione
pacifica e consolidata nella giurisprudenza amministrativa.
La preventiva comunicazione di avvio del procedimento
rappresenta un principio generale dell'agere amministrativo. La materia relativa alle procedure di espropriazione per
pubblica utilità non costituisce certo eccezione a detto
approdo della giurisprudenza: ed anzi, come è noto, un
indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, dal quale non
si ravvisano ragioni per discostarsi, ha affermato il
principio, generale ed inderogabile, per cui al privato
proprietario di un'area destinata all'espropriazione,
siccome interessata dalla realizzazione di un'opera
pubblica, deve essere garantita, mediante la formale
comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la
possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente
sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del
vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del
progetto definitivo. Con più stringente riferimento alla fattispecie per cui è
causa, poi, di recente la giurisprudenza di questa Sezione
del Consiglio di Stato ha avuto modo di ribadire il detto
principio, essendosi affermato che costituisce principio
generale ed inderogabile dell'ordinamento vigente che al
privato, proprietario di un'area sottoposta a procedimento
espropriativo per la realizzazione di un'opera pubblica,
deve essere garantita, mediante la formale comunicazione
dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di
interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua
localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo,
prima della dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del
progetto definitivo, né sarebbe invocabile, come esimente
dal dovere in questione, il disposto dell'art. 13, comma 1,
l. 07.08.1990 n. 241, in quanto detta norma si riferisce ai
soli atti a contenuto generale, mentre l'intesa tra lo Stato
e la Regione sulla localizzazione di un'opera di interesse
statale non consiste in un documento di pianificazione
territoriale, ma produce l'effetto puntuale e specifico
dell'individuazione dell'ubicazione dell'intervento (oltre a
valere come dichiarazione di pubblica utilità) e si rivela,
come tale, idonea ad incidere, in maniera immediata, sugli
interessi dei soggetti proprietari del terreno interessato
dalla sua realizzazione, con evidenti implicazioni sulla
partecipazione di questi al relativo procedimento. --------------- Costituisce principio a più riprese affermato dalla
giurisprudenza quello per cui sussiste la responsabilità
solidale dell'ente espropriante-appaltante e
dell'appaltatore ogni quale volta entrambi abbiano concorso
a determinare l'evento dannoso". Ed anche alla luce delle vigenti prescrizioni normative va
ribadita la permanente vigenza del principio per cui, anche
laddove ci si trovi al cospetto dell’utilizzo dell'istituto
della delega, l’amministrazione è responsabile dell'operato
del delegato (poiché la legge dispone che l'espropriazione
si svolge non soltanto "in nome e per conto" del delegante,
ma anche "d'intesa" con quest'ultimo, che conserva ogni
potere di controllo e di stimolo, il cui mancato esercizio è
fonte di corresponsabilità con il delegato per i danni da
questi materialmente arrecati, senza che assuma rilievo
-qualora sia, comunque, avvenuta la radicale trasformazione
del fondo in difetto di tempestiva emanazione del decreto di
esproprio- la natura del negozio intercorso tra delegante e
delegato. Contrariamente a quanto
sostenutosi nell’appello, una imponente produzione
giurisprudenziale amministrativa ha sempre costantemente
affermato che la necessità dell'avviso di avvio del
procedimento amministrativo (nel caso di specie si trattava
dell’adozione di provvedimenti di annullamento) è
affermazione pacifica e consolidata nella giurisprudenza
amministrativa. La preventiva comunicazione di avvio del
procedimento rappresenta un principio generale dell'agere
amministrativo (TAR Campania Salerno Sez. I, 12.07.2011,
n. 1276). La materia relativa alle procedure di espropriazione per
pubblica utilità non costituisce certo eccezione a detto
approdo della giurisprudenza: ed anzi, come è noto, un
indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato (cfr. Ad. Plen.
20.12.2002, n. 8; 24.01.2000, n. 2; 15.09.1999, n. 14), dal quale non si ravvisano ragioni per
discostarsi, ha affermato il principio, generale ed
inderogabile, per cui al privato proprietario di un'area
destinata all'espropriazione, siccome interessata dalla
realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita,
mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del
procedimento, la possibilità di interloquire con
l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e,
quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della
dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed
urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto
definitivo. Con più stringente riferimento alla fattispecie per cui è
causa, poi, di recente la giurisprudenza di questa Sezione
del Consiglio di Stato ha avuto modo di ribadire il detto
principio, essendosi affermato che (Cons. Stato Sez. IV,
09-12-2010, n. 8688) costituisce principio generale ed
inderogabile dell'ordinamento vigente che al privato,
proprietario di un'area sottoposta a procedimento
espropriativo per la realizzazione di un'opera pubblica,
deve essere garantita, mediante la formale comunicazione
dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di
interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua
localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo,
prima della dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del
progetto definitivo, né sarebbe invocabile, come esimente
dal dovere in questione, il disposto dell'art. 13, comma 1,
l. 07.08.1990 n. 241, in quanto detta norma si riferisce
ai soli atti a contenuto generale, mentre l'intesa tra lo
Stato e la Regione sulla localizzazione di un'opera di
interesse statale non consiste in un documento di
pianificazione territoriale, ma produce l'effetto puntuale e
specifico dell'individuazione dell'ubicazione
dell'intervento (oltre a valere come dichiarazione di
pubblica utilità) e si rivela, come tale, idonea ad
incidere, in maniera immediata, sugli interessi dei soggetti
proprietari del terreno interessato dalla sua realizzazione,
con evidenti implicazioni sulla partecipazione di questi al
relativo procedimento. Analoghe conclusioni si traggono dalle disposizioni
specifiche contenute nel TU espropriazioni. Sotto il profilo strettamente letterale, infatti, le
espresse disposizioni di cui agli artt. 11 (“1. Al
proprietario del bene sul quale si intende apporre il
vincolo preordinato all'esproprio, va inviato l'avviso
dell'avvio del procedimento: a) nel caso di adozione di una variante al piano regolatore
per la realizzazione di una singola opera pubblica, almeno
venti giorni prima della delibera del consiglio comunale;
b) nei casi previsti dall'articolo 10, comma 1, almeno venti
giorni prima dell'emanazione dell'atto se ciò risulti
compatibile con le esigenze di celerità del procedimento.
2. L'avviso di avvio del procedimento è comunicato
personalmente agli interessati alle singole opere previste
dal piano o dal progetto. Allorché il numero dei destinatari
sia superiore a 50, la comunicazione è effettuata mediante
pubblico avviso, da affiggere all'albo pretorio dei Comuni
nel cui territorio ricadono gli immobili da assoggettare al
vincolo, nonché su uno o più quotidiani a diffusione
nazionale e locale e, ove istituito, sul sito informatico
della Regione o Provincia autonoma nel cui territorio
ricadono gli immobili da assoggettare al vincolo. L'avviso
deve precisare dove e con quali modalità può essere
consultato il piano o il progetto. Gli interessati possono
formulare entro i successivi trenta giorni osservazioni che
vengono valutate dall'autorità espropriante ai fini delle
definitive determinazioni. 3. La disposizione di cui al comma 2 non si applica ai fini
dell'approvazione del progetto preliminare delle
infrastrutture e degli insediamenti produttivi ricompresi
nei programmi attuativi dell'articolo 1, comma 1, della
legge 21.12.2001, n. 443. 4. Ai fini dell'avviso dell'avvio del procedimento delle
conferenze di servizi in materia di lavori pubblici, si
osservano le forme previste dal decreto del Presidente della
Repubblica 21.12.1999, n. 554. 5. Salvo quanto previsto dal comma 2, restano in vigore le
disposizioni vigenti che regolano le modalità di
partecipazione del proprietario dell'area e di altri
interessati nelle fasi di adozione e di approvazione degli
strumenti urbanistici.”). e 16 comma 4 (“Al proprietario
dell'area ove è prevista la realizzazione dell'opera è
inviato l'avviso dell'avvio del procedimento e del deposito
degli atti di cui al comma 1, con l'indicazione del
nominativo del responsabile del procedimento”) del D.P.R.
08.06.2001 n. 327 congiurano nel fare ritenere il detto
obbligo assolutamente cogente ed inderogabile, in armonia
con i principi affermati dalla Cedu e ben recepiti a più
riprese da questo Consiglio di Stato. Non appare il caso di immorare vieppiù sul punto, se non per
rimarcare, a fini di coerenza sistematica, che (d.lgs.
12.04.2006 n. 163, art. 166) il detto obbligo è prescritto
anche nel caso di opere strategiche, per cui esso
costituisce principio non dequotabile (comma 2 della in
ultimo citata disposizione: “l’avvio del procedimento di
dichiarazione di pubblica utilità è comunicato dal soggetto
aggiudicatore, o per esso dal concessionario o contraente
generale, ai privati interessati alle attività espropriative
ai sensi della legge 07.08.1990, n. 241, e successive
modificazioni; la comunicazione è effettuata con le stesse
forme previste per la partecipazione alla procedura di
valutazione di impatto ambientale dall'articolo 5 del
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 10.08.1988, n. 377. Nel termine perentorio di sessanta giorni
dalla comunicazione di avvio del procedimento, i privati
interessati dalle attività espropriative possono presentare
osservazioni al soggetto aggiudicatore, che dovrà valutarle
per ogni conseguente determinazione. Le disposizioni del
presente comma derogano alle disposizioni degli articoli 11
e 16 del decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327.”). ---------------
Neppure
accoglimento meritano le ulteriori censure prospettate
dall’amministrazione regionale: quanto alla tesi per cui
l’avviso sarebbe stato validamente omesso in quanto gli espopriandi erano in numero superiore a 50, quest’ultima è
stata soltanto labialmente affermata, non è stata né
allegata né provata e, inoltre, non v’è traccia in atti
delle supposte modalità alternative di pubblicità
eventualmente esperite. Né l’amministrazione ha fatto
espresso riferimento alla notifica da effettuarsi “nelle
forme degli atti processuali civili” e neppure ha mai
dichiarato (né disposto) di procedere alla pubblicazione di
alcun atto avvalendosi del disposto di cui all’art. 16, comma
5, ed 11, comma 2, del dPR n. 327/2001 (Consiglio di Stato
Sez. IV, sent. n. 408 del 27-01-2012: ”in tema di
espropriazione per pubblica utilità l'avviso di cui all'art.
11 D.P.R. n. 327/2001 -T.U. espropriazione per p.u.- deve
contenere, per essere legittimo, l'indicazione delle
particelle e dei nominativi, quali indefettibili elementi
diretti ad individuare i soggetti espropriandi ed i beni
oggetto del procedimento amministrativo, e ciò sia che la
comunicazione avvenga personalmente, sia che essa avvenga in
forma collettiva mediante avviso pubblico. E' evidente che
le modalità di comunicazione, seppur semplificate nella
forma e nel numero, devono in ogni caso essere idonee a
raggiungere lo scopo della effettiva conoscenza, di guisa
che il proprietario inciso sia posto in grado di optare o
meno per la partecipazione procedimentale in chiave
difensiva). Essa tesi appare al Collegio unicamente un espediente
processuale confusorio, e come tale va disattesa. Quanto all’assunto secondo il quale l’unico responsabile
avrebbe dovuto essere il concessionario, essa collide con il
consolidato orientamento, secondo il quale “costituisce
principio a più riprese affermato dalla giurisprudenza
quello per cui sussiste la responsabilità solidale dell'ente
espropriante-appaltante e dell'appaltatore ogni quale volta
entrambi abbiano concorso a determinare l'evento dannoso"
(Cass. civ. Sez. I, 17.10.2008, n. 25369); ed anche alla
luce delle vigenti prescrizioni normative va ribadita la
permanente vigenza del principio per cui, anche laddove ci
si trovi al cospetto dell’utilizzo dell'istituto della
delega, l’amministrazione è responsabile dell'operato del
delegato (poiché la legge dispone che l'espropriazione si
svolge non soltanto "in nome e per conto" del
delegante, ma anche "d'intesa" con quest'ultimo, che
conserva ogni potere di controllo e di stimolo, il cui
mancato esercizio è fonte di corresponsabilità con il
delegato per i danni da questi materialmente arrecati, senza
che assuma rilievo -qualora sia, comunque, avvenuta la
radicale trasformazione del fondo in difetto di tempestiva
emanazione del decreto di esproprio- la natura del negozio
intercorso tra delegante e delegato (si veda: Cass. civ.
Sez. I, 27-05-2011, n. 11800)
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.08.2013
n. 4230 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Le controversie inerenti la contestazione degli
oneri di urbanizzazione, nel corso delle quali non vengano
dedotte censure derivanti da atti generali autoritativi
relativi alla determinazione degli oneri presupposti di
quello impugnato, attengono a posizioni di diritto
soggettivo, azionabili nel termine di prescrizione, innanzi
al giudice amministrativo in sede di giurisdizione
esclusiva. Detti oneri non hanno, infatti, natura tributaria, bensì
costituiscono un corrispettivo di diritto pubblico avente la
funzione di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione, atteso che le controversie che hanno ad
oggetto la legittimità o meno del contributo relativo a
concessione edilizia vertono sull'esistenza o sulla misura
di un’obbligazione direttamente stabilita dalla legge. La determinazione dell'"an" e del "quantum" dell'oblazione e
del contributo per oneri di urbanizzazione e per costo di
costruzione ha natura paritetica, giacché si tratta di un
mero accertamento dell'obbligazione contributiva, effettuato
dalla p.a. in base a rigidi parametri prefissati dalla legge
e dai regolamenti in tema di criteri impositivi, nei cui
riguardi essa è sfornita di potestà autoritativa. Per questo le relative controversie, proprio in quanto
concernono i diritti soggettivi delle parti di detta
obbligazione, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del
g.a. di cui all’art. 133, primo co., lett. f).
L'accertamento di un rapporto di credito prescinde
dall'esistenza di atti della p.a. e non è soggetta alle
regole delle impugnazioni e dei termini di decadenza propri
degli atti amministrativi; in applicazione di tale
principio, va quindi esclusa la configurabilità
dell'istituto dell'acquiescenza rispetto alla liquidazione
del contributo. Del resto, in tal senso si è pronunciato il Giudice della
giurisdizione, per il quale la giurisdizione del giudice
amministrativo in materia ha per oggetto tutte le
controversie inerenti la pretesa contributiva del Comune in
tale ambito. ... per l'annullamento della sentenza breve del TAR FRIULI
VENEZIA GIULIA-TRIESTE: SEZIONE I n. 00486/2012, resa tra le
parti, concernente appello avverso sentenza con cui il
giudice amministrativo ha dichiarato il difetto di
giurisdizione - emissione da parte di Equitalia di una
cartella di pagamento relativa ad oneri di urbanizzazione
primaria. ... L’appello è fondato. Le controversie inerenti la contestazione degli oneri di
urbanizzazione, nel corso delle quali non vengano dedotte
censure derivanti da atti generali autoritativi relativi
alla determinazione degli oneri presupposti di quello
impugnato, attengono, infatti, a posizioni di diritto
soggettivo, azionabili nel termine di prescrizione, innanzi
al giudice amministrativo in sede di giurisdizione
esclusiva. Detti oneri non hanno, infatti, natura tributaria, bensì
costituiscono un corrispettivo di diritto pubblico avente la
funzione di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione, atteso che le controversie che hanno ad
oggetto la legittimità o meno del contributo relativo a
concessione edilizia vertono sull'esistenza o sulla misura
di un’obbligazione direttamente stabilita dalla legge. La determinazione dell'"an" e del "quantum"
dell'oblazione e del contributo per oneri di urbanizzazione
e per costo di costruzione ha natura paritetica, giacché si
tratta di un mero accertamento dell'obbligazione
contributiva, effettuato dalla p.a. in base a rigidi
parametri prefissati dalla legge e dai regolamenti in tema
di criteri impositivi, nei cui riguardi essa è sfornita di
potestà autoritativa. Per questo le relative controversie, proprio in quanto
concernono i diritti soggettivi delle parti di detta
obbligazione, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del
g.a. di cui all’art. 133, primo co., lett. f).
L'accertamento di un rapporto di credito prescinde
dall'esistenza di atti della p.a. e non è soggetta alle
regole delle impugnazioni e dei termini di decadenza propri
degli atti amministrativi; in applicazione di tale
principio, va quindi esclusa la configurabilità
dell'istituto dell'acquiescenza rispetto alla liquidazione
del contributo (cfr. Consiglio di Stato sez. V 28.05.2012 n.
3122; Consiglio di Stato sez. IV 10.03.2011 n. 1565;
Consiglio Stato sez. V 13.10.2010 n. 7466). Del resto, in tal senso si è pronunciato il Giudice della
giurisdizione, per il quale la giurisdizione del giudice
amministrativo in materia ha per oggetto tutte le
controversie inerenti la pretesa contributiva del Comune in
tale ambito (cfr. Cass., sez. un., 13.12.2002 n. 1791;
Cassazione civile, sez. un., 20.10.2006 n. 22514) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.08.2013
n. 4208 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La pronunzia di decadenza
del permesso di costruire, che riceve ora una puntuale
disciplina all'art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001,
è connotata da un carattere strettamente vincolato, dovuto
all'accertamento del mancato inizio e completamento dei
lavori entro i termini stabiliti dal cit. art. 15, comma 2,
(rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo
abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del
venir meno degli effetti del permesso a costruire per
l'inerzia del titolare a darvi attuazione. Pertanto, un tale provvedimento ha carattere meramente
dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via
diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato
con conseguente decorrenza ex tunc. Occorre subito rammentare che la giurisprudenza è del tutto
pacifica nell’affermare che la pronunzia di decadenza del
permesso di costruire, che riceve ora una puntuale
disciplina all'art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001,
sia connotata da un carattere strettamente vincolato, dovuto
all'accertamento del mancato inizio e completamento dei
lavori entro i termini stabiliti dal cit. art. 15, comma 2,
(rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo
abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del
venir meno degli effetti del permesso a costruire per
l'inerzia del titolare a darvi attuazione. Pertanto, un tale provvedimento ha carattere meramente
dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via
diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato
con conseguente decorrenza ex tunc (da ultimo,
Consiglio di Stato, sez. III, 04.04.2013, n. 1870) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.08.2013
n. 4206 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le censure inerenti il procedimento di VAS sono
ammissibili nei limiti in cui la parte istante specifichi
quale concreta lesione alla sua proprietà sia derivata
dall’inosservanza delle norme sul procedimento; in altri
termini non deve trattarsi di una doglianza meramente
“strumentale”, ma sostanziale, visto che il generico
interesse ad un nuovo esercizio del potere pianificatorio
dell’Amministrazione è insufficiente a distinguere la
posizione del ricorrente da quella del quisque de populo.
Nel caso in cui, viceversa, si lamenti la totale omissione
di tale incombente procedimentale, non è dato applicare il
detto principio, proprio a cagione della circostanza che non
può ipotizzarsi quale sarebbe stato l’approdo della Vas, e
si oblierebbe la circostanza che un possibile parere del
tutto negativo avrebbe potuto indurre l’Amministrazione a
rinunciare alla variante, ovvero a rimodularla
integralmente. In materia, è d'uopo richiamare la più recente
giurisprudenza della Sezione sui limiti alla configurabilità
dell'interesse c.d. strumentale all'impugnazione di uno
strumento urbanistico, nel senso che tale impugnazione deve
pur sempre ancorarsi a specifici vizi ravvisati con
riferimento alle determinazioni adottate
dall'Amministrazione in ordine al regime dei suoli in
proprietà del ricorrente, e non può fondarsi sul generico
interesse a una migliore pianificazione del proprio suolo,
che in quanto tale non si differenzia dall'eguale interesse
che quisque de populo potrebbe nutrire. In altri termini, l'utilità comunque rappresentata dal
possibile vantaggio che astrattamente il ricorrente potrebbe
ottenere per effetto della riedizione dell'attività
amministrativa non è ex se indicativa della titolarità di
una posizione di interesse giuridicamente qualificata e
differenziata, idonea a legittimare la tutela
giurisdizionale. Analoghe considerazioni possono farsi per l'ulteriore
utilità, costituita dalla "reviviscenza" del previgente e
più favorevole P.R.G. che si avrebbe per effetto
dell'annullamento giurisdizionale del P.G.T.: utilità la
quale, oltre a essere anch'essa non indicativa
dell'esistenza di un interesse giuridicamente tutelabile,
quand'anche effettivamente sussistente sarebbe comunque
provvisoria, essendo jus receptum che l'effetto immediato
dell'annullamento di uno strumento urbanistico consiste nel
dovere dell'Amministrazione di riesercitare la propria
potestà di pianificazione del territorio. Nella richiamata decisione della Quarta Sezione si è
espressamente affermata la condivisione del principio per
cui "laddove la VAS si concluda con un giudizio positivo (o
positivo condizionato) il soggetto che subisca
determinazioni lesive della sua sfera giuridica discendenti
dall'accettazione (piena o condizionata) delle proposte
pianificatorie sottoposte a VAS, ben potrà censurare anche
queste determinazioni preliminari condizionanti, poiché è
per effetto di questo giudizio di sostenibilità complessiva
di queste scelte che le stesse possono tramutarsi in atti
pianificatori negativi". Nella detta pronuncia si è altresì rilevato che per evitare
di pervenire a una legitimatio generalis del tipo di quella
sopra indicata, occorre che le "determinazioni lesive"
fondanti l'interesse a ricorrere siano effettivamente
"condizionate", ossia causalmente riconducibili in modo
decisivo, alle preliminari conclusioni raggiunte in sede di
V.A.S., e pertanto l'istante avrebbe dovuto precisare come e
perché tali conclusioni nella specie abbiano svolto un tale
ruolo decisivo sulle opzioni relative ai suoli in sua
proprietà, ciò che non ha fatto. --------------- La cd. Valutazione ambientale strategica (VAS) è la
valutazione delle conseguenze ambientali di piani e
programmi al fine ultimo di assicurare lo sviluppo
sostenibile di un territorio sotto il profilo ambientale. E'
una procedura finalizzata precipuamente a mettere in rilievo
le possibili cause di un degrado ambientale derivante
dall'adozione di piani e programmi interessanti il
territorio, introdotta dalla Direttiva comunitaria
2001/42/CE che prevede, appunto, la sua applicazione a piani
e programmi produttivi di effetti significativi
sull'ambiente. La giurisprudenza di merito ha per il vero puntualizzato che
“in un'ottica sostanzialistica tesa ad evitare
interpretazioni normative che si risolvano in meri
adempimenti formali e rappresentano inutili appesantimenti
del procedimento, non deve essere sottoposto alla procedura
di valutazione ambientale strategica (VAS), né a quella di
valutazione di incidenza, uno strumento pianificatorio le
cui previsioni non si discostano in maniera sostanziale da
quelle già fatte oggetto di tale indagine, tanto più che
parte ricorrente non fornisce alcuna dimostrazione del fatto
che le previsioni derivanti dall'applicazione del piano
possono avere sull'ambiente effetti significativi diversi da
quelli già presi in considerazione”. --------------- Il Collegio non può che richiamare -in relazione alla
pretesa fungibilità della procedura di Vas con quella
relativa alla valutazione di incidenza dei Sic-
l’affermazione secondo cui “in materia ambientale, la
valutazione ambientale strategica va distinta dalla
valutazione di incidenza, prevista dal D.P.R. n. 357/1997
nel sistema previgente all'entrata in vigore del D.Lgs. n.
4/2008, che ha un rilievo meramente settoriale destinato
alla particolare protezione dei siti di rilevanza
comunitaria.". Il Collegio conosce –ed apprezza-
la giurisprudenza del Consiglio di Stato segnalata
dall’appellante amministrazione comunale (cfr. sez. IV,
12.01.2011, n. 133), per la quale le censure inerenti il
procedimento di VAS sono ammissibili nei limiti in cui la
parte istante specifichi quale concreta lesione alla sua
proprietà sia derivata dall’inosservanza delle norme sul
procedimento; in altri termini non deve trattarsi di una
doglianza meramente “strumentale”, ma sostanziale, visto che
il generico interesse ad un nuovo esercizio del potere pianificatorio dell’Amministrazione è insufficiente a
distinguere la posizione del ricorrente da quella del
quisque de populo (cfr. in termini, anche TAR Lombardia,
Milano, sez. II, 12.01.2012, n. 297). Nel caso in cui, viceversa, si lamenti la totale omissione
di tale incombente procedimentale, non è dato applicare il
detto principio, proprio a cagione della circostanza che non
può ipotizzarsi quale sarebbe stato l’approdo della Vas, e
si oblierebbe la circostanza che un possibile parere del
tutto negativo avrebbe potuto indurre l’Amministrazione a
rinunciare alla variante, ovvero a rimodularla
integralmente. In materia, è d'uopo richiamare la più recente
giurisprudenza della Sezione sui limiti alla configurabilità
dell'interesse c.d. strumentale all'impugnazione di uno
strumento urbanistico, nel senso che tale impugnazione deve
pur sempre ancorarsi a specifici vizi ravvisati con
riferimento alle determinazioni adottate
dall'Amministrazione in ordine al regime dei suoli in
proprietà del ricorrente, e non può fondarsi sul generico
interesse a una migliore pianificazione del proprio suolo,
che in quanto tale non si differenzia dall'eguale interesse
che quisque de populo potrebbe nutrire (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 13.07.2010, nr. 4546). In altri termini, l'utilità comunque rappresentata dal
possibile vantaggio che astrattamente il ricorrente potrebbe
ottenere per effetto della riedizione dell'attività
amministrativa non è ex se indicativa della titolarità di
una posizione di interesse giuridicamente qualificata e
differenziata, idonea a legittimare la tutela
giurisdizionale. Analoghe considerazioni possono farsi per l'ulteriore
utilità, costituita dalla "reviviscenza" del previgente e
più favorevole P.R.G. che si avrebbe per effetto
dell'annullamento giurisdizionale del P.G.T.: utilità la
quale, oltre a essere anch'essa non indicativa
dell'esistenza di un interesse giuridicamente tutelabile,
quand'anche effettivamente sussistente sarebbe comunque
provvisoria, essendo jus receptum che l'effetto immediato
dell'annullamento di uno strumento urbanistico consiste nel
dovere dell'Amministrazione di riesercitare la propria
potestà di pianificazione del territorio (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 07.06.2004, nr. 3563; Cons. Stato, sez. V, 23.04.2001, nr. 2415). Nella richiamata decisione della Quarta Sezione (12.1.2011,
n. 133) si è espressamente affermata la condivisione del
principio per cui "laddove la VAS si concluda con un
giudizio positivo (o positivo condizionato) il soggetto che
subisca determinazioni lesive della sua sfera giuridica
discendenti dall'accettazione (piena o condizionata) delle
proposte pianificatorie sottoposte a VAS, ben potrà
censurare anche queste determinazioni preliminari
condizionanti, poiché è per effetto di questo giudizio di
sostenibilità complessiva di queste scelte che le stesse
possono tramutarsi in atti pianificatori negativi". Nella detta pronuncia si è altresì rilevato che per evitare
di pervenire a una legitimatio generalis del tipo di quella
sopra indicata, occorre che le "determinazioni lesive"
fondanti l'interesse a ricorrere siano effettivamente
"condizionate", ossia causalmente riconducibili in modo
decisivo, alle preliminari conclusioni raggiunte in sede di
V.A.S., e pertanto l'istante avrebbe dovuto precisare come e
perché tali conclusioni nella specie abbiano svolto un tale
ruolo decisivo sulle opzioni relative ai suoli in sua
proprietà, ciò che non ha fatto. Nel caso di specie, tuttavia, ciò che si lamenta è la totale
omissione dell’incombente. Ne consegue che da un canto non è
possibile preconizzare l’esito cui sarebbe approdata la Vas
e l’eventuale pregiudizio che la originaria parte ricorrente
ne avrebbe potuto ricavare: è ben vero che, di solito, il
detto incombente ove espletato si risolve nella imposizione
di prescrizioni più stringenti rispetto a quelle contenute
nel piano o programma soggetto a valutazione. E’ ben vero però che, per un verso, detta regola non può
essere elevata a canone generale (non può escludersi, in via
di principio, che la espletata vas introduca elementi di
giudizio non già puramente e semplicemente “restrittivi” di
prescrizioni ma modificativi delle stesse, rimodulativi, etc.);
per altro verso, i proprietari dei suoli soggetti a
regolamentazione hanno comunque l’interesse a che ciò
avvenga mediante atti immuni da censure, di guisa che
possano comunque contare sulla stabilità ed incontestabilità
dell’assetto di interessi prefissato nell’atto. La doglianza va quindi disattesa.
---------------
Quanto alla
censura -connessa unicamente sotto il profilo logico a
quella dianzi esaminata- secondo cui trattavasi di variante
“normativa” priva di significativi impatti sull’ambiente, di
guisa che la Vas non sarebbe stata obbligatoria si rimarca
che questo Consiglio di Stato ha in passato affermato che
(Cons. Stato Sez. IV, 13.11.2012, n. 5715) “la cd.
Valutazione ambientale strategica (VAS) è la valutazione
delle conseguenze ambientali di piani e programmi al fine
ultimo di assicurare lo sviluppo sostenibile di un
territorio sotto il profilo ambientale. E' una procedura
finalizzata precipuamente a mettere in rilievo le possibili
cause di un degrado ambientale derivante dall'adozione di
piani e programmi interessanti il territorio, introdotta
dalla Direttiva comunitaria 2001/42/CE che prevede, appunto,
la sua applicazione a piani e programmi produttivi di
effetti significativi sull'ambiente”. La giurisprudenza di merito ha per il vero puntualizzato che
(TAR Friuli-Venezia Giulia Trieste Sez. I, 10.05.2012, n.
169) “in un'ottica sostanzialistica tesa ad evitare
interpretazioni normative che si risolvano in meri
adempimenti formali e rappresentano inutili appesantimenti
del procedimento, non deve essere sottoposto alla procedura
di valutazione ambientale strategica (VAS), né a quella di
valutazione di incidenza, uno strumento pianificatorio le
cui previsioni non si discostano in maniera sostanziale da
quelle già fatte oggetto di tale indagine, tanto più che
parte ricorrente non fornisce alcuna dimostrazione del fatto
che le previsioni derivanti dall'applicazione del piano
possono avere sull'ambiente effetti significativi diversi da
quelli già presi in considerazione.”. In estrema sintesi il comune di Vasto appellante invoca
l’applicazione di tale principio al caso di specie (sebbene
il PRG risalisse al 2001 e nessuno studio ambientale illo
tempore lo avesse supportato) al fine di pervenire
all’affermazione per cui, in concreto, la variante non
sarebbe stata sottoponibile a Vas. Sennonché, nel caso di
specie appare evidente che la stessa esposizione di parte
appellante (pag 3 dell’appello) relativa alle prescrizioni
contenute nella variante (anche adeguamento a piani
sovraordinati) ed all’ambito della stessa (relativa
all’intero PRG) esclude che si possa individuare una
“modestia” della incidenza della stessa tale da condurre
alla affermazione che, in concreto, la Vas non doveva essere
effettuata. In tal modo argomentando il comune inverte i termini del
ragionamento: la variante riguardava di fatto l’intero
territorio comunale; le modifiche, incidenti sulle NTA
incidevano quindi sulla generalità delle prescrizioni
relative al suolo del comune; inferire una carenza di
effetti sull’ambiente dalla mancata previsione di
zonizzazioni, ovvero dalla diminuzione del carico
urbanistico integra apodittica affermazione, semmai
destinata -eventualmente– ad essere corroborata in sede di
effettuazione della Vas e responso favorevole di
quest’ultima. Può convenirsi quindi con la affermazione del primo giudice
che “fotografa” esattamente la posizione dell’
amministrazione comunale e la inversione logica che dalla
stessa discende: “ il comune deduce dal contenuto delle
nuove norme tecniche di attuazione la non necessità di
sottoporle a una previa valutazione ambientale, mentre è
proprio l’esito di tale valutazione a eventualmente
considerarne nullo l’impatto ambientale.” Ad avviso del Collegio comunque, e conclusivamente sul
punto, non può dirsi che una variante incidente sull’intero
territorio comunale –e volta a modificare un piano per il
quale, pacificamente, in passato non era stata effettuata la Vas- potesse andare esente dall’espletamento del detto
incombente. --------------- Quanto alle
altre due doglianze, il Collegio non può che richiamare -in
relazione alla pretesa fungibilità della procedura di Vas
con quella relativa alla valutazione di incidenza dei Sic-
l’affermazione contenuta nella decisione della Sezione VI
(sent. 10.05.2011, n. 2755) secondo cui “in materia
ambientale, la valutazione ambientale strategica va distinta
dalla valutazione di incidenza, prevista dal D.P.R. n.
357/1997 nel sistema previgente all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 4/2008, che ha un rilievo meramente settoriale
destinato alla particolare protezione dei siti di rilevanza
comunitaria.". Da tale principio il Collegio non ravvisa motivo per
discostarsi, il che esclude l’accoglibilità del mezzo
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.08.2013
n. 4201 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Poiché gli unici atti
inerenti ad un procedimento di formazione del P.R.G. dotati
di rilevanza esterna, e quindi autonomamente impugnabili,
sono la deliberazione comunale di adozione ed il
provvedimento regionale di approvazione, la mancata
impugnazione dell'atto con cui il Comune ha controdedotto
alle osservazioni, proponendone alternativamente il rigetto
o l'accoglimento, non può determinare l'inammissibilità
dell'appello proposto avverso la delibera di variante,
trattandosi di atto privo di contenuto provvedimentale e che
assolve ad una mera funzione endoprocedimentale, ad un tempo
consultiva e propositiva nei confronti dell'Amministrazione
regionale. --------------- L'adozione di una variante al piano regolatore generale, in
quanto provvedimento di pianificazione generale, non deve
essere necessariamente preceduta dalla comunicazione di
avvio del procedimento nei confronti dei soggetti
interessati. --------------- In materia urbanistica, l'obbligo di provvedere gravante sul
Comune in caso di decadenza di un vincolo preordinato
all'esproprio, va assolto mediante l'adozione di una
variante specifica o di variante generale, gli unici
strumenti che consentono alle amministrazioni comunali di
verificare la persistente compatibilità delle destinazioni
già impresse ad aree situate nelle zone più diverse del
territorio comunale, rispetto ai principi informatori della
vigente disciplina di piano regolatore e alle nuove esigenze
di pubblico interesse. Peraltro, il potere di conformazione urbanistica è
attribuito dalla legge all'organo consiliare, di talché il
semplice e prospettato avvio del procedimento di revisione
del piano regolatore generale comunale non costituisce
adempimento da parte del Comune in ordine all'obbligo di
riqualificazione urbanistica della zona rimasta priva di
specifica disciplina a seguito di decadenza del vincolo di
destinazione su di essa gravante. ---------------- Circa l'analisi del rapporto intercorrente tra delibera di
adozione e delibera di approvazione della variante generale,
la giurisprudenza ha chiarito che la mera adozione del piano
regolatore, non ancora approvato, determina la facoltà, ma
non anche l'onere di impugnazione; per altro verso, “la
mancata impugnazione della delibera di approvazione della
variante al piano regolatore non determina improcedibilità
del ricorso proposto avverso la delibera di adozione del
medesimo, poiché l'annullamento di quest'ultima esplica
effetti caducanti e non meramente vizianti sul successivo
provvedimento di approvazione nella parte in cui conferma le
previsioni contenute nel piano adottato e fatto oggetto di
impugnativa.” Il rapporto tra i due atti è quindi di presupposizione
eventuale, in quanto limitata all’ipotesi che le
prescrizioni avversate contenute nella delibera di adozione
restino immutate in fase di approvazione (si veda, sotto il
profilo generale TAR Puglia Lecce Sez. II, 16.04.2012, n.
679: ”la non necessità di impugnazione dell'atto finale,
quando sia stato già contestato quello preparatorio, opera
unicamente quando tra i due atti vi sia un rapporto di
presupposizione/conseguenzialità immediata, diretta e
necessaria, nel senso che l'atto successivo si pone quale
inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi
sono nuove ed autonome valutazioni di interessi, né del
destinatario dell'atto presupposto, né di altri soggetti;
diversamente, quando l'atto finale, pur partecipando della
medesima sequenza procedimentale in cui si colloca l'atto
preparatorio, non ne costituisce conseguenza inevitabile
perché la sua adozione implica nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, l'immediata impugnazione dell'atto
preparatorio non fa venir meno la necessità di impugnare
l'atto finale"). Nel sistema di legislazione urbanistica statale, i soli atti
del procedimento di formazione del piano regolatore dotati
di rilevanza esterna e, come tali, immediatamente
impugnabili, sono la deliberazione comunale di adozione e il
provvedimento regionale di approvazione.
Anche alle altre
affermazioni del Comune è agevole replicare richiamando in
senso contrario l’insegnamento della giurisprudenza
amministrativa. Secondo quest’ultima, infatti, (Cons. Stato Sez. IV Sent.,
08.08.2008, n. 3929) “poiché gli unici atti inerenti ad
un procedimento di formazione del P.R.G. dotati di rilevanza
esterna, e quindi autonomamente impugnabili, sono la
deliberazione comunale di adozione ed il provvedimento
regionale di approvazione, la mancata impugnazione dell'atto
con cui il Comune ha controdedotto alle osservazioni,
proponendone alternativamente il rigetto o l'accoglimento,
non può determinare l'inammissibilità dell'appello proposto
avverso la delibera di variante, trattandosi di atto privo
di contenuto provvedimentale e che assolve ad una mera
funzione endoprocedimentale, ad un tempo consultiva e
propositiva nei confronti dell'Amministrazione regionale.” Tutta l’elaborazione giurisprudenziale sul tema collide con
la tesi prospettata dall’appellante comune. Invero, da un canto costituisce approdo consolidato quello
per cui (Cons. Stato Sez. IV, 14.02.2012, n. 704, Cons.
Stato Sez. IV, 16.09.2011, n. 5229) “l'adozione di una
variante al piano regolatore generale, in quanto
provvedimento di pianificazione generale, non deve essere
necessariamente preceduta dalla comunicazione di avvio del
procedimento nei confronti dei soggetti interessati”. Secondariamente, è stato puntualmente osservato che (TAR
Puglia Lecce Sez. III, 30.01.2013, n. 262) “in materia
urbanistica, l'obbligo di provvedere gravante sul Comune in
caso di decadenza di un vincolo preordinato all'esproprio,
va assolto mediante l'adozione di una variante specifica o
di variante generale, gli unici strumenti che consentono
alle amministrazioni comunali di verificare la persistente
compatibilità delle destinazioni già impresse ad aree
situate nelle zone più diverse del territorio comunale,
rispetto ai principi informatori della vigente disciplina di
piano regolatore e alle nuove esigenze di pubblico
interesse; peraltro, il potere di conformazione urbanistica
è attribuito dalla legge all'organo consiliare, di talché il
semplice e prospettato avvio del procedimento di revisione
del piano regolatore generale comunale non costituisce
adempimento da parte del Comune in ordine all'obbligo di
riqualificazione urbanistica della zona rimasta priva di
specifica disciplina a seguito di decadenza del vincolo di
destinazione su di essa gravante”. Il complesso procedimento di revisione dello strumento
urbanistico generale quindi, trae avvio con l’adozione della
variante e si conclude con la sua approvazione: eventuali
atti prodromici e preparatorii non consentono di affermare
che il procedimento era già in itinere, di guisa che nella
incontroversa constatazione che al momento della semplice
adozione della variante la normativa in materia di Vas era
già entrata in vigore si deve escludere la pretesa
applicabilità del richiamato art. 52. E d’altro canto la superiore affermazione si impone anche
per elementari esigenze di logica (oltre che avuto riguardo
al dato testuale della disposizione citata, che non può
ovviamente far riferimento ad un avvio del procedimento
fondato su atti non tipici). Se si aderisse alla opzione ermeneutica dell’amministrazione
comunale, sarebbe stata sufficiente una mera e generica
espressione dell’intento di procedere alla rivisitazione
dell’assetto urbanistico dell’area comunale per considerare
il procedimento di variante “avviato” e, pertanto per
pervenire ad una inammissibile dequotazione degli obblighi
nascenti ex d.Lgs. n. 152/2006 esonerando le amministrazioni
dall’obbligo di esperire la Vas. Tali considerazioni sarebbero in realtà sufficienti a
smentire la fondatezza della doglianza. Ma ancora più rilevanti controindicazioni all’accoglibilità
di quest’ultima emergono sol che si analizzi il rapporto
intercorrente tra delibera di adozione e delibera di
approvazione della variante generale. La giurisprudenza ha chiarito in proposito che (Cons. Stato
Sez. IV, 15.02.2013, n. 921) la mera adozione del piano
regolatore, non ancora approvato, determina la facoltà, ma
non anche l'onere di impugnazione; per altro verso, “la
mancata impugnazione della delibera di approvazione della
variante al piano regolatore non determina improcedibilità
del ricorso proposto avverso la delibera di adozione del
medesimo, poiché l'annullamento di quest'ultima esplica
effetti caducanti e non meramente vizianti sul successivo
provvedimento di approvazione nella parte in cui conferma le
previsioni contenute nel piano adottato e fatto oggetto di
impugnativa.” Il rapporto tra i due atti è quindi di presupposizione
eventuale, in quanto limitata all’ipotesi che le
prescrizioni avversate contenute nella delibera di adozione
restino immutate in fase di approvazione (si veda, sotto il
profilo generale TAR Puglia Lecce Sez. II, 16.04.2012, n.
679: ”la non necessità di impugnazione dell'atto finale,
quando sia stato già contestato quello preparatorio, opera
unicamente quando tra i due atti vi sia un rapporto di
presupposizione/conseguenzialità immediata, diretta e
necessaria, nel senso che l'atto successivo si pone quale
inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi
sono nuove ed autonome valutazioni di interessi, né del
destinatario dell'atto presupposto, né di altri soggetti;
diversamente, quando l'atto finale, pur partecipando della
medesima sequenza procedimentale in cui si colloca l'atto
preparatorio, non ne costituisce conseguenza inevitabile
perché la sua adozione implica nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, l'immediata impugnazione dell'atto
preparatorio non fa venir meno la necessità di impugnare
l'atto finale"). Nel sistema di legislazione urbanistica statale, i soli atti
del procedimento di formazione del piano regolatore dotati
di rilevanza esterna e, come tali, immediatamente
impugnabili, sono la deliberazione comunale di adozione e il
provvedimento regionale di approvazione (TRGA Trentino-Alto
Adige Trento, 19.12.1996, n. 505). Anche a volere concordare con parte appellante (il che, per
le prima esplicate motivazioni, non è) in ordine alla
circostanza che al momento di entrata in vigore della
disciplina ex d.Lgs. n. 152/2006 la variante fosse in
itinere, ciò avrebbe potuto comportare, che si potesse
pervenire alla legittima adozione della stessa pur in
carenza di preventiva effettuazione della Vas: non anche che
anche il sub procedimento di approvazione (conclusosi circa
tre anni dopo, peraltro) restasse immune da tale obbligo. E, d’altro canto, analogo
modus comportamentale è
stato a più riprese predicato, in passato, dalla
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato secondo il quale
(Cons. Stato, VI, 31.01.2007, n. 370), è principio acquisito
quello per cui la rinnovazione del giudizio di compatibilità
ambientale è necessario quando le varianti progettuali
determinino la costruzione di un intervento
significativamente diverso da quello già esaminato. Se è
prevista un'autorizzazione alla realizzazione di un
intervento in più fasi, è necessaria una seconda VIA se nel
corso della seconda fase (e quindi per esempio in sede di
definitivo o di variante) il progetto può avere mostrato un
nuovo impatto ambientale importante, in particolare per la
sua natura, le sue dimensioni o la sua ubicazione (in
termini, Cons. Stato, VI, n. 2694 del 2006, principio
conforme a Corte giust. Comm. eu. 04.05.2006, C-290/2003;
Consiglio di Stato sez. IV, 07.07.2011, n. 4072). Ad analoghe affermazioni deve pervenirsi, ad avviso del
Collegio -salva inequivoca volontà contraria esplicitamente
espressa dal Legislatore (ma l’art. 52 del dLgs n. 152/2006
non autorizza una simile conclusione)- allorché un
sopravvenuto obbligo in materia ambientale si inserisca in
una fase subprocedimentale autonoma, costituendo
inammissibile dequotazione delle esigenze al medesimo
sottese l’omessa effettuazione dell’incombente. Tale omissione, peraltro, nel caso di specie, si porrebbe in
antitesi al principio di precauzione che ha presieduto alla
adozione nel sistema giuridico sovranazionale prima, e
nazionale poi, di detta valutazione. Invero la valutazione ambientale strategica (VAS) di cui
alla Direttiva 42/2001/Ce del Parlamento europeo, è volta a
garantire che gli effetti sull'ambiente di determinati piani
e programmi siano considerati durante l'elaborazione e prima
dell'adozione degli stessi, così da anticipare nella fase di
pianificazione e programmazione quella valutazione di
compatibilità ambientale che, se effettuata (come avviene
per la valutazione di impatto ambientale) sulle singole
realizzazioni progettuali, non consentirebbe di compiere
un'effettiva valutazione comparativa, mancando in concreto
la possibilità di disporre di soluzioni alternative per la
localizzazione degli insediamenti e, in generale, per
stabilire, nella prospettiva dello sviluppo sostenibile, le
modalità di utilizzazione del territorio. Detta valutazione, si rende necessaria in armonia con il
principio di “precauzione” direttamente discendente
dal Trattato Ue che, per ciò solo, costituisce criterio
interpretativo valido in Italia, a prescindere da singoli
atti di recepimento delle direttive in cui esso si compendia
(per una definizione di quest’ultimo: “il cd. "principio
di precauzione" fa obbligo alle Autorità competenti di
adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire i
rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e
per l'ambiente, ponendo una tutela anticipata rispetto alla
fase dell'applicazione delle migliori tecniche proprie del
principio di prevenzione.” -TAR Lazio Roma Sez. II bis,
20-01-2012, n. 665-; “la regola della precauzione può essere
considerata come un principio autonomo che discende dalle
disposizioni del Trattato UE. L'applicazione del principio
di precauzione comporta che, ogni qual volta non siano
conosciuti con certezza i rischi indotti da un'attività
potenzialmente pericolosa, l'azione dei pubblici poteri
debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al
consolidamento delle conoscenze scientifiche, anche nei casi
in cui i danni siano poco conosciuti o solo potenziali.“
-TAR Lazio Roma Sez. II-bis, 20.01.2012, n. 663-)
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.08.2013
n. 4201 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il principio, secondo cui va esclusa la necessità
di strumenti attuativi per il rilascio di concessioni in
zone già urbanizzate, è applicabile solo nei casi nei quali
la situazione di fatto, in presenza di una pressoché
completa edificazione della zona, sia addirittura
incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto
residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata),
ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una
edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una
situazione che esige un intervento idoneo a restituire
efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex
novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad
esempio, completando il sistema della viabilità secondaria
nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per
garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e
servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento
con le zone contigue, già asservite all'edificazione. --------------- L'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto
per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche
al fine di un armonico raccordo con il preesistente
aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di
urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più
limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed
urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione
della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di
altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata.
Rimarca in
contrario senso il Collegio che costituisce approdo
consolidato in dottrina ed in giurisprudenza quello per cui
(ex multis TAR Campania Salerno Sez. II, 23.02.2012, n.
372 - TAR Sardegna Cagliari, sez. II, 10.02.2011, n.
117) “il principio, secondo cui va esclusa la necessità di
strumenti attuativi per il rilascio di concessioni in zone
già urbanizzate, è applicabile solo nei casi nei quali la
situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa
edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con
un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso
in area completamente urbanizzata), ma non anche
nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione
disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che
esige un intervento idoneo a restituire efficienza
all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un
disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio,
completando il sistema della viabilità secondaria nella zona
o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il
rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici
e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone
contigue, già asservite all'edificazione).” Questo Consiglio di Stato ha in passato osservato che
"l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto
per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche
al fine di un armonico raccordo con il preesistente
aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di
urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più
limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed
urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione
della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di
altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata." (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 13.10.2010, n. 7486
Consiglio Stato: sez. IV, 01.10.2007, n. 5043 e 15.05.2002, n. 2592; sez. V,
01.12.2003, n. 7799 e 06.10.2000, n. 5326). Parte appellante contesta che l’area sia completamente
urbanizzata, ricorrendo ad un artificio dialettico, in
quanto ciò desume dalla circostanza che la detta area (della
quale quindi non si contesta sotto il profilo intrinseco la
completa urbanizzazione) è circondata da aree non
urbanizzate. Ciò che più rileva, però, è che la seconda parte del
ragionamento del Tar, in sostanza volto ad affermare che,
seppur in via di principio l’evenienza di una imposizione
della redazione di un piano attuativo non possa escludersi,
residua l’esigenza che detta opzione volitiva sia
congruamente motivata dal Comune (così la sentenza
impugnata: “vi possono essere peraltro delle ipotesi in cui,
ancorché in una zona urbanizzata, la confusione edilizia e
il disordine urbanistico siano tali da richiedere comunque
la predisposizione di un piano attuativo, però tali
situazioni devono risultare nella motivazione del
provvedimento amministrativo anche pianificatorio o
perlomeno dalla relazione accompagnatoria e dalla
documentazione allegata”) non è stato contestato, se non per
ribadire che le scelte potrebbero ricavarsi dai criteri
logico-discrezionali seguiti per la redazione del Piano. Osserva il Collegio che –proprio in virtù dei principi
di matrice giurisprudenziale cui il Comune dichiara di
rifarsi- la detta opzione avrebbe necessitato un duplice
chiarimento: in fatto, in ordine alla non completa
urbanizzazione della specifica area; in diritto, in ordine
alle ragioni che imponevano la subordinazione
dell’edificazione alla redazione di un strumento attuativo,
nella specifica area. Di tali chiarimenti non v’è traccia in atti, ed il richiamo
ad obiettivi esposti nella Relazione del Piano (”sviluppo
sostenibile”, etc.) tanto generici quanto non tarati
sullo specifico caso finiscono con eludere l’obbligo
motivazionale: anche sotto tale profilo la sentenza di prime
cure, che ha esattamente colto l’omessa soddisfazione di
tale onere di motivazione “rafforzata” appare esente
da mende (mentre appare addirittura confessoria rispetto
alla prima parte dell’appello l’ultima proposizione
contenuta nell’appello comunale, relativo all’avvenuto
aumento delle aree a standard)
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.08.2013
n. 4201 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Rientra nelle
attribuzioni dirigenziali il potere di negare il rinnovo di
un contratto avente ad oggetto la disciplina di un rapporto concessorio in scadenza, atteso
che in esso non sono ravvisabili profili che possano
ricondursi a scelte strategiche o di indirizzo politico da
compiere, atteso che la scelta di affidare il servizio in
concessione era già stata effettuata precedentemente con delibera. --------------- È stato osservato come il modo di definire le competenze
della Giunta comporti delle evidenti incongruenze e delle
notevoli difficoltà, non essendo certamente agevole
verificare ed individuare ogni volta, in negativo, quali
atti non sono assegnati dalla normativa alla competenza del
Sindaco, del Consiglio e dei dirigenti. Il problema di delimitazione delle competenze della Giunta,
risulta poi particolarmente complesso proprio con riguardo
ai poteri attribuiti ai dirigenti, posto che l'art. 107 del
T.U. individua in modo negativo e residuale anche la
competenza di questi ultimi stabilendo che spettano agli
organi burocratici “gli atti e i provvedimenti che impegnano
l'Amministrazione verso l'esterno, non compresi
espressamente dalla legge e dallo statuto tra le funzioni di
indirizzo e controllo politico degli organi di governo
dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o
del direttore generale”. Poiché sia la Giunta che i dirigenti sono organi cui la
legge attribuisce funzioni lato sensu esecutive
dell'indirizzo politico, il discrimen tra le due competenze
è, dunque, da individuare nella diversa natura dei due
organi e nel principio di separazione tra attività politica
e attività gestionale. Senza approfondire una tematica sulla
quale copiosi sono stati gli interventi di dottrina e in
giurisprudenza, in questa sede basti ricordare che la Giunta
è un organo di governo dell'Ente locale e pertanto svolge
una funzione di attuazione politica delle scelte
fondamentali operate dal Consiglio, mentre ai dirigenti
compete l'attività di gestione tecnica-finanziaria-contabile
e l'assunzione di tutti i provvedimenti amministrativi, o
atti di diritto privato, necessari per conseguire gli
obiettivi stabiliti dagli organi di indirizzo. In specifico, in relazione all’eccepita incompetenza, si
deve ricordare che la competenza attribuita dal d.lgs.
18.08.2000, n. 267, ai Consigli Comunali deve intendersi
circoscritta agli atti fondamentali dell'Ente, di natura
programmatoria o aventi un elevato contenuto di indirizzo
politico, mentre spettano alle Giunte Comunali tutti gli
atti rientranti nelle funzioni degli organi di governo
(Consiglio di Stato, sez. I, 21.10.2010, n. 3894),
nell’ambito, tuttavia, di un riparto di competenze tra
organi politici e burocratici così come delineato dal Testo
Unico citato. Come noto, il nuovo sistema di riparto di competenze tra
organi politici è retto dal principio secondo cui l'organo
elettivo è chiamato ad esprimere gli indirizzi politici ed
amministrativi di rilievo generale, che si traducono in atti
fondamentali tassativamente elencati dall'art. 32 della
legge 08.06.1990, n. 142, poi trasfuso nell'art. 42 del T.U.E.L. Al Consiglio, organo di indirizzo politico-amministrativo,
spetta (anche in virtù del fatto che in esso sono
rappresentate tutte le forze politiche, comprese le
minoranze) il compito, da un lato, di contribuire
attivamente alla formazione e all'aggiornamento del
programma politico-amministrativo del Sindaco e della Giunta
(funzione di indirizzo), e, dall'altro, di controllare che
l'azione di governo sia fedele al programma stesso (funzione
di controllo). Oltre a tali funzioni, di carattere generale, spetta al
Consiglio anche l'adozione di una serie di atti
fondamentali, attraverso cui si esplica il ruolo di
indirizzo dell'organo. Con l'attribuzione di una competenza
limitata ad una serie di atti tassativamente individuati, il
legislatore ha infatti voluto trasformare il Consiglio da
organo con competenza generale e residuale (quale era nel
T.U. del 1915) in organo con attribuzioni specificamente
individuate ed esclusive. L'elencazione, peraltro, non esaurisce le sue attribuzioni
in quanto altre norme e lo stesso T.U. individuano ulteriori
competenze; tuttavia, si tratta di competenze esclusive
perché solo il Consiglio può esercitarle. Con tale scelta il legislatore ha voluto alleggerire la vita
istituzionale del Consiglio che risultava notevolmente
appesantita da tutta quella miriade di compiti che vi
gravavano in virtù della competenza generale e residuale, e
conseguentemente, rafforzare il ruolo politico del Consiglio
stesso. Occorre inoltre precisare che gli atti di competenza del
Consiglio sono espressamente definiti “fondamentali” dal
legislatore, proprio per indicare che si tratta di atti
assai significativi e qualificanti per la vita e
l'organizzazione dell'ente, che per la loro rilevante
incidenza e/o straordinarietà rispetto al flusso quotidiano
dei bisogni correnti richiedono l'attenzione del massimo
organo. Per converso, nel sistema delineato dal T.U., la Giunta
comunale è l'organo politico-esecutivo che compie gli atti
di amministrazione che non siano riservati dalla legge al
Consiglio e che non rientrino nelle competenze -previste
dalle leggi o dallo statuto- del Sindaco, degli organi di
decentramento, del segretario o dei dirigenti ex art. 107
del T.U. 267-2000. In altri termini, diversamente dal passato, spetta alla
Giunta una competenza generale e residuale in virtù della
quale a tale organo sono attribuite tutte quelle materie che
la legge o gli statuti non riservano ad altri organi, sia
politici che burocratici, dell'ente locale. È stato osservato come tale modo di definire le competenze
della Giunta comporti delle evidenti incongruenze e delle
notevoli difficoltà, non essendo certamente agevole
verificare ed individuare ogni volta, in negativo, quali
atti non sono assegnati dalla normativa alla competenza del
Sindaco, del Consiglio e dei dirigenti. Il problema di
delimitazione delle competenze della Giunta, risulta poi
particolarmente complesso proprio con riguardo ai poteri
attribuiti ai dirigenti, posto che l'art. 107 del T.U.
individua in modo negativo e residuale anche la competenza
di questi ultimi stabilendo che spettano agli organi
burocratici “gli atti e i provvedimenti che impegnano
l'Amministrazione verso l'esterno, non compresi
espressamente dalla legge e dallo statuto tra le funzioni di
indirizzo e controllo politico degli organi di governo
dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o
del direttore generale”. Poiché sia la Giunta che i dirigenti sono organi cui la
legge attribuisce funzioni lato sensu esecutive
dell'indirizzo politico, il discrimen tra le due competenze
è, dunque, da individuare nella diversa natura dei due
organi e nel principio di separazione tra attività politica
e attività gestionale. Senza approfondire una tematica sulla
quale copiosi sono stati gli interventi di dottrina e in
giurisprudenza, in questa sede basti ricordare che la Giunta
è un organo di governo dell'Ente locale e pertanto svolge
una funzione di attuazione politica delle scelte
fondamentali operate dal Consiglio, mentre ai dirigenti
compete l'attività di gestione tecnica-finanziaria-contabile
e l'assunzione di tutti i provvedimenti amministrativi, o
atti di diritto privato, necessari per conseguire gli
obiettivi stabiliti dagli organi di indirizzo. Il principio generale che regola il riparto di competenze
tra Consiglio, Giunta e dirigenza, applicabile anche alla
materia oggetto della presente controversia, relativa al
rapporto concessorio tra il Comune e l’appellante, sorto con
il “contratto” di concessione di area demaniale per
l’installazione di un impianto di frantumazione e selezione
di inerti in località “Pontone Longo” in data 07.11.2000,
rep. n. 4686, consente dunque di delineare in modo
abbastanza agevole le rispettive sfere di azione e di
risolvere le problematiche interpretative poste dalla
fattispecie in esame. Infatti, tenuto conto del ruolo rivestito dal Consiglio nel
sistema del T.U., sembra ragionevole ritenere che la
competenza a deliberare in materia sia del tutto esclusa,
non essendo tale materia attinente alla gestione dei servizi
pubblici e, in particolare, alla concessione del servizio,
ove in ogni caso la competenza di tale organo si riferisce
alla decisione di principio circa il modulo organizzativo da
adottare (ad es., concessione e non s.p.a.) e non si estende
certamente a tutti gli atti esecutivi di tale scelta,
proprio per l'espressa limitazione delle competenze
dell'organo elettivo agli atti fondamentali. Inoltre, tale censura non potrebbe neppure risultare fondata
in relazione all’art. 10 del contratto di concessione,
poiché un contratto o un atto amministrativo puntuale non
possono certamente incidere sulle competenze amministrative,
che devono essere oggetto di apposito atto normativo. Né viene in rilievo nella fattispecie la violazione del
principio del contrarius actus, posto che tale principio
sostanzialmente richiamato nell’ambito dell’art. 21-nonies
della l. n. 241-90 riguarda i provvedimenti di autotutela,
genus cui certamente non appartiene l’atto in oggetto che
consiste, come detto, in un diniego di rinnovo di
concessione. Pertanto, rientra nelle attribuzioni dirigenziali il potere
di negare il rinnovo di un contratto avente ad oggetto la
disciplina di un rapporto concessorio in scadenza, atteso
che in esso non sono ravvisabili profili che possano
ricondursi a scelte strategiche o di indirizzo politico da
compiere, atteso che la scelta di affidare il servizio in
concessione era già stata effettuata con la delibera n. 82
del 28.06.2000 (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.08.2013 n. 4192 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
In materia di rinnovo o
proroga dei contratti pubblici di appalto di servizi non vi
è alcuno spazio per l’autonomia contrattuale delle parti in
relazione alla normativa inderogabile stabilita dal
legislatore per ragioni di interesse pubblico, in quanto
vige il principio in forza del quale, salve espresse
previsioni dettate dalla legge in conformità della normativa
comunitaria, l’Amministrazione, una volta scaduto il
contratto, deve, qualora abbia ancora la necessità di
avvalersi dello stesso tipo di prestazioni, effettuare una
nuova gara. --------------- Il principio del divieto di rinnovo dei contratti di appalto
scaduti, stabilito dall'art. 23, l. 18.04.2005, n. 62, ha
valenza generale e preclusiva sulle altre e contrarie
disposizioni dell'ordinamento. Costituisce principio
consolidato che, anche laddove la possibilità di proroga sia
prevista nella lex specialis, essa potrebbe, al limite,
consentire una limitata deroga al principio del divieto di
rinnovo, purché con puntuale motivazione l'Amministrazione
dia conto degli elementi che conducono a disattendere il
principio generale. Tale rapporto tra regola ed eccezione si
riflette sul contenuto della motivazione. Se
l'Amministrazione opta per l'indizione della gara, nessuna
particolare motivazione è necessaria; non così invece se ci
si avvale della possibilità di proroga prevista dal bando. Tale principio vale sicuramente anche in relazione alle
concessioni di servizio e alle concessioni su aree demaniali
afferenti al servizio stesso ex art. 30 del Codice dei
contratti pubblici. Anche gli altri motivi di appello sono infondati. Infatti: - il diritto a vedersi accordato il rinnovo del contratto di
concessione di servizio pubblico di area demaniale per
l’attività di frantumazione e selezione di inerti non può
sorgere solo perché tale attività è finalizzata anche al
completamento del progetto di risanamento ambientale, in
quanto la c.d. gestione del servizio di recupero ambientale
delle ex cave site in località Pontone Longo in San Giovanni
Rotondo è una mansione accessoria rispetto al cardine
principale dell’attività dell’appellante, il quale ha
ottenuto concessione del suolo costituente l’area di sedime
dell’ex cava principalmente per l’istallazione di un
impianto di selezione e frantumazione di inerti provenienti
da scavi e per i quali il medesimo percepisce un
corrispettivo per ogni metro cubo; - in materia di rinnovo o proroga dei contratti pubblici di
appalto di servizi non vi è alcuno spazio per l’autonomia
contrattuale delle parti in relazione alla normativa
inderogabile stabilita dal legislatore per ragioni di
interesse pubblico, in quanto vige il principio in forza del
quale, salve espresse previsioni dettate dalla legge in
conformità della normativa comunitaria, l’Amministrazione,
una volta scaduto il contratto, deve, qualora abbia ancora
la necessità di avvalersi dello stesso tipo di prestazioni,
effettuare una nuova gara (Cons. Stato, Sez. V, 02.02.2010, n.
445, Cons. Stato, Sez. IV, 31.05.2007, n. 2866, Cons. Stato,
Sez. V, 08.07.2008, n. 3391); - non vi è spazio per riconoscere violazioni procedimentali
sotto il profilo della contraddittorietà o carenza di
motivazione; infatti, se l’Amministrazione opta per
l’indizione di una gara pubblica non è necessaria nessuna
motivazione e, pertanto nessuna giustificazione circa il
disatteso rinnovo contrattuale; - infatti, il principio del divieto di rinnovo dei contratti
di appalto scaduti, stabilito dall'art. 23, l. 18.04.2005, n. 62, ha valenza generale e preclusiva sulle altre e
contrarie disposizioni dell'ordinamento. Costituisce
principio consolidato che, anche laddove la possibilità di
proroga sia prevista nella lex specialis, essa potrebbe, al
limite, consentire una limitata deroga al principio del
divieto di rinnovo, purché con puntuale motivazione
l'Amministrazione dia conto degli elementi che conducono a
disattendere il principio generale. Tale rapporto tra regola
ed eccezione si riflette sul contenuto della motivazione. Se
l'Amministrazione opta per l'indizione della gara, nessuna
particolare motivazione è necessaria; non così invece se ci
si avvale della possibilità di proroga prevista dal bando
(cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 24.11.2011, n.
6194); - tale principio vale sicuramente anche in relazione alle
concessioni di servizio e alle concessioni su aree demaniali
afferenti al servizio stesso ex art. 30 del Codice dei
contratti pubblici; - tale regola generale rende evidente che l’inosservanza
della disposizione di cui all’art. 10-bis costituisce mero
vizio di forma non inficiante la sostanza della decisione,
quindi non annullabile ai sensi dell’art. 21-ocites, come
correttamente ritenuto dal TAR (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.08.2013 n. 4192 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
I provvedimenti di
autotutela sono manifestazione dell'esercizio di un potere
tipicamente discrezionale della pubblica amministrazione che
non ha alcun obbligo di attivarlo e, qualora intenda farlo,
deve valutare la sussistenza o meno di un pubblico interesse
che giustifichi la rimozione dell'atto, valutazione di cui
essa sola è titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso
di una situazione già definita con provvedimento
inoppugnabile. Il potere di autotutela amministrativa è, dunque, un potere
di merito dell'amministrazione, che si esercita previa
valutazione delle ragioni di pubblico interesse, valutazione
riservata alla p.a. e insindacabile da parte del giudice. Per giurisprudenza unanime, non sussiste, quindi, un
interesse legittimo dei privati all'autotutela
amministrativa: l'amministrazione, invero, non ha un obbligo
di rispondere all’istanza con cui il privato sollecita
l’esercizio del potere di autotutela, in presenza di una
situazione cristallizzata da provvedimenti inoppugnati. Ordinariamente, il diniego espresso di autotutela è un atto
meramente confermativo dell'originario provvedimento, che
non compie una nuova valutazione degli interessi in gioco, e
che pertanto non può essere un mezzo per una sostanziale
rimessione in termini quanto alla contestazione
dell'originario provvedimento. Solo nel caso in cui l'amministrazione, sollecitata ad
esercitare l'autotutela, riesamini l'originario
provvedimento e a seguito di appropriato procedimento
amministrativo confermi -con una rinnovata valutazione degli
interessi in gioco e con una motivazione dotata di
autonomia- l'originario provvedimento, si ha un atto di
conferma in senso proprio, autonomamente lesivo e pertanto
impugnabile. --------------- Poiché l'amministrazione non ha un obbligo di rispondere
all’istanza con cui il privato sollecita l’esercizio del
potere di autotutela, in presenza di una situazione
cristallizzata da provvedimenti inoppugnati, non può,
parimenti, configurarsi –nel caso in cui la p.a. non rimanga
inerte ma risponda al privato- un obbligo di motivare
puntualmente sulle questioni prospettate. Invero, ove si imponesse all’amministrazione di motivare le
ragioni per le quali non intende aderire alle sollecitazioni
formulate nelle istanze di autotutela, si consentirebbe un
aggiramento della regola della necessaria impugnazione
dell’atto amministrativo nel termine di decadenza. È consolidato indirizzo giurisprudenziale
che i provvedimenti di autotutela sono manifestazione
dell'esercizio di un potere tipicamente discrezionale della
pubblica amministrazione che non ha alcun obbligo di
attivarlo e, qualora intenda farlo, deve valutare la
sussistenza o meno di un pubblico interesse che giustifichi
la rimozione dell'atto, valutazione di cui essa sola è
titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso di una
situazione già definita con provvedimento inoppugnabile
(C.d.S., sez. IV, 20.07.2005, n. 3039; 10.11.2003,
n. 7136). Il potere di autotutela amministrativa è, dunque, un potere
di merito dell'amministrazione, che si esercita previa
valutazione delle ragioni di pubblico interesse, valutazione
riservata alla p.a. e insindacabile da parte del giudice. Per giurisprudenza unanime, non sussiste, quindi, un
interesse legittimo dei privati all'autotutela
amministrativa: l'amministrazione, invero, non ha un obbligo
di rispondere all’istanza con cui il privato sollecita
l’esercizio del potere di autotutela, in presenza di una
situazione cristallizzata da provvedimenti inoppugnati
(C.d.S., sez. IV, 21.05.2004, n. 3313). Ordinariamente, il diniego espresso di autotutela è un atto
meramente confermativo dell'originario provvedimento, che
non compie una nuova valutazione degli interessi in gioco, e
che pertanto non può essere un mezzo per una sostanziale
rimessione in termini quanto alla contestazione
dell'originario provvedimento. Solo nel caso in cui l'amministrazione, sollecitata ad
esercitare l'autotutela, riesamini l'originario
provvedimento e a seguito di appropriato procedimento
amministrativo confermi -con una rinnovata valutazione
degli interessi in gioco e con una motivazione dotata di
autonomia- l'originario provvedimento, si ha un atto di
conferma in senso proprio, autonomamente lesivo e pertanto
impugnabile (Consiglio di Stato, sez. V, 03.05.2012, n.
2548). ---------------
Poiché
l'amministrazione non ha un obbligo di rispondere
all’istanza con cui il privato sollecita l’esercizio del
potere di autotutela, in presenza di una situazione
cristallizzata da provvedimenti inoppugnati (C.d.S., sez. IV,
21.05.2004, n. 3313), non può, parimenti, configurarsi –nel caso in cui la p.a. non rimanga inerte ma risponda al
privato- un obbligo di motivare puntualmente sulle
questioni prospettate. Invero, ove si imponesse all’amministrazione di motivare le
ragioni per le quali non intende aderire alle sollecitazioni
formulate nelle istanze di autotutela, si consentirebbe un
aggiramento della regola della necessaria impugnazione
dell’atto amministrativo nel termine di decadenza
(TAR
Emilia Romagna-Parma,
sentenza 20.08.2013 n. 255 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: ...
si tratta di stabilire se, ai fini dell’integrazione del
requisito della regolarità fiscale di cui all'art. 38 cit.,
sia sufficiente che, entro il termine di presentazione
dell'offerta, sia stata presentata da parte del concorrente
istanza di rateazione del debito tributario oppure occorra
che il relativo procedimento si sia concluso con un
provvedimento favorevole. Il Collegio ritiene che la quaestio iuris debba essere
risolta in conformità al prevalente indirizzo interpretativo
affermatosi in subiecta materia, da ultimo confermato da
questa Adunanza Plenaria con la sentenza 05.06.2013, n. 15. La giurisprudenza comunitaria e quella nazionale, al pari
dell’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici, hanno
anche di recente ribadito, sulla scorta di argomentazioni
suscettibili di condivisione, l’adesione alla tesi più
rigorosa secondo cui il requisito della regolarità fiscale
può dirsi sussistente solo qualora, prima del decorso del
termine per la presentazione della domanda di partecipazione
alla gara di appalto, l’istanza di rateizzazione sia stata
accolta con l’adozione del relativo provvedimento
costitutivo. Si è a tale stregua subordinata l’ammissione alla procedura
alla condizione che “l'istanza di rateizzazione sia stata
accolta prima della scadenza del termine di presentazione
della domanda di partecipazione alla gara e preceda
l'autodichiarazione circa il possesso della regolarità,
essendo inammissibile una dichiarazione che attesti il
possesso di un requisito in data futura”.
1. La questione rimessa all’Adunanza Plenaria riguarda
l’individuazione dell’esatta portata del concetto di
definitività dell’accertamento della violazione tributaria,
ex art. 38, comma 1, lett. g, del codice dei contratti
pubblici, laddove vengano in rilievo meccanismi di
rateizzazione o dilazione del debito tributario ai sensi
dell’art. 19 del d.P.R. 29.09.1973, n. 602 e di norme
analoghe (cfr. la sospensione amministrativa della
riscossione di cui all'art. 39 del medesimo DPR n.
602/1973). 2. Deve essere, in via preliminare, riepilogato il quadro
normativo che regola la fattispecie sottoposta all’esame
dell’Adunanza Plenaria. L’articolo 38, comma 1, lettera g, del codice dei contratti
pubblici stabilisce che “sono esclusi dalla partecipazione
alle procedure di affidamento delle concessioni e degli
appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere
affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi
contratti i soggetti…. che hanno commesso violazioni gravi,
definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi
al pagamento delle imposte e tasse, secondo la legislazione
italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti”.
Il d.l. 13.05.2011, n. 70, convertito, con
modificazioni, dalla legge 12.07.2011, n. 106, ha
dettato un parametro quantitativo cui ancorare l’elemento
della gravità della violazione (“si intendono gravi le
violazioni che comportano un omesso pagamento di imposte e
tasse per un importo superiore all’importo di cui
all’articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis, del decreto del
Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602”). Su altro fronte, il d.l. 02.03.2012, n. 16, convertito in
legge 26.04.2012, n. 44, è intervenuto fornendo una
definizione normativa di “definitività” dell’accertamento
(art. 1, comma 5, modificativo del comma 2 dell’art. 38
cit.: “costituiscono violazioni definitivamente accertate
quelle relative all’obbligo di pagamento di debiti per
imposte e tasse certi, scaduti ed esigibili”), e, al
contempo, regolando le situazioni poste in essere
precedentemente all’entrata in vigore dello stesso decreto
(art. 1, comma 6 : “Sono fatti salvi i comportamenti già
adottati alla data di entrata in vigore del presente decreto
dalle stazioni appaltanti in coerenza con la previsione
contenuta nel comma 5”). La ratio della normativa fin qui passata in rassegna
risponde all'esigenza di garantire l'amministrazione
pubblica in ordine alla solvibilità e alla solidità
finanziaria del soggetto con il quale essa contrae. Concentrando l'esame sul concetto di "violazione
definitivamente accertata", occorre poi rammentare che
l'art. 38 citato è direttamente attuativo dell'articolo 45
della direttiva n. 2004/18, norma volta ad accertare la
sussistenza dei presupposti di generale solvibilità
dell'eventuale futuro contraente della pubblica
amministrazione (Cons. Stato, sez. III, 05.03.2013, n.
1332). L’attribuzione di un effetto rigidamente preclusivo
all’inadempimento fiscale legislativamente qualificato
risponde all’ esigenza di contemperare la tendenza
dell’ordinamento ad ampliare la platea dei soggetti ammessi
alle procedure di gara alla stregua del canone del favor partecipationis con la necessaria tutela dell’interesse del
contraente pubblico ad evitare la stipulazione con soggetti
gravati da debiti tributari che incidono in modo
significativo sull'affidabilità e sulla solidità finanziaria
degli stessi. 3. Tanto premesso in merito alla coordinate normative di
riferimento e alla ratio che le ispira, si tratta di
stabilire se, ai fini dell’integrazione del requisito della
regolarità fiscale di cui all'art. 38 cit., sia sufficiente
che, entro il termine di presentazione dell'offerta, sia
stata presentata da parte del concorrente istanza di
rateazione del debito tributario oppure occorra che il
relativo procedimento si sia concluso con un provvedimento
favorevole. 4. E’ da rilevarsi che, con riguardo alla questione di
diritto rimessa all’Adunanza Plenaria, l’ordinanza di
rimessione ha così riassunto le opzioni ermeneutiche
astrattamente percorribili: - una tesi più rigorosa ritiene che, ai fini della
regolarizzazione della posizione fiscale, sia necessaria la
positiva definizione del procedimento di rateazione con l’
accoglimento dell'istanza del contribuente prima del decorso
del termine fissato dalla lex specialis per la presentazione
della domanda di partecipazione; - una tesi più elastica annette rilievo già alla
presentazione dell’istanza di rateazione entro il suddetto
confine temporale; - una linea interpretativa mediana ammette alla
partecipazione l’impresa che abbia presentato istanza di
rateizzazione, sub condicione della positiva definizione
della procedura prima dell’aggiudicazione della gara e della
conseguente stipulazione del contratto. 5. Il Collegio ritiene che la
quaestio iuris debba essere
risolta in conformità al prevalente indirizzo interpretativo
affermatosi in subiecta materia, da ultimo confermato da
questa Adunanza Plenaria con la sentenza 05.06.2013, n.
15. 5.1. La giurisprudenza comunitaria (cfr. Corte giust. CE,
Sez. I, 09.02.2007, n. 228/04 e 226/04) e quella
nazionale (cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 22.03.2013, n. 1633; sez. III,
05.03.2013, n. 1332; sez. VI, 29.01.2013, n. 531; sez. V, 18.11.2011, n. 6084), al
pari dell’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici (cfr.
determinazione 16.05.2012, n. 1; determinazione 12.01.2010, n. 1; parere 12.02.2009, n. 23;
deliberazione 18.04.2007, n. 120), hanno anche di
recente ribadito, sulla scorta di argomentazioni
suscettibili di condivisione, l’adesione alla tesi più
rigorosa secondo cui il requisito della regolarità fiscale
può dirsi sussistente solo qualora, prima del decorso del
termine per la presentazione della domanda di partecipazione
alla gara di appalto, l’istanza di rateizzazione sia stata
accolta con l’adozione del relativo provvedimento
costitutivo. Si è a tale stregua subordinata l’ammissione alla procedura
alla condizione che “l'istanza di rateizzazione sia stata
accolta prima della scadenza del termine di presentazione
della domanda di partecipazione alla gara e preceda
l'autodichiarazione circa il possesso della regolarità,
essendo inammissibile una dichiarazione che attesti il
possesso di un requisito in data futura” (Cons. Stato sez. VI n. 531/2013 cit.; vedi anche,
ex plurimis, Cons. St.,
sez. V, 18.11.2011, n. 6084, che mette l’accento sulle
condizioni di ammissione date dall’“ottenimento della
rateizzazione” o dalla “dimostrazione di aver beneficiato di
un concordato al fine di una rateizzazione o di una
riduzione dei debiti”). 5.2. La bontà della tesi sposata dalla giurisprudenza
pressoché univoca di questo Consiglio trova riscontro nella
conformazione nella disciplina dell’istituto della
rateizzazione fiscale ex art. 19 del d.P.R. n. 602/1973. 5.2.1. Sul piano teleologico la rateizzazione del debito
tributario è espressione del favore legislativo verso i
contribuenti in temporanea difficoltà economica, ai quali
viene offerta la possibilità di regolarizzare la propria
posizione tributaria senza incorrere nel rischio di
insolvenza. Pertanto, condizione per la concessione del
beneficio è la dimostrazione dell’obiettiva situazione di
temporanea difficoltà in cui versa il debitore
impossibilitato a pagare in un’ unica soluzione il debito
iscritto a ruolo e, tuttavia, in grado di sopportare l’onere
finanziario derivante dalla ripartizione dello stesso debito
in un numero di rate congruo rispetto alle sue condizioni
patrimoniali. 5.2.2. Sul versante tecnico la rateizzazione si traduce in un
beneficio che, una volta accordato, comporta la sostituzione
del debito originario con uno diverso, secondo un meccanismo
di stampo estintivo-costitutivo che dà la stura a una
novazione dell’obbligazione originaria (cfr. Cons. St., Sez.
IV, 22.03.2013, n. 1633). L’ammissione alla rateizzazione, rimodulando la scadenza dei
debiti tributari e differendone l’esigibilità, implica
quindi la sostituzione dell’originaria obbligazione a
seguito dell’insorgenza di un nuovo rapporto obbligatorio
secondo i canoni della novazione oggettiva di cui agli artt.
1230 e seguenti del codice civile. Il risultato è la nascita di una nuova obbligazione
tributaria, caratterizzata da un preciso piano di
ammortamento e soggetta a una specifica disciplina per il
caso di mancato pagamento delle rate. 5.2.3. La configurazione del meccanismo novativo fa sì che,
nell’arco di tempo che precede l’accoglimento della domanda,
resta in vita il debito originario, la cui esistenza è
ammessa dallo stesso contribuente con la presentazione della
domanda di dilazione del pagamento delle somme iscritte a
ruolo. Il debito che grava sul contribuente prima dell’accoglimento
dell’istanza, in caso di istanza di rateizzazione non ancora
accolta all’atto della scadenza dei termini di presentazione
delle domande di partecipazione, è quindi unicamente quello
originario, in quanto tale certo (tanto nella sua esistenza
quanto nel suo ammontare), scaduto ed esigibile nei sensi
richiesti dal comma 2 dell’art. 38 del codice dei contratti
pubblici. A sostegno dell’assunto depone viepiù la considerazione che
l’art. 19 del d.P.R. 29.09.1973, n. 602, nel
regolamentare l’istituto della dilazione del pagamento, al
comma 1-quater, pone quale unico limite all’attività forzosa
dell’agente della riscossione, una volta ricevuta la
richiesta di rateazione, l’inibizione all’iscrizione di
ipoteca ex art. 77. Ne deriva che, salva questa specifica
prescrizione di favore a tutela del debitore richiedente, la
presentazione dell’istanza non incide ex se sull’esigibilità
del credito originario e sulla conseguente possibilità per
il creditore pubblico di dare impulso alle procedure
finalizzate alla relativa riscossione in executivis. Va soggiunto che l’inidoneità della mera presentazione
dell’istanza di dilazione a soddisfare il requisito della
regolarità contributiva è corroborata dalla considerazione
che l’ammissione alla rateazione non costituisce, di norma
(fa eccezione l'art. 38 del d.lgs. 31.10.1990, n. 346,
relativo all’imposta di successione), atto dovuto, in quanto
l’art. 19 del d.P.R. n. 602/1973 conferisce
all’Amministrazione il potere discrezionale di valutare
quell’"obiettiva difficoltà economica" che si è in
precedenza visto essere presupposto per la concessione del
beneficio. Ne deriva che l’ammissione alla procedura del
concorrente che non abbia ancora ottenuto il provvedimento
favorevole, oltre a sancire una deroga atipica al principio
secondo cui i requisiti di partecipazione alle gare vanno
verificati al momento della scadenza dei termini fissati per
la presentazione delle domande, innesterebbe nello
svolgimento della procedura di evidenza pubblica il fattore
di incertezza legato all’accertamento di un requisito in
fieri, collegato alla variabile della valutazione
discrezionale dell’amministrazione tributaria. 5.3. Le considerazioni da ultimo esposte ostano alla
praticabilità anche della tesi mediana secondo cui l’istante
che abbia presentato richiesta di rateazione dovrebbe essere
ammesso a condizione del conseguimento del beneficio nel
corso della procedura di gara. A sostegno della soluzione in esame non può, infatti,
militare in modo decisivo la valorizzazione del principio
del favor partecipationis, in quanto la preferenza per un
ampliamento del novero dei partecipanti non è un valore
assoluto ma deve essere ricondotta nel suo alveo naturale,
dato dalla sua funzione di strumento volto al conseguimento
dell’ obiettivo di assicurare la scelta del miglior
contraente in una gara celere e trasparente alla stregua del
codice dei contratti pubblici. Il favor admissionis non può pertanto giustificare
l’ammissione di un contraente, sprovvisto al momento della
domanda del requisito della regolarità tributaria, in forza
di una riserva il cui scioglimento sarebbe caratterizzato da
profili di aleatorietà sia sul piano dell’an che sul
versante del quando. Il principio della certezza del quadro delle regole e dei
tempi della procedura di evidenza pubblica impone, infatti,
che i requisiti di partecipazione siano verificati in modo
compiuto al momento della scadenza dei termini di
presentazione delle domande e impedisce un’ammissione
condizionata che si rifletterebbe negativamente sui valori
dell’efficienza e della tempestività dell’azione
amministrativa, subordinando l’aggiudicazione e la
successiva stipulazione a fattori caratterizzati dagli
esposti profili di imponderabilità. 5.4. L’adesione all’orientamento più rigoroso non è
scalfito, ai fini che in questa sede rilevano, dalla citata
novella normativa secondo cui “costituiscono violazioni
definitivamente accertate quelle relative all’obbligo di
pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed
esigibili” (art. 1, comma 5, del decreto legge n. 16/2012
cit.). Si è già osservato in precedenza che la presentazione di
un’istanza di ripartizione del debito in rate, dando la
stura ad un meccanismo volto alla produzione di un fenomeno
novativo, non incide, alla luce della disciplina tributaria
e della normativa civilistica, sulla sussistenza dei
suddetti requisiti del credito nelle more della definizione
della procedura. Detto assunto è confermato dal tenore dei lavori
preparatori. In particolare, dall’esame della relazione tecnica (A.S.
3184) di accompagnamento al d.l. sulle semplificazioni
fiscali si ricava come l’ intenzione del legislatore fosse
quella di intendere non scaduti ed esigibili i debiti per i
quali sia stato “concordato un piano di rateazione” rispetto
al quale il contribuente è in regola con i pagamenti. Di
tenore ancor più inequivocabile è la scheda di lettura (n.
625/4) redatta dall’Ufficio Studi della Camera dei Deputati
in data 15.06.2012 in cui si afferma che i commi 5 e 6
sono volti a non escludere dalle gare pubbliche il
contribuente “ammesso alla rateizzazione” del proprio debito
tributario. È pertanto chiara la volontà di considerare in regola con il
fisco unicamente il contribuente cui sia stata accordata la
rateizzazione e la conferma del principio secondo cui la
mera presentazione dell’istanza di rateazione o dilazione
non rileva ai fini della dimostrazione del requisito della
regolarità fiscale. 5.5. Non può infine essere valorizzato, in senso contrario
alla tesi rigorosa fin qui esposta, l’argomento secondo cui
sarebbe iniquo che la tardiva definizione della procedura
finalizzata alla concessione della rateazione o della
dilazione si riflettesse negativamente sulla sfera giuridica
dell’istante, sub specie di esclusione dalla procedura di
evidenza pubblica regolate dal codice dei contratti
pubblici. Si deve infatti osservare, in direzione opposta,
che l’inibizione legale trova fondamento nella condizione di
illiceità fiscale imputabile al concorrente e che il
beneficio della rateazione è previsto da una normativa
eccezionale i cui effetti favorevoli non possono superare i
confini delle espresse previsioni legislative, riflettendosi
nell’ammissione alla gara di un soggetto gravato da un
debito tributario liquido, scaduto ed esigibile. 6. Questa Adunanza reputa in definitiva che, alla stregua
delle considerazioni che precedono, debba trovare conferma
l’indirizzo ermeneutico secondo cui non è ammissibile la
partecipazione alla procedura di gara, ex art. 38, comma 1,
lett. g, del codice dei contratti pubblici, del soggetto
che, al momento della scadenza del termine di presentazione
della domanda di partecipazione, non abbia conseguito il
provvedimento di accoglimento dell’istanza di rateizzazione. 7. L’applicazione di tali coordinate conduce alla reiezione
dell’appello, ricavandosi dagli atti di causa che per una
delle cartelle esattoriali prese in considerazione dalla
stazione appaltante con riferimento alla posizione
dell’impresa ausiliaria la rateazione si è perfezionata in
data 04.07.2011, con accordo di rateazione intervenuto
solo nel corso della procedura di gara. Il consolidato e condivisibile principio giurisprudenziale
che richiede la permanenza del possesso del requisito in
parola nel corso di tutta la procedura di gara, dimostra
l’infondatezza degli argomenti difensivi volti a mettere
l’accento sulla duplice peculiarità cronologia che connota
la vicenda, in ragione, per un verso, della sopravvenienza
della notifica della cartella esattoriale in parola rispetto
alla data di scadenza dei termini fissati dalla lex
specialis per la presentazione delle offerte e, per altro
verso, della definizione della procedura di rateazione in un
torno di tempo anteriore alla revoca dell’aggiudicazione
provvisoria. Alla favorevole valutazione della doglianza tesa a
stigmatizzare la mancanza valutazione dell’ effettiva
gravità della gravità della violazione fiscale si oppone la
considerazione che il requisito della gravità è stato
innovativamente introdotto, in epoca posteriore alla
pubblicazione della lex specialis, dal citato d.l. 13.05.2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12.07.1011, n. 107, in una con il rilievo che, nella
specie, l’ammontare del debito fiscale oggetto di
accertamento, pari a 57.378,00 euro, consente ictu oculi la
qualificazione del relativo inadempimento in termini di
effettiva gravità. 9. L’appello deve essere, in definitiva, respinto
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 20.08.2013 n. 20 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
Imu, niente agevolazioni prima casa per Ater e Iacp. Gli immobili posseduti dalle cooperative di edilizia
residenziale pubblica (Ater, Iacp) non hanno diritto al
trattamento agevolato che la legge ha riservato per l'Imu a
quelli adibiti a abitazione principale.
Lo ha affermato il TAR Abruzzo-Pescara, con la
sentenza
13.08.2013 n. 434. Per il Tar il legislatore ha «inteso
favorire in via indiretta la fissazione da parte dei comuni,
compatibilmente con le esigenze di bilancio, di un'aliquota
meno onerosa nei confronti di tali alloggi». Solo nel caso
in cui la situazione finanziaria lo consenta, per i
fabbricati posseduti da Ater e Iacp, l'amministrazione
comunale può fissare un'aliquota inferiore a quella di base
(0,76%). Deciso, quindi, in senso favorevole ai comuni il
contenzioso con le aziende di edilizia residenziale
pubblica, che si trascina già dai tempi di applicazione
dell'Ici, sul trattamento fiscale degli immobili assegnati
ai soci, utilizzati come prima casa. In varie parti
d'Italia, infatti, sono ancora pendenti le cause sulla
legittimità delle delibere comunali che non hanno
riconosciuto per gli immobili posseduti da questi enti
l'aliquota agevolata. In effetti, come posto in rilievo dal
Tar, ex lege i benefici fiscali sono limitati solo alla
detrazione d'imposta prevista dall'art. 13 del dl 201/2011
(Salva Italia). Con l'introduzione dell'Imu è stata
prevista, per le abitazioni possedute da Ater e Iacp,
l'aliquota base ordinaria dello 0,76% per le seconde case,
con facoltà di aumentarla o diminuirla del 3%, anziché
quella agevolata dello 0,40%, contemperando il più gravoso
regime fiscale con la previsione della detrazione di 200
euro prevista per le abitazioni principali. L'art. 13 ha
lasciato, poi, ai comuni la facoltà, come già stabilito per
l'Ici fino al 2007, di fissare l'aliquota. Del resto, solo
nel momento in cui è stata eliminata l'imposizione sulla
prima casa, Iacp e Ater sono state esentati dal pagamento
del tributo, nel periodo che va dal 2008 al 2011. A parte
questo arco temporale in cui hanno fruito dell'esenzione,
sin dal 1992, anno di istituzione dell'imposta comunale,
alle cooperative edilizie è stata riconosciuta solo la
detrazione d'imposta e non l'aliquota agevolata
(articolo ItaliaOggi del 22.08.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il computo della distanza
tra edifici, in base alle norme del d.m. n. 1444/1968, nel
caso in cui le pareti dei fabbricati non si estendano
linearmente in altezza, ma manifestino rientranze e
sporgenze, deve operarsi distinguendo fra gli sporti dalle
ridotte dimensioni, aventi scopo meramente ornamentale e
decorativo, da quelli costituenti sporgenze di particolari
proporzioni, destinate per i loro caratteri strutturali e
funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che
vi accedono. Di questi ultimi deve tenersi conto nel computo anzidetto,
essendo veri e propri corpi di fabbrica che determinano un
aumento dell'edificio in superficie ed incidono quindi sulla
consistenza volumetrica dello stesso come pure deve tenersi
conto di altre sporgenze, quali i balconi, che vengono ad
ampliare in superficie e in volume il fabbricato da cui
sporgono, occupando lo spazio che deve invece rimanere
libero per assicurare il prescritto distacco. Nel caso di specie, il progetto è, pertanto, illegittimo non
considerando, nel calcolo della distanza di dieci metri, i
balconi che, per la loro sporgenza, pari a 50 cm, non
possono essere qualificati quale mero elemento ornamentale. È invero fondato il quarto motivo di ricorso con cui viene
lamentata la violazione dell’art. 9, d.m. n. 1444/1968, non
sussistendo la distanza ivi prevista di 10 metri tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti. La giurisprudenza ha difatti affermato che il computo della
distanza tra edifici, in base alle norme del d.m. n.
1444/1968, nel caso in cui le pareti dei fabbricati non si
estendano linearmente in altezza, ma manifestino rientranze
e sporgenze, deve operarsi distinguendo fra gli sporti dalle
ridotte dimensioni, aventi scopo meramente ornamentale e
decorativo, da quelli costituenti sporgenze di particolari
proporzioni, destinate per i loro caratteri strutturali e
funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che
vi accedono. Di questi ultimi deve tenersi conto nel computo anzidetto,
essendo veri e propri corpi di fabbrica che determinano un
aumento dell'edificio in superficie ed incidono quindi sulla
consistenza volumetrica dello stesso (cfr. Cass., Sez. II,
26.11.1996 n. 10497) come pure deve tenersi conto di altre
sporgenze, quali i balconi, che vengono ad ampliare in
superficie e in volume il fabbricato da cui sporgono,
occupando lo spazio che deve invece rimanere libero per
assicurare il prescritto distacco (cfr. Cass., Sez. II,
24.03.1993 n. 3533; 10.11.2011, n. 23553, Cons. Stato, sez.
IV, 05.12.2005, n. 6909; ord. n. 1914 del 28.04.2010; Tar
Lombardia, Milano, sez. II, 11.01.2013, n. 83). Nel caso di specie, il progetto è, pertanto, illegittimo non
considerando, nel calcolo della distanza di dieci metri, i
balconi che, per la loro sporgenza, pari a 50 cm, non
possono essere qualificati quale mero elemento ornamentale. La circostanza che la controinteressata abbia presentato
un’istanza di variazione al progetto, volta alla riduzione
della superficie dei balconi aggettanti, non fa venire meno
l’illegittimità del titolo abilitativo, ma anzi la conferma
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.08.2013 n. 2065 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Può
essere sanzionata con l’esclusione dalla gara l’offerta che
presenti un margine di incertezza significativo, sia per il
contenuto intrinseco della stessa, sia in relazione
all’oggetto dell’appalto: analogamente, sono da ritenere
essenziali quegli elementi dell’offerta atti ad incidere in
maniera significativa sul contenuto della stessa, tanto che
la loro mancanza renda l’offerta non soddisfacente rispetto
alle richieste della stazione appaltante. --------------- Il Collegio è consapevole dell’indirizzo che afferma la
necessità dell’esclusione del concorrente il quale abbia
omesso la sottoscrizione dell’offerta tecnica –la quale non
è negozialmente imputabile ad alcuno– mentre la mancata
esplicita previsione di tale carenza tra le cause di
esclusione è irrilevante “trattandosi di mancanza di un
elemento essenziale dell’offerta che anche nell’attuale
assetto normativo disegnato dall’attuale art. 46, comma
1-bis, del Codice appalti, in cui è stato codificato il
principio di tassatività delle cause di esclusione, rileva
quale causa di estromissione del concorrente dalla gara
d’appalto”. In altri termini, “la mancata sottoscrizione dell’offerta
tecnica, che costituisce uno dei documenti integranti la
domanda di partecipazione alla gara, non può essere
considerata, in via di principio, un'irregolarità solo
formale sanabile nel corso del procedimento, atteso che essa
fa venire meno la certezza della provenienza e della piena
assunzione di responsabilità in ordine ai contenuti della
dichiarazione nel suo complesso: …la sottoscrizione di un
documento è lo strumento mediante il quale l'autore fa
propria la dichiarazione anteposta contenuta nello stesso,
consentendo così non solo di risalire alla paternità
dell'atto, ma anche di rendere l'atto vincolante verso i
terzi destinatari della manifestazione di volontà”. E’ stato, altresì, rimarcato che la sottoscrizione
dell'offerta di gara “si configura come lo strumento
mediante il quale l'autore fa propria la dichiarazione
contenuta nel documento, serve a rendere nota la paternità
ed a vincolare l'autore alla manifestazione di volontà in
esso contenuta. Essa assolve la funzione di assicurare
provenienza, serietà, affidabilità e insostituibilità
dell'offerta e costituisce elemento essenziale per la sua
ammissibilità, sia sotto il profilo formale che sotto quello
sostanziale, potendosi solo ad essa riconnettere gli effetti
dell'offerta come dichiarazione di volontà volta alla
costituzione di un rapporto giuridico. La sua mancanza
inficia, pertanto, la validità e la ricevibilità della
manifestazione di volontà contenuta nell'offerta senza che
sia necessaria, ai fini dell'esclusione, una espressa
previsione della legge di gara” (Consiglio di Stato ha
ritenuto che “per “sottoscrizione” debba intendersi la firma
in calce, e che questa nemmeno può essere sostituita dalla
sottoscrizione solo parziale delle pagine precedenti quella
conclusiva della dichiarazione stessa”). --------------- I principi del favor partecipationis e della tutela
dell’affidamento vietano l'esclusione di un’impresa che
abbia fatto affidamento sul bando di gara e sui relativi
allegati, compilando l’offerta in conformità al facsimile
all’uopo approntato dalla stazione appaltante: è stato
precisato che il concorrente il quale abbia puntualmente
seguito le indicazioni fornite dall’Ente aggiudicatore nella
legge di gara e nella modulistica ufficiale non può subire
per questo un danno, dovendo prevalere, a fonte di
un'oggettiva incertezza ingenerata dagli atti predisposti
dall’amministrazione e della buona fede che va riconosciuta
al concorrente, il principio del favor partecipationis. In buona sostanza, nessuna esclusione può essere disposta
sulla scorta di una lacuna formale indotta
dall’amministrazione nella predisposizione degli atti di
gara e che, qualora fosse accompagnata da un’applicazione
formalistica della normativa, avrebbe l'unico risultato,
contrario alla ratio prima ancora che alla lettera della
disciplina degli appalti, di un fattivo quanto inammissibile
restringimento della concorrenza in assenza di qualsivoglia
lesione sostanziale. In linea generale, con riferimento all’evocato art. 46,
comma 1-bis, del dlgs 163/2206 sull’incertezza assoluta sul
contenuto o sulla provenienza dell’offerta, occorre
sottolineare che la citata disposizione va letta nel senso
che può essere sanzionata con l’esclusione dalla gara
l’offerta che presenti un margine di incertezza
significativo, sia per il contenuto intrinseco della stessa,
sia in relazione all’oggetto dell’appalto: analogamente,
sono da ritenere essenziali quegli elementi dell’offerta
atti ad incidere in maniera significativa sul contenuto
della stessa, tanto che la loro mancanza renda l’offerta non
soddisfacente rispetto alle richieste della stazione
appaltante (TAR Puglia Lecce, sez. II – 06/03/2013 n. 472). Sul punto specifico oggetto di ricorso, il Collegio è
consapevole dell’indirizzo che afferma la necessità
dell’esclusione del concorrente il quale abbia omesso la
sottoscrizione dell’offerta tecnica –la quale non è
negozialmente imputabile ad alcuno– mentre la mancata
esplicita previsione di tale carenza tra le cause di
esclusione è irrilevante “trattandosi di mancanza di un
elemento essenziale dell’offerta che anche nell’attuale
assetto normativo disegnato dall’attuale art. 46, comma
1-bis, del Codice appalti, in cui è stato codificato il
principio di tassatività delle cause di esclusione, rileva
quale causa di estromissione del concorrente dalla gara
d’appalto” (Consiglio di Stato, sez. V – 21/06/2012 n.
3669). In altri termini, “la mancata sottoscrizione dell’offerta
tecnica, che costituisce uno dei documenti integranti la
domanda di partecipazione alla gara, non può essere
considerata, in via di principio, un'irregolarità solo
formale sanabile nel corso del procedimento, atteso che essa
fa venire meno la certezza della provenienza e della piena
assunzione di responsabilità in ordine ai contenuti della
dichiarazione nel suo complesso: …la sottoscrizione di un
documento è lo strumento mediante il quale l'autore fa
propria la dichiarazione anteposta contenuta nello stesso,
consentendo così non solo di risalire alla paternità
dell'atto, ma anche di rendere l'atto vincolante verso i
terzi destinatari della manifestazione di volontà” (TAR
Puglia Lecce, sez. III – 30/04/2013 n. 990). E’ stato, altresì, rimarcato che la sottoscrizione
dell'offerta di gara “si configura come lo strumento
mediante il quale l'autore fa propria la dichiarazione
contenuta nel documento, serve a rendere nota la paternità
ed a vincolare l'autore alla manifestazione di volontà in
esso contenuta. Essa assolve la funzione di assicurare
provenienza, serietà, affidabilità e insostituibilità
dell'offerta e costituisce elemento essenziale per la sua
ammissibilità, sia sotto il profilo formale che sotto quello
sostanziale, potendosi solo ad essa riconnettere gli effetti
dell'offerta come dichiarazione di volontà volta alla
costituzione di un rapporto giuridico. La sua mancanza
inficia, pertanto, la validità e la ricevibilità della
manifestazione di volontà contenuta nell'offerta senza che
sia necessaria, ai fini dell'esclusione, una espressa
previsione della legge di gara” (Consiglio di Stato,
sez. V – 20/04/2012 n. 2317, che ha richiamato sez. V –
25/01/2011 n. 528 e sez. V – 07/11/2008 n. 5547, e ha
ritenuto che “per “sottoscrizione” debba intendersi la
firma in calce, e che questa nemmeno può essere sostituita
dalla sottoscrizione solo parziale delle pagine precedenti
quella conclusiva della dichiarazione stessa”). ---------------
La recente
giurisprudenza (cfr. TAR Abruzzo Pescara – 24/02/2012 n. 86,
richiamata da questa Sezione nella sentenza 10/05/2012 n.
814; TAR Piemonte, sez. I – 08/05/2013 n. 576; TAR Campania
Napoli, sez. VIII – 11/04/2013 n. 1911; TAR Puglia Lecce,
sez. II – 01/02/2013 n. 274) è dell’avviso che i principi
del favor partecipationis e della tutela
dell’affidamento vietano l'esclusione di un’impresa che
abbia fatto affidamento sul bando di gara e sui relativi
allegati, compilando l’offerta in conformità al facsimile
all’uopo approntato dalla stazione appaltante: è stato
precisato che il concorrente il quale abbia puntualmente
seguito le indicazioni fornite dall’Ente aggiudicatore nella
legge di gara e nella modulistica ufficiale non può subire
per questo un danno, dovendo prevalere, a fonte di
un'oggettiva incertezza ingenerata dagli atti predisposti
dall’amministrazione e della buona fede che va riconosciuta
al concorrente, il principio del favor partecipationis.
In buona sostanza, nessuna esclusione può essere disposta
sulla scorta di una lacuna formale indotta
dall’amministrazione nella predisposizione degli atti di
gara e che, qualora fosse accompagnata da un’applicazione
formalistica della normativa, avrebbe l'unico risultato,
contrario alla ratio prima ancora che alla lettera
della disciplina degli appalti, di un fattivo quanto
inammissibile restringimento della concorrenza in assenza di
qualsivoglia lesione sostanziale (cfr. TAR Piemonte, sez. I
– 09/01/2012 n. 5)
(TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 08.08.2013 n. 727 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Nell'attuale sistema normativo, l'obbligo di
bonifica dei siti inquinati grava sull'effettivo
responsabile dell'inquinamento stesso, che le competenti
Autorità amministrative devono ricercare, mentre la mera
qualifica di proprietario o detentore del terreno inquinato
non implica di per sé l'obbligo di effettuazione della
bonifica, con la conseguenza che esso può essere posto a suo
carico solo se responsabile o corresponsabile dell'illecito
abbandono. Inoltre, in tema di inquinamento, il potere del curatore di
disporre dei beni fallimentari, non comporta necessariamente
il dovere di adottare particolari condotte attive
finalizzate alla tutela sanitaria degli immobili destinati
alla bonifica da fattori inquinanti, perciò la curatela
fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente
correlati alla responsabilità dell'imprenditore fallito, a
meno che non vi sia una prosecuzione dell'attività, con
conseguente esclusione del curatore fallimentare dalla
legittimazione passiva dell'ordine di bonifica. Il provvedimento impugnato, e le pregresse risultanze
istruttorie, non affermano in alcun modo che il Falllimento
ricorrente abbia qualche responsabilità nell’inquinamento
delle aree di che trattasi. Nell'attuale sistema normativo, l'obbligo di bonifica dei
siti inquinati grava tuttavia sull'effettivo responsabile
dell'inquinamento stesso, che le competenti Autorità
amministrative devono ricercare, mentre la mera qualifica di
proprietario o detentore del terreno inquinato non implica
di per sé l'obbligo di effettuazione della bonifica, con la
conseguenza che esso può essere posto a suo carico solo se
responsabile o corresponsabile dell'illecito abbandono. Inoltre, in tema di inquinamento, il potere del curatore di
disporre dei beni fallimentari, non comporta necessariamente
il dovere di adottare particolari condotte attive
finalizzate alla tutela sanitaria degli immobili destinati
alla bonifica da fattori inquinanti, perciò la curatela
fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente
correlati alla responsabilità dell'imprenditore fallito, a
meno che non vi sia una prosecuzione dell'attività, con
conseguente esclusione del curatore fallimentare dalla
legittimazione passiva dell'ordine di bonifica (C.S., Sez.
V, 16.06.2009 n. 3885)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 05.08.2013 n. 2062 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La pratica di reiterare
vincoli preordinati all'espropriazione, contenuti nel piano
regolatore generale ovvero in altri strumenti urbanistici è
stata stigmatizzata dalla Corte Costituzionale che ritenne
illegittima la disciplina recata dalla legge urbanistica (l.
17.08.1942 n. 1150), che prevedeva la possibilità di imporre
alla proprietà privata, in sede di pianificazione, vincoli
preordinati all'espropriazione, senza alcun limite temporale
e senza indennizzo. A seguito di tale decisione, il legislatore intervenne con
la legge 19.11.1968 n. 1187, il cui art. 2 ha provveduto a
fissare in cinque anni il periodo entro cui detti vincoli
devono, a pena di decadenza, tradursi in piani esecutivi o,
comunque, deve avviarsi in modo certo il procedimento
espropriativo. Secondo la giurisprudenza consolidata del Consiglio di
Stato, costituiscono vincoli soggetti a decadenza solo
quelli preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificazione,
e che dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà
incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo
inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale,
ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di
scambio. La decadenza del vincolo non esclude che l'amministrazione,
mediante il ricorso al procedimento per l'adozione delle
varianti agli strumenti urbanistici, possa reiterare i
vincoli preordinati all'espropriazione, fornendo congrua
motivazione in ordine alla persistenza delle ragioni di
interesse pubblico che sorreggono la predetta reiterazione,
così da escludere un contenuto vessatorio o comunque
ingiusto dei relativi atti. Si è, in particolare, affermato quanto all'adeguatezza della
motivazione, che, se in linea di principio può ritenersi
giustificato il richiamo alle originarie valutazioni, in
occasione di una prima reiterazione, quando il rinnovato
vincolo sia a sua volta decaduto, è necessario che la
motivazione dimostri che l'autorità amministrativa abbia
provveduto ad una ponderata valutazione degli interessi
coinvolti, esponendo le ragioni (riguardanti il rispetto
degli standard, le esigenze della spesa, ovvero specifici
accadimenti riguardanti le precedenti fasi procedimentali)
che inducano ad escludere profili di eccesso di potere e ad
ammetterne l'attuale sussistenza dell'interesse pubblico. In quest’ottica, la Corte Costituzionale ha dichiarato
l'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli
artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 l. n. 1150/1942 e 2, primo
comma, della legge n. 1187/1968 "nella parte in cui consente
alla "amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici
scaduti, preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificabilità,
senza la previsione di indennizzo". Secondo la Corte, "la reiterazione in via amministrativa dei
vincoli decaduti (preordinati all'espropriazione o con
carattere sostanzialmente espropriativo) non sono fenomeni
di per sé inammissibili dal punto di vista costituzionale",
ma tale fenomeno assume aspetti patologici allorché vi sia
una indefinita reiterazione dei vincoli o una loro proroga
sine die, o quando il limite temporale sia indeterminato. In presenza delle suddette situazioni patologiche, sorge
obbligo di indennizzo che "opera una volta superato il
periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge (periodo
di franchigia)". In altre parole, la permanenza del vincolo
oltre i termini previsti, e senza alcun inizio serio
dell'espropriazione, "non può essere dissociato... dalla
previsione di un indennizzo". L’Ad. Pl. del Consiglio di Stato ha poi chiarito che la
mancata previsione dell’indennizzo non inficia la
legittimità del provvedimento amministrativo; inoltre, ha
precisato che l'Autorità urbanistica, quando decide la
reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio, deve
procedere con una ponderata valutazione degli interessi
coinvolti, esponendo le ragioni -riguardanti il rispetto
degli standard, le esigenze della spesa, specifici
accadimenti riguardanti le precedenti fasi procedimentali-
che inducano ad escludere profili di eccesso di potere e ad
ammettere l'attuale sussistenza dell'interesse pubblico. La società ricorrente sostiene che la delibera impugnata
avrebbe comportato una illegittima reiterazione di vincoli
preordinati all’esproprio senza fornire alcuna motivazione
in proposito. In proposito va evidenziato che la pratica di reiterare
vincoli preordinati all'espropriazione, contenuti nel piano
regolatore generale ovvero in altri strumenti urbanistici è
stata stigmatizzata dalla Corte Costituzionale che ritenne
illegittima la disciplina recata dalla legge urbanistica (l.
17.08.1942 n. 1150), che prevedeva la possibilità di imporre
alla proprietà privata, in sede di pianificazione, vincoli
preordinati all'espropriazione, senza alcun limite temporale
e senza indennizzo (cfr., Corte Cost., 29.05.1968 n. 55). A seguito di tale decisione, il legislatore intervenne con
la legge 19.11.1968 n. 1187, il cui art. 2 ha provveduto a
fissare in cinque anni il periodo entro cui detti vincoli
devono, a pena di decadenza, tradursi in piani esecutivi o,
comunque, deve avviarsi in modo certo il procedimento
espropriativo. Secondo la giurisprudenza consolidata del Consiglio di Stato
(sez. V, 03.01.2001 n. 3; sez. IV, 17.04.2003 n. 2015 e
22.06.2004 n. 4426, Ad. Pl. 24.05.2007, n. 7), costituiscono
vincoli soggetti a decadenza solo quelli preordinati
all'espropriazione o che comportino l'inedificazione, e che
dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà
incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo
inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale,
ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di
scambio. La decadenza del vincolo non esclude che l'amministrazione,
mediante il ricorso al procedimento per l'adozione delle
varianti agli strumenti urbanistici, possa reiterare i
vincoli preordinati all'espropriazione, fornendo congrua
motivazione in ordine alla persistenza delle ragioni di
interesse pubblico che sorreggono la predetta reiterazione
(Cons. Stato, sez. IV, 24.09.1997 n. 1013 e 22.06.2004 n.
4397), così da escludere un contenuto vessatorio o comunque
ingiusto dei relativi atti. Si è, in particolare, affermato quanto all'adeguatezza della
motivazione, che, se in linea di principio può ritenersi
giustificato il richiamo alle originarie valutazioni, in
occasione di una prima reiterazione, quando il rinnovato
vincolo sia a sua volta decaduto, è necessario che la
motivazione dimostri che l'autorità amministrativa abbia
provveduto ad una ponderata valutazione degli interessi
coinvolti, esponendo le ragioni (riguardanti il rispetto
degli standard, le esigenze della spesa, ovvero specifici
accadimenti riguardanti le precedenti fasi procedimentali)
che inducano ad escludere profili di eccesso di potere e ad
ammetterne l'attuale sussistenza dell'interesse pubblico
(Consiglio di Stato sez. IV, 06.05.2013, n. 2432). In quest’ottica, la Corte Costituzionale (cfr., sent.
20.05.1999 n. 179 e 18.12.2001 n. 411) ha dichiarato
l'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli
artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 l. n. 1150/1942 e 2, primo
comma, della legge n. 1187/1968 "nella parte in cui
consente alla "amministrazione di reiterare i vincoli
urbanistici scaduti, preordinati all'espropriazione o che
comportino l'inedificabilità, senza la previsione di
indennizzo". Secondo la Corte, "la reiterazione in via amministrativa
dei vincoli decaduti (preordinati all'espropriazione o con
carattere sostanzialmente espropriativo) non sono fenomeni
di per sé inammissibili dal punto di vista costituzionale",
ma tale fenomeno assume aspetti patologici allorché vi sia
una indefinita reiterazione dei vincoli o una loro proroga
sine die, o quando il limite temporale sia
indeterminato. In presenza delle suddette situazioni patologiche, sorge
obbligo di indennizzo che "opera una volta superato il
periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge (periodo
di franchigia)". In altre parole, la permanenza del
vincolo oltre i termini previsti, e senza alcun inizio serio
dell'espropriazione, "non può essere dissociato... dalla
previsione di un indennizzo". L’Ad. Pl. del Consiglio di Stato (cfr., sent. 7/2007 cit.)
ha poi chiarito che la mancata previsione dell’indennizzo
non inficia la legittimità del provvedimento amministrativo;
inoltre, ha precisato che l'Autorità urbanistica, quando
decide la reiterazione dei vincoli preordinati
all’esproprio, deve procedere con una ponderata valutazione
degli interessi coinvolti, esponendo le ragioni -riguardanti
il rispetto degli standard, le esigenze della spesa,
specifici accadimenti riguardanti le precedenti fasi
procedimentali- che inducano ad escludere profili di eccesso
di potere e ad ammettere l'attuale sussistenza
dell'interesse pubblico
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 05.08.2013 n. 2061 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La mancata acquisizione
del parere contabile sugli atti programmatori ai sensi
dell'art. 49 d.lgs. n. 267/2000 non rende illegittima la
delibera, poiché si tratta di una prescrizione che rileva
sul solo piano interno, con la conseguenza che la sua
omissione non incide sulla validità della deliberazione
stessa, rappresentando al più una mera irregolarità.
Parimenti non
comporta un vizio di illegittimità della delibera la mancata
acquisizione del parere contabile sugli atti programmatori
ai sensi dell'art. 49 d.lgs. n. 267/2000. Sul punto, il Consiglio di Stato ha precisato che la mancata
acquisizione del parere contabile sugli atti programmatori
ai sensi dell'art. 49 d.lgs. n. 267/2000 non rende
illegittima la delibera, poiché si tratta di una
prescrizione che rileva sul solo piano interno, con la
conseguenza che la sua omissione non incide sulla validità
della deliberazione stessa, rappresentando al più una mera
irregolarità (cfr., Consiglio di Stato sez. IV, 26.01.2012,
n. 351)
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 05.08.2013 n. 2061 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Le norme in tema di
partecipazione al procedimento amministrativo vanno
interpretate in senso sostanziale, evitando di affidarsi a
letture formalistiche che possono sottendere fini meramente
speculativi e non in linea con il principio di effettività.
Del resto, la giurisprudenza amministrativa consolidata, cui
questo giudice intende dare continuità, ha chiarito che la
comunicazione di avvio del procedimento non è necessaria
laddove l’interessato sia già a conoscenza dell’esistenza di
un procedimento amministrativo. In particolare, questo Tar ha già precisato che le garanzie
partecipative non rivestono un valore meramente formale, ma
presentano una dimensione sostanziale, nel senso sia che la
loro violazione non è censurabile laddove il soggetto sia
stato comunque posto in condizione di rappresentare la
propria posizione in sede procedimentale, sia che la
doglianza inerente alla loro violazione deve essere
accompagnata, per assumere carattere sostanziale, dalla
definizione, anche solo sintetica, dei profili attinenti
alla posizione soggettiva dell'interessato che sarebbero
stati sottoposti all'attenzione dell'Amministrazione in caso
di tempestiva comunicazione di avvio del procedimento.
Passando ad indagare
i vizi di propri della delibera, la società ricorrente, in
particolare, si duole di aver ricevuto comunicazione di
avvio del procedimento in data 16.05.2012 via fax e di non
aver avuto tempo di partecipare al procedimento
amministrativo perché la delibera impugnata è intervenuta
due giorni dopo, in data 18.05.2012. Va, tuttavia, evidenziato che le norme in tema di
partecipazione al procedimento amministrativo vanno
interpretate in senso sostanziale, evitando di affidarsi a
letture formalistiche che possono sottendere fini meramente
speculativi e non in linea con il principio di effettività.
Del resto, la giurisprudenza amministrativa consolidata, cui
questo giudice intende dare continuità, ha chiarito che la
comunicazione di avvio del procedimento non è necessaria
laddove l’interessato sia già a conoscenza dell’esistenza di
un procedimento amministrativo. In particolare, questo Tar ha già precisato che le garanzie
partecipative non rivestono un valore meramente formale, ma
presentano una dimensione sostanziale, nel senso sia che la
loro violazione non è censurabile laddove il soggetto sia
stato comunque posto in condizione di rappresentare la
propria posizione in sede procedimentale, sia che la
doglianza inerente alla loro violazione deve essere
accompagnata, per assumere carattere sostanziale, dalla
definizione, anche solo sintetica, dei profili attinenti
alla posizione soggettiva dell'interessato che sarebbero
stati sottoposti all'attenzione dell'Amministrazione in caso
di tempestiva comunicazione di avvio del procedimento (cfr.,
TAR Milano Lombardia sez. III, 24.11.2011, n. 2904). Nel caso di specie, non può dubitarsi, in considerazione del
lungo tempo trascorso, delle trattative intervenute tra la
società ricorrente e il Comune di Milano e dell’avviso di
avvio del procedimento comunicato in data 09.06.2006, che la
società ricorrente non fosse a conoscenza dell’instaurazione
di un procedimento amministrativo teso all’espropriazione
della Cascina Campazzo. Del resto, in data 07.04.2006 la
società ricorrente ha presentato memorie scritte che
riproducono in parte gli odierni scritti difensivi. Ne deriva che non può dirsi leso il diritto di
partecipazione della società ricorrente e, pertanto, tale
motivo di ricorso è infondato
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 05.08.2013 n. 2061 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Anche a seguito
dell'entrata in vigore dell'art. 22-bis , d.P.R. 08.06.2001
n. 327, l'ordinanza di occupazione d'urgenza riguarda una
fase puramente attuativa di quella riguardante la
dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed
urgenza dei lavori, con la conseguenza che è sufficiente la
motivazione dell'ordinanza di occupazione che si limiti a
richiamare espressamente tale dichiarazione, costituente
l'unico presupposto della stessa e che consenta di rilevare
l'urgenza della realizzazione delle opere previste nella
dichiarazione di p.u.. A sua volta, la dichiarazione di pubblica utilità,
conseguendo "ex lege" all'approvazione del progetto
definitivo, non abbisogna di una particolare motivazione.
La società
ricorrente contesta la delibera impugnata perché non
sussistevano le condizioni per procedere all’occupazione
d’urgenza, ai sensi dell’art. 22 d.p.r. 327/2001. Questo Tar ha già chiarito che anche a seguito dell'entrata
in vigore dell'art. 22-bis , d.P.R. 08.06.2001 n. 327,
l'ordinanza di occupazione d'urgenza riguarda una fase
puramente attuativa di quella riguardante la dichiarazione
di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dei lavori,
con la conseguenza che è sufficiente la motivazione
dell'ordinanza di occupazione che si limiti a richiamare
espressamente tale dichiarazione, costituente l'unico
presupposto della stessa e che consenta di rilevare
l'urgenza della realizzazione delle opere previste nella
dichiarazione di p.u.. A sua volta, la dichiarazione di pubblica utilità,
conseguendo "ex lege" all'approvazione del progetto
definitivo, non abbisogna di una particolare motivazione
(cfr., TAR Milano, Lombardia, sez. III, 02.07.2012, n. 1874)
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 05.08.2013 n. 2061 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nelle controversie in tema di monetizzazione
viene in rilievo una posizione qualificabile come interesse
legittimo, come tale soggetta alle regole processuali che
accedono a tale condizione e che richiedono di proporre
ricorso con il rito impugnatorio, nei termini decadenziali
decorrenti dalla piena conoscenza degli atti ritenuti
lesivi. Invero, la monetizzazione non vive in alcun modo della
natura e delle finalità proprie del contributo concessorio
costituito dagli oneri di urbanizzazione e dal costo di
costruzione che accompagna naturaliter l’autorizzazione a
costruire, la cui debenza o meno, quanto al relativo
accertamento, può essere fatta valere, in linea generale,
nei termini prescrizionali. Ed ancora, “mentre il pagamento degli oneri di
urbanizzazione si risolve in un contributo per la
realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un
vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita
l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la
monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard
afferisce al reperimento delle aree necessarie alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria
all’interno della specifica zona di intervento; e ciò vale
ad evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione
rispetto al contributo di concessione, di talché, sotto il
versante processuale, non si può utilizzare lo strumento
dell’azione di accertamento ammesso per contestare la
legittimità del contributo ex art. 3 o comunque la
insussistenza di tale obbligazione pecuniaria ancorché già
assolta”. Il Collegio condivide l’orientamento giurisprudenziale
secondo cui nelle controversie in tema di monetizzazione
viene in rilievo una posizione qualificabile come interesse
legittimo, come tale soggetta alle regole processuali che
accedono a tale condizione e che richiedono di proporre
ricorso con il rito impugnatorio, nei termini decadenziali
decorrenti dalla piena conoscenza degli atti ritenuti lesivi
(cfr. Consiglio di Stato sez. IV, 16.02.2011, n. 1013; Tar
Lombardia, Milano, sez. II, 14.02.2013, n. 451). Come affermato anche di recente dal Consiglio di Stato, la
monetizzazione non vive in alcun modo della natura e delle
finalità proprie del contributo concessorio costituito dagli
oneri di urbanizzazione e dal costo di costruzione che
accompagna naturaliter l’autorizzazione a costruire,
la cui debenza o meno, quanto al relativo accertamento, può
essere fatta valere, in linea generale, nei termini
prescrizionali. Invero, “mentre il pagamento degli oneri di
urbanizzazione si risolve in un contributo per la
realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un
vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita
l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la
monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard
afferisce al reperimento delle aree necessarie alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria
all’interno della specifica zona di intervento; e ciò vale
ad evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione
rispetto al contributo di concessione, di talché, sotto il
versante processuale, non si può utilizzare lo strumento
dell’azione di accertamento ammesso per contestare la
legittimità del contributo ex art. 3 o comunque la
insussistenza di tale obbligazione pecuniaria ancorché già
assolta” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 16/02/2011,
n. 1013, sez. IV, 28.12.2012 n. 6706; questa conclusione si
pone in linea con i precedenti di questo Tribunale che hanno
affermato la natura autoritativa dell'atto che impone la
monetizzazione e che, quindi, la posizione nei riguardi del
medesimo ha natura di interesse legittimo: cfr. TAR Milano,
Sez. II, 28.01.2004, n. 364; id., Sez. II, 31.05.1996, n.
768, poi confermata da C.d.S., Sez. V, 27.09.2004, n. 6281,
TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.04.2006, n. 1064)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.08.2013 n. 2056 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nel caso in cui un originario lotto urbanistico
abbia acquisito una maggiore potenzialità edificatoria in
dipendenza di modifiche alla disciplina urbanistica e,
quindi, la parte rimasta inedificata sia suscettibile di
edificazione, per verificare l'effettiva potenzialità
edificatoria di quest’ultima, occorre sempre partire dalla
considerazione che, in virtù del carattere "unitario"
dell'originario lotto interamente asservito alla precedente
costruzione, non possono non computarsi le volumetrie
realizzate sul lotto urbanistico originario (considerato
complessivamente), il quale è l'unico ad aver acquisito (e
mantenuto) una "propria" potenzialità edificatoria. Conseguentemente la verifica dell'edificabilità della parte
del lotto rimasta inedificata e la quantificazione della
volumetria su di essa realizzabile non può che derivare, per
sottrazione, dalla predetta potenzialità, diminuita della
volumetria dei fabbricati già realizzati sull'unica,
complessiva, area. Secondo il pacifico orientamento della giurisprudenza anche
di questo Tribunale, invero, nel caso in cui un originario
lotto urbanistico abbia acquisito una maggiore potenzialità
edificatoria in dipendenza di modifiche alla disciplina
urbanistica e, quindi, la parte rimasta inedificata sia
suscettibile di edificazione, per verificare l'effettiva
potenzialità edificatoria di quest’ultima, occorre sempre
partire dalla considerazione che, in virtù del carattere "unitario"
dell'originario lotto interamente asservito alla precedente
costruzione, non possono non computarsi le volumetrie
realizzate sul lotto urbanistico originario (considerato
complessivamente), il quale è l'unico ad aver acquisito (e
mantenuto) una "propria" potenzialità edificatoria;
conseguentemente la verifica dell'edificabilità della parte
del lotto rimasta inedificata e la quantificazione della
volumetria su di essa realizzabile non può che derivare, per
sottrazione, dalla predetta potenzialità, diminuita della
volumetria dei fabbricati già realizzati sull'unica,
complessiva, area (Cons. Stato, sez. IV, 19.01.2008, n. 255;
26.09.2008, n. 4647; 19.10.2006, n. 6229; 31.01.2005, n.
217; TAR Lombardia, Milano, 03.03.2011, n. 614; TAR Trentino
Alto Adige, Bolzano, 22.08.2007, n. 286; TAR Sardegna, sez.
II, 19.05.2006, n. 996)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.08.2013 n. 2054 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Bocciatura per il riclassamento degli estimi.
L'assenza di parametri non apre la porta all'arbitrio della
pubblica amministrazione. La
decisione del Tar Lecce, che ha accolto le istanze delle
associazioni dei consumatori. Estimi, il Tar di Lecce accoglie il ricorso delle
associazioni dei consumatori contro il Comune e l'Agenzia
del territorio e stoppa il riclassamento.
La I Sez. del TAR Puglia-Lecce,
con
sentenza 11.07.2013 n. 1621, ha affermato che
«proprio la molteplicità delle possibili causali che, alla
stregua della complessa stratificazione normativa, possono
in concreto esser poste alla base di un atto di riclassamento impone che la motivazione di un tale atto dia
conto della causale concreta per la quale quello specifico
atto è stato adottato, cosicché il contribuente sia messo in
grado di comprenderla e di valutare le sue opportunità di
difesa». I giudici amministrativi demoliscono l'intera
operazione costata alle casse dello Stato 600 mila euro
soltanto per le notifiche ai cittadini e a quest'ultimi 660
mila euro di ricorsi alla Commissione tributaria, per un
aumento delle rendite catastali disposto dall'Agenzia del
territorio sul 95% del patrimonio immobiliare del territorio
comunale di Lecce. L'Agenzia, infatti ha notificato alla maggioranza della
popolazione leccese gli avvisi di accertamento con i quali
ha proceduto alla rideterminazione del classamento e alla
conseguente attribuzione della nuova rendita catastale delle
unità immobiliari, basando la motivazione su presunti
interventi di riqualificazione della viabilità interna e di
arredo urbano nel centro storico. L'illegittimità di tali avvisi in relazione agli atti di
suddivisione del territorio del comune di Lecce in microzone
catastali ai sensi dell'articolo 2 del decreto del
presidente della repubblica 138/1998 , all'atto con il quale
la giunta comunale di Lecce ha attivato la procedura ex art.
1 della legge 311/2004 e la conclusione della stessa, è
stata invocata dai contribuenti sulla base del difetto
istruttorio e motivazionale in cui sono incorse sia
l'amministrazione comunale nel richiedere il riclassamento
sia l'Agenzia del territorio con riferimento alla
istruttoria compiuta e alla conclusione del procedimento, a
partire dalla individuazione delle microzone. Giova ricordare a tal proposito che l'articolo 1, comma 335,
della legge 311/2004 prevede l'attivazione, su richiesta dei
comuni interessati, di processi di revisione parziale del
classamento delle unità immobiliari urbane ubicate in
microzone comunali, definite ai sensi del decreto del
presidente della repubblica 138/1998, che presentano
carattere di anomalia in termini di rapporti tra il valore
medio immobiliare, rilevato dal mercato, e il valore medio
catastale, rispetto l'analogo rapporto medio calcolato su
tutte le microzone comunali per cui la conditio sine qua non
della procedura di revisione del classamento delle unità
immobiliari site in una determinata microzona, è costituita
dal significativo scostamento tra i due predetti valori. La norma non individua alcun parametro in base al quale
possa essere oggettivamente ancorata la «significatività»
dello scostamento; tuttavia, il collegio ritiene che
l'assenza di alcun parametro non determini l'arbitrio
dell'amministrazione ma la conseguente valutazione di natura
tecnica che deve pur sempre essere ancorata ai principi di
buon andamento, proporzionalità e efficacia dell'azione
amministrativa. Di tali principi i giudici amministrativi hanno fatto uso
nella sentenza in commento, laddove ravvisando il deficit
istruttorio nella inadeguatezza dei dati assunti a base del
procedimento, tenuto conto della natura e finalità dello
stesso, hanno annullato tutti gli atti relativi al
procedimento, a partire dalle due delibere del 2010 con le
quali l'amministrazione comunale ha dato incarico
all'Agenzia di procedere al riclassamento (articolo ItaliaOggi del 23.08.2013). |
AGGIORNAMENTO AL 21.08.2013 |
ã |
In tanti mi siete stati vicino, nel mio dolore che nessuno
può comprendere: chi di persona, chi con telefonata, sms, e-mail, telegramma,
lettera. Non vorrei dimenticare qualcuno rispondendo uno ad
uno: allora, voglio qui ringraziare tutti quanti, nessuno
escluso, che hanno compartecipato alla mia intima sofferenza
che non trova pace. A tutti un grazie di cuore ... T. |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA
PRIVATA: G.U.
20.08.2013 n. 194, suppl. ord. n. 63/L, "Testo
del decreto-legge 21.06.2013, n. 69, coordinato con la legge
di conversione 09.08.2013, n. 98, recante: «Disposizioni
urgenti per il rilancio dell’economia»". |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G.U.
20.08.2013 n. 194 "Disposizioni per l’adempimento degli
obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione
europea - Legge europea 2013" (Legge
06.08.2013 n. 97). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 34 del 20.08.2013, "Presa
d’atto della proposta di Programma regionale di gestione dei
rifiuti (PRGR), comprensivo del Programma regionale di
bonifica delle aree inquinate (PRB), ai sensi della
deliberazione della Giunta regionale n. 1587 del 20.04.2011" (deliberazione
G.R. 02.08.2013 n. 576). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
Il cortocircuito sui pannelli fotovoltaici lombardi - ancora
FERCEL! (04.08.2013 - link a
http://ufficiotecnico2012.blogspot.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
F. P. Garzone e G. Schiavone,
La legge n. 190/2012 (cd. “anti-corruzione”) ed il rapporto
tra il reato di concussione (art. 317 c.p.) e quello di
induzione indebita a dare o promettere utilita? (art.
319-quater c.p.) (31.07.2013 - link a
www.diritto.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI:
OGGETTO: Modello di versamento F24 enti pubblici – codice
identificativo “51” denominato “Intervento sostitutivo –
art. 4 del D.P.R. n. 207/2010” (INPS,
messaggio 14.08.2013 n. 13154). ---------------
Versamenti diretti all'Inps.
Irregolarità senza F24. Sì al versamento diretto all'Inps, senza F24, per gli
interventi sostitutivi delle stazioni appaltanti.
Lo spiega
l'Inps nel
messaggio 14.08.2013 n. 13154.
La novità riguarda i Durc irregolari, concernenti cioè
irregolarità contributive, per cui le stazioni appaltanti
sono tenute a fare l'intervento sostitutivo per
regolarizzare le inadempienze contributive dell'appaltatore
o subappaltatore. Infatti con l'intervento sostitutivo la
stazione appaltante trattiene dalla liquidazione del
corrispettivo dell'appalto l'importo pari alle scoperture
contributive indicate nel Durc, per riversarle agli istituti
previdenziali e delle casse edili. La stazione appaltante
effettua il pagamento non in proprio, ma sostituendosi
all'adempimento del contribuente. Conseguentemente è stato
previsto che il pagamento della somma oggetto
dell'intervento sostitutivo avvenga utilizzando stesse
modalità e stesse specifiche previste per l'adempimento
contributivo da parte dell'esecutore o del subappaltatore
nei confronti dell'Inps. I pagamenti, in altre parole,
vengono effettuati tramite il modello F24, che consente
l'immediata canalizzazione dei versamenti sulle posizioni a
debito dei contribuenti rendendo individuabili sia il
versante (stazione appaltante) sia il beneficiario
(debitore). Tuttavia, alcune stazioni appaltanti in virtù della
specifica regolamentazione contabile sono escluse dalla
possibilità di effettuare i pagamenti con modello F24,
operazione che, in base alla risoluzione del 09.10.2012, prot. n. 2012/140335 dell'agenzia delle entrate, avviene
l'F24 enti pubblici (EP) per consentire di utilizzare tale
modello per il versamento dei contributi assistenziali e
previdenziali agli enti. L'Inps precisa che sono ammesse ad utilizzare modalità di
pagamento diverse da quelle tramite F24 EP esclusivamente le
amministrazioni non tenute a eseguire i pagamenti tramite
F24. E che la possibilità di effettuare il pagamento, in via
residuale, con modalità da concordare con la sede Inps che
ha emesso il Durc al fine di consentire in modo immediato la
corretta contabilizzazione degli importi versati a titolo di
intervento sostitutivo
(tratto da ItaliaOggi del
15.08.2013). |
APPALTI:
OGGETTO: Decreto legge 08.04.2013 n. 35, convertito con
modificazioni, nella legge 06.06.2013, n. 64. Documento
Unico di Regolarità Contributiva (Durc) (INPS,
messaggio 14.08.2013 n. 13153). ---------------
Debiti, la p.a. sconta i pagamenti. Prima vanno saldati eventuali contributi non versati.
L'Inps precisa che il Durc emesso in base al dl n. 35/2013 non
esclude l'intervento sostitutivo.
Il Durc per la liquidazione dei vecchi debiti delle p.a.
(maturati al 31.12.2012) non esclude l'intervento
sostitutivo. Per cui se l'impresa ha a sua volta debiti
contributivi (con Inps, Inail o casse edili), ciò sarà
evidenziato nel Durc e la p.a. potrà attivarsi in via
sostitutiva al ripianamento di tali debiti.
Lo precisa
l'Inps nel
messaggio 14.08.2013 n. 13153, spiegando che a
tal fine la regolarità contributiva sarà verifica rispetto a
due momenti: data del debito (verifica retrodatata) e data
emissione Durc (verifica attuale). Arretrati p.a.. L'Inps detta istruzioni alle richieste di Durc (Documento unico di regolarità contributiva) cui sono
tenuti enti locali, regioni, province autonome, enti del
servizio sanitario nazionale e amministrazioni dello stato
per la liquidazione di debiti maturati al 31.12.2012.
Si tratta di una particolare procedura introdotta dal dl n.
35/2013, convertito dalla legge n. 64/2013.
Durc retrodatato. Questa procedura (e il Durc specifico per
i debiti arretrati di p.a.) prevede che, relativamente agli
arretrati p.a., la regolarità sia accertata alla data di
emissione della fattura che certifica il/i debito/i oppure
alla data di richiesta di liquidazione. Per tenere conto
della novità, in vigore dall'8 giugno, l'Inps ricorda che
dal 31 luglio (come già detto dall'Inail; si veda ItaliaOggi
del 6 agosto) opera la nuova procedura su
www.sportellounicoprevidenziale.it. Doppia verifica. Praticamente quando si richiede il Durc per
la liquidazione di un debito arretrato occorre precisare la
data di riferimento, uguale o anteriore al 31.12.2012
(che è poi la data della relativa fattura o della richiesta
di liquidazione). In questi casi l'Inps procede alla
verifica della regolarità rispetto a due momenti: il primo,
retrodatato alla data indicata (del debito arretrato); il
secondo, alla data di emissione del Durc.
L'intervento sostitutivo. La doppia verifica consente alla p.a.-stazione appaltante di valutare l'obbligo di attivare
l'intervento sostitutivo (ex art. 4 del dpr n. 207/2010)
qualora alla data di verifica, corrispondente a quella della
fattura o della richiesta di liquidazione, risulti
un'irregolarità contributiva dell'esecutore e/o del
subappaltatore che permane anche dopo e fino alla data di
emissione del Durc. In tal caso, inoltre, è attivato anche
il preavviso di accertamento negativo (ex art. 7, comma 3,
del dm 24.10.2007) il quale, si ricorda, impone
l'obbligo d'invitare il contribuente a regolarizzare la
posizione entro 15 giorni. Un esempio. Si osservi la tabella; la doppia verifica
comporta una quantificazione del debito con importi riferiti
distintamente ai due momenti. Conseguentemente, rispetto al
totale dell'importo di debito accertato, risulta evidenziata
la parte riferita al periodo fino alla data indicata dalla
stazione appaltante (irregolarità retrodatata) e quella
riferita al periodo successivo (irregolarità attuale). Se a
seguito di preavviso di accertamento negativo la
regolarizzazione avviene solo con riferimento al periodo più
vecchio richiesto per la verifica dalla stazione appaltante
(in esempio: 4 mila euro), il Durc attesterà la regolarità
poiché richiesta ai sensi del dl n. 35/2013; ma nel campo
note sarà indicato sia il debito residuo maturato
successivamente al periodo interessato dalla verifica, sia
il periodo di riferimento e la dicitura «legge n. 64/2013».
Diversamente, non c'è obbligo di preavviso di accertamento
negativo se l'irregolarità riguarda solo e soltanto il
periodo successivo alla data indicata dalla stazione
appaltante (debito p.a.). In tal caso il Durc attesterà la
regolarità; tuttavia, nel campo note riporterà annotato
l'importo e il relativo periodo del debito maturato con
dicitura «legge n. 64/2013»
(tratto da ItaliaOggi del
15.08.2013). ---------------
Rimborsi. Alla data di fattura ed emissione del
«certificato».
Per i pagamenti della «Pa» Durc con doppia verifica. IL CASO LIMITE/
Possibile sanare la posizione fino al giorno dell'arretrato
ma il documento riporterà l'importo ancora in sospeso Aggiornata la procedura internet relativa al rilascio del
Durc per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica
amministrazione.
La novità è disponibile dal 31 luglio
scorso, ma l'Inps lo ha comunicato ieri con il
messaggio 14.08.2013 n. 13153. L'aggiornamento si è reso necessario perché, nell'ambito di
quanto previsto dal Dl 35/2013, le pubbliche amministrazioni
che procedono al pagamento degli arretrati devono richiedere
il documento unico di regolarità contributiva del fornitore
(Durc). La verifica, però, come previsto dal comma 11-ter
dell'articolo 6 del decreto legge, deve essere riferita alla
data di emissione della fattura o richiesta equivalente di
pagamento. Per questo motivo, quindi, la procedura
disponibile all'indirizzo www.sportellounicoprevidenziale.it
è stata aggiornata in modo che le amministrazioni possano
inserire la data richiesta dal decreto legge. Tuttavia la verifica da parte degli operatori sarà doppia,
cioè verrà svolta fino alla data della richiesta di
pagamento e poi da questa data fino all'emissione del Durc.
In questo modo potranno verificarsi diverse situazioni. Se
verrà riscontrata la regolarità contributiva in entrambi i
momenti, il Durc verrà rilasciato, così come se a fronte di
irregolarità al momento di presentazione della fattura è
seguita una regolarizzazione. Se, invece, viene riscontrata
un'irregolarità alla data di presentazione della fattura che
permane successivamente, la stazione appaltante può valutare
l'obbligo di attivazione dell'intervento sostitutivo
disciplinato dall'articolo 4 del Dpr 207/2010, cioè lo
storno dal pagamento dell'importo corrispondente
all'inadempienza e il relativo pagamento diretto agli enti
previdenziali e assicurativi. In questo caso, comunque, il
contribuente deve essere invitato a regolarizzare la
posizione entro 15 giorni. La quantificazione del debito
totale, inoltre, deve essere suddivisa in due importi: uno
riferito all'ammontare accertato fino alla data della
fattura; l'altro dal giorno successivo alla fattura fino
all'emissione del Durc. Il soggetto interessato può a sua volta sanare l'intera
situazione oppure solo quella che serve per incassare il
credito vantato presso la pubblica amministrazione. In
quest'ultimo caso, nel campo note del Durc deve essere
riportato l'importo del debito residuo e il periodo di
riferimento. Infine, se l'irregolarità riscontrata durante la verifica
riguarda solo il periodo successivo alla data della fattura,
il Durc deve essere emesso attestando la regolarità, senza
attivare il preavviso di accertamento negativo. Nel campo
note sarà indicato l'importo e il relativo periodo del
debito maturato tra la data della fattura e quella di
emissione del documento (tratto da Il Sole 24 Ore del
15.08.2013). |
QUESITI & PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Acque
reflue industriali. Domanda
Vorrei saper se ci sono indirizzi giurisprudenziali che
riconducono le acque reflue industriali emunte dalla falda
all'interno della disciplina dei rifiuti liquidi.
Risposta
Si è avuto modo di dire che l'articolo 185, comma 1, lettera
b), del decreto legislativo 03.04.2006, numero
152,esclude dalla normativa sui rifiuti gli scarichi idrici,
esclusi i rifiuti liquidi costituiti da acque reflue. E al
riguardo si sono richiamate, a titolo esemplificativo, la
sentenza del Consiglio di stato, sezione IV, dell'08.12.2009, numero 5256, l'ordinanza dello stesso Consiglio di
stato, numero 2452, del 2008, nonché le sentenze del
Tribunale regionale amministrativo (Tar) Friuli–Venezia
Giulia, sezione I, del 26.05.2008, numero 301 e quella
del 28.01.2008, sempre della sezione I, numero 90; del
Tribunale regionale amministrativo (Tar) Sicilia, Catania,
sezione I, del 29.01.2008, numero 207. Con orientamento diverso, però, vi è la sentenza del
Tribunale regionale amministrativo (Tar) Sicilia, Palermo,
sezione I, del 20.03.2009, numero 540. Per i giudici
amministrativi palermitani, l'articolo 242, decreto
legislativo 03.04.2006, numero 152, introduce un
peculiare regime diversificato per le acque di falda emunte
nell'ambito di interventi di bonifica di siti inquinati, di
per sé non idoneo tuttavia a parificarne il regime
giuridico, per quanto attiene alla gestione e autorizzazione
dei relativi impianti di trattamento, a quello proprio delle
acque reflue industriali. Per i predetti giudici, una
lettura sistematica della previsione normativa in esame non
può non tenere conto della particolare natura dell'oggetto
dell'attività posta in essere, siccome individuati dal
legislatore quali rifiuti liquidi. Per il Tribunale regionale amministrativo (Tar), Sardegna,
sezione II (sentenza numero 549, del 21.04.2009), la
presenza di «uno iato –materiale e temporale–» tra la fase
di emungimento e quella di trattamento già di per sé depone
per la qualificabilità delle acque in termini di rifiuto
liquido. E, per i giudici sardi, l'alternativa nozione
discarico ontologicamente implica la sussistenza di una
continuità tra la fase di generazione del refluo e quella
della sua immissione nel copro recettore, mentre l'esistenza
di una fase intermedia, in cui le acque sono stoccate in
attesa della loro destinazione finale, richiama direttamente
i noti concetti di trattamento e smaltimento, tipici della
disciplina dei rifiuti
(tratto da ItaliaOggi Sette del del
19.08.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Gestione
dei fanghi biologici. Domanda
Si chiede se il Comune possa, con il Pgt, interferire sulla
gestione dei fanghi biologici in agricoltura.
Risposta La disciplina della gestione dei fanghi biologici in
agricoltura rientra nell'ambito della materia della tutela
dell'ambiente, in quanto ricompresa nella disciplina dei
rifiuti. La Corte costituzionale, con la sentenza del 14.03.2008,
numero 62, ebbe a puntualizzare che la Costituzione prevede
che sia riservato allo Stato la potestà di fissare, in
materia, livelli di tutela che abbiano uniformità in tutto
il territorio nazionale. In tema, però, viene fatta salva la
competenza delle regioni ai fini di tutelare gli interessi
collegati, per la loro funzione, con quelli precipuamente
ambientali. E, al riguardo, il decreto legislativo numero
99, del 27.01.1992, il cui oggetto è la «Attuazione
della direttiva 86/278/Cee concernente la protezione
dell'ambiente, in particolare del suolo, nell'utilizzazione
dei fanghi di depurazione in agricoltura», fissa i livelli
minimi di tutela per tutto il territorio comunale,
individuando, all'articolo 4, in modo specifico, i divieti
di utilizzazione dei fanghi in relazione alle loro
caratteristiche e alla tipologia dei terreni coinvolti. Poi,
il predetto decreto legislativo numero 99, del 27.01.1992, demanda alle regioni le ulteriori competenze per il
rilascio delle autorizzazioni e per la fissazione delle
distanze di rispetto. E, a tal fine, all'articolo 6, dispone
che le regioni: -
rilasciano le autorizzazioni per le attività di raccolta,
trasporto, stoccaggio, condizionamento, come definito
dall'articolo 12, e utilizzazione dei fanghi in agricoltura,
conformemente alla normativa vigente e al presente decreto; -
stabiliscono ulteriori limiti e condizioni di utilizzazione
in agricoltura per i diversi tipi di fanghi in relazione
alle caratteristiche dei suoli, ai tipi di colture
praticate, alla composizione dei fanghi, alle modalità di
trattamento; -
stabiliscono le distanze di rispetto per l'applicazione dei
fanghi dai centri abitati, dagli insediamenti sparsi, dalle
strade, dai pozzi di captazione delle acque potabili, dai
corsi d'acqua superficiali, tenendo conto delle
caratteristiche dei terreni (permeabilità, pendenza), delle
condizioni meteo climatiche della zona, delle
caratteristiche fisiche dei fanghi; Pertanto, il Comune che si arroghi competenze in materia,
con il Piano di assetto del territorio (Pgt), viene ad
utilizzare una modalità impropria, come puntualizzato anche
dal Tribunale regionale amministrativo (Tar) della
Lombardia, Milano, con la sentenza della sezione II, del
04.04.2012, numero 1006
(tratto da ItaliaOggi Sette del del
19.08.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Livello
di tutela ambientale. Domanda
Le regioni, con una propria normativa possono, fissare i
criteri di ammissibilità in discarica dei rifiuti non
pericolosi? Risposta
Alla luce del disposto degli articoli 195 e 196 del decreto
legislativo 03.04.2006, numero 152, che ripartiscono le
competenze in materia di rifiuti, le regioni hanno funzioni
di regolazione, di pianificazione e di autorizzazione, ma
non hanno la competenza di fissare i criteri di
ammissibilità in discarica dei rifiuti non pericolosi.
Infatti, alla luce della sentenza del 06.04.2012, numero
693, del Tribunale regionale amministrativo (Tar), Puglia,
Sezione I, la competenza in tema di tutela dell'ambiente, in
cui rientra la disciplina dei rifiuti, appartiene in via
esclusiva, giusta quanto previsto dagli articolo 117 della
costituzione, dai succitati articoli 195 e 196 del decreto
legislativo 03.04.2006, numero 152, nonché dall'articolo
7 del decreto legislativo numero 36, del 13.01.2003,
allo Stato. Pertanto, non possono essere ammesse iniziative
delle regioni volte a regolamentare la materia nel proprio
ambito territoriale, anche se si è in presenza di un'assenza
della disciplina da parte dello Stato. Peraltro la Corte costituzionale, con la sentenza del
04.12.2009, numero 314, ha puntualizzato che la disciplina
statale dei rifiuti, collocandosi nell'ambito della tutela
dell'ambiente e dell'ecosistema, che è di esclusiva
competenza statale, costituisce, anche in attuazione degli
obblighi comunitari, un livello di tutela uniforme e si
impone sull'intero territorio nazionale come limite alla
disciplina che le regioni e le province autonome dettano in
altre materie di loro competenza, per evitare che esse
deroghino al livello di tutela ambientale stabilito dallo
Stato. Limite che è pure volto alla necessità di evitare che
i predetti enti, con i loro interventi, possano peggiorare
il suddetto livello di tutela ambientale stabilito dallo
Stato
(tratto da ItaliaOggi Sette del del
19.08.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Acque reflue industriali. Domanda
Le acque reflue industriali emunte dalla falda e sottoposte
ad eventuale trattamento possono rientrare nella normativa
prevista per i reflui liquidi e, pertanto, essere scaricate
anche in fognatura o devono essere considerati rifiuti e
quindi essere avviati agli appositi centri di smaltimento e
stoccaggio previsti dalla legge? Risposta
L'articolo 243 del decreto legislativo
03.04.2006, numero
152, prevede che le acque di falda emunte dalle falde
sotterranee nell'ambito degli interventi di bonifica e di
messa in sicurezza di un sito possono essere scaricate
direttamente o dopo essere state utilizzate in esercizio nel
sito stesso, nel rispetto dei limiti di emissione di acque
reflue in acque reflue industriali in acque superficiali.
Per il Tribunale regionale amministrativo (Tar) della
Campania, (sentenza del 21.03.2012, numero 1398, sezione
V), le acque di falda emunte dalle falde sotterranee
nell'ambito degli interventi di messa in sicurezza di
emergenza di un sito possono essere scaricate, direttamente, o dopo il loro riutilizzo, nel ciclo produttivo, nel
rispetto dei limiti di emissione di acque reflue industriali
in acque superficiali, e il loro scarico non può essere
condizionato al rilascio dell'autorizzazione di cui
all'articolo 208 del citato decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, relativo al trattamento dei rifiuti. Pertanto, per le acque di falda emunte in operazioni di
messa in sicurezza di emergenza (Mise), il legislatore si
riporta alla normativa sugli scarichi idrici e non a quella
sui rifiuti. A tal fine l'articolo 185 comma 1, lettera b),
del predetto decreto legislativo 03.04.2006, numero 152,
esclude dalla normativa sui rifiuti gli scarichi idrici,
esclusi i rifiuti liquidi costituiti da acque reflue. Al
riguardo, si richiamano la sentenze del Consiglio di stato,
sezione IV, dell'08.12.2009, numero 5256, l'ordinanza dello
stesso Consiglio di stato, numero 2452, del 2008, nonché le
sentenze del Tribunale regionale amministrativo (Tar) Friuli
Venezia Giulia, sezione I, del 26.05.2008, numero 301 e
quella del 28.01.2008, sempre della sezione I, numero 90;
del Tribunale regionale amministrativo (Tar) Sicilia,
Catania, sezione I, del 29.01.2008, numero 207 (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013). |
TRIBUTI:
Ici e Imu con il diritto reale. Domanda
Si ha un condominio in cui una parte del giardino (avente
una propria particella catastale) è stata data in uso
esclusivo permanente ad un condomino (proprietario del
negozio al piano terra) con i primi atti di vendita. Tale
diritto reale di uso esclusivo permanente risulta dagli atti
notarili di chi acquistò dalla ditta costruttrice però tale
diritto non era stato trascritto. Successivamente, senza
avvertire gli altri comproprietari (condomini), il
possessore di tale diritto ha costruito un fabbricato
commerciale e ne ha chiesto il condono edilizio. Ora, dalla
visura catastale di detta particella, risulta un fabbricato
categoria C/1. Da chi sono dovute l'Ici e l'Imu? Dalla
normativa risulterebbe che le imposte sono dovute da chi
gode del diritto reale. Risposta
La risposta è affermativa. Ai fini Imu (così come, in
precedenza, ai fini Ici) rileva la proprietà o la titolarità
di un diritto reale di godimento sull'immobile. Ciò sia per
il pagamento dell'imposta che per gli obblighi di denuncia.
Il riferimento normativo è dato dall'art. 13 del dl n.
201/2011 (L. n. 214/2011) e dall'art. 9, c. 1 del dlgs n.
23/2011): «Soggetti passivi dell'imposta municipale propria
sono il proprietario di immobili, inclusi i terreni e le
aree edificabili, a qualsiasi uso destinati, ivi compresi
quelli strumentali o alla cui produzione o scambio e'
diretta l'attività dell'impresa, ovvero il titolare di
diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi,
superficie sugli stessi. Nel caso di concessione di aree
demaniali, soggetto passivo è il concessionario. Per gli
immobili, anche da costruire o in corso di costruzione,
concessi in locazione finanziaria, soggetto passivo è il
locatario a decorrere dalla data della stipula e per tutta
la durata del contratto». Analoghe considerazioni valgono
anche ai fini delle imposte sui redditi (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013). |
VARI:
È consentita la partecipazione di enti pubblici a una
fondazione onlus? Secondo quanto stabilito dall'art. 10, comma 10, del dlgs
460/1997, non si considerano in ogni caso onlus gli enti
pubblici, le società commerciali diverse da quelle
cooperative, le fondazioni bancarie, i partiti e i movimenti
politici, le organizzazioni sindacali, le associazioni di
datori di lavoro e le associazioni di categoria. Al riguardo
è necessario precisare il senso e l'ampiezza dell'esclusione
stabilita dalla norma richiamata. Sull'argomento già la
circolare dell'Agenzia delle entrate n. 38 del 01/08/2011 ha
espressamente indicato la possibilità di partecipazione,
anche qualora esercitino un influenza dominante, da parte di
enti pubblici e più in generale, di soggetti esclusi dalla
qualifica di onlus. Pertanto, è stato precisato come la
qualificazione di onlus non possa essere negata ad
organizzazioni partecipate tra l'altro da enti pubblici. Da ultimo, con sentenza del 10/05/2013 n. 11148 quale conferma
di tale orientamento di prassi, la giurisprudenza della
Corte di cassazione ha confermato la perfetta legittimità di
una fondazione onlus partecipata da ente pubblico (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013). |
NEWS |
ATTI AMMINISTRATIVI - VARI: DECRETO
DEL FARE/ Oggi in G.U. la legge 98/2013 di conversione del
dl 69/2013. Raffica di misure pro-imprese. Finanziati i nuovi
macchinari. Indennizzi da p.a. lumaca. Una raffica di misure a favore delle imprese. Dalla nuova
legge Sabatini per gli investimenti strumentali al fondo di
garanzia per le pmi, che sosterrà anche il credito delle
micro-aziende. Nuova linfa ai contratti di sviluppo nel
settore industriale. Mentre chi si troverà di fronte
pubbliche amministrazioni che restano inerti a fronte delle
proprie istanze avrà diritto a un indennizzo economico pari
a 30 euro per ogni giorno di ritardo, fino a un massimo di 2
mila euro.
È quanto prevede il dl del Fare (dl n. 69/2013),
la cui legge di conversione (legge 09/08/2013, n. 98)
approderà sul supplemento ordinario 63/L alla G.U. n. 194 di
oggi. La «nuova Sabatini» recata dall'art. 2 del
provvedimento è finalizzata a incentivare gli investimenti
industriali. Le piccole imprese che acquisiranno entro il
2016 (anche in leasing) macchinari e impianti a uso
produttivo potranno contare sul sostegno statale. La Cassa
depositi e prestiti metterà a disposizione delle banche un
plafond per l'erogazione dei finanziamenti. Tutti i dettagli
operativi sono per il momento rinviati a un'apposita
convenzione che il ministero dello sviluppo economico
(sentito il Mef) dovrà sottoscrivere con Cdp e Abi. I mutui
avranno durata non superiore a cinque anni e saranno
erogabili fino a un massimo di 2 milioni di euro per
impresa, anche frazionato in più iniziative. Entro questi
limiti, è possibile pure finanziare l'intero costo
dell'investimento. In sede di conversione il parlamento ha
esteso l'agevolazione agli investimenti in hardware,
software e tecnologie digitali. Ma non è tutto. La seconda
parte dell'intervento prevede l'erogazione di un contributo
statale alle imprese per coprire parte degli interessi. A
tale proposito, però, sarà necessario un decreto attuativo
del Mse, emanato d'intesa col Mef. Durante l'iter di
approvazione l'incentivo è stato allargato alle micro realtà
del settore agricolo e della pesca, compatibilmente con la
normativa comunitaria in materia di aiuti. A favore di artigiani e piccole imprese vanno anche le
modifiche all'articolo 1 del decreto, relativo al
rafforzamento del Fondo di garanzia per le pmi. Il testo
originario del dl aveva infatti eliminato la riserva
dell'80% delle somme a beneficio degli investimenti di
minore importo, suscitando l'allarme delle associazioni di
categoria (ItaliaOggi del 20/07/2013). In fase di
conversione, invece, la riserva è stata reintrodotta, seppur
in misura ridotta: il 50% delle risorse del Fondo sarà
destinato a interventi fino a 500 mila euro. Torna anche la
riserva del 30% degli importi per le operazioni garantite
dai Confidi. Il dl Fare rilancia pure i contratti di
sviluppo, disciplinati dall'articolo 43 del dl n. 112/2008 e
attuati con dm 24/09/2010. In arrivo 150 milioni di euro una
tantum nelle regioni attualmente prive di copertura
finanziaria. Un decreto Mse dovrà definire modalità e
termini: l'importo complessivo dei costi ammissibili degli
investimenti oggetto del contratto di sviluppo non potrà
essere inferiore a 20 milioni di euro con riferimento ai
programmi di sviluppo industriale e a 7,5 milioni di euro
qualora i programmi riguardino esclusivamente attività di
trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli.
Infine, debutta l'indennizzo agli operatori per i ritardi
della p.a. (che resta istituto diverso dal risarcimento del
danno ingiusto da ritardo già previsto dalla legge n.
241/1990). La lentezza costerà all'amministrazione 30 euro
al giorno. Sarà dovere del proponente attivarsi per ricevere
l'indennizzo, entro 20 giorni dalla scadenza non rispettata
dall'ente. Il meccanismo si applicherà ai procedimenti
relativi all'avvio e all'esercizio di attività
imprenditoriale iniziati successivamente all'entrata in
vigore della legge di conversione. Previsto il potere
sostitutivo di un altro ente pubblico per completare il
procedimento. Laddove nemmeno questo agisca, l'istante può
adire il giudice amministrativo: in questo caso il
contributo unificato è ridotto alla metà, ma se il Tar
dichiara inammissibile la questione il contributo lievita da
due a quattro volte
(tratto da ItaliaOggi del
20.08.2013). |
ENTI LOCALI - VARI: DECRETO
DEL FARE/ Scatta la riduzione del 30% per chi paga entro 5
giorni. Multe stradali, partono i saldi. C'è tempo pure per chi è
stato sanzionato a Ferragosto. Da domani si potranno pagare le multe entro 5 giorni con lo
sconto del 30% e anche chi è stato pizzicato subito dopo
Ferragosto ha qualche ora a disposizione per essere ammesso
al beneficio. Ha specificato infatti il Viminale che hanno
diritto alla riduzione anche i trasgressori incorsi nella
notifica dell'infrazione qualche giorno prima dell'entrata
in vigore della riforma purché ancora nei termini per pagare
in misura ridotta.
Sono queste le conseguenze più importanti derivanti
dall'entrata in vigore della legge 98/2013 di conversione
del dl 69/2013 (dl del fare). Lo sconto sulle multe riguarda la generalità delle
infrazioni stradali meno gravi, compresi i tradizionali
divieti di sosta e le altre negligenze quotidiane.
Attenzione però ai verbali spediti in queste ore. Di certo
le multe in consegna postale in questi giorni non potranno
ancora riportare per esteso l'importo esatto da pagare. Lo
sconto del 30% però non potrà essere applicato sull'importo
finale ma solo sull'importo edittale aggiungendo le spese
del procedimento all'esito della riduzione, senza
arrotondamenti. In buona sostanza per i primi giorni di avvio della riforma
al ricevimento della multa sarà meglio rivolgersi al comando
per chiedere il conteggio esatto della multa ridotta. Il
rischio, diversamente, è di vedersi recapitare una cartella
esattoriale con una cifra esorbitante a distanza di tempo.
Buone notizie anche per chi è incorso in una infrazione
stradale subito dopo Ferragosto. Come ha specificato il ministero dell'interno, organo di
coordinamento dei servizi di polizia stradale, con la
circolare del 12 agosto, potranno avvalersi dello sconto
anche i destinatari di una multa ricevuta qualche giorno
prima dell'entrata in vigore della riforma. Purché gli
interessati si affrettino a pagare e la quietanza avvenga
comunque entro 5 giorni dalla notifica o contestazione
dell'infrazione. Attenzione infine ai verbali per divieto di sosta lasciati
sui veicoli. Anche se non è scritto da nessuna parte anche
queste multe potranno essere pagate con lo sconto del 30%.
Almeno fino al momento della notifica postale del verbale
vero e proprio che potrà essere ridotto aggiungendo le spese
(tratto da ItaliaOggi del
20.08.2013). |
APPALTI: P.a.,
appalti senza solidarietà. L'amministrazione non paga i
dipendenti degli appaltatori. Il decreto lavoro (dl 76/2013)
esclude l'applicazione della legge Biagi al settore
pubblico. La legge Biagi non
si applica alle pubbliche amministrazioni. Il decreto
76/2013, convertito in legge dalla camera (atto C-1458),
esclude per i contratti pubblici la solidarietà delle
stazioni appaltanti per il pagamento di salari ai dipendenti
degli appaltatori, previsto dall'articolo 29 del dlgs
276/2003. La norma è retroattiva e si applica a tutti i rapporti
pendenti. Il decreto-legge invece, estende la tutela ai
lavoratori autonomi negli appalti privati e detta la
prevalenza delle forme di tutela dei lavoratori previste
nella contrattazione collettiva. Ma vediamo il contenuto
dell'articolo 9 del decreto 76/2013 e i suoi possibili
effetti. Contratti pubblici.
Il decreto 76/2013, all'articolo 9, comma 1, come spiegano i
lavori parlamentari, esclude dall'ambito dell'intero regime
di solidarietà disciplinato dall'articolo 29 del dlgs
276/2003 i contratti di appalto stipulati dalle pubbliche
amministrazioni (di cui all'art. 1, comma 2, del dlgs n.
165/2001). In particolare non trova applicazione per le pubbliche
amministrazioni quanto disposto dal comma 2 del dlgs
276/2003. Questa norma stabilisce che in caso di appalto di
opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di
lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, e anche con
ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di
due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai
lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di
trattamento di fine rapporto, nonché i contributi
previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al
periodo di esecuzione del contratto di appalto. L'articolo 29 del dlgs 276/2003 è oggetto di diverse
interpretazioni, proprio con riferimento agli appalti
pubblici: alcune sentenze ritengono che la norma si applichi
anche alle pubbliche amministrazioni. Chi propende per
questa impostazione (e i tribunali in maggior parte vanno in
questa direzione) fa leva sulla prevalente finalità di
tutela del lavoratore: uno scopo che bisogna raggiungere
anche quando il committente è un ente pubblico, per evitare
discriminazione tra i lavoratori. A favore della tesi contraria, che esclude le p.a.
dall'articolo 29 della legge Biagi, ci sono considerazioni
che riguardano la portata letterale della norma: l'articolo
29 non fa riferimento agli appalti pubblici; l'articolo 29
fa riferimento a committenti-imprese e tali non sono le
pubbliche amministrazioni; poi l'articolo 2 della legge
Biagi sembra escludere le p.a. dall'ambito di applicazione.
Si sostiene, ancora, che l'articolo 29 è incompatibile con
la disciplina degli enti pubblici nella parte in cui prevede
l'assunzione dei lavoratori danneggiati presso il
committente: nessun giudice, per il vero, ritiene che, a
seguito della azione per far valere la responsabilità
solidale, il lavoratore dell'appaltatore debba essere
assunto dalla p.a. appaltante. Se l'articolo 29 non si applica in una parte significativa
(obbligo di assunzione) allora, si dice, vuol dire che non
si applica alla p.a. nella sua interezza. Il decreto legge 76/2013 ha fatto, ora, una scelta nel senso
dell'esclusione della solidarietà ex articolo 29 dlgs
276/2003. Va aggiunto che rimangono vigenti il codice civile e il
regolamento del codice dei contratti pubblici (dpr
207/2010), che contiene norme specifiche per l'ipotesi di
mancato pagamento dei salari: l'ente pubblico può pagare
direttamente i lavoratori, ma solo nel limite di quanto
eventualmente dovuto all'impresa appaltatrice. Quanto all'ambito di applicazione va sottolineato che il
decreto legge 76/2013 si autodefinisce, nella relazione di
accompagnamento, quale norma di interpretazione autentica:
questo significa, quindi, che si applica a tutti i rapporti
pendenti, comprese le controversie in corso.
Lavoro autonomo.
Il comma 1 dell'articolo 9 del decreto legge 76/2013
riguarda la responsabilità solidale del committente
imprenditore o datore di lavoro e dell'appaltatore, nonché
degli eventuali subappaltatori, con riferimento ai
trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di
fine rapporto, ai contributi previdenziali ed ai premi
assicurativi, dovuti in relazione al periodo di esecuzione
del contratto di appalto di opere o di servizi. Il regime di responsabilità solidale dell'articolo 29 della
legge Biagi viene esteso ai compensi e agli obblighi di
natura previdenziale ed assicurativa nei confronti dei
lavoratori con contratto di lavoro autonomo.
Contratti collettivi.
Il decreto 76/2013, articolo 9, specifica che le eventuali
clausole dei contratti collettivi hanno effetto
esclusivamente in relazione ai trattamenti retributivi
dovuti ai lavoratori impiegati nell'appalto (o nel
subappalto), con esclusione di qualsiasi effetto sul regime
di responsabilità solidale relativo ai contributi
previdenziali ed assicurativi; tale norma limita, dunque,
l'ambito di applicazione della norma che fa salve le diverse
disposizioni dei contratti collettivi nazionali, che
individuino metodi e procedure di controllo e di verifica
della regolarità complessiva degli appalti
(tratto da ItaliaOggi del
20.08.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Regioni, diritto d'accesso dei consiglieri a
prova di privacy. Parere favorevole
del garante al regolamento sul trattamento dei dati
sensibili.
Accesso dei consiglieri regionali nel
rispetto della privacy delle persone. I politici hanno ampia
facoltà di conoscenza, ma devono limitarsi a chiedere
documenti strettamente pertinenti il mandato elettivo.
Lo ha specificato il garante della privacy con un parere
favorevole all'integrazione del regolamento tipo sul
trattamento dei dati sensibili effettuato dai consigli e
dalle assemblee legislative delle regioni e delle province
autonome (provvedimento 25.07.2013 n.
370). Nel parere il garante indica prescrizioni per il caso di
richieste di accesso da parte dei consiglieri, al fine di
evitare strumentalizzazioni ai danni della riservatezza
delle persone individuate negli atti regionali. Si tratta di
un bilanciamento tra il diritto di accesso del consigliere,
ampiamente riconosciuto dalla giurisprudenza quale diritto
politico primario, e il diritto alla riservatezza degli
individui, i cui dati personali sono conoscibili dal
politico. La Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative
delle regioni e delle province autonome ha chiesto il parere
del garante in ordine a una versione aggiornata dello schema
tipo di regolamento per il trattamento di dati personali
sensibili e giudiziari da effettuarsi presso i consigli e le
assemblee legislative delle regioni e delle province
autonome. In base al codice della privacy le regioni e le province
autonome, come gli altri soggetti pubblici, possono trattare
i dati sensibili e giudiziari, in base ad un'espressa
disposizione di legge nella quale siano specificati i tipi
di dati, le operazioni eseguibili e le finalità di rilevante
interesse pubblico perseguite. Per le regioni, le province autonome, le aziende sanitarie,
gli enti e agenzie regionali/provinciali, gli enti vigilati
dalle regioni e dalle province autonome nel 2006 è stato
predisposto un primo schema tipo di regolamento aggiornato
nel 2012 (Provvedimento del garante del 26.07.2012). Analogamente per i consigli e le assemblee legislative delle
regioni e delle province autonome è stato predisposto un
primo regolamento tipo nel 2006, aggiornato nel 2008 e
rivisto ora nel 2013.. Nel parere il garante si sofferma sui trattamenti di dati
sensibili e giudiziari effettuati nello svolgimento delle
attività di controllo, d'indirizzo politico e di sindacato
ispettivo. Il garante rileva che nella scheda relativa a tal
trattamenti non sono descritti in maniera dettagliata e
specifica i trattamenti effettuati presso i consigli e le
assemblee legislative per consentire l'accesso ai documenti,
riconosciuto dalla legge e dai regolamenti consiliari o
assembleari, per esclusive finalità direttamente connesse
all'espletamento di un mandato elettivo. Nei regolamenti, invece, è necessario integrare la
descrizione del trattamento specificando che le richieste
dei consiglieri delle regioni e delle province autonome
possono essere legittimamente accolte soltanto se risultino,
appunto, utilmente ricondotte alle «esclusive»
finalità di rilevante interesse pubblico «direttamente
connesse all'espletamento di un mandato elettivo».
Sempre nella descrizione del trattamento, per il garante, è
opportuno precisare che nel rispondere ai consiglieri i
consigli e le assemblee legislative devono adottare modalità
tali da assicurare che l'accesso del consigliere sia
esercitato, in concreto, in modo da comportare il minor
pregiudizio possibile alla vita privata delle persone cui si
riferiscono i dati contenuti nei documenti oggetto
dell'istanza di accesso. Si tratta di una precauzione
finalizzata a limitare il diritto di accesso del consigliere
s ai dati effettivamente utili per l'esercizio del mandato e
ai fini di questo. Il garante aggiunge che i dati personali eventualmente
acquisiti dal consigliere possono essere utilizzati per le
sole finalità realmente pertinenti al mandato. Sulla scorta
del parere favorevole del garante i consigli regionali
potranno aggiornare i propri regolamenti. Se si adeguano
allo schema tipo aggiornato di regolamento, non devono
sottoporre singolarmente i propri atti al garante per il
parere. Il garante sottolinea nel parere, infine, che
eventuali ulteriori trattamenti di dati sensibili e/o
giudiziari non considerati nell'odierno schema tipo non
potranno essere effettuati
(tratto da ItaliaOggi del
20.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Detrazione
del 36-50% anche per la seconda casa. Sulle spese per gli interventi di recupero del patrimonio
edilizio spetta una detrazione dall'Irpef del 36% (50% per i
pagamenti effettuati dal 26.06.2012 al 31.12.2013).
Interventi agevolati L'agevolazione consiste nella possibilità di ridurre l'Irpef
lorda da pagare del 36-50% delle spese sostenute, nei limiti
di 48mila euro per unità immobiliare (96mila euro per i
pagamenti effettuati dal 26.06.2012 al 31.12.2013), per la
realizzazione degli interventi di manutenzione straordinaria
(anche ordinaria per le parti comuni condominiali), di
restauro e risanamento conservativo, di ristrutturazione
edilizia, «effettuati sulle singole unità immobiliari
residenziali di qualsiasi categoria catastale, anche rurali,
possedute o detenute e sulle loro pertinenze». Sono agevolati anche i cosiddetti «altri interventi»
indicati nell'articolo 16-bis, comma 1, lettere da c) a l),
Tuir, come la ricostruzione o il ripristino di immobili
danneggiati da eventi calamitosi, la realizzazione di
autorimesse o posti auto pertinenziali, l'eliminazione delle
barriere architettoniche, la prevenzione di atti illeciti di
terzi, la cablatura di edifici, il contenimento
dell'inquinamento acustico, le misure antisismiche, la
bonifica dall'amianto, la riduzione degli infortuni
domestici e il conseguimento di risparmi energetici
(compreso il fotovoltaico). Non è necessario che l'unità immobiliare oggetto
dell'intervento agevolato sia adibita ad abitazione
principale o che si trasferisca lì la propria residenza. Non si può applicare l'incentivo fiscale nell'ipotesi in cui
vengano realizzate nuove costruzioni, o, comunque,
realizzati volumi autonomi rispetto ad una unità immobiliare
principale, in quanto gli edifici agevolati devono essere
già censiti al Catasto o deve essere stato già richiesto
l'accatastamento. L'agevolazione Irpef del 36-50% spetta anche nel caso di
interventi edilizi riguardanti interi fabbricati, eseguiti
da imprese, che provvedano entro sei mesi dalla data di
termine dei lavori alla vendita dell'immobile. In
particolare, lo sconto fiscale, che spetta all'acquirente, è
pari al 36-50% del 25% del prezzo risultante nell'atto
pubblico di compravendita e, comunque, entro l'importo
massimo di 48mila euro (96mila euro per i pagamenti
effettuati dal 26.06.2012 al 31.12.2013). L'agevolazione
spetta solo per l'acquisto di unità immobiliari situate in
edifici che siano stati completamente oggetto degli
interventi di recupero edilizio agevolati. Si parla,
infatti, di lavori su «interi fabbricati» e non solo
su una parte di essi. È negata l'agevolazione anche nel caso
in cui l'intervento, solo su una parte del fabbricato, sia
rilevante. Soggetti agevolati Può usufruire della detrazione Irpef del 36-50% chi
contemporaneamente ha sostenuto le spese agevolate, è un
soggetto passivo dell'Irpef (residenti o non) ed è possedere
o detenere, «sulla base di un titolo idoneo, l'immobile sul
quale sono effettuati gli interventi». Relativamente a
quest'ultimo punto, possono beneficiare dell'agevolazione il
proprietario, il nudo proprietario, il titolare di un
diritto reale sull'immobile (uso, usufrutto, abitazione),
l'inquilino, il comodatario, il socio di cooperative non a
proprietà indivisa, assegnatario di alloggio anche se non
ancora titolare di mutuo individuale (possessore) o quello
di cooperative a proprietà indivisa, assegnatario di alloggi
(detentore). Le istruzioni del modello Unico PF comprendono
tra i titoli idonei a detenere l'immobile anche la
concessione demaniale. La detrazione Irpef sulle ristrutturazioni edilizie spetta
anche ai familiari conviventi del proprietario,
dell'inquilino, del comodatario o del titolare di un diritto
reale (uso, usufrutto, abitazione) sull'immobile oggetto
dell'intervento, a patto che sostengano le spese
dell'intervento a loro fatturate tramite bonifico e che la
convivenza nell'abitazione da ristrutturare esista già al
momento in cui iniziano i lavori. Questo evento va
certificato con una dichiarazione sostitutiva dell'atto di
notorietà, se la normativa non prevede alcun titolo
abilitativo per lo specifico intervento agevolato al 36-50
per cento. Quindi, se quando si iniziano i lavori, il familiare che
vuole effettuare e pagare le opere non convive
nell'abitazione da ristrutturare con il familiare possessore
o detentore dell'immobile, l'unica possibilità che ha di
ottenere l'agevolazione del 36-50% è quella di possedere o
detenere lui l'immobile. Quindi, se non si rispettano i
requisiti come familiare convivente, deve essere il nudo
proprietario, il titolare di un diritto reale sull'immobile,
l'inquilino, il comodatario o il socio di cooperative. Ciò
deve essere verificato alla data di inizio del lavori e
indipendentemente da dove ha la residenza (tratto da Il
Sole 24 Ore del
20.08.2013). |
APPALTI: Appalti, anticipo con garanzia. Serve fideiussione bancaria
svincolabile gradualmente. Gli
effetti delle novità introdotte dal dl fare: sul prezzo
conta il costo del personale.
Reintrodotta l'anticipazione del 10% per gli appalti di
lavori, anche se facoltativa e fino a fine 2014; più
difficile fare grandi appalti e non suddividere in lotti; il
prezzo più basso va valutato al netto del costo per il
personale; rafforzato l'obbligo di verifica dei requisiti di
gara attraverso la banca dati dei contratti pubblici;
rinviato il performance bond a giugno 2014; agevolata la
qualificazione delle imprese di costruzioni e la
partecipazione alle gare dei progettisti. Sono queste alcune delle novità approvate con la definitiva
conversione in legge, il 9 agosto scorso, del dl 69/2013
(cosiddetto del fare), che contiene anche alcune importanti
disposizioni in materia di sblocco dei cantieri, avvio di
piccole e medie opere sul territorio («programma dei 6.000
campanili») e stanziamenti per la ristrutturazione delle
scuole Il decreto legge contiene quindi l'ennesimo intervento sul
Codice dei contratti pubblici (dlgs 163/2006), in una
generale e complessiva ottica di agevolazione dell'operato
delle imprese che ogni giorno si confrontano con il sistema
delle procedure di appalto pubblico. Rappresenta una effettiva novità, di cui però si dovrà
verificare la reale applicazione sul campo, la
reintroduzione della anticipazione contrattuale per gli
appaltatori di lavori. La norma approvata prevede infatti non un obbligo, bensì una
mera facoltà per le amministrazioni, in deroga ai vigenti
divieti di anticipazione del prezzo, di procedere al
riconoscimento all'appaltatore di una anticipazione pari al
10% dell'importo contrattuale. Quindi niente obbligo ma facoltà, peraltro ammessa per le
gare bandite dopo l'entrata in vigore della legge di
conversione del decreto 69 e fino a fine dicembre 2014.
Dipenderà ovviamente dalle disponibilità di cassa delle
stazioni appaltanti che comunque, dovranno indicare nel
bando di gara che provvederanno a corrispondere
l'anticipazione. La disposizione richiama anche gli articoli
124, commi 1 e 2, e l'articolo 140, commi 2 e 3 del dpr
207/2010 (Regolamento del codice) in base ai quali si
prevede che l'anticipazione sia subordinata alla
costituzione di una garanzia fideiussoria bancaria o
assicurativa gradualmente svincolata nel corso dei lavori. Il decreto interviene anche sulla disciplina del performance
bond differendo ancora una volta l'entrata in vigore della
garanzia globale di esecuzione di quasi un anno, a fine
giugno 2014. Sugli obblighi di verifica dei requisiti dichiarati in sede
di gara viene rafforzata la validità del sistema fondato
sulla Banca dati nazionale dei contratti pubblici (Bdncp)
costituita presso l'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici che ha messo a punto un articolato meccanismo
informatico (Avcpass) che dovrebbe diventare obbligatorio a
inizio 2014. Il decreto rafforza tale obbligo di verifica
prevedendo che l'utilizzo di tale sistema sia l'unico
meccanismo, decorsi tre mesi dalla pubblicazione della legge
di conversione del decreto legge n. 69. Importante anche la
norma sulla suddivisione in lotti degli appalti, strumento a
tutela delle piccole e medie imprese spesso emarginate dalla
pratica spesso utilizzata negli ultimi anni, dei maxilotti.
Il principio oggi in vigore è che la stazione appaltante, al
fine di favorire l'accesso delle piccole e medie imprese,
deve ove possibile ed economicamente conveniente suddividere
gli appalti in lotti funzionali, il decreto aggiunge
l'obbligo per le stazioni appaltanti di motivare, nella
determina a contrarre, l'eventuale mancata suddivisione in
lotti e impone di tenere conto di tale profilo anche
nell'ambito delle comunicazioni che ciclicamente devono
essere inviate all'Osservatorio presso l'Autorità. Sul
fronte della qualificazione delle imprese di costruzioni si
stabilisce che, fino a fine 2015, sarà possibile documentare
i requisiti sulla cifra d'affari globale in lavori, sulle
attrezzature e sull'organico con riguardo al decennio e non
più al quinquennio né ai migliori cinque anni del decennio.
Viene inoltre prorogata l'applicazione della norma che
consente, nelle gare per servizi di ingegneria e
architettura di importo superiore ai 100.000 euro, di
documentare i requisiti di partecipazione alle gare con
riferimento (per il fatturato) ai migliori cinque anni del
decennio e (per l'organico medio annuo) rispetto ai tre
migliori anni dell'ultimo quinquennio. Infine di rilievo la
norma che dispone che il prezzo più basso venga determinato
al netto delle spese relative al costo del personale; così
facendo il costo del personale non figurerà più
nell'elemento prezzo e quindi non deve essere più sottoposto
a verifica di congruità
(tratto da ItaliaOggi Sette del
19.08.2013). |
ENTI LOCALI - VARI:
Col pos è più caro.
Aumentano i costi delle multe. Conciliazione in strada,
chiarimenti della polizia.
Per conciliare in strada, quando ammesso, la polizia di
stato ha fornito alle pattuglie dei terminali elettronici
che però aggravano il procedimento di almeno 5 euro. Anche
un soggetto terzo però può effettuare la transazione a
favore del trasgressore previa identificazione dello stesso.
Lo ha chiarito il compartimento della polizia stradale di
Bologna con la nota 03.07.2013 n. 19061/110A.3. In
attesa dell'imminente via libera alla riforma che sdoganerà
completamente i pagamenti elettronici in strada, riducendo
anche i costi delle operazioni, la polizia stradale da
qualche mese si è organizzata per consentire ai trasgressori
che attualmente possono pagare in strada per non vedersi
aggravare il procedimento sanzionatorio di procedere in tal
senso. Il riferimento specifico della circolare è agli
articoli 207 e 202 del codice stradale che attualmente fanno
riferimento al pagamento immediato dei conducenti di veicoli
stranieri oppure agli esercenti attività di autotrasporto
professionale. In buona sostanza per questa categoria di
trasgressori da qualche anno è stato reintrodotta la
possibilità di pagare subito in strada all'organo
accertatore. Per semplificare questa procedura, in attesa
dell'annunciato allargamento del pagamento elettronico per
tutti i trasgressori la polizia stradale ha disciplinato la
procedura da seguire. Le spese forfettarie che vengono
richieste in caso di utilizzo dei pos in dotazione alla
pattuglia sono pari a 5 euro, specifica la nota felsinea. Il
capopattuglia ha l'obbligo di identificare il soggetto che
effettua la transazione che però non deve essere
necessariamente il trasgressore. Oltre alla spesa
forfettaria di 5 euro per ogni multa di importo superiore a
77,47 euro però andrà aggiunto anche l'imposta di bollo da 2
euro. Se al conducente sono contestate due violazioni, per una
sola delle quali è previsto il pagamento immediato, andranno
redatti due verbali, prosegue la circolare. Se le violazioni
contestate sono tutte immediatamente oblabili sarà invece
possibile redigere un solo verbale e risparmiare quindi
sulle spese. In questo caso con 5 euro si può fare fronte al
pagamento di tutti i verbali
(tratto da ItaliaOggi Sette del
19.08.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Terre da scavo autocertificate.
Semplificati ed estesi i casi in cui il riutilizzo non
richiede un piano ad hoc. Costruzioni. La documentazione sul
reimpiego resta indispensabile solo per le opere maggiori
soggette a Via o ad Aia. Anche le terre e rocce da scavo trovano la loro
semplificazione. Già per i piccoli cantieri, il decreto
"emergenze" (Dl 43/2013 convertito in legge n. 71/2013),
aveva sancito l'esonero, per tutti quelli sotto i 6mila
metri cubi di produzione di terre e rocce da scavo dai tanti
adempimenti previsti per il riutilizzo del materiale, e in
particolare dal Dm 161/2012. Questo decreto, dunque, continuava a trovare applicazione
solo per i cantieri di opere sottoposte a Valutazione di
impatto ambientale (Via) o Autorizzazione integrata
ambientale (Aia). Si poneva, quindi, il dubbio di quale
disciplina continuasse ad applicarsi a tutti gli altri
cantieri: in assenza di norme ad hoc, infatti, questi
sarebbero nuovamente ricaduti nell'ambito di applicazione
dell'articolo 186 del Codice ambiente (Dlgs 152/2006). La conversione in legge del decreto del fare (Dl 69/2013) ha
invece introdotto una procedura semplificata per tutti i
cantieri non sottoposti a Via o Aia. Il nuovo articolo 41-bis del Dl 69, infatti, condiziona il
riutilizzo dei materiali da scavo provenienti da piccoli
cantieri e dagli altri non soggetti a Via o Aia a quattro
condizioni fondamentali: - la destinazione di riutilizzo anche presso più siti deve
essere certa e determinata; - i materiali da scavo devono rispettare le Csc
(concentrazioni soglia di contaminazione) compatibili con il
sito di destino e non devono costituire una fonte di
contaminazione per le acque di falda; - l'utilizzo non deve comportare rischi per la salute o
variazioni negative delle emissioni rispetto alle normali
materie prime; - i materiali da scavo non devono essere sottoposti a
preventivi trattamenti fatta eccezione per la normale
pratica industriale. A queste condizioni, il riutilizzo è possibile mediante
autocertificazione del proponente all'Arpa con indicazione
delle quantità di materiali destinati al riutilizzo, del
sito di deposito e dei tempi previsti per il riutilizzo
(indicativamente un anno, salvo che l'opera per il
riutilizzo necessiti di tempi più lunghi). Il completo
riutilizzo dei materiali da scavo, dunque, deve essere poi
comunicato ad Arpa dal produttore. La nuova disciplina contiene evidenti semplificazioni in
quanto si fonda sostanzialmente su una procedura
autocertificata, attivata e conclusa dal proponente sotto il
controllo di Arpa. Tuttavia, alcuni aspetti non sono stati regolamentati e,
quindi, sarà la prassi applicativa (anche attraverso
circolari) a dover colmare le lacune. In particolare, non è chiaro quando la dichiarazione di
utilizzo debba essere presentata all'Arpa (prima, dopo o
durante gli scavi). Inoltre, le informazioni da inserire
nell'autodichiarazione sono vaghe o non complete: si chiede
di indicare il sito di deposito, ma non il sito di destino
(probabile svista), si chiede di dichiarare la conformità
alle Csc, ma non si indicano le modalità di indagine. Inoltre, le attività di scavo, così come gli interventi di
riutilizzo devono comunque essere autorizzate dagli enti
competenti in quanto attività edilizie vere e proprie e,
quindi, il processo in autocertificazione dovrà comunque
essere coordinato con l'iter edilizio. L'articolo 41-bis, infine, abroga l'articolo 8-bis del Dl
43/2013 pur confermandone i contenuti, ossia esclude
dall'ambito di applicazione del Dm 161 tutti i piccoli
cantieri e gli altri cantieri non sottoposti a Via o Aia),
ribadendo così che il tanto discusso Dm 161 avrà un campo di
applicazione limitato alle grandi opere. --------------- Le condizioni
01 | IL RAGGIO DI AZIONE
La procedura semplificata di riutilizzo riguarda tutti i
cantieri non soggetti a Via o Aia, compresi i piccoli sotto
i 6mila mc di produzione di terre e rocce da scavo
02 | LE CONDIZIONI Il riutilizzo è possibile se la destinazione di riutilizzo è
certa, se sono rispettate le soglie di concentrazione del
sito di destino, se non ci sono rischi per la salute e se i
materiali non vengono sottoposti a trattamenti preventivi
03 | GLI ADEMPIMENTI Il proponente deve attestare all'Arpa il rispetto delle
condizioni di riutilizzo. Al termine, il proponente deve
dare comunicazione scritta all'Arpa. Inviariate le procedure
per i titoli edilizi
---------------
Gli adempimenti. Occorre verificare eventuali contaminazioni.
Test di cessione obbligatorio per i riporti.
Prima di utilizzare terreno da riporto è necessario ora
sottoporlo al test di cessione per escludere che esso
rappresenti una fonte di contaminazione. La novità
sull'annoso problema dei riporti è contenuta nel decreto del
fare. In passato si era discusso se i riporti (ossia terreno misto
a materiali di demolizione o simili) dovessero essere
necessariamente trattati come rifiuti, ovvero potessero
essere gestiti come terreno vero e proprio. L'articolo 3 del Dl 2/2012 (convertito nella legge 28/2012)
conteneva una interpretazione autentica secondo cui i
riporti dovevano essere equiparati al suolo e, quindi, a una
matrice ambientale vera e propria. L'allegato 9 al Dm
161/2012, poi, aveva introdotto specifiche condizioni per il
riutilizzo dei riporti scavati, prevedendo che la componente
antropica presente non potesse essere superiore al 20 per
cento. Si poteva, quindi, ritenere che il materiale di riporto non
scavato potesse essere trattato come terreno in situ e, se
contaminato, assoggettato alle procedure di bonifica (Dlgs
n. 152/2006), mentre quello oggetto di scavo poteva essere
riutilizzato nel medesimo sito, ovvero gestito come
sottoprodotto nei limiti di quanto previsto dal Dm 161/2012. Il decreto del fare tuttavia, è ritornato sul punto,
modificando sostanzialmente questa interpretazione. La
novità è rappresentata dalla necessità di sottoporre il
materiale di riporto al test di cessione e ciò per
considerare i riporti come terreno non scavato, ovvero come
terreno scavato e riutilizzato nel medesimo sito. L'esenzione dalla disciplina sui rifiuti (articolo 185 del
Dlgs 152/2006) varrebbe, infatti, solo nel caso in cui i
riporti risultino conformi ai test di cessione. Altrimenti,
per espressa disposizione del legislatore, il riporto
costituisce fonte di contaminazione e,quindi, deve essere
rimosso o reso conforme al test di cessione attraverso
trattamento o messa in sicurezza permanente. Quest'ultimo passaggio apre a diversi dubbi applicativi. Non
si comprende, infatti, se il riporto equiparato a una fonte
di contaminazione diventi rifiuto, ovvero debba essere
considerato terreno contaminato. Da un lato, il test di cessione è una verifica tipicamente
applicata ai rifiuti, dall'altro gli interventi previsti dal
legislatore per i riporti non conformi (rimozione,
operazioni di trattamento e messa in sicurezza permanente)
farebbero propendere per l'assoggettamento degli stessi ad
un intervento di bonifica. Questa seconda lettura della norma, peraltro, sarebbe
maggiormente in linea con l'originaria interpretazione
autentica introdotta dal decreto salva Italia, che vorrebbe
equiparare i riporti a una matrice ambientale. Poiché la legge di conversione del Dl 69 non ha chiarito il
punto, la disposizione potrebbe essere interpretata
ritenendo che il riporto non conforme sia trattato come
rifiuto quando debba comunque essere scavato, mentre possa
essere gestito in procedura di bonifica quando debba essere
mantenuto in sito
(tratto da Il Sole 24 Ore del
19.08.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Ambiente. Obiettivo risparmio idrico.
Lavori sostenibili per bonificare le acque di falda. IL TRATTAMENTO/
Necessario sottoporre a depurazione la quantità prelevata
prima di immetterla di nuovo nel collettore.
Il decreto del fare (Dl 69/2013) si occupa anche di gestire
le acque di falda contaminate (cosiddette acque emunte)
attraverso una modifica all'articolo 243 del Codice
dell'ambiente (Dlgs 152/2006). I correttivi apportati in sede di conversione (articolo 41
del Dl 68/2013) sono significativi. Infatti, mentre il decreto legge originario sembrava
introdurre un regime di favore alla gestione delle acque di
falda contaminate ed emunte (interventi in presenza di un
rischio sanitario e programmati con l'obiettivo di ridurre
il rischio), in sede di conversione il legislatore è
intervenuto sensibilmente, chiarendo che l'obiettivo
primario da soddisfare è arrestare la contaminazione. Infatti, oltre alle misure di sicurezza e prevenzione
(incluso il barrieramento idraulico), devono essere adottate
le migliori tecnologie disponibili per eliminare o isolare
le fondi di contaminazione dirette o indirette. Viene meno, dunque, l'obiettivo di prevenire o ridurre a
livelli accettabili il rischio sanitario associato alla
contaminazione della falda attraverso il minor sacrificio
economico, previsto in origine dal decreto. Rimane, invece, il chiaro intento a voler incentivare
l'utilizzo delle acque emunte in cicli produttivi al fine di
conseguire il risparmio delle risorse idriche, così come
viene confermato che il barrieramento fisico rimane l'ultima
ratio di intervento, qualora non ci siano misure
alternative. Per l'assimilazione delle acque emunte alle acque reflue
industriali, i commi 3 e 4 del nuovo articolo 243 del Dlgs
152/2006 prescrivono che queste dovranno essere sottoposte a
un trattamento depurativo e convogliate dal punto di
prelievo al punto di immissione - senza soluzione di
continuità - tramite un sistema stabile di collettamento. In
tal caso, le acque emunte saranno equiparate alle acque
reflue industriali e, quindi, sottoposte alla disciplina
degli scarichi del Codice dell'ambiente. La procedura di emungimento, riutilizzo nel circolo
produttivo e reimmissione delle acque emunte deve essere
esplicitata e, quindi, autorizzata nel progetto di bonifica
presentato dall'operatore. Le acque trattate possono essere reimmesse in falda a
condizione che non contengano acque di scarico o altre
sostanze, fatte salve le sostanze utilizzate e autorizzate
per la bonifica (tratto da Il Sole 24 Ore del
19.08.2013). |
APPALTI: Contratti
pubblici. La scelta di mantenere l'accorpamento va motivata
nella determinazione. Appalti frazionati per tutelare le Pmi. Gli appalti devono essere suddivisi in lotti e, in caso
contrario, le amministrazioni aggiudicatrici devono indicare
nel bando le ragioni che hanno determinato la gestione
unitaria. La legge di conversione del Dl 69/2013 (decreto del fare)
potenzia le misure previste nell'articolo 2 del Codice dei
contratti pubblici per favorire la partecipazione delle
piccole e medie imprese alle gare di appalto, rafforzando
l'obbligo di suddivisione funzionale delle prestazioni
(lavori, servizi e forniture), ove possibile ed
economicamente conveniente, stabilendo (articolo 26-bis) che
nella determinazione a contrarre le stazioni appaltanti
debbano indicare la motivazione circa la mancata
suddivisione dell'appalto in lotti. La connessione Per gli appalti di lavori, questo elemento sarà facilmente
desumibile dall'unitarietà del progetto in rapporto
all'opera da aggiudicare (fatta eccezione per gli appalti a
stralci), mentre per le forniture di beni e servizi
l'analisi giustificativa dovrà evidenziare
l'interconnessione tra le varie prestazioni e
l'impossibilità di renderle in maniera distinta. La partizione in lotti funzionali di un appalto deve
peraltro essere vagliata sulla capacità del singolo lotto di
assolvere autonomamente all'esigenza dell'amministrazione.
La suddivisione (o la scelta della gestione unitaria) devono
essere anche comunicate all'autorità di vigilanza sui
contratti pubblici (Avcp), nell'ambito delle informazioni
relative alle procedure di aggiudicazione previste
dall'articolo 7 del Codice dei contratti.
L'anticipazione Un ulteriore elemento di grande interesse (anche se si
tratta di una sorta di ritorno al passato) è previsto
dall'articolo 26-ter della legge di conversione del decreto
fare, il quale reintroduce l'anticipazione del prezzo per i
soli appalti di lavori pubblici. La scelta deve essere pubblicizzata nel bando
dall'amministrazione aggiudicatrice, che dovrà corrispondere
all'appaltatore all'avvio delle prestazioni il 10%
dell'importo contrattuale. Nel caso di contratti di appalto
relativi a lavori di durata pluriennale, l'anticipazione va
compensata fino alla concorrenza dell'importo sui pagamenti
effettuati nel corso del primo anno contabile. L'utilizzo di questa possibilità favorisce le imprese nella
gestione dei lavori, ma implica contestualmente per le
stazioni appaltanti una maggiore attenzione nella fase di
avvio dei lavori (peraltro dettagliatamente disciplinata dal
Dpr 207/2010). Il Durc La semplificazione dei rapporti tra le amministrazioni e gli
appaltatori è sostenuta anche dalle disposizioni sul Durc
(articolo 31), che rafforzano l'obbligo di acquisizione
d'ufficio del documento, introducendo tuttavia due grandi
novità. Le disposizioni della legge di conversione del Dl 69/2013
stabiliscono infatti che il certificato di regolarità
contributiva ha validità per centoventi giorni dalla data
del rilascio (riducendo il termine di 180 inizialmente
previsto dal decreto) e che può essere utilizzato entro
questo arco temporale per i pagamenti degli stati di
avanzamento. Qualora l'amministrazione aggiudichi un altro appalto a
un'impresa e disponga di un Durc validito riferito alla
stessa impresa in relazione a un rapporto contrattuale già
in essere, può utilizzare questo documento per i controlli
di regolarità contributiva riferiti all'aggiudicazione e
alla stipula del contratto per il nuovo appalto
(tratto da Il Sole 24 Ore del
19.08.2013). |
LAVORI PUBBLICI: Concessioni, garanzie sui piani economici.
Credito e coperture. Rafforzare la
bancabilità. Le concessioni di costruzione e gestione di opere pubbliche
devono essere impostate con una disciplina dettagliata del
piano economico-finanziario e in modo tale da consentire in
modo accurato la verifica di bancabilità. L'articolo 19 del decreto del fare (Dl 69/2013 convertito in
legge dal Parlamento) è stato integrato da numerose
disposizioni introdotte in fase di conversione, tutte
finalizzate a garantire la piena realizzabilità dell'opera.
Per rendere chiaro il quadro di risorse e le condizioni di
gestione, la convenzione deve definire i presupposti e le
condizioni di base del piano economico-finanziario le cui
variazioni non imputabili al concessionario, se determinano
una modifica dell'equilibrio del piano, comportano la sua
revisione. La convenzione deve contenere inoltre una
definizione di equilibrio economico finanziario che faccia
riferimento a indicatori di redditività e di capacità di
rimborso del debito, nonché la procedura di verifica e la
cadenza temporale degli adempimenti connessi. Per assicurare adeguati livelli di bancabilità, le nuove
disposizioni richiedono una più ampia esplicitazione degli
strumenti di reperimento delle risorse, prevedendo anche la
risoluzione del contratto qualora, entro un termine massimo
di 24 mesi, il concessionario non sia pervenuto alla
sottoscrizione di un contratto di finanziamento o
all'emissione delle obbligazioni di progetto necessarie
sempre per la provvista finanziaria. Peraltro, proprio per rafforzare le dinamiche economiche
dell'opera, il bando può prevedere che l'offerta sia
corredata dalla dichiarazione sottoscritta da uno o più
istituti finanziatori di manifestazione di interesse a
finanziare l'operazione, anche in considerazione dei
contenuti dello schema di contratto e del piano
economico-finanziario
(tratto da Il Sole 24 Ore del
19.08.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Se la Pa ritarda scatta l'indennizzo.
Trenta euro al giorno per il mancato rispetto dei termini
per l'avvio dell'attività d'impresa. EDILIZIA/ Basta la Scia per le modifiche delle sagome degli
immobili. I Comuni dovranno indicare le aree dei centri
storici dove la procedura sarà ammessa. Partenza sprint, almeno sulla carta, per le nuove
semplificazioni amministrative contenute nel decreto del
Fare (69/2013), la cui legge di conversione è attesa per
domani in Gazzetta Ufficiale. A differenza del vecchio
"Semplifica Italia" (5/2012) –che prevedeva 51
provvedimenti attuativi di cui solo 19 sono stati adottati–
buona parte delle nuove misure è infatti immediatamente
operativa. Nel suo insieme, il testo uscito dalle Camere
prevede ben 87 provvedimenti attuativi secondari, contro i
53 della versione originaria, mentre il "pacchetto
semplificazioni" non è andato oltre la dozzina di atti
amministrativi. Hanno efficacia immediata, per esempio, le semplificazioni
per l'edilizia contenute nell'articolo 30, che intervengono
su costi stimati per 4,4 miliardi di euro l'anno e che
dovrebbero garantire risparmi, a regime, per circa 500
milioni. Tutte tranne la Scia per le modifiche della sagoma
degli edifici in ristrutturazione a parità di volumetria nei
centri storici (zone omogenee A o equipollenti), per la
quale bisognerà invece aspettare l'adozione delle delibere
con cui i Comuni individueranno le aree dove si applicherà
la nuova procedura. Ma poiché l'impatto maggiore per questa
misura è atteso soprattutto sui cantieri attivi nelle
periferie, i tempi di reazione dei municipi non dovrebbero
incidere più di tanto. Subito operativo è anche il "nuovo Durc" (articolo 31), la
cui validità passa da 90 a 120 giorni. Nei quattro mesi di
validità il Documento unico di regolarità contributiva potrà
essere utilizzato anche per contratti pubblici diversi da
quelli per cui è stato richiesto. La semplificazione vale
per tutte le amministrazioni che possono chiedere il Durc
(anche per concedere benefici, sussidi o finanziamenti
previsti da norme Ue, nazionali o regionali); e fino al 31.12.2014 si applicherà anche ai lavori edili per i
soggetti privati. «Approvato il decreto del Fare si apre la
fase importante e delicata dell'attuazione, per questo è
importante che cittadini e imprese siano informati delle
nuove opportunità che offre loro la legge» ha dichiarato il
ministro Gianpiero D'Alia, i cui uffici da domani daranno
massima diffusione di una Guida alle nuove semplificazioni.
«Un cantiere destinato a ripartire a settembre -ha
ricordato il ministro– con l'esame in commissione Affari
costituzionali del Senato del disegno di legge di
semplificazioni che rappresenta la fase due di questa nuova
serie di interventi e che è stato inserito nell'agenda dei
lavori il 7 agosto scorso». Tornando alle norme in vigore da martedì, subito operativa è
poi la sperimentazione sull'indennizzo automatico e
forfetario (articolo 28): in caso di mancato rispetto dei
tempi per concludere una pratica, l'amministrazione dovrà
riconoscere all'impresa interessata una somma di 30 euro per
ogni giorno di ritardo fino a un massimo di 2mila euro. La
misura è immediatamente valida ma solo per le domande
d'avvio ed esercizio delle attività d'impresa presentate
dopo l'entrata in vigore della legge. Mentre è rimandato al
buon esito della sperimentazione (da valutare entro 18 mesi)
il varo del decreto del Presidente del Consiglio che
confermerà l'indennizzo e ne rimodulerà l'estensione anche
agli altri procedimenti. Il diritto all'indennizzo
forfetario si coniuga con la ricognizione attivata i primi
di agosto con una circolare del ministero della Pa sugli
adempimenti che tutte le amministrazioni devono assolvere in
applicazione del decreto sblocca debiti della Pa (35/2013).
E in prospettiva l'indennizzo automatico farà da pungolo al
rispetto dei tempi di rimborso dei nuovi crediti ai
fornitori previsti dalla direttiva 2011/7/Ue. Tra le nuove norme in arrivo (ma qui serve un decreto
ministeriale attuativo con l'indicazione delle modalità di
pubblicazione) c'è poi il sistema delle date uniche di
efficacia dei nuovi obblighi amministrativi (previste al 1°
luglio o al 1° gennaio). Il pacchetto di misure per cui bisognerà invece attendere
più decreti attuativi del ministero del Lavoro riguarda le
semplificazioni per gli adempimenti formali in materia di
sicurezza in azienda. Si tratta di un insieme di misure che
incidono su oneri dal costo stimato in 3,3 miliardi l'anno e
la cui verifica d'impatto è dunque per il momento rinviata.
Si va dalle comunicazioni sul rischio infortuni
(drasticamente ridotte per i piccoli esercizi commerciali) a
quelle per la compilazione del documento di valutazione dei
rischi da interferenza (Duvri), dalle notifiche di avvio di
una nuova attività alle verifiche periodiche sulle
attrezzature da lavoro, le misure per la sicurezza nei
cantieri temporanei o quelle sulle denunce per infortuni
(che prevede il passaggio all'Inail dell'onere di
comunicazione, finora a carico delle aziende, alle autorità
di pubblica sicurezza che poi le comunica alle Asl). Si torna sul terreno dell'efficacia immediata, infine, con
le semplificazioni per i cittadini come, per esempio, la
trasmissione telematica del certificato di gravidanza (non
più a carico della lavoratrice), o il taglio di una serie di
certificati sanitari finora obbligatori come quelli
d'idoneità psico-fisica o di sana e robusta costituzione per
determinati tipi d'impiego (tratto da Il Sole 24 Ore del
18.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Scia non dribbla la verifica d'agibilità. La verifica dell'agibilità di un locale destinato al
trattenimento, anche se capace di accogliere meno di 200
persone, non può essere sostituita da una Scia e
l'intervenuta abrogazione dell'art. 124 del regolamento al
Tulps, disposta dal dl 5/2012, non fa venir meno gli
obblighi in materia di sicurezza per bar e ristoranti che
organizzano spettacoli.
Lo dice il ministero dell'interno nella
circolare prot. 557/Pas/u/
003524/13500.A (8) del 2013 diffusa dalla prefettura di
Ravenna con nota n. 2013/2013. Presupposto della Scia è la natura vincolata dell'atto
autorizzativo sostituito, subordinatamente all'accertamento
positivo dei requisiti di legge; e poiché il parere della
commissione di vigilanza presuppone l'esercizio di una
discrezionalità tecnica con un contenuto più ampio di una
mera verifica del rispetto delle norme vigenti in materia di
sicurezza, l'agibilità deve essere formalmente accertata.
Non sempre, peraltro, ha aggiunto il ministero, ogni
spettacolo o trattenimento musicale o danzante svolto in un
pubblico esercizio è soggetto agli art., 68, 69 e 80 Tulps.
Sono esenti, infatti, gli spettacoli e i trattenimenti
organizzati occasionalmente o per specifiche ricorrenze,
sempreché rappresentino un'attività. Poco è cambiato quindi
dopo l'abrogazione dell'art. 124 del rd 635/1940. Perché il
legislatore non ha fatto altro che sancire a livello
normativo il principio già ricavato dal dicastero a livello
interpretativo. In sostanza nessun obbligo per l'esercente quando il
trattenimento è funzionale all'attività commerciale ed è
lecito che l'esercente attui una maggiore attrattiva sul
pubblico, ma senza quella specifica imprenditorialità nel
campo dell'intrattenimento e dello spettacolo che farebbe,
invece, scattare l'obbligo del rispetto delle specifiche
norme
(tratto da ItaliaOggi del
17.08.2013). |
ENTI LOCALI - VARI: Multe, niente sconti sull'accertamento. Tra pochi giorni entrerà in vigore lo sconto sulle multe
pagate tempestivamente ma l'importo esatto da versare
resterà avvolto dal mistero fin che la polizia stradale non
avrà avuto il tempo di aggiornare la modulistica. Dal
beneficio del 30% restano infatti escluse per legge le spese
per l'accertamento e l'importo finale non potrà mai essere
arrotondato. Poi non tutte le infrazioni stradali saranno
ammesse al beneficio. Insomma prima di pagare una multa
scontata del 30% entro 5 giorni sarà meglio chiedere
chiarimenti agli uffici dei vigili e della polizia stradale.
Il rischio è infatti quello di vedersi recapitare
successivamente spiacevoli richieste di integrazione ben
superiori all'importo versato.
Sono queste le conseguenze
operative stradali immediate derivanti dall'imminente
pubblicazione in G.U. della legge di conversione del dl
69/2013 (si veda ItaliaOggi di ieri e del 13/08/2013). Non sarà facile gestire l'avvento delle multe con lo sconto
per i buoni pagatori perché nella norma non è stato previsto
un lasso temporale necessario per aggiornare la modulistica
e i programmi che gestiscono le infrazioni, spiega Giovanni
Acerbo, dirigente della polizia municipale di Torino. Il
periodo estivo inoltre non aiuta ad organizzare al meglio
l'avvio di questa utile esperienza che peraltro a regime si
rivelerà molto utile per tutti. In pratica con l'innesto nella legge di conversione del dl
69/2013 dell'art. 20 è stata rivisto tutto il sistema di
pagamento delle infrazioni stradale. Lo sconto del 30% per i
pagamenti veloci riservato a chi salda entro 5 giorni il suo
debito stradale non troverà applicazione in caso di
violazioni gravi, ha specificato il ministero dell'interno
con la circolare del 12 agosto. Ma nulla è stato scritto
circa la possibilità di ridurre la multa nella frequente
ipotesi di preavvisi di sosta non ancora notificati e
contestati. In questo caso a parere della polizia municipale
di Torino non ci sono dubbi. Anche i preavvisi di sosta
potranno essere pagati con lo sconto tempestivamente. Attenzione però ai calcoli fai-da-te dell'importo da pagare.
Al ricevimento postale per esempio di una multa per semaforo
rosso non sarà possibile prendere l'importo totale
riducendolo del 30%. Il calcolo esatto da effettuare
possibilmente con l'aiuto di un comando di polizia (fin
tanto che non verrà aggiornata la modulistica) riguarda
infatti lo sconto sulla sanzione che da 162 euro si potrà
ridurre a 113,40. A questo importo poi dovranno essere
aggiunte le spese di notifica e di accertamento. Solo così
non si correrà il rischio boomerang ovvero di pagare
scontato e poi ripagare, a distanza di tempo, quasi
raddoppiato
(tratto da ItaliaOggi del
15.08.2013). |
ENTI LOCALI: La nuova contabilità può essere un boomerang. La nuova contabilità degli enti locali potrebbe rivelarsi
controproducente. Infatti, l'adozione del nuovo concetto di
impegno di spesa, che consente l'imputazione in esercizi
successivi (ovvero nell'anno in cui si presume che
l'obbligazione sottostante venga a scadenza), potrebbe
rivelarsi, alla prova dei fatti, una criticità molto
importante. Il pericolo è che si possa rinviare oneri al
futuro, con la motivazione che le relative obbligazioni non
sono ancora venute a scadenza, nascondendo, di fatto,
situazioni di difficoltà finanziaria o di dissesto. Sarà
certamente più difficile ed impegnativo verificare la
copertura finanziaria di delibere o determine che comportano
spese, visto che l'imputazione di queste ultime avviene
dilazionata negli anni successivi.
È l'effetto derivante
dall'applicazione del principio cardine della «competenza
finanziaria potenziata», secondo il quale le obbligazioni
attive e passive giuridicamente perfezionate, che danno
luogo a entrate e spese, sono registrate nelle scritture
contabili con l'imputazione all'esercizio nel quale esse
vengono a scadenza e non nel momento in cui nascono, così
come avviene nell'attuale sistema contabile previsto dal Tuel (artt. 179 e 183).
Conseguentemente, bisogna reimputare
di tutti i residui attivi e passivi, al fine di
trasformarli, rispettivamente, in accertamenti ed impegni in
linea con i principi della nuova contabilità; si tratta di
un lavoro immane che impegnerà i funzionari della
Ragioneria, e non solo, ad un tour de force senza
precedenti, sia per il numero elevato dei residui (diverse
migliaia anche nei comuni di minori dimensioni), sia per la
complessità di alcune fattispecie (ad esempio, le opere
pubbliche). Eventuali reimputazioni sommarie comporteranno
inevitabilmente un numero elevato di variazioni di bilancio
nell'immediato futuro con ulteriori significative
problematiche. Un secondo punto critico riguarda la
determinazione del «fondo pluriennale vincolato» che
costituisce uno degli aspetti più difficili e ancora
controversi della nuova contabilità, come indicato nella
relazione alla camera del ministro dell'economia
(tratto da ItaliaOggi del 15.08.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Ritardi della «Pa», 30 euro al giorno.
Tetto massimo a 2.000 euro - Interessate le pratiche avviate
dalle imprese a istanza di parte.
Giustizia. Con la versione finale
del decreto legge del fare debutta il nuovo indennizzo per
il mancato rispetto dei termini nei procedimenti. Debutta l'indennizzo da far valere per i ritardi della
pubblica amministrazione. Almeno per quelli che riguardano
avvio ed esercizio dell'attività d'impresa. Con la
pubblicazione in «Gazzetta» delle norme del decreto del
fare, convertite in legge dal Parlamento, scatterà la
possibilità, per i procedimenti iniziati successivamente a
quella data e protrattisi oltre i termini, di ottenere un
risarcimento. La norma introduce il diritto per
l'interessato di chiedere un indennizzo per il semplice
ritardo della pubblica amministrazione, nella conclusione
dei procedimenti amministrativi iniziati a istanza di parte. Si tratta di una fattispecie diversa dal risarcimento del
danno (ingiusto) da ritardo (per inosservanza dolosa o
colposa del termine di conclusione del procedimento), che è
stato introdotto dalla legge n. 69 del 2009, aggiungendo un
articolo 2-bis nella legge n. 241 del 1990. Analogo è però
l'obiettivo: istituire e rafforzare un elemento di
deterrenza perché le amministrazioni rispettino i termini di
conclusione dei procedimenti. Va però sottolineato come l'indennizzo introdotto può essere
applicato solo per i procedimenti avviati a istanza di parte
e non anche per quelli d'ufficio. Inoltre, anche per quelli
a istanza di parte, è prevista l'esclusione dei concorsi
pubblici e delle ipotesi di silenzio qualificato. La misura
dell'indennizzo è determinata in 30 euro per ogni giorno di
ritardo rispetto alla data di scadenza del termine
procedimentale. Fissato, però, anche un tetto massimo, in
base al quale l'indennizzo non può essere superiore in ogni
caso a 2.000 euro. Per ottenere l'indennizzo, va attivato, entro 20 giorni
dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento,
a pena di decadenza, il potere sostitutivo attribuito in
ogni amministrazione a una figura che interviene in caso di
inerzia (per ciascun procedimento, sul sito internet
istituzionale dell'amministrazione è pubblicata, in formato
tabellare e con collegamento ben visibile nella homepage,
l'indicazione del soggetto a cui è attribuito il potere
sostitutivo, cui l'interessato può rivolgersi). Il titolare
del potere sostitutivo è poi chiamato a intervenire per
concludere il procedimento nella metà del termine
inizialmente previsto oppure per liquidare l'indennizzo. In caso di mancata risposta su entrambi questi fronti, può
essere proposto ricorso al giudice amministrativo sulla base
dell'articolo 117 del Codice del processo amministrativo,
che disciplina il rito contro il silenzio della pubblica
amministrazione o sulla base dell'articolo 118 di quel
Codice, se ne ricorrano i presupposti. Quest'ultimo è il
ricorso per decreto ingiuntivo, ammesso nelle controversie
affidate alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo che hanno per oggetto diritti soggettivi di
natura patrimoniale. Se il giudice dichiara inammissibile il ricorso oppure lo
rigetta per manifesta infondatezza dell'istanza, condanna il
ricorrente a pagare una somma da due a quattro volte
superiore il contributo unificato a favore
dell'amministrazione. ----------------
I PUNTI CRITICI/
Ma gli importi sono troppo esigui. I PRECEDENTI/
Solo l'ultimo di una serie di interventi indirizzati a fare
da deterrente contro le inerzie del settore pubblico. L'incertezza sui tempi delle decisioni amministrative è uno
dei punti più dolenti nei rapporti tra cittadini (o imprese)
e pubbliche amministrazioni. In teoria, da oltre vent'anni, con la legge sulla
trasparenza amministrativa n. 241/1990, i termini per la
conclusione di tutti i tipi di procedimenti amministrativi
sono stabiliti in modo preciso, cercando anche di evitare
che essi siano troppo lunghi, a vantaggio dei cittadini. In pratica, molto spesso le amministrazioni non sono in
grado di rispettarli e non sanno neppure prevedere con
precisione quando la decisione finale verrà assunta. Tutto
ciò impedisce la programmazione delle attività di coloro che
per esempio chiedono un'autorizzazione necessaria per
avviare un'attività imprenditoriale. In questi ultimi anni il legislatore è intervenuto più volte
per porre rimedio a questa situazione. Da ultimo il decreto
del fare (n. 69/2013) prevede un indennizzo automatico di
trenta euro per ogni giorno di ritardo fino a un massimo di
duemila euro. Questa sorta di incentivo-sanzione si aggiunge ad altri
strumenti per costringere l'amministrazione al rispetto dei
tempi: intervento sostitutivo del superiore gerarchico
sollecitato dall'interessato; responsabilità disciplinare
del funzionario negligente; responsabilità penale per il
reato di rifiuto od omissione di atti d'ufficio (articolo
428 codice penale); ricorso al giudice amministrativo contro
il cosiddetto "silenzio" della pubblica amministrazione al
fine di ottenere il provvedimento richiesto anche attraverso
la nomina da parte del giudice di un commissario "ad acta";
risarcimento per il danno da ritardo; monitoraggio costante
da parte del responsabile della prevenzione della corruzione
istituito dalla recente legge anticorruzione (la n.
190/2012). L'indennizzo automatico introdotto dal decreto del fare
(all'articolo 28), che si ispira a una proposta avanzata già
negli anni Novanta del secolo scorso (legge 59/1997), ha un
campo di applicazione molto ristretto. Vale infatti solo per i procedimenti che riguardano le
imprese e tra diciotto mesi si stabilirà se confermarlo,
rimodularlo o abbandonarlo. Il nuovo rimedio ha dunque un
carattere sperimentale, la cui efficacia andrà verificata
nel corso del tempo. Inoltre, il diritto all'indennizzo sorge solo se
l'interessato ha richiesto al superiore gerarchico entro un
termine perentorio di venti giorni un intervento sostitutivo
e se anche il superiore gerarchico non esercita
tempestivamente il potere sostitutivo. L'indennizzo non è
dunque automatico. Infine il decreto del fare prevede alcune regole processuali
particolari in caso di omessa liquidazione dell'indennizzo,
incluso l'invio della sentenza di condanna alla Corte dei
conti ai fini dell'accertamento del danno erariale. È presto
per formulare previsioni sull'impatto del nuovo istituto.
L'impressione è che, data anche l'esiguità dell'importo,
neppure l'indennizzo potrà fungere da pungolo efficace per
sbloccare le inerzie del settore pubblico. ----------------
Le esclusioni. Non rientrano il silenzio qualificato e i
concorsi pubblici. Sperimentazione di 18 mesi riservata alle aziende.
LE CONDIZIONI/
In una prima fase la procedura è accessibile solo a chi ha
necessità di un provvedimento per un'attività produttiva. L'indennizzo previsto dal decreto del fare, appena
convertito in legge, ammette la corresponsione di importi
che spettano indipendentemente dalla verifica della colpa
del soggetto inadempiente e senza riferimento al danno
effettivamente causato dal ritardo. Ciò significa che la
norma sull'indennizzo si affianca a quella in tema di
risarcimento, rendendo più agevole la percezione di una
somma forfettaria, se ciò basta al cittadino. Se invece il soggetto che ha subito il ritardo non si
accontenta, può procedere chiedendo il risarcimento del
danno. La differenza di fondo tra indennizzo e risarcimento
consiste, oltre che nell'entità economica (per l'indennizzo,
forfettaria; per il risarcimento, pari al danno causato)
nell'onere della prova. Mentre per l'indennizzo non occorre
dimostrare nulla, per il risarcimento occorre provare (oltre
all'entità del danno) anche la imputabilità' del danno
all'amministrazione (cioè la negligenza, la trascuratezza). Con questa premessa si comprende come la norma scandisce un
procedimento, in cui al gradino iniziale del ritardo (per lo
più dopo 30 giorni dall'istanza) segue un gradino successivo
(con tempi dimezzati, cioè per lo più 15 giorni) ed una
successiva fase contenziosa davanti al giudice
amministrativo. Il tutto per ottenere 30 euro per ogni
giorno di ritardo fino a un massimo di 2.000 euro. La
procedura si avvia se c'è inosservanza di un termine di
conclusione del procedimento amministrativo iniziato ad
istanza di parte, per il quale sussiste l'obbligo di
pronunziarsi. Se non vi e' una posizione tutelata, ma solo
un interesse di fatto, non vi è speranza di indennizzo
perché non vi e' un dovere di rispondere a carico della
pubblica amministrazione. Non c'è possibilità di indennizzo, inoltre, quando il tempo
trascorso ha comunque un significato, cioè esprime un
consenso (ad esempio in caso di interventi edilizi con Scia
o Dia), o un dissenso (ad interventi in zona vincolata sotto
l'aspetto paesaggistico). Con una previsione specifica, la
norma esclude un indennizzo automatico per le procedure di
concorso che subiscano ritardi, poiché si prende atto della
difficoltà di concludere nei tempi previsti attività che
coinvolgono una pluralità di concorrenti ed esaminatori. Per ottenere l'indennizzo occorre che, entro e non oltre 20
giorni dalla scadenza del termine posto all'amministrazione
per provvedere (termine che si legge nel provvedimento
stesso, e che in genere è di 30 giorni), l'interessato
presenti un'istanza al soggetto titolare del potere
sostitutivo (in genere, il dirigente di vertice). Se anche
questi non provvede nel termine ulteriore pari alla metà del
tempo previsto per il soggetto inizialmente inadempiente
(cioè entro 15 dei 30 giorni di norma previsti), emanando il
provvedimento o negandolo motivatamente, e non liquida
l'indennizzo maturato dal 31° girono, l'interessato si può
rivolgere al Tar. Il giudice amministrativo procede con rito abbreviato e, se
l'interessato lo chiede, si pronuncia sia sull'indennizzo
che sul fondamento della pretesa che non ha avuto risposta.
Questa procedura si applicherà alle sole imprese (cioè non
ai privati cittadini, ma solo a chi ha necessità di un
provvedimento per un'attività produttiva) e dopo 18 mesi
sarà rivisto per un'eventuale applicazione più generale. Il
meccanismo sarà facilitato da una serie di chiarimenti che
dovranno essere letti nei siti delle pubbliche
amministrazioni dove saranno indicati i tempi di maturazione
del silenzio e i soggetti titolari del potere sostitutivo (tratto da Il Sole 24 Ore del
15.08.2013). |
ENTI
LOCALI - VARI: DECRETO
DEL FARE/
Multe scontate ma non sempre. Esclusi eccesso di velocità e violazioni autostradali.
Dall'Interno le prime indicazioni
sulla riduzione del 30%. Multe con lo sconto del 30% ma non per tutti. La riduzione
non si applica alle infrazioni per cui non è ammesso il
pagamento in misura ridotta (come, per esempio, non seguire
le indicazioni del vigile o non fermarsi al posto di
controllo), alle violazioni per cui è prevista la sanzione
accessoria della confisca del veicolo o della sospensione
della patente di guida (per esempio, eccesso di velocità
oltre i 40 chilometri all'ora, sorpasso in curva, violazioni
autostradali comuni come circolare in corsia d'emergenza) e
infine per le violazioni stradali non incluse nel codice
della strada, ma previste dalla legislazione complementare.
Sono queste alcune delle prime indicazioni fornite dal
Ministero dell'Interno con la
circolare
12.08.2013 n. 6333 di prot. in relazione alle novità previste per l'art. 202
del codice della strada previste dalla legge di conversione
del dl 69/2013 (decreto del fare), di cui si attende la
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (si veda ItaliaOggi
di ieri). Dal momento dell'entrata in vigore della legge di
conversione del decreto legge del fare n. 69/2013 sui
verbali di contestazione delle violazioni stradali dovrà
dunque essere indicata la possibilità di pagare entro cinque
giorni dalla contestazione o notificazione con la riduzione
del 30%. Entro quattro mesi un decreto interministeriale
dovrà regolamentare la notificazione delle multe tramite
posta elettronica certificata, senza più l'addebito delle
spese al destinatario. Dal giorno successivo alla
pubblicazione, la somma da pagare per le violazioni sarà
ridotta del 30% se il pagamento sarà effettuato entro cinque
giorni dalla contestazione o dalla notificazione. La
circolare ministeriale precisa che la riduzione si applica
anche in caso di infrazioni commesse di notte (fra le 22 e
le 7), in caso di riattivazione della copertura assicurativa
nei tempi indicati dall'art. 193, comma 3, Cds, e nelle
ipotesi di specifiche violazioni commesse dagli
autotrasportatori, elencate dall'art. 202, comma 2-bis. Il
ministero dell'interno precisa che il pagamento con la
riduzione del 30% spetterà anche nel caso in cui, alla data
di entrata in vigore della legge di conversione, non siano
trascorsi ancora cinque giorni dalla data di notificazione o
contestazione, senza che per questo sia necessaria una
rinotifica da parte dell'organo accertatore. Aggiungendo un
nuovo comma all'art. 142 del codice della strada, la legge
di conversione dispone che se l'agente accertatore è munito
di idonea apparecchiatura il trasgressore conducente potrà
effettuare immediatamente, nelle mani dello stesso agente,
il pagamento mediante strumenti di pagamento elettronico.
Questa facoltà è concessa anche agli autotrasportatori che
commettono alcune violazioni, specificamente elencate dal
comma 2-bis dell'art. 202 Cds, con un'ulteriore novità: se
il conducente non intende pagare, dovrà versare una cauzione
pari non più alla metà del massimo edittale, ma al minimo.
Entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della
legge di conversione il ministro dell'interno, di concerto
con i ministri della giustizia, delle infrastrutture e dei
trasporti, dell'economia e delle finanze e per la pubblica
amministrazione e la semplificazione, dovrà disciplinare,
senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, le
procedure per la notificazione delle multe stradali tramite
posta elettronica certificata nei confronti dei soggetti
abilitati all'utilizzo della Pec, senza addebito delle spese
di notificazione
(tratto da ItaliaOggi del
14.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: DECRETO
DEL FARE/
Ristrutturazioni, meno vincoli.
Demolizioni seguite da ricostruzione: sagoma esclusa.
Via libera alla deburocratizzazione dei
pareri per la Scia. L'esclusione della sagoma, quale vincolo per considerare
ristrutturazione le demolizioni seguite da ricostruzione; la
sburocratizzazione dei pareri necessari per la Scia; la
proroga dei termini di inizio e fine lavori; le agibilità
parziali; il silenzio rigetto per i permessi di costruire in
aree vincolate.
Queste alcune delle novità in materia di edilizia apportate
dal pacchetto di semplificazioni contenuto nel decreto del
Fare (69/2013). Vincoli ambientali. Si passa dal silenzio-rifiuto al
silenzio-rigetto, immediatamente impugnabile. Secondo il
Testo unico per l'edilizia (dpr 380/2001), nel caso in cui
manchi un atto di assenso per vincolo ambientale,
paesaggistico e culturale, si viene a formare il silenzio
rifiuto. Il decreto legge modifica il procedimento in caso
di immobili vincolati nel seguente modo. Se l'assenso
dell'autorità preposta al vincolo è favorevole, il comune
sarà tenuto a concludere il procedimento di rilascio del
permesso di costruire con un provvedimento espresso e
motivato. Se, invece, l'atto di assenso viene negato,
decorso il termine per il rilascio del permesso di
costruire, questo si intenderà respinto. L'atto è
immediatamente impugnabile. Pareri. Allo sportello unico per l'edilizia va il compito di
acquisire i pareri anche prima della presentazione della
Scia. Il testo unico edilizia non disciplina l'acquisizione,
da parte dello Sportello unico per l'edilizia (Sue), degli
atti di assenso presupposti all'inizio dei lavori nel caso
in cui l'intervento edilizio sia soggetto alla presentazione
della comunicazione di inizio lavori di attività edilizia
libera o della Scia edilizia. Il decreto estende la
disciplina prevista oggi solo per il permesso di costruire.
Il provvedimento, infatti, dispone che l'interessato possa,
prima di presentare la comunicazione o la Scia, richiedere
allo sportello unico l'acquisizione di tutti gli atti di
assenso necessari per l'intervento edilizio. Lo sportello si
deve attivare, come nel caso di richiesta di permesso di
costruire: se non sono rilasciati gli atti di assenso delle
altre amministrazioni pubbliche, o è intervenuto il dissenso
di una o più amministrazioni interpellate, il responsabile
dello sportello unico indice la conferenza di servizi per
acquisirli. Se poi l'istanza di acquisizione di tutti gli
atti di assenso è contestuale alla segnalazione certificata
di inizio attività, l'interessato potrà dare inizio ai
lavori solo dopo la comunicazione da parte dello sportello
unico dell'avvenuta acquisizione degli atti di assenso o
dell'esito positivo della conferenza di servizi. Le novità
si applicano anche alla comunicazione dell'inizio dei lavori
per l'attività edilizia libera, qualora siano necessari atti
di assenso per la realizzazione dell'intervento edilizio.
Edilizia libera. Una dichiarazione in meno per la
comunicazione di inizio lavori. Il Testo unico per
l'edilizia prevede per l'attività edilizia libera l'invio di
una comunicazione dell'inizio dei lavori, a cui deve essere
allegata una relazione asseverata firmata da un tecnico
abilitato, che dichiari di non avere rapporti di dipendenza
con l'impresa né con il committente. Il decreto dispone di
eliminare tale dichiarazione da parte del tecnico abilitato.
Agibilità parziale. Il decreto modifica la disciplina del
certificato di agibilità, consentendone la richiesta anche
per singoli edifici o singole porzioni di uno stesso
stabile. Questo a condizione che le unità siano
funzionalmente autonomi, qualora siano state realizzate e
collaudate le opere di urbanizzazione primaria relative
all'intero intervento edilizio e siano state completate e
collaudate le parti strutturali connesse, nonché collaudati
e certificati gli impianti relativi alle parti comuni.
L'agibilità parziale potrà essere richiesta anche per
singole unità immobiliari, purché siano completate e
collaudate le opere strutturali connesse, siano certificati
gli impianti e siano completate le parti comuni e le opere
di urbanizzazione primaria dichiarate funzionali rispetto
all'edificio oggetto di agibilità parziale.
Decorrenza.
Le nuove disposizioni si applicano dalla data di entrata in
vigore della legge di conversione del decreto
(tratto da ItaliaOggi del
14.08.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'intervento/ L'intesa stato-regioni sull'applicazione della
legge 190 crea molta confusione nelle p.a..
Anticorruzione, consigli fuorvianti per gli enti locali. Anticorruzione, l'intesa stato-regioni ed enti locali
sull'applicazione delle norme previste dalla legge 190 crea
più confusione, di quanto contribuisca a chiarire la portata
delle norme per regioni ed enti locali. Individuazione dei responsabili.
L'intesa 24.07.2013 ricorda che presso
ogni ente deve esservi un solo responsabile anticorruzione e
un solo responsabile della trasparenza. Solo presso le
regioni le figure possono essere sdoppiabili, in quanto i
consigli regionali hanno una spiccata autonomia rispetto
alle giunte e agli altri uffici regionali. Nulla vieta,
comunque, di istituire «referenti» nelle amministrazioni
complesse. L'intesa invita le amministrazioni a «designare i due
responsabili e di comunicare la nomina» alla Civit.
L'indicazione è errata e crea confusione, almeno per quanto
riguarda gli enti locali, ove responsabile anticorruzione,
ai sensi dell'articolo 1, comma 7, della legge 190/2012 è il
segretario comunale, il quale, di regola, sarà anche
responsabile della trasparenza, per effetto dell'articolo 43
del dlgs 33/2013. La «designazione» occorre solo laddove con provvedimento
espresso e motivato le amministrazioni ritenessero di
assegnare le funzioni dei due responsabili ad altri
soggetti. Incompatibilità con funzioni di staff ad organi politici.
Un'altra indicazione foriera di problemi è il recepimento
delle disposizioni contenute nella circolare della funzione
pubblica 1/2013, ai sensi della quale si ritiene che non sia
possibile attribuire gli incarichi di responsabile della
prevenzione della corruzione e della trasparenza a dirigenti
o funzionari che svolgano funzioni di diretta collaborazione
con gli organi di indirizzo politico. Quell'indicazione, però, può valere solo per le
amministrazioni statali o regionali. Nei comuni e nelle
province, come visto sopra, inevitabilmente le figure di
responsabile sono attribuite ex lege al segretario comunale,
che indiscutibilmente opera come figura di diretta
collaborazione degli organi di governo. Pertanto,
l'indicazione dell'intesa, per i segretari comunali, è
semplicemente da ritenere come non sussistente. L'intesa
aggiunge che solo nei piccoli comuni e «in via eccezionale»
il segretario comunale che risulti incaricato anche di
presiedere l'ufficio per i procedimenti disciplinari può
anche svolgere la funzione di responsabile anticorruzione.
Ma si travisano le disposizioni normative: il segretario è
per legge responsabile, dunque l'incompatibilità con le
funzioni dell'ufficio dei procedimenti disciplinari per
comuni e province semplicemente non può operare.
Rotazione di dirigenti e funzionari. L'intesa invita gli
enti ad assicurare la rotazione di dirigenti e funzionari
addetti alle aree considerate a maggiore rischio di
corruzione. Il testo dell'accordo, tuttavia, spinge gli enti
ad adottare criteri generali per la rotazione, «previa
informativa sindacale». Ciò contrasta con l'articolo 41,
comma 2, del dlgs 165/2001 che esclude dalla contrattazione
«la materia del conferimento e della revoca degli incarichi
dirigenziali». Di conseguenza, essa è sottratta anche a
qualsiasi relazione sindacale «preventiva». L'informazione
potrebbe essere, semmai, solo successiva. Aggiunge, ancora, l'intesa che la rotazione può avvenire
solo al termine dell'incarico dirigenziale «la cui durata
deve essere comunque contenuta». Anche in questo caso si vìola l'articolo 19, comma 2, del dlgs 165/2001, ai sensi
del quale gli incarichi dirigenziali non possono avere
durata inferiore ai tre anni. Ancora, sugli incarichi a rotazione, l'intesa invita a
prediligere l'affiancamento e l'utilizzo di professionalità
interne: come se fosse possibile, per la rotazione,
utilizzare soggetti esterni. Infine, specie per i piccoli enti, l'intesa crea l'istituto
della «mobilità temporanea», come metodo per assicurare
rotazione, specie tra enti convenzionati. In effetti, non si
tratta di altro se non di «comando o distacco».
Scadenze. Più utili le previsioni dell'intesa sulle
scadenze. Il dlgs 33/2013 è considerato operante sin dalla
sua vigenza, salvo per le diverse scadenze espressamente
previste. I piani anticorruzione e per la trasparenza dovranno essere
adottati entro il 31.01.2014. Laddove però la Civit non
adotti il piano nazionale anticorruzione entro il 30
settembre, i termini potrebbero slittare. In quanto al
codice di comportamento, gli enti debbono adottare quello
«personalizzato» entro 180 giorni dalla vigenza del dpr
62/2013, cioè entro il 16.12.2013. Entro 180 giorni
dall'intesa, sono da individuare gli incarichi vietati ai
dipendenti
(tratto da ItaliaOggi del
14.08.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Disabili, parità sul lavoro. Barriere da eliminare per garantire la piena uguaglianza.
Il nuovo obbligo per tutti i datori,
pubblici e privati, introdotto in fase di conversione del dl
76. Luoghi di lavoro a misura di handicap. I datori di lavoro,
pubblici e privati, infatti sono obbligati a adottare
«accomodamenti ragionevoli» nei luoghi di lavoro per
garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza
con gli altri lavoratori.
Lo stabilisce il nuovo comma 4-ter
introdotto dal senato all'art. 9 del decreto lavoro (n.
76/2013) in sede di conversione. Non osservare il nuovo
obbligo comporterà la condanna ad agire da parte del giudice
a cui potranno rivolgersi, oltreché l'interessato
(lavoratore con disabilità), i sindacati. La nuova misura
mira a risolvere la procedura di contenzioso attivata lo
scorso 4 luglio dalla Corte Ue, condannando l'Italia per non
aver recepito correttamente e completamente la direttiva n.
2000/78/Ce. Due le misure a favore dell'occupazione dei disabili che. La
prima misura in particolare (comma 4-bis all'art. 9)
incrementa la dotazione del fondo per il diritto al lavoro
dei disabili di 10 mln di euro per l'anno 2013 e di 20 mln
di euro per l'anno 2014. Il fondo, ai sensi della legge n.
68/1999 (diritto del lavoro dei disabili), è già finanziato
con la spesa di 42 mln di euro dal 2008, annualmente
ripartito fra regioni e province autonome proporzionalmente
alle loro richieste Le nuove risorse sono rinvenute dalla
riduzione dell'autorizzazione di spesa per il fondo per
l'occupazione (art. 1, comma 7, del dl n. 148/1993),
confluita nel fondo sociale per l'occupazione e la
formazione, per 16,7 mln di euro per il 2013 e per 33,3 mln
di euro per il 2014. La vera novità è però anche un'altra, quella del comma 4-ter
dell'art. 9 del dl n. 76/2013. Aggiungendo il comma 3-bis
all'art. 3 del dlgs n. 216/2003, la nuova norma prescrive a
carico di tutti i datori di lavoro, pubblici e privati,
l'adozione di accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro
al fine di garantire il rispetto del principio della parità
di trattamento delle persone con disabilità, ossia al fine
di assicurare alle persone disabili la piena eguaglianza con
gli altri lavoratori. Per accomodamenti ragionevoli, ai
sensi della convenzione delle Nazioni unite sui diritti
delle persone con disabilità ratificata in Italia dalla
legge n. 18/2009, si intendono «le modifiche adottate per
garantire alle persone con disabilità il godimento e
l'esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali
sulla base dell'eguaglianza con gli altri». Con riferimento
ai datori di lavori pubblici il nuovo obbligo non dovrà
comportare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Come detto il nuovo obbligo è inserito all'interno del dlgs
n. 216/2003, il quale ha recepito la direttiva 2000/78/Ce
che stabilisce un quadro generale per la parità di
trattamento in materia di occupazione e di condizioni di
lavoro. Tale decreto, attenendosi alla direttiva, stabilisce
un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate
su religione, convinzioni personali, handicap, età o sesso
per l'occupazione e le condizioni di lavoro, fornendo la
definizione di discriminazione diretta e indiretta e
prevedendo l'accesso a idonee procedure giurisdizionali al
fine di tutelare i diritti e porre rimedio alle
discriminazioni
(tratto da ItaliaOggi del
14.08.2013). |
ENTI
LOCALI - VARI: DECRETO
DEL FARE/
Multe scontate, calcoli fai-da-te.
In caso di errori la differenza può essere molto salata.
Se il vigile ha il bancomat, la sanzione si può
pagare in strada.
Multe scontate fai-da-te. Ma con il rischio di incappare in
errori e dunque dover restituire la differenza.
Grazie al
decreto del Fare 69/2013) convertito in legge la settimana
scorsa e in attesa della pubblicazione in G.U. (entro il 19
agosto), arriva lo sconto del 30% per chi paga entro cinque
giorni dal momento di conoscenza formale della multa. Grazie
a questo benefit, che riguarderà anche i preavvisi di sosta
e tutti i verbali contestati e notificati, il classico
divieto di sosta, ad esempio, scenderà da 41 a poco meno di
29 euro e chi verrà pizzicato senza cintura risparmierà
addirittura 24 euro (56 contro il 80 in caso di importo
pieno). Tornerà anche la possibilità di saldare subito il verbale in
strada all'agente munito di dispositivo per il pagamento
elettronico, e inoltre le multe arriveranno via Posta
elettronica certificata (Pec). Attenzione però alle spese di
notifica e di accertamento. Lo sconto non riguarderà mai
questi importi ma solo il valore della sanzione
amministrativa pecuniaria vera e propria. In caso di errore
nel calcolo nello sconto il rischio concreto, minimo, è
quello di vedersi richiedere la differenza salata con tanto
di interessi. Se non quello di vedersi recapitare a distanza
di tempo una cartella esattoriale con una cifra esorbitante
pari al doppio della multa con spese e interessi al netto
dell'anticipo versato come acconto. Via libera alla
possibilità di conciliare anche in strada. Con l'imminente
dotazione alle pattuglie degli strumenti di pagamento
elettronico sarà possibile pagare come una volta la multa al
vigile o al carabiniere. E questa possibilità sarà di
carattere generale ovvero sarà ammessa anche nel caso di
violazioni gravi che pur ammettendo il pagamento in misura
ridotta non potranno accedere allo sconto del 30%. È il caso per esempio del sorpasso in curva punito dall'art.
148 Cds con la sanzione di 162 euro, 10 punti di
decurtazione e sospensione della patente. In tutti i casi
infatti in cui è prevista la confisca del veicolo e la
sospensione della patente di guida lo sconto non troverà
applicazione. Buone notizie anche sul fronte delle notifiche
stradali. Con un decreto interministeriale da adottarsi entro quattro
mesi dovrà essere disciplinata compiutamente anche questa
procedura per permettere il superamento della tradizionale
notificazione cartacea ai soggetti abilitati, con esclusione
delle spese di notifica. In pratica a breve le multe
viaggeranno via posta elettronica certificata almeno nei
riguardi dei soggetti già tenuti per legge a munirsi di una
casella ad hoc. Diversamente per i normali cittadini l'avvento della Pec
sarà graduale e probabilmente lasciato alla discrezionalità
degli interessati. Chi deciderà di attivarla ufficialmente
sarà agevolato nei costi di spedizione postale delle multe
(tratto da ItaliaOggi del
13.08.2013). |
APPALTI: Database contratti pubblici, il governo ci riprova. Banca dati dei contratti pubblici, si riprova. La legge di
conversione del «decreto del Fare» ha introdotto un nuovo
articolo, 49-ter, che cerca di rilanciare un'idea di
semplificazione estremamente utile per accorciare le
procedure contrattuali: facilitare la verifica del possesso,
da parte delle ditte aggiudicatarie, dei requisiti necessari
per la stipulazione dei contratti, previsti dagli articoli
38, 41 e 42, del dlgs 163/2006. L'idea è semplice: invece di chiedere, ad esempio, ai
tribunali la sussistenza di cause di fallimento, invece che
alle province il rispetto della normativa per l'assunzione
dei disabili, che, in assenza della connessione tra le
banche dati pubbliche, sempre evocata ma mai realizzata, si
consente alle amministrazioni di accedere ad un'unica banca
dati. L'articolo 49-ter, a questo scopo, dispone che «per i
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture
sottoscritti dalle pubbliche amministrazioni a partire da
tre mesi successivi alla data di entrata in vigore della
legge di conversione del presente decreto, la documentazione
comprovante il possesso dei requisiti di carattere generale,
tecnico-organizzativo ed economico-finanziario è acquisita
esclusivamente attraverso la banca dati di cui all'articolo
6-bis del codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006,
n. 163». In effetti, ai sensi del citato articolo 6-bis, l'Autorità
di vigilanza per i contratti pubblici deve stabilire con
propria deliberazione i dati concernenti la partecipazione
alle gare e la valutazione delle offerte in relazione che
debbono essere inseriti nella banca dati, ma, soprattutto i
termini e le regole tecniche per l'acquisizione,
l'aggiornamento e la consultazione dei predetti dati
contenuti nella Banca dati. Ciò consentirà alle stazioni
appaltanti e agli enti aggiudicatori di verificare il
possesso dei requisiti appunto esclusivamente tramite la
banca dati nazionale dei contratti pubblici. Unico neo
dell'impianto normativo rivitalizzato dal governo Letta è la
circostanza che la banca dati, ai sensi del comma 1
dell'articolo 6-bis del codice dei contratti avrebbe dovuto
entrare in funzione già dal 01.01.2013. E c'era stato quasi un anno di tempo per organizzare tutto:
l'impianto informatico e le delibere dell'Authority, visto
che l'articolo 6-bis era stato introdotto dall'articolo 20,
comma 1, lettera a), della legge 35/2012, entrata in vigore
nell'aprile dello scorso anno. Se oltre un anno non è stato
sufficiente per attivare uno strumento di semplificazione
vera e non solo teorica, i tre mesi previsti dal «decreto
del Fare» non lasciano oggettivamente ben sperare
(tratto da ItaliaOggi del
13.08.2013). |
ENTI LOCALI - VARI: Mediazione, che sia obbligatoria o facoltativa l'avvocato
non è optional.
Ci vuole l'avvocato per la mediazione obbligatoria. E anche
per quella facoltativa. Il decreto del fare ha riscritto il decreto legislativo
28/2010 sulla media-conciliazione, ripristinando, con alcune
novità, il testo cancellato dalla Corte costituzionale per
eccesso di delega (sentenza n. 272/2012). In particolare è
stata ripristinata la mediazione obbligatoria e cioè quella
che è necessario tentare altrimenti non è possibile andare
avanti con una causa in tribunale. È l'articolo 5 del
decreto 28/2010 a occuparsi della materia e a specificare
che deve passare prima dal mediatore chi intende esercitare
in giudizio un'azione relativa a una controversia in materia
di condominio, diritti reali, divisione, successioni
ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto
di aziende, risarcimento del danno derivante da
responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il
mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità,
contratti assicurativi, bancari e finanziari. Una prima novità è rappresentata dal fatto che nell'elenco
delle materie si inserisce la responsabilità sanitaria (e
quindi di tutte le professioni sanitarie, non solo quella
del medico) e si elimina la responsabilità per sinistri di
veicoli e natanti. Altra novità è quella che specifica che nel procedimento di
mediazione obbligatoria la parte deve essere assistita
dall'avvocato. Così si lascerebbe intendere che nella
mediazione relativa ad altre materie la presenza
dell'avvocato non sia necessaria. Tuttavia il decreto legge
del fare ha anche inserito altre regole relative alla
presenza del legale di fiducia anche nelle conciliazioni per
materie non obbligatorie. All'articolo 8, comma 1, primo periodo, del decreto
legislativo 28/2010 si prescrive che al primo incontro e
agli incontri successivi, fino al termine della procedura,
le parti devono partecipare con l'assistenza dell'avvocato.
Inoltre, durante il primo incontro il mediatore chiarisce
alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della
mediazione e invita poi le parti e i loro avvocati a
esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di
mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento.
Questo articolo, che riguarda tutti i tipi di mediazione
(obbligatoria e non obbligatoria) fa riferimento alla
presenza e al ruolo dell'avvocato, tenuto a dare una sua
risposta in merito alla proficuità del tentativo di
conciliazione. Ancora il riformulato articolo 12 del dlgs 28/2010 prevede
che se tutte le parti aderenti alla mediazione siano
assistite da un avvocato, l'accordo che sia stato
sottoscritto dalle parti e dagli stessi avvocati costituisce
titolo esecutivo per l'espropriazione forzata, l'esecuzione
per consegna e rilascio, l'esecuzione degli obblighi di fare
e non fare, nonché per l'iscrizione di ipoteca giudiziale.
Gli avvocati devono attestare e certificare la conformità
dell'accordo alle norme imperative e all'ordine pubblico. In
tutti gli altri casi l'accordo allegato al verbale è
omologato, su istanza di parte, con decreto del presidente
del tribunale, previo accertamento della regolarità formale
e del rispetto delle norme imperative e dell'ordine
pubblico. Questa norma sembra fare riferimento a casi in cui
l'avvocato è presente in mediazione da casi in cui, invece,
è assente. Peraltro la presenza dell'avocato implica un
grosso vantaggio: per passare all'esecuzione del verbale di
accordo non bisogna passare in tribunale per l'omologazione.
Quindi la norma incentiva fortemente la presenza dei legali
di fiducia delle parti. Riprendendo, d'altra parte, quanto affermato nei dossier
parlamentari illustrativi del contenuto del decreto, si
trova scritto che «in merito, in virtù di modifiche
approvate nel corso dell'esame in prima lettura, nel testo
del decreto-legge all'esame del senato risulta esplicitato
in più disposizioni del decreto legislativo come il
procedimento di mediazione richieda la partecipazione degli
avvocati». Se questa interpretazione è corretta (obbligatorio
l'avvocato anche per le mediazioni non obbligatorie)
verrebbe da chiedersi quali siano i residui casi in cui il
verbale sia da omologare in tribunale
(tratto da ItaliaOggi del
13.08.2013). |
INCARICHI PROFESSIONALI - PROGETTUALI:
Dal disciplinare alle società. La riforma resta ferma al palo.
Ricognizione ItaliaOggi Sette a un anno dal dpr: per i
professionisti è cambiato poco.
La riforma delle professioni compie un anno. Ma è ancora
sulla carta. Nella pratica, infatti, per ordini e
professionisti è cambiato ben poco, se non nulla: le società
tra professionisti si contano col lumicino, per le troppe
incognite sui trattamenti fiscali e previdenziali. Così come
i consigli di disciplina, non ancora partiti, soprattutto a
livello territoriale, per la difficoltà, in particolare per
le categorie tecniche, di trovare professionisti disponibili
a candidarsi. L'assicurazione obbligatoria, che entrerà in
vigore il 15 agosto, può rivelarsi un boomerang per gli
iscritti agli albi, dato che le compagnie, per le quali non
è previsto alcun obbligo di legge, possono farla da padrone
e proporre contratti anche molto onerosi o addirittura
rifiutarsi di sobbarcarsi il rischio. Insomma, a un anno
dalla sua approvazione, il dpr Severino (n. 137/2012) rimane
un cantiere ancora aperto.
È quanto emerge dalla
ricognizione di ItaliaOggi Sette, che ha passato in rassegna
i singoli ordini professionali per verificare lo stato di
attuazione della riforma. Dal canto loro, i Consigli
nazionali hanno cercato di non farsi trovare impreparati
all'appuntamento previsto dal dpr, che ha fornito loro,
appunto, 12 mesi per adeguarsi alle nuove regole. Ma
entriamo nel dettaglio. Sistema disciplinare. L'esempio più eclatante è il
regolamento sul sistema disciplinare che le professioni
hanno dovuto approvare entro 90 giorni dall'entrata in
vigore della riforma (15.11.2012). A partire dal via
libera ministeriale di quel regolamento, poi, ogni ordine
territoriale avrebbe dovuto inviare al tribunale competente
un elenco dei componenti del consiglio di disciplina. Questo
dovrà essere composto da una quantità di nominativi pari al
doppio del numero dei consiglieri che il presidente del
tribunale è chiamato a designare. A partire da quella rosa
il presidente del tribunale dove ha sede il consiglio
nominerà i consiglieri del Consiglio di disciplina
territoriale. Ed è stato proprio questo il punto più
controverso che ha rallentato fino ad ora la creazione del
nuovo sistema, la difficoltà di trovare (e poi di pagare)
una rosa di professionisti disponibili allo svolgimento del
compito richiesto. Di fatto ora i consigli di disciplina
territoriali si contano sulle dita di una mano, così come
quelli nazionali per i quali però le procedure sono diverse.
Questo organo è, infatti, previsto solo per alcune categorie
professionale (Agronomi e forestali, Agrotecnici, Assistenti
sociali, Biologi, Commercialisti, Consulenti del lavoro e
Tecnologi alimentari) giacché la maggior parte degli Albi è
stata costituita prima della Costituzione e conserva quindi
la giurisdizione speciale che la legge gli attribuiva.
Formazione continua e tirocinio. Per quanto riguarda la
formazione continua, già vigente in alcuni casi nel mondo
delle professioni, i regolamenti sono stati sì predisposti
ma non entreranno in vigore prima del 2014. Altro snodo
cruciale è quello del regolamento sul tirocinio non tanto
nei tempi, con il nuovo tetto a 18 mesi, ma nell'esigenza di
un passaggio ordinato tra vecchie e nuove regole. Alcune
categorie (commercialisti per esempio) avevano già attivato
un ampio sistema di convenzioni con gli atenei, con la
possibilità di incrociare il periodo di tirocinio con la
laurea specialistica: la regola dei 18 mesi attuata dal
regolamento impone naturalmente di rivedere le convenzioni
per adeguarle al nuovo calendario, ma resta da chiarire il
destino dei percorsi già attivati con le nuove regole. ---------------
Dal 15 agosto via all'obbligo dell'rc professionale. Le
convenzioni stipulate dagli ordini Parte la corsa all'assicurazione. Corsa all'assicurazione obbligatoria. È scattato infatti per
tutti i professionisti l'obbligo di stipulare una polizza
che copra i rischi della responsabilità civile
professionale. Tutti gli ordini, quindi, sia a livello
nazionale sia locale, si sono mossi per stipulare accordi e
convenzioni con agenzie di assicurazione per guidare e
tutelare i propri iscritti nella scelta della polizza, che
può rivelarsi anche molto costosa. Soprattutto perché il dpr
n. 137/2012 non prevede alcun obbligo per le compagnie.
Entriamo nel dettaglio. Professioni giuridico-economiche. Per quanto riguarda gli
avvocati, la professione è regolamentata dalla nuova legge
di disciplina dell'ordinamento professionale forense (n.
247/2012) che da un lato, in materia di rc professionale,
recepisce quanto previsto dal dpr Severino, dall'altro però
l'assolvimento dell'obbligo è condizionato all'approvazione,
da parte del ministero della giustizia del dm sulle
condizioni essenziali e i massimali minimi. Dunque, il
termine del 15 agosto non riguarda gli avvocati. Ad ogni
modo, il Cnf ha affidato al broker Aon spa la consulenza sul
programma assicurativo. Il Consiglio nazionale dei
consulenti del lavoro, invece, che stima attualmente circa
15 mila professionisti assicurati su un totale di 22 mila,
ha stipulato una convenzione con la compagnia Aig. I
principali accordi prevedono: il premio di assicurazione
commisurato agli introiti netti Iva contabilizzati
dall'assicurato nell'anno precedente lo stesso; l'oggetto
dell'attività professionale assicurata è relativo alla
professione nella sua interezza; retroattività illimitata se
il consulente è già assicurato, cinque anni se non è
assicurato. Quanto ai costi, invece, si parte da 270 euro
per un volume d'affari Iva fino a 40 mila euro l'anno, fino
a 3.450 euro per un volume d'affari fino a 500 mila euro.
Oltre e fino a 1,5 milioni è previsto il premio per la
fascia precedente più il 4 per mille sulla differenza del
fatturato. Professioni tecniche. Il Collegio nazionale degli
agrotecnici, che stima a oggi circa 500-1.000 professionisti
assicurati su circa 15 mila, ha rinnovato e confermato il
contratto stipulato nel 2007 con «Aec Master broker»,
appoggiato ai Lloyd's. Copre le seguenti tre aree:
responsabilità civile, rischi del patrimonio, rischi della
persona. A questo prodotto assicurativo ne è stato aggiunto
un secondo, con Marsh Italia. Entrambi i prodotti sono
divisi per scaglioni di fatturato (si parte da 25 mila, il
più basso) e per massimali assicurabili. Sono possibili
estensioni per settori particolari, le polizze prevedono la
retroattività. A prescindere dai due prodotti «validati» dal
Collegio nazionale, gli iscritti all'albo sono liberi di
assicurarsi con qualunque altra compagnia o broker. Il costo
è di 230-250 euro per un fatturato entro i 25 mila euro. Il Conaf ha proceduto invece ad una gara pubblica per
selezionare una compagnia per Polizza collettiva ad adesione
e la gara (aggiudicata il 23.07.2013 e sottoscritta il 2
agosto) è stata aggiudicata per due anni alla Compagnia Aig
Europe Limited. Franchigia e premi flessibili tagliati a misura di
professionista, copertura postuma ma, soprattutto, un
disciplinare dettagliato senza clausole sulle attività del
perito industriale. La copertura assicurativa per i periti
industriali, per la prima volta estesa anche alle nuove
forme societarie parte da questi principi ed è il risultato
della collaborazione tra il Cnpi e il Broker Assicurativo
Marsh S.p.a. grazie al quale è stato siglato un accordo
quadro per una polizza sottoscritta con la compagnia Aig
Europe Limited. Il costo è di circa 400 euro annuo per un
volume di affari compreso entro i 50 mila euro e un
massimale di 250 mila euro. Nessuna convenzione predefinita per il Consiglio nazionale
degli ingegneri che invece ha inviato una circolare in cui
sono selezionate alcune offerte segnalate in virtù della
conformità con i parametri fissati dal Cni. Le proposte in
linea con la griglia di qualità degli ingegneri sono sei:
Aec master broker, Gava broker, Link broker, Consulbrokers,
Aon e Marsh. A queste si aggiunge la polizza Willis di
Inarcassa che, al momento, rappresenta il riferimento di
tutto il mercato. Così un professionista con fatturato di 50 mila euro dovrà
pagare, per un massimale di 500 mila euro con una franchigia
di 2.500, intorno ai 400 euro all'anno. Chi guadagna 200
mila euro dovrà, invece, pagarne almeno 1.300 per una
copertura simile. Mentre per un fatturato di 300 mila euro
si sale fino a 1.700 euro. Gli architetti, invece, si sono
affidati a un avviso pubblico per selezionare le compagnie
con le quali sottoscrivere una convenzione (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Gli effetti delle Comunitarie 2013: novità per danni
ambientali e incidenti industriali. Rifiuti, stretta sulla gestione.
Sotto la disciplina Raee tutti i grandi elettrodomestici.
Stretta sulla gestione dei rifiuti elettronici, spinta sul
riciclo delle pile a fine vita, inasprimento delle
responsabilità per danni ambientali, allargamento delle
industrie sotto il controllo previsto dalle stringenti
regole su emissioni industriali (c.d. «Ippc») e prevenzione
degli incidenti rilevanti («Seveso»).
Queste le rilevanti
novità ambientali previste dalle due nuove «Leggi
comunitarie» licenziate in via definitiva dal Parlamento lo
scorso 31/07/2013. Novità che saranno però tradotte sul piano
operativo in tempi diversi: immediatamente quelle previste
dalla «Legge europea». Aee e Raee. In materia di apparecchiature elettriche ed
elettroniche (c.d. «Aee») e relativi rifiuti (c.d. «Raee»)
le prime novità sono quelle previste dalle norme della
«Legge europea» che riscrivono il dlgs 151/2005 e il dm
65/2010. Mediante ritocchi all'allegato 1B del dlgs 151/2005
il Legislatore riconduce sotto la disciplina dei Raee tutti
gli elettrodomestici di grandi dimensioni, i condizionatori
d'aria e i test di fecondazione. Con la riformulazione del
dm 65/2010 viene invece allargato il sistema semplificato di
raccolta e trasporto dei Raee ai centri di trattamento da
parte dei distributori di nuove apparecchiature. Le già
previste semplificazioni ambientali saranno infatti
assicurate per raggruppamenti e trasporti di Raee oltre i
volumi massimi attualmente previsti. Ancora, realizzazione e
gestione dei citati centri di raccolta potranno essere
effettuati nelle strutture che rispettano i criteri
autorizzatori generali ex dlgs 152/2006 in alternativa a
quelli specifici ex dm 08.04.2008. La «legge di
delegazione europea» apre invece la strada all'attuazione
delle due nuove direttive in materia di «Aee» e «Raee»:
rispettivamente la 2011/65/Ce e la 2012/19/Ue. Il
recepimento della direttiva 2011/65/Ce su fabbricazione di
nuove Aee darà attuazione a tre novità imposte dal
Legislatore comunitario: allargamento della definizione di
Aee a qualsiasi apparecchiatura che dipende da correnti
elettriche o campi elettromagnetici per espletare «almeno
una» delle funzioni previste e ai relativi pezzi di
ricambio; divieto di utilizzo nella fabbricazione di Aee
delle sostanze pericolose già bandite dalla «disciplina
Reach» sulle sostanze chimiche (regolamento Ce n.
1907/2006); obbligo per fabbricanti, importatori e
distributori di garantire l'accesso alla documentazione
tecnica delle apparecchiature commercializzate. Con il
recepimento della direttiva 2012/19/Ue arriverà invece
l'obbligo di ritiro gratuito delle Aee usate da parte dei
distributori di nuove apparecchiature domestiche passerà
dall'attuale sistema «one on one» a quello «one on zero». Ma
solo per i negozi al dettaglio con superficie di vendita
uguale o superiore ai 400 metri quadrati che non riusciranno
a dimostrare l'esistenza di regimi di raccolta alternativa
altrettanto efficaci e comunque solo in relazione ai Raee
provenienti da nuclei domestici di «piccolissime
dimensioni». Sempre con il recepimento della nuova direttiva
Raee arriverà altresì l'aumento delle percentuali minime di
raccolta differenziata e di recupero di rifiuti da
assicurare a livello nazionale, che dovranno salire dalle
attuali 70-80 all'85%. Pile e relativi rifiuti. Attraverso la rivisitazione del dlgs 188/2008 (di recepimento direttiva 2006/66/Ce) la
«Legge europea» accelera sul riciclaggio delle batteria a
fine vita. Sarà innanzitutto permesso alle imprese di
effettuare il riciclaggio di pile ed accumulatori a fine
vita fuori del territorio nazionale e comunitario, a
condizione che siano rispettate le prescrizioni del
regolamento (Ce) n. 1013/2006 sul trasporto internazionale
di rifiuti. Ancora, potranno andare in discarica solo i
residui di rifiuti di batterie preventivamente sottoposti ad
operazioni di riciclaggio. Infine, l'apposizione del simbolo
recante l'obbligo di conferimento in raccolta differenziata.
Danno ambientale. Tre i punti di intervento della «Legge
europea» mediante la riformulazione del dlgs 152/2006 (c.d.
«Codice ambientale»): ridefinizione dei criteri di
imputazione della responsabilità; eliminazione
dell'equivalenza tra «bonifica» e «risarcimento»;
limitazione della possibilità del risarcimento «per
equivalente patrimoniale». Sotto il primo profilo vengono
ora previste due differenti categorie di soggetti: da un
lato coloro che svolgono una delle attività a elevato
rischio previste dall'allegato 5, Parte VI del dlgs 152/2006
e dall'altro coloro che svolgono attività diverse. I
soggetti appartenenti alla prima categoria rispondono dei
danni ambientali in base ad una sorta di «presunzione di
responsabilità», responsabilità comunque superabile fornendo
prova del «fatto del terzo», del caso fortuito o della forza
maggiore. Gli altri soggetti saranno invece chiamati a
rispondere del danno ambientale solo qualora si dimostri la
sussistenza del dolo o della colpa. Sotto il secondo
profilo, invece, l'effettuazione o il semplice avvio della
bonifica dei siti inquinati non varrà più a escludere a
carico del responsabile l'obbligo di risarcimento del danno
ambientale. Infine, sotto il terzo profilo, il danno
cagionato da soggetti che svolgono attività ad alto rischio
non potrà più essere risarcito «per equivalente economico»,
ma solo in forma specifica tramite il ripristino della
situazione precedente. Controllo emissioni industriali («Ippc»). La delega per
l'attuazione dell'ultima direttiva 2010/75/Ce sull'«Ippc»
comporterà un allargamento delle imprese obbligate
all'adozione delle «migliori tecniche disponibili»
nell'abbattimento dell'inquinamento per poter svolgere la
propria attività. Con il recepimento della direttiva
2010/75/Ce la disciplina «Ippc» sarà infatti estesa agli
impianti di combustione di potenza termica compresa tra 20 e
50 Mw, agli impianti industriali per la conservazione del
legno e dei prodotti di legno, alle imprese di produzione
dei pannelli a base di legno. Il recepimento della direttiva
2010/75/Ce aprirà altresì le porte alle nuove e future
citate «migliori tecniche disponibili» che l'Ue approverà
sulla base di parametri di tutela ambientale più elevati.
Prevenzione incidenti rilevanti («Seveso»). Con la delega al
recepimento della direttiva 2012/18/Ue sul «controllo dei
pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate
sostanze pericolose» si avvicina invece l'allargamento degli
impianti sottoposti alla rigida disciplina e l'ampliamento
degli adempimenti di prevenzione a carico dei relativi
gestori. L'allargamento del campo di applicazione scatterà
con l'inclusione di 14 nuove sostanze nell'elenco di quelle
che obbligano chi le gestisce all'adozione delle precise
misure di prevenzione degli incidenti industriali rilevanti.
L'upgrade degli obblighi per i gestori sarà invece effetto
della maggiore analiticità richiesta dalla nuova direttiva
nella documentazione comprovante l'effettuata attività di
prevenzione (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013). |
VARI:
Patenti tutte nuove.
Il duplicato a casa. E tracciato. La
nuova procedura è partita il 1° luglio scorso. Dal 1° luglio il duplicato della patente di guida richiesto
dall'automobilista per furto, smarrimento o distruzione
arriverà direttamente a casa con una nuova procedura molto
dettagliata. E se l'interessato non sarà soddisfatto della
qualità della stampa o evidenzierà errori potrà
immediatamente contestare il nuovo documento e richiederne
un nuovo gratuitamente alla motorizzazione civile.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con la
circolare 12.07.2013 n. 18260 di prot..
Dal 1° luglio, specifica
innanzitutto la circolare, è attivo il nuovo servizio di
personalizzazione centralizzata delle patenti di guida che
al momento si occuperà però solo del rilascio delle nuove
patenti ottenute per esame e di quelle richieste come
duplicato della licenza. In particolare per i documenti di
guida richiesti a seguito di smarrimento, distruzione e
furto il servizio di recapito a domicilio dell'interessato
diventa particolarmente dettagliato. Per massimizzare la possibilità di consegna il nuovo
servizio prevede un primo tentativo di recapito
all'indirizzo di residenza del titolare. Se il soggetto è
assente l'addetto al recapito inserirà in buchetta un avviso
di mancata consegna con istruzioni operative. In questo caso
l'interessato potrà contattare un apposito call center di
Poste Italiane per concordare una successiva consegna. Se
anche questo secondo tentativo non andrà a buon fine
l'addetto alla consegna inserirà in buchetta un ulteriore
avviso informativo. In ipotesi di ulteriore tentativo di
consegna non andato a buon fine la nuova patente verrà
depositata presso l'ufficio postale di riferimento dove
rimarrà in giacenza per 60 giorni, pronta per essere
ritirata dall'intestatario o da un suo delegato. Al momento del ritiro postale l'utente dovrà però
corrispondere l'importo complessivo di 17,50. Trascorsi 60
giorni dal deposito postale la patente verrà poi spedita
all'ufficio provinciale della motorizzazione dove
l'interessato potrà rivolgersi per il prelievo del
documento, previo pagamento di un ulteriore importo
maggiorato. Ma se il soggetto tarderà oltre 240 giorni al
ritiro del documento la patente andrà distrutta dalla stessa
motorizzazione. Nel caso in cui la patente ricevuta presenti invece dati
errati o risulti visivamente di scarsa qualità, conclude la
circolare, il titolare potrà immediatamente richiedere il
duplicato del documento, senza alcun onere a suo carico, ad
un qualunque ufficio della motorizzazione civile (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Acquisto.
Gli obblighi.
Il certificato energetico va sempre allegato. Lo scopo è quello di dare ai futuri abitanti della casa
un'informazione immediata su quanto consuma, sotto l'aspetto
energetico, il bene che stanno per acquistare o affittare.
L'indicazione è racchiusa in un documento che dal 6 giugno
si chiama Ape (Attestato di prestazione energetica) e che
deve essere prodotto per tutte le nuove costruzioni o in
caso di ristrutturazione di un immobile, di vendita, di
locazione e persino di cessione a titolo gratuito. Pena: una
serie di sanzioni, ma soprattutto la nullità del contratto
di trasferimento. Il quadro sulla certificazione energetica in Italia è così
ridisegnato dalla legge 90/2013, che è entrata in vigore il
4 agosto scorso e ha convertito il Dl 63/2013 di inizio
giugno. Con questo provvedimento, con cui sono integrati i
contenuti del Dlgs 192/2005 (il testo base nel nostro Paese
sul rendimento energetico), anche Roma recepisce la
direttiva europea 2010/31/Ue. L'Ape, che sostituisce il
vecchio Ace (Attestato di certificazione energetica), è il
documento che attesta la prestazione energetica di un
edificio e fornisce raccomandazioni per il miglioramento
dell'efficienza energetica. A sua volta, la prestazione
energetica dipende dalla quantità annua di energia primaria
effettivamente consumata o che si prevede necessaria per
soddisfare, con un uso standard dell'immobile, i vari
bisogni energetici dell'edificio. Vale a dire: la
climatizzazione invernale ed estiva, la preparazione
dell'acqua calda per usi igienici e sanitari, la
ventilazione e, per il settore terziario, l'illuminazione,
gli impianti ascensori e scale mobili. Difficile
quantificare da subito il costo del nuovo documento che, è
più complesso del vecchio Ace, il quale, in linea di
massima, si aggirava dai 250 ai mille euro a seconda anche
delle dimensioni della casa. In base alla prestazione raggiunta, l'unità immobiliare
viene anche classificata in una scala da A a F. L'attestato
riporta, dunque, anche la classe energetica; i requisiti
minimi di efficienza energetica vigenti; le raccomandazioni
per migliorare la performance, separando la previsione di
interventi di ristrutturazione importanti da quelli di
riqualificazione energetica. La targa deve essere rilasciata da esperti qualificati e
indipendenti, in possesso di iscrizione all'Ordine o
Collegio e dei requisiti di formazione ed esperienza fissati
nel Dpr 75/2013. Sarà valida per dieci anni, a meno che nel
frattempo l'immobile non venga sottoposto a una
riqualificazione tale da cambiarne i consumi (per esempio,
con la sostituzione degli infissi) o che non vengano
eseguiti i controlli dei sistemi tecnici, in primis sugli
impianti termici, fissati dalla legge. I soggetti obbligati Il rilascio dell'Ape spetta, nel caso di immobili nuovi o
ristrutturati, alla società o impresa che ha effettuato i
lavori; tocca invece al proprietario di un'unità immobiliare
in caso di cessione o di affitto produrre l'attestato da
allegare agli atti. Già nell'annuncio immobiliare è
obbligatorio indicare sia l'indice di prestazione energetica
dell'involucro edilizio e globale (dell'intero edificio o
dell'unità immobiliare), sia la classe energetica di
riferimento. In attesa di uno o più decreti attuativi che dovranno essere
emanati dal ministero dello Sviluppo entro l'anno, la targa
si compila ancora secondo le regole del vecchio Ace e cioè
seguendo le norme Uni/Ts 11300, la raccomandazione Cti
14/2003 e la Uni En 15193 per l'illuminazione. Come ha chiarito una nuova circolare (nota n. 16416 del
Dipartimento per l'energia dello Sviluppo economico), sui
territori (Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna,
Valle d'Aosta e le Province di Trento e Bolzano) con un
proprio sistema per l'attestato di certificazione (recependo
la direttiva 2002/91/CE e solo in alcuni casi già la
2010/31/Ue) si procede con le regole locali. È aperto
comunque un tavolo di confronto con il ministero, per
superare le distinzioni e rendere omogeneo il rilascio.
Le sanzioni Il Parlamento ha reintrodotto la nullità degli atti in caso
di mancata allegazione dell'Ape al contratto di vendita o
locazione. Previsione che era stata cancellata nel 2008
dalla legge 133. Ciò vale per tutto il territorio nazionale,
comprese le Regioni che hanno un sistema locale di rilascio
delle targhe. Le sanzioni, rese più severe dal Dl 63,
cambiano invece a seconda della disciplina nazionale o
locale. A livello nazionale, solo per citare qualche
esempio, il costruttore o il titolare di un fabbricato che
non predispone l'Ape per un immobile nuovo o ristrutturato
va incontro a una multa dai 3mila ai 18mila euro. ---------------
I CONTRATTI Rischio nullità senza il documento Nullità per i contratti di «vendita», per gli «atti di
trasferimento di immobili a titolo gratuito» e per i «nuovi
contratti di locazione» qualora l'Attestato di prestazione
energetica (Ape) non sia «allegato al contratto»: è questa
la novità, abbastanza dirompente, della legge di conversione
del decreto legge 63/2013, in tema di prestazione energetica
nell'edilizia (il cosiddetto Dl "eco-bonus"), la quale
introduce, con tale tenore letterale, il nuovo comma 3-bis
all'articolo 6 del Dlgs 192/2005. La novità è dirompente. Non solo la norma dispone una
sanzione civilistica gravissima (che si aggiunge comunque a
quelle pecuniarie, riassunte nella tabella a fianco) -quando invece l'introduzione, a opera del Dl 63/2013, di un
largo panorama di notevoli sanzioni pecuniarie, aveva fatto
credere che, sul discorso sanzionatorio in tema di Ace/Ape,
ampiamente sviluppatosi in passato, fosse stata posta la
parola fine-, ma anche finirà inevitabilmente per porre
seri ostacoli alla contrattazione immobiliare, almeno per
qualche tempo (e cioè fino a che gli operatori non avranno
preso dimestichezza con questa complicata materia). L'unica
consolazione è che, trovandoci in un periodo di mercato
asfittico e per di più in agosto, questa ipotizzata paralisi
non dovrebbe comunque avere effetti catastrofici. I temi che la norma solleva sono molteplici e, in taluni
casi, niente affatto semplici. Anzitutto, va notato che la
nuova disciplina ha un ampio spettro applicativo: si occupa
infatti di qualsiasi contratto di «vendita» (e quindi anche
i contratti che abbiano a oggetto solo quote di comproprietà
oppure diritti reali parziari), di qualsiasi atto «a titolo
gratuito» (e quindi, per esempio, di donazioni, di patti di
famiglia e di trust traslativi) e di qualsiasi nuovo
contratto di locazione. Quanto ai contratti traslativi a titolo oneroso, ci sarà da
verificare se la nuova norma riguardi le sole compravendite,
come il suo dato testuale farebbe pensare, oppure se essa
contempli qualsiasi tipologia di atto traslativo: permute,
conferimenti in società, transazioni, rendite vitalizie
eccetera. Altro problema è quello di stabilire che valenza abbiano le
norme regionali emanate in materia di Ace/Ape con riguardo
all'attività negoziale. Sul punto, pare scontato concludere
che, essendo la materia contrattuale sottratta per
definizione al legislatore regionale (articolo 117, comma 2,
lettera l), della Costituzione) ed essendo disposta una
sanzione così grave come la nullità a opera della legge
statale, inevitabilmente ciò finisce per mettere fuori gioco
qualsiasi altra prescrizione di rango gerarchico inferiore. Pare risolto invece il tema di come confezionare l'attestato
nelle Regioni che hanno emanato una propria normativa: si
dovrebbe continuare a utilizzare gli Ace elaborati come
disposto dalle normative "locali", come suggerisce la nota
dello Sviluppo economico prot. n. 16416 del 07.08.2013
(si veda Il Sole 24 Ore dell'8 agosto scorso) (tratto da Il Sole 24 Ore del
12.08.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI - VARI:
La semplificazione dei nuovi obblighi parte dal calendario.
Norme in vigore il 1° gennaio o il 1° luglio. GRAN CALDERONE/ Aiuti a studenti meritevoli, taglio di
certificati, internet: il decreto del fare ha toccato
diversi aspetti della vita di cittadini e imprese. Non si tratta di un intervento organico: si va, infatti,
dalla semplificazione delle procedure amministrative
all'indennizzo in caso di ritardi degli uffici pubblici, dal
domicilio digitale agli aiuti agli studenti meritevoli,
dalla "liberalizzazione" di internet all'abolizione di parte
delle tasse sulla nautica da diporto. Tuttavia nel gran
calderone del decreto del fare (Dl 69/2013), convertito in
legge venerdì scorso, si possono rintracciare una serie di
misure che impattano sulla vita di tutti i giorni, con
l'obiettivo di renderla più semplice. Per alcune novità gli effetti si vedranno da subito. È il
caso, per esempio, della misura –già operativa dal 2 luglio– che prevede due sole date (il 1° gennaio e il 1° luglio)
per l'entrata in vigore degli adempimenti relativi a
cittadini e imprese. Altre norme avranno, invece, bisogno di
più tempo per diventare efficaci, perché rinviano a
ulteriori disposizioni che dovranno dar loro attuazione. È il caso, per esempio, del domicilio digitale, che in
teoria già esiste dal 1° gennaio scorso come possibilità per
ogni cittadino di dotarsi di una casella di posta
elettronica certificata (Pec) da utilizzare come "buca delle
lettere" informatica a cui le pubbliche amministrazioni
possono inviare messaggi e comunicazioni. Il decreto del
fare si propone di andare oltre e incentivare il ricorso a
questo strumento, prevedendo che il cittadino ne sia dotato
quando richiede il documento unificato o farà domanda di
iscrizione anagrafica o di cambio di residenza una volta
entrata a regime l'anagrafe nazionale della popolazione
residente (Anpr). Il problema è che questi ultimi due
strumenti sono di là da venire: il documento unificato
presuppone la carta d'identità elettronica, di cui si parla
invano da anni: si tratta, infatti, della carta di identità
elettronica allargata a contenere la tessera sanitaria e
destinato, specifica il decreto del fare, a sostituire anche
il tesserino fiscale; per l'altro verso, l'anagrafe
nazionale della popolazione residente ha ricevuto il via
libera del Consiglio di Stato nei giorni scorsi, ma il
cammino è ancora lungo. Altrettanto dicasi per la semplificazione dei certificati di
gravidanza, che saranno inviati all'Inps in via telematica
dai medici o dalle strutture sanitarie solo tre mesi dopo
che diventerà operativo il decreto con le procedure di
trasmissione, per approntare il quale ci sono sei mesi di
tempo. Efficace da subito, invece, la soppressione dell'obbligo del
certificato medico per chi svolge attività ludico-motoria e
amatoriale. In questo modo è stata modificata una normativa
recentissima, dettata da un decreto del 24 aprile scorso, il
quale ha definito le diverse attività sportive e i relativi
accertamenti medici. Per l'attività ludico-motoria e
amatoriale era stato, appunto, previsto l'obbligo del
certificato medico. Novità anche per l'attività sportiva non
agonistica, che finora richiede (sempre secondo il decreto
di aprile) il certificato medico, la misurazione della
pressione arteriosa e l'elettrocardiogramma a riposo. Il
decreto del fare mantiene l'obbligo del certificato ma
lascia al medico di base o al pediatra la decisione se
procedere a ulteriori accertamenti. Immediata anche l'operatività della disposizione che impone
agli uffici di anagrafe di comunicare agli stranieri nati in
Italia il diritto di poter acquisire la cittadinanza a
partire dal 18° anno: in questo modo si rende più penetrante
quanto previsto dall'articolo 4 della legge 91 del 1992, che
subordina l'acquisizione della cittadinanza alla
dichiarazione che l'interessato deve presentare entro un
anno dal raggiungimento della maggiore età. Ora c'è
l'obbligo di informarlo di tale diritto. Anche gli aiuti per gli studenti meritevoli non dovrebbero
conoscere lungaggini. La nuova legge, infatti, stanzia 5
milioni per il 2013 e altrettanti per il 2014 e 7 per il
2015. Serviranno per aiutare quanti desiderano studiare
fuori sede. Per accedere alla graduatoria che ogni Regione
stilerà bisogna possedere determinati requisiti, a
cominciare dal voto di diploma non inferiore a 95/100. La
borsa può essere rinnovata, dietro domanda, purché si
dimostri di aver tenuto una tabella di marcia da studente
modello: acquisizione di almeno il 90% dei crediti
formativi, media del 28 e nessun esame al di sotto del 26. ---------------
IL TOUR DE FORCE -
Corsa alla conversione Non solo decreto del fare. La chiusura estiva del Parlamento
è stata, infatti, preceduta da un tour de force imposto
dalla conversione dei Dl che altrimenti rischiavano di
saltare. Se l'ultimo ad avere ricevuto il via libera è stato
il decreto del fare (che sarebbe scaduto il 20 agosto), nei
giorni precedenti le Camere avevano licenziato anche i Dl
sull'occupazione (la cui deadline cadeva il 26 agosto) e lo
svuota carceri, che spirava a fine mese.
I Dl rimasti A questo punto, dei nove decreti legge varati dal Governo
Letta, ne rimangono in piedi solo due, che però sono di
conio recentissimo. Si tratta, infatti, delle misure per la
tutela, la valorizzazione e il rilancio del patrimonio
culturale (decreto approvato dal Consiglio dei ministri il 2
agosto e che ancora deve affrontare l'esame parlamentare) e
del Dl sul femminicidio, licenziato da Palazzo Chigi venerdì
scorso. Ci sarebbe, poi, il decreto sui pagamenti dei debiti
degli enti del servizio sanitario, che però non ha più
ragione di esistere perché è confluito nel decreto del fare. --------------- Le principali novità per cittadini e famiglie previste dal
decreto del fare (Dl 69/2013), convertito in legge venerdì
BORSE DI MOBILITÀ PER GLI STUDENTI MERITEVOLI Borse di studio di mobilità per gli studenti che intendono
frequentare un'università statale o non statale italiana
(escluse quelle telematiche) in una regione diversa da
quella in cui risiedono insieme alla famiglia. Ammesso agli
aiuti chi soddisfa determinati criteri (tra cui un voto di
diploma pari o superiore a 95/100) CERTIFICATI DI GRAVIDANZA Invio all'Inps solo telematico dei certificati di
gravidanza, di parto o di interruzione di gravidanza. Lo
deve fare il medico o la struttura sanitaria. Fino a che la
nuova norma non sarà operativa dovrà continuare a pensarci
la lavoratrice CERTIFICATI SPORTIVI Niente certificato medico per l'attività ludico-motoria (per
esempio, il gioco delle bocce, il biliardo, la ginnastica
per anziani). Per quella non agonistica resta l'obbligo del
certificato medico, ma ulteriori accertamenti sono a
discrezione del medico CITTADINANZA AGLI STRANIERI NATI IN ITALIA Gli ufficiali di stato civile devono comunicare allo
straniero nato in Italia, sei mesi prima che quest'ultimo
compia il 18° anno di età, la possibilità di acquisire la
cittadinanza italiana, specificando che può esercitare il
diritto entro il 19° anno DATA UNICA PER I NUOVI OBBLIGHI L'efficacia degli atti normativi del Governo e di quelli a
carattere generale delle amministrazioni statali, degli enti
pubblici nazionali e delle agenzie decorre dal 1° luglio o
dal 1° gennaio successivi alla data di entrata in vigore
degli atti DOCUMENTO UNIFICATO Sostituisce a tutti gli effetti il tesserino di codice
fiscale rilasciato dall'Agenzia delle entrate
DOMICILIO DIGITALE All'atto della richiesta del documento unificato o
dell'iscrizione all'anagrafe o del cambio di residenza viene
assegnata una Pec che serve da domicilio digitale
INDENNIZZO PER I RITARDI DELLA PA Nel caso di lentezza della Pa nella conclusione dei
procedimenti, si ha diritto a un indennizzo di 30 euro per
ogni giorno di ritardo, fino a un massimo di 2mila euro
INTERNET L'offerta al pubblico di accesso a internet tramite il wifi
non richiede che il gestore del servizio proceda
all'identificazione di chi utilizza la rete
INVALIDITÀ Chi ha un'invalidità prevista dal decreto 225/2007 (inclusi
i soggetti affetti da sindrome da talidomide o di Down) è
esonerato da ulteriori visite presso l'Inps
NAUTICA DA DIPORTO Soppressa la tassa per le unità da diporto fino a 14 metri e
dimezzata per quelle da 14 a 20 metri. ---------------
Burocrazia. Il rimedio alle lungaggini degli uffici.
L'indennizzo per i ritardi debutta in via sperimentale. MONITORAGGIO/ Per il momento riguarderà i procedimenti di
avvio dell'attività d'impresa e dopo 18 mesi si valuterà se
estenderlo agli altri atti. Il decreto del fare contiene anche un esperimento: è quello
che si tenta con la norma che introduce l'indennizzo per i
ritardi della pubblica amministrazione. La disposizione
sarà, infatti, operativa –a partire dall'entrata in vigore
della legge di conversione– solo per i procedimenti
amministrativi che riguardano l'avvio dell'attività di
impresa. Dopo 18 mesi si farà il punto e, anche in base a un
monitoraggio su come la misura avrà funzionato, si deciderà
se correggerla, se estenderla a tutti i procedimenti o, in
caso di scarsi risultati, di cancellarla. Eventualità quest'ultima che appare legata più alle
difficoltà applicative che ai rilevanti esborsi a cui la Pa
potrebbe andare incontro. Il meccanismo, infatti, rischia di
incepparsi nelle faticose procedure burocratiche, quelle
stesse che spesso determinano le lungaggini delle pratiche. L'impianto generale della norma prevede che di fronte
all'inosservanza del termine di conclusione del procedimento
amministrativo iniziato a istanza di parte e per il quale
sussista da parte dell'ufficio l'obbligo di pronunciarsi
(sono escluse le ipotesi di silenzio qualificato e dei
concorsi pubblici), il cittadino possa chiedere un
indennizzo pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo, fino a
un importo massimo di 2mila euro. L'indennizzo non scatta automaticamente, ma solo se
l'interessato aziona entro venti giorni il potere
sostitutivo, cioè bussa alla porta del funzionario a cui è
stato affidato il potere di intervenire in caso di inerzia
dell'amministrazione. Di fronte a quest'ultimo si aprono due
strade: fare in modo che il procedimento in ritardo venga
concluso almeno nella metà del tempo previsto in origine
oppure liquidare al cittadino l'indennizzo. Se nessuna delle due vie viene percorsa, non resta che il
ricorso al Tar, che beneficia in questo caso della riduzione
a metà del contributo unificato, l'importo che si paga per
rivolgersi al giudice. Al di là dell'allungamento dei tempi che un contenzioso
comporta, bisogna aggiungere che la sconfitta la si paga
cara: infatti, nel caso il ricorso venga dichiarato
inammissibile, il ricorrente viene condannato, con sentenza
immediatamente esecutiva, a pagare una somma da due a
quattro volte il contributo unificato
(tratto da Il Sole 24 Ore del
12.08.2013). |
INCARICHI PROFESSIONALI - PROGETTUALI:
I giudici estendono la responsabilità dei professionisti.
L'obbligo di assicurarsi scatta giovedì ma le sentenze hanno
tracciato la rotta.
L'obbligo di assicurarsi contro i danni provocati ai clienti
debutta solo giovedì 15 agosto, ma i professionisti devono
fare già da tempo i conti con le condanne ai risarcimenti
inflitte dai giudici. Anzi: negli ultimi anni la
giurisprudenza ha virato verso una maggiore severità nel
valutare la condotta degli iscritti agli Albi, arrivando a
censurare il mancato raggiungimento del risultato.
Obbligo non per tutti L'obbligo di stipulare una polizza per la responsabilità
professionale è stato introdotto dalla legge 148/2011 e poi
precisato dal Dpr 137/2012, insieme agli altri interventi
dedicati al mondo delle professioni. Sempre il Dpr 137/2012
ha fatto slittare di un anno l'applicazione dell'obbligo di
assicurarsi, che in origine doveva diventare operativo ad
agosto 2012. Ma non tutti i professionisti sono coinvolti dalla scadenza
di Ferragosto. I notai, ad esempio, sono già assicurati da
anni: già nel 1999 il Consiglio nazionale del notariato ha
stipulato una polizza che copre tutti gli iscritti e nel
2006 assicurarsi è diventato obbligatorio. Per avvocati e
medici, invece, l'appuntamento con la polizza obbligatoria è
spostato più avanti. Gli avvocati, infatti, seguono la
corsia tracciata dalla riforma forense (legge 247/2012), che
prevede le polizze professionali debbano essere stipulate in
base alle condizioni che il ministero della Giustizia deve
ancora stabilire. E ai professionisti della sanità è stata
concessa una nuova proroga di un anno, approvata nel corso
del passaggio in Parlamento per la conversione in legge del
decreto del fare (69/2013). Tutti gli altri iscritti agli Albi, se svolgono un'attività
libero professionale organizzata, devono dotarsi di adeguate
coperture per salvaguardare il proprio patrimonio e
garantire il soddisfacimento delle pretese risarcitorie dei
clienti che si ritengono danneggiati. Chi non si assicura
commette un illecito disciplinare, sanzionato dai Consigli
nazionali, che però hanno spiegato (si veda «Il Sole 24 Ore
del lunedì» del 5 agosto) che non avvieranno i controlli
prima di settembre. Giurisprudenza in evoluzione Ma quali sono i casi in cui scatta la responsabilità del
professionista? Per i giudici, in linea generale, il
contratto d'opera professionale impone di garantire al
cliente non il raggiungimento comunque del risultato
auspicato, ma l'adozione della dovuta diligenza per
conseguirlo (obbligazione "di mezzi"). Ad esempio, un medico
–secondo la giurisprudenza tradizionale– non può essere
tenuto a garantire la guarigione del paziente, né un
mediatore può assicurare al cliente che l'affare che si è
assunto l'onere di promuovere venga effettivamente concluso.
I giudici, piuttosto, devono valutare se la prestazione
svolta è idonea a soddisfare l'interesse del cliente, per
poter ritenere che l'incarico professionale sia stato
eseguito a regola d'arte. Ma negli ultimi anni la magistratura sta sempre più
valorizzando le aspettative del cliente. E, in alcuni
settori professionali, ha spostato l'ago della bilancia
verso una censura per il mancato raggiungimento del
"risultato". È il caso, ad esempio, del commercialista che,
nella redazione di una dichiarazione dei redditi, incorrere
nell'obbligo di risarcire il danno al proprio cliente legato
alle sanzioni tributarie erogate dall'Erario che verifichi
la non pertinenza di costi in detrazione perché non
documentati. Ciò anche se tali costi siano stati riportati
dallo stesso contribuente al professionista. La diligenza
del revisore contabile, dunque, si estende fino all'onere di
verificare la veridicità di quanto dichiarato dal proprio
cliente in sede di conferimento dell'incarico (si veda la
sentenza 9916/2010 della Cassazione). Un profilo di diligenza elevato è richiesto anche
all'avvocato, chiamato a prevedere (si veda la sentenza
della Cassazione 18612/2013) anche le possibili evoluzioni
giurisprudenziali per sciogliere un contrasto. L'avvocato
deve quindi adottare a favore del proprio assistito la linea
processuale più prudenziale, tenendo anche presente la
possibilità che vengano rivisitati gli orientamenti
prevalenti circa la tematica per la quale il cliente si è
affidato alla sua assistenza. ---------------
SINDACO DI SOCIETÀ Se viene dimostrato in giudizio il nesso causale tra
l'omesso controllo della contabilità da parte dei sindaci
della società e il fallimento, va affermata la
responsabilità professionale degli stessi professionisti.
Infatti, il danno non si sarebbe verificato se i sindaci
avessero tenuto una condotta conforme ai loro doveri e se
gli eventi successivi si fossero evoluti secondo le regole.
Perché sussista il nesso causale è necessario dimostrare che
l'omissione dei controlli aveva consentito di proseguire
l'attività e che l'effettuazione dei controlli avrebbe
consentito di evitare il danno - Cassazione, sentenza 13081
del 27.05.2013 AVVOCATO L'opinabilità della soluzione giuridica che si prospetti al
professionista gli impone una diligenza e una perizia
adeguate alla contingenza: la scelta professionale sulla
strategia processuale da adottare deve cadere sulla
soluzione che consenta di tutelare maggiormente il cliente.
L'esistenza di un contrasto giurisprudenziale e la
compresenza di approdi non collimanti fra loro non possono
costituire esimenti dalla colpa grave per l'avvocato che
adotti la linea poi disattesa in sede di composizione del
conflitto - Cassazione, sentenza 18612 del 05.08.2013
COMMERCIALISTA Costituisce obbligo di diligenza del commercialista nel
redigere la dichiarazione dei redditi non appostare costi
privi di documentazione o non inerenti all'anno della
dichiarazione, comportamento che radica la responsabilità
del consulente nei confronti del contribuente dichiarante e
che ne giustifica la condanna al risarcimento dei danni. Se
viola questo obbligo, il professionista deve essere
condannato a pagare la metà delle sanzioni erariali, in
virtù della colpa concorrente del contribuente - Cassazione,
sentenza 9916 del 26.04.2010 DIRETTORE DEI LAVORI Il direttore dei lavori è responsabile, in concorso con
l'appaltatore, dei difetti dell'opera appaltata e deve
rispondere di eventuali danni verso terzi. Circa la
responsabilità conseguente a vizi o difformità dell'opera
appaltata, il direttore dei lavori per conto del committente
presta un'opera professionale in esecuzione di
un'obbligazione di mezzi e non di risultati, ma deve
utilizzare le proprie risorse intellettive e operative per
assicurare il risultato che il committente si aspetta di
conseguire - Cassazione, sentenza 1218 del 27.01.2012
MEDICO La responsabilità del medico dipendente da struttura
sanitaria pubblica o privata va ricondotta agli articoli
1218 e seguenti del Codice civile. L'inquadramento vale per
il medico e per la struttura. La Cassazione ha inquadrato la
responsabilità dell'operatore sanitario nell'ambito
contrattuale (l'accettazione del paziente in ospedale
comporta la conclusione di un contratto) e ha ravvisato
natura contrattuale anche nell'obbligazione del medico
dipendente dalla struttura verso il paziente - Tribunale di
Milano, sentenza 6757 del 2013. ---------------
Il nodo. Complesso delimitare il danno.
Perimetro incerto per i risarcimenti. LA DIFESA/ Necessario provare l'assoluta impossibilità di
raggiungere lo scopo o di evitare il pregiudizio al proprio
assistito. Il professionista che commette un errore non scusabile deve
rispondere delle conseguenze arrecate al proprio cliente. Ma
come si determina il danno da risarcire? Si tratta di una
questione importante perché l'entità del danno che si
rischia di provocare in base all'attività svolta è uno degli
elementi chiave per guidare il professionista nella scelta
della polizza giusta. Nel nostro ordinamento, chi commette un'azione illecita (e
in questa definizione rientra anche il comportamento errato
del professionista) deve risarcire tutti i danni che possono
essere messi in relazione causale diretta con la propria
condotta. Nel caso dell'attività professionale, non sempre è
agevole determinare il danno risarcibile perché le azioni e
le omissioni del professionista possono avere molteplici
conseguenze non sempre tutte riferibili alla condotta
colpevole. Così, se è chiaro che il medico deve risarcire le lesioni
conseguenti a una propria errata tecnica operatoria, è anche
evidente che non deve rispondere delle conseguenze menomanti
legate alla malattia contratta dal paziente per causa
naturali non imputabili ad alcuno. Il problema, piuttosto, è
definire la linea di confine tra le diverse situazioni.
Anche il commercialista che sbaglia a redigere il conto
economico per il proprio assistito non è tenuto a versare al
Fisco i maggiori oneri fiscali a carico del contribuente, ma
deve risarcire il danno per le sanzioni comminate
dall'Erario come, ad esempio, gli interessi di mora sul
ritardato pagamento imputabile all'errore del
professionista. Talvolta, prevedere i danni futuri collegati in via diretta
al l'errore non è semplice. Si pensi all'architetto che
commette un errore nella progettazione di un edificio. In
questo caso, il danno può consistere nei costi per le
modifiche strutturali che si rendano necessarie per ovviare
alle carenze del progetto. Ma l'impresa immobiliare
committente può anche subire un danno di tipo finanziario
perché, ad esempio, il tempo necessario al ripristino ad
arte del manufatto ritarda la vendita delle unità
immobiliari finite alla clientela. Mentre il notaio che non
effettua le visure catastali che attestano la libertà da
vincoli dell'unità immobiliare oggetto della compravendita
tra privati, deve risarcire, secondo la giurisprudenza (si
veda la sentenza 14865/2013 della Cassazione) tutti i danni
subiti dall'acquirente che veda inaspettatamente sottratto
alla sua disponibilità il bene pur regolarmente acquistato,
oltre agli onere fiscali e finanziari sostenuti, ad esempio,
per contrarre il mutuo. L'assunzione di un incarico, dunque, pone il professionista
nella condizione di dover fornire al cliente il contributo
tecnico necessario a conseguire il risultato sperato. La
negligenza o l'imperizia nell'eseguire il mandato lo
espongono alla necessità di provare in un giudizio che,
anche adottando la miglior scienza, non sarebbe stato
possibile raggiungere lo scopo (perché impedito da fattori a
lui non riconducibili), o che i danni lamentati si sarebbero
comunque verificati a prescindere dell'errore commesso (tratto da Il Sole 24 Ore del
12.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Iter più snello, ma niente Scia per modificare la sagoma.
Semplificazione a metà sugli
immobili vincolati. Iter semplificato –ma solo in parte– per gli immobili
vincolati. Il decreto del fare (Dl 69/2013, convertito in
legge dal Parlamento) da un lato alleggerisce la procedura
per il rilascio del permesso di costruire per gli immobili
sottoposti a vincoli, mentre dall'altro continua a
richiederlo –o in alternativa la Dia– quando si realizzano
su edifici vincolati interventi di demolizione e
ricostruzione con modifica della sagoma.
Il vincolo di sagoma Di fatto, la deregulation sul rispetto della sagoma
introdotta all'articolo 10, comma 1, lettera c), del Dpr
380/2001 (si veda l'articolo in basso) non si applica agli
immobili assoggettati a vincoli previsti dal Dlgs 42/2004.
Nel caso di questi immobili gli interventi di demolizione e
ricostruzione per essere considerati di ristrutturazione
edilizia devono conservare volumetria e sagoma preesistenti
(negli immobili non vincolati è sufficiente il rispetto solo
del primo vincolo). In altri termini, quando il nuovo
edificio riproduce la stessa forma di quello demolito,
l'intervento può essere essere eseguito con la Scia, se la
forma cambia è indispensabile chiedere il rilascio del
permesso di costruire o la Dia. Peraltro, è bene ricordare
che il quadro delle norme nazionali –così come modificato
dal decreto "del fare"– va sempre coordinato con le norme
regionali (si veda la scheda a destra). L'iter più leggero Relativamente alle procedure, le nuove norme intervengono
sui commi 8, 9 e 10 dell'articolo 20 del Dpr 380/2001. Il
comma 10 viene abrogato: disciplinava il rilascio del
permesso di costruire relativo agli immobili sottoposti a
vincoli la cui tutela è attribuita ad amministrazioni
diverse da quella comunale. La norma abrogata prevedeva che
per acquisire i pareri di quelle amministrazioni, il
responsabile comunale del provvedimento dovesse convocare
una conferenza di servizi. L'attivazione di questa fase
procedurale non era richiesta quando i pareri erano di
pertinenza del Comune oppure quando l'amministrazione
comunale era stata delegata a rilasciarli dalle
amministrazioni titolari della relativa competenza. Con le
nuove norme l'ufficio comunale convoca la conferenza dei
servizi se lo ritiene opportuno, ma non è più obbligato a
farlo. Rilevanti sono anche le modifiche introdotte al comma 9
dell'articolo 20. Nella versione precedente, questa norma
prevedeva che nel caso di parere negativo delle
amministrazioni competenti a esprimersi sui vincoli
ricadenti sull'immobile, «decorso il termine per l'adozione
del provvedimento conclusivo, sulla domanda di permesso di
costruire si intende formato il silenzio-rifiuto». Se gli
altri enti erano contrari, pertanto, l'amministrazione
comunale non era tenuta ad assumere alcun provvedimento in
risposta all'istanza presentata da un'impresa o un
cittadino. Con le nuove regole, invece, la procedura di rilascio o di
diniego del permesso di costruire deve concludersi con un
atto dell'amministrazione comunale, che deve essere
notificato all'interessato e nel quale devono essere
indicati il termine e l'autorità a cui è possibile ricorrere
nel caso di non accoglimento della richiesta. Pur senza ammettere una valutazione meno rigorosa dei
vincoli paesaggistici e storico-artistici, l'eliminazione
del silenzio-rifiuto introduce una maggiore tutela nei
rapporti con la pubblica amministrazione dei soggetti
titolari di diritti su quegli immobili: non possono
accampare alcun diritto in più a vedere accolte le proprie
proposte, ma hanno il diritto di conoscere le ragioni per le
quali i progetti avanzati non possono essere realizzati.
Il rendimento energetico Novità anche in fatto di applicazione del Dlgs 192/2005,
relativamente alle regole sul rendimento energetico degli
edifici vincolati. In sede di conversione del Dl 63/2013, si
è infatti intervenuti sulla norma che escludeva dal
l'applicazione del Dlgs 192/2005 gli edifici vincolati «solo
nel caso in cui il rispetto della prescrizione implichi
un'alterazione sostanziale del loro carattere e aspetto con
particolare riferimento ai profili storici e artistici». Ora
si precisa che sono le amministrazioni titolari delle
autorizzazioni relative al vincolo a dover chiarire se «il
rispetto della prescrizione imposta implichi un'alterazione
sostanziale del carattere o aspetto» dell'edificio. Viene quindi reintrodotto il vincolo paesaggistico tra
quelli che possono far venir meno l'applicazione del Dlgs
192, ferma restando la valutazione affidata all'autorità
preposta al vincolo. La sola violazione di uno dei vincoli,
inoltre, dovrebbe essere sufficiente a disapplicare il
decreto. --------------- Le altre misure. Le disposizioni per gli edifici «ordinari»
fuori dai centri storici.
Ricostruzione anche difforme e otto anni per finire i lavori. Per classificare come ristrutturazione edilizia la
demolizione e ricostruzione di un edificio non sarà più
necessario rifarlo esattamente uguale a come era in
precedenza, con la stessa sagoma. I Comuni possono, però,
limitare l'applicazione di questa norma nei centri storici. Sono alcune delle semplificazioni che il decreto legge "del
fare" (Dl 69/2013) ha apportato, in materia di edilizia, al
testo unico dell'edilizia. La modifica introdotta all'articolo 10, comma 1, lettera c),
del Dpr 380/2001, permette di includere la demolizione di un
edificio e la sua successiva ricostruzione (anche di ruderi
di consistenza certa prima del crollo) con una forma
differente dalla precedente tra gli interventi di
ristrutturazione edilizia, con la possibilità, quindi, di
realizzare i progetti con segnalazione certificata di inizio
attività (Scia). Finora questi interventi passavano per
nuove costruzioni, con la conseguenza che per realizzarli
occorreva il permesso di costruire o la denuncia di inizio
attività (Dia). Naturalmente, tra il vecchio e il nuovo
edificio deve restare invariata la volumetria. In sede di conversione del Dl 69 è stata introdotta una
limitazione all'applicazione generalizzata e automatica
della semplificazione sulla sagoma. Entro il 30 giugno del
prossimo anno i sindaci devono, se non vogliono che al loro
posto lo faccia un commissario regionale o ministeriale,
individuare le aree dei centri storici e le altre
classificate come zone omogenee A dal decreto ministeriale
1444/1968 nelle quali per gli interventi di demolizione e
ricostruzione con modifica della sagoma continua ad essere
necessario il permesso di costruire. Nelle restanti aree
delle zone A, i lavori potranno iniziare solo dopo 30 giorni
dalla presentazione della Scia. In queste zone
l'applicazione della Scia a interventi con modifica della
sagoma è sospesa: sarà possibile solo dopo che i Comuni
avranno indicato le aree assoggettate a permesso di
costruire. Questa novità si lega a un'altra disposizione del decreto,
in base alla quale lo sportello unico per l'edilizia (Sue) è
diventato l'ufficio del Comune che deve acquisire tutti i
pareri e nullaosta anche per gli interventi realizzati con
la comunicazione di inizio dei lavori e la Scia. L'interessato può presentare la richiesta di acquisizione di
parere contestualmente alla Scia o comunicazione. In
alternativa può dividere in due tempi l'operazione: prima
chiede al Sue di acquisire gli assensi necessari e poi, una
volta ottenuti, presenta la comunicazione del titolo
abilitativo. Un'altra misura anticrisi riguarda la validità temporale dei
titoli abilitativi. Con il decreto del fare non occorre più
alcuna motivazione per chiedere, al Comune, di iniziare i
lavori oltre il termine di un anno dal ritiro del permesso
di costruire o per terminarli oltre i tre anni dalla posa
della prima pietra. D'ora in avanti per ottenere una proroga di due anni di
ognuno di quei termini è sufficiente una semplice istanza,
senza che l'amministrazione comunale possa sindacare sul
perché. In sostanza vengono raddoppiati da quattro a otto gli anni a
disposizione degli interessati per completare gli
interventi. Le imprese, quindi, hanno più tempo per
realizzare gli interventi senza chiedere il rilascio di un
nuovo permesso e senza pagare il contributo commisurato agli
oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione per la
parte dell'opera non completata entro il termine di validità
del titolo. La proroga vale anche per gli interventi
realizzati con Dia e Scia. Finora solo nelle Marche operava
la proroga automatica dei titoli abilitativi. ---------------
Il recepimento. Attività edilizia libera a geometria variabile. Meno limiti per alcune attività di edilizia libera. È il
risultato delle modifiche apportate dal decreto "del fare"
al comma 2 dell'articolo 6 del Dpr 380/2001 che elenca gli
interventi per la cui realizzazione è richiesta una
preventiva comunicazione di inizio lavori al Comune, anche
tramite internet (nel comma 1 dello stesso articolo sono
riportate le attività libere per le quali non occorre
nessuna comunicazione). Per gli interventi di manutenzione che non toccano le parti
strutturali dell'edificio, non comportano aumento del numero
delle unità immobiliari e non implichino incremento dei
parametri urbanistici –nonché per le attività edilizie
relative a modifiche interne relative alla superficie
coperta dei capannoni e negozi oppure per il cambio della
destinazione d'uso degli immobili in cui si svolge
l'attività di una impresa– è inoltre necessario trasmettere
anche i dati dell'impresa incaricata dei lavori, gli
elaborati progettuale e la relazione di un tecnico
abilitato. Prima dell'entrata in vigore del decreto, il sottoscrittore
della relazione poteva essere solo un libero professionista
indipendente sia dall'impresa esecutrice sia dal
committente. Soprattutto per le imprese con propri uffici
tecnici ciò costituiva un costo aggiuntivo. Ora questa
condizione è superata: il tecnico può essere anche un
dipendente di uno dei due soggetti interessati
all'intervento. Questi interventi, al pari di ogni altra attività di
edilizia libera, possono essere realizzati senza alcun
titolo abilitativo solo se rispettano gli strumenti
urbanistici comunali, le norme antisismiche, sulla
sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie e quelle relative
all'efficienza energetica; devono anche tenere conto delle
disposizioni contenute nel Dlgs 42/2004. Dall'esame delle norme regionali che hanno recepito il
contenuto del testo unico dell'edilizia (o parti di esso),
si ricava che nell'elencazione delle attività di edilizia
libera molte Regioni si sono attenute a quando previsto dal
Dpr 380/2001. In qualche caso è stata mantenuta la
distinzione tra le attività di edilizia libera per le quali
è richiesta la comunicazione anticipata al Comune e quelle
per le quali essa non occorre. In Umbria la comunicazione è
richiesta per i cambi d'uso di non più del 50% della
superficie utile dell'unità immobiliare, entro un tetto
massimo di 50 mq. In Sardegna la comunicazione è richiesta
per tutti gli interventi. La lista delle attività libere è
molto lunga in Friuli Venezia Giulia. Se non sono
stabilmente ancorate al terreno e hanno allacciamenti mobili
ai servizi anche le strutture ricettive turistiche all'aria
aperta possono essere realizzate senza titolo abilitativo
(tratto da Il Sole 24 Ore del
12.08.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Trasparenza.
Le indicazioni arrivate dalla Civit rendono meno gravosi gli
oneri per i Comuni sotto i 15mila abitanti. Redditi e compensi senza segreti.
Entro il 20 ottobre la pubblicazione della situazione degli
amministratori.
Entro il 20 ottobre tutte le amministrazioni pubbliche
compresi gli enti pubblici vigilati, a quelli sui quali le
Pa hanno potere di indirizzo e di controllo e le società
partecipate devono pubblicare sul proprio sito la situazione
reddituale e patrimoniale degli amministratori e dei
congiunti che acconsentano alla trasparenza.
All'avvicinarsi
della data ultima -180 giorni dall'entrata in vigore del Dlgs 33/2013 sulla trasparenza- sono arrivate le
indicazioni della Civit (delibera
31.07.2013 n. 65 e
delibera 31.07.2013 n. 66). Le deliberazioni rispondono a numerosi dubbi applicativi
sollevati, in particolare sull'applicazione agli
amministratori (cioè sindaci, assessori e consiglieri) e ai
loro congiunti dei vincoli di pubblicità del reddito e del
patrimonio nei piccoli Comuni. Per tutte le Pa vanno pubblicati: l'atto di nomina, con la
indicazione della durata dell'incarico; il curriculum;
l'elenco dei compensi connessi alla carica, compresi i
rimborsi spese e le indennità di missione; le informazioni
relative ad altre cariche, con i compensi percepiti; gli
altri incarichi che determinano comunque oneri a carico
delle Pa. Le informazioni sugli amministratori si
differenziano a secondo che la popolazione dell'ente sia
inferiore o superiore a 15mila abitanti. Obblighi differenziati Solo agli amministratori degli enti con più di 15mila
abitanti si applicano i vincoli di pubblicità dei redditi,
del patrimonio e delle spese elettorali. I vincoli, elencati nella lettera f) dell'articolo 14 del
Dlgs 33/2013, sono: dichiarazione sui diritti reali relativi
e beni immobili e ad a beni mobili registrati; azioni e
quote di partecipazione a società; esercizio di funzioni di
amministratore o di sindaco di società; copia dell'ultima
dichiarazione dei redditi; dichiarazione sulle spese
sostenute e le obbligazioni assunte in campagna elettorale. Essi si applicano anche agli amministratori delle Unioni e
delle Comunità montane che hanno più di 15mila abitanti,
nonché (scelta peraltro assai discutibile, si veda Il Sole
24 Ore del 4 agosto) ai dirigenti scolastici. In questi casi
è prevista la pubblicità sulla condizione reddituale e
patrimoniale anche del coniuge non separato e dei congiunti
fino al secondo grado (nonni, genitori, figli, nipoti in
linea retta -cioè figli di figli-, fratelli e sorelle). I
congiunti possono non consentire alla pubblicazione. In caso di inadempienza maturano sanzioni che vanno da 500 a
10mila euro in capo agli amministratori; il soggetto che
deve garantire l'applicazione di queste disposizioni va
individuato da ogni ente e, fino a che ciò non sia avvenuto,
il compito spetta ai responsabili anticorruzione per i
procedimenti disciplinari e, nelle società,
all'amministratore. Per i dirigenti matura una
responsabilità di risultato in caso di mancato rispetto
della previsione. Gli organismi di valutazione sono tenuti
al controllo. La norma si applica non solo a tutte le Pa (articolo 1,
comma 2, del Dlgs 165/2011), ma anche agli enti pubblici
vigilati, a quelli sui quali le Pa hanno potere di indirizzo
e/o controllo; alle società partecipate, anche con quota
minoritaria (salvo quelle quotate in Borsa) e agli enti di
diritto privato controllati (intendendo come tali anche
quelli in cui il Comune abbia poteri di nomina), comprese le
fondazioni. Facendo seguito alle indicazioni sulla applicazione delle
norme sulla inconferibilità ed incompatibilità del Dlgs n.
39/2013, contestate dall'Anci e che hanno spinto con tutta
probabilità il legislatore a sottrarre alla competenza della
Civit la vigilanza sulla sua applicazione, si chiarisce che
il vincolo riguarda anche gli amministratori in carica alla
data di entrata in vigore del decreto. --------------- I passi
01 | GLI OBBLIGHI Sono soggetti agli obblighi di pubblicità tutti gli
amministratori di Pa, società partecipate controllate e
fondazioni, nonché gli amministratori eletti o nominati
prima del 20 aprile scorso (data di entrata in vigore del
Dlgs 33/2013) 02 | I COMPENSI Per tutti gli amministratori l'obbligo comprende la
pubblicazione di: nomina, durata, curriculum, compensi
percepiti, altri incarichi, compensi percepiti da altre Pa e
da altri soggetti 03 | I GRANDI ENTI
Per gli amministratori degli enti con oltre 15mila abitanti
vanno pubblicati anche: la dichiarazione dei redditi, i beni
immobili e mobili registrati posseduti, le azioni, le quote
di società, le spese elettorali, comprese quelle di coniugi
e congiunti fino al secondo grado se questi acconsentono
04 | LE SCADENZE Gli obblighi di pubblicazione sul sito internet devono
essere soddisfatti entro il 20 ottobre. Previste sanzioni da
500 a 10mila euro
(tratto da Il Sole 24 Ore del
12.08.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Bilanci.
Nessun vincolo di modelli.
Ultima chiamata per la relazione di inizio mandato.
Sta per scadere, tra la fine di agosto e i primi giorni di
settembre, il nuovo adempimento della relazione di inizio
mandato. La novità, introdotta all'articolo 4-bis del Dlgs
149/2011 (dal decreto legge 174/2012), inizia ad applicarsi
da quest'anno a partire dai Comuni e dalle province che
hanno rinnovato gli organi amministrativi nelle elezioni di
maggio e giugno scorso. La scadenza, che la norma indica nel
novantesimo giorno dall'inizio del mandato, concretamente
varia a seconda della data di proclamazione degli eletti.
Per un sindaco eletto al primo turno, che ha iniziato il
mandato il 27 maggio, ad esempio, il termine scadrà il 25
agosto. La relazione di inizio mandato è predisposta dal
responsabile del servizio finanziario o dal segretario
generale ed è sottoscritta dal sindaco o dal presidente
della provincia. Non è richiesta la sottoscrizione
dell'organo di revisione. In merito al contenuto il legislatore si è limitato ad
affermare che la relazione di inizio mandato è volta a
verificare la situazione finanziaria e patrimoniale e la
misura dell'indebitamento degli enti. Non è stato approvato uno schema di riferimento per cui ogni
ente sceglie liberamente come riportare i dati e le
informazioni. La base di riferimento è sicuramente il
rendiconto per l'esercizio 2012 approvato entro il 30 aprile
scorso; per gli enti che hanno deliberato il preventivo 2013
andranno riportati anche i valori previsionali. Il contenuto
minimo in ogni caso dovrebbe includere: la situazione
patrimoniale al 01.01.2013 rappresentata dal conto del
patrimonio; la situazione finanziaria relativa alle entrate
e alle spese dell'ultimo bilancio approvato, gli equilibri
di bilancio, il risultato di amministrazione, il fondo
cassa; lo stock di debito e la sua evoluzione (ed eventuali
contratti derivati); il patto di stabilità interno.
Considerando che gli amministratori locali saranno chiamati
a misurarsi a fine mandato con questo strumento, potrebbero
essere ripresi dai contenuti più ampi della relazione di
fine mandato, secondo lo schema approvato con il decreto del
ministero del l'interno 26.04.2013 (in «Gazzetta
Ufficiale» n. 124 del 29.05.2013). È importante sottolineare il collegamento con la procedura
di riequilibrio finanziario pluriennale. Procedura che può
essere attivata -afferma la norma- ove ne sussistano i
presupposti, sulla base delle risultanze della relazione di
inizio mandato. Pertanto, già con la relazione di inizio
mandato, sindaco e presidenti di provincia in carica devono
effettuare un primo test finalizzato a verificare se la
situazione finanziaria e patrimoniale dell'ente presenta
squilibri strutturali in grado di provocarne il dissesto
finanziario e non superabili con le misure di cui agli
articoli 193 e 194 del Dlgs 267/2000. Come la relazione di fine mandato, anche quella di inizio
dovrebbe essere divulgata sul sito dell'ente per garantirne
la più ampia conoscibilità. Infine, a differenza della relazione di fine mandato, il
documento iniziale non deve essere trasmesso alla sezione
regionale di controllo della Corte dei conti e la sua
mancata predisposizione non è direttamente sanzionata dalla
norma con misure pecuniarie-amministrative. Certamente non
mancheranno i controlli tesi ad accertare la sua effettiva
redazione. Un primo appuntamento con i controlli scatterà
già dal prossimo 30 settembre, quando i sindaci dei comuni
con popolazione superiore ai 15mila abitanti e i presidenti
di provincia dovranno specificare nella relazione semestrale
da inviare alla Corte dei conti se la relazione è stata
predisposta o meno
(tratto da Il Sole 24 Ore del
12.08.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Intesa sull'anticorruzione.
Le misure. In ogni ente un
responsabile unico.
Ogni ente deve avere un solo responsabile per la lotta alla
corruzione e per la trasparenza; questa figura nei piccoli
Comuni -ove è di regola il segretario- può coincidere con
il responsabile dell'ufficio per i procedimenti
disciplinari. Il termine per l'adozione dei piani contro la
corruzione e per la trasparenza è fissato per il 31 gennaio.
La prima scadenza è quindi fissata per il 2014, ma il
termine potrà slittare se entro il 30 settembre non sarà
stato approvato dalla Civit il piano nazionale
anticorruzione. Le disposizioni sulla trasparenza sono
immediatamente operative e non hanno bisogno di
provvedimenti attuativi per entrare in vigore.
Sono queste le principali indicazioni contenute nella
intesa 24.07.2013
raggiunta in sede di Conferenza Unificata. L'intesa, sulla base delle previsioni della legge n.
190/2012, è condizione essenziale per l'adozione del piano
anticorruzione da parte di Regioni ed enti locali. Il responsabile della trasparenza può essere anche una
figura diversa da quello anticorruzione, ma bisogna comunque
garantire il massimo di coordinamento, evitando che siano
individuati come tali dirigenti o dipendenti degli uffici di
staff degli organi politici. Questi responsabili devono
essere dotati di ampia autonomia, anche sul versante delle
risorse. Per le Regioni si deroga al principio della unicità
del responsabile, distinguendo tra le giunte ed i consigli.
Le amministrazioni più complesse possono prevedere referenti
per le singole articolazioni organizzative. Entro il 19 dicembre, decorsi cioè 180 giorni dalla entrata
in vigore di quello nazionale, tutte le Pa si devono dare un
codice di comportamento integrativo. Entro 90 giorni dalla
adozione dello schema nazionale o comunque entro il 27
gennaio tutte le Pa si devono dare il regolamento sulla
individuazione degli incarichi vietati ai propri dipendenti. Occorre ricordare che tanto le Regioni che l'Anci che l'Upi
hanno posto come condizione essenziale per l'intesa la
revisione delle drastiche norme fissate dal Dlgs 39/2013 in
materia di inconferibilità e incompatibilità per gli
amministratori ed i dirigenti, a partire dalla loro
applicazione anche a coloro che erano in carica prima
dell'entrata in vigore del decreto. Nella applicazione di
questa norma viene chiarito che il collocamento in
aspettativa consente il superamento dei vincoli e che la
comunicazione della insussistenza di cause di inconferibilità
ed incompatibilità è annuale. La eventuale esistenza di
queste condizioni è contestata da parte dell'ente che ha
conferito l'incarico dirigenziale ed al segretario è
contestata dal sindaco
(tratto da Il Sole 24 Ore del
12.08.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Una pagella per il sito web.
Gli adempimenti. Primo monitoraggio
sul rispetto del Dlgs
33/2013. Gli organismi di valutazione di tutte le amministrazioni
pubbliche devono inviare entro il 31 dicembre l'attestazione
che l'ente ha o meno assolto ai vincoli dettati in materia
di trasparenza, L'attività deve comunque essere avviata da
subito e gli Oiv devono controllare che siano pubblicati
entro il 30 settembre i modelli sulla verifica del rispetto
di queste previsioni. Sul rispetto della trasparenza la
Civit può richiedere, a campione, l'intervento della Guardia
di Finanza. Nello svolgimento di questi compiti gli
organismi di valutazione si avvalgono dei responsabili della
trasparenza.
Sono queste le principali indicazioni contenute nella
delibera 01.08.2013 n. 71 della Civit. La delibera ricorda, anche sulla scorta del monitoraggio
effettuato lo scorso anno, che tra le informazioni da
pubblicare sono compresi i dati sulle società partecipate, i
debiti scaduti alla fine dello scorso anno, le informazioni
sui procedimenti amministrativi, sui servizi erogati agli
utenti e sull'accesso civico. Deve essere inoltre pubblicata
entro settembre l'attestazione dell'assolvimento di questi
obblighi, comprensiva della relativa griglia di verifica.
Per le società vanno pubblicati l'aggiornamento dell'elenco
delle partecipate, la misura della partecipazione dell'ente,
i costi, la durata, il numero dei rappresentanti e i
relativi oneri. Relativamente ai debiti, sulla base delle previsioni dettate
dal Dl n. 35/2013, occorre pubblicare l'elenco in ordine
cronologico e con l'indicazione degli importi, dei debiti
scaduti per obbligazioni relative a somministrazioni,
forniture, appalti e prestazioni professionali, maturati
alla data del 31.12.2012. E ancora: si devono
pubblicare i piani dei pagamenti per importi aggregati per
classi di debiti e l'elenco completo dei debiti per i quali
è stata effettuata comunicazione ai creditori, con importo e
data prevista di pagamento comunicata. Per i procedimenti
occorre pubblicare il nome del responsabile ed i suoi
riferimenti, i termini per la conclusione, nonché il
responsabile sostituto e le modalità per la sua attivazione.
Per i servizi si deve vigilare sulla indicazione dei costi
complessivi, degli oneri per il personale e dei tempi medi
di erogazione. Per l'accesso civico occorre pubblicare il
nome del responsabile della trasparenza e l'eventuale
indicazione dell'incaricato di sostituirlo in caso di
inadempienza. I controlli della Civit saranno effettuati sia direttamente
sui siti, quanto indirettamente sulle relazioni degli
organismi di valutazione, sia a campione
(tratto da Il Sole 24 Ore del
12.08.2013). |
GIURISPRUDENZA |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati, gli onorari passano dal giudice. La determinazione degli onorari di avvocato e dei diritti di
procuratore costituisce esercizio di un potere discrezionale
del giudice che, qualora sia contenuto tra il minimo e il
massimo della tariffa, non richiede una specifica
motivazione e non può formare oggetto di sindacato in sede
di legittimità.
È di questo avviso la Sez. III civile
della Corte di Cassazione che con la sentenza n. 18906/2013
torna sul nodo tariffe, anche se il riferimento è relativo
al tariffario del 2004 (nel frattempo abrogato). Tuttavia la
sentenza ritorna di attualità in quanto rimette al giudice
il potere di definire il compenso, che poi è il nuovo
sistema che il legislatore ha scelto qualora professionista
e cliente non trovino un accordo. Con unico motivo la
ricorrente aveva fatto presente la violazione degli articoli
91, 92 del Cpc, e delle tariffe professionali del 05.01.1991, dell'01.04.1995 e del
02.06.2004, in relazione
all'articolo 360, 1° comma, n. 5, del Cpc. La ricorrente contestava che la Corte di merito aveva
liquidato le spese del doppio grado di giudizio riducendo «senza
alcuna giustificazione e motivazione gli importi esposti
nelle due notule con analitica specificazione delle singole
partite con riferimento alle prestazioni effettuate nel
corso di entrambi i giudizi», violando i minimi
tariffari e riducendo «molte voci dalle due notule senza
indicarle», a tale stregua non consentendole di «esaminarle
e di riscontrare se gli importi liquidati fossero stati
congrui»
(tratto da ItaliaOggi del
14.08.2013). |
APPALTI:
Cassazione penale. La rilevanza dell'intesa tra imprese.
Turbativa d'appalto con collegamento di fatto Basta un collegamento sostanziale tra imprese per fare
scattare la turbativa della gara pubblica. Senza alcun
profilo di contrasto con la giurisprudenza comunitaria e
anche se il risultato non è stato raggiunto.
Lo puntualizza
la Corte di Cassazione, Sez. II penale, con la
sentenza
13.08.2013 n. 34917. La pronuncia ha così
respinto il ricorso presentato dalla difesa di un uomo
condannato per alcuni episodi di turbata libertà nel
procedimento di scelta del contraente. La Cassazione sottolinea innanzitutto che, per la
configurazione del reato, la prova della collusione e,
quindi, del dolo dei concorrenti, può anche essere tratta
dal collegamento sostanziale tra le imprese partecipanti
alla gara. Da questa circostanza, infatti, si può accertare l'esistenza
di un unico centro di interessi che punta, attraverso la
parcellizzazione delle offerte, ad aumentare le possibilità
di aggiudicarsi l'appalto alterando il normale gioco della
concorrenza. A questo riguardo, la Cassazione avalla, tra l'altro, il
ragionamento della Corte di appello (che aveva proceduto
alla condanna dell'uomo pur cancellando il capo
d'imputazione dell'associazione per delinquere), per la
quale, nel dare rilevanza al collegamento di fatto tra
imprese, non esistono profili di contrasto con il principio
enunciato dalla Corte di giustizia europea del 2009. Allora
i giudici Ue stabilirono che la pubblica amministrazione non
può escludere automaticamente dalla gara le imprese che
risultano collegate da un rapporto formale di controllo; va
invece effettuato, sempre secondo la Corte europea, una
verifica concreta dell'impatto del legame all'interno della
procedura. Di più, la Cassazione si concentra poi sulla fisionomia del
reato e sulla rilevanza penale delle condotte che lo
concretizzano. Ha così modo di precisare che il delitto di
turbata libertà degli incanti, se realizzato con la condotta
di collusione, si consuma nel momento in cui è stata
presentata l'ultima delle offerte illecitamente concordate,
mentre nessuna importanza deve essere assegnata al
successivo atto di aggiudicazione perché l'illecita
influenza sulla procedura si verifica per il solo fatto
della presentazione delle offerte. Inoltre, osserva ancora la sentenza, il reato in questione è
un reato di pericolo che si configura non solo nel caso di
un danno effettivo, ma anche nel caso di danno mediato e
potenziale, «non occorrendo l'effettivo conseguimento del
risultato perseguito dagli autori dell'illecito, ma la
semplice idoneità degli atti a influenzare l'andamento della
gara». Per questo, già nei precedenti della Corte, è
possibile trovare esempi di attribuzione di responsabilità
penale allo scambio di informazioni tra più imprese prima
dello svolgimento della gara, avvenuto con l'obiettivo di
determinarne l'esito, malgrado poi, alla prova dei fatti,
avesse inciso in maniera modesta sulla determinazione degli
indici per l'individuazione dell'aggiudicatario e non fosse
in assoluto idoneo a raggiungere l'obiettivo (tratto da Il Sole 24 Ore del
14.08.2013). |
ENTI LOCALI:
Per i benefici pubblici doppia corsia in
giudizio. Revoche al giudice
ordinario, i difetti ab origine al Tar. Benefici pubblici, una doppia corsia per i giudizi. La Sez.
II-ter del TAR Lazio-Roma, con
sentenza 13.08.2013 n. 7944 ha affermato che
appartengono alla cognizione del giudice amministrativo
quelle sole controversie coinvolgenti l'esercizio di poteri
autoritativi da parte della p.a. che intervenga per difetto
delle condizioni originarie che legittimavano il
riconoscimento del beneficio pubblico; mentre spettano al
giudice ordinario le controversie aventi ad oggetto la
revoca o la decadenza dal beneficio medesimo determinata dal
successivo inadempimento del destinatario. Il Tribunale ha evidenziato che in materia di provvedimenti
a contenuto revocatorio incidenti su contributi,
finanziamenti e sovvenzioni erogate da pubbliche
amministrazioni, si è, infatti, affermato un costante
orientamento che utilizza un criterio generale in tema di
riparto di giurisdizione fondato sull'individuazione del
segmento procedurale interessato dal provvedimento oggetto
di vaglio giurisdizionale e sulla causa della contestata
iniziativa dell'Amministrazione. Si rende, pertanto, necessario tenere distinto il momento
«statico» della concessione del contributo, rispetto a
quello «dinamico», individuabile nell'impiego del contributo
medesimo. Al primo segmento –spettante alla giurisdizione del giudice
amministrativo– appartengono provvedimenti, comunque
denominati (revoca, decadenza), di ritiro del contributo,
anche susseguenti all'erogazione, ove costituiscano
manifestazione del potere di autotutela amministrativa. In questa fase l'Amministrazione effettua una valutazione
dei requisiti oggettivi e soggettivi per l'ammissione a
contributo, con ciò incidendo su posizioni di interesse
legittimo. Nel sottolineare come, esaurita detta fase,
l'Amministrazione ben possa riaprirla, proponendo una
diversa valutazione dei medesimi requisiti, va comunque
rilevato, secondo il Tar, che le relative questioni (e,
conseguentemente, le rivenienti controversie) appartengono
alla giurisdizione del giudice amministrativo. Diversamente, ogni altra fattispecie, che abbia ad oggetto
le modalità di utilizzazione del contributo e il rispetto
agli impegni assunti, involge posizioni di diritto
soggettivo, relative alla conservazione del finanziamento,
la cui cognizione spetta, quindi, alla giurisdizione
ordinaria (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V,
16.02.2010 n. 884 e sez. VI, 04.12.2009 n. 7596). In tale fase, cioè fase dell'esecuzione, o fase dinamica,
l'Amministrazione valuta inadempienze e altri comportamenti
del beneficiario sanzionabili con la decadenza, sicché, in
disparte il nomen juris adoperato
dall'Amministrazione per definire le proprie determinazioni,
poiché i provvedimenti di questa seconda fase incidono su
situazioni di diritto soggettivo, le relative questioni
appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario (cfr.
Tar Sicilia, Catania, sez. IV, 09.02.2012 n. 341; Tar Lazio,
sez. III, 01.04.2011 n. 2867; Tar Calabria, Catanzaro, sez.
II, 11.02.2011 n. 203)
(tratto da ItaliaOggi del
20.08.2013). |
PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO: La
segnalazione del vigile inevasa dal comune.
Strade pericolose, ufficio condannato. La negligenza dell'ufficio tecnico a fronte delle ripetute
segnalazioni di pericolo stradale inoltrate anche dalla
polizia municipale comporta la condanna penale
dell'ingegnere.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI pen., con la
sentenza 31.07.2013 n. 33253. Il
responsabile dell'ufficio tecnico di un comune siciliano è
stato condannato per omissione di atti d'ufficio a seguito
della mancata segnalazione di una insidia stradale segnalata
anche dai vigili. Contro questa decisione l'interessato ha proposto censure
fino in Cassazione ma senza successo. Una strada comunale ha
evidenziato una grossa anomalia a causa della presenza di
radici. Nonostante le ripetute segnalazioni anche per
sinistro stradale l'ufficio tecnico del comune di Favignana
non ha preso alcuna precauzione a favore della sicurezza
della circolazione lamentando la mancanza di fondi per il
ripristino del manto stradale. Per questo motivo l'ingegnere
responsabile è stato ritenuto colpevole del reato di
omissione di atti d'ufficio e condannato a 4 mesi di
reclusione per violazione dell'articolo 328 cp.. Anche in mancanza dei fondi necessari per il ripristino,
specifica il collegio, l'ufficio tecnico diligentemente
avrebbe potuto almeno segnalare il pericolo con
installazione di segnaletica temporanea ad hoc. Questa
incombenza spetta senz'altro all'ufficio comunale preposto
alla manutenzione, prosegue la sentenza, che ha quindi
completamente trascurato di porre in essere ogni minima
cautela per la sicurezza degli utenti. L'inerzia del
pubblico ufficiale in questo caso assume quindi la valenza
di un rifiuto degli atti dovuti. In buona sostanza il responsabile dell'ufficio, nonostante
la certa acquisizione della conoscenza dell'insidia e del
verificarsi pure di un sinistro stradale ha omesso di
adottare qualsiasi cautela a partire dall'installazione di
birilli e segnali di pericolo sicuramente reperibili senza
spese nel magazzino comunale. Nessuna scusa quindi può
essere utilizzata dal dirigente comunale indagato anche
perché tra le altre cose la stessa polizia municipale ha
segnalato per ben due volte il pericolo ma nessun operaio è
intervenuto
(tratto da ItaliaOggi Sette del
19.08.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: I periodi di riposo non goduti devono essere monetizzati.
Indennità sostitutiva anche oltre i
motivi di servizio. La mancata fruizione delle ferie deve essere indennizzata,
anche se non dipende da esigenze di servizio.
Lo ha
precisato la Corte di Cassazione, Sez. civile lavoro, che, con la
sentenza
26.07.2013 n. 18168, ha confermato il pagamento,
deciso dai giudici di merito, dell'indennità sostitutiva a
favore di un dipendente di una Regione per un monte ferie
non godute. La vicenda è arrivata nelle aule di giustizia perché, a
fronte della richiesta del dipendente, la Regione aveva
negato il pagamento affermando, tra l'altro, che il
contratto collettivo nazionale imponeva la monetizzazione
solo delle ferie non godute per esigenze di servizio. Ma il
tribunale, con un ragionamento condiviso anche dalla Corte
d'appello, aveva accolto il ricorso del dipendente
sottolineando il carattere irrinunciabile delle ferie. La Regione non si è arresa e ha portato la vicenda in
Cassazione, che, a sua volta, ha rigettato il ricorso. In
particolare, i giudici hanno affermato il principio secondo
cui, in relazione al carattere irrinunciabile del diritto
alle ferie, se in concreto non siano effettivamente fruite,
anche senza responsabilità del datore di lavoro, spetta al
lavoratore l'indennità sostitutiva. Indennità, precisa la
Corte, che ha, per un verso, carattere risarcitorio, in
quanto idonea a compensare il danno costituito dalla perdita
di un bene: il riposo con recupero delle energie
psicofisiche, la possibilità di meglio dedicarsi a relazioni
familiari e sociali, l'opportunità di svolgere attività
ricreative e simili. Per altro verso, l'indennità
costituisce erogazione anche di natura retributiva perché
rappresenta il corrispettivo dell'attività lavorativa resa
in periodo che, pur essendo di per sé retribuito, avrebbe
invece dovuto essere non lavorato perché destinato al
godimento delle ferie annuali, restando indifferente
l'eventuale responsabilità del datore di lavoro per il loro
mancato godimento. Del resto, la Cassazione ha escluso che le clausole del
contratto collettivo possano bloccare la monetizzazione
delle ferie. Infatti, ha precisato l'estensore, in
considerazione del carattere irrinunciabile delle ferie, la
clausola del contratto collettivo, anche se esclude la loro
monetizzazione, va interpretata nel senso che il dipendente
ha il diritto al pagamento dell'indennità sostitutiva se la
mancata fruizione non è dipesa da una causa a lui
imputabile. Una pronuncia in linea con la sentenza 16735 del 04.07.2013, con cui la Cassazione ha affermato che il fatto che il
dipendente non abbia avanzato formale richiesta di ferie è
indifferente ai fini della loro mancata fruizione e, quindi,
per la conseguente monetizzazione. Una simile ipotesi,
prevista eventualmente dal contratto collettivo, si pone in
contrasto con l'articolo 2109 del Codice civile, secondo cui
è il datore di lavoro che stabilisce le ferie e comunica al
lavoratore il periodo stabilito per il godimento, tenuto
conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del
prestatore di lavoro (tratto da Il Sole 24 Ore del
12.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il computo degli oneri di urbanizzazione non è
attività autoritativa e la contestazione sulla relativa
corresponsione è proponibile nel termine di prescrizione
decennale a prescindere dall'impugnazione dei provvedimenti
adottati o dal sollecito a provvedere in via di autotutela. Trattasi infatti di determinazione che obbedisce a
prescrizioni desumibili da tabelle, in ordine alla quale
l'Amministrazione comunale si limita ad applicare i detti
parametri, aventi anche per essa natura cogente, con
conseguente esclusione di qualsivoglia discrezionalità. --------------- Per reperire una definizione di ristrutturazione edilizia è
necessario richiamare l'art. 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 che
definisce ristrutturazione gli interventi di trasformazione
di organismi edilizi preesistenti in misura tale anche da
condurre alla realizzazione di un organismo edilizio in
tutto diverso dal precedente, mentre considera come “nuova
costruzione” tutti gli interventi di trasformazione del
territorio non rientranti nelle categorie precedentemente
descritte dalla medesima disposizione. L'elemento discretivo tra le due categorie, ai sensi
dell'art. 3 citato, risiede, dunque, nel fatto che nei casi
di ristrutturazione vi è preesistenza di un manufatto,
elemento invece non richiesto nei casi di nuova costrizione
in cui la trasformazione concerne più propriamente il "solo"
territorio. Per quanto attiene al soppalco, lo stesso, se non di modeste
dimensioni, per la sua struttura e funzione, comporta un
aumento della superficie utile e rientra nelle ipotesi di
ristrutturazione edilizia. Nel caso di specie, è emerso nitidamente che è stata mutata
la destinazione d’uso di un sottotetto al primo piano da
uffici ad abitazione del custode con ampliamento della
volumetria dello stesso e sono stati realizzati due
soppalchi di non modeste dimensioni. Ne deriva che gli interventi edilizi realizzati rientrano
nelle ipotesi di ristrutturazione edilizia, richiamate
dall’art. 5, co. 1, lett. a), della legge regionale. Ne deriva che erroneamente l’amministrazione ha calcolato
gli oneri concessori applicando il comma 2 della legge
regionale, che, invece, si riferisce alle nuove costruzioni,
mentre avrebbe dovuto tener conto della superficie virtuale
ottenuta dividendo il costo complessivo delle opere oggetto
di concessione per il costo unitario stabilito annualmente
con il decreto ministeriale previsto dall'articolo 6 della
legge 28.01.1977, n. 10. In via preliminare, il Collegio ritiene di
aderire all’orientamento di quella parte della
giurisprudenza amministrativa, la quale ha precisato che il
computo degli oneri di urbanizzazione non è attività autoritativa e la contestazione sulla relativa
corresponsione è proponibile nel termine di prescrizione
decennale a prescindere dall'impugnazione dei provvedimenti
adottati o dal sollecito a provvedere in via di autotutela;
trattasi infatti di determinazione che obbedisce a
prescrizioni desumibili da tabelle, in ordine alla quale
l'Amministrazione comunale si limita ad applicare i detti
parametri, aventi anche per essa natura cogente, con
conseguente esclusione di qualsivoglia discrezionalità
(cfr., Consiglio di Stato sez. IV, 28.11.2012, n.
6033). Ciò premesso, in relazione al calcolo dei contributi
concessori la legge della Regione Lombardia 60/1977 e
successive modifiche, prevede espressamente che per le
costruzioni o gli impianti destinati alle attività
industriali o artigianali nonché alle attività turistiche,
commerciali e direzionali, gli oneri sono calcolati al metro
quadrato di superficie lorda complessiva di pavimento,
compresi i piani seminterrati e interrati la cui
destinazione d'uso comporti una permanenza anche temporanea
di persone. Per gli interventi di restauro, risanamento conservativo e
ristrutturazione, gli oneri di urbanizzazione, se dovuti,
sono riferiti alla superficie virtuale ottenuta dividendo il
costo complessivo delle opere oggetto di concessione per il
costo unitario stabilito annualmente con il decreto
ministeriale previsto dall'articolo 6 della legge 28.01.1977, n. 10, quando si tratta di edifici con destinazione
diversa da quella residenziale. Tanto premesso in punto di fatto, per vagliare la fondatezza
del ricorso, occorre, quindi, verificare se gli interventi
edilizi realizzati dalla società ricorrente, su edificio con
destinazione diversa da quella residenziale, siano da
qualificare come nuova superficie (secondo l’assunto
dell’amministrazione) ovvero come ristrutturazione o
risanamento conservativo (secondo la ricostruzione della
società ricorrente). E’ emerso in maniera incontestata che la società ricorrente
ha realizzato un mutamento di destinazione d’uso di un
sottotetto al primo piano da uffici ad abitazione del
custode per ampliamento della stessa, ha installato due
soppalchi metallici, uno di superficie pari a mq. 70 e
l’altro di estensione pari ad una preesistente soletta in
cemento armato. A parer della società ricorrente, tali interventi edilizi
rappresenterebbero una ristrutturazione o un’ipotesi di
risanamento conservativo, in quanto le presunte maggiori
superfici utili realizzate non sarebbero destinate ad
attività commerciali, ma solo al deposito di merci. Per reperire una definizione di ristrutturazione edilizia è
necessario richiamare l'art. 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380
che definisce ristrutturazione gli interventi di
trasformazione di organismi edilizi preesistenti in misura
tale anche da condurre alla realizzazione di un organismo
edilizio in tutto diverso dal precedente, mentre considera
come “nuova costruzione” tutti gli interventi di
trasformazione del territorio non rientranti nelle categorie
precedentemente descritte dalla medesima disposizione.
L'elemento discretivo tra le due categorie, ai sensi
dell'art. 3 citato, risiede, dunque, nel fatto che nei casi
di ristrutturazione vi è preesistenza di un manufatto,
elemento invece non richiesto nei casi di nuova costrizione
in cui la trasformazione concerne più propriamente il "solo"
territorio (si veda sul punto anche, TAR Napoli Campania
sez. VIII, 19.04.2012, n. 1827). Per quanto attiene al soppalco, lo stesso, se non di modeste
dimensioni, per la sua struttura e funzione, comporta un
aumento della superficie utile e rientra nelle ipotesi di
ristrutturazione edilizia (cfr., Consiglio di Stato sez. VI,
08.02.2013, n. 720). Nel caso di specie, è emerso nitidamente che è stata mutata
la destinazione d’uso di un sottotetto al primo piano da
uffici ad abitazione del custode con ampliamento della
volumetria dello stesso e sono stati realizzati due
soppalchi di non modeste dimensioni. Ne deriva che gli interventi edilizi realizzati rientrano
nelle ipotesi di ristrutturazione edilizia, richiamate
dall’art. 5, co. 1, lett. a), della legge regionale. Ne deriva che erroneamente l’amministrazione ha calcolato
gli oneri concessori applicando il comma 2 della legge
regionale, che, invece, si riferisce alle nuove costruzioni,
mentre avrebbe dovuto tener conto della superficie virtuale
ottenuta dividendo il costo complessivo delle opere oggetto
di concessione per il costo unitario stabilito annualmente
con il decreto ministeriale previsto dall'articolo 6 della
legge 28.01.1977, n. 10 (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 26.07.2013 n. 2008 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Non è conforme a legge il
contratto di collaborazione avente ad oggetto un incarico di
lavoro autonomo occasionale (nella specie, un incarico per
la produzione di testi scientifici), conferito senza il
preventivo espletamento di una procedura comparativa atta a
garantire la maggiore partecipazione degli interessati e la
migliore selezione del personale. Nello stesso senso, si è precisato che il ricorso, da parte
del dirigente di un ente pubblico, a personale con contratto
di lavoro autonomo è illegittimo e fonte di danno erariale
ove non costituisca il mezzo indispensabile per far fronte
ad esigenze eccezionali ed impreviste di natura transitoria
e non sia inteso ad attuare obiettivi e progetti specifici,
determinati e temporanei, impossibili da realizzare con i
dipendenti in servizio presso l'amministrazione. La giurisprudenza amministrativa, sulla stessa scia di
quella contabile, ha chiarito che sebbene non sussista una
previsione di rango legislativo che vieti l'affidamento a
studi legali dell'attività di consulenza stragiudiziale,
l'indizione di siffatta procedura selettiva rimane
un'ipotesi eccezionale rispetto a quelle ordinarie previste
dalle norme in materia di attività consultiva resa
dall'Avvocatura dello Stato e dal Consiglio di Stato ovvero
di affidamento di incarichi di collaborazione a singoli
professionisti (per specifiche questioni) secondo la
procedura di cui all'art. 7, d.lg. n. 165 del 2001 (seppure
anche quest'ultima norma, avente carattere eccezionale). ... per l'annullamento della delibera della giunta
provinciale di Varese prot. n. 88612/3.6, emessa e
dichiarata immediatamente eseguibile il giorno 16.10.2012, pubblicata all'albo pretorio il 23.10.2012, con
la quale è stata disposta l'instaurazione di un rapporto di
collaborazione esterna con un giornalista professionista non
inserito nella pianta organica dell'ente, per lo svolgimento
dell'incarico di addetto stampa e responsabile editoriale
della testata giornalistica “provincia di Varese informa
online” e di ogni altro atto presupposto, connesso o
consequenziale. ... ... appare evidente che la delibera impugnata sia
illegittima per violazione dell’art. 7, co. 6,
d.lgs. 165/2001. La norma in parola consente alle amministrazioni la
possibilità di conferire incarichi individuali, con
contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o
coordinata e continuativa, ad esperti di particolare e
comprovata specializzazione anche universitaria, solo per
fronteggiare esigenze cui non possono far fronte con
personale in servizio e a condizione che: a) l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle
competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione
conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati
e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità
dell'amministrazione conferente; b) l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato
l'impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane
disponibili al suo interno; c) la prestazione deve essere di natura temporanea e
altamente qualificata; non è ammesso il rinnovo; l'eventuale
proroga dell'incarico originario è consentita, in via
eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per
ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la
misura del compenso pattuito in sede di affidamento
dell'incarico; d) devono essere preventivamente determinati durata, luogo,
oggetto e compenso della collaborazione. Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione
universitaria in caso di stipulazione di contratti di
collaborazione di natura occasionale o coordinata e
continuativa per attività che debbano essere svolte da
professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che
operino nel campo dell'arte, dello spettacolo, dei mestieri
artigianali o dell'attività informatica nonché a supporto
dell'attività didattica e di ricerca, per i servizi di
orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione
dei contratti di lavoro di cui al decreto legislativo 10.09.2003, n. 276, purché senza nuovi o maggiori oneri
a carico della finanza pubblica, ferma restando la necessità
di accertare la maturata esperienza nel settore. Tale norma è stata interpretata rigorosamente dalla
giurisprudenza contabile e amministrativa, perché ha
rappresentato un primo passo verso la riduzione della spesa
pubblica e, quindi, per evitare inutili sprechi di danaro
pubblico. Sul punto, la giurisprudenza contabile ha, ad esempio,
chiarito che non è conforme a legge il contratto di
collaborazione avente ad oggetto un incarico di lavoro
autonomo occasionale (nella specie, un incarico per la
produzione di testi scientifici), conferito senza il
preventivo espletamento di una procedura comparativa atta a
garantire la maggiore partecipazione degli interessati e la
migliore selezione del personale (cfr., Corte Conti sez.
contr., 07.05.2012, n. 10). Nello stesso senso, si è precisato che il ricorso, da parte
del dirigente di un ente pubblico, a personale con contratto
di lavoro autonomo è illegittimo e fonte di danno erariale
ove non costituisca il mezzo indispensabile per far fronte
ad esigenze eccezionali ed impreviste di natura transitoria
e non sia inteso ad attuare obiettivi e progetti specifici,
determinati e temporanei, impossibili da realizzare con i
dipendenti in servizio presso l'amministrazione (cfr., Corte
Conti sez. III, 04.05.2012, n. 339). La giurisprudenza amministrativa, sulla stessa scia di
quella contabile, ha chiarito che sebbene non sussista una
previsione di rango legislativo che vieti l'affidamento a
studi legali dell'attività di consulenza stragiudiziale,
l'indizione di siffatta procedura selettiva rimane
un'ipotesi eccezionale rispetto a quelle ordinarie previste
dalle norme in materia di attività consultiva resa
dall'Avvocatura dello Stato e dal Consiglio di Stato ovvero
di affidamento di incarichi di collaborazione a singoli
professionisti (per specifiche questioni) secondo la
procedura di cui all'art. 7, d.lg. n. 165 del 2001 (seppure
anche quest'ultima norma, avente carattere eccezionale
(cfr., TAR Roma Lazio sez. II, 07.07.2009, n. 6527). Alla luce di tali coordinate ermeneutiche il provvedimento
impugnato va annullato per violazione dell’art. 7, co. 6,
d.lgs. 165/2001. Nel caso di specie l’amministrazione ha conferito l’incarico
di addetto stampa e responsabile editoriale della testata
giornalistica “Provincia di Varese informa on line” ad un
giornalista esterno all’ente “dopo aver valutato i carichi
di lavoro attribuiti alle risorse umane operanti nella
struttura”. Emerge nitidamente che il provvedimento non ha
motivato in relazione alle esigenze di carattere
straordinario ed eccezionale che consentono il ricorso a
figure professionisti esterne, ma si è limitato ad una mera
motivazione di stile che rende illegittimo il provvedimento
impugnato. Ne deriva che il ricorso va accolto e il provvedimento
impugnato va annullato (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 26.07.2013 n. 1997 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ opinione del Collegio che l'alternativa
sanzione pecuniaria, di cui al secondo comma dell’art. 33
DPR 380/2001, sia prevista non in ragione delle condizioni
dei responsabili dell'abuso e/o proprietari, ovvero della
gravosità e/o onerosità degli interventi di rimessione in
pristino, bensì unicamente per l'ipotesi di pregiudizio alla
statica della parte legittima dell’edificio che, per effetto
della demolizione di quella abusiva, potrebbe determinarsi. Va in proposito precisato che eventuali problemi di statica
vanno valutati nel momento in cui i lavori di ripristino
sono ultimati e che, quindi, l’autore dell’abuso non può
invocare, al fine di ottenere l’applicazione della misura
pecuniaria, la necessità di demolire anche parti non abusive
qualora ciò sia necessario a rendere l’edificio conforme
agli strumenti urbanistico-edilizi vigenti e qualora tali
parti possano poi essere ripristinate senza pregiudizio per
la statica dell’immobile. In base al primo comma dell’art. 33 del TUE,
colui che realizza interventi di ristrutturazione edilizia
in totale difformità dal permesso di costruire rilasciato, è
tenuto a rimuoverli o demolirli e, in ogni caso, a rendere
gli edifici sui cui gli interventi stessi sono stati
realizzati conformi alle prescrizioni degli strumenti urbanistico-edilizi, e ciò entro un congruo termine
stabilito dal dirigente o dal responsabile del competente
ufficio comunale con propria ordinanza. Aggiunge poi il comma secondo dello stesso articolo che
“qualora, sulla base di motivato accertamento dell'ufficio
tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non
sia possibile, il dirigente o il responsabile dell'ufficio
irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento
di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione
delle opere”. E’ opinione del Collegio che l'alternativa sanzione
pecuniaria, di cui al secondo comma dell’art. 33 cit., sia
prevista non in ragione delle condizioni dei responsabili
dell'abuso e/o proprietari, ovvero della gravosità e/o
onerosità degli interventi di rimessione in pristino, bensì
unicamente per l'ipotesi di pregiudizio alla statica della
parte legittima dell’edificio che, per effetto della
demolizione di quella abusiva, potrebbe determinarsi (cfr.
TAR Lazio Roma, sez. sez. I, 04.03.2009 n. 2248). Va in proposito precisato che eventuali problemi di
statica vanno valutati nel momento in cui i lavori di
ripristino sono ultimati e che, quindi, l’autore dell’abuso
non può invocare, al fine di ottenere l’applicazione della
misura pecuniaria, la necessità di demolire anche parti non
abusive qualora ciò sia necessario a rendere l’edificio
conforme agli strumenti urbanistico-edilizi vigenti e
qualora tali parti possano poi essere ripristinate senza
pregiudizio per la statica dell’immobile. Ciò premesso va osservato che, nel caso concreto, è vero
che la rimessa in pristino dell’edificio potrebbe richiedere
la demolizione dell’intero tetto, ma è anche vero che una
volta accorciati i muri perimetrali (l’abuso infatti
consiste nella realizzazione di muri perimetrali di
lunghezza maggiore rispetto a quella assentita) il tetto
potrà essere agevolmente ricostruito, e che, una volta fatto
ciò, nessun problema di statica si porrebbe. Non hanno rilievo poi la circostanze che l’abuso
realizzato non avrebbe incidenze paesaggistiche e che,
comunque, questo sarebbe di lieve entità. L’applicazione della misura ripristinatoria di cui al
primo comma dell’art. 33 non richiede infatti che l’abuso
abbia incidenza paesaggistica. Inoltre, l’abuso nel concerto
realizzato, per stessa ammissione di parte ricorrente,
supera il margine di tollerabilità (pari al 2 per cento
delle misure progettuali) stabilito dall’art. 34, ultimo
comma, del TUE, introdotto dall'art. 5, comma 2, lett. a),
n. 5), del d.l. 13.05.2011, n. 70; sicché esso non può
considerarsi irrilevante. Neppure ha rilievo la circostanza che nel provvedimento
impugnato sia stato richiamato l’art. 31 del TUE in luogo
dell’art. 33 e che, in un passaggio, lo stesso provvedimento
qualifichi l’intervento realizzato quale intervento di nuova
costruzione. Va invero osservato che dalla lettura complessiva del
provvedimento si può agevolmente inferire che il Comune
intimato ha correttamente descritto l’abuso realizzato senza
incorrere in alcun travisamento dei fatti; e che la sanzione
applicata, per le ragioni sopra illustrate, è quella
corretta in relazione alla fattispecie concreta (TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 26.07.2013 n. 1986 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Stabilisce l’art. 167, comma 5, del d.lgs.
22.01.2004 n. 42, che la sanzione da applicarsi ai fini del
rilascio del provvedimento che accerta la compatibilità
paesaggistica, è pari “…al maggiore importo tra il danno
arrecato e il profitto conseguito mediante la
trasgressione”. In base a questa disposizione, qualora non
via sia danno paesaggistico, occorre quindi verificare, al
fine della quantificazione della sanzione, la consistenza
del maggior valore conseguito dall’immobile a seguito
dell’intervento abusivo realizzato. Aggiunge la norma che “l'importo della sanzione pecuniaria è
determinato previa perizia di stima”. Come si vede le suindicate disposizioni lasciano ampio
margine di discrezionalità alle amministrazioni, le quali
debbono formulare le proprie valutazioni applicando
correttamente le regole tecniche proprie della scienza
dell’estimo, onde addivenire ad una plausibile
determinazione del valore economico del bene stimato. Non è quindi necessaria la sussistenza di norme giuridiche
che specifichino i criteri di stima ed autorizzino le
amministrazioni a procedere secondo determinate modalità. La
valutazione operata da queste ultime costituisce dunque
esercizio di discrezionalità tecnica che può essere
sindacata dal giudice amministrativo solo in caso di errore
di fatto ovvero di palese illogicità.
Stabilisce
l’art. 167, comma 5, del d.lgs. 22.01.2004 n. 42, che
la sanzione da applicarsi ai fini del rilascio del
provvedimento che accerta la compatibilità paesaggistica, è
pari “…al maggiore importo tra il danno arrecato e il
profitto conseguito mediante la trasgressione”. In base a
questa disposizione, qualora non via sia danno
paesaggistico, occorre quindi verificare, al fine della
quantificazione della sanzione, la consistenza del maggior
valore conseguito dall’immobile a seguito dell’intervento
abusivo realizzato. Aggiunge la norma che “l'importo della sanzione
pecuniaria è determinato previa perizia di stima”. Come si vede le suindicate disposizioni lasciano ampio
margine di discrezionalità alle amministrazioni, le quali
debbono formulare le proprie valutazioni applicando
correttamente le regole tecniche proprie della scienza
dell’estimo, onde addivenire ad una plausibile
determinazione del valore economico del bene stimato. Contrariamente a quanto sostenuto dalla parte, non è
quindi necessaria la sussistenza di norme giuridiche che
specifichino i criteri di stima ed autorizzino le
amministrazioni a procedere secondo determinate modalità. La
valutazione operata da queste ultime costituisce dunque
esercizio di discrezionalità tecnica che può essere
sindacata dal giudice amministrativo solo in caso di errore
di fatto ovvero di palese illogicità. Ciò premesso va osservato che, nel caso concreto, il
Comune di Novedrate, nell’elaborare la propria perizia, ha
ritenuto di dover quantificare il valore dell’edificio di
cui è causa (come conseguito a seguito dell’intervento
abusivo realizzato) assumendo a parametro di comparazione i
capannoni industriali aventi destinazione commerciale. Ritiene il Collegio che tale valutazione non sia
palesemente illogica atteso che, come si è visto sopra, il
suddetto immobile è stato in sostanza adibito ad attività
commerciale, trovando in esso sede un’attività di
commercializzazione di beni (anche se trattasi di beni
prodotti dall’impresa agricola); e che quindi è stato
assunto quale termine di comparazione quello proprio di una
categoria che presenta forti aspetti di similitudine
rispetto a quella cui appartiene l’edificio in
considerazione. Né a contrario possono essere utilmente invocati, come
fa parte ricorrente, il d.m. 26.09.1997 ed il
regolamento per il rilascio delle autorizzazioni
paesaggistiche della Provincia di Milano, atteso che, come
visto, il citato art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004
non rinvia ad alcun atto di normazione secondaria,
affermando invece che la quantificazione della sanzione va
effettuata sulla base di una perizia di stima
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.07.2013 n. 1985 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In base all’art. 146, comma 4, del d.lgs.
22.01.2004 n. 42 l'autorizzazione paesaggistica costituisce
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri
titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio. Da ciò consegue che nessun titolo edilizio può essere
rilasciato se l’intervento che si vuole realizzare incide su
un bene vincolato e non sia stato preventivamente
autorizzato dalle autorità proposte alla tutela del vincolo
stesso. Da ciò consegue ancora che anche in caso di richiesta di
rilascio di permesso di costruire in sanatoria, di cui
all’art. 36 del TUE, questo non può essere rilasciato se
l’intervento realizzato in assenza di titolo edilizio o in
difformità dallo stesso non sia ritenuto compatibile dal
punto di vista paesaggistico dalla preposta autorità la
quale, in tal caso, dovrà esprimersi ai sensi dell’art. 167,
commi 4 e 5, del citato d.lgs. n. 42/2004. Stabilisce in particolare il quarto comma lett. a) della
predetta norma che l'autorità amministrativa competente
accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure
di cui al comma 5, qualora i lavori realizzati in assenza o
difformità dall'autorizzazione paesaggistica “…non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati”. Come si vede, la norma esclude che in caso di aumento di
superficie o di volume possa essere accertata a posteriori
la compatibilità paesaggistica di un intervento edilizio già
eseguito. In base all’art. 146, comma 4, del
d.lgs. 22.01.2004 n. 42 l'autorizzazione paesaggistica
costituisce presupposto rispetto al permesso di costruire o
agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio. Da ciò consegue che nessun titolo edilizio può essere
rilasciato se l’intervento che si vuole realizzare incide su
un bene vincolato e non sia stato preventivamente
autorizzato dalle autorità proposte alla tutela del vincolo
stesso. Da ciò consegue ancora che anche in caso di richiesta di
rilascio di permesso di costruire in sanatoria, di cui
all’art. 36 del TUE, questo non può essere rilasciato se
l’intervento realizzato in assenza di titolo edilizio o in
difformità dallo stesso non sia ritenuto compatibile dal
punto di vista paesaggistico dalla preposta autorità la
quale, in tal caso, dovrà esprimersi ai sensi dell’art. 167,
commi 4 e 5, del citato d.lgs. n. 42/2004. Stabilisce in particolare il quarto comma lett. a) della
predetta norma che l'autorità amministrativa competente
accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure
di cui al comma 5, qualora i lavori realizzati in assenza o
difformità dall'autorizzazione paesaggistica “…non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati”. Come si vede, la norma esclude che in caso di aumento di
superficie o di volume possa essere accertata a posteriori
la compatibilità paesaggistica di un intervento edilizio già
eseguito (cfr. TAR Lombardia Brescia, sez. I, 11.04.2013 n. 350; TAR Toscana, sez. III, 16.05.2012 n.
953). Nel caso di specie è indubbio che l’intervento
realizzato in difformità del titolo edilizio rilasciato
consiste nella chiusura del portico posto al piano terreno
di una palazzina; chiusura che ha consentito la
realizzazione di una maggiore superficie di pavimento e,
dunque, la realizzazione di un maggior volume. Ne consegue che, per le ragioni sopra evidenziate, non è
neppure astrattamente possibile procedere all’accertamento
di compatibilità paesaggistica; il che impedisce a priori il
rilascio del titolo edilizio in sanatoria richiesto. La ricorrente nelle proprie memorie sostiene che, in
realtà, non vi sarebbe stato aumento di volume, in quanto la
chiusura del portico sarebbe compensata dalla rinuncia alla
realizzazione di altra palazzina in origine prevista nel
piano di lottizzazione. Questa argomentazione è del tutto inconferente posto che
le valutazioni di compatibilità paesaggistica ed urbanistica
di un determinato intervento edilizio riguardano
specificamente quest’ultimo, ancorché esso sia inserito in
un piano di lottizzazione che prevede la realizzabilità di
una pluralità di edifici; ne consegue, quindi, che non è
possibile compensare le modifiche apportate ad uno di tali
edifici mediante modifiche apportate ad altri. Per queste ragioni deve ritenersi che il Comune di Bovisio Masciago
abbia correttamente negato il rilascio dei titoli di cui è
causa e che le doglianze sollevate dalla parte siano tutte
infondate. Anche la domanda risarcitoria è conseguentemente
infondata (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.07.2013 n. 1984 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il
Collegio dà atto che l’orientamento prevalente in
giurisprudenza propende per la natura conformativa dei
vincoli di piano regolatore preordinati alla realizzazione
di parcheggi pubblici, ma tale orientamento si fonda da una
parte sulla inidoneità di tali vincoli a determinare
l’ablazione automatica del suoli, d’altro canto sulla
circostanza che normalmente il parcheggio pubblico non
implica la proprietà pubblica degli stessi. --------------- Gli standards urbanistici tendono al soddisfacimento di
bisogni collettivi delle persone che abitano nei dintorni,
ed a seguito della entrata in vigore del D.P.R. 380/2001
alla realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo
segue la automatica acquisizione in proprietà delle stesse,
e del relativo sedime, in capo alla Amministrazione
comunale, senza che a tal fine sia necessaria la stipula di
un atto negoziale ad hoc. Tale regime, introdotto dal D.P.R. 380/2001, conferma la
naturale vocazione alla proprietà pubblica delle aree a
standards, in relazione alle quali, pertanto, si deve
presumere la compatibilità con la sola proprietà pubblica. Anche il Consiglio di Stato ha affermato la natura
espropriativa di un vincolo preordinato alla realizzazione
di un parcheggio pubblico, e la conseguente sua perdita di
efficacia per decorso del termine quinquennale dalla
imposizione del vincolo stesso. Il ricorso può essere deciso sulla base della semplice
considerazione che il vincolo a parcheggio pubblico oggetto
di gravame deve ritenersi orami decaduto in ragione della
sua natura espropriativa e del decorso del termine
quinquennale dalla sua imposizione. Il Collegio dà atto che l’orientamento prevalente in
giurisprudenza propende per la natura conformativa dei
vincoli di piano regolatore preordinati alla realizzazione
di parcheggi pubblici, ma tale orientamento si fonda da una
parte sulla inidoneità di tali vincoli a determinare
l’ablazione automatica del suoli, d’altro canto sulla
circostanza che normalmente il parcheggio pubblico non
implica la proprietà pubblica degli stessi. Orbene, non v’è alcuna prova che nel caso di specie la
realizzazione dei parcheggi pubblici risulti compatibile con
la proprietà privata dei fondi interessati, che, pertanto,
si ritiene, dovranno necessariamente essere espropriati
dalla Amministrazione comunale al fine di poter realizzare i
parcheggi. Del resto, come ha condivisibilmente rilevato il TAR
Puglia-Bari nella sentenza n. 2815/2010, gli standards
urbanistici tendono comunque al soddisfacimento di bisogni
collettivi delle persone che abitano nei dintorni, ed a
seguito della entrata in vigore del D.P.R. 380/2001 alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo segue
la automatica acquisizione in proprietà delle stesse, e del
relativo sedime, in capo alla Amministrazione comunale,
senza che a tal fine sia necessaria la stipula di un atto
negoziale ad hoc. Tale regime, introdotto dal D.P.R.
380/2001, conferma la naturale vocazione alla proprietà
pubblica delle aree a standards, in relazione alle quali,
pertanto, si deve presumere la compatibilità con la sola
proprietà pubblica. Anche il Consiglio di Stato ha affermato, nella sentenza n.
91/2010, la natura espropriativa di un vincolo preordinato
alla realizzazione di un parcheggio pubblico, e la
conseguente sua perdita di efficacia per decorso del termine
quinquennale dalla imposizione del vincolo stesso. Nel caso di specie non risulta che, a tanti anni di distanza
dalla approvazione del Piano Regolatore, il Comune di
Caprezzo abbia proceduto all’esproprio delle aree ed alla
realizzazione dei parcheggi. Segue che la previsione di piano regolatore oggetto di
gravame deve ritenersi oggi non più efficace
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 25.07.2013 n. 940 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: La Tares si paga anche se l'immobile è inutilizzato. È legittima la pretesa del comune di Bologna di applicare la
Tarsu a un appartamento inutilizzato. Infatti, il cambio di
residenza del contribuente, la denuncia di cessazione
dell'occupazione dell'immobile e il mancato consumo di
energia elettrica non lo esonerano dal pagamento della tassa
rifiuti. Il tributo si paga anche in caso di mancato
utilizzo del servizio di smaltimento svolto
dall'amministrazione comunale.
Lo ha ribadito la Corte di
Cassazione, con l'ordinanza 24.07.2013 n. 18022. Per i
giudici di piazza Cavour, «dando rilevanza all'avvenuto
trasferimento della residenza anagrafica (ed alla concreta
idoneità del bene a produrre rifiuti, siccome desumibile per
presunzione dal mancato consumo delle erogazioni di energia)
il giudice del merito ha chiaramente violato le norme che
disciplinano il presupposto dell'imposta». In effetti, sulla
questione della tassabilità degli immobili inutilizzati si
registrano prese di posizione diverse tra Cassazione,
giudici tributari e ministero dell'economia e delle finanze.
Anche le amministrazioni comunali non hanno quasi mai
applicato la regola fissata dalla Suprema corte, la quale ha
sempre posto dei limiti rigidi per l'esonero dal pagamento
del tributo sui rifiuti, che è dovuto a prescindere dal
fatto che il contribuente utilizzi l'immobile. Ex lege,
vanno esclusi dalla tassazione solo gli immobili non
utilizzabili (inagibili, inabitabili, diroccati). Non ha
alcuna rilevanza la scelta soggettiva del titolare di non
utilizzare l'immobile. Anche il mancato arredo non
costituisce prova dell'inutilizzabilità dell'immobile e
della inettitudine alla produzione di rifiuti. Un alloggio
che il proprietario lasci inabitato e non arredato si rivela
inutilizzato, ma non oggettivamente inutilizzabile. Per la
prima volta il principio è stato affermato con la sentenza
16785 del 30.11.2002. Regola ribadita con le sentenze
9920/2003, 22770/2009, 1850/2010 e altre. Da ultimo, sempre
la Cassazione (ordinanza 1332 del 21.01.2013) ha
stabilito che l'esonero dal pagamento del tributo non spetta
neppure quando il contribuente fornisca la prova
dell'avvenuta cessazione di un'attività industriale. Il Mef
invece, nelle linee guida che ha fornito ai comuni sulla
corretta applicazione della Tares, ha precisato che non sono
soggetti al pagamento le unità immobiliari privi di mobili e
di allacci alle reti idriche e elettriche, che di fatto non
vengono utilizzate
(tratto da ItaliaOggi del
17.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se è pur vero che la
declaratoria di decadenza di un titolo edilizio costituisce
manifestazione di attività vincolata della pubblica
amministrazione, è parimenti innegabile che i presupposti
della decadenza richiedono un rigoroso e completo
accertamento in fatto, vale a dire una adeguata istruttoria,
che non può basarsi su affermazioni apodittiche né
prescindere dall’esame di tutte le circostanze del caso
concreto. Sul punto, preme al Collegio dapprima
richiamare il proprio orientamento secondo cui, se è pur
vero che la declaratoria di decadenza di un titolo edilizio
costituisce manifestazione di attività vincolata della
pubblica amministrazione, è parimenti innegabile che i
presupposti della decadenza richiedono un rigoroso e
completo accertamento in fatto, vale a dire una adeguata
istruttoria, che non può basarsi su affermazioni apodittiche
né prescindere dall’esame di tutte le circostanze del caso
concreto (cfr. sul punto TAR Lombardia, Milano, sez. II,
22.1.2013, n. 189). Nel caso di specie, il permesso di costruire è stato
rilasciato il 14.12.2012 ed il relativo avviso è stato
spedito alla società in data 19.12.2012 (cfr. il doc. 9
della ricorrente), mentre la comunicazione di inizio lavori
è stata protocollata il successivo 20.12.2012 (cfr. il doc.
10 della ricorrente). Contestualmente, è stata depositata presso gli uffici
comunali la denuncia delle opere in cemento armato, oltre
alla copia della notificazione preliminare di cantiere alla
Regione, in applicazione della disciplina sulla sicurezza
nei luoghi di lavoro (art. 99 del D.Lgs. 81/2008, cfr.
ancora il doc. 10 della ricorrente). Parimenti, è stato concluso un contratto d’appalto per
l’esecuzione dei lavori edili (cfr. il doc. 11 della
ricorrente), predisposto il piano di sicurezza (cfr. il doc.
12 della ricorrente) ed assegnati gli incarichi per la
progettazione e la direzione lavori (cfr. i documenti da 16
a 18 della ricorrente). Unitamente alla predisposizione della documentazione
necessaria per l’avvio dei lavori, la società iniziava nel
dicembre 2010 i lavori preparatori di cantiere, mediante
allestimento dell’ufficio e deposito del materiale (cfr. il
doc. 14 della ricorrente). Il Comune di Como, dal canto suo, ha effettuato nella prima
metà del mese di gennaio 2013 tre sopralluoghi sull’area
(cfr. il doc. 4 del resistente). Il primo sopralluogo risale al 01.01.2013 (giorno
festivo e normalmente non destinato all’attività
lavorativa), mentre i successivi, in data 10 e 22 gennaio,
hanno consentito di appurare l’intervenuta recinzione
dell’area di cantiere. Ciò premesso, reputa il Collegio che le attività di
carattere preparatorio e di adempimento degli obblighi
inerenti la sicurezza del cantiere, posti in essere da Cosed
nel dicembre 2013, siano sufficienti a manifestare quel
“serio intento costruttivo”, che esclude la possibilità di
declaratoria di decadenza del titolo edilizio rilasciato. Non si dimentichi, infatti, che il permesso di costruire è
stato rilasciato il 14.12.2012, allorché si approssimava il
periodo di ferie natalizie ed in una stagione con condizioni
climatiche sfavorevoli (circostanze, queste, che
costituiscono fatto notorio ai sensi dell’art. 115, comma
2°, del codice di procedura civile), sicché appare
irragionevole la pretesa del Comune di Como, che vorrebbe
invece far discendere la prova dell’intento costruttivo
dalla realizzazione, nelle ultime due settimane dell’anno ed
in pieno inverno, di gran parte delle lavorazioni necessarie
piuttosto al completamento e non all’inizio dell’opera. Si tratta, a ben vedere, di una pretesa abnorme, non
rispettosa del principio di proporzionalità che dovrebbe
presiedere all’esercizio dell’azione amministrativa, anche
in sede di accertamento della decadenza di cui al citato
art. 15, oltre che in contrasto con il principio della buona
fede oggettiva, che deve comunque caratterizzare il rapporto
fra privato e pubblica amministrazione (cfr. sul punto, fra
le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 08.11.2012, n. 5692). Del resto, la norma di legge sopra menzionata prevede
ordinariamente il termine di un anno dal rilascio del titolo
per l’inizio dei lavori (cfr. art. 15, comma 2°, del DPR
380/2001), in quanto il legislatore ha ritenuto –realisticamente– che sussiste un fisiologico intervallo
temporale fra l’ottenimento del titolo ed il concreto avvio
dell’attività edilizia. Nel caso di specie, intervenuto il rilascio del titolo il
14.12.2012, l’attività preparatoria svolta dalla società nei
pochi giorni successivi e fino al 01.01.2013, appare
rispettosa dei requisiti minimi per integrare un serio e
concreto “inizio dei lavori”. Sul punto preme ancora evidenziare che lo scrivente non
ignora la giurisprudenza formatasi sull’art. 15 del DPR
380/2001, citata anche dall’Avvocatura Comunale nei propri
scritti difensivi; tuttavia si deve ricordare che le
sentenze richiamate dal resistente attengono al mancato
inizio dei lavori nell’ordinario termine annuale di cui al
comma 2° dell’art. 15, mentre nel caso di specie si tratta
di verificare l’effettivo avvio dei lavori in un ben più
ristretto termine di circa quindici giorni. Non appare, di conseguenza, corretta l’applicazione
dell’art. 15 menzionato effettuata dall’Amministrazione di
Como (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.07.2013 n. 1943 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Eventuali omissioni degli
atti di gara non possono riverberarsi a danno dei
concorrenti che hanno fatto affidamento sulla correttezza ed
esaustività del modello predisposto dall’amministrazione, a
maggior ragione nel caso in cui la ricorrente abbia
presentato dichiarazioni nella stessa forma e quindi si
esponga alla rilevazione del medesimo vizio nei suoi
confronti. Appare ragionevole ritenere che solo la presentazione
dell’istanza, predisposta nei termini voluti
dall’Amministrazione, costituisca adempimento richiesto a
pena di esclusione, mentre la sottoscrizione della stessa da
parte di altri soggetti, che risultino investiti di poteri
di rappresentanza –pur corrispondendo ad un indirizzo
giurisprudenziale (peraltro non univoco) di stampo
“sostanzialista”, circa l’obbligo di rendere la
dichiarazione stessa da parte di chiunque fosse in grado di
impegnare la società– può giustificare una richiesta di
integrazione documentale da parte della stazione appaltante,
ma non anche l’esclusione di una società che abbia, come
nella fattispecie avvenuto, diligentemente compilato il
modulo in questione. In merito il Collegio ritiene necessario aderire a
quell’orientamento secondo il quale eventuali omissioni
degli atti di gara non possono riverberarsi a danno dei
concorrenti che hanno fatto affidamento sulla correttezza ed
esaustività del modello predisposto dall’amministrazione
(Cons. Stato, sez. V, 22.05.2012 n. 2973), a maggior ragione
nel caso in cui la ricorrente abbia presentato dichiarazioni
nella stessa forma e quindi si esponga alla rilevazione del
medesimo vizio nei suoi confronti. In merito altra giurisprudenza ha chiarito che appare
ragionevole ritenere che solo la presentazione dell’istanza,
predisposta nei termini voluti dall’Amministrazione,
costituisca adempimento richiesto a pena di esclusione,
mentre la sottoscrizione della stessa da parte di altri
soggetti, che risultino investiti di poteri di
rappresentanza –pur corrispondendo ad un indirizzo
giurisprudenziale (peraltro non univoco) di stampo “sostanzialista”,
circa l’obbligo di rendere la dichiarazione stessa da parte
di chiunque fosse in grado di impegnare la società– può
giustificare una richiesta di integrazione documentale da
parte della stazione appaltante, ma non anche l’esclusione
di una società che abbia, come nella fattispecie avvenuto,
diligentemente compilato il modulo in questione (Cons.
Stato, VI, ordinanza 01.02.2013 n. 634) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 23.07.2013 n. 1933 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione,
come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia,
è atto vincolato alla constatata abusività che non richiede
alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse
pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla demolizione, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto. Infatti, non solo è noto
l’orientamento giurisprudenziale assolutamente prevalente in
tema di repressione di abusi, (cfr. Consiglio di Stato sez. IV, 28.12.2012, n. 6702; TAR Lombardia Milano, sez. II, 19.02.2009,
n. 1318) nel senso che l’ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato alla constatata abusività che non richiede alcuna
specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né
una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla
demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito
permanente, che il tempo non può legittimare in via di
fatto, ma è anche inesatto sostenere che l’amministrazione è
rimasta inerte di fronte alla condotta commissiva del
responsabile dell’abuso, avendo al contrario immediatamente
adottato il provvedimento sanzionatorio che ha generato il
contenzioso di cui si è dato conto al precedente punto 2.2.
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 19.07.2013 n. 1924 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quando il proprietario
dell’area non sia il responsabile dell’abuso il
provvedimento repressivo non può costituire titolo per
l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di
sedime sulla quale insiste il bene. L’estraneità del proprietario agli abusi edilizi commessi
sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva
disponibilità non implica, pertanto, l’illegittimità
dell’ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino
dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo
l’inidoneità del provvedimento repressivo a costituire
titolo per l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale
dell’area di sedime sulla quale insiste il bene. L’acquisizione gratuita dell’area non è, infatti, una misura
strumentale, per consentire al Comune di eseguire la
demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma
costituisce una sanzione autonoma che consegue
all’inottemperanza all’ingiunzione. Ne discende che l’acquisizione gratuita al patrimonio
comunale si riferisce esclusivamente al responsabile
dell’abuso, non potendo operare nella sfera giuridica di
altri soggetti e, in particolare, nei confronti del
proprietario dell’area quando risulti, in modo
inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento
dell’opera abusiva o che, essendone egli venuto a
conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti
offerti dall’ordinamento.
Fondato è
invece il terzo motivo, con cui la ricorrente deduce la
violazione dell’art. 31 del DPR 380/2001 in relazione
all’acquisizione dell’area al patrimonio comunale nei
confronti dei proprietari non responsabili degli abusi per
cui è causa, che non ne avevano la disponibilità. E’ infatti pacifico (cfr. per tutte Cons. Stato, VI, 04.03.2013, n. 1268; id. Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.04.2013, n. 1886) il principio che quando il
proprietario dell’area non sia il responsabile dell’abuso,
ciò che nella specie non è controverso tra le parti, il
provvedimento repressivo non può costituire titolo per
l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste il bene. L’estraneità del proprietario agli abusi edilizi
commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed
esclusiva disponibilità non implica, pertanto, come sostiene
parte ricorrente, l’illegittimità dell’ordinanza di
demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei
luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l’inidoneità del
provvedimento repressivo a costituire titolo per
l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste il bene. L’acquisizione gratuita dell’area non è, infatti, una misura
strumentale, per consentire al Comune di eseguire la
demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma
costituisce una sanzione autonoma che consegue
all’inottemperanza all’ingiunzione. Ne discende che l’acquisizione gratuita al patrimonio
comunale si riferisce esclusivamente al responsabile
dell’abuso, non potendo operare nella sfera giuridica di
altri soggetti e, in particolare, nei confronti del
proprietario dell’area quando risulti, in modo
inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento
dell’opera abusiva o che, essendone egli venuto a
conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti
offerti dall’ordinamento
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 19.07.2013 n. 1924 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L'art. 10-bis, L. n.
241/1990 (preavviso di rigetto) è inapplicabile a tutti quei
procedimenti che siano volti ad ottenere l'accesso ai
documenti, in quanto da un lato il procedimento di accesso,
costituendo un interesse meramente partecipativo e
strumentale alla soddisfazione di un interesse primario, non
si concilia con la previsione di una ulteriore fase sub
procedimentale, e dall'altro l'elencazione dei procedimenti
cui la norma non è applicabile non può essere considerata
tassativa. Il primo motivo è infondato in quanto l'art. 10-bis, L. n.
241/1990 (preavviso di rigetto) è inapplicabile a tutti quei
procedimenti che siano volti ad ottenere l'accesso ai
documenti, in quanto da un lato il procedimento di accesso,
costituendo un interesse meramente partecipativo e
strumentale alla soddisfazione di un interesse primario, non
si concilia con la previsione di una ulteriore fase sub
procedimentale, e dall'altro l'elencazione dei procedimenti
cui la norma non è applicabile non può essere considerata
tassativa (Consiglio di Stato, sez IV, 4813/2003, sez. VI,
05.12.2007, sent. n. 6183; TAR Lazio Roma Sez. II ter Sent.,
07.01.2008, n. 71) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 18.07.2013 n. 1917 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Con l'entrata in vigore dell'art. 21-quinquies
della l. n. 241/1990, il legislatore ha accolto una nozione
ampia di revoca del provvedimento amministrativo, prevedendo
tre presupposti alternativi che ne legittimano l'adozione:
a) per sopravvenuti motivi di pubblico interesse; b) per
mutamento della situazione di fatto; c) per nuova
valutazione dell'interesse pubblico originario (c.d. jus
poenitendi). In materia di revoca di atti gara nella fase antecedente
alla aggiudicazione, la giurisprudenza è copiosa,
"antologie” di sentenze dalle quali possono dedursi i
seguenti indiscussi principi: il potere di ritirare gli atti
di gara come l'aggiudicazione provvisoria, attraverso gli
strumenti della revoca o dell'annullamento, è espressione
del principio di buon andamento dell'attività amministrativa
e costituisce una facoltà dell'amministrazione ancora
attinente la fase di scelta del contraente; pertanto, non
sono necessarie specifiche valutazioni dell'eventuale
interesse dell'aggiudicatario provvisorio al mantenimento di
un atto non più rispondente all'interesse pubblico. L'aggiudicazione provvisoria di una gara, attesa la sua
natura di atto endoprocedimentale ed i suoi effetti
interinali, è inidonea ad attribuire in modo stabile il bene
della vita cui si aspira e ad ingenerare il connesso
legittimo affidamento che imporrebbe l'instaurazione del
contraddittorio procedimentale prima della revoca in
autotutela. Fino a quando non sia intervenuta l'aggiudicazione, rientra
nel potere discrezionale dell'amministrazione disporre la
revoca del bando di gara e degli atti successivi, laddove
sussistano concreti motivi di interesse pubblico tali da
rendere inopportuna, o anche solo da sconsigliare, la
prosecuzione della gara. --------------- Non sussiste l'obbligo di comunicazione di avvio del
procedimento nel caso di revoca dell'aggiudicazione
provvisoria, trattandosi di atto endoprocedimentale rispetto
al quale l'aggiudicatario può vantare un mera aspettativa
alla conclusione del procedimento e non già una posizione
giuridica qualificata. L'esercizio del potere di autotutela nel corso di un
procedura di gara non ancora assistita, come quella di
specie, neppure dalla aggiudicazione provvisoria, non dà
luogo ad un nuovo procedimento amministrativo, ma si innesta
all'interno dell'unico procedimento destinato a concludersi
con l'intervento dell'aggiudicazione definitiva. --------------- Come noto, la responsabilità cd. precontrattuale -che trova
il suo paradigma normativo negli artt. 1337 e 1338 c.c.- è
stata identificata come l’istituto che tende a tutelare la
libertà negoziale della parte, mettendola al sicuro da
coartazioni od inganni incidenti sulle proprie
determinazioni negoziali (art. 1337 c.c.), ovvero
preservandola da trattative che si rivelino inutili, in
quanto conducano alla stipulazione di un contratto invalido
(art. 1338 c.c.). La giurisprudenza ha riconosciuto il risarcimento del danno,
per responsabilità precontrattuale, pur in presenza di una
revoca legittima, laddove l’impresa abbia confidato sulla
possibilità di diventare affidataria e, ancor più, in caso
di aggiudicazione intervenuta e revocata, sulla
disponibilità di un titolo che l'abilitava ad accedere alla
stipula del contratto stesso. Detto orientamento giurisprudenziale, che afferma non essere
ostativo al risarcimento del danno in materia di procedure
ad evidenza pubblica l'intervento di un atto di revoca
assunto in via di autotutela ancorché quest'ultimo sia
legittimo non è invocabile nel caso di specie in assenza del
provvedimento di aggiudicazione, in una fase in cui la
stazione appaltante doveva valutare il profilo economico
finanziario della gestione. --------------- L'obbligo generale di indennizzo dei pregiudizi arrecati ai
soggetti interessati in conseguenza della revoca di atti
amministrativi, di cui all'art. 21-quinquies l. 241/1990,
sussiste esclusivamente in caso di revoca di provvedimenti
definitivi e non anche in caso di revoca di atti a effetti
instabili e interinali, quale l'aggiudicazione provvisoria. Questo porterebbe ad escludere ogni voce di indennizzo,
considerato che la revoca, come visto nella fattispecie, è
intervenuta prima dell’aggiudicazione provvisoria. L’Amministrazione ha ritenuto di procedere
alla revoca degli atti di gara, per una nuova valutazione
degli interessi, certamente anche a seguito della modifica
della maggioranza politica. Con l'entrata in vigore dell'art. 21-quinquies della l. n.
241/1990, il legislatore ha accolto una nozione ampia di
revoca del provvedimento amministrativo, prevedendo tre
presupposti alternativi che ne legittimano l'adozione: a)
per sopravvenuti motivi di pubblico interesse; b) per
mutamento della situazione di fatto; c) per nuova
valutazione dell'interesse pubblico originario (c.d. jus
poenitendi). In materia di revoca di atti gara nella fase antecedente
alla aggiudicazione, la giurisprudenza è copiosa, come
dimostrano gli atti delle parti, “antologie” di sentenze,
dalle quali possono dedursi i seguenti indiscussi principi:
il potere di ritirare gli atti di gara come l'aggiudicazione
provvisoria, attraverso gli strumenti della revoca o
dell'annullamento, è espressione del principio di buon
andamento dell'attività amministrativa e costituisce una
facoltà dell'amministrazione ancora attinente la fase di
scelta del contraente; pertanto, non sono necessarie
specifiche valutazioni dell'eventuale interesse
dell'aggiudicatario provvisorio al mantenimento di un atto
non più rispondente all'interesse pubblico (TAR Sardegna
Cagliari, sez. I, 11.11.2010, n. 2582; TAR Puglia
Bari, sez. I, 14.09.2010, n. 3459; TAR Sicilia
Palermo, sez. I, 28.07.2010, n. 9011; TAR Piemonte
Torino, sez. I, 23.04.2010, n. 2085; TAR Lazio Roma,
sez. II, 09.11.2009, n. 10991; TAR Campania Napoli,
sez. VIII, 24.09.2008, n. 10735). L'aggiudicazione provvisoria di una gara, attesa la sua
natura di atto endoprocedimentale ed i suoi effetti
interinali, è inidonea ad attribuire in modo stabile il bene
della vita cui si aspira e ad ingenerare il connesso
legittimo affidamento che imporrebbe l'instaurazione del
contraddittorio procedimentale prima della revoca in
autotutela. Fino a quando non sia intervenuta l'aggiudicazione, rientra
nel potere discrezionale dell'amministrazione disporre la
revoca del bando di gara e degli atti successivi, laddove
sussistano concreti motivi di interesse pubblico tali da
rendere inopportuna, o anche solo da sconsigliare, la
prosecuzione della gara (da ultimo Consiglio di Stato sez.
V, n. 2418 del 06.05.2013). Si tratta quindi, facendo applicazione dei principi
consolidati sopra riportati, di valutare se la scelta di
revoca della procedura de qua, fosse sorretta da concreti
motivi di interesse pubblico. ---------------
Inoltre va
anche richiamato il consolidato principio giurisprudenziale
secondo cui non sussiste l'obbligo di comunicazione di avvio
del procedimento nel caso di revoca dell'aggiudicazione
provvisoria, trattandosi di atto endoprocedimentale rispetto
al quale l'aggiudicatario può vantare un mera aspettativa
alla conclusione del procedimento e non già una posizione
giuridica qualificata (TAR Lazio Roma, sez. II, 09.11.2009, n. 10991; TAR Puglia Bari, sez. I, 14.09.2010, n. 3459; TAR Valle d'Aosta Aosta, 10.10.2007, n. 123; TAR Campania Napoli, sez. I, 27.01.2006, n. 1078; TAR Lombardia Milano, sez. III, 16.01.2006, n. 50; Consiglio Stato, sez. IV, 29.10.2002, n. 5903). L'esercizio del potere di autotutela nel corso di un
procedura di gara non ancora assistita, come quella di
specie, neppure dalla aggiudicazione provvisoria, non dà
luogo ad un nuovo procedimento amministrativo, ma si innesta
all'interno dell'unico procedimento destinato a concludersi
con l'intervento dell'aggiudicazione definitiva. --------------- Quanto alla
domanda risarcitoria, per responsabilità pre-contrattuale,
parte ricorrente richiama la decisione del Consiglio di
Stato n. 5002/2011, sul riconoscimento del mancato utile nel
caso di illegittima revoca della gara. Come noto, la responsabilità cd. precontrattuale -che trova
il suo paradigma normativo negli artt. 1337 e 1338 c.c.- è
stata identificata come l’istituto che tende a tutelare la
libertà negoziale della parte, mettendola al sicuro da
coartazioni od inganni incidenti sulle proprie
determinazioni negoziali (art. 1337 c.c.), ovvero
preservandola da trattative che si rivelino inutili, in
quanto conducano alla stipulazione di un contratto invalido
(art. 1338 c.c.). La giurisprudenza ha riconosciuto il risarcimento del danno,
per responsabilità precontrattuale, pur in presenza di una
revoca legittima, laddove l’impresa abbia confidato sulla
possibilità di diventare affidataria e, ancor più, in caso
di aggiudicazione intervenuta e revocata, sulla
disponibilità di un titolo che l'abilitava ad accedere alla
stipula del contratto stesso. Detto orientamento giurisprudenziale, che afferma non essere
ostativo al risarcimento del danno in materia di procedure
ad evidenza pubblica l'intervento di un atto di revoca
assunto in via di autotutela ancorché quest'ultimo sia
legittimo (da ultimo Cons. Stato Sez. IV, 07.02.2012, n. 662)
non è invocabile nel caso di specie in assenza del
provvedimento di aggiudicazione, in una fase in cui la
stazione appaltante doveva valutare il profilo economico
finanziario della gestione. La domanda risarcitoria deve pertanto essere respinta. In subordine viene chiesto il riconoscimento di un
indennizzo, ex art. 21-quinquies l. 241/1990, per i costi
vivi di partecipazione, quantificati in € 20.500,00. La giurisprudenza in materia ha affermato che "l'obbligo
generale di indennizzo dei pregiudizi arrecati ai soggetti
interessati in conseguenza della revoca di atti
amministrativi, di cui all'art. 21-quinquies l. 241/1990,
sussiste esclusivamente in caso di revoca di provvedimenti
definitivi e non anche in caso di revoca di atti a effetti
instabili e interinali, quale l'aggiudicazione provvisoria"
(Consiglio di Stato, sez. V, 05.04.2012, n. 2007). Questo porterebbe ad escludere ogni voce di indennizzo,
considerato che la revoca, come visto, è intervenuta prima
dell’aggiudicazione provvisoria. In ogni caso si deve osservare come non sarebbe possibile,
in questa fase, vagliare la domanda di indennizzo, poiché le
voci di costo elencate non sono state supportate da alcuna
prova documentale. Anche la domanda di indennizzo va quindi respinta
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 18.07.2013 n. 1913 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il termine di dieci
giorni, entro il quale l'impresa offerente, sorteggiata a
campione per il controllo in ordine al possesso dei
requisiti di capacità economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa o, in diverso momento,
l’aggiudicatario e il concorrente secondo classificato, sono
tenuti, ai sensi dell'art. 48 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163,
ad ottemperare alla richiesta della stazione appaltante, ha
natura perentoria, e le sanzioni conseguenti alla sua
inosservanza non vanno applicate solo in caso di comprovata
impossibilità per l'impresa di produrre la documentazione
non rientrante nella sua disponibilità. --------------- La garanzia che correda l’offerta, pari al due per cento del
prezzo base indicato nel bando o nell'invito, sotto forma di
cauzione o di fideiussione, a scelta dell'offerente, copre
la mancata sottoscrizione del contratto per fatto
dell'affidatario, ed è svincolata automaticamente al momento
della sottoscrizione del contratto medesimo. Per giurisprudenza costante, la funzione della cauzione
provvisoria è costituita dalla garanzia che
l’amministrazione riceve dal concorrente sulla serietà dello
stesso nel partecipare alla gara e si sostanzia in una forma
di liquidazione anticipata del danno nel caso in cui la
stipula del contratto non avvenga per recesso o per difetto
dei requisiti del concorrente. La ratio delle disposizioni sull’automaticità
dell’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 48 va,
invece, individuata nel contemperamento del principio del
libero accesso alle gare, con la garanzia che vi partecipino
imprese affidabili. La norma, dunque, di spiccata funzione sanzionatoria,
riveste la finalità di tutelare la correttezza e speditezza
del procedimento di gara, tendendo a preservare la procedura
stessa dalla partecipazione di imprese non adeguate, per
mancanza dei requisiti richiesti, all'oggetto della gara
medesima, risultando strumentale rispetto all'esigenza di
garantire imparzialità e buon andamento dell'azione
amministrativa e par condicio fra i concorrenti. --------------- L'esercizio del potere contrattuale, anche da parte di
un'amministrazione pubblica committente, comunque operante
nel campo dell'autonomia privata, deve essere conforme ai
canoni generali di buona fede oggettiva, lealtà dei
comportamenti e correttezza, alla luce dei quali vanno
interpretati gli stessi atti di autonomia negoziale; ciò
allo scopo di evitare che la libera estrinsecazione
dell'autonomia contrattuale possa sfociare nell'arbitrio
ovvero nell'abuso nell'esercizio del proprio diritto,
principio che, ai sensi dell'art. 2 della Costituzione e
dell'art. 1175 c.c., permea le condotte di ciascun operatore
giuridico e dunque anche dell’amministrazione, ravvisabile
nel comportamento del soggetto che esercita verso l'altro i
diritti che gli derivano dalla legge o dal contratto per
realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti
sono preordinati. Nella fattispecie in questione deve ricevere,
dunque, applicazione quella giurisprudenza in base alla
quale il termine di dieci giorni, entro il quale l'impresa
offerente, sorteggiata a campione per il controllo in ordine
al possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria
e tecnico-organizzativa o, in diverso momento,
l’aggiudicatario e il concorrente secondo classificato, sono
tenuti, ai sensi dell'art. 48 del d.lgs. 12.04.2006 n.
163, ad ottemperare alla richiesta della stazione
appaltante, ha natura perentoria, e le sanzioni conseguenti
alla sua inosservanza non vanno applicate solo in caso di
comprovata impossibilità per l'impresa di produrre la
documentazione non rientrante nella sua disponibilità (cfr.,
fra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 16.02.2012, n.
810). Nonostante le succitate previsioni legislative e il suddetto
orientamento giurisprudenziale, il collegio ritiene che
debba, invece, statuirsi l’illegittimità della
determinazione della stazione appaltante di procedere
all’incameramento della cauzione provvisoria prestata dalla
ricorrente, sia in considerazione della ratio che è alla
base di tale prestazione, nonché delle disposizioni
dell’art. 48 del codice degli appalti, che delle specifiche
circostanze ricorrenti nella fattispecie che ci occupa. Ed invero, ai sensi del combinato disposto dei commi 1 e 6
dell’art. 75 del d.lgs. n. 163/2006, la garanzia che correda
l’offerta, pari al due per cento del prezzo base indicato
nel bando o nell'invito, sotto forma di cauzione o di
fideiussione, a scelta dell'offerente, copre la mancata
sottoscrizione del contratto per fatto dell'affidatario, ed
è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione
del contratto medesimo. Per giurisprudenza costante, la funzione della cauzione
provvisoria è costituita dalla garanzia che
l’amministrazione riceve dal concorrente sulla serietà dello
stesso nel partecipare alla gara e si sostanzia in una forma
di liquidazione anticipata del danno nel caso in cui la
stipula del contratto non avvenga per recesso o per difetto
dei requisiti del concorrente (cfr., ad esempio, Cons.
Stato, sez. V, 08.10.2011, n. 5499; 05.08.2011, n.
4712). La ratio delle disposizioni sull’automaticità
dell’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 48 va,
invece, individuata nel contemperamento del principio del
libero accesso alle gare, con la garanzia che vi partecipino
imprese affidabili. La norma, dunque, di spiccata funzione sanzionatoria,
riveste la finalità di tutelare la correttezza e speditezza
del procedimento di gara, tendendo a preservare la procedura
stessa dalla partecipazione di imprese non adeguate, per
mancanza dei requisiti richiesti, all'oggetto della gara
medesima, risultando strumentale rispetto all'esigenza di
garantire imparzialità e buon andamento dell'azione
amministrativa e par condicio fra i concorrenti (cfr., in
particolare, Cons. Stato, sez. V, 24.11.2011, n. 6239;
11.01.2012, n. 80; sez. IV, 16.02.2012, n. 810). Deve, inoltre, osservarsi che il disciplinare di gara della
procedura di specie, alla pag. 46, nell’ambito del paragrafo
6.3 dedicato all’aggiudicazione, prevedeva al punto II che,
nel caso di mancata presentazione della documentazione
richiesta a comprova dei requisiti economico-finanziari,
Lombardia Informatica S.p.A. si riservasse il diritto di
escutere la cauzione provvisoria. Nella fattispecie in questione, in particolare, la
ricorrente era in possesso dei requisiti
economico-finanziari dalla stessa dichiarati in sede di
offerta, come risulta dalla documentazione dalla stessa
prodotta, seppur in ritardo; si era offerta di procedere
alla stipula della convenzione, come si evince dalla
corrispondenza versata in atti; non poteva verificarsi
alcuna lesione della par condicio di eventuali altri
concorrenti, essendo Celgene l’unica titolare del diritto di
produrre i farmaci antitumorali infungibili oggetto dei
lotti dei quali era risultata aggiudicataria. Tali elementi, considerati nel complesso, ed in particolare
alla luce delle specifiche previsioni della lex specialis di
gara, per l’indubbio affidamento dalle stesse ingenerato
nella ricorrente, avrebbero dovuto far propendere Lombardia
Informatica per la sola esclusione di Celgene dalla
procedura concorsuale, conseguendone, quindi,
l’illegittimità dell’incameramento della consistente
cauzione provvisoria per la violazione dei canoni
civilistici di buona fede e affidamento. Riceve, dunque, applicazione quell’orientamento
giurisprudenziale, pure assunto dall’istante a sostegno
delle proprie censure, secondo il quale l'esercizio del
potere contrattuale, anche da parte di un'amministrazione
pubblica committente, comunque operante nel campo
dell'autonomia privata, deve essere conforme ai canoni
generali di buona fede oggettiva, lealtà dei comportamenti e
correttezza, alla luce dei quali vanno interpretati gli
stessi atti di autonomia negoziale; ciò allo scopo di
evitare che la libera estrinsecazione dell'autonomia
contrattuale possa sfociare nell'arbitrio ovvero nell'abuso
nell'esercizio del proprio diritto, principio che, ai sensi
dell'art. 2 della Costituzione e dell'art. 1175 c.c., permea
le condotte di ciascun operatore giuridico e dunque anche
dell’amministrazione, ravvisabile nel comportamento del
soggetto che esercita verso l'altro i diritti che gli
derivano dalla legge o dal contratto per realizzare uno
scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati
(cfr., in proposito, Cons. Stato, sez. II, 23.05.2012,
n. 4930; sez. IV, 02.03.2012, n. 1209) (TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza 18.07.2013 n. 1906 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'erronea indicazione del
mappale su cui insiste una delle opere abusive, contenuta
nel verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordine
di demolire le opere abusive di cui all'art. 7 l. 28.02.1985
n. 47, costituisce non già un semplice errore materiale, ma
un vizio del procedimento che travolge il provvedimento con
il quale sia stata disposta l'acquisizione al patrimonio
comunale dell'area interessata. Ai fini dell'atto di accertamento di inottemperanza
all'ingiunzione a demolire necessita individuare
specificatamente la costruzione abusiva con l'indicazione
dei dati catastali e di quelli presenti nella conservatoria
dei registri immobiliari, anche con riferimento agli effetti
sull'acquisizione delle aree; ne risulta che il menzionato
contrasto nell’indicazione delle aree sussistente tra i
suddetti provvedimenti inficia irrimediabilmente il
provvedimento di acquisizione per vizio del procedimento. Il collegio ritiene di accogliere tale censura, confermando
l’ordinanza cautelare succitata in precedenza emessa dalla
sezione seconda di questo Tribunale e riportandosi al
consistente orientamento della giurisprudenza amministrativa
per il quale l'erronea indicazione del mappale su cui
insiste una delle opere abusive, contenuta nel verbale di
accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolire le
opere abusive di cui all'art. 7 l. 28.02.1985 n. 47,
costituisce non già un semplice errore materiale, ma un
vizio del procedimento che travolge il provvedimento con il
quale sia stata disposta l'acquisizione al patrimonio
comunale dell'area interessata (cfr. TAR Lombardia, Brescia,
09.03.1993, n. 196). Ed invero, ai sensi dell'art. 7, comma 4, della legge
28.02.1985 n. 47, ai fini dell'atto di accertamento di
inottemperanza all'ingiunzione a demolire necessita
individuare specificatamente la costruzione abusiva con
l'indicazione dei dati catastali e di quelli presenti nella
conservatoria dei registri immobiliari, anche con
riferimento agli effetti sull'acquisizione delle aree (cfr.
Cons. Stato, sez. II, 05.02.1997, n. 1219); ne risulta che
il menzionato contrasto nell’indicazione delle aree
sussistente tra i suddetti provvedimenti inficia
irrimediabilmente il provvedimento di acquisizione per vizio
del procedimento (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 18.07.2013 n. 1897 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Congedi, estesi i beneficiari.
Non solo i genitori ma anche i fratelli assenti giustificati.
Sostegno, con quattro sentenze la
Corte costituzionale ridisegna la platea dei richiedenti. Ennesimo intervento –quarto in ordine di tempo– dei
giudici della Corte Costituzionale sui soggetti legittimati
a beneficiare del congedo straordinario per l'assistenza ai
disabili in situazione di gravità, introdotto dalla legge n.
388/2000 e disciplinato dall'art. 42 del decreto legislativo
n. 151/2001 e successivi modificazioni e integrazioni. Nella formulazione originaria del comma 5 dell'art. 42, il
diritto a fruire del congedo straordinario per assistere un
figlio con handicap in situazione di gravità, non ricoverato
a tempo pieno in strutture specializzate, previsto per la
durata massima di due anni nell'arco della vita lavorativa,
era limitato alla lavoratrice madre o, in alternativa, al
lavoratore padre o, dopo la loro scomparsa, a uno dei
fratelli o sorelle conviventi con il soggetto disabile. Per effetto delle sentenze emanate dei giudici della
Consulta, le n. 233 dell'08.06.2005, n. 158 del 18.04.2007 e n. 19 del 26.01.2009, il comma 5
dell'art. 42 oggi in vigore ha esteso la platea dei pubblici
dipendenti, ivi compresi i dipendenti della scuola aventi
diritto del congedo straordinario anche: - ai fratelli e sorelle conviventi nell'ipotesi in cui i
genitori siano impossibilitati a provvedere all'assistenza
del figlio handicappato, perché totalmente inabili: - anche al coniuge convivente con soggetto con handicap in
situazione di gravità,in via prioritaria rispetto agli altri
congiunti indicati nel comma 5; - al figlio convivente, in assenza di altri soggetti idonei
a prendersi cura della persona in situazione di disabilità
grave. Con la
sentenza 18.07.2013 n. 203, ultima in ordine di
tempo, i giudici della Corte Costituzionale hanno dichiarato
l'illegittimità costituzionale del comma 5 dell'art. 42
attualmente in vigore, nella parte in cui non include nel
novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo
straordinario ivi previsto, e alle condizioni ivi stabilite,
il parente o l'affine entro il terzo grado convivente –nonché, per evidenti motivi di coerenza e ragionevolezza,
gli altri parenti e affini più prossimi all'assistito,
comunque conviventi ed entro il terzo grado- in caso di
mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti
degli altri soggetti individuati dalla predetta norma
secondo un ordine di priorità, idonei a prendersi cura della
persona in situazione di disabilità grave. Spetterà ora al Legislatore recepire con apposita norma
quanto dispone la sentenza e inserirla nel contesto del più
volte citato comma 5. Per effetto degli interventi dei giudici della Consulta, il
congedo straordinario in questione, originariamente
concepito come strumento di tutela rafforzata della
maternità in caso di figli portatori di handicap grave, ha
assunto una portata più ampia. La progressiva estensione del complesso dei soggetti aventi
titolo a richiedere il congedo, ne ha infatti dilatato
l'ambito di applicazione oltre i rapporto genitoriali, per
ricomprendere anche le relazioni tra figli e genitori
disabili, e ancora, in altra direzione, i rapporti tra
coniugi e fratelli. Una estensione che certamente rafforza le possibilità di
assistenza dei soggetti disabili in situazione di gravità.
Occorre ora individuare ogni strumento idoneo ad evitare che
un istituto di alta civiltà, quale deve essere considerato
il congedo straordinario, possa essere utilizzato in maniera
impropria, come sta avvenendo nell'utilizzo di un altro
beneficio previsto dall'art, 33 della legge 104/1992, quello
cioè che consente di fruire di tre giorni di permesso
mensile retribuito per assistere un parente handicappato in
situazione di gravità, ancorché con i limiti indicati dal
comma 3-bis dell'art. 6 del decreto legislativo 18.07.2011, n. 119.
In particolare il comma impone al lavoratore
che chiede di assistere un parente disabile residente in
comune situato a distanza stradale superiore a 150
chilometri rispetto a quella di residenza del lavoratore, di
attestare con titolo di viaggio, o altra documentazione
idonea, il raggiungimento del luogo di residenza
dell'assistito nei giorni di permesso
(tratto da ItaliaOggi del
13.08.2013). |
TRIBUTI:
Rifiuti, tassato anche il parcheggio a pagamento.
Cassazione. Stesso principio per la Tares. LE AREE DI PERTINENZA/
Sono esclusi dal tributo solo gli spazi sosta che sono al
servizio di altre strutture private quali i supermercati.
È soggetta alla Tarsu l'area pubblica adibita a parcheggio a
pagamento.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza
17.07.2013 n.
17434 (e altre tre analoghe depositate
in pari data), rigettando il ricorso della società che
gestiva il parcheggio in convenzione con il Comune. Viene
così confermato l'esito del giudizio di appello, concluso
con la tassazione dei parcheggi trattandosi di aree
frequentate da persone e quindi produttive di rifiuti in via
presuntiva, anche in considerazione del naturale flusso
giornaliero di autovetture, dato ovvio e non bisognevole di
specifica dimostrazione. Sulla questione la Cassazione in passato si era già espressa
in senso conforme, distinguendo i parcheggi pertinenziali -come quelli gratuiti dei supermercati- dai parcheggi a
pagamento quali aree operative, cioè oggetto di un'attività
economica. Solo nel secondo caso scatta il presupposto della Tarsu,
costituito dall'occupazione o detenzione di aree produttive
di rifiuti, a prescindere dall'esistenza di un contratto tra
il gestore del parcheggio e l'ente pubblico (Cassazione
decisioni 14770/2000, 1179/2004, 3852/2005, 13241/2005). L'orientamento è stato confermato anche per i parcheggi non
recintati e contrassegnati da strisce blu, trattandosi di
aree sottratte all'uso collettivo proprio del suolo
pubblico, attesa la funzione esclusiva oggetto della
concessione (Cassazione 15851/2011 e 13100/2012). Si tratta di principi applicabili anche alla Tares, il nuovo
tributo sui rifiuti e sui servizi che da quest'anno
sostituisce gli attuali prelievi Tarsu, Tia1, Tia2. Tuttavia la disciplina originaria contenuta nel Dl 201/2011
escludeva dalla Tares solo le aree scoperte pertinenziali o
accessorie a civili abitazioni e le aree comuni condominiali
non occupate in via esclusiva. Ciò costituiva un elemento di
novità rispetto al passato, perché diventavano imponibili
tutte le aree scoperte degli operatori economici, senza più
distinzione tra aree operative e aree pertinenziali, come i
parcheggi dei supermercati o le aree di manovra degli
stabilimenti industriali. Restavano invece escluse dal tributo solo le aree
pertinenziali delle unità abitative (balconi, terrazze,
posti macchina scoperti eccetera). È poi intervenuto il Dl 35/2013 che ha reintrodotto la stessa
disciplina della Tarsu escludendo dalla tassazione le aree
scoperte pertinenziali o accessorie a locali tassabili
diversi dalle abitazioni. Si evita così di ampliare la base imponibile per le imprese
ma allo stesso tempo si ripropone la querelle –spesso
foriera di contenzioso– sulla distinzione delle aree pertinenziali (non tassabili) da quelle operative
(tassabili), questione peraltro che il Dl 201/11 aveva
intenzionalmente eliminato. Non solo. La norma di esclusione è riferita solamente ai
«locali», quindi a rigore sarebbero tassabili tutte le aree
accessorie adibite ad "aree" scoperte operative, come la
viabilità interna di un campeggio o le aree di collegamento
tra depositi scoperti di un'attività economica in genere (tratto da Il Sole 24 Ore del
19.08.2013). |
TRIBUTI: Tarsu dovuta per i gestori di parcheggi pubblici. I gestori di parcheggi pubblici sono tenuti a pagare la
tassa rifiuti anche se l'attività viene svolta sulle aree
che hanno questa destinazione, in seguito alla stipula di
una convenzione con l'amministrazione comunale. I parcheggi,
infatti, sono produttivi di rifiuti perché frequentati da
persone e soggetti a un naturale flusso giornaliero di
autovetture.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, con la
sentenza 17.07.2013 n. 17434. Secondo la Cassazione, la tassa è dovuta dal soggetto che
occupi o detenga un'area scoperta per la gestione di un
parcheggio affidatagli in concessione. È del tutto
irrilevante l'affidamento in concessione della gestione del
parcheggio e il rapporto contrattuale con il comune. Nella
pronuncia viene, infatti, precisato che il presupposto
impositivo della Tarsu è costituito dal mero fatto oggettivo
dell'occupazione del locale o dell'area scoperta a qualsiasi
uso adibita. E non è esonerato dal pagamento il soggetto che
utilizzi un'area per la gestione di un parcheggio, a
prescindere dal titolo giuridico in base al quale è
effettuata l'occupazione. Del resto, la gestione dei
parcheggi attribuisce al titolare il diritto a fruire in
proprio del bene e gli consente di realizzare dei ricavi che
costituiscono il prezzo dello svolgimento dell'attività.
Nonostante l'uso del parcheggio sia collettivo, viene
comunque pagato un corrispettivo. Sono esclusi dalla tassazione, oltre alle aree pertinenziali
(cosiddette non operative), solo gli immobili non
utilizzabili (inagibili, inabitabili, diroccati) o quelli
improduttivi di rifiuti. Non sono esentate neppure le aree a verde. L'articolo 62 del
decreto legislativo 507/1993 dispone che non sono soggetti
alla tassa i locali e le aree che non possono produrre
rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui
sono stabilmente destinati o perché risultino in obiettive
condizioni di non utilizzabilità nel corso dell'anno,
qualora tali circostanze siano indicate nella denuncia. La Cassazione ha più volte precisato che per l'esclusione
dal pagamento del tributo la condizione di impossibilità di
produrre rifiuti deve dipendere da fattori oggettivi e
permanenti e non dalla contingente e soggettiva modalità di
utilizzazione delle aree
(tratto da ItaliaOggi del
14.08.2013). |
INCARICHI PROFESSIONALI: P.a., maglie strette sulle intese.
Accordi vietati se non per servizi pubblici comuni.
Gli effetti sulle amministrazioni della sentenza
del Cds
sull'affidamento degli appalti.
Vietati gli accordi fra amministrazioni se non finalizzati
all'adempimento di un servizio pubblico comune; si violano
le direttive europee se gli accordi riguardano prestazioni
comprese nelle direttive europee e un corrispettivo ancorché
limitato al rimborso dei costi; molte attività potranno
quindi essere aperte alla concorrenza privata. È questo uno degli effetti principali che potrebbe derivare
dall'applicazione dei principi affermati dalla V Sez. del Consiglio di
Stato con la
sentenza
15.07.2013 n. 3849, pronuncia che riveste una sua particolare
importanza dal momento che gli accordi fra Amministrazioni
costituiscono, insieme al più organico e articolato sistema
del cosiddetto «in house», uno dei meccanismi attraverso i
quali le pubbliche amministrazioni evitano di mettere sul
mercato e affidare a terzi con procedure ad evidenza
pubblica contratti di lavori, forniture e servizi, spesso
anche di rilievo. Il fatto.
La vicenda prende le mosse da un affidamento, per importo
soggetto alla normativa comunitaria (200 mila euro),
riguardante servizi di studio e valutazione della
vulnerabilità sismica di strutture ospedaliere, disposto
dalla Asl di Lecce a favore dell'Università del Salento.
Dopo la sentenza di primo grado del Tar Puglia, che aveva
già dichiarato illegittimo l'affidamento diretto
dell'incarico all'Università per omesso ricorso alle
procedure di evidenza pubblica, il Consiglio di stato aveva
rimesso alla Corte di giustizia la questione della
legittimità degli accordi ex articolo 15 della legge 241/1990.
La giurisprudenza comunitaria. La Corte europea (sentenza
del 19.12.2012, causa C 159/11), aveva affermato la
violazione delle norme delle direttive appalti in quanto
l'accordo non costituiva una forma di cooperazione in comune
di attività fra due amministrazioni aggiudicatrici (così
come prevede la legge 241/90), bensì un vero e proprio
contratto di consulenza per servizi a fronte del pagamento
di un compenso per il quale occorreva procedere con gara,
ammettendo tutti gli operatori economici interessati ad
acquisire la commessa. In precedenza la stessa Corte
(sentenza 09.06.2009, causa C-480/06) aveva ammesso forme
di collaborazione soltanto a condizione che fossero
coinvolte esclusivamente entità pubbliche; vi fosse la
realizzazione congiunta di un servizio pubblico con una
effettiva condivisione di compiti pubblici e responsabilità;
non vi fossero trasferimenti finanziari, a parte quelli
corrispondenti ai costi effettivi sostenuti per le
prestazioni; fosse assente ogni interesse di natura
commerciale. Prima ancora (sentenza 13.01.2005, causa
C-84/03), invece, era stato sostenuto che l'istituto
dell'accordo interamministrativo non potesse essere
utilizzato quale strumento di elusione della normativa in
materia di evidenza pubblica. Il nodo dell'esercizio «in comune» di una attività. Il punto
rispetto al quale ruota la questione della legittimità degli
accordi fra Amministrazione è quello della configurabilità
di una cooperazione tra enti pubblici «finalizzata a
garantire l'adempimento di una funzione di servizio pubblico
comune a questi ultimi». L'art. 15 della legge n. 241/1990
contempla una delle possibili forme di cooperazione tra enti
pubblici, comunque imperniato sul carattere «comune» delle
attività il cui svolgimento viene con essa disciplinato. Il
Consiglio di stato premette che le direttive europee come
prima finalità hanno quella di imporre alle amministrazioni
il rispetto della concorrenza laddove debbano affidare
attività economicamente contendibili e, conseguentemente, in
negativo, escludere l'applicazione delle regole di gara
quando non vi siano rischi di distorsioni del mercato
interno. Se questo è il presupposto, affermano i giudici,
allora gli accordi tra pubbliche amministrazioni previsti
dalla legge generale sul procedimento amministrativo,
legittimi sotto il profilo comunitario e nazionale, sono
necessariamente soltanto quelli aventi la finalità di
disciplinare attività non deducibili in contratti di diritto
privato, perché non inquadrabili in alcuna delle categorie
di prestazioni elencate nell'allegato II-A alla direttiva
appalti n. 2004/18. Pertanto all'interno dell'articolo 15
sono riconducibili quegli accordi il cui contenuto e forma
siano finalizzati a regolare le rispettive attività
funzionali, purché di nessuna di queste possa appropriarsi
uno degli enti stipulanti. Chiarita l'incerta giurisprudenza del Consiglio di stato. Il
Consiglio di stato attribuisce alla pronuncia della Corte di
giustizia relativa al caso esaminato, anche un'importante
valenza di chiarimento del contrasto tra i principi
comunitari da un lato e alcune pronunce della stessa quinta
sezione che avevano reputato legittimo l'affidamento a
titolo oneroso tra pubbliche amministrazioni di un servizio
ricadente tra i compiti di uno degli enti (sentenze n.
1707/2007; n. 4539/2010; n. 6548/2010). In questo caso
assume valenza, oltre ai principi già illustrati, anche il
profilo del corrispettivo: afferma infatti il Consiglio di
stato che qualora un'amministrazione si ponga rispetto
all'accordo come operatore economico-prestatore di servizi a
fronte di un corrispettivo «anche non implicante il
riconoscimento di un utile economico ma solo il rimborso dei
costi, non è possibile parlare di una cooperazione tra enti
pubblici per il perseguimento di funzioni di servizio
pubblico comune, ma di uno scambio tra i medesimi» e,
quindi, si è in presenza di un contratto soggetto alle
direttive, da affidare con gara
(tratto da ItaliaOggi Sette del del
19.08.2013). |
APPALTI:
Anche questa Sezione si è espressa, in un passato
anche recente, nel senso della non configurabilità della
responsabilità precontrattuale della P.A. “anteriormente
alla scelta del contraente, nella fase, cioè, in cui gli
interessati non hanno ancora la qualità di futuri
contraenti, ma soltanto quella di partecipanti alla gara e
vantano esclusivamente una posizione di interesse legittimo
al corretto esercizio dei poteri della pubblica
amministrazione , mentre non sussiste una relazione
specifica di svolgimento delle trattative”. Il fatto è che la ricaduta immediata di una simile
impostazione è quella di finire, in pratica, con l’esonerare
l’Amministrazione dal rispetto del dovere di diligenza e
correttezza per tutto l’arco della sua azione sul terreno
delle procedure dell’evidenza pubblica, che pure
costituiscono la regola del suo agire nella dimensione
contrattuale, finché l’Amministrazione stessa non sia
pervenuta all’esito dell’aggiudicazione. E questo a dispetto
della soggezione di principio, pur normalmente enunciata,
della stessa P.A. all’istituto della culpa in contrahendo,
che porta ad affermare che la sua responsabilità
precontrattuale sarebbe “configurabile in tutti i casi in
cui l'ente pubblico, nelle trattative con i terzi, abbia
compiuto azioni o sia incorso in omissioni contrastanti con
i principi della correttezza e della buonafede, alla cui
puntuale osservanza anch'esso è tenuto, nell'ambito del
rispetto dei doveri primari garantiti dall'art. 2043 cod.
civ.”. --------------- La fase di formazione dei contratti pubblici, come è noto, è
caratterizzata dalla contestuale presenza di un procedimento
amministrativo e di un procedimento negoziale. Il
procedimento amministrativo è disciplinato da regole di
diritto pubblico finalizzate ad assicurare il perseguimento,
anche quando la p.a. agisce mediante moduli convenzionali,
dell'interesse pubblico. Il procedimento negoziale è
disciplinato da regole di diritto privato, finalizzate alla
formazione della volontà contrattuale, che contemplano
normalmente un invito ad offrire della p.a. cui segue la
proposta della controparte e l'accettazione finale della
stessa p.a. La presenza di un modello formativo della
predetta volontà contrattuale predeterminato nei suoi
profili procedimentali mediante la scansione degli atti
sopra indicati, che vede normalmente la presenza di più
soggetti potenzialmente interessati al contratto, non
rappresenta un ostacolo all'applicazione delle regole della
responsabilità precontrattuale. Si è, infatti, in presenza di una formazione necessariamente
progressiva del contratto, non derogabile dalle parti, che
si sviluppa secondo lo schema dell'offerta al pubblico. Non
è, dunque, possibile scindere il momento di sviluppo del
procedimento negoziale limitando l'applicazione delle regole
di responsabilità precontrattuale alla fase in cui il
"contatto sociale" viene individualizzato con l'atto di
aggiudicazione. Del resto, anche nel diritto civile il
modello formativo dell'offerta al pubblico presuppone
normalmente il "contatto" con una pluralità di
"partecipanti" al procedimento negoziale. Diversamente
argomentando l'interprete sarebbe costretto a scindere un
comportamento che si presenta unitario e che
conseguentemente non può che essere valutato nella sua
complessità. --------------- Nello svolgimento della sua attività di ricerca del
contraente, l’amministrazione è tenuta non soltanto a
rispettare le regole dettate nell’interesse pubblico (la cui
violazione implica l’annullamento o la revoca dell’attività
autoritativa) ma anche le norme di correttezza di cui
all’art. 1337 c.c. prescritte dal diritto comune. Il Collegio, per quanto precede, è dell’avviso che la
circostanza che la procedura pubblicistica di scelta del
contraente avviata non fosse ancora sfociata
nell’aggiudicazione non valga, di per sé sola, ad escludere
la configurabilità di una responsabilità precontrattuale in
capo all’Amministrazione revocante, occorrendo invece
all’uopo verificare in concreto la condotta da questa tenuta
alla luce del parametro di diritto comune della correttezza
nelle trattative (fermo restando, comunque, che il grado di
sviluppo raggiunto dalla singola procedura al momento della
revoca, riflettendosi sullo spessore dell’affidamento
ravvisabile nei partecipanti, presenta una sicura rilevanza,
sul piano dello stesso diritto comune, ai fini dello
scrutinio di fondatezza della domanda risarcitoria a titolo
di responsabilità precontrattuale). --------------- La legittimità dell’atto di revoca non elimina il profilo
relativo alla valutazione del comportamento
dell’Amministrazione dal punto di vista del rispetto,
nell’ambito del procedimento di evidenza pubblica, dei
canoni di buona fede e correttezza. Secondo un’acquisizione giurisprudenziale già consacrata
dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la revoca
dell’aggiudicazione e degli atti della relativa procedura,
anche ove ritenuta legittima, lascia invero intatto “il
fatto incancellabile degli “affidamenti” suscitati
nell’impresa dagli atti della procedura di evidenza pubblica
poi rimossi”, onde i relativi comportamenti
dell’Amministrazione, allorché risultino contrastanti con le
regole di correttezza e di buona fede di cui all’art. 1337
del cod. civ., si pongono quali fatti generatori di
responsabilità precontrattuale. E questa acquisizione si
trova ribadita anche presso la giurisprudenza più recente.
In altre parole, quindi, “ai fini della configurabilità
della responsabilità precontrattuale della p.a. non si deve
tener conto della legittimità dell'esercizio della funzione
pubblica cristallizzato nel provvedimento amministrativo, ma
della correttezza del comportamento complessivamente tenuto
dall'Amministrazione durante il corso delle trattative e
della formazione del contratto, alla luce dell'obbligo delle
parti di comportarsi secondo buona fede ai sensi dell'art.
1337 c.c.. Il Comune
con il primo mezzo d’appello assume che in
materia di contratti pubblici una responsabilità
precontrattuale della P.A. per violazione degli obblighi di
correttezza e buona fede potrebbe essere configurata solo in
quella particolare fase della procedura che va
dall’aggiudicazione alla stipula del contratto. Prima dell’aggiudicazione, gli interessati sarebbero solo
dei partecipanti al procedimento amministrativo volto alla
selezione della migliore offerta, e come tali potrebbero
soltanto far valere una pretesa alla legittimità degli atti
compiuti dall’Amministrazione. Poiché, quindi, nella specie la revoca di cui si tratta è
stata disposta ancor prima della scadenza del termine per la
presentazione delle offerte, e perciò in assenza di
qualsivoglia aggiudicazione, non sarebbe configurabile
alcuna forma di culpa in contrahendo. Diversamente
argomentando, viene aggiunto, si giungerebbe al “paradosso”
che la tutela risarcitoria potrebbe essere invocata da tutti
i partecipanti ad una procedura di gara pur legittimamente
revocata. Il motivo è infondato. Il Collegio non potrebbe disconoscere il fatto che
l’interpretazione su cui poggia il motivo abbia trovato
importanti riscontri presso autorevole giurisprudenza (cfr.
Cass. civ., SS.UU., 26.05.1997, n. 4673; Sez. I, n. 13164
del 18.06.2005). Anche questa Sezione si è del resto espressa, in un passato
anche recente, nel senso della non configurabilità della
responsabilità precontrattuale della P.A. “anteriormente
alla scelta del contraente, nella fase, cioè, in cui gli
interessati non hanno ancora la qualità di futuri
contraenti, ma soltanto quella di partecipanti alla gara e
vantano esclusivamente una posizione di interesse legittimo
al corretto esercizio dei poteri della pubblica
amministrazione , mentre non sussiste una relazione
specifica di svolgimento delle trattative” (C.d.S., V,
n. 3393 del 28.05.2010 e n. 6489 dell’08.09.2010: a
fondamento di tale indirizzo, peraltro, è stata richiamata,
a partire dalla sentenza della Sez. IV n. 5633
dell’11.11.2008, la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 6
del 05.09.2005, che oggettivamente tuttavia non risulta
inscrivibile in tale orientamento). Il fatto è che la ricaduta immediata di una simile
impostazione è quella di finire, in pratica, con l’esonerare
l’Amministrazione dal rispetto del dovere di diligenza e
correttezza per tutto l’arco della sua azione sul terreno
delle procedure dell’evidenza pubblica, che pure
costituiscono la regola del suo agire nella dimensione
contrattuale, finché l’Amministrazione stessa non sia
pervenuta all’esito dell’aggiudicazione. E questo a dispetto
della soggezione di principio, pur normalmente enunciata,
della stessa P.A. all’istituto della culpa in contrahendo,
che porta ad affermare che la sua responsabilità
precontrattuale sarebbe “configurabile in tutti i casi in
cui l'ente pubblico, nelle trattative con i terzi, abbia
compiuto azioni o sia incorso in omissioni contrastanti con
i principi della correttezza e della buonafede, alla cui
puntuale osservanza anch'esso è tenuto, nell'ambito del
rispetto dei doveri primari garantiti dall'art. 2043 cod.
civ.” (Cass. civ., III, n. 12313 del 10.06.2005,
richiamata da Sez. II, n. 477 del 10.01.2013). Onde l’interpretazione sostenuta dall’appellante si traduce
in un’aprioristica esenzione dal diritto comune
dell’Amministrazione (proprio quando la medesima opera sul
piano contrattuale) che appare di difficile giustificazione. Occorre poi considerare che la gara non è “altro”
rispetto alla formazione del contratto della P.A.; e che i
privati che vi partecipano, sottoponendo le proprie offerte
alla Stazione appaltante, hanno tutti la qualità di
possibili futuri contraenti con l’Amministrazione. Come ha esattamente osservato in sostanza il primo Giudice,
invero, gli atti del procedimento dell’evidenza pubblica, in
quanto preordinati alla conclusione del contratto, sono al
tempo stesso configurabili anche quali atti di trattativa e
di formazione progressiva del contratto stesso, e come tali
rilevanti anche ai sensi dell’art. 1337 cod.civ.. Questo Consiglio ha recentemente osservato (Sez. VI, n. 5638
del 07.11.2012, e n. 4236 del 25.07.2012), infatti, che "La
fase di formazione dei contratti pubblici, come è noto, è
caratterizzata dalla contestuale presenza di un procedimento
amministrativo e di un procedimento negoziale. Il
procedimento amministrativo è disciplinato da regole di
diritto pubblico finalizzate ad assicurare il perseguimento,
anche quando la p.a. agisce mediante moduli convenzionali,
dell'interesse pubblico. Il procedimento negoziale è
disciplinato da regole di diritto privato, finalizzate alla
formazione della volontà contrattuale, che contemplano
normalmente un invito ad offrire della p.a. cui segue la
proposta della controparte e l'accettazione finale della
stessa p.a. La presenza di un modello formativo della
predetta volontà contrattuale predeterminato nei suoi
profili procedimentali mediante la scansione degli atti
sopra indicati, che vede normalmente la presenza di più
soggetti potenzialmente interessati al contratto, non
rappresenta un ostacolo all'applicazione delle regole della
responsabilità precontrattuale. Si è, infatti, in presenza
di una formazione necessariamente progressiva del contratto,
non derogabile dalle parti, che si sviluppa secondo lo
schema dell'offerta al pubblico. Non è, dunque, possibile
scindere il momento di sviluppo del procedimento negoziale
limitando l'applicazione delle regole di responsabilità
precontrattuale alla fase in cui il "contatto sociale" viene
individualizzato con l'atto di aggiudicazione. Del resto,
anche nel diritto civile il modello formativo dell'offerta
al pubblico presuppone normalmente il "contatto" con una
pluralità di "partecipanti" al procedimento negoziale.
Diversamente argomentando l'interprete sarebbe costretto a
scindere un comportamento che si presenta unitario e che
conseguentemente non può che essere valutato nella sua
complessità.” Già in precedenza, peraltro, la revoca di una procedura
contrattuale non ancora sfociata in aggiudicazione era stata
considerata come possibile fonte di responsabilità
precontrattuale da numerose decisioni di questo Consiglio,
quali Sez. V, n. 2882 dell’11.05.2009 e n. 4947
dell’08.10.2008; Sez. VI, n. 5002 del 05.09.2011 e n. 4921
del 02.09.2011. E la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 6 del 2005 aveva
avvertito come “nello svolgimento della sua attività di
ricerca del contraente l’amministrazione è tenuta non
soltanto a rispettare le regole dettate nell’interesse
pubblico (la cui violazione implica l’annullamento o la
revoca dell’attività autoritativa) ma anche le norme di
correttezza di cui all’art. 1337 c.c. prescritte dal diritto
comune”. Il Collegio, per quanto precede, è dell’avviso che la
circostanza che la procedura pubblicistica di scelta del
contraente avviata non fosse ancora sfociata
nell’aggiudicazione non valga, di per sé sola, ad escludere
la configurabilità di una responsabilità precontrattuale in
capo all’Amministrazione revocante, occorrendo invece
all’uopo verificare in concreto la condotta da questa tenuta
alla luce del parametro di diritto comune della correttezza
nelle trattative (fermo restando, comunque, che il grado di
sviluppo raggiunto dalla singola procedura al momento della
revoca, riflettendosi sullo spessore dell’affidamento
ravvisabile nei partecipanti, presenta una sicura rilevanza,
sul piano dello stesso diritto comune, ai fini dello
scrutinio di fondatezza della domanda risarcitoria a titolo
di responsabilità precontrattuale). Ne consegue l’infondatezza di questo primo mezzo di appello. ---------------
Il Comune con il
suo secondo mezzo oppone che la propria condotta sarebbe
stata del tutto conforme ai canoni della correttezza e buona
fede. L’Ente adduce, difatti: di avere risposto in modo tempestivo
e puntuale alle richieste di chiarimenti ricevute dopo la
pubblicazione del bando di gara (G.U. 15.11.2010); di avere
indi ragionevolmente deciso per la revoca della procedura,
disposta con provvedimento del 24.12.2010: misura adottata a
poco più di un mese dalla pubblicazione del bando, e prima
del termine fissato per la presentazione delle offerte (il
successivo giorno 28); di avere dato, infine, pronta quanto
adeguata pubblicità a tale revoca, mediante pubblicazione
sul proprio sito istituzionale il seguente 27 dicembre ed
affissione all’albo pretorio a partire dal giorno 28 (oltre
che mediante le forme a suo tempo seguite per il bando). Queste considerazioni possono essere sostanzialmente
condivise. Il Tribunale, con il ritenere che dalla revoca di una
procedura di gara, pur intrinsecamente legittima, potesse
ben scaturire una responsabilità precontrattuale
dell’Amministrazione, è partito da un principio di diritto
astrattamente ineccepibile. Esatta, infatti, è la sua osservazione che la legittimità
dell’atto di revoca non elimina il profilo relativo alla
valutazione del comportamento dell’Amministrazione dal punto
di vista del rispetto, nell’ambito del procedimento di
evidenza pubblica, dei canoni di buona fede e correttezza. Secondo un’acquisizione giurisprudenziale già consacrata
dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (n. 6 del
05.09.2005), la revoca dell’aggiudicazione e degli atti
della relativa procedura, anche ove ritenuta legittima,
lascia invero intatto “il fatto incancellabile degli
“affidamenti” suscitati nell’impresa dagli atti della
procedura di evidenza pubblica poi rimossi”, onde i
relativi comportamenti dell’Amministrazione, allorché
risultino contrastanti con le regole di correttezza e di
buona fede di cui all’art. 1337 del cod. civ., si pongono
quali fatti generatori di responsabilità precontrattuale. E
questa acquisizione si trova ribadita anche presso la
giurisprudenza più recente (cfr. C.d.S., VI: nn. 5638 del
07.11.2012 e 4236 del 25.07.2012, già richiamate sotto
diverso profilo nel precedente paragrafo 2b; n. 1440 del
15.03.2012). In altre parole, quindi, “ai fini della configurabilità
della responsabilità precontrattuale della p.a. non si deve
tener conto della legittimità dell'esercizio della funzione
pubblica cristallizzato nel provvedimento amministrativo, ma
della correttezza del comportamento complessivamente tenuto
dall'Amministrazione durante il corso delle trattative e
della formazione del contratto, alla luce dell'obbligo delle
parti di comportarsi secondo buona fede ai sensi dell'art.
1337 c.c.” (C.d.S., IV, 07.02.2012, n. 662, che richiama
a sua volta V, 07.09.2009 n. 5245). Tanto premesso, la Sezione deve tuttavia dissentire dal TAR
nella parte in cui questo ha ritenuto che la condotta tenuta
in concreto dal Comune fosse stata in contrasto con i
parametri deontologici della fase precontrattuale ispirati
al valore della correttezza. Come ha già ricordato il primo Giudice, il provvedimento di
revoca è stato motivato dall’Amministrazione comunale di
Afragola con la “constatata equivocità nella formulazione
di clausole che avevano dato luogo a numerose richieste di
chiarimenti, ingenerando una notevole confusione nella
giusta interpretazione della lex specialis, tale da indurre
in errore i concorrenti nella procedura di gara.
L’amministrazione, pertanto in vista di possibili
contenziosi correlati alla constatata incertezza
interpretativa, e dei connessi oneri futuri dovuti alla
comune esperienza, ha inteso revocare la procedura di gara
motivando la decisione con la necessità di garantire i
principi fondamentali di trasparenza, correttezza,
imparzialità e parità di trattamento nell’esperimento della
gara medesima.” Tali essendo le ragioni che hanno indotto il Comune a
recedere dalla procedura contrattuale poco prima avviata, la
loro serietà e plausibilità appaiono subito manifeste. Partendo dall’equivocità della
lex specialis, pur
senz’altro ammessa dal Comune (tanto da porla a base del
proprio atto di revoca), va osservato che tale connotato
aveva carattere palese, essendo perciò manifesto anche per
le ditte potenzialmente interessate. Come tale, pertanto,
esso già in partenza menomava l’idoneità del bando a
suscitare particolari affidamenti, in particolare con
riferimento alla possibilità di una procedura dalla
disciplina siffatta di andare a buon fine. D’altra parte, il solo fatto dell’essersi una Stazione
appaltante espressa, in occasione della redazione della
disciplina di gara, con elementi equivoci, non può di per sé
essere considerato alla stregua di un contegno lesivo del
principio di correttezza nelle trattative: un’insufficiente
chiarezza potrebbe essere stigmatizzata (al di là del caso
estremo in cui sia addirittura seguita da un approfittamento
della stessa parte dal contegno dianzi equivoco) solo quando
sia stata senza giustificazione protratta nel tempo nel
corso delle trattative, con il dare appunto seguito alla
procedura a dispetto dell’ambiguità della sua lex
specialis, tenendo in non cale le richieste di
chiarimento avanzate dagli operatori. Ma una condizione del
genere nella specie non ricorre. Quanto alla circostanza che il Comune prima si sia adoperato
per tentare di chiarire il senso della disciplina di gara, e
solo in un secondo tempo si sia risolto per la revoca della
procedura, tale punto, lungi dal poter formare materia di
addebito, è semmai indice della cautela e del senso di
responsabilità con cui l’Amministrazione si è mossa, optando
per il recesso dalle trattative solo quando è risultato con
sufficiente nitidezza che non esistevano margini tali da
permettere di recuperare il procedimento mediante interventi
di chiarimento interpretativo. Va rilevato, infine, che la decisione di revoca della gara è
stata presa con tempistica di per sé immune da possibili
censure, e sollecitamente è stata resa conoscibile con i
mezzi a disposizione (in generale, sulla necessità di dare
notizia immediata della revoca di una procedura di evidenza
pubblica cfr. già Ad.Pl. n. 6/2005 cit.). Occorre difatti osservare che quella di cui si tratta era
una procedura aperta, onde la Stazione appaltante non
conosceva a priori l’identità delle imprese che avrebbero
potuto parteciparvi, sì da poterle tempestivamente notiziare
(a mezzo di fax o comunicazione di posta elettronica) prima
che presentassero la loro offerta. Non resta allora che rilevare che la revoca, decisa alla
vigilia di Natale del 2010, è stata pubblicata sul sito
istituzionale dell’Ente il primo giorno feriale successivo,
vale a dire il 27 dicembre, e dall’indomani anche all’albo
pretorio comunale, con tempistica dunque sufficientemente
sollecita, e come tale non passibile di critica. Per quanto precede, al Comune non può essere mosso alcun
addebito di violazione del canone di correttezza nelle
trattative
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
15.07.2013 n. 3831 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va rilasciato il permesso in sanatoria in caso di
interventi funzionali all'adeguamento della struttura ed
all'abbattimento delle barriere architettoniche. Il ricorso è fondato per i motivi e nei termini di cui
appresso. Il provvedimento impugnato motiva il diniego di accertamento
di conformità delle opere eseguite dalla società ricorrente
sul presupposto che dette opere abbiano comportato aumenti
di volumetria o di superficie utile, così configurandosi
come interventi di ristrutturazione edilizia non consentiti
nella zona 2 di Tutela del P.U.T. approvato con legge
regionale 35/1987. Tale presupposto, tuttavia, appare erroneo con riguardo alle
opere eseguite per l’adeguamento della struttura alle
prescrizioni di cui al dm 236/1989, volte a garantire
l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli
edifici privati e di edilizia residenziale pubblica
sovvenzionata e agevolata, in attuazione della legge n. 13
del 1989. Tra i principali interventi per le quali il Comune rileva la
creazione di nuova volumetria vi sono: 1) l’ampliamento e modifica del corpo scala (v. punto 1.a),
2.f), 3.h)) 2) la modifica delle aree di sbarco dell’ascensore (v. punto
1.c, 2.e). La giurisprudenza, a tale riguardo, ha evidenziato che
l'art. 7 legge n. 13 del 1989 qualifica quale interventi di
manutenzione straordinaria quelli finalizzati
all'abbattimento delle barriere architettoniche anche
laddove consistenti in manufatti (comportanti pertanto una
volumetria seppure qualificabile come "volume tecnico")
che alterano la sagoma dell'edificio. Da ciò ha tratto l’inevitabile conseguenza che, a maggiore
ragione, devono ritenersi ricompresi fra gli interventi
assentibili, ai sensi della richiamata norma di favore, gli
interventi determinanti al più un aumento di superficie -e
non di volume- volti comunque all'adeguamento funzionale del
manufatto, ovvero a rendere lo stesso munito di accesso
carrabile (TAR Napoli Sez. VII, n. 3618 - 26.07.2012). La ricorrente, peraltro, aveva avuto modo di contestare la
correttezza dei rilievi fatti dal Comune con proprie
osservazioni alle quali i sottoscrittori del provvedimento
hanno replicato insistendo sulla ascrivibilità delle opere
al regime di ristrutturazione edilizia non consentita nella
zona, omettendo altresì di motivare in ordine all’asserita
preesistenza delle superfici recuperate a seguito dello
spostamento della scala. Vanno, pertanto, accolte le censure di violazione di legge,
erroneità dei presupposti e difetto di istruttoria con
riguardo al diniego di accertamento di conformità degli
interventi funzionali all’adeguamento della struttura ed
all’abbattimento delle barriere architettoniche (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 15.07.2013 n. 1575 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
le opere ultimate anteriormente all'01.09.1967, per le quali
era richiesto -ai sensi dell’art. 31 L. n. 1150/1942 il
rilascio della licenza di costruzione, i soggetti
interessati possono ottenere il permesso in sanatoria,
previo pagamento della somma determinata a titolo di
oblazione ex art. 34 L. n. 47/1985.
Considerato che: - le opere oggetto di richiesta di sanatoria risalgono, come
asserisce il ricorrente, al 1958, affermazione mai smentita
dall’amministrazione comunale ed anzi da questa
implicitamente confermata con il provvedimento favorevole n.
120/1998; - le stesse sono ubicate fuori dal centro abitato,
nell’ambito di un comune all’epoca privo di strumento
urbanistico di pianificazione; a quel tempo non era ancora
esistente alcun vincolo paesistico, introdotto con decreto
ministeriale del 02.11.1968, contenente la dichiarazione di
notevole interesse pubblico del sito, ai sensi della L.
1497/1939; - le opere stesse pertanto non necessitavano di alcuna
licenza o concessione sia per l’aspetto urbanistico-edilizio
sia per quello paesaggistico. Ne consegue che, per il fabbricato eseguito, non era
richiesto il rilascio della concessione edilizia in
sanatoria di cui all’art. 32 l. n. 47/1985. Quand’anche le opere in questione, siano da considerarsi non
pienamente conformi, trova applicazione l’art. 31, comma 5,
L. n. 47/1985, secondo cui “per le opere ultimate
anteriormente al 01.09.1967 per le quali era richiesto, ai
sensi dell’art. 31, comma 1, L. n. 1150 del 1942 e dei
regolamenti edilizi comunali, il rilascio della licenza di
costruzione, i soggetti interessati conseguono la
concessione in sanatoria previo pagamento, a titolo di
oblazione, della somma determinata a norma dell’art. 34
della L. n. 47/1985” (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 15.07.2013 n. 1571 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 11 D.P.R. n. 380/2001, tra i titoli per
richiedere il permesso di costruire rientra il rapporto di
disponibilità qualificata dell'area interessata, il quale
può trovare fondamento anche nel semplice possesso della
stessa. Occorre evidenziare che il permesso di costruire in
sanatoria (n. 10/2012) di cui il Comune intimato ha negato
il ritiro da parte del richiedente sig. Salvatore Stabile,
odierno ricorrente, in conseguenza della mancata esibizione
da parte di quest'ultimo del titolo di proprietà sull'area
interessata, ha ad oggetto la realizzazione di una porzione
di recinzione (per il resto regolarmente assentita con
permesso di costruire n. 32/2011) su terreno (p.lla 107 del
foglio 4) di proprietà di terzo soggetto (la
controinteressata sig. Q.), dal quale è anche
pervenuta al Comune formale opposizione. In virtù del predetto rilievo, il Comune ha altresì avvisato
il ricorrente, mediante l'atto impugnato, dell'avvio del
procedimento di revoca del predetto permesso di costruire n.
10/2012. Ebbene, è fondata, come anticipato nella fase cautelare
(cfr. ordinanza n. 484/2012), la censura con la quale la
parte ricorrente allega il carattere non necessario del
titolo di proprietà sull'area interessata dai lavori. Ribadito infatti che si verte in tema di permesso di
costruire in sanatoria, viene in rilievo, a suffragare la
fondatezza delle deduzioni attoree, l'art. 36 d.P.R. n.
380/2001, ai sensi del quale "in caso di interventi
realizzati in assenza di permesso di costruire, o in
difformità da esso, ovvero in assenza di denuncia di inizio
attività nelle ipotesi di cui all'articolo 22, comma 3, o in
difformità da essa (…), il responsabile dell'abuso, o
l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il
permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento
della realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda". La posizione di responsabile dell'abuso, facente capo al
ricorrente, costituisce quindi, ai sensi del chiaro disposto
normativo, titolo sufficiente a legittimare la presentazione
da parte sua del richiesto titolo edilizio in sanatoria. Il ricorso quindi, come anticipato, deve essere accolto e
conseguentemente annullato il provvedimento impugnato,
mentre può dichiararsi l'assorbimento delle censure non
esaminate
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 15.07.2013 n. 1565 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
presenza di opere che implichino una stabile (benché non
irreversibile) trasformazione del territorio, preordinata a
soddisfare esigenze non precarie, è necessario il rilascio
di un idoneo titolo edilizio. Qualora l'entità del deposito dei materiali e la stabilità
dell'utilizzazione dell'area emergano con una certa
evidenza, è da ritenersi realizzata una trasformazione
permanente dell'assetto edilizio del territorio,
necessitante di concessione edilizia. --------------- La sussistenza da lungo tempo dell’opera abusiva non esclude
certamente il potere di controllo e di repressione del
comune in materia urbanistico-edilizia, perché l'esercizio
di tale potere non è soggetto a prescrizione o decadenza.
Ne consegue che l'accertamento dell'illecito amministrativo
e l'applicazione della relativa sanzione possono intervenire
anche a notevole distanza di tempo dalla commissione
dell'abuso, senza che il ritardo nell'adozione della
sanzione comporti sanatoria o il sorgere di affidamenti o
situazioni consolidate. --------------- L'ordine di demolizione costituisce atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né infine una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure
ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva che il
tempo non può giammai legittimare, a maggiori ragione
laddove l'abuso ricada in zona soggetta a vincola
paesaggistica. Va innanzitutto respinto il rilievo secondo il quale
l’attività di deposito avviata sul fondo cui al foglio 9
mappale n. 421 non necessiterebbe di alcun titolo
abilitativo, non integrando causa di trasformazione dello
stato dei luoghi. L'affermazione urta in via di fatto con le emergenze dei
verbali di sopralluogo prodotti in giudizio che illustrano
come il sedime sia occupato da: - otto container colmi di traversine; - due rimorchi altrettanto colmi; - altre traversine accatastate sul terreno, per 17 m di
lunghezza, 9 m di larghezza e circa 3 m di altezza quindi
con un volume di 450 mc. L’argomentazione contrasta, inoltre, in punto di diritto,
con il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il
quale -in presenza di opere che implichino una stabile
(benché non irreversibile) trasformazione del territorio,
preordinata a soddisfare esigenze non precarie- è
necessario il rilascio di un idoneo titolo edilizio (cfr.,
ex multis, Cons. St. sez. IV, 24.07.2012, n. 4214). Sul punto la giurisprudenza amministrativa ha costantemente
affermato che, qualora l'entità del deposito dei materiali e
la stabilità dell'utilizzazione dell'area emergano con una
certa evidenza, è da ritenersi realizzata una trasformazione
permanente dell'assetto edilizio del territorio,
necessitante di concessione edilizia (TAR Milano sez. IV,
20.12.2011, n. 3307 e sez. II, 11.03.2011, n. 583). Nel caso di specie, in considerazione dell'entità del
deposito di materiali e mezzi d'opera, del relativo ingombro
(evincibile dalla documentazione fotografica in atti) e
della stabilità dell’utilizzazione dell'area come deposito
(l'amministrazione ha, difatti, constatato la posa di
materiale inerte già con verbale del 17.11.2008), è da
ritenersi certamente realizzata una trasformazione
permanente dell'assetto edilizio del territorio,
necessitante del rilascio di permesso di costruire ai sensi
dell'art. 3, lett. e7), d.P.R. n. 380/2001 (che fa
riferimento alle ipotesi di “realizzazione di depositi di
merci o di materiali” e di “realizzazione di impianti per
attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione
di lavori cui consegua la trasformazione permanente del
suolo in edificato”). In replica ad un’ulteriore contestazione contenuta in
ricorso si osserva che la sussistenza da lungo tempo
dell’opera abusiva non esclude certamente il potere di
controllo e di repressione del comune in materia urbanistico-edilizia, perché l'esercizio di tale potere non
è soggetto a prescrizione o decadenza. Ne consegue che
l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione
della relativa sanzione possono intervenire anche a notevole
distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che il
ritardo nell'adozione della sanzione comporti sanatoria o il
sorgere di affidamenti o situazioni consolidate (TAR
Milano sez. II, 17.06.2008, n. 2045 e 11.03.2011, n.
583). ---------------
L'ordine di
demolizione, infatti, costituisce atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né infine una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure
ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva che il
tempo non può giammai legittimare, a maggiori ragione
laddove l'abuso ricada in zona soggetta a vincola
paesaggistica (cfr. TAR Liguria sez. I, 29.01.2013,
n. 217; TAR Napoli sez. II, 12.03.2013, n. 1410 e sez. III,
08.03.2013, n. 1374)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 12.07.2013 n. 891 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Ci si prepara all'esame senza permessi retribuiti. La Sez. lavoro della Corte di Cassazione, con
sentenza
10.07.2013 n.
17128, ha escluso il diritto ai
permessi studio retribuiti per consentire la preparazione di
un esame ad un dipendente pubblico. Secondo i giudici di legittimità l'esercizio del diritto
allo studio non contempla anche il tempo occorrente per la
preparazione degli esami al fine del conseguimento del
titolo, ma ai sensi e per gli effetti dell'art. 1363 c.c.,
si rileva la lettura del comma 3, nel quale il diritto allo
studio è sussidiato non dai permessi, ma dall'obbligo del
datore di lavoro di assegnare turni di lavoro tali da
agevolare «la frequenza ai corsi» e «la preparazione agli
esami», escludendo altresì, l'obbligo del dipendente di
eseguire prestazioni di lavoro straordinario. Inoltre, per giurisprudenza della stessa corte (Cass., n.
3871 del 2011), la fruizione dei permessi di studio
prescinde dalla sussistenza di un interesse in capo al
datore di lavoro, pubblico o privato, essendo riconducibile
a diritti fondamentali della persona, garantiti dalla
Costituzione (artt. 2 e 34 Cost.) e dalla Convenzione dei
diritti dell'uomo (art. 2 Protocollo addizionale Cedu), e
tutelati dalla legge in relazione ai diritti dei lavoratori
studenti (art. 10 della legge n. 300 del 1970). Se, dunque, la previsione di tali permessi rinviene la sua
fonte originaria nei diritti fondamentali della persona, la
conformazione dell'istituto ad opera dell'art. 3 del dpr n.
395 del 1988 (art. 15 Ccnl 14.09.2000, sopra
richiamato), ragionevolmente, è avvenuta nel senso di
offrire allo studente lavoratore l'opportunità di fruire
della formazione erogata in sede universitaria, nelle
lezioni tenute per lo svolgimento del corso finalizzato a
sostenere l'esame, così da non discriminarlo rispetto agli
studenti non lavoratori, ed assicurando in concreto
l'esercizio del diritto allo studio in conformità con i
principi enunciati dagli artt. 3 e 34 Cost.. Il legislatore ha, pertanto, individuato nella frequenza
alle lezioni il momento di insostituibile apprendimento dal
quale dipende il maggior arricchimento del bagaglio
culturale del dipendente e, prendendo atto che le lezioni si
svolgono abitualmente nell'orario di lavoro, in questo modo
ha consentito allo studente lavoratore di poter fruire, sia
pure in parte, di tale arricchimento, ma non ha anche
garantito il tempo necessario per la preparazione agli esami (tratto da ItaliaOggi Sette
del 12.08.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Agenti.
Pistola via ma non la divisa. L'agente di polizia locale che perde la qualifica di
pubblica sicurezza non può essere trasferito in un altro
ufficio ma deve restare nell'area vigilanza.
Lo ha chiarito
il Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza 10.07.2013 n. 3711.
La vicenda riguarda un vigile urbano in servizio in Liguria
con problemi di salute che è stato oggetto della revoca da
parte della prefettura della qualifica di pubblica
sicurezza. La qualifica di agente di pubblica sicurezza è
una prerogativa accessoria rispetto a quella di guardia
comunale. In pratica un agente municipale può svolgere servizio in
divisa anche senza la qualifica di pubblica sicurezza e
conseguentemente senza armi. Senza l'armamento l'agente non
potrà svolgere servizi particolari e rischiosi ma non è
previsto alcun automatismo tra la revoca della qualifica di
pubblica sicurezza e il mutamento del profilo professionale
del vigile (tratto da ItaliaOggi Sette del del
19.08.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Divisa sì, pistola no. L'agente di polizia locale che perde la qualifica di
pubblica sicurezza non può essere trasferito in un altro
ufficio ma deve restare nell'area vigilanza.
Lo ha chiarito
il Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza 10.07.2013 n. 3711.
Un vigile con problemi di salute è stato oggetto di revoca
da parte della prefettura della qualifica di pubblica
sicurezza. Il comune gli ha tolto la divisa inquadrandolo
come amministrativo. L'interessato ha proposto con successo
ricorso ai giudici amministrativi. La qualifica di agente di
p.a. è una prerogativa accessoria rispetto a quella di
guardia comunale. In pratica un agente municipale può svolgere servizio in
divisa anche senza la qualifica di pubblica sicurezza e
conseguentemente senza armi. Senza l'armamento l'agente non
potrà svolgere servizi particolari e rischiosi ma non è
previsto alcun automatismo tra la revoca della qualifica di
pubblica sicurezza e il mutamento del profilo professionale
del vigile (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013). |
VARI:
Cassazione.
Il papà si ricordi chi guidava. Il proprietario di un veicolo è sempre tenuto a ricordarsi
le generalità del soggetto al quale affida il proprio mezzo.
E questa regola non trova eccezioni neanche in ambito
familiare.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sez. VI
civ., con l'ordinanza 08.07.2013 n. 16952. Un
automobilista è incappato in un controllo elettronico della
velocità e per questo oltre alla multa è stato invitato
dalla polizia a fornire le generalità del conducente per la
decurtazione di punti. A seguito della tempestiva
comunicazione di non essere in grado di fornire i dati
richiesti, trattandosi di un'auto a uso della famiglia, la
polizia ha redatto un secondo verbale per omessa delazione.
Il proprietario del veicolo, specifica il collegio, «è
tenuto a conoscere l'identità dei soggetti ai quali affida
la conduzione, onde dell'eventuale incapacità di
identificare detti soggetti necessariamente risponde a
titolo di colpa per negligente osservanza del dovere di
vigilare sull'affidamento»
(tratto da ItaliaOggi Sette del del
19.08.2013). |
TRIBUTI: Valida solo la notifica alla casa comunale. In caso di
irreperibilità opera la procedura prevista dall'articolo 140
Cpc.. Decisione della commissione
tributaria regionale di Roma. Se il destinatario della notifica è «irreperibile» la stessa
si perfeziona solo con il deposito presso la casa comunale
secondo la procedura prevista dall'art. 140 del codice di
procedura civile (Cpc). La Commissione tributaria regionale di Roma, con la
sentenza 04.07.2013 n.
239/06/13, ha affermato che in caso
di irreperibilità del contribuente, la notifica si
perfeziona se sono assolte tutte le formalità previste
dall'art. 140 Cpc (deposito dell'atto al comune; affissione
del relativo avviso di deposito all'abitazione e notifica
dello stesso per raccomandata con avviso di ricevimento). La procedura di notifica degli atti tributari è disciplinata
dagli artt. 137 e ss. del Cpc, così come stabilisce l'art.
16, comma 2, del dlgs n. 546/1992. Tale ultima disposizione
richiama l'art. 60, comma 1, lett. a), del dpr n. 600 del
1973, prevedendo che le notifiche possono eseguirsi, oltre
che a mezzo dell'ufficiale giudiziario, anche a mezzo di
messo comunale o messo speciale autorizzato dalla stessa
amministrazione, che pone in essere le medesime forme
attuate dall'ufficiale giudiziario. Alternativamente alla procedura di notifica cosiddetta
«brevi manu» (se non eseguita a mani proprie la
notificazione deve essere fatta nel domicilio fiscale del
destinatario), è possibile effettuare la notifica mediante
il servizio postale con spedizione dell'atto in plico
raccomandato senza busta con avviso di ricevimento. L'art. 140 Cpc stabilisce, inoltre, che nel caso di
«irreperibilità», incapacità o rifiuto a ricevere da parte
del destinatario dell'atto, l'ufficiale giudiziario deposita
la copia nella casa comunale dove sarà eseguita la notifica,
dandone notizia per raccomandata con avviso di ricevimento. Nel caso in esame il contribuente eccepiva l'illegittimità
dell'avvenuta notifica della cartella di pagamento atteso
che l'agente notificatore aveva provveduto al deposito
dell'atto alla casa comunale nonostante la sua residenza
risultasse comprovata dagli atti anagrafici. La Commissione
tributaria provinciale aveva accolto il ricorso dichiarando
priva di efficacia la cartella di pagamento. I giudici tributari di appello hanno ritenuto che nel caso
di specie non è risultato perfezionato il procedimento
notificatorio, atteso che il citato art. 140 prevede una
serie di adempimenti, tra cui l'avvenuta affissione
dell'avviso del deposito in busta chiusa sigillata alla
porta dell'abitazione del destinatario nonché l'invio
dell'avviso di ricevimento dell'avvenuta affissione Tali
documenti sono stati prodotti solo in sede di appello per
cui si è determinato un error in procedendo che,
riverberandosi su tutti gli atti successivi, ha inficiato
l'intero giudizio Tale principio trova conferma nella giurisprudenza della
Cassazione che ha ritenuto applicabile la procedura di cui
all'art. 140 Cpc quando siano conosciuti la residenza e
l'indirizzo del destinatario, ma non si è potuto eseguire la
consegna dell'atto perché il soggetto non è stato rinvenuto
in detto indirizzo da dove non risulta trasferito, mentre è
applicabile l'art. 60 del decreto del presidente della
repubblica 600/1973 allorché l'agente notificatore non trovi
il contribuente in quanto, da notizie acquisite, risulta
trasferito in luogo sconosciuto (Cassazione 16050/2011). Deve distinguersi, quindi, tra assenza temporanea dalla
propria residenza e assenza definitiva o irreperibilità del
destinatario, per cui il regime di notifica degli atti in
caso di irreperibilità temporanea è diverso da quello per i
casi di irreperibilità definitiva: solo in quest'ultimo caso
è prevista l'obbligatorietà dell'affissione nell'albo
comunale (Cassazione 6114/2013)
(tratto da ItaliaOggi del
17.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Rete cellulari, capillarità da garantire. La selezione dei criteri di insediamento degli impianti di
telefonia mobile da parte delle amministrazioni a vario
titolo interessate, deve tener conto della nozione di «rete
di telecomunicazione», che per definizione richiede una
diffusione capillare sul territorio, segnatamente nei casi
di telefonia mobile (c.d. «cellulare»), che, alla debolezza
del segnale di antenna, associa la necessità di un rapporto
di contiguità delle singole stazioni radio base.
Questo ha
stabilito la III Sez. del Consiglio di Stato con
sentenza
03.07.2013 n. 3575, che si è espressa
circa i caratteri e i limiti della pianificazione
urbanistica da parte comunale in materia di impianti di
telefonia mobile. In via preliminare, in sintonia con quanto affermato dallo
stesso collegio, sembra opportuno sottolineare come «il
servizio pubblico di comunicazione mobile è preordinato a
consentire a tutta la popolazione, sia residente che in
transito sul territorio dei singoli comuni, di potere essere
adeguatamente servita nelle diverse condizioni di
comunicazione, in movimento o fissa, entro e fuori dagli
edifici, entro e fuori dal centro abitato, in tutte le ore
del giorno e della notte e anche negli orari di massima
concentrazione del traffico». Pertanto, per effetto dell'art. 86 del dlgs 01.08.2003,
n. 259, delle infrastrutture di reti pubbliche di
telecomunicazione alle opere di urbanizzazione primaria, si
deduce che le stesse debbano collegarsi ed essere poste al
servizio dell'insediamento abitativo e non essere dalle
stesso avulse. Il Consiglio di stato ha poi ribadito che è stato anche
rilevato che la determinazione, da parte delle
amministrazioni locali, di limiti di localizzazione degli
impianti non può tradursi in una misura surrettizia di
tutela della popolazione da immissioni radioelettriche che
l'art. 4 della legge 22 febbraio 2001, n. 36 riserva allo
stato attraverso l'individuazione di puntuali limiti di
esposizione, valori di attenzione e obiettivi di qualità, da
introdursi con decreto del presidente del consiglio dei
ministri su proposta del ministro dell'ambiente, di concerto
con il ministro della salute (cfr. Cons. stato, VI, 03.03.2007, n. 1017;
05.06.2006, n. 3332; 05.08.2005, n.
4159; 20.12.2002, n. 7274; 03.06.2002, n. 3095;
cfr. anche Corte cost. sentenza n. 336 del 27.07.2005). È pur vero, hanno concluso i giudici di Palazzo Spada, che
ai sensi dell'art. 8, c. 6, legge n. 36 del 2001 «i comuni
possono adottare un regolamento per assicurare il corretto
insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e
minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi
elettromagnetici» ma, al riguardo, la giurisprudenza ha più
volte affermato che da tale previsione debbono discendere
regole comunali ragionevoli, motivate e certe, poste a
presidio di interessi di rilievo specifico a livello locale,
per il particolare valore paesaggistico e ambientale o
storico-artistico di certe porzioni del territorio, ovvero
per la presenza di siti che, per la loro destinazione d'uso,
possano essere qualificati particolarmente sensibili alle
immissioni elettromagnetiche, non potendo comunque imporsi
un generalizzato divieto di installazione in identificate
zone urbanistiche del territorio comunale (tra le altre:
Cons. stato, VI, 15.07.2010, n. 4557; cfr. anche Corte cost.
sentenza n. 336 del 27.07.2005)»
(tratto da ItaliaOggi del
15.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: INEFFICACIA
SANANTE DEL DECORSO DEL TEMPO
NEI CONFRONTI DELL’ABUSO EDILIZIO. Il decorso del tempo non svolge alcuna efficacia sanante
nei confronti dell’abuso edilizio, che ha carattere
permanente
e può quindi essere perseguito senza limiti di
tempo. Il proprietario di un albergo propone ricorso al TAR avverso
il
provvedimento con il quale il Comune gli ha ingiunto di
procedere
alla demolizione di due interventi edilizi realizzati senza
il previo titolo abilitativo e consistenti, il primo, nel
frazionamento
con un tramezzo in muratura del pianoterra in due
unità con diversa destinazione funzionale e, il secondo,
nella
realizzazione di una galleria di collegamento fra l’albergo
e
un immobile adiacente. Afferma che ambedue gli interventi
sanzionati sono risalenti nel tempo, perché effettuati
almeno
50 anni fa. Contesta quindi l’omessa valutazione da parte
dell’Amministrazione comunale dell’interesse pubblico
sotteso
alla demolizione, dell’affidamento in lui ingenerato dal
trascorrere degli anni e dell’inerzia del Comune
nell’esercizio
del potere repressivo. Il Tribunale dichiara infondata la
censura. Premette di aderire all’orientamento giurisprudenziale
(Cons. Stato, sez. VI, 11.05.2001, n. 2781) per il quale
il
decorso del tempo non spiega alcuna efficacia sanante nei
confronti dell’abuso edilizio, che ha carattere permanente e
può essere perseguito senza limiti di tempo. Però, al
tempo
stesso, dà atto che è diffuso in giurisprudenza un
orientamento
contrario (Cons. Stato, sez. IV, 12.04.2011, n.
2266) per il quale, specie in presenza di abusi di minore
gravità, l’Amministrazione è obbligata a valutare la sussistenza
di un preminente interesse pubblico alla demolizione,
ponendolo
a confronto con l’affidamento maturato in capo all’autore
dell’abuso. Dichiara di non condividere tale conclusione. Riconosce che il principio di tutela dell’affidamento,
operante
anche nel diritto comunitario, trova fondamento
costituzionale
nell’esigenza di proteggere la sicurezza giuridica dei
rapporti maturati in base alla legge, ed in tali limiti
costituisce,
siccome anche di recente chiarito dal giudice delle leggi
(Corte cost., nn. 271 del 2011, 15 del 2012 e 78 del 2012),
un elemento fondamentale dello Stato di diritto. Esso
affonda
dunque le radici non già nel consolidamento di uno stato
di fatto contrario al diritto, ma nella costituzione di una
posizione
giuridica di favore tutelata dall’ordinamento, la cui
vanificazione è tollerabile solo in presenza di prevalenti interessi
costituzionali. Sotto tale profilo, l’affidamento può
nascere
solo dalla legge o, comunque, radicarsi in ragione
dell’azione
amministrativa svolta in base alla legge, ma nel caso al suo
esame nessuno di detti presupposti sussiste. D’altro canto
l’inerzia dell’Amministrazione nel perseguire l’abuso non
equivale a tolleranza ma al limite potrebbe, atteso il
dovere
degli uffici competenti di attivarsi ove ravvisino
l’illecito e
ove ciò fosse previsto dalla legge, comportare il mero
decorso
di un termine prescrizionale, ma il legislatore non ha
inteso
introdurre un termine, in assenza del quale si espande il
principio generale secondo cui il potere amministrativo non
si consuma per effetto del tempo. Aggiunge che, a fronte di un illecito permanente, non si
vede
neppure quale interesse pubblico ulteriore rispetto al
ripristino
della legalità dovrebbe venire apprezzato
dall’Amministrazione,
atteso che compito di quest’ultima è ricondurre in
pristino lo stato dei luoghi, rimuovendo l’illegale
alterazione
dell’assetto urbanistico del territorio. Conclude nel senso
che l’affidamento è legittimo se nasce nella legalità, e
non a
seguito di pretese tolleranze in sé contrarie al diritto
(tratto da Urbanistica e appalti n. 8-9/2013 - TAR Lazio-Roma,
Sez. I-quater,
sentenza 27.05.2013 n. 5277 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: No a nuovi benzinai senza la valutazione ambientale. Niente nuovi benzinai senza la Vas, la valutazione
ambientale strategica che è necessaria per ogni intervento
urbanistico che può avere effetti negativi sull'ecosistema.
Annullata la delibera del consiglio comunale che introduce
la variante al piano regolatore generale per disciplinare la
nuova rete dei distributori di carburante ma senza adempiere
a tutti i suoi doveri: in primis preparare il rapporto
preliminare da sottoporre alla provincia per verificare
l'assoggettabilità alla Vas. Il documento risulta privo dei
contenuti richiesti dalle norme europee: gli esercenti del
territorio, insomma, riescono a bloccare l'arrivo di cinque
nuovi concorrenti.
È quanto emerge dalla
sentenza
23.05.2013 n. 186,
pubblicata dal TAR Emilia Romagna-Parma. Un «guscio vuoto». Questo è per i giudici il rapporto
preliminare alla Vas, peraltro predisposto dal comune
soltanto dopo che arriva la richiesta dell'amministrazione
provinciale in vista dell'approvazione del piano.
«Preliminare», insomma, è una parola grossa, visto che il
documento arriva comunque dopo l'adozione da parte del
comune dello strumento urbanistico che disciplina la nuova
distribuzione delle pompe di benzina, con cinque nuovi punti
di rifornimento concentrati nel 5% del territorio; una
scelta forse discutibile ma comunque legittima se
l'amministrazione avesse però effettuato una valutazione
sull'impatto complessivo sull'ambiente connesso
all'installazione dei chioschi in una zona ricca di «pozzi e
tratti acquiferi ad alta vulnerabilità». È vero: secondo una
certa giurisprudenza amministrativa il rapporto preliminare
risulta tempestivo anche se arriva dopo l'adozione del piano
da parte del comune, a patto che sia emesso prima
dell'approvazione della provincia. Ma il collegio non è
d'accordo e accoglie il ricorso dei benzinai già operanti
sul territorio, secondo i quali risulta inutile produrre il
rapporto come mero adempimento burocratico, a posteriori
sulla variante già adottata «così vanificandone la finalità
di indagine preventiva»
(tratto da ItaliaOggi del
15.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: RILASCIO
DELLA SANATORIA EDILIZIA ED ESCLUSIONE
DELL’AUTOMATICA CADUCAZIONE DELL’ORDINE
DI DEMOLIZIONE. Ai fini della revoca o sospensione dell’ordine di
demolizione
delle opere abusive (D.P.R. n. 380 del 2001, art.
31), il rilascio della concessione in sanatoria non comporta
l’automatica caducazione dell’ordine di demolizione
impartito nella sentenza di condanna per il reato edilizio,
avendo il giudice dell’esecuzione il dovere di controllare
la legittimità della concessione sotto il profilo
della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione
nonché dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla
legge per il corretto esercizio del potere di rilascio, per
preservare il principio di disapplicazione dell’atto
amministrativo
illegittimo, necessario per garantire efficacemente
l’interesse protetto. S’inserisce in un consolidato orientamento giurisprudenziale
di legittimità la decisione oggetto di esame da parte della
Suprema Corte, vertente sugli effetti caducatori o meno
del rilascio della sanatoria edilizia rispetto all’ordine di
demolizione
emesso in sede di merito. La vicenda processuale
segue all’ordinanza con cui la Corte d’appello aveva
respinto
l’istanza di revoca dell’ordine di demolizione dell’opera
abusiva emesso ex D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31,
comma 9, con sentenza del Tribunale, che aveva condannato
gli imputati, tra l’altro, per il reato di cui al D.P.R. n.
380 del 2001, art. 44, lett. b), per sopraelevazione, in
assenza
di titoli abilitativi, di due piani di un fabbricato
preesistente,
pronuncia che era stata successivamente confermata
dalla Corte d’appello con sentenza irrevocabile. Gli
istanti avevano chiesto la revoca adducendo di avere
conseguito
per il fabbricato abusivo il permesso di costruire in
sanatoria. La Corte aveva rilevato che il permesso suddetto
era stato emesso ai sensi del D.L. n. 269 del 2003 (conv.
in L. n. 326 del 2003), laddove sia la sentenza di primo sia
la sentenza di secondo grado avevano espressamente
escluso la condonabilità dell’opera in base a tale
normativa,
poiché non era stata completata nel rustico e nella
copertura
entro il 31.03.2003 (oltre a superare i limiti di
volumetria
previsti, che non potevano oltrepassare 750 m3). L’ordinanza rilevava che tale statuizione era divenuta
irrevocabile,
e quindi non più discutibile in sede esecutiva, ed
era comunque anche condivisibile essendo l’ultimazione
entro il 31.03.2003 presupposto del condono edilizio
(D.L. n. 269 del 2003, art. 32, comma 25, convertito in L.
n.
326 del 2003) e risultando dalle fotografie in atti che i
due
piani rialzati alla data dell’accertamento erano ancora
privi
della muratura esterna di tamponatura; di conseguenza la
Corte ha ritenuto di dover disapplicare il permesso di
costruire
in quanto illegittimo e ha ordinato l’esecuzione della
demolizione delle opere oggetto della sentenza della Corte
d’appello. Contro l’ordinanza di rigetto proponevano ricorso
per cassazione gli imputati, sostenendo -per quanto qui di
interesse- che il giudice dell’esecuzione, mancando un
accertamento
sulla legittimità del condono, non avrebbe potuto
disapplicare l’atto amministrativo: il rilascio di
concessione
sanante per condono edilizio dopo il passaggio in giudicato
della sentenza di condanna può comportare l’inapplicabilità
e la revoca dell’ordine di demolizione, sempre revocabile
se incompatibile con atti amministrativi. La Corte di legittimità ha, tuttavia, respinto il ricorso,
affermando
il principio di cui in massima, così inserendosi sulla
scia di quella giurisprudenza di legittimità che, come
anticipato,
sostiene che l’ordine di demolizione del manufatto
abusivo, impartito con la sentenza di condanna, non è caducato
in modo automatico dal rilascio del permesso di costruire
in sanatoria (v., da ultimo, tra le tante: Cass. pen., sez.
III,
16.11.2010, n. 40475, in CED Cass., n. 249306) (tratto da
Urbanistica e appalti n. 8-9/2013 -
Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.05.2013 n. 21962). |
EDILIZIA PRIVATA: AL
COMUNE SPETTA LA QUALITA' DI PARTE OFFESA
NEI PROCEDIMENTI PENALI RELATIVI A VIOLAZIONI
URBANISTICO-EDILIZIE. Nei procedimenti per violazioni urbanistico-edilizie compete
all’ente comunale la qualifica di parte offesa stante
il diritto di ogni ente pubblico al riconoscimento, al
rispetto e all’inviolabilità della propria posizione
funzionale,
così come del diritto alla realizzazione e alla
conservazione
di un ordinato sviluppo di un predeterminato
assetto urbanistico, che sono compromessi dagli illeciti
urbanistici. Il tema, di regola non adeguatamente approfondito in
giurisprudenza,
oggetto di attenzione da parte della Corte Suprema
nella decisione in esame verte sulla possibile attribuzione
all’ente locale (Comune) della qualità di persone
offesa nell’ambito di un procedimento penale iscritto per
violazioni urbanistico-edilizie. La vicenda processuale
segue
al decreto con cui il GIP del Tribunale ha disposto
l’archiviazione
di un procedimento nei confronti di C.M. e altri
tre soggetti. Contro il decreto ha presentato ricorso il
difensore
del comune di A., esponendo che il Comune aveva
depositato presso la Procura della Repubblica presso il
Tribunale
una memoria ex art. 121 c.p.p. in relazione al procedimento
penale a carico degli indagati, per il reato di cui al
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), chiedendo ex art.
408 c.p.p., di essere informato in caso di archiviazione.
Successivamente, l’avvocatura comunale, chiedendo
informazioni
sull’esito del procedimento, otteneva le copie del
fascicolo da cui risultava che precedentemente il P.M. aveva
chiesto l’archiviazione, disposta con il decreto impugnato,
senza dare notizia al Comune ex art. 408, comma 2,
c.p.p. in violazione del principio del contraddittorio, con
conseguente nullità del provvedimento ex art. 178, lett. c), c.p.p.. La tesi difensiva è stata accolta dalla Cassazione che,
nell’affermare
il principio di cui in massima, ha fatto coerente
applicazione
di un orientamento giurisprudenziale che, oltre a
riconoscere la qualità di persona offesa per i reati
urbanistico-edilizi, riconosce anche come legittima la costituzione di
parte civile del Comune nel cui territorio insiste l’opera,
atteso
che nell’ente locale è identificabile una situazione di
interesse
personale e differenziato distinto dall’interesse diffuso
all’osservanza delle norme urbanistiche comune alla
generalità
dei cittadini, discendendo in tal caso il danno dall’offesa
al bene specifico individuato proprio nel territorio il cui
assetto
urbanistico viene ad essere pregiudicato dall’intervento
abusivo (v., sul punto: Cass. pen., sez. III, 09.08.2002,
n.
29667, in CED Cass., n. 222116; Id., sez. III, 15.07.2005,
n. 26121, in CED Cass., n. 231952) (tratto da Urbanistica e appalti n. 8-9/2013 -
Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.05.2013 n. 21937). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Canna fumaria fastidiosa, no alla rimozione. Stop alla canna fumaria che con le sue emissioni assedia la
casa del vicino. E ciò anche se il regolamento comunale che
dispone l'altezza minima delle condotte di scarico risulta
successivo alla costruzione «incriminata»: il principio
dell'irretroattività, infatti, non vale quando il
provvedimento del Comune è adottato a tutela della salute
degli individui. Ciò che invece l'amministrazione non può fare è ordinare
tout court l'abbattimento del manufatto senza studiare con
il proprietario dell'immobile soluzioni alternative alla
demolizione come l'adeguamento dei tubi, che pure
consentirebbe di superare le criticità lamentate dal
confinante.
È quanto emerge dalla III Sez.,
sentenza 22.05.2013 n. 1165,
pubblicata dal TAR Puglia-Lecce. Abbattimento e adeguamento Accolto il ricorso del proprietario della canna fumaria
denunciato dal vicino che ha la casa invasa dai fumi.
Stavolta il servizio urbanistica ed edilizia pubblica del
Comune è più realista del re: il confinante chiede soltanto
un adeguamento del condotto di scarico, sbaglia
l'amministrazione a decidere direttamente di imporre la
rimozione. Inutile per il proprietario «condannato»
all'abbattimento eccepire che il manufatto è lì da sempre,
mentre è il vicino ad aver sopraelevato la sua costruzione
così oggi si trova esposto alle esalazioni del comignolo.
Né giova osservare che il manufatto preesiste allo stesso
regolamento comunale: è vero, le norme sopravvenute sulle
distanze tra gli edifici non esplicano di solito efficacia
retroattiva su situazioni già consolidate. Qui, però, il
servizio del Comune interviene contro la cattiva dispersione
dei fumi immessi nell'atmosfera, che possono risultare
nocivi: l'ordinanza, insomma, risulta dettata dalla
necessità «di eliminare o di attenuare la preesistente
situazione di rischio igienico-sanitario». Ma attenzione: un conto è l'abbattimento dell'intera
struttura, ragionano i giudici amministrativi, un altro è
l'adeguamento tecnico. Trova allora ingresso la censura che
sostiene la nullità dell'ordinanza per violazione della
legge 241/90, articolo 7, sulla trasparenza amministrativa:
l'ente locale avrebbe dovuto convocare l'interessato per un
confronto su come eliminare il paventato rischio di
inquinamento (tratto da ItaliaOggi Sette
del 12.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: PUBBLICAZIONE
SULLA GAZZETTA REGIONALE DEI SITI
DI IMPORTANZA COMUNITARIA ED INCIDENZA
SULLA LEGITTIMITA' DELLA CONCESSIONE.
La pubblicazione nell’elenco dei siti proposti d’importanza
comunitaria sulla Gazzetta regionale, produce giuridico
effetto ai sensi del D.P.R. n. 357 del 1997, art. 5
(che obbliga a tenere conto della valenza
naturalistico-ambientale
per tali siti), ciò in coerenza con lo spessore
dell’interesse pubblico, interno e comunitario, alla
preservazione
del territorio, incompatibile con un’irrilevanza
temporalmente protratta di quanto è già stato
giuridicamente
identificato a un ragionevole livello come
meritevole di tutela. Il tema oggetto di esame da parte della Suprema Corte
attiene,
nel caso in esame, alla questione, invero non adeguatamente
approfondita sino ad oggi dalla giurisprudenza di
legittimità, della incidenza che può riverberarsi sulla legittimità
di
un titolo abilitativo rilasciato per l’esecuzione di
interventi
edilizi in un’area qualificata come s.i.c. (sito di
importanza comunitaria). La vicenda processuale segue al rigetto, da parte
del tribunale della libertà, dell’appello proposto da G.N.
avverso
l’ordinanza del GIP dello stesso Tribunale che aveva
rigettato
la richiesta di revoca di decreto di sequestro preventivo
emesso dal GIP, avente ad oggetto opere realizzate o in
corso di realizzazione (un complesso edilizio) in relazione
a
due concessioni edilizie, decreto che era stato emesso
nell’ambito
di un procedimento penale in cui G.N. è indagato
per reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett.
c). Osservava
il Tribunale che il GIP nel decreto di sequestro aveva
condiviso l’impostazione accusatoria per cui le suddette
concessioni
edilizie, apparentemente legittime, patirebbero vari
vizi d’illegittimità, rispettivamente derivanti dall’illegittimità
del piano costruttivo, dal progetto delle opere di
urbanizzazione,
dal cronoprogramma e dalla violazione dell’art. 2 delle
norme tecniche di attuazione del PRG per inidoneità delle
previste opere di viabilità. Ulteriore profilo di
illegittimità del
programma costruttivo che si ripercuote sulle concessioni
edilizie, secondo il Tribunale, è la mancata valutazione
del
vincolo ambientale gravante sulla zona che rientra nelle
Zone
a Protezione Speciale (ZPS), istituita con un precedente
decreto assessoriale, e che anche prima di tale data era
sottoposta
a vincolo ambientale perché rientrava nell’elenco dei
siti proposti di importanza comunitaria pubblicato nella
Gazzetta
regionale: il D.P.R. n. 357 del 1997, art. 5, comma 1,
come modificato dall’art. 6 D.P.R. n. 120/2003 prevedeva
infatti
che nella programmazione territoriale si dovesse tenere
conto della valenza naturalistico-ambientale dei proposti
siti
di importanza comunitaria. In sostanza, prima dell’inizio
dei
lavori la ditta costruttrice avrebbe dovuto acquisire il
parere
di valutazione di incidenza ex art. 5, D.P.R. n. 357 del
1997,
(VINCA) dall’Assessorato territorio e ambiente, oltre agli
altri
nullaosta secondo le normative vigenti; ne deriverebbe che
la mancata acquisizione del parere di VINCA e` ulteriore
profilo
di illegittimità del piano costruttivo e quindi delle concessioni
edilizie. Contro l’ordinanza di rigetto proponeva ricorso
per cassazione l’indagato censurandola, per quanto qui di
interesse,
per avere ritenuto che il sito ove avvenne la costruzione
degli immobili sequestrati necessitava della procedura
VINCA. Secondo la difesa del ricorrente, invece, il
programma
costruttivo non doveva essere corredato da alcun parere
di incidenza ambientale perché l’area non era sottoposta ad
alcuna vigente perimetrazione ZPS; in sostanza, secondo la
difesa, il D.P.R. n. 357 del 1997, art. 5 deve interpretarsi
nel
senso che le ZPS si intendono proposte al momento della
formulazione da parte del Ministero dell’ambiente della
proposta
alla Commissione Europea. Sarebbe dunque giuridicamente
irrilevante la pubblicazione dell’elenco dei siti sulla
G.U. regionale. La tesi è stata però respinta dai giudici di legittimità
che, nell’affermare
il principio di cui in massima, hanno correttamente
osservato che è proprio dal momento della esternazione
degli elenchi che queste zone assumono una peculiare valenza
naturalistico-ambientale, ciò in coerenza con lo spessore
dell’interesse pubblico, interno e comunitario, alla
preservazione
del territorio, incompatibile con un’irrilevanza
temporalmente
protratta di quanto è già stato giuridicamente
identificato
a un ragionevole livello come meritevole di tutela (in
precedenza, sull’argomento, v.: Cass. pen., sez. III, 27.02.2012, n. 7613, in CED Cass., n. 252106)
(tratto da Urbanistica e appalti n. 8-9/2013 -
Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.05.2013 n. 20917). |
EDILIZIA PRIVATA: LIMITI
VOLUMETRICI E DIFFORMITA' TOTALE
DELL’ORGANISMO EDILIZIO. Al fine di qualificare un intervento edilizio come eseguito
in difformità totale dal titolo abilitativo (art. 31,
D.P.R.
n. 380/2001), perché si abbia rilevanza penale del fatto,
si deve trattare di un ‘‘organismo edilizio’’ integralmente
diverso o di volumi tali da costituire un ‘‘organismo
edilizio con specifica rilevanza ed autonomamente
utilizzabile’’
(fattispecie in cui la Corte ha escluso che un aumento
volumetrico di 7 mc. portasse alla sussistenza di
un organismo diverso rispetto a quello, di 344 mc., per il
quale era stato legittimamente richiesto, con DIA, il
risanamento
statico). Di particolare rilievo il tema oggetto di esame da parte dei
Giudici della Corte di Cassazione che si soffermano ad
analizzare
la questione della rilevanza penale degli interventi
eseguiti in difformità totale dal titolo abilitativo. La
vicenda
processuale vedeva i ricorrenti accusati della violazione
del
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), per avere
realizzato
un ampliamento di locale preesistente pari a mt. 1,60 x
4,80, con altezza di circa m. 3,60, in totale difformità
della
DIA presentata (finalizzata alla esecuzione di lavori di
adeguamento
statico-strutturale) ed in assenza di permesso di
costruire. L’accusa iniziale, più ampia, a seguito di
assoluzione
in primo grado, è stata circoscritta al solo ampliamento
volumetrico. Contro la sentenza di condanna proponevano
ricorso
per cassazione gli imputati, sostenendo l’irrilevanza
penale del fatto, trovando applicazione il D.P.R. n. 380 del
2001, art. 44, comma 2-bis, trattandosi di aumento
volumetrico
pari a 7 mc. di piccolissime dimensioni. La tesi, ben proposta, è stata ritenuta fondata dagli
Ermellini
che hanno optato però per l’annullamento della sentenza di
merito per intervenuta estinzione del reato a seguito del
maturarsi
del termine di prescrizione. In particolare, richiamando
una giurisprudenza di legittimità formatasi sotto la
vigenza
della L. n. 47/1985, la Corte ha ritenuto alquanto generica
l’affermazione dei giudici di appello di essere al cospetto
di
un organismo diverso posto che, al di là del fatto
naturalistico
in sé che un volume di 7 mc. dia luogo ad una diversità, è stato già detto (Cass. pen., sez. III, 14.07.1997,
n.
6875, in CED Cass., n. 208434) che, perché la cosa abbia
rilevanza
penale, si deve trattare di un «"organismo edilizio’’
integralmente diverso ‘‘o di volumi tali’’ da costituire un
‘‘organismo
edilizio con specifica rilevanza ed autonomamente
utilizzabile’’»
(tratto da Urbanistica e appalti n. 8-9/2013 -
Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.05.2013 n. 20895). |
APPALTI: Senza contratto appalti deboli. Gara annullabile anche se l'impresa ha già lavorato.
Per il Tar Puglia la pubblica
amministrazione può rimettere tutto in discussione.
Appeso a un filo l'appalto con la p.a. se non si firma il
relativo contratto. L'ente pubblico può sempre annullare
l'appalto, anche se ha chiesto all'impresa vincitrice di
eseguire d'urgenza le opere o il servizio e, addirittura,
anche se l'appalto è stato portato a termine o quasi. Se
manca la sottoscrizione del contratto, infatti, la procedura
ad evidenza pubblica non si conclude, e la p.a. può
rimettere tutto in discussione. È quanto stabilito dal TAR Puglia-Bari, Sez. I, con la
sentenza
21.03.2013 n. 424. Nel caso concreto un comune pugliese ha indetto una gara
pubblica per l'affidamento del servizio di trasporto
scolastico degli alunni delle scuole elementari e medie. Alla ditta risultata aggiudicataria è stato chiesto di
eseguire il servizio in via d'urgenza. L'impresa ha quindi
iniziato ad adempiere ai suoi obblighi, senza firmare alcun
contratto. Quando ormai il periodo dell'affidamento del servizio
volgeva al termine, è accaduto che l'amministrazione, a
seguito di accertamenti espletati dalla polizia municipale,
ha contestato gravi inadempienze all'impresa. Più
precisamente, alla ditta è stato rimproverato di non aver
fornito alla stazione appaltante copia del contratto di
avvalimento concluso con altra azienda, grazie al quale era
riuscita a vincere la gara; inoltre, secondo la
ricostruzione degli agenti, la ditta avrebbe utilizzato
autisti e mezzi vietati dal capitolato speciale di appalto.
Per questi motivi, il Comune ha «revocato» –dal nome del
provvedimento adottato– l'affidamento, interrompendo
l'esecuzione della prestazione in corso. La ditta si è quindi rivolta al Tribunale amministrativo per
la regione Puglia, contestando la decisione assunta
dall'amministrazione. Nel dettaglio, la difesa della ricorrente, ha sottolineato
come il provvedimento di revoca, emesso quando ormai
mancavano quindici soli giorni alla scadenza del rapporto,
fosse in realtà un annullamento d'ufficio emesso in
autotutela ai sensi dell'articolo 21-nonies della legge n.
241/1990. Da qui, oltre a denunciare l'assenza, nel caso
concreto, dei presupposti per l'esercizio dell'annullamento,
è stata denunciata l'illegittima lesione dell'affidamento
ingenerato dalla stazione appaltante in ordine al buon
diritto dell'impresa a portare a termine il servizio
appaltato. Si è poi contestato come, in ogni caso, le gravi
inadempienze che avevano indotto l'amministrazione ad
«annullare» l'aggiudicazione non potessero -in alcun modo-
porsi a fondamento del potere di autotutela, attenendo le
stesse alla fase dell'esecuzione del rapporto, ossia alla
fase successiva alla procedura ad evidenza pubblica. Né,
infine, poteva giustificare l'annullamento della gara la
mancata produzione del contratto di avvalimento, posto che
l'amministrazione, dopo aver affidato il servizio, se ne era
sempre disinteressata. Il Tar Puglia, nel propendere per il rigetto del ricorso, ha
preliminarmente fatto chiarezza sulla qualificazione
giuridica del provvedimento impugnato, per poi soffermarsi
sulla legittimità dei presupposti che ne avrebbero
legittimato l'adozione. Con riferimento al primo problema, i giudici pugliesi hanno
osservato come il potere di esatta qualificazione giuridica
del provvedimento amministrativo impugnato, posto che si
fonda sull'analisi del suo contenuto effettivo e della sua
causa reale, spetti al giudice investito dalla controversia,
il quale può legittimamente prescindere dal nomen iuris
formalmente attribuito dall'amministrazione all'atto
adottato. Ciò poiché «l'apparenza derivante da una
terminologia, eventualmente imprecisa o impropria,
utilizzata nella formulazione testuale dell'atto stesso non
è vincolante, né può prevalere sulla sostanza e neppure
determina di per sé un vizio di legittimità dell'atto,
purché ovviamente sussistano i presupposti formali e
sostanziali corrispondenti al potere effettivamente
esercitato». Una volta stabilito che si trattava di «annullamento» e non
di «revoca», i giudici del Tar hanno concentrato
l'attenzione sulla sussistenza dei presupposti legittimanti
l'adozione dell'atto: fra tutti, l'interesse pubblico,
rinvenuto nella necessità di garantire il trasporto incolume
dei minori cui è adibito il servizio. Quanto agli altri presupposti si è detto che l'incompletezza
o, meglio, l'assenza del contratto di avvalimento debba, a
tutti gli effetti, ritenersi un valido motivo per
annullarla, e ciò quand'anche l'affidamento del servizio sia
ormai prossimo a scadere. Con riferimento, invece, alla eccezione relativa
all'irrilevanza delle gravi inadempienze poste in essere
dalla ditta nel corso dell'esecuzione del servizio ai fini
dell'annullamento della procedura a evidenza pubblica, il
Tar Puglia ha spiegato che, nonostante la provvisoria
consegna del servizio, il mancato esaurimento della
procedura pubblicistica impedisce l'attrazione della
controversia nell'alveo della fase esecutiva, mancando il
necessario presupposto dato dalla stipulazione del
contratto. Pertanto l'esecuzione in via d'urgenza del servizio, in
assenza della sottoscrizione del relativo contratto, non
impedisce alla stazione appaltante di annullare in
autotutela l'aggiudicazione definitiva, e ciò anche quando
il rapporto sia ormai prossimo a scadere (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il provvedimento lacunoso ha ancora una chance.
Non scatta l'annullamento ma solo l'irregolarità. E il
ricorso rischia l'irricevibilità. L'omessa indicazione, in calce al provvedimento, del termine
e dell'autorità davanti alla quale è possibile contestare
l'atto dell'amministrazione, determina una semplice
irregolarità. Di conseguenza, il provvedimento non potrà
essere annullato, e il ricorso presentato rischia di essere
dichiarato irricevibile dal giudice amministrativo.
È quanto ha stabilito il TAR Campania-Napoli, Sez. IV, con la
sentenza 19.03.2013 n. 1540. Nel caso specifico, uno studente si è rivolto all'ente per
il diritto allo studio, chiedendo (e ottenendo) per due anni
consecutivi una borsa di studio. Tuttavia, l'amministrazione, rilevata in un secondo momento
l'assenza dei requisiti validi alla corresponsione del
sussidio, ha deciso di revocare il beneficio. Lo studente ha ignorato per sette anni la richiesta di
restituzione delle somme corrisposte a titolo di borsa di
studio dall'ente, tanto che quest'ultimo ha dovuto
rivolgersi al giudice di pace per ottenere il recupero della
somma indebitamente elargita. Il giudice ordinario, adito per la controversia, ha però
sospeso il giudizio ritenendo che lo studente avrebbe dovuto
(e potuto) impugnare preliminarmente i provvedimenti di
revoca del sussidio. Di conseguenza il difensore dello
studente ha presentato un ricorso al giudice amministrativo
chiedendo l'annullamento degli atti adottati
dall'amministrazione. Il Tribunale amministrativo per la regione Campania di
Napoli, tuttavia, ha dichiarato il ricorso irricevibile. Il rimprovero mosso allo studente è stato quello di aver
aspettato troppo: il provvedimenti di revoca dei sussidi,
infatti, dovevano ormai ritenersi definitivi. A nulla è valsa la difesa dello studente, tesa a sostenere
che il ritardo fosse dovuto alla mancata indicazione, nelle
comunicazioni ricevute in ordine alla revoca e alla
richiesta di restituzione delle somme, dell'indicazione
dell'autorità e del termine entro il quale proporre ricorso. I giudici campani hanno, infatti, osservato come l'omessa
indicazione, in calce al provvedimento amministrativo, del
termine e dell'autorità cui ricorrere, rappresenta una mera
irregolarità che può costituire presupposto per ravvisare un
errore scusabile, ma sempre che nel singolo caso sia
apprezzabile una qualche giustificata incertezza sugli
strumenti di tutela utilizzabili da parte del destinatario
dell'atto. Più precisamente, «la mancata indicazione del termine e
dell'autorità dinanzi alla quale impugnare un provvedimento
amministrativo può integrare errore scusabile non
automaticamente ma solo in relazione alle circostanze
concrete, da esaminarsi caso per caso, laddove tali
circostanze rivelino che sussisteva una giustificata
incertezza sugli strumenti di tutela utilizzabili da parte
del destinatario. Altrimenti opinando l'inadempimento
dell'amministrazione si tradurrebbe, in maniera del tutto
illogica, in una sottrazione indiscriminata e generalizzata
dall'onere di ottemperare alle prescrizioni vincolanti che
disciplinano la sua impugnazione». Applicando al caso concreto queste coordinate, è stato
rilevato come non sussistessero oggettive incertezze in
ordine agli strumenti di tutela, il ricorrente essendo stato
destinatario di un atto di revoca che avrebbe necessitato
una tempestiva impugnativa «e, pertanto, dall'omissione
dell'indicazione dell'autorità e del termine per impugnare
non può derivare una causa di errore scusabile tale da
rimettere il ricorrente in termine per impugnare
tardivamente». Peraltro, non si esime di sottolinearlo il Consiglio di
stato, lo studente è rimasto del tutto inerte, per ben sette
anni, non proponendo nessuna azione di impugnativa o
contestazione giudiziale, limitandosi ad instaurare il
sindacato amministrativo quando ormai l'ente già aveva adito
il giudice ordinario per il recupero delle somme
erroneamente corrisposte (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mazzette pericolose
L'operatore di polizia stradale che chiede denaro per
chiudere gli occhi sulle multe risponde del grave reato di
concussione.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sez. II
penale, con la
sentenza 14.03.2013 n. 11887.
Una pattuglia della stradale con il vizietto di chiedere
denaro in cambio del lasciapassare è stata pizzicata dai
colleghi della questura e deferita all'autorità giudiziaria.
Contro la conseguente condanna confermata dalla Corte
d'appello di Firenze un agente ha proposto ricorso in
cassazione ma senza successo: la minaccia della multa con il
ritiro della patente in caso di mancato versamento di una
somma nelle tasche degli operatori rappresentano gli
elementi costitutivi del reato. Per questo non è necessario che l'attività del poliziotto
sia di per sé illecita. Anche se l'automobilista ha violato
il codice la richiesta di denaro è reato (tratto da ItaliaOggi Sette del 12.08.2013). |
AGGIORNAMENTO AL 14.08.2013 |
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giuridico-gestionale del III millennio italico: riflessioni
sulla delibera n. 146/2013/GEST della Corte dei Conti Veneto
Sez. Controllo (12.08.2013). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Adempimenti a carico delle Amministrazioni
centrali previsti dal decreto-legge 08.04.2013, n. 35,
recante "disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti
scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio
finanziario degli enti territoriali, nonché in materia di
versamento di tributi degli enti locali", convertito, con
modificazioni, dalla legge 06.06.2013, n. 64 (circolare
09.08.2013 n. 4/2013). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 33 del 13.08.2013, "Disciplina
regionale per l’efficienza energetica degli edifici: gli
effetti della conversione in legge del decreto 04.06.2013 n.
63" (comunicato
regionale 08.08.2013 n. 100). ---------------
Immobili. Regione in linea con lo
Sviluppo economico. La Lombardia conferma la validità dei
«vecchi» Ace.
È
definitivamente rientrato l'allarme (e il conseguente
impaccio per la contrattazione immobiliare) derivante dalla
legge n. 90/2013, di conversione del decreto legge n.
63/2013, in tema di Attestato di prestazione energetica
(Ape). Il decreto ha introdotto la previsione di nullità per
tutti i contratti, a titolo oneroso e gratuito, che non
portino in allegato il nuovo Ape (introdotto in sostituzione
del "vecchio" Ace, l'Attestato di certificazione
energetica), ma con la specificazione che: fino all'emanazione dei regolamenti attuativi del decreto,
l'Ape deve essere redatto secondo le prescrizioni tecniche
precedenti il decreto legge 63/2013; - nelle Regioni (e nelle Province autonome) che avessero
emanato una propria legislazione in tema di Ace, si poteva
procedere come si era fatto fino all'entrata in vigore del
decreto. Tuttavia, la legge di conversione n. 90/2013 aveva fatto
sorgere il dubbio che le Regioni e le Province «legiferanti»
fossero state spacchettate in: - Regioni e Province che abbiano recepito la direttiva
2010/31 Ue (ad esempio, l'Emilia Romagna), nelle quali si
sarebbe continuata ad applicare la normativa locale in tema
di Ace; - Regioni e Province (come la Lombardia) che si fossero
limitate a recepire la precedente direttiva 2002/91/CE (ma
non la successiva 2010/31), nelle quali si sarebbe dovuto
applicare l'Ace/Ape nazionale e non più l'Ace locale. Sul tema è dapprima intervenuto il ministero per lo Sviluppo
economico con la tranquillizzante nota n. 416 datata
07.08.2013, affermando che la legge di conversione del
decreto 63/2013 non ha comportato alcuna variazione e che,
in particolare, fino all'emanazione dei decreti attuativi
previsti dal decreto: - nelle Province e nelle Regioni «non legiferanti»,
l'Ape va redatto con le prescrizioni vigenti ante decreto
legge 63/2013; - nelle Province e nelle Regioni «legiferanti»
l'attestazione energetica deve essere compilata secondo la
normativa regionale in vigore. Da ultimo, il 12.08.2013, è intervenuta la Regione Lombardia
pubblicando sul proprio sito il comunicato n. 100
dell'08.08.2013 con il quale si afferma che gli Ace, in
qualunque epoca redatti, sono idonei a essere utilizzati ai
fini della validità dei contratti ai quali la legge
nazionale prescrive debbano essere allegati. In particolare, la Regione Lombardia afferma che la
deliberazione della Giunta regionale n. 8/8745 del
22.12.2008, pur essendo precedente alla direttiva
2010/31/Ue, contiene disposizioni puntuali che rispondono in
gran parte alle previsioni contenute nella direttiva stessa;
e che, allo stato attuale, le disposizioni della direttiva
2010/31/Ue che non sono ancora state oggetto di attuazione
riguardano le prestazioni degli impianti per la
climatizzazione estiva, mentre la mancanza di disposizioni
per la realizzazione di edifici a emissioni quasi zero non
può essere ritenuta un inadempimento, dato che non sono
ancora scaduti i termini previsti dalla direttiva medesima.
Con il risultato che la Regione Lombardia si ritiene «legittimata
ad applicare la propria disciplina per l'efficienza e la
certificazione energetica degli edifici» (articolo
Il Sole 24 Ore del 13.08.2013). |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: 50%
previa pratica edilizia. Domanda
Una persona fisica, che sta eseguendo nella propria
abitazione lavori di manutenzione straordinaria per i quali
intende usufruire del beneficio fiscale del 50%, dopo aver
effettuato un primo bonifico bancario all'impresa esecutrice
dei lavori con le particolari modalità previste dalla norma,
si è accorta di non aver presentato al Comune interessato la
dichiarazione di inizio lavori. Vi provvederà quanto prima
regolarizzando il tutto presso il Comune competente. Si
chiede di conoscere se la tardiva presentazione della Dia,
nell'ipotesi in cui vengano rispettati gli altri requisiti
formali richiesti dalla Legge, comprometta o meno la
fruizione dell'agevolazione del 50% sui predetti lavori e
nel caso la si ritenga non compromessa, se la detrazione
agevolata spetti anche per i bonifici eseguiti prima della
regolarizzazione o solo per quelli eseguiti dopo la
regolarizzazione. Risposta
Nel quadro normativo in vigore dal 14.05.2011 non è più
previsto l'obbligo per il contribuente, a pena di decadenza
(dm 41/1998, artt. 1 e 4; circ. 57/1998, par. 7), di inviare con
raccomandata al Centro di servizio di Pescara, prima
dell'inizio dei lavori, la comunicazione su modello
ministeriale della data in cui avranno inizio, allegando
copia del provvedimento abilitativo, se previsto dalla
legislazione edilizia, o in alternativa (circ. 121/98)
dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante di
essere in possesso di tutta la prescritta documentazione e
di essere pronto a esibirla o trasmetterla a richiesta degli
uffici finanziari. Peraltro, anche dopo la soppressione della comunicazione
preventiva, rimane un presupposto imprescindibile che i
lavori siano coperti da titolo edilizio: in mancanza
l'amministrazione finanziaria, se rileva l'irregolarità,
potrà disconoscere il beneficio fiscale per i soli lavori
realizzati prima del suo rilascio. D'altronde, anche il
provvedimento direttoriale 02.11.2011 stabilisce che i
contribuenti sono tenuti a conservare ed esibire, a
richiesta degli Uffici, le abilitazioni richieste dalla
vigente legislazione edilizia in relazione alla tipologia di
lavori da realizzare, e l'art. 4 del dm 41/1998 continua a
prevedere la decadenza dal beneficio per l'esecuzione di
opere difformi da quelle comunicate ai sensi del suo art. 1,
da intendersi (a nostro avviso, non esistendo più la
comunicazione preventiva) che le opere eseguite devono
essere conformi al titolo. Chiariamo anche che la regolare
effettuazione di pagamenti anticipati anche in assenza di
titolo edilizio, non può pregiudicare il bonus fiscale,
pregiudizio che può invece derivare dalla preventiva
esecuzione dei lavori prima della presentazione o del
rilascio del titolo edilizio. Inoltre, se il titolo preesiste ai lavori ma è inadeguato,
rilevano le precisazioni della circ. 57/E/98 (par. 7), a
nostro avviso valorizzabili anche nell'ipotesi in cui il
titolo edilizio manchi nel momento in cui i lavori sono
avviati: la realizzazione di opere edilizie non rientranti
nella corretta categoria di intervento, per le quali sarebbe
stato necessario un titolo abilitativo diverso ma, tuttavia,
conformi agli strumenti urbanistici e ai regolamenti
edilizi, non può essere considerato motivo di decadenza dai
benefici fiscali, purché il richiedente metta in atto il
procedimento di sanatoria previsto nelle normative vigenti (articolo ItaliaOggi
Sette del 05.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Difformità
del titolo edilizio. Domanda
Il caso che i lavori di ristrutturazione eseguiti in una
unità immobiliare siano in parte difformi da quelli indicati
nella Dia comporta la perdita della detrazione fiscale del
50% e, se sì, per tutti i lavori o solo per quelli difformi?
Risposta
Il problema è stato affrontato dall'Amministrazione
finanziaria nella circolare n. 57/E/98, par. 7, con
precisazioni importanti per la salvaguardia dei contribuenti
nei termini che seguono: si possono distinguere, anche ai
fini della detrazione fiscale e in relazione alla decadenza
prevista in caso di realizzazione di opere edilizie
difformi, due situazioni: a) la realizzazione di opere
edilizie non rientranti nella corretta categoria di
intervento, per le quali sarebbe stato necessario un titolo
abilitativo diverso (quali, ad esempio, opere soggette a
permesso di costruzione erroneamente considerate in una Dia,
ma, tuttavia, conformi agli strumenti urbanistici e ai
regolamenti edilizi. La circolare precisa espressamente che
il caso in esame non può essere considerato motivo di
decadenza dai benefici fiscali, purché il richiedente metta
in atto il procedimento di sanatoria previsto nelle
normative vigenti; b) la realizzazione di opere difformi dal
titolo abilitativo e in contrasto con gli strumenti
urbanistici e i regolamenti edilizi. La circolare afferma
che il caso in esame comporta invece la decadenza dai
benefici fiscali, in quanto si tratta di opere non sanabili
ai sensi della vigente normativa. La circolare precisava, ulteriormente, che qualora si fosse
ricaduti nella prima ipotesi, al termine della procedura di
sanatoria è opportuno comunicare all'Amministrazione
finanziaria, integrando la comunicazione in precedenza
inviata (obbligo procedurale soppresso dal 14.05.2011),
l'avvenuto rilascio del titolo in sanatoria. Nel secondo
caso, viceversa, che avrebbero potuto essere attivati
sistemi di comunicazioni tra l'Amministrazione finanziaria e
le amministrazioni comunali, tali da consentire a queste
ultime, nell'ambito dell'attività di vigilanza, di
trasmettere alla prima copia dell'ordinanza di demolizione
delle opere abusive, ai fini della declaratoria della
decadenza dai benefici fiscali. Pertanto, in base alla circolare 57/E/97 si devono ritenere
salvaguardati, anche agli effetti fiscali, tutti i
comportamenti difformi frutto di errori di scarsa gravità in
quanto sanabili ed effettivamente sanati (articolo ItaliaOggi
Sette del 05.08.2013). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Termine di efficacia della circolare del
Ministro dell’Ambiente U.prot.GAB-2009-0014963 del
30/06/2009 (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare,
nota diffusa il 06.08.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Attestazioni OIV sull’assolvimento di specifici obblighi
di pubblicazione per l’anno 2013 e attività di vigilanza e
controllo della Commissione (CIVIT,
delibera 01.08.2013 n. 71). ---------------
Trasparenza, in campo la Gdf.
La Civit potrà inviare le Fiamme gialle per le verifiche.
Delibera della commissione richiama
l'attenzione degli enti alle scadenze del 30/09 e 31/12.
Entro il 30 settembre su tutti i siti delle p.a. dovranno
essere pubblicati i modelli con cui gli organismi di
valutazione attesteranno il rispetto degli obblighi di
trasparenza e le relative griglie. Entro il 31 dicembre
queste informazioni dovranno essere trasmesse alla Civit,
che direttamente controllerà il rispetto delle previsioni
legislative e potrà inviare la Guardia di finanza per
accertare la veridicità del contenuto delle attestazioni
rese dagli Organismi indipendenti di valutazione.
Non siamo dinanzi a una
boutade estiva, ma alla
deliberazione 01.08.2013 n. 71 della Civit
«Attestazioni Oiv sull'assolvimento di specifici obblighi di
pubblicazione per l'anno 2013 e attività di vigilanza e
controllo della commissione». Sicuramente il legislatore ha
scelto negli ultimi anni di fare della trasparenza uno dei
tratti essenziali che devono caratterizzare l'attività delle
pubbliche amministrazioni, sia per migliorare la qualità dei
servizi erogati, sia per dare corpo al cosiddetto «controllo
sociale» o «diffuso» e a questa scelta occorre dare piena
attuazione. Ma la moltiplicazione degli obblighi e degli adempimenti,
spesso istituendone di nuovi, determina semplicemente
l'aumento degli adempimenti inutili per le amministrazioni
pubbliche e il suo effetto principale è la creazione di una
nuova sfera degli apparati burocratici: gli addetti al
rispetto dei vincoli sulla trasparenza. Peraltro senza
prevedere alcuna differenziazione tra i comuni piccolissimi
e le altre amministrazioni pubbliche e senza tener conto
della progressiva riduzione del numero dei dipendenti
pubblici. Si ripete quanto avviene troppo spesso: l'aumento degli
obblighi di comunicazione ad altre p.a. e alla Corte dei
conti; è questa una attività che sta diventando snervante e
defatigante, in particolare per i responsabili finanziari e
che sottrae tempo allo svolgimento di attività operative. In questo quadro si inserisce come una ciliegina sulla torta
la minaccia della segnalazione alla Guardia di finanza per
«riscontrare l'esattezza e l'accuratezza dei dati attestati
dagli Oiv. Il controllo della Guardia di finanza di baserà
(il refuso è nel testo della delibera) sull'estrazione di un
campione casuale semplice che garantisca l'imparzialità e le
stesse probabilità per ogni amministrazione di entrare a far
parte del campione». Un'attenzione che è sicuramente degna di ben altri temi,
tanto più che non vi sono previsioni legislative che
prevedano in modo diretto irrogazioni di sanzioni al di là
del taglio della indennità di risultato dei dirigenti
responsabili. La deliberazione stabilisce che gli Oiv
debbano verificare l'avvenuta pubblicazione sul sito
internet delle informazioni richieste dal dlgs n. 33/2013.
In tale ambito viene richiamata l'attenzione sui seguenti
dati: le società, i pagamenti dei debiti, i procedimenti
amministrativi, i servizi erogati agli utenti e l'accesso
civico. Viene sottolineato che gli obblighi relativi ai pagamenti
dei debiti maturati alla data del 31.12.2012 sono contenuti
nel dl n. 35/2013 e riguardano «la pubblicazione
dell'elenco, in ordine cronologico e con l'indicazione dei
relativi importi, dei debiti scaduti per obbligazioni
giuridicamente perfezionate relative a somministrazioni,
forniture, appalti e prestazioni professionali, a fronte dei
quali non sussistono residui passivi anche perenti»,
nonché i «Piani dei pagamenti per importi aggregati per
classi di debiti» e «la pubblicazione dell'elenco
completo, per ordine cronologico di emissione della fattura
o della richiesta equivalente di pagamento, dei debiti per i
quali è stata effettuata comunicazione ai creditori, con
indicazione dell'importo e della data prevista di pagamento
comunicata al creditore» (articolo ItaliaOggi del
09.08.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Applicazione del regime sanzionatorio per la violazione
di specifici obblighi di trasparenza (art. 47 del d.lgs. n.
33/2013) (CIVIT,
delibera 31.07.2013 n. 66). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Applicazione dell’art. 14 del d.lgs. n. 33/2013 -
Obblighi di pubblicazione concernenti i componenti degli
organi di indirizzo politico (CIVIT,
delibera 31.07.2013 n. 65). ---------------
Redditi trasparenti, non per tutti.
Patrimoni online solo nei comuni sopra i 15 mila abitanti.
La Civit conferma la dicotomia prevista dalla legge dell'82.
Ma la tesi non convince.
Tutti i comuni sono obbligati a pubblicare i dati
riguardanti gli amministratori, ma solo quelli con
popolazione superiore a 15.000 abitanti debbono inserire nel
portale internet la situazione patrimoniale. La Civit, con la
delibera 31.07.2013 n. 65
interviene a chiarire uno dei punti più controversi (e
peggio «digeriti» dai componenti degli organi di governo)
del dlgs 33/2013, la norma sulla trasparenza.
Comuni obbligati.
Il dlgs 33/2013 ha compiuto una cattiva opera di
coordinamento interno, lasciando in vigore l'articolo 1,
comma 1, n. 5), della legge 441/1982, che riferisce gli
obblighi di pubblicazione della situazione patrimoniale solo
ai comuni con oltre 15 mila abitanti. La Civit, invece di ricavare la conclusione, che appare la
più corretta, di considerare l'articolo citato della legge
441/1982 incompatibile con la nuova disciplina della
trasparenza, che non ha senso sia applicata in modo
differenziato tra comuni, ritiene che debbono pubblicare la
situazione reddituale e patrimoniale dei titolari di cariche
elettive solo i comuni con popolazione superiore ai 15 mila
abitanti. Tutti i comuni, però, sono tenuti, qualunque sia il numero
di abitanti, a pubblicare i dati e le informazioni previste
dall'articolo 14, lettere da a) ad e) dell'articolo 14 (atto
di nomina o di proclamazione, curriculum, compensi di
qualsiasi natura, importi di viaggi di servizio e missioni,
dati relativi all'assunzione di altre cariche, presso enti
pubblici o privati, e i relativi compensi a qualsiasi titolo
corrisposti, eventuali incarichi con oneri a carico della
finanza pubblica e l'indicazione dei compensi spettanti). La Civit ritiene che l'articolo 14, poi, si applichi alle
forme associative dei comuni se la popolazione complessiva i
15 mila abitanti. Decorrenza degli obblighi. L'obbligo di pubblicare quanto
prevede l'articolo 14 del dlgs 33/2013, chiarisce la Civit,
decorre dalla sua entrata in vigore. Non c'è alcuna norma di diritto transitorio, sicché gli
obblighi di pubblicazione debbono essere adempiuti «alla
data di entrata in vigore del medesimo decreto (20.04.2013)». Aggiunge la delibera che «il riferimento alla
pubblicazione dei dati entro tre mesi dalla elezione o dalla
nomina (art. 14, comma 2) non riguarda, infatti, la
decorrenza dell'entrata in vigore dell'obbligo ma è da
intendersi riferito esclusivamente all'attuazione della
disposizione successivamente alle elezioni».
Soggetti tenuti. Obbligati a pubblicare i dati sono, nei
comuni, sindaco, assessori e consiglieri. Ma gli obblighi
soggettivi non riguardano solo le amministrazioni pubbliche.
La delibera della Civit legge in modo estensivo le
disposizioni. Il dlgs 33/2013 si estende a tutte le amministrazioni
previste dall'articolo 1, comma 2, del dlgs 165/2001, nonché
alle società ed enti partecipati. Gli oneri di pubblicità
disciplinati dall'articolo 14, allora, impongono alle
amministrazioni, agli enti e alle società di individuare al
proprio interno i titolari di incarichi politici di
carattere elettivo o comunque di esercizio di poteri di
indirizzo politico, anche con riferimento alle norme
statutarie e regolamentari che ne regolano l'organizzazione
e l'attività. Sanzioni. Altro fondamentale chiarimento della Civit
riguarda le sanzioni. In primo luogo, la delibera chiarisce
che gli obblighi di pubblicazione incombono direttamente sui
componenti degli organi di amministrazione, i quali sono,
dunque, tenuti a trasmettere al responsabile della
trasparenza i dati, per la loro successiva pubblicazione. La
sanzione prevista dall'articolo 47 del dlgs 33/2013, dunque,
scatta nel caso di mancato adempimento al dovere di
comunicare agli uffici le informazioni e i dati oggetto di
pubblicazione e non va applicata nei confronti del
responsabile della trasparenza o degli uffici, ma ricade
sugli amministratori reticenti. Invece, nessuna sanzione è applicabile nei confronti del
coniuge non separato e dei parenti entro il secondo grado
che non acconsentano alla pubblicazione delle informazioni
sul proprio status patrimoniale, «stante la subordinazione
prevista dal legislatore per la diffusione dei relativi dati
a un espresso consenso da parte dei medesimi» (articolo ItaliaOggi del 06.08.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Intesa tra Governo, Regioni ed Enti Locali per
l'attuazione dell'art. 1, commi 60 e 61, della legge
06.11.2012, n. 190, recante "Disposizioni per la prevenzione
e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella
pubblica amministrazione” (intesa
24.07.2013). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
N. D'Angelo,
L'abuso di ufficio del responsabile dell'Ufficio Tecnico
(L'Ufficio Tecnico n. 7-8/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. Balasso,
La qualificazione tecnico-giuridica degli interventi edilizi
(terza parte): gli interventi di tipo "manutentivo-conservativo"
(L'Ufficio Tecnico n. 7-8/2013). |
APPALTI:
S. Usai,
La procedura di verifica delle offerte anomale: competenza e
procedimento (L'Ufficio Tecnico n. 7-8/2013). |
APPALTI:
G. Ciaglia,
Responsabilità oggettiva della p.a.? Ma mi faccia il piacere
... (L'Ufficio Tecnico n. 7-8/2013). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
A. Mafrica e M. Petrulli,
(In)competenze progettuali fra geometri e ingegneri -
Breve rassegna di giurisprudenza (L'Ufficio Tecnico
n. 7-8/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Mafrica e M. Petrulli,
Richiesta di utilizzo di terreni gravati da usi civici e
comportamenti del Comune - Breve nota alla sentenza n. 1698
del 26.03.2013 del Consiglio di Stato, Sez. IV (L'Ufficio
Tecnico n. 5/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. Balasso,
La qualificazione tecnico-giuridica degli interventi edilizi
(seconda parte): le definizioni "legali" - profili generali
(L'Ufficio Tecnico n. 5/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
N. D'Angelo,
Prescrizione dei reati edilizi ed imprescrittibilità delle
sanzioni amministrative (L'Ufficio Tecnico n. 5/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. Balasso,
Distanze tra edifici, la sentenza della Consulta n. 6/2013
(L'Ufficio Tecnico n. 3/2013). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
S. Usai,
L'obbligo degli enti locali di ricorrere a una delle forme
di mercato elettronico per le acquisizioni sotto la soglia
comunitaria di beni e servizi è inderogabile -
Considerazioni a margine della recente deliberazione della
Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo per le Marche
del 29.11.2012, n. 169 (L'Ufficio Tecnico n. 3/2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
F. Lucignano e M. Matteucci e R. Pizzi,
La gestione dei materiali da scavo alla luce del nuovo d.m.
161/2012: il ruolo della p.a. (L'Ufficio Tecnico n.
3/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
P. Sciscioli,
Riflessioni sulla demolizione e ricostruzione dei fabbricati
(L'Ufficio Tecnico n. 3/2013). |
APPALTI: G.
Musolino,
Appalto pubblico. La progettazione e la direzione dei lavori
alla luce della giurisprudenza della corte dei conti (Rivista
Trimestrale degli Appalti n. 1/2013). |
APPALTI FORNITE E SERVIZI - LAVORI PUBBLICI:
P. Carbone,
La revisione dei prezzi nei contratti di servizi e forniture
e l'adeguamento monetario degli appalti di lavori (Rivista
Trimestrale degli Appalti n. 1/2013). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: S.
Tatti,
L'annullamento d'ufficio fra discrezionalità e doverosità
(Rivista Trimestrale degli Appalti n. 1/2013). |
SICUREZZA LAVORO:
G. Rosa,
RSSP e responsabile della sicurezza: due ruoli da tenere
distinti (Progetto Sicurezza n. 1/2013). |
SICUREZZA LAVORO:
A. M. Moro,
Il direttore dei lavori e le responsabilità in materia di
sicurezza nei cantieri temporanei o mobili (Progetto
Sicurezza n. 1/2013). |
NEWS |
APPALTI: Appalti.
La versione finale del decreto del fare conferma l'iniziale
soppressione per quanto riguarda la sola Iva. La solidarietà perde terreno. Resta la responsabilità
congiunta sulle ritenute fiscali a carico dei dipendenti.
Rimane la responsabilità solidale di committenti o
appaltatori in caso di omesso versamento all'erario delle
ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente. A cadere
è, invece, la responsabilità sull'Iva.
È quando emerge in buona sostanza nella
versione finale del decreto del fare,
nel quale questo argomento è stato oggetto di vari
emendamenti poi non definitivamente approvati. Alla fine è
stata confermata la normativa introdotta in sede di prima
stesura del decreto legge. Dallo scorso anno la disposizione prevedeva che, nel caso di
appalti o subappalti, il pagamento alle imprese fosse
sospeso in presenza di irregolarità sui versamenti delle
ritenute e dell'Iva. L'appaltatore o committente doveva,
prima di procedere alla corresponsione di quanto
contrattualmente concordato, verificare l'assolvimento degli
obblighi di versamento delle citate imposte, acquisendo
un'autocertificazione dell'impresa oppure una dichiarazione
di un professionista abilitato, nella quale era confermata
l'assenza di pendenze tributarie. Inizialmente, il decreto del fare (n. 69/2013), per
semplificare alcuni adempimenti a carico delle aziende e
rilanciare l'economia, aveva eliminato l'applicazione della
norma sull'Iva, lasciando, invece, inalterato l'obbligo
sulle ritenute fiscali. Ne conseguiva così che
l'attestazione sul regolare versamento doveva riguardare
solo le ritenute e non più l'Iva. In realtà, la modifica non
sembrava una vera semplificazione né una misura per
incentivare la ripresa economica, perché l'adempimento,
ancorché ridotto, permaneva. Durante l'iter di conversione, è stato introdotto il Durt
(Documento unico di regolarità tributaria). Si trattava di
una dichiarazione rilasciata dell'Agenzia delle entrate, a
richiesta degli interessati, attestante l'inesistenza di
debiti tributari per imposte, sanzioni o interessi, scaduti
e non estinti alla data di pagamento del corrispettivo o di
parte di esso. Il nuovo adempimento, sostituiva così la
precedente autocertificazione dell'impresa o quella
rilasciata dal professionista abilitato relativa al corretto
pagamento di ritenute. Ne conseguiva, pertanto che in base
ai nuovi obblighi non solo non dovevano esistere debiti per
ritenute dipendenti, ma anche per interessi e sanzioni. In considerazione, poi della presumibile tempistica per il
rilascio di tale documento da parte dell'Agenzia delle
entrate, indispensabile però per incassare gli importi
dovuti da parte dell'impresa, era stata prevista la
creazione di un apposito canale telematico. In ogni caso,
era verosimile che i tempi di attesa fossero comunque
maggiori di quelli attualmente impiegati autonomamente dal
contribuente ad autocertificare la propria posizione
tributaria. Di fatto si trattava, quindi di un aggravio per
le imprese, soprattutto edili già penalizzate dalla forte
crisi. Ed infatti, l'eventuale blocco del pagamento
nell'attesa di ricevere la nuova attestazione dell'Agenzia,
avrebbe certamente acutizzato le difficoltà finanziarie
dell'azienda rischiando di impedire di provvedere anche ai
propri obblighi tributari e contributivi. Da aggiungere poi,
che l'assenza di un Durt positivo avrebbe precluso l'accesso
ad altri lavori in appalto. Verosimilmente alla luce anche di queste circostanze, in
contrasto con l'intento di incentivare la ripresa economica,
l'emendamento è stato completamente eliminato, lasciando
così il decreto nella sua versione iniziale. Oggi, quindi,
così come dal 22.06.2013, le imprese coinvolte in appalti o
subappalti, devono attestare la propria regolarità
limitatamente alle ritenute fiscali dovute sui redditi di
lavoro dipendente e, non più, anche sull'Iva. Non va dimenticato, infine, che rimane confermata anche la
responsabilità in solido del committente imprenditore con
l'appaltatore, nonché con eventuali subappaltatori, entro
due anni dalla cessazione del contratto, per i trattamenti
retributivi ai dipendenti, oltre che per i contributi
previdenziali ed assistenziali (articolo 29 del decreto
legislativo n. 276/2003), certificabili tramite Durc
(Documento unico di regolarità contributiva) (articolo Il
Sole 24 Ore dell'11.08.2013). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: DECRETO
DEL FARE/ Nella conversione in legge la versione originaria
della norma. Gare, la solidarietà perde l'Iva. L'appaltatore responsabile
per le ritenute dei dipendenti.
Confermato lo stop alla responsabilità solidale negli
appalti ai soli fini dell'Iva. Resta la possibilità per
l'erario di chiamare in causa l'appaltatore in caso di
mancato versamento delle ritenute sui dipendenti da parte
del subappaltatore. Per schivare il rischio sarà necessario
esibire i documenti «ordinari», cioè quelli già utilizzati
negli ultimi mesi, inclusa l'attestazione rilasciata da un
professionista o da un Caf.
Con l'approvazione definitiva del dl n. 69/2013, avvenuta
ieri, sulla responsabilità negli appalti si è tornati quindi
all'origine, ossia al testo pubblicato in G.U. il 21 giugno.
È venuta meno, infatti, la modifica introdotta in prima
lettura alla camera che prevedeva l'esclusione della
solidarietà con l'acquisizione del Documento unico di
regolarità tributaria (Durt) relativo al subappaltatore. Via libera senza stravolgimenti anche a quasi tutte le altre
norme fiscali contenute nel decreto. In materia di
ammorbidimento della riscossione, arriva un paniere di «beni
essenziali» impignorabili. I cespiti saranno individuati da
un apposito decreto del Mef, d'intesa con l'Agenzia delle
entrate. Alleggerita la tassa sulle barche, con effetti già sull'anno
2013: quelle fino a 14 metri vengono esentate dal prelievo
(prima pagavano quelle con scafo superiore a 10 metri; chi
ha già versato per quest'anno avrà diritto al rimborso),
mentre per le imbarcazioni fino a 20 metri l'onere viene
ridotto al 50%. Ulteriormente agevolato il noleggio
occasionale di barche e yacht. La tassazione forfettaria del
20% sui canoni sarà possibile se l'unità è data a nolo per
non più di 42 giorni nell'arco di un anno. In sede di
conversione il termine ha quindi guadagnato due giorni in
più rispetto ai 40 previsti originariamente. Durante l'iter alle camere il provvedimento ha poi
incorporato due importanti novità. La prima riguarda
l'ampliamento dell'assistenza fiscale per chi ha perso il
posto di lavoro e quindi, non avendo più un sostituto
d'imposta che può effettuare il conguaglio, non può
avvalersi del modello 730. Situazione nella quale, in
occasione della campagna dichiarativa di quest'anno, si sono
ritrovati circa 400 mila soggetti. Il nuovo articolo 51-bis
del decreto Fare stabilisce che dal 2014 anche loro avranno
la possibilità di ricorrere ai Caf (compilando quindi il
730). Così i neo-disoccupati potranno ottenere già nell'anno
stesso (successivo a quello del rapporto di lavoro
dipendente) eventuali rimborsi da parte dell'amministrazione
finanziaria. In caso contrario, effettuando la dichiarazione
tramite modello Unico-PF, la restituzione del credito si
sarebbe avuta dopo alcuni anni. Non solo. In un'ottica
pro-contribuente, la norma reca una disposizione transitoria
relativa già al 2013: viene data facoltà di presentare le
dichiarazioni dei redditi dal 2 al 30.09.2013,
esclusivamente se dalle stesse risulta un esito contabile
finale a credito. Termini e modalità applicative saranno
stabiliti nei prossimi giorni con provvedimento dell'Agenzia
delle entrate. Un'altra novità introdotta dal parlamento è
l'elenco clienti-fornitori quotidiano (si veda ItaliaOggi
del 19.07.2013). A far data dal 01.01.2015, i
soggetti titolari di partita Iva potranno scegliere di
comunicare tutti i giorni al fisco i dati analitici delle
fatture di acquisto e cessione di beni e servizi, incluse le
relative rettifiche in aumento e in diminuzione, nonché i
corrispettivi delle operazioni verso privati (c.d. «B2C»). A
fronte di questo costante sforzo di trasparenza, chi si
sottopone volontariamente al nuovo regime sarà premiato con
una semplificazione burocratica. Tra gli obblighi che
verranno meno ci sono le comunicazioni periodiche
black-list, lo spesometro, nonché la responsabilità solidale
negli appalti. Per rendere operativo il meccanismo saranno
necessari un regolamento governativo e altri provvedimenti
amministrativi. Si ricorda peraltro che un regime premiale
per favorire la trasparenza fiscale ci sarebbe già, come
introdotto dall'articolo 10 del dl n. 201/2011, ma il
provvedimento direttoriale attuativo non è ancora stato
emanato. --------------- DECRETO DEL FARE/ L'Anci supporterà i sindaci nell'invio
delle domande all'Agenzia. Demanio, dismissioni in 3 mesi. Le richieste degli enti dal
1° settembre al 30 novembre.
Il federalismo demaniale recupera il tempo perduto. Dopo
essere stato tenuto tre anni in naftalina (il decreto
legislativo che aveva dato il là alla riforma risale al
2010), in tre mesi il passaggio a titolo gratuito degli
immobili dello stato a comuni, province e città
metropolitane dovrà dirsi compiuto.
Lo prevede il «decreto
del fare» (dl n. 69/2013), convertito ieri definitivamente in
legge, che nel passaggio parlamentare ha incorporato un
emendamento (a firma dei due relatori alla camera Francesco
Boccia e Francesco Paolo Sisto) che rimette in moto i
trasferimenti seppur tra qualche mugugno da parte dei
comuni. E il riferimento è alla novità introdotta al senato che
riserva allo stato, oltre al 25% del ricavato della vendita
degli immobili trasferiti anche il 10% di quanto i sindaci
incasseranno se decideranno di vendere il proprio patrimonio
originario. La ratio è contribuire all'abbattimento del
debito in una «situazione economica eccezionale», ma i
sindaci non ci stanno pur riconoscendo che la ripartenza del
federalismo demaniale potrà rappresentare per i comuni
un'opportunità da sfruttare. Per questo l'Anci ha già fatto partire le lettere
indirizzate a tutti i primi cittadini, ricordando la
procedura prevista dal dl 69 e assicurando supporto
attraverso i propri canali e quelli della Fondazione
patrimonio comune. Gli enti che intendono acquisire la proprietà dei beni
statali, potranno inviare la richiesta all'Agenzia del
demanio, nel periodo ricompreso dal 1° settembre al 30.11.2013. La richiesta, firmata dal legale
rappresentante dell'ente, deve essere presentata con
modalità tecniche che saranno definite dall'Agenzia la quale
sta approntando un modello standard di richiesta
informatizzato. L'emendamento sul federalismo demaniale prevede tempi
stretti per il riscontro delle richieste degli enti da parte
dell'Agenzia del demanio: 60 giorni dalla ricezione
dell'istanza per comunicare l'esito positivo o negativo.
Qualora sullo stesso immobile giungano richieste di
attribuzione da parte di più livelli di governo, il bene
sarà trasferito in via prioritaria al comune o alla città
metropolitana (e in subordine alle province e alle regioni)
sulla base del principio di sussidiarietà. Gli immobili
trasferiti agli enti locali torneranno allo stato qualora
l'Agenzia accerti che, a distanza di tre anni dal
trasferimento, essi non vengano utilizzati dalle
amministrazioni. --------------- DECRETO DEL FARE/ Alcune delle modifiche introdotte per gli
interventi in edilizia. Scia sì o no: parola ai comuni. Sulle distanze tra
fabbricati decidono regioni e province.
Delegificate le distanze tra fabbricati (ma solo ai fini
edilizi): saranno stabilite con leggi regionali; ai comuni
la decisione sulla esclusione della Scia per la
ricostruzione di edifici demoliti nei centri storici (con
potere sostitutivo regionale e statale in caso di inerzia).
Sono alcune delle novità in materia edilizia apportate al
decreto del fare dagli emendamenti approvati in corso di
conversione. Ma vediamo i singoli punti del provvedimento.
Distanze. È stata introdotta una modifica al testo unico per
l'edilizia in materia di limiti di distanza tra fabbricati
(nuovo articolo 2-bis del dpr 380/2001). La nuova
disposizione consente alle regioni e alle province autonome
di Trento e di Bolzano, di prevedere, con proprie leggi e
regolamenti, disposizioni derogatorie al dm n. 1444/1968: il
decreto, all'articolo 9, fissa i limiti di distanza tra
fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee.
Pertanto le regioni e le province autonome possono dettare
disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti
residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle
attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito
della definizione o revisione di strumenti urbanistici
comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di
specifiche aree territoriali. Rimane allo stato il potere
legislativo sulle distanze con riferimento alla
regolamentazione del diritto di proprietà.
Titoli edilizi. Viene spostato al 30.06.2014 il termine
entro cui i comuni devono individuare, con propria
deliberazione, le aree, comprese all'interno delle zone
omogenee A) di cui al dm 1444/1968 (centri storici) e in
quelle equipollenti, nelle quali non è applicabile la
Segnalazione certificata di inizio attività (Scia) per
interventi di demolizione e ricostruzione, o per varianti a
permessi di costruire, comportanti modifiche della sagoma.
In caso di inutile decorso del termine concesso ai comuni e
in mancanza di intervento sostitutivo della regione nei
termini previsti dalla normativa vigente, è prevista
l'ulteriore sostituzione con deliberazione di un commissario
nominato dal ministro delle infrastrutture e dei trasporti.
Conseguentemente viene eliminata la scadenza del 30/06/2014,
oltrepassata la quale, in assenza della deliberazione
comunale, non avrebbe trovato applicazione la Scia per
interventi con modifica della sagoma. Termine lavori. Salva diversa disciplina regionale e previa
comunicazione del soggetto interessato, è prevista la
proroga di due anni dei termini di inizio e di ultimazione
dei lavori relativi ai permessi di costruire, come indicati
nei titoli abilitativi rilasciati o comunque formatisi
antecedentemente all'entrata in vigore del decreto legge. La
disposizione è estesa anche alle Denunce di inizio attività
(Dia) e alle Segnalazioni certificate di inizio attività
(Scia) presentate entro lo stesso termine. Gli emendamenti
introducono alcune condizioni per l'operatività della
proroga. In particolare la proroga opera purché i suddetti
termini non siano già decorsi al momento della comunicazione
dell'interessato; sempre che i titoli abilitativi non
risultino in contrasto, al momento della comunicazione
dell'interessato, con nuovi strumenti urbanistici approvati
o adottati. Vengono prorogati di tre anni il termine di
validità, e i termini di inizio e fine dei lavori
nell'ambito delle convenzioni di lottizzazione o degli
accordi similari comunque denominati dalla legislazione
regionale, stipulati sino al 31.12.2012.
Ristrutturazioni. Rientrano nel concetto di ristrutturazione
(e non di nuova costruzione) le demolizioni e ricostruzioni,
anche senza il rispetto della sagoma originaria. Da qui
conseguono semplificazioni burocratiche sui procedimenti di
permesso. In particolare si tratta degli interventi volti al
ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente
crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione,
purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.
Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a
vincoli che gli interventi di demolizione e ricostruzione e
gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti
costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia
soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente. Conseguenza è che la modifica della sagoma non è rilevante
ai fini della individuazione del permesso di costruire come
titolo abilitativo necessario (eliminazione del riferimento
contenuto nell'articolo 10, comma 1, lettera c) del Testo
unico per l'edilizia) (articolo ItaliaOggi del
10.08.2013). |
APPALTI -
PUBBLICO IMPIEGO: Debiti p.a., labirinto di sanzioni. Responsabilità
dirigenziale, disciplinare e pecuniaria.
Circolare della Funzione pubblica richiama
l'attenzione sugli obblighi di comunicazione.
Pagamenti p.a., i dirigenti rischiano grosso. Tali e tante
sono le sanzioni di carattere non solo erariale e
disciplinare, ma anche pecuniario a cui i vertici
amministrativi delle p.a. centrali e locali vanno incontro
in caso di mancato adempimento degli obblighi di
comunicazione.
Nella
circolare 09.08.2013 n. 4/2013, il
ministro della funzione pubblica Gianpiero D'Alia passa in
rassegna tutta la mole di scadenze previste dal dl 35
chiedendo ai manager pubblici e ai responsabili di spesa di
«predisporre tempestivamente», in materia di pagamento dei
propri debiti scaduti al 31.12.2012, «tutte le
attività necessarie e funzionali al puntuale adempimento
delle scadenze». Perché i rischi per gli organi di vertice sono dietro
l'angolo. Vediamoli. Trasmissione trimestrale del prospetto dei pagamenti. Per
consentire il costante monitoraggio dei pagamenti effettuati
con il fondo di 500 milioni stanziato dal dl 35, si prevede
che le p.a. centrali trasmettano con cadenza trimestrale
agli uffici centrali di bilancio il prospetto dei pagamenti,
evidenziando i debiti non ancora estinti. La mancata
trasmissione trimestrale del prospetto, ricorda palazzo Vidoni, è causa di responsabilità amministrativa a carico
del soggetto responsabile del mancato o tardivo invio.
Comunicazioni ai creditori di data e importo dei pagamenti.
Il dl 35 obbligava non solo le amministrazioni dello stato,
ma anche tutti gli altri soggetti pubblici coinvolti
(regioni, province, comuni, enti del Servizio sanitario
nazionale) a comunicare ai creditori entro lo scorso 30
giugno l'importo e la data entro la quale avrebbero
provveduto ai pagamenti. Entro il 5 luglio l'elenco completo
(per ordine cronologico di emissione di fattura) dei debiti
avrebbe dovuto essere pubblicato sui siti internet degli
enti nella sezione «amministrazione trasparente». Come
sappiamo, sono stati molti gli enti ad aver disatteso
l'adempimento (si veda ItaliaOggi del 5/7/2013) e la
Funzione pubblica ricorda che la mancata pubblicazione è
rilevante ai fini della misurazione della performance
individuale e disciplinare dei dirigenti responsabili. Gli
stessi, inoltre, saranno assoggettati a una sanzione
pecuniaria pari a 100 euro per ogni giorno di ritardo.
Ricognizione dei debiti e certificazioni. La certificazione
dei crediti necessaria per completare la liquidazione dei
debiti commerciali maturati al 31/12/2012 dovrà essere
effettuate tramite la piattaforma elettronica della
Ragioneria generale dello stato a cui le p.a. avrebbero
dovuto registrarsi entro il 28 aprile. Anche in questo caso,
ricorda D'Alia, la mancata registrazione sarà rilevante ai
fini della valutazione delle performance dei dirigenti e
potrà costare 100 euro per ogni giorno di ritardo. Le p.a.
avranno tempo fino al 15 settembre per comunicare,
utilizzando la piattaforma, l'elenco dei debiti certi,
liquidi e esigibili maturati al 31/12/2012 non ancora
estinti alla data della comunicazione. Dal 1° gennaio dell'anno prossimo, a regime, le
comunicazioni relative all'elenco completo dei debiti certi,
liquidi ed esigibili al 31 dicembre di ciascun anno dovranno
essere trasmesse sempre tramite la piattaforma elettronica
entro il 30 aprile dell'anno successivo. Anche in questo
caso le conseguenze dell'inadempimento saranno di triplice
natura: dirigenziale, disciplinare e pecuniaria (articolo ItaliaOggi del
10.08.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
In discarica solo rifiuti già trattati
Tritovagliare i rifiuti prima che finiscano in discarica non
sarà più un trattamento sufficiente. In discarica devono
finire solo i rifiuti trattati.
Lo ha chiarito il ministro dell'ambiente in una
circolare resa nota il 06.08.2013 e indirizzata a tutte
le regioni e alle province autonome di Trento e Bolzano. Il ministro dell'ambiente, in
linea con le indicazioni interpretative della Commissione
europea, ha chiarito quali sono le attività di trattamento
alle quali devono essere sottoposti i rifiuti urbani per
poter essere ammessi e smaltiti in discarica, superando di
fatto la circolare emanata «pro tempore» dal ministero
dell'ambiente il 30.06.2009. La circolare del 2009
definiva «trattamento» ai fini dello smaltimento dei rifiuti
in discarica anche la tritovagliatura e stabiliva che a
predeterminate condizioni la «raccolta differenziata spinta»
poteva far venir meno l'obbligo di trattamento ai fini del
conferimento in discarica precisando come queste indicazioni
avrebbero avuto natura «transitoria» senza stabilire però in
modo espresso un chiaro termine finale. Lo scorso 13 giugno
la commissione europea ha però rilevato la necessità di un
trattamento adeguato anche sui rifiuti residuali provenienti
da raccolta differenziata stabilendo come la tritovagliatura
non soddisfi di per sé l'obbligo di trattamento dei rifiuti
previsto dalle normative europee. Per evitare il rischio di
esporre l'Italia a nuove procedure europee di infrazione il
ministro dell'ambiente ha quindi deciso di intervenire
chiarendo così ogni possibile ambiguità in materia. Nella circolare emanata si invitano quindi le regioni e le
province autonome ad osservare con urgenza le nuove
disposizioni adottando ogni ulteriori iniziativa necessaria
in termini di attuazione della pianificazione con
particolare riferimento alla gestione dei rifiuti urbani, al
fine di rispettare gli obiettivi stabiliti dalle norme
comunitarie (articolo ItaliaOggi del
10.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Senza Durc i lavori realizzati direttamente dai privati. LE NOVITÀ/ La validità dell'attestazione è stata portata a
120 giorni In caso di irregolarità l'impresa è invitata a
sanare la propria posizione.
In caso di lavori privati di manutenzione in edilizia
realizzati in economia non sussiste l'obbligo della
richiesta del documento unico di regolarità contributiva (Durc)
agli istituti o agli enti abilitati al rilascio. L'emendamento approvato al Senato all'articolo 31 del Dl
69/2013 –che ieri è stato convertito in legge dalla Camera– risolve la questione dei Comuni che chiedevano, comunque,
il Durc anche se la denuncia dei lavori evidenziava che gli
stessi erano effettuati in economia, ossia direttamente dal
proprietario del fabbricato senza conferire l'incarico a
un'impresa edile. Peraltro, già il ministero del Lavoro con
circolare 848 del 14.07.2004 a proposito dei «lavori in
economia realizzati direttamente da privati» precisava che
«l'unico ambito di attività che esula dall'applicazione
della disciplina sul rilascio del Durc appare quella dei
lavori in economia realizzati direttamente da privati».
Infatti l'articolo 86, comma 10, del decreto legislativo
276/2003, fa esplicito riferimento alle sole imprese e,
nell'ambito di tale nozione, evidentemente, non rientrano i
privati che realizzano direttamente e per proprio conto le
opere edili. Questa disposizione si interseca con quella del comma 10
dell'articolo 90 del decreto legislativo 81 del 2008 il
quale prevede che l'efficacia del titolo abilitativo sia
sospesa in assenza del documento unico di regolarità
contributiva delle imprese o dei lavoratori autonomi. Il che
non ha certo chiarito il tema complesso dei lavori in
economia. Con l'entrata in vigore dell'articolo 31, comma 1-bis, in
caso di lavori in economia –svolti dal proprietario che
assume i lavoratori o che affida all'impresa l'esecuzione
dei lavori ma non l'acquisto dei materiali– non deve essere
richiesto il Durc. L'articolo 31, peraltro, modifica in più parti la disciplina
relativa al rilascio del documento di regolarità
contributiva, con particolare riferimento alla sua validità,
all'utilizzo negli appalti pubblici, e per quanto attiene il
diritto ai benefici economici di fonte pubblica, ed alle
agevolazioni oggetto di cofinanziamento comunitario. Si
conferma l'obbligo delle stazioni appaltanti e degli enti
aggiudicatori di acquisire il documento unico di regolarità
contributiva (Durc), d'ufficio e per via telematica, in
tutte le fasi che interessano i contratti di appalto; è però
innalzato a 120 giorni dalla data del rilascio il periodo di
validità del documento, che se in corso di validità può
essere utilizzato in tutte le fasi contrattuali e può valere
anche per contratti pubblici di lavori, servizi e forniture
diversi da quelli per i quali è stato espressamente
acquisito. Per il pagamento del saldo finale è però necessario un nuovo
Durc. L'innalzamento a 120 giorni della validità del Durc si
applica anche per le erogazioni di sovvenzioni, contributi,
sussidi e per la fruizione di benefici normativi e
contributivi in materia di lavoro e legislazione sociale.
Se mancano i requisiti per il rilascio del Durc, gli enti
preposti (Inps, Inail, Cassa edile), prima dell'emissione o
dell'annullamento del documento già rilasciato, devono
invitare l'interessato, mediante posta elettronica
certificata o attraverso il consulente del lavoro, a
regolarizzare la propria posizione entro 15 giorni (articolo Il
Sole 24 Ore del
10.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Cambio d'uso. Regole e oneri.
Per gli interventi edilizi conseguenze variabili.
La riqualificazione del patrimonio edilizio esistente
richiede spesso il mutamento della destinazione d'uso che in
origine è stata data ai fabbricati. Il tema è particolarmente
complesso in quanto non esiste una regola organica nazionale
e molte sentenze sono intervenute sulla questione. A livello nazionale il mutamento d'uso viene trattato
all'articolo 10, comma 2, del Testo unico in materia edilizia
(Dpr 380/2001) che dispone solo che sono le regioni a
stabilire con legge quali mutamenti, connessi o non connessi
a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili, sono
subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio
attività. A loro volta, le legislazioni regionali
normalmente demandano agli strumenti urbanistici comunali
l'identificazione delle conseguenze legate alle singole
tipologie di mutamento d'uso. Non è, però, una babele
totale, perché sussistono alcuni principi comuni derivanti
da primarie nozioni urbanistiche e dall'evoluzione
giurisprudenziale in materia. I principi di fondo La «destinazione d'uso» di un fabbricato, intesa in senso
urbanistico, è quella impressa all'unità immobiliare dal
titolo edilizio e non quella in concreto esistente
nell'immobile (consiglio di Stato, sentenza 583/2001). La
nozione di «uso» è infatti ancorata alla tipologia
dell'immobile –individuata nel titolo edilizio– senza che
essa possa essere influenzata da utilizzazioni difformi
rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o
pianificatori (così afferma il Tar Lombardia con la sentenza
219/1992). Il titolo edilizio, in particolare, assegna ai fabbricati
una destinazione d'uso individuata tra quelle che sono
generalmente ammesse per l'area dagli strumenti urbanistici
generali e di attuazione. Il mutamento della destinazione
impressa a un fabbricato in favore di altra funzione è
assoggettato alla medesima regola e sarà, dunque, ammesso
solo se la destinazione che si intende assegnare ricada tra
quelle astrattamente ammesse per l'area dallo strumento
urbanistico generale. Le diverse tipologie I mutamenti d'uso possono essere diversi. Innanzitutto, il
mutamento d'uso può avvenire con o senza opere edilizie. I
mutamenti di destinazione con opere, in linea generale, sono
soggetti al regime che governa le stesse opere. Per quanto attiene, invece, ai mutamenti senza opere
l'assenza di un intervento edilizio non implica in sé
l'esenzione dal pagamento del contributo di costruzione. La
giurisprudenza ha, infatti, precisato che il mutamento di
destinazione è comunque urbanisticamente rilevante quando
sussista un passaggio tra due categorie autonome dal punto
di vista urbanistico, aventi diverso regime contributivo. La
circostanza che le modifiche di destinazione d'uso senza
opere non siano soggette a preventivo titolo edilizio,
pertanto, non comporta automaticamente l'esenzione dagli
oneri di urbanizzazione e la gratuità dell'operazione (Tar
Lombardia, sentenza 1787/2010). Gli effetti sulle aree Occorre poi distinguere tra mutamenti d'uso che comportano
l'adeguamento della dotazione di aree a standard e mutamenti
che non lo richiedono. L'articolo 32, lettera a) del Testo
unico edilizia ricomprende nella nozione di "variazioni
essenziali" ai progetti approvati anche il mutamento della
destinazione d'uso che implichi variazione degli standard
previsti dal decreto ministeriale del 02.04.1968. Quindi
le sentenze hanno precisato che ogni volta che si passa da
una categoria edilizia a un'altra, anche senza opere, va
verificata la compatibilità dell'uso e la dotazione di
standard urbanistici. È stato, quindi, statuito che si configura una
"trasformazione edilizia" quando questa sia produttiva di
vantaggi economici connessi all'utilizzazione del bene
immobile, anche senza l'esecuzione di opere edilizie
(consiglio di Stato, sentenza 5539/2011 e Tar Lombardia
468/2011). In questo quadro complessivo, i giudici amministrativi hanno
recentemente rilevato che, rispetto alla destinazione
produttiva, la destinazione terziaria o residenziale
comporta il pagamento di un contributo di costruzione più
elevato e il conferimento di standard urbanistici in misura
maggiore (Tar Lombardia, sentenza 1066/2013). La
riqualificazione del patrimonio edilizio esistente avrà,
dunque, una diversa incidenza urbanistica ed economica a
seconda che essa comporti o meno un cambio d'uso tra
categorie edilizie funzionalmente autonome (articolo Il
Sole 24 Ore del
10.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: L’Ape non è l’Ace, affitti bloccati.
Confedilizia conferma lo stop dei contratti. Il Notariato
no. L’organizzazione della proprietà
edilizia contesta la nota dello Sviluppo economico. Fino a che non verranno emanati i decreti attuativi previsti
dal dl 63/2013 convertito nella legge n. 90/2013 nessun
certificatore autorizzato potrà infatti rilasciare
l’Attestato di prestazione energetica (da rispondere ai
criteri indicati dalla direttiva 2010/31/Ue). Da allegare a
pena di nullità sia nei contratti di compravendita sia in
quelli di locazione. Decreti attuativi che dovranno
intervenire anche a modifi care le linee guida per la
certificazione energetica, emanate con il dm del ministro
dello sviluppo economico (MiSe) 26.06.2009.
All’indomani
della pubblicazione del decreto legge n. 63 e cioè partire
dal 5 giugno, ci si era chiesti un cittadino che, per
esempio, dà in locazione la propria abitazione che tipo di
attestato deve consegnare all’affittuario? L’Ace o l’Ape?
Una risposta a queste domande è arrivata con la circolare
MiSe del 25.06.2013 n. 12976. Con essa, i tecnici di
prassi chiariscono che dal 5 giugno la certificazione
energetica degli edifici dovrà essere attuata con
l’attestato di prestazione energetica, utilizzando la
metodologia di calcolo stabilita dal dpr 59/2009. E cioè le
stesse già utilizzate per redigere l’Ace. La vecchia
metodologia potrà però essere utilizzata solo fino a quando
verranno emanati i decreti attuativi. Nel frattempo il
decreto legge n. 63 del 2013 è stato convertito nella legge
n. 90. Con l’entrata in vigore dal 4 agosto delle nuove
norme sull’attestato di prestazione energetica il MiSe
interviene al fine di fare chiarezza con una nota del
07/08/20113 prot. n. 16416 (dipartimento per l’energia,
struttura Dr-Enre). Nota che è dello stesso tenore della
circolare del 25 giugno n. 12976 e fornisce la stessa
soluzione proposta all’indomani del decreto legge n. 63/2013
senza centrare l’attenzione sulla principale questione posta
dalla legge di conversione n. 90 del 2013. E cioè
«l’Attestato di prestazione energetica deve essere allegato
al contratto di vendita, agli atti di trasferimento di
immobili a titolo gratuito o ai nuovi contratti di
locazione, pena la nullità degli stessi contratti». Attestato che dovrà essere redatto in modo da rispondere ai
criteri indicati dalla direttiva 2010/31/Ue, ma che ad oggi
non è possibile ottenere da alcun certificatore autorizzato
mancando il decreto interministeriale che deve con esattezza
fissarne i contenuti. Il ministero infatti non affronta lo
specifico problema né nella circolare del 25 giugno né
nella sua nota del 7 agosto, ma si limita a dare chiarimenti
in merito all’applicazione delle disposizioni di cui al
decreto legge n. 63. La posizione di Confedilizia. Con un
comunicato stampa dell’8 agosto, la Confedilizia ritiene di
dover confermare le disposizioni già date alle proprie
associazioni territoriali per il blocco della stipula di
nuovi contratti di locazione fino a che il governo non avrà
rimediato alla grave situazione in essere. Come noto,
ricorda la Confedilizia, nel decreto legge n. 63/2013 è stata
inserita dalla camera una disposizione del seguente,
letterale tenore: «L’Attestato di prestazione energetica
deve essere allegato al contratto di vendita, agli atti di
trasferimento di immobili a titolo gratuito o ai nuovi
contratti di locazione, pena la nullità degli stessi
contratti». Sottolinea Confedilizia, autorevole opinamento
ritiene, in base a riflessioni di carattere sistematico, di
assimilare, ai fini della norma precitata sulla nullità,
così superando il suo letterale tenore, l’«Attestato di
prestazione energetica» all’«Attestato di certificazione
energetica». Tale opinamento espone peraltro i contraenti al
rischio che esso, di ordine sistematico, possa non essere
condiviso dall’Autorità giudiziaria e, in particolare,
comporta che gli stessi debbano (a proprio rischio) valutare
se (ai fini della normativa applicabile e della clausola di
cedevolezza di cui all’articolo 17 del dlgs. n. 192/2005 come modificato dal dl n. 63) le singole regioni e province
autonome abbiano già o meno provveduto al recepimento della
direttiva 2010/31/Ue e dettato la propria normativa
rispettando i vincoli derivanti dall’ordinamento europeo e i
principi fondamentali desumibili dal dlgs. n. 192/2005 come modificato.
La posizione del Notariato. Il Notariato al
contrario in una nota dell’8 agosto aderisce alla tesi del MiSe sostenendo che possono essere utilizzati attestati di
certificazione energetica rilasciati dal 04.08.2013
sulla base della disciplina dettata con legge regionale
emanata in ossequio alla direttiva 2002/91/Ce, ma non ancora
aggiornata alla direttiva 2010/31/ Ue. Il tutto, come
chiarisce lo stesso ministero, fino all’emanazione dei
decreti di aggiornamento della metodologia di calcolo e
requisiti della prestazione energetica di cui all’art. 4 del
decreto legge n. 63/2013, come convertito, con modificazioni,
dalla legge n. 90/2013 (articolo ItaliaOggi del
09.08.2013). |
ENTI LOCALI: Province messe in naftalina.
Commissari fino al 30/06/2014. Prefetture senza tagli.
Il cdm ha approvato la proroga. Saitta (Upi): senza elezioni
la democrazia è sospesa. Proroga delle province commissariate fino al 30.06.2014
e prefetture esonerate ad libitum dalla spending review.
Sono questi gli effetti del decreto legge approvato ieri dal
consiglio dei ministri contenente una specifica norma sulle
province: si tratta dell'ennesimo provvedimento in materia
dalla metà di luglio, a seguito della sentenza della Corte
costituzionale 220/2013, che ha dichiarato
l'incostituzionalità del riordino delle province previsto
dalla «spending review». Vecchie gestioni commissariali.
Proseguiranno nel loro compito le gestioni commissariali
delle province. I commi 1 e 2 dell'articolo 13 del decreto
legge fanno espressamente salvi i provvedimenti
amministrativi che, in applicazione delle disposizioni del
decreto «salva Italia» (il dl 201/2011, convertito in legge
214/2011), avevano impedito la convocazione dei comizi
elettorali per il rinnovo degli organi delle province
scaduti nel 2012 e nel 2013 e, contestualmente, tutti gli
atti e provvedimenti adottati dalle gestioni commissariali
alla data della sua entrata in vigore. Si tratta,
ovviamente, di una previsione il cui scopo è colmare il
vuoto normativo derivante dalla dichiarazione di
incostituzionalità delle norme sul riordino delle province.
Venendo a mancare, infatti, l'articolo 23 del dl 201/2011
(le sentenze della Consulta eliminano retroattivamente le
norme incostituzionali), le gestioni commissariali e i loro
provvedimenti erano da considerare illegittime, in quanto
non fondate su una norma. Cessazione delle gestioni commissariali. Il comma 3
dell'articolo stabilisce che i commissari cesseranno il 30.06.2014, data entro la quale evidentemente il governo
pensa che sarà completato il processo di revisione
dell'ordinamento delle province impostato col disegno di
legge presentato dal ministro Graziano Delrio (si veda
ItaliaOggi del 26/07/2013) Nuovi commissariamenti. Il comma 4 intende estendere i
commissariamenti a tutte le amministrazioni provinciali i
cui mandati scadranno in via anticipata o per scadenza
naturale nel periodo compreso tra il primo gennaio e il 30.06.2014.
Prefetture. Per effetto del comma 5, invece, le prefetture
vengono sostanzialmente esentate dall'onere di fare la spending review e riorganizzarsi. Infatti, la norma sospende
fino al 30.06.2014 quanto previsto dall'articolo 2,
comma 2, del dl 95/2012, convertito in legge 135/2012, che
ha previsto che per il personale dipendente del Viminale le
riduzioni della dotazione organica previste dalla spending
review si applicheranno solo all'esito della procedura di
razionalizzazione delle province di cui all'articolo 17. Ma,
siccome la razionalizzazione delle province non vi sarà mai
perché destinate all'abolizione, si tratta di un rinvio ad
libitum della riorganizzazione dell'amministrazione
dell'interno. Il decreto legge desta molteplici dubbi di
legittimità costituzionale. In primo luogo per violazione
del giudicato: infatti, ripropone uno degli effetti delle
norme considerate incostituzionali, cioè, appunto, i
commissariamenti. E lo fa, per altro, esattamente con lo
stesso strumento ritenuto dalla Corte costituzionale
inadeguato a una riforma dell'ordinamento: il decreto legge.
In secondo luogo, il decreto legge ripropone un medesimo
vizio presente anche nei decreti del governo Monti, ma non
esaminato in modo approfondito dalla Consulta: basa, cioè, i
commissariamenti sull'articolo 141 del dlgs 267/2000: ma,
tale norma considera possibili i commissariamenti solo per
cessazione anticipata dei mandati elettorali, non per
effetto della loro scadenza naturale, come invece previsto
dalle norme di riordino. Ancora, il comma 3 dell'articolo 13
del decreto legge, allo scopo di estendere i
commissariamenti alle amministrazioni provinciali scadute
nel 2013 richiama l'articolo 1, comma 115, della legge
228/2012. Ma, questa ultima norma si poggia proprio sulle
norme della manovra Monti dichiarata incostituzionale. Per
il governo il decreto serve a evitare che la fase di
transizione della soppressione delle province duri
eccessivamente e impedisca il dipanarsi della riforma. Ma il
presidente dell'Upi Antonio Saitta, la pensa diversamente.
««Siamo un paese a democrazia sospesa, dove, in attesa di
una riforma molto di là da venire, si calpesta la
Costituzione e si impediscono le elezioni. Come se, in
attesa della riforma del senato, si mandassero a casa tutti
i senatori eletti», ha dichiarato (articolo ItaliaOggi del
09.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Revisione del Catasto a due velocità. Revisione del Catasto a due velocità. Con una procedura
accelerata per i grandi centri urbani in attesa che si
completi la riforma contenuta nella delega fiscale.
L'entrata a regime del nuovo Catasto, infatti, necessiterà
di molto tempo. Anche ipotizzando che la delega fiscale
venga approvata entro ottobre e che i successivi decreti
attuativi diventino operativi dal 01.01.2014, ci
vorranno almeno cinque anni per aggiornare i valori
catastali rendendoli più aderenti a quelli di mercato. Per
questo, già dal 2014, si potrebbero adottare misure
provvisorie per i soli centri urbani di grandi dimensioni,
passando al criterio dei metri quadri e utilizzando le stime
dell'Osservatorio immobiliare (si veda ItaliaOggi del
12/07/2013) salvo prova contraria.
È questo l'auspicio della
commissione finanze del senato che ieri ha approvato il
documento conclusivo dell'indagine conoscitiva sulla
tassazione degli immobili. La commissione presieduta da
Mauro Maria Marino propone di iniziare la costruzione del
nuovo catasto sopprimendo le categorie catastali ormai
completamente superate dalle mutate caratteristiche del
patrimonio immobiliare italiano. La categoria A5, per
esempio, ricomprende ancora un milione di abitazioni di tipo
ultrapopolare (senza servizi igienici e di bassissimo
livello costruttivo) che non corrispondono più alla realtà
in quanto verosimilmente ristrutturate e messe a norma. Per
questo, tale categoria potrebbe essere eliminata salvo prova
contraria da parte del proprietario. A regime la commissione
propone l'adozione di un meccanismo automatico di revisione
periodica delle rendite. Per quanto riguarda più
specificamente la finanza locale, la commissione ribadisce
la necessità di rinviare al 2014 l'entrata in vigore della Tares (si veda ItaliaOggi di ieri). Il nuovo tributo dovrà
contemperare il criterio della metratura e del numero degli
occupanti dell'immobile per definire l'imponibile. Infine,
per quanto riguarda l'annunciata riforma dell'Imu, la
commissione auspica «un intervento volto a eliminare la
scadenza del versamento della prima rata 2013 dell'Imu prima
casa» (articolo ItaliaOggi del
09.08.2013). |
ENTI LOCALI: Mini enti, convenzioni a perdere.
Tra 5 anni solo unioni per le funzioni fondamentali.
Il ddl Delrio pone molti dubbi sulla disciplina transitoria
in materia di forme associative. Per l'esercizio in forma associata delle proprie funzioni
fondamentali i piccoli comuni potranno continuare a optare,
in alternativa alla costituzione di unioni, per la stipula
di una o più convenzioni.
Lo prevede il disegno di legge «Delrio»,
approvato dal consiglio dei ministri il 19 luglio scorso. Il
testo, che ora dovrà passare al vaglio del parlamento, non
chiarisce, però, quale sarà il destino delle convenzioni già
in essere e di quelle che verranno sottoscritte nel prossimo
futuro. In base alla disciplina vigente, le convenzioni sono poste
quasi sullo stesso piano delle unioni, anzi in un certo
senso sono favorite dalla mancata previsione di una
consistenza demografica minima, che per le unioni è fissata
a 10.000 abitanti, salvo diverse decisioni assunte dalle
regioni. I due modelli, inoltre, possono coesistere, nel
senso che ogni comune, che può aderire a una sola unione,
può anche decidere di svolgere alcune funzioni mediante una
o più convenzioni. Gli unici paletti sono previsti dall'art. 14, comma 31-bis,
del dl 78/2010, ai sensi del quale le convenzioni devono
avere durata non inferiore a un triennio, alla scadenza del
quale dovrà essere comprovato il conseguimento, da parte dei
comuni aderenti, di significativi livelli di efficacia ed
efficienza nella gestione, secondo le modalità stabilite da
un decreto del ministro dell'interno che avrebbe dovuto
vedere la luce alla fine dello scorso anno, ma che non è
ancora stato adottato (anche se alcune bozze sono già
circolate). Laddove tale verifica dia esito negativo, i
comuni interessati sono obbligati a esercitare le funzioni
fondamentali esclusivamente mediante unione. In pratica, si
tratterebbe di una sorta di condizione risolutiva, il cui
avverarsi determinerebbe lo scioglimento delle convenzioni
inefficaci e inefficienti, con l'obbligo per i predetti
comuni di dare vita a unioni o di confluire in unioni
esistenti. Una disciplina analoga è prevista dall'art. 16,
comma 12, del dl 138/2011 per i comuni che optino per
l'esercizio associato di tutte le proprie funzioni (e non
solo di quelle fondamentali). Il ddl appena approvato dal governo punta a modificare tale
quadro, individuando nell'unione il modello privilegiato (e,
di conseguenza, incentivato, anche finanziariamente) per
adempiere agli obblighi di gestione associata. Come detto,
tuttavia, esso consente comunque il ricorso alla
convenzione, stabilendo, però, un'ulteriore condizione:
l'art. 1, comma 4, ultimo periodo, infatti, prevede che, a
decorrere dalla scadenza del quinto anno dall'entrata in
vigore della nuova disciplina, non potranno più essere
stipulate nuove convenzioni per l'esercizio delle funzioni
fondamentali, dovendo i piccoli «ricorrere esclusivamente»
alla costituzione di unioni. Tale formulazione pone diversi dubbi. In primo luogo, non è
chiaro se, decorsi i cinque anni, le convenzioni si
intendano comunque sciolte o se, invece, possano restare in
piedi laddove prevedano una scadenza successiva. La
formulazione letterale della norma sembrerebbe vietare solo
la stipula di «nuove convenzioni», a differenza di quanto
prevedeva la prima bozza del ddl, che al contrario limitava
espressamente a un lustro la durata di «tutte» le
convenzioni. In secondo luogo, non si capisce come la nuova disciplina
interagisca con la precedente: le convenzioni già stipulate
e quelle che verranno sottoscritte in futuro saranno
comunque soggette alla verifica triennale o no? Sembrerebbe
di sì, dato che né l'art. 14, comma 31-bis, del dl 78, né
l'art. 16, comma 12, del dl 138 sono inclusi fra le
disposizioni destinate a essere abrogate. Ma sarebbe in ogni
caso utile un migliore raccordo fra le vecchie e le nuove
previsioni. Più in generale, pare opportuno prevedere una disciplina
transitoria che detti tempi e modalità certi per
l'adeguamento delle attuali forme associative (convenzioni,
ma anche unioni) alle novità in itinere (che riguardano
l'intera governance). In proposito, infatti, occorre tenere conto che, nella
migliore delle ipotesi, la nuova legge entrerà in vigore a
pochi mesi dalla scadenza del termine (fissato al 31.12.2013) entro il quale i piccoli comuni dovranno
gestire in forma associata tutte le funzioni fondamentali
(escluse solo anagrafe, stato civile e servizi elettorali).
In questa prospettiva, tuttavia, la scelta più saggia
sarebbe prevedere una proroga di tale scadenza, come
giustamente richiesto dall'Anci (articolo ItaliaOggi del
09.08.2013). |
VARI: Per lo sconto sulle multe conta la data di contestazione o
notifica. I trasgressori che riceveranno la notifica di una multa nei
prossimi giorni dovranno controllare bene la data indicata
sulla busta del verbale. Se questa data sarà successiva (o
vicinissima) all'imminente entrata in vigore della legge di
conversione del dl del fare tutto a posto. Nessuno sconto
sarà invece possibile per le vecchie multe già notificate da
tempo. Attenzione infine ai preavvisi non ancora notificati
per i quali i singoli comandi dovranno fornire istruzioni ad
hoc in attesa di indicazioni ministeriali uniformi.
Sono queste in sintesi le indicazioni operative che dovranno
essere divulgate dalla polizia alla vigilia di Ferragosto
con la prevista conversione in legge del dl del fare. La questione dello sconto sulle multe è stata semplificata
nell'ultimo passaggio parlamentare eliminando la possibilità
di fare accedere al beneficio anche i conducenti virtuosi.
Nello spirito della massima semplificazione il legislatore
ha ridotto lo sconto solo ai buoni pagatori. Insomma se un
trasgressore riconoscerà di avere torto e vorrà limitare al
massimo i danni potrà procedere entro cinque giorni al
pagamento scontato della multa. Letteralmente la novella
specifica che questa facoltà è ammessa entro cinque giorni
dalla contestazione o dalla notificazione. Questo significa che in pratica potrà essere ammesso allo
sconto chi verrà pizzicato dalla polizia con contestazione
diretta, successivamente alla pubblicazione in Gazzetta
dalla legge di conversione del dl del fare (o nei due o tre
giorni precedenti). Ovvero che potrà beneficiare della
riduzione anche chi pur avendo trasgredito precedentemente
alla data di messa a regime della riforma (prevista per i
prossimi giorni), riceverà la notifica della multa
successivamente a tale data. In buona sostanza per avere
diritto allo sconto occorrerà fare riferimento al momento
della conoscenza dell'infrazione. Se questa data è
successiva all'imminente novella tutto a posto. Resta sul piatto la questione dei preavvisi di sosta, i
verbali di cortesia che vengono lasciati sul parabrezza
senza notifica e contestazione immediata. In attesa di
improbabili indicazioni ministeriali è opportuno che anche
queste infrazioni vengano attratte nell'alveo del pagamento
ridotto, anche se non ancora notificate al proprietario del
veicolo (articolo ItaliaOggi del
09.08.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Le norme anticorruzione perdono i primi pezzi. Tutti sono incompatibili, ma alcuni lo sono meno degli
altri: quelli i cui mandati erano in corso al momento
dell'entrata in vigore del dlgs 39/2013 sulle
inconferibilità e incompatibilità degli incarichi, per
conflitto di interessi.
La normativa «anticorruzione» perde i primi pezzi, grazie al
«decreto del fare», che con un accorto emendamento approvato
in senato pone nel nulla le cause di incompatibilità
incombenti su amministratori e dirigenti pubblici, in carica
alla data del 4 maggio, quando entrò in vigore il dlgs
33/2013. L'emendamento dispone che «in sede di prima applicazione,
con riguardo ai casi previsti dalle disposizioni di cui ai
capi V e VI del decreto legislativo 08.04.2013, n. 39,
gli incarichi conferiti e i contratti stipulati prima della
data di entrata in vigore del medesimo decreto legislativo
in conformità alla normativa vigente prima della stessa
data, non hanno effetto come causa di incompatibilità fino
alla scadenza già stabilita per i medesimi incarichi e
contratti». Si tratta delle incompatibilità, da una parte, tra incarichi
nelle pubbliche amministrazioni e negli enti privati in
controllo pubblico e, dall'altra, cariche in enti di diritto
privato regolati o finanziati dalle pubbliche
amministrazioni nonché lo svolgimento di attività
professionali; e, ancora, incompatibilità tra incarichi
nelle pubbliche amministrazioni e negli enti privati in
controllo pubblico e cariche di componenti di organi di
indirizzo politico. Una gamma molto ampia di incompatibilità che coinvolge tanto
i componenti degli organi politici di governo, quanto i
dirigenti pubblici, allo scopo evidente di evitare conflitti
di interessi di due tipologie. La prima è la commistione tra controllore e controllato: il
dlgs 39/2013 interviene per evitare che un amministratore o
dirigente pubblico di un'amministrazione, possa,
contemporaneamente, anche svolgere incarichi amministrativi
e direzionali presso enti partecipati a capitale pubblico.
La seconda tipologia è il conflitto tra l'obbligo di
prestare in via esclusiva il munus all'amministrazione
presso la quale si svolge la funzione politica o si presta
l'attività lavorativa, e l'interesse personale a cumulare
incarichi e remunerazioni. L'emendamento fa piazza pulita del conflitto di interessi
per diversi anni, affermando che le cause di incompatibilità
non coinvolgono chi al 4 maggio 2013 già fosse incaricato in
cariche politiche o svolgesse il ruolo di dirigente
pubblico. È evidente l'irrazionalità di questa norma, sorretta solo
apparentemente dall'intento di creare un regime di diritto
transitorio. Il dlgs 39/2013, in applicazione della legge
190/2012 «anticorruzione» ha individuato appunto casi di
incompatibilità, che non consentono ad amministratori e
dirigenti pubblici di cumulare cariche, visto il potenziale
molto alto di incorrere nella violazione dei principi di
corretta gestione ed eticità, imposti dalla normativa
anticorruzione. È evidente che coi fini esplicitati dalla normativa la
circostanza di rivestire una carica o condurre un rapporto
di lavoro al momento dell'entrata in vigore del dlgs 39/2013
non ha alcuna rilevanza: se la legge considera il cumulo
delle cariche causa di incompatibilità, essa resta causa di
incompatibilità, prescindendo dal resto. D'altra parte,
l'incompatibilità permette all'interessato di optare se
mantenere la funzione di amministratore o dirigente pubblico
o l'incarico incompatibile. Dunque, non si vede la ratio
che giustifichi una sospensione lunghissima di anni
dell'efficacia di una delle norme considerate un vero e
proprio caposaldo della normativa anticorruzione (articolo ItaliaOggi del
09.08.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il danno ambientale va sempre risarcito.
Legge europea. Per sanare le procedure di infrazione. PIÙ SEVERITÀ/
In caso di dolo o colpa non basta l'intervento di bonifica
Chi ha inquinato deve anche pagare un indennizzo.
Diventa più severa la disciplina sul danno ambientale. Lo
prevede la legge europea 2013, approvata definitivamente dal
Parlamento il 31 luglio e in attesa di pubblicazione sulla
«Gazzetta Ufficiale». Infatti, la legge rimedia alla
procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea,
che contestava –nella nostra legislazione– la mancanza del
risarcimento per il danno ambientale. Tra gli altri
interventi ambientali, la legge europea prevede poi una
semplificazione per lo smaltimento dei Raee a favore dei
rivenditori. Vediamo nel dettaglio: l'articolo 25 della nuova legge
argina la procedura d'infrazione 2007/4679. Con l'aggiunta
dell'articolo 298-bis al Dlgs 152/2006 (il Codice
ambientale) il danno ambientale e la minaccia sono estese a
tutte le attività antropiche in presenza di comportamenti
dolosi o colposi. La legge prevede che la riparazione del
danno ambientale deve avvenire anche attraverso procedimenti
idonei a reperire dal danneggiante «le risorse per coprire i
costi per la riparazione». È abrogato l'articolo 303, comma 1, lettera i), del Dlgs
152/2006 che (in difformità rispetto alla direttiva
2004/35/Ce) escludeva la disciplina sul risarcimento
ambientale in caso di avvio di procedure di bonifica o di
intervenuta bonifica. Viene inoltre modificata la procedura
risarcitoria: ora scompare il ripristino e il danno
ambientale va riparato a spese di chi lo ha cagionato. Il
ministero dell'Ambiente, con decreto, definirà criteri e i
metodi, anche di valutazione monetaria, per determinare la
portata delle misure di riparazione complementare e
compensativa. Scompaiono i riferimenti al danno per
equivalente patrimoniale perché (in armonia con l'Europa) le
misure di riparazione non possono essere sostituite dai
risarcimenti pecuniari. Per quanto riguarda i Raee l'articolo 22 della nuova legge
affronta la procedura d'infrazione 2009/2264 e amplia il
campo di applicazione del Dlgs 151/2005 sui Raee
estendendolo agli apparecchi fissi di grandi dimensioni,
alle apparecchiature per il condizionamento e agli
elettromedicali per il test di fecondazione. Inoltre, dopo anni, si riescono a modificare i limiti del Dm
65/2010 che hanno frenato la raccolta dei Raee domestici
conferiti dai consumatori presso i distributori all'atto
dell'acquisto di un nuovo elettrodomestico equivalente. I raggruppamenti, sia presso il punto vendita sia presso
qualsiasi altro luogo comunicato all'Albo gestori
ambientali, continuano ad essere momenti della raccolta
soggetti solo alla iscrizione all'Albo gestori in categoria
1, ma ora si stabilisce che vi entrano solo i Raee di cui al
Dlgs 151/2005 derivanti da nuclei domestici. I rifiuti sono trasportati ai centri di raccolta comunale
con cadenza mensile e comunque quando ciascuno dei
raggruppamenti 1 (apparecchiature refrigeranti), 2 (grandi
bianchi: lavatrici, lavastoviglie eccetera) e 3 (tv e
monitor) raggiunge i 3.500 chili. Invece, per i
raggruppamenti 4 (stampanti, telefonini, apparecchi di
illuminazione eccetera) e 5 (sorgenti luminose) i 3.500
chili sono complessivi. Finora, invece, si sono avuti 3.500
chili complessivi per tutte le categorie di Raee, il che
limitava l'operatività e confondeva tutti. Cancellato anche il limite quantitativo previsto per gli
automezzi (portata non superiore a 3.500 chili e massa
complessiva non superiore a 6mila chili) affinché questi
possano viaggiare senza formulario per i rifiuti ma con il
solo documento di trasporto previsto dal Dm 65/2010.
Inoltre, i centri di raccolta possono essere realizzati e
gestiti sia nel rispetto del Dm 8 aprile 2008, sia delle
autorizzazioni ordinarie o agevolate previste per i rifiuti,
sia dell'Aia (autorizzazione integrata ambientale). Il
consumatore deve sempre ricordare che il distributore non
può indebitamente rifiutare il ritiro di un Raee oppure
ritirarlo a pagamento. L'articolo 16 del Dlgs 151/2005
prevede la sanzione amministrativa pecuniaria da 150 a 400
euro per ogni Raee non ritirato o ritirato a titolo oneroso.
Il consumatore deve conferire un Raee equivalente
all'apparecchio nuovo acquistato (articolo Il
Sole 24 Ore del
09.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le locazioni franano sull'Ape.
Mancano le norme per adempiere all'obbligo imposto.
Le misure prese dalla Confedilizia dopo il vincolo
dell'Attestazione di prestazione energetica. L'Attestazione di prestazione energetica (Ape) si è
scontrata con la realtà. E l'urto è stato delle dimensioni
attese. In mancanza di norme che dettano i criteri per poter
ottenere l'Ape, Confedilizia ha dovuto imporre alle proprie
associazioni territoriali il blocco immediato della stipula
dei contratti di locazione sia abitativi, sia a uso diverso.
In questo momento, infatti, stipulare un contratto di
locazione ne comporterebbe l'automatica nullità. Da un lato,
infatti, non è più valido il vecchio Attestato di
certificazione energetica, dall'altro lato, però, non è
possibile ottenere l'Ape. E se Confedilizia si è dovuta
limitare al blocco delle locazioni, il Consiglio nazionale
del notariato si è occupato dei contratti di compravendita.
Nelle linee guida appositamente dettate per l'Ape, rese note
il 1° agosto (si veda ItaliaOggi del 02.08.2013), i notai
hanno, infatti, fatto presente come in questo momento, possa
essere rischioso stipulare un contratto di compravendita a
causa dell'incertezza che regna sulla materia. Dal governo,
inoltre, non è arrivata nessuna indicazione circa modi e
tempi per una possibile eliminazione della norma. A questo
proposito però, si restringe il numero delle strade
percorribili. L'ipotesi principale è che venga inserita
all'interno del «decreto del fare bis», oggetto del prossimo
consiglio dei ministri di venerdì 9 agosto, una norma ad
hoc. In alternativa, l'ipotesi a più breve scadenza è quella
dell'inserimento, entro il 31 agosto, di una disposizione
all'interno dei lavori per la riforma della tassazione
immobiliare e l'eliminazione dell'aumento dell'Iva. Ultima
alternativa, l'inserimento della disposizione abrogativa
all'interno del disegno di legge per il patto di stabilità.
In questa ultima ipotesi, però, i tempi rischierebbero di
dilatarsi fino a dicembre 2013. Il problema Ape. Prevedere l'obbligo di allegazione dell'Ape
a pena di nullità assoluta dei contratti di locazione e
compravendita, senza che però esista l'apposito decreto
interministeriale che spieghi come ottenere l'Attestazione
stessa. Questo il vero problema della norma che è stata
inserita da Montecitorio. In base alla circolare del
ministero dello sviluppo economico del 25.06.2013, il
nuovo attestato non può, infatti, essere predisposto prima
dell'emanazione del previsto decreto interministeriale,
avente ad oggetto l'adeguamento del precedente provvedimento
sulla documentazione energetica e la fissazione dei criteri
e dei contenuti obbligatori dell'Ape. Il nuovo Ape
sostituisce, infatti, il precedente Attestato di
certificazione energetica (Ace), senza stabilire, però, un
periodo di transizione durante il quale, in assenza di norme
che spieghino come ottenere l'Ape, sia possibile continuare
a utilizzare il vecchio Ace. Conseguenza diretta di questa
disposizione, il fatto che, ad oggi, chiunque si accinga a
stipulare un contratto di compravendita o locazione, non ha
alcun tipo di via d'uscita. Incorre, infatti, in nullità
assoluta sia che alleghi solo l'Ace, che è, quindi,
equiparabile a carta straccia, sia che non alleghi nulla.
«La situazione è talmente grave», ha spiegato a ItaliaOggi
il presidente di Confedilizia, Corrado Sforza Fogliani, «che
abbiamo chiesto alle nostre associazioni sul territorio di
bloccare tutti i contratti di locazione fino a che la norma
non verrà eliminata. Il problema vero e proprio», ha
continuato Sforza Fogliani «è che non solo si appesantisce
ulteriormente il carico burocratico ed economico a carico
dei soggetti interessati (mediamente il vecchio Ace costava
intorno ai 700 euro), ma lo si fa senza dare alcun tipo di
garanzia». A questa situazione si aggiungono, poi, le
sanzioni economiche che potranno essere irrogate da comuni e
regioni, nel caso in cui l'Ape manchi. Queste, infatti,
vanno da un minimo di 3 mila euro fino a un massimo di 18
mila per i costruttori e i proprietari che non allegano
l'attestazione, sia per i nuovi edifici che per quelli
ristrutturati o oggetto di compravendita. Diminuita, invece,
la multa, da un minimo di 300 euro a un massimo di 1.800,
per i proprietari che vogliono affittare la casa, per
arrivare da 500 a 3 mila euro per gli agenti immobiliari che
omettono l'Ape già nell'annuncio. Le soluzioni. Se, da un
lato, è stata più volte espressa la volontà politica di
rimediare alla stortura normativa introdotta alla camera
durante i lavori sul decreto energia, ora legge 90/2013,
dall'altro lato però, al senato è stato ritirato
l'emendamento al decreto del fare (69/2013) che prevedeva
l'eliminazione della disposizione. Quando l'ecobonus è
approdato in commissione finanze al senato per l'ultima
lettura proprio a ridosso della scadenza del 4 agosto, non è
stato più possibile inserire alcuna modifica al decreto. Il
rischio, infatti, era quello di farne saltare la
conversione. La scelta, quindi, è stata quella di proporre
un emendamento all'interno del primo decreto utile, in
questo caso il dl fare, per rimediare al problema nel più
breve tempo possibile. «Martedì, però, durante i lavori al
dl 69 in senato, è stato chiesto il ritiro di quasi tutti
gli emendamenti, tra cui quello che prevedeva l'eliminazione
dell'obbligo di allegazione dell'Ape a pena di nullità», ha
spiegato a ItaliaOggi il presidente della commissione
finanze di palazzo Madama, Mauro Maria Marino, «in questo
modo quindi, è stato perso uno degli ultimi treni possibili
prima della pausa estiva, lasciando in vigore una norma
assolutamente dannosa sotto tutti i punti di vista. Spero
solo», ha concluso Marino, «che il governo provveda ad
abrogarla nel più breve tempo possibile, tramite il dl fare
bis» (articolo ItaliaOggi dell'08.08.2013). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Decreto del fare, via libera del senato. L'ultima parola
alla camera. Il decreto del fare lascia il senato e approda alla camera.
Attesa, quindi, per oggi, la terza e ultima lettura prima
del via libero definitivo per la conversione del dl 69.
Palazzo Madama ha, infatti, licenziato il decreto del fare
nel pomeriggio di ieri, dopo aver chiesto nei giorni scorsi,
il ritiro e l'accorpamento degli oltre 700 emendamenti che
erano stati presentati. Il decreto si appresta, quindi, a
diventare legge nonostante la dead line per la conversione
fosse stabilita per il 19 agosto. L'imminente chiusura
estiva di camera e senato ha reso, infatti, necessario
accelerare i tempi (si veda ItaliaOggi del 07.08.2013). A
uscire non del tutto vincitore da questi giorni di lavori
frenetici è stato, però, il governo che in aula è stato
battuto due volte. La prima, martedì, quando è stato
approvato un ordine del giorno su cui aveva dato parere
contrario, avente a oggetto l'impegno ad abolire la tassa
sui telefonini. La seconda, ieri, quando è stata respinta la
proposta di riformulazione di una norma che prevedeva la
soppressione dell'art. 73 del decreto che permette a chi ha
fatto uno stage presso gli uffici giudiziari di accedere al
concorso in magistratura. Sempre durante la seduta di ieri,
l'assemblea ha, inoltre, respinto una proposta di modifica
del Pdl, che avrebbe alzato il limite all'uso del contante
da 1.000 a 3 mila. Ha trovato, invece, accoglimento un odg
che impegna l'esecutivo a correggere la riforma che
riorganizza le circoscrizioni giudiziarie. Al di là della
giornata di ieri, molte le novità che sono state introdotte
in senato. Prima tra tutte la cancellazione del Durt
(Documento unico di regolarità tributaria), a cui poi ha
fatto seguito l'abbattimento del 25% del compenso
complessivo dei manager pubblici che non rientrano nel tetto
dei circa 300 mila euro fissato dal decreto salva Italia.
Passate poi anche le disposizioni che prevedono sia l'Iva
agevolata sui biglietti d'ingresso all'Expo, sia la
possibilità nelle ristrutturazioni di modificare la sagoma
degli edifici con la Scia (Segnalazione certificata di
inizio attività), fermo restando la tutela dei centri
storici. Confermato poi, anche lo sconto del 30% a chi paga
la multa entro cinque giorni. Ha trovato, infine, conferma
anche la norma che prevedeva la proroga al 13.08.2014
dell'obbligo di stipulare un'assicurazione professionale,
per chi svolge una professione sanitaria. Se, però, si escludono i soggetti attivi in campo sanitario
e gli avvocati, già sottoposti al regime specifico dettato
dal loro ordine, tutte le altre di categorie di
professionisti saranno tenute, entro il prossimo 13 agosto,
a stipulare il contratto di assicurazione professionale a
pena di illecito disciplinare (articolo ItaliaOggi dell'08.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Edilizia,
torna la semplificazione.
Decreto del fare: reinserita in extremis la norma sulla
sagoma - Il pressing di Confindustria. GOVERNO BATTUTO/ Abolite le misure che consentivano a chi ha
fatto uno stage presso gli uffici giudiziari, di poter
accedere al concorso in magistratura. Via libera del Senato al decreto del fare con 190 sì, 67 no
e un astenuto. Oggi si torna alla Camera per la terza e
ultima lettura prima che il Parlamento chiuda i battenti dal
10 agosto al prossimo 6 settembre. L'approvazione del decreto e delle oltre 70 modifiche
apportate dalle Commissioni Affari costituzionali e Bilancio
di Palazzo Madama ha vissuto in Aula più di un momento di
frizione e contrasto tra la stessa maggioranza e Governo:
almeno due volte l'Esecutivo è stato battuto su due
emendamenti firmati Pdl-Lega e relativi alle regole di
accesso per il concorso in magistratura. In particolare sono
state abolite le misure che consentivano a chi ha fatto uno
stage presso gli uffici giudiziari, di poter accedere al
concorso in magistratura. Due voti contrari alla volontà
dell'Esecutivo che si vanno ad aggiungere a quello di
martedì sera sull'ordine del giorno della Lega per lo stop
alla tassa sui telefonini. Non solo. Il Governo, per mano dei due relatori Anna Maria
Bernini (Pdl) e Paolo Guerrieri Paleotti (Pd), ha poi
rivisto la norma sulle sagome degli edifici. Norma su cui in
commissione era stato battuto per mano di un emendamento Pd.
Per ripristinare la semplificazione in edilizia privata, che
consentirà con la sola Scia (segnalazione certificata di
inizio attività) di demolire e ricostruire modificando le
sagome degli edifici, è intervenuto in aula lo stesso
ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi. Con il
risultato che la maggioranza ha approvato la proposta
sottoscritta dai relatori e che prevede il ripristino della
norma licenziata da Montecitorio ma con alcuni vincoli per
gli interventi nei centri storici. Forte pressing di
Confindustria che ha lavorato per il ripristino delle norme
di semplificazione. La norma licenziata dal Senato impone ai Comuni di definire,
entro il 30.06.2014, nell'ambito delle zone omogenee A
(centri storici), le aree in cui non si può applicare la
Scia per interventi di demolizione o ricostruzione che
comportino modifiche della sagoma. Se i municipi non si
attiveranno, in mancanza di intervento sostitutivo della
Regione, la deliberazione sarà adottata da un Commissario
nominato dal ministro delle Infrastrutture. Per una semplificazione che torna, una complicazione che
scompare. L'Aula ha bocciato con oltre 200 voti il tanto
contestato Durt (Documento unitario di regolarità
tributaria) da presentare negli appalti. C'è poi da
registrare un «primo importante passo», come lo ha definito
il sottosegretario all'Economia Pier Paolo Baretta, sulla
disciplina dei compensi ai manager: il taglio del 25% agli
stipendi dei manager delle società pubbliche, al primo
rinnovo di contratto, per presidenti e amministratori
delegati delle società quotate e non quotate (si veda Il
Sole 24 Ore di ieri). Tra le modifiche approvate dal Senato l'estensione della
legge Sabatini: gli investimenti in hardware, in software e
in tecnologie digitali (oltre a macchinari, impianti, beni
strumentali d'impresa) saranno inseriti tra i beni per i
quali le Pmi potranno fruire del credito agevolato (2,5
miliardi anticipati dalla Cdp). Sempre per le Pmi torna la
riserva del 30% delle risorse per operazioni di
contro-garanzia dei Confidi. Inoltre addio al fax negli uffici pubblici, mentre per gli
automobilisti lo sconto del 30% sulle multe scatterà,
virtuosi e non, solo per chi paga entro 5 giorni. Confermata
la norma che sospende fino a metà settembre il pagamento dei
canoni per le spiagge, così come l'obbligo per gli enti
territoriali di devolvere il 10% dei ricavati delle
dismissioni di beni demaniali al Fondo riduzione del debito
(articolo Il
Sole 24 Ore dell'08.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Immobili.
Una nota del ministero dello Sviluppo economico sulle
modalità dell'attestazione di prestazione energetica
Doppio binario per l'attestato Ape.
Le vecchie regole nazionali valgono nelle regioni prive di
disciplina autonoma. LE ISTRUZIONI/
Prevalgono le norme «territoriali» quando sono rispettati i
parametri della direttiva 2010/2013.
Alla paralisi della contrattazione immobiliare provocata
dalla nuove norme in tema di attestazione energetica (si
veda «Il Sole 24 Ore» di ieri) tenta di porre rimedio il
ministero dello Sviluppo economico con la
nota 07.08.2013 n. 16416 di prot. (dipartimento per l'energia, struttura Dg-Enre).
Al fine di fare chiarezza, il ministero, in sostanza,
afferma che nulla sarebbe cambiato con l'entrata in vigore
della legge 90/2013 di conversione del decreto legge
63/2013, rispetto alla situazione preesistente; in
particolare, la nota asserisce che, fino all'emanazione dei
decreti attuativi previsti dal Dl 63/2013: nelle Regioni "non legiferanti", l'Ape andrebbe redatto con
le prescrizioni vigenti ante decreto legge 63/2013; nelle "Regioni legiferanti" l'attestazione energetica
dovrebbe essere compilata secondo la normativa regionale in
vigore. La nota prot. n. 16416 è l'esatta fotocopia (le espressioni
usate sono infatti identiche) della circolare n. 12976 del
25.06.2013, emanata dallo Sviluppo economico
all'indomani dell'entrata in vigore del Dl 63/2013. Il tema
è che mentre la circolare n. 12976 recava contenuti
senz'altro condivisibili, la nota n. 16416 propone la
medesima soluzione proposta all'indomani del Dl 63/2013
senza puntare l'attenzione sulla principale questione che è
posta dall'entrata in vigore della legge di conversione,
vale a dire il cambiamento di rotta che il legislatore ha
compiuto in merito al cosiddetto "principio di cedevolezza".
Questo principio è dettato dall'articolo 17 del Dlgs
192/2005, la legge fondamentale del nostro ordinamento in
tema di prestazione energetica degli edifici. Si tratta del
principio in base al quale, nelle materie (come quella
energetica) che la Costituzione indica come ambito di
"legislazione concorrente" (cioè dove la normativa
regionale, se emanata, prevale su quella nazionale), al
ricorrere di certi presupposti, la legge statale "cede"
rispetto alla legge regionale. In altri termini, la legge
statale si deve applicare fino al momento in cui si verifica
l'evento per effetto del quale essa "cede" il passo alla
legge regionale. Ebbene, secondo il Dl 63/2013, il principio di cedevolezza
recitava che (una volta, beninteso, emanata la occorrente
normativa regolamentare): la legge statale doveva applicarsi nelle Regioni e Province
autonome che non avessero ancora provveduto a emanare
proprie norme in recepimento della direttiva 2002/91/Ce; l'attestazione energetica diveniva invece di competenza
regionale ove la Regione o la Provincia autonoma avesse
recepito nella propria legislazione la direttiva 2002/91. Il fatto ora è invece che, secondo la legge di conversione,
ciò che determina la cedevolezza della legge statale
rispetto alla legislazione regionale o provinciale è che
quest'ultima abbia recepito non più la direttiva 2002/91/Ce,
bensì la direttiva 2010/31Ue. Questo recepimento è stato
bensì operato in alcuni casi (ad esempio, in Emilia
Romagna), ma in altri casi (come pare essere quello della
Lombardia) in effetti esiste una normativa regionale (che ha
finora disciplinato la materia dell'attestazione
energetica), ma è una normativa prodotta appunto in esito
alla direttiva 2002/91 e non alla direttiva 2010/13. Allora, se prevale il profilo che la normativa transitoria
del Dl 63/2010 si impone anche sul "nuovo" principio di
cedevolezza, ci si trova nella situazione indicata nella
nota n. 16416 e nella circolare n. 12976 dello Sviluppo
economico. Se invece il "nuovo" principio di cedevolezza
prevale verso qualsiasi altro ragionamento, si dovrebbe
concludere che, dal 04.08.2013: a) la legge statale dovrebbe cedere rispetto alla legge
regionale in quelle Regioni che abbiano attuato la direttiva
2010/13; quindi, in queste Regioni, non c'è nessun
cambiamento rispetto a quanto accadeva prima del 6 giugno
scorso o del 4 agosto scorso; b) la legge statale dovrebbe invece applicarsi sia nelle
Regioni che non abbiano emanato alcuna legislazione
sull'attestazione energetica (che sono la maggior parte) sia
nelle Regioni bensì legiferanti, ma non in attuazione della
direttiva 2010/13: cioè dal dal 4 agosto in avanti
bisognerebbe usare l'Ape confezionato così come vuole la
legge nazionale (articolo Il
Sole 24 Ore dell'08.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Demolizioni, basta la Scia se dopo c'è la ricostruzione.
La modifica al testo unico
dell'edilizia rende sufficiente la segnalazione certificata
di inizio attività.
Con le modifiche al Testo unico in
materia edilizia contenute all'art. 30 del decreto del Fare,
gli interventi di demolizione e ricostruzione che comportano
la modifica della sagoma dell'edificio preesistente (a
eccezione di quelli che hanno come oggetto immobili
vincolati in base al codice dei beni culturali) saranno
eseguibili presentando una Scia (Segnalazione certificata
d'inizio attività). L'operatore potrà, quindi, dare inizio
ai lavori il giorno dopo la presentazione della
segnalazione, salvo che l'immobile da demolire si trovi
all'interno delle parti storiche degli insediamenti urbani,
le zone omogenee A. In quest'ultimo caso, invece, si potrà
presentare una Scia, ma sarà necessario attendere 30 giorni
per avviare i lavori.
A riprova della non necessità e urgenza dell'intervento
normativo, il governo, nel medesimo decreto, prima ha
sospeso l'efficacia delle modifiche al dpr 380/2001 alla
data di conversione del decreto, quindi ha ulteriormente
rinviato l'efficacia della norma relativa all'applicabilità
della scia agli interventi di demolizione e ricostruzione
degli immobili siti all'interno delle parti storiche degli
insediamenti. È stata riconosciuta ai comuni, infatti, la facoltà (da
esercitare entro il 31.12.2013) di individuare le parti
delle zone A rispetto alle quali non sarà possibile
procedere, con la Scia, per realizzare interventi di
demolizione e ricostruzione che comportano la modifica della
sagoma dell'edificio preesistente. E, nello stesso tempo, è
stato stabilito che la norma in questione non trova,
comunque, applicazione per le zone omogenee A fino al
30.06.2014. Questa ennesima operazione di taglia e cuci del testo unico
è stata condotta senza aver compiuto alcuna valutazione
sull'effettivo impatto delle precedenti modifiche, che vanno
misurate in termini di titoli abilitativi richiesti, di
autorizzazioni rilasciate e di interventi eseguiti in base
alle norme che si sono stratificate nel corso dell'ultimo
quinquennio. Va, inoltre, anche osservato che le modifiche
contenute nel dl fare presentano almeno un problema
applicativo. La mancata coincidenza fra il termine entro il quale i
comuni possono restringere il campo di applicazione della
norma, e quello fino al quale la disposizione non sarà
efficace, sarà all'origine di problemi interpretativi e
contenziosi. Basti pensare all'eventualità nella quale i
comuni approveranno la delibera dopo il termine del 31
dicembre. In questo caso, non è sicuro se la restrizione del campo di
applicazione produrrà o no un effetto giuridico. Il
legislatore non ha chiarito la questione e dunque, se ne
dovranno occupare i tribunali amministrativi che saranno
chiamati a giudicare i contenziosi che si apriranno (articolo ItaliaOggi del 07.08.2013). |
APPALTI: Il Durt esce dal dl del fare.
Cancellata la norma che ne prevedeva l'acquisizione.
Lavori delle Commissioni bilancio e affari
costituzionali del Senato al decreto 69/2013. Il Durt (Documento unico di regolarità tributaria) esce dal
decreto del fare. Durante la seduta di ieri, infatti, le
Commissioni bilancio e affari costituzionali del Senato
hanno cancellato dal testo del dl 69/2013 la modifica che
era stata apportata alla camera alla norma relativa alla
responsabilità solidale negli appalti. La disposizione (art. 50) prevedeva l'esclusione della
responsabilità solidale dell'appaltatore, nei confronti del
subappaltatore, qualora acquisisse da quest'ultimo il Durt.
Conseguenza diretta di questa disposizione, il fatto che
l'appaltatore, fino all'acquisizione del Durt, poteva
sospendere il pagamento del corrispettivo. Si torna quindi
al testo originario del governo in tema di responsabilità
solidale fiscale negli appalti. La questione, però, non
sembra essere definitivamente archiviata. Le Commissioni
affari costituzionali e bilancio di palazzo Madama hanno,
infatti, approvato un ordine del giorno che prevede il
rinvio della questione alla delega fiscale (al momento
all'attenzione della Commissione finanze a Montecitorio).
Il Durt. La norma introdotta da Montecitorio prevedeva che
la responsabilità solidale dell'appaltatore, nei confronti
del subappaltatore, fosse esclusa nel caso in cui fosse
verificata la corretta esecuzione degli adempimenti
attraverso l'acquisizione del nuovo Documento unico di
regolarità tributaria relativa al subappaltatore. La norma
prevedeva, inoltre, che le imprese dovessero comunicare
periodicamente all'Agenzia delle entrate i dati contabili e
i documenti primari relativi alle retribuzioni erogate, ai
contributi versati e alle imposte dovute. Se da un lato
l'adempimento era facoltativo, per chi in realtà voleva
ottenere le certificazioni in tempo reale era, di fatto, un
obbligo. A dichiarare la propria parziale soddisfazione a
seguito dell'abolizione del Durt, Ivan Malavasi, presidente
di Rete imprese Italia. «Il Durt introduceva adempimenti
punitivi per le imprese, però la soluzione è incompleta.
Serve, infatti, anche l'abolizione definitiva della
responsabilità solidale negli appalti». Sulla stessa
lunghezza d'onda anche il vicepresidente della Commissione
finanze della camera, Enrico Zanetti: «Senza l'abrogazione
del regime di responsabilità solidale negli appalti, restano
in vigore adempimenti inutili che mettono a rischio la
filiera dei pagamenti». Stipendi. Le Commissioni fanno retromarcia anche sul tetto
ai compensi dei manager pubblici. La norma, introdotta alla
Camera, prevedeva un limite ai compensi sulla base di un
sistema differenziato per le società non quotate controllate
da società con titoli azionari quotati, rispetto a quelle
controllate da società emittenti altri strumenti finanziari.
Per le quotate a controllo pubblico, era prevista una
riduzione del 25% dei compensi, rispetto a quelli deliberati
per il precedente mandato. Era, inoltre, stabilito il
divieto di corrispondere agli amministratori con deleghe
bonus, di fine mandato. Si torna, quindi, a quanto previsto
dal decreto Salva Italia (201/2011), in base al quale, il
compenso degli amministratori dotati di particolari cariche
fissato dal cda delle società non quotate direttamente e
indirettamente controllate dalle pubbliche amministrazioni,
non può comunque essere superiore al trattamento economico
del primo presidente della Corte di cassazione (300 mila
euro). La modifica escludeva, invece, dal tetto il
trattamento economico degli amministratori dotati di
particolari cariche delle società quotate e a controllo
pubblico diretto o indiretto che svolgono servizi di
interesse generale anche di rilevanza economica (articolo ItaliaOggi del 06.08.2013). |
TRIBUTI: Tares, agevolazioni applicabili anche alla maggiorazione.
Non conta il fatto che per il 2013
il prelievo aggiuntivo venga incassato dallo stato. Le agevolazioni e le riduzioni tariffarie che i comuni
deliberano per la nuova tassa sui rifiuti si applicano anche
alla maggiorazione, nonostante per il 2013 sia destinata a
essere incassata dallo stato. I comuni, inoltre, possono
concedere esenzioni e riduzioni oltre quelle tipiche
previste dalla legge, ma in questo caso, come per la tassa,
anche per la maggiorazione serve la copertura finanziaria
assicurata da risorse diverse dai proventi del tributo di
competenza dell'esercizio. I comuni hanno il potere di concedere, con regolamento,
riduzioni tariffarie ed esenzioni per il nuovo tributo sui
rifiuti e i servizi. I benefici fiscali deliberati dal comune si applicano non
solo alla tassa, ma anche alla maggiorazione dovuta dai
contribuenti sui servizi indivisibili. Il consiglio comunale
può stabilire agevolazioni Tares, oltre quelle già previste
dalla legge, purché l'ente abbia le risorse economiche per
finanziarle. Del resto, se la copertura finanziaria serve per la tassa
sui rifiuti, che è un'entrata comunale, a maggior ragione è
necessaria per coprire il minor gettito della maggiorazione
standard, nella misura di 0,30 euro al metro quadrato, che
spetta allo stato. L'articolo 10 del dl «pagamenti p.a.» (35/2013), infatti, ha
stabilito che il gettito della maggiorazione standard è
riservato allo stato. Questa addizionale alla tassa rifiuti
è dovuta in misura pari a 0,30 euro per metro quadrato e non
è più consentito ai comuni di aumentarla fino a 0,10 euro,
come previsto prima dell'intervento normativo. Questa norma,
però, dispone la deroga rispetto alla disciplina Tares,
contenuta nell'articolo 14 del dl 201/2011, solo per quanto
concerne la destinazione del gettito della maggiorazione.
Invece, continuano ad applicarsi alla maggiorazione le
agevolazioni di cui ai commi da 15 a 20 dello stesso
articolo 14. Quindi, le riduzioni tariffarie per mancata
raccolta, mancato svolgimento del servizio o per i rifiuti
assimilati agli urbani. Nello specifico, i comuni hanno il potere di fissare
riduzioni tariffarie per particolari situazioni
espressamente individuate dalla legge. L'articolo 14 gli
riconosce la facoltà di stabilire riduzioni del tributo
dovuto in presenza di determinate situazioni in cui si
presume che vi sia una minore capacità di produzione di
rifiuti. A queste riduzioni viene fissato dalla norma un
tetto massimo: non possono superare il limite del 30%. Questo beneficio può essere concesso per: abitazioni con
unico occupante; abitazioni tenute a disposizione per uso
stagionale o altro uso limitato e discontinuo; locali e aree
scoperte adibiti a uso stagionale; abitazioni occupate da
soggetti che risiedono o hanno la dimora, per più di sei
mesi all'anno, all'estero; fabbricati rurali a uso
abitativo. Oltre a queste agevolazioni tariffarie, meramente
facoltative, sono contemplate riduzioni che spettano ai
contribuenti ex lege. Per esempio, per locali e aree situati nelle zone in cui non
è effettuata la raccolta, per le quali il tributo è dovuto
nella misura del 40% della tariffa. Questa misura massima
deve essere graduata tenendo conto della distanza dal più
vicino punto di raccolta rientrante nella zona perimetrata o
di fatto servita. La percentuale scende al 20% in caso di mancato o irregolare
svolgimento del servizio. La stessa misura si applica nel
caso di interruzione del servizio, dal quale possa derivare
un danno o un pericolo di danno alle persone o all'ambiente.
La riduzione obbligatoria della tariffa è inoltre disposta
per le utenze domestiche ed è finalizzata a incentivare la
raccolta differenziata. Per le utenze non domestiche,
invece, va applicato un coefficiente di riduzione
proporzionale alle quantità di rifiuti assimilati che il
produttore dimostri di aver avviato al recupero. Tuttavia,
al di là dei benefici elencati espressamente dalla norma, il
comune può deliberare ulteriori agevolazioni, come indicato
nella relazione governativa, «per ragioni meritevoli di
considerazione, anche non collegate alla capacità di
produzione dei rifiuti». Bisogna poi ricordare che nelle linee guida sul nuovo
tributo il ministero dell'economia ha affermato che le
riduzioni tariffarie, anche per le utenze domestiche, si
applicano sia sulla parte fissa che sulla parte variabile
della tariffa. Questa presa di posizione è discutibile, perché normalmente
il benefico fiscale dovrebbe essere limitato alla sola quota
variabile della tariffa. Inoltre, ha chiarito che per
attività stagionale si intende quella di durata non
superiore a 183 giorni nel corso dello stesso anno solare.
Mentre, per le utenze non domestiche la natura stagionale
dell'attività deve essere comprovata dalla licenza
rilasciata dagli organi competenti o deve risultare da
dichiarazione del titolare a pubbliche autorità. Le riduzioni tariffarie spettano dal momento in cui
sussistono le condizioni per poterne fruire, purché
denunciate al comune nei termini di presentazione della
dichiarazione iniziale o di variazione. A meno che per i
contribuenti residenti il comune non sia già a conoscenza
delle informazioni che li riguardano (per esempio,
l'occupante unico di un immobile) (articolo ItaliaOggi del 06.08.2013). |
APPALTI: Debiti p.a., Durc retrodatato. Per la regolarità conta il momento in cui è sorto il credito. Una nota dell'Inail illustra le caratteristiche del
documento richiesto dal dl 35/2013. Pronto il Durc per la liquidazione dei vecchi debiti delle
p.a.: la situazione di regolarità contributiva va
retrodatata al momento di accensione del credito.
Lo spiega
l'Inail in una nota del 31.07.2013, illustrando la nuova
versione del gestionale (versione 4.0.1.26
www.sportellounicoprevidenziale.it) dopo le novità del dl n.
35/2013 (sblocco pagamenti della p.a.), in vigore dall'8
giugno. Nei riguardi delle imprese che vantano crediti nei confronti
delle p.a., l'accertamento della regolarità finalizzata
all'emissione del Durc per la liquidazione degli stessi
crediti, va condotta prendendo a riferimento la situazione
aziendale esistente alla data dell'emissione della fattura
non pagata o altro equivalente documento di richiesta di
pagamento, senza considerare scoperture successive. È con
riferimento a tale data quindi che devono scattare anche
l'invito alla regolarizzazione e l'intervento sostitutivo da
parte della stazione appaltante in caso di inadempienze
contributive. Debiti p.a. La novità è una delle misure a favore dello
sblocco del pagamento dei debiti della p.a. Il dl n. 35/2013
infatti ne ha previsto un'accelerazione, disponendo una
procedura ad hoc che ha visto le p.a. comunicare ai
creditori, entro lo scorso 30 giugno, importo e data entro
cui procederanno a pagare i debiti maturati alla data del 31.12.2012. Le stesse informazioni, inoltre, le p.a.
hanno dovuto pubblicare entro il 5 luglio sui rispettivi
siti internet, insieme all'elenco completo dei debiti, per
ordine cronologico di emissione della fattura o della
richiesta equivalente di pagamento. Conta la data d'insorgenza del debito. Proprio la data di
emissione della fattura o dell'equivalente richiesta di
pagamento è il riferimento cardine per la regolarità
contributiva delle imprese. Che senza tale espediente si
sarebbero ritrovate nell'impasse totale di non poter
incassare il credito per irregolarità contributiva (perché
prive di un Durc). L'Inail precisa che, relativamente ai
debiti di enti locali, regioni e province autonome, enti di
servizio sanitario nazionale e amministrazioni dello stato
maturati al 31.12.2012, la regolarità contributiva
dell'impresa o dell'operatore economico va accertata alla
data dell'emissione della fattura o della equivalente
richiesta di pagamento. La regolarizzazione del Durc. Di conseguenza, aggiunge
l'Inail, in occasione di richieste di Durc da parte di
stazioni appaltanti e di amministrazioni procedenti per
pagamenti relativi a debiti della p.a., le sedi dell'Inail
dovranno invitare alla regolarizzazione il soggetto
inadempiente con riferimento ai debiti scaduti alla data di
emissione della fattura, che risultino ancora insoluti alla
data di verifica della regolarità. Allo stesso modo
l'intervento sostitutivo della stazione appaltante, in
occasione d'inadempienza contributiva da parte
dell'appaltatore e/o del subappaltatore riguarderà le
irregolarità accertate nel Durc sempre con riferimento alla
data di emissione della fattura. Il nuovo gestionale. Le novità spiega infine l'Inail sono
state tradotte nel gestionale
www.sportellounicoprevidenziale.it e nella relativa
modulistica. Le tipologie di richiesta per le quali è
possibile indicare la data della fattura sono indicate in
tabella. Infine, l'Inail accenna al fatto che la materia del Durc
è interessata da altre importanti disposizioni (tra cui
l'art. 31 del dl n. 69/2013, il dl Fare in corso di
conversione e il dm 13.03.2013) su cui, però, fa riserva di
successive comunicazioni (articolo ItaliaOggi del 06.08.2013). |
LAVORI PUBBLICI: Sindaci, neocommissari per la sicurezza delle scuole.
Avranno poteri sostitutivi.
prevenzione incendi, il ministero dell'interno ha tempo fino
al 2015.
Il ministero dell'interno avrà tempo fino al 31.12.2015 per dare attuazione alle norme di prevenzione degli
incendi per l'edilizia scolastica.
Il termine è previsto in
una bozza di decreto legge attesa al prossimo consiglio dei
ministri. Lo stesso decreto prevede anche una procedura
d'urgenza per la messa in sicurezza e la costruzione delle
scuole. Procedura che prevede l'attribuzione della qualifica
operativa di commissari governativi ai sindaci e ai
presidenti delle province. Norme antincendio Le vigenti disposizioni legislative e regolamentari in
materia di prevenzione incendi e per l'edilizia scolastica
saranno attuate entro il 31.12.2015. La normativa di
dettaglio sarà emanata con un decreto del ministro
dell'interno entro 6 mesi dall'entrata in vigore della legge
di conversione del decreto-legge. E dovrà tener conto delle
disposizioni sulla costituzione delle classi contenute negli
articoli 9, 10, 11 e 12 del decreto del presidente della
repubblica 20.03.2009, n. 81. Le prescrizioni saranno
definite e articolate con scadenze differenziate. Il rinvio
alle norme del decreto 81 lascia intendere che sarà rivisto
al rialzo il limite dei 26 alunni per classe ordinariamente
previsto dal decreto del ministero dell'interno 26.08.1992.
E probabilmente sarà rivisto al ribasso anche il
limite di 1,80 metri quadri netti per persona in ogni
classe, previsto per le scuole dell'infanzia, primarie e
medie. Lo spazio vitale minimo di 1,80 metri quadri per
persona è previsto nel decreto interministeriale 18 dicembre
1975, emanato dai ministeri dei lavori pubblici e della
pubblica istruzione. Va detto subito, peraltro, che
quest'ultimo decreto regola una materia che dovrebbe essere
regolata con leggi regionali (si veda la legge 23/96). Ma
siccome le regioni non hanno ancora provveduto, resta ancora
in vigore. Tanto si evince dal confronto con i parametri che
sono espressamente indicati nel decreto 81. Il provvedimento
dispone che le sezioni di scuola dell'infanzia devono essere
costituite, di norma, con un numero di bambini non inferiore
a 18 e non superiore a 26. Nella primaria il limite minimo è
di 15 alunni e quello massimo è di 27. E fin qui si rimane
grosso modo nel vecchio parametro dei 26 alunni. Per la
scuola secondaria di I grado, però, il limite massimo è di
28 e può arrivare anche a 30 in presenza di determinate
condizioni. Il provvedimento non fa riferimento ai parametri
della scuola secondaria. E dunque, salvo rettifiche e
integrazioni dell'ultima ora, il provvedimento dovrebbe
riguardare solo le scuole che rientrano nella competenza dei
comuni. Competenza enti locali La bozza di decreto–legge prevede inoltre che fino al
31.12.2014 i sindaci e i presidenti delle province
opereranno in qualità di commissari governativi. Il
commissariamento servirà ad attuare misure urgenti in
materia di riqualificazione e di messa in sicurezza delle
istituzioni scolastiche statali, e per garantire il regolare
svolgimento del servizio scolastico. La procedura d'urgenza
si applicherà solo per le attività inerenti alla costruzione
di nuovi edifici scolastici e alla messa in sicurezza,
ristrutturazione e manutenzione straordinaria di quelli
esistenti. Per consentire ai commissari di svolgere agevolmente
l'incarico, il presidente del consiglio dei ministri emanerà
un decreto da adottare su proposta del ministro
dell'istruzione, di concerto con il ministro dell'economia e
delle finanze. Il decreto sarà emanato entro 60 giorni
dall'entrata in vigore del decreto-legge, e recherà l'elenco
delle disposizioni di legge e regolamento alle quali i
commissari potranno derogare (articolo ItaliaOggi del 06.08.2013). |
APPALTI: Decreto del fare, cancellato il Durt
Via libera nella notte al tetto-stipendi per i manager:
taglio del 25% «a qualsiasi titolo» oltre quota 300mila SCONTRO SUGLI STIPENDI/ Prima passa la modifica
della maggioranza che ritornava al salva-Italia ma poi
l'Esecutivo chiede di ripristinare il taglio.
Il destino del decreto del Fare è stato intrecciato fino
all'ultimo al tetto di stipendio dei manager pubblici. Al
Senato si è ripetuto il copione che era andato in scena alla
Camera durante il primo via libera parlamentare. La
controprova si è avuta ieri. La scelta delle commissioni
Affari costituzionali e Bilancio di Palazzo Madama di
approvare a larga maggioranza un emendamento che
ripristinava la stretta originaria dal salva-Italia non è
piaciuta al Governo. Al punto da spingere la stessa
maggioranza a tornare sui suoi passi. E dopo un rapido
passaggio in commissione del capogruppo Pdl, Renato
Schifani, è stata riformulata la proposta governativa di
introdurre un taglio del 25% agli stipendi degli
amministratori delle Spa non quotate emittenti titoli.
L'emendamento è stato approvato a tarda notte dalle
commissioni Affari costituzionali e Bilancio e prevede il
taglio del 25% al compenso complessivo "a qualsiasi titolo
determinato" per tutti i manager pubblici che non rientrano
nel tetto dei circa 300mila euro del primo presidente della
Cassazione. Una maggiore concordia si è invece registrata
sull'abolizione del Durt. Tra le principali modifiche
apportate ieri al decreto spicca proprio la soppressione del
Documento unico di regolarità tributaria attraverso il via
libera a tre emendamenti presentati da Pdl, Pd e Scelta
Civica, che hanno assorbito le proposte analoghe di M5S e
Lega. Viene meno così l'aggravio per le imprese che era
stato introdotto a Montecitorio. Per la gioia delle aziende.
Soddisfatte per l'addio al Durt si sono dette sia Rete
imprese Italia che l'Ance. In commissione è passata poi un'altra ventina di modifiche.
A cominciare da quella della Lega sull'esonero dall'obbligo
di presentare il Durc in caso di lavori privati in edilizia
realizzati direttamente in economia dal proprietario
dell'immobile. E proseguendo con uno snellimento delle
verifiche sulle attrezzature aziendali. La prima delle
quali, per effetto di un emendamento a firma Giorgio Santini
(Pd), andrà effettuata entro 45 giorni dall'Inail,
altrimenti il datore di lavoro potrà ricorrere ad altri
soggetti pubblici o privati abilitati. Senza dimenticare
l'allargamento della cerchia dei certificati considerati
inutili: scompaiono l'obbligo di libretto sanitario per chi
produce o vende alimenti e l'attestato di idoneità fisica
per i titolari di un'impresa di revisione degli autoveicoli. Agli emendamenti di matrice parlamentare se n'è aggiunta
un'altra decina di stampo governativo (su cui si vedano le
schede qui accanto). Incluso uno sull'Expo 2015. La norma
licenziata in commissione, da un lato, riduce al 10% l'Iva
al 10% sui biglietti e, dall'altro, consente alle società in
house degli enti locali soci di Expo spa di assumere, fino a
fine 2015, personale a tempo determinato oltre i limiti.
Laddove sono state ritirate le modifiche sull'Authority dei
trasporti e sul rinvio dell'armonizzazione dei sistemi
contabili degli enti locali. Il nodo del tetto ai manager che ha avvolto il decreto per
gran parte della giornata. Al punto da fare slittare il suo
approdo in Aula prima dalle 17 alle 19.15 e poi -sembrava-
a stamattina. Quando -era stato ipotizzato ieri-
l'Esecutivo avrebbe potuto porre la fiducia con l'obiettivo
di incassare stesso oggi il via libera dell'assemblea e
spedire il Dl alla Camera per il terzo e definitivo ok
parlamentare prima della pausa estiva. Lo scontro sugli
stipendi degli amministratori delle Spa pubbliche si è
all'inizio tradotto nel via libera a larga maggioranza a un
emendamento che sopprimeva l'articolo 12-bis introdotto a
Montecitorio e che dunque faceva rivivere il tetto di
302mila euro per tutte le Spa (tranne le quotate). E
successivamente si è manifestato con un dietrofront in tarda
serata. Quando –dando seguito all'appello del ministro per
i rapporti con il Parlamento, Dario Franceschini, a
ripristinare il taglio del 25% dei compensi– è stato
inizialmente riformulato un precedente emendamento
governativo (articolo Il
Sole 24 Ore del 06.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Dalle ristrutturazioni ai mobili. Sconti a chi investe
nell'edilizia. Spinta al settore dal
dl Energia. Detrazione al 65% per interventi di
riqualificazione.
Detrazioni 65% per la riqualificazione energetica degli
edifici e adeguamento antisismico. Bonus 50% per le
ristrutturazioni, mobili ed elettrodomestici. Recepimento
della direttiva Edifici a energia quasi zero.
Queste le
novità più importanti contenute nella legge di conversione
(approvata definitivamente dal senato il 1° agosto scorso)
del dl n. 63/2013 recante «Disposizioni urgenti per il
recepimento della direttiva 2010/31/Ue del Parlamento
europeo e del Consiglio del 19.05.2010, sulla
prestazione energetica nell'edilizia per la definizione
delle procedure d'infrazione avviate dalla Commissione
europea, nonché altre disposizioni in materia di coesione
sociale», pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 181 del 3
agosto. Ma vediamo che cosa cambia. Prestazione energetica nell'edilizia. Per quanto riguarda la
prestazione energetica nell'edilizia, in particolare, una
delle novità principali è la sostituzione dell'attestato di
certificazione energetica (Ace) con quello di prestazione
energetica (Ape), che definisce le caratteristiche di un
edificio attraverso l'utilizzo di specifici descrittori e
fornisce raccomandazioni per il miglioramento
dell'efficienza. In proposito il Consiglio nazionale del
notariato ha pubblicato le prime note interpretative
relative all'allegazione dell'Ape (il documento è
scaricabile dal sito www.italiaoggi.it). Da segnalare poi la previsione di una riforma strutturale
nella metodologia di calcolo delle prestazioni energetiche
negli edifici le cui modalità di applicazione verranno
definite da successivi decreti del ministero dello sviluppo
economico. Disciplinati inoltre i termini per il
miglioramento delle prestazioni energetiche degli edifici a
energia quasi zero. Mentre è stata modificata la
progettazione delle costruzioni e delle ristrutturazioni
degli edifici tramite l'integrazione del contenuto dei
documenti progettuali e la previsione di una valutazione
preliminare della possibilità di inserimento di sistemi ad
alta efficienza (quali cogenerazione, teleriscaldamento,
pompe di calore e controllo attivo dei consumi). Ridefinite
inoltre le sanzioni in materia di certificazione energetica
degli edifici e, tra i requisiti per la qualifica
professionale degli installatori degli impianti a fonti
rinnovabili, è stata introdotta anche la prestazione
lavorativa esercitata alle dipendenze di un'impresa
abilitata. --------------- Premiata l'impresa antisismica. Innalzamento dal 50 al 65% del bonus fiscale per interventi
antisismici su abitazioni ed edifici destinati all'attività
produttiva. Estensione della detrazione del 50% introdotta
per l'acquisto di mobili e arredi anche ai grandi
elettrodomestici a basso consumo energetico. Impegno del
governo a stabilizzare gli ecoincentivi entro il 31.12.2013. Sono queste le principali novità inserite dal
legislatore nel dl 63/2013 (dl ecobonus), che ha superato
l'intero iter parlamentare per la conversione in legge. Il decreto, che recepisce la direttiva europea sulla
prestazione energetica degli edifici, proroga fino al 31.12.2013 la fruizione del bonus 50% per le
ristrutturazioni e rafforza le agevolazioni fiscali per la
riqualificazione energetica, elevando la misura della
detrazione dal 55 al 65% per le spese sostenute dal 06.06.2013 al 31.12.2013 (30.06.2014 per i condomini). Il bonus del 65% per gli interventi antisismici è riservato
agli edifici, purché abitazione principale e purché nelle
zone a massimo rischio sismico (zone 1 e 2 delle mappe 2003
della protezione civile). La detrazione del 65% è ammessa
anche per la messa in sicurezza antisismica degli edifici
per attività produttive (precedentemente erano del tutto
esclusi anche dal 36-50%). Per le abitazioni nelle zone 3 e
4 e per le abitazioni non principali restano le detrazioni
del 50%. Il bonus mobili diventa operativo, ma per fruire
dell'agevolazione i beni per l'arredo devono essere
acquistati dopo aver iniziato i lavori edili sul fabbricato.
Mancando nel decreto le indicazioni circa le modalità
operative, per arredi e i grandi elettrodomestici in classe
A (forni) e A+ (frigoriferi, lavastoviglie ecc.) occorre
fare riferimento alla circolare dell'Agenzia delle entrate
n. 21/2010. Misure antisismiche. Con la conversione in legge del dl
63/2013, per gli interventi relativi all'adozione di misure
antisismiche spetterà una detrazione dall'imposta lorda pari
al 65%, fino a un ammontare complessivo della spesa non
superiore a 96.000 euro per unità immobiliare. A tal fine,
le procedure autorizzatorie dovranno essere attivate dopo
l'entrata in vigore della legge, su edifici ricadenti nelle
zone sismiche ad alta pericolosità (zone 1 e 2) di cui
all'ordinanza del presidente consiglio dei ministri n. 3274
del 20.03.2003. Rientrano nella tipologia di immobili
agevolabili, fino al 31.12.2013, le costruzioni
adibite non solo ad abitazione principale (che aveva già il
50%), ma anche ad attività produttive (che invece erano
escluse dal 36-50%) e, in entrambi i casi, solo gli edifici
situati nelle zone sismiche ad alta pericolosità (zone 1 e 2
della classificazione della protezione civile). Le
detrazioni del 65% delle spese per l'adeguamento preventivo
saranno spalmate in dieci anni, così come avviene per le
detrazioni per il recupero edilizio e l'efficienza
energetica. Bonus mobili. Il testo finale del dl 63/2013 conferma la
detrazione del 50% valida per l'acquisto di mobili e grandi
elettrodomestici di classe minima A+ oppure A per i forni,
destinati all'arredo dell'immobile oggetto di
ristrutturazione. La detrazione è calcolata su un ammontare
complessivo non superiore a 10 mila euro e va ripartita tra
gli aventi diritto in dieci quote annuali di pari importo. Per l'applicazione della detrazione occorre fare ricorso
alle indicazioni di cui alla circolare dell'Agenzia delle
entrate n. 21/2010, in cui viene chiarito che i lavori
edilizi sul fabbricato devono iniziare prima dell'acquisto
dei mobili. Pertanto la data di inizio lavori deve essere
anteriore all'acquisto dell'arredo e degli elettrodomestici.
Non risulta invece necessario che le spese di
ristrutturazione siano pagate prima di quelle per l'arredo
dell'abitazione. Occorre pertanto stabilire la data di
decorrenza dei lavori, attraverso la sottoscrizione e
conservazione di una dichiarazione sostitutiva dell'atto di
notorietà. Nel documento deve essere indicata la data di
inizio dei lavori e attestata la circostanza che gli
interventi di ristrutturazione edilizia posti in essere
rientrano tra quelli agevolabili pur se i medesimi non
necessitano di alcun titolo abilitativi ai sensi della
normativa edilizia vigente (provvedimento 02/11/2011 n.
149646 punto 1). Sarebbe invece utile un chiarimento dagli
organi preposti circa l'individuazione della data
dell'acquisto. Si tratta di stabilire se a tal fine occorre
riferimento alla consegna o al suo pagamento tramite
bonifico. Per fruire del bonus, si ricordano le istruzioni già
comunicate dall'Agenzia delle entrate. Ovvero, il pagamento
deve essere effettuato tramite bonifico bancario o postale,
con le stesse modalità già previste per la ristrutturazione
edilizia, indicando causale del versamento attualmente
utilizzata dalle banche e da Poste italiane per i bonifici
relativi ai lavori di ristrutturazione fiscalmente
agevolati, codice fiscale dell'acquirente, partita Iva o
codice fiscale dell'intestatario del bonifico.
Edifici vincolati. In seguito all'introduzione di un
emendamento approvato dalla camera, è stato precisato che
saranno le amministrazioni titolari delle autorizzazioni
relative al vincolo a chiarire se «il rispetto della
prescrizione imposta implichi un'alterazione sostanziale del
carattere o aspetto» dell'edificio «con particolare
riferimento ai profili storici, artistici e paesaggistici».
Attestazione. Novità anche per quanto riguarda le modalità
di rilascio dell'attestazione della prestazioni energetica
per lo specifico caso di un'unica attestazione per più unità
immobiliari facenti parte dello stesso edificio. Ora il
rilascio unico sarà più difficile. Era previsto infatti che
questa attestazione unica si potesse concedere solo nel caso
di una «medesima destinazione d'uso» delle diverse unità
immobiliari. Ora le unità immobiliari dovranno avere anche
«la medesima situazione al contorno, il medesimo
orientamento e la medesima geometria» Impegni governativi.
Nel corso dell'iter parlamentare, il governo ha fornito il
proprio consenso affinché vengano definiti entro il
31.12.2013 misure e incentivi selettivi di carattere
strutturale, finalizzati a favorire la realizzazione di
interventi per il miglioramento e la messa in sicurezza
degli edifici esistenti, oltre che per l'incremento del
rendimento energetico degli stessi. Il testo prevede inoltre
che il governo si impegni a comprendere tra le attività
incentivate anche l'installazione di impianti di depurazione
delle acque da contaminazione di arsenico anche di tipo
domestico, produttivo e agricolo. L'agenda del governo
prevede inoltre che entro il 2014 vengano introdotti sgravi
fiscali per azioni di rimozione dell'amianto negli edifici (articolo ItaliaOggi
Sette del 05.08.2013). |
CONDOMINIO:
Piscine, paga l'amministratore. In caso di danni la
responsabilità è del condominio. Gli
adempimenti per una corretta gestione delle strutture che
fanno parte degli immobili. Piscine in sicurezza sotto la responsabilità
dell'amministratore condominiale. Nel periodo estivo
funzionano a pieno regime gli impianti artificiali di acqua
per la balneazione installati non solo presso i condomini e
i supercondomini, ma anche ad esempio negli immobili in
multiproprietà (che la legge di riforma del condominio ha
espressamente sottoposto all'applicazione degli articoli
1117 e seguenti del codice civile). Tuttavia la corretta
gestione di queste strutture, per i tanti pericoli insiti
nel loro utilizzo, necessita di tutta una serie di
adempimenti preliminari espressamente previsti dalla
normativa nazionale e regionale. In caso contrario il
condominio, in quanto custode dell'impianto, in persona del
suo amministratore, potrà essere chiamato a rispondere dei
danni causati agli utenti. La disciplina giuridica delle piscine. Anche le piscine
condominiali sono considerate impianti a uso pubblico, come
tali sottoposte alla disciplina nazionale (accordo
stato-regioni del 16 gennaio 2003) e alle specifiche
normative regionali. In generale sono quindi regolati i
requisiti igienico-sanitari degli impianti, con particolare
riferimento alla qualità dell'acqua, nonché di illuminazione
dello stesso e delle aree adiacenti. L'accordo stato-regioni
prevede inoltre che sia individuato il soggetto responsabile
dell'igiene e della sicurezza dell'impianto (il c.d.
bagnino), abilitato alle operazioni di salvataggio e di
primo soccorso, la cui assistenza deve essere assicurata
agli utenti durante l'intero orario di funzionamento della
piscina. È poi necessario redigere anche uno specifico
documento di valutazione dei rischi. La piscina quale bene comune. Gli impianti siti nelle aree
condominiali sono generalmente beni comuni. Ogni condomino è
naturalmente legittimato a utilizzare la piscina e a farla
usare ai propri parenti e amici, ovviamente nel rispetto del
regolamento condominiale, a tutela del diritto di pari uso
degli altri comproprietari. Da quanto sopra consegue che,
normalmente, nessun condomino potrà sottrarsi alle spese di
gestione dell'impianto, anche nel caso di non utilizzo dello
stesso. Dette spese si distinguono solitamente in una parte
fissa, relativa alla manutenzione dell'impianto, e in una
parte variabile, relativa all'utilizzo del bene (si pensi,
ad esempio, alle spese stagionali del bagnino). In relazione
a queste ultime il regolamento condominiale potrebbe però
anche addossarle di fatto ai soli frequentatori della
piscina, ad esempio prevedendo una sorta di biglietto di
ingresso. La responsabilità dell'amministratore condominiale.
Poiché, come detto, la piscina costituisce solitamente un
bene comune, la relativa gestione spetta all'amministratore
condominiale, sulla base delle richiamate norme di legge e
delle particolari disposizioni regolamentari o assembleari
indicate dal condominio. Tra l'altro, trattandosi di
impianti dai quali possono verificarsi danni a terzi, la
gestione delle piscine rientra sicuramente tra le attività
definite pericolose dall'art. 2050 c.c., con la conseguenza
che in caso di incidente spetterà all'amministratore
condominiale provare di avere adottato tutte le necessarie
misure di sicurezza idonee a evitare il danno. In questo caso il condominio, in quanto custode del bene ai
sensi dell'art. 2051 c.c., risponde nei confronti dei terzi
solo che sia provato il nesso causale tra l'impianto e
l'evento dannoso, salvo che la condotta del danneggiato sia
stata causa esclusiva del pregiudizio lamentato. Tra l'altro
la responsabilità dell'amministratore, quale legale
rappresentate del condominio, sussiste anche nel caso in cui
sia stato nominato il soggetto responsabile dell'igiene e
della sicurezza dell'impianto, poiché lo stesso rimane
obbligato a vigilare sull'operato del proprio dipendente o
collaboratore (art. 2049 c.c.), rispondendo nei confronti
dei terzi dei danni che siano conseguenza degli
inadempimenti contrattuali posti in essere da questi ultimi
(articolo ItaliaOggi
Sette del 05.08.2013). |
INCARICHI PROGETTUALI: LA
RESPONSABILITÀ/
La check list per scegliere. Professionisti, corsa alla polizza.
Per gli iscritti agli Ordini il 15 agosto diventa operativo
l'obbligo di assicurarsi.
È partito il conto alla rovescia per i professionisti alla
ricerca della polizza migliore. Diventa infatti operativo
fra dieci giorni, il 15 agosto, l'obbligo per gli iscritti
agli Albi di assicurarsi contro i danni provocati ai clienti
nell'esercizio dell'attività professionale. E se il mercato delle assicurazioni mette a disposizione una
serie di prodotti mirati, per ogni professionista può essere
complesso orientarsi tra garanzie, massimali e prezzi per
individuare la polizza più adatta alle proprie esigenze. Il
grafico a fianco riassume gli elementi fondamentali da
tenere in considerazione per scegliere. I professionisti coinvolti Previsto dal decreto legge 138 del 2011 e atteso al debutto
nell'agosto dello scorso anno, l'obbligo di sottoscrivere
una polizza professionale è già stato dilazionato di un anno
dal Dpr di riforma delle professioni (137 del 2012). E un
nuovo rinvio, di un altro anno, sta per essere varato a
favore dei professionisti della sanità: è stato inserito
dalla Camera nel decreto del fare (69 del 2013), ora
all'esame del Senato per la conversione in legge. Una
proroga motivata dall'esigenza di attendere il regolamento,
previsto dal Dl 158/2012, incaricato di disciplinare in modo
organico proprio le polizze per i sanitari. Saltano l'appuntamento di Ferragosto anche gli avvocati, che
si muovono lungo la corsia tracciata dalla riforma forense
(legge 247 del 2012): che prevede l'obbligo di stipulare le
polizze professionali ma in base alle condizioni che il
ministero della Giustizia deve ancora stabilire. Medici e avvocati a parte, a doversi assicurare entro il 15
agosto è tutto l'universo dei professionisti iscritti agli
Ordini: dai commercialisti ai consulenti del lavoro, dagli
ingegneri e gli architetti ai periti industriali e ai
biologi. Si tratta di un obbligo introdotto a tutela dei
clienti, che, al momento dell'incarico, devono essere
informati sugli estremi delle polizze e i massimali. Resta invece solo una possibilità la copertura assicurativa
per tutti i professionisti non iscritti agli Albi, dai
tributaristi ai consulenti. L'offerta del mercato Le compagnie di assicurazione hanno lanciato polizze ad hoc
per alcune categorie, come commercialisti e ingegneri.
Mentre per gli altri professionisti, per i quali non sono
stati studiati prodotti mirati, resta la possibilità di
affidarsi a strumenti generici modulati sulle loro esigenze.
In questo quadro si innestano le convenzioni che molti
Ordini hanno stipulato con le assicurazioni per offrire una
polizza ai loro iscritti: in genere molto convenienti,
offrono una copertura di base, che però non sempre può
essere sufficiente per i professionisti impegnati su molti
fronti. A censire l'offerta del mercato è l'indagine condotta nei
mesi scorsi dal progetto Iridia, sostenuto dalle
associazioni dei broker (Aiba) e degli agenti (Uea). In
particolare, i ricercatori hanno analizzato 22 prodotti, nel
carnet di dieci compagnie. E in primo luogo hanno distinto
tra le polizze offerte dalle compagnie nazionali e
anglosassoni, a cui corrisponde un diverso disegno delle
coperture. Infatti, i prodotti di matrice anglosassone sono
"all inclusive", a massimale unico e con garanzie poco
modulabili. Le polizze italiane sono invece più analitiche e
complesse: il massimale è sempre affiancato da limiti
specifici e le garanzie possono essere strutturate per
tenere conto delle diverse attività del singolo
professionista. Si tratta di due modelli che presentano pro
e contro, secondo l'indagine: ogni professionista deve
valutare in base alle sue esigenze quale sia il migliore per
sé. Il peso del prezzo Tra gli elementi da valutare per scegliere la polizza giusta
c'è naturalmente anche il prezzo. Che però non può essere
l'unico criterio, come spesso invece accade. Dall'indagine
emerge infatti che di rado le differenze di prezzo
corrispondono a differenti ampiezze delle coperture.
Piuttosto che ai contenuti, infatti, i prezzi sono correlati
alle politiche delle imprese e al target di riferimento.
Spazio, quindi, alla comparazione tra i prodotti, da
valutare, poi, anche alla luce dei costi (articolo Il
Sole 24 Ore del 05.08.2013). |
ENI
LOCALI: Ddl
«Delrio». Riforma degli ordinamenti.
Unioni di Comuni sempre escluse dal Patto di stabilità. Le Unioni di Comuni diventano lo strumento privilegiato per
la gestione associata delle funzioni comunali, sono
suddivise in tre tipologie e viene rafforzato il ruolo dei
sindaci al loro interno. Sono inoltre previsti incentivi per
Unioni e fusioni. Nessun tipo di Unione è assoggettato al
Patto di stabilità. Possono essere così riassunte le principali scelte in
materia di Unioni nel Ddl Delrio di riforma dell'ordinamento
locale. Le finalità del progetto -come si legge nella
relazione illustrativa- sono quelle di «irrobustire
l'associazionismo comunale, di avere Unioni con Presidenti
forti» e di giungere al «riordino della caotica situazione
oggi esistente rispetto agli innumerevoli diversi ambiti
intermedi di gestione di funzioni statali e spesso anche
regionali». A tal fine viene anche rilanciato l'istituto
delle Unioni speciali tra i piccoli Comuni che tanto era
stato criticato, anche da parte dell'Anci: si prevede
infatti che esso possa essere scelto come strumento per la
gestione associata da parte dei Comuni fino a 5mila abitanti
e non più solo fino a mille. Le Unioni vengono distinte in tre tipologie: quelle
ordinarie, quelle costituite tra i comuni con meno di 5mila
abitanti (3mila per i centri che fanno o hanno fatto parte
di comunità montane) e quelle «speciali». La seconda e la
terza tipologia di unioni differiscono fra loro perché una è
limitata alla gestione delle funzioni fondamentali, l'altra
si estende a tutte le attività. Al primo tipo di Unioni si
applica l'articolo 32 del Tuel, salve le nuove disposizioni
sugli organi e sull'autonomia statutaria. Alle altre due
tipologie si applicano anche le regole dettate dall'articolo
16 del Dl 138/2011. Il legislatore esprime una chiara preferenza per la gestione
associata tramite le Unioni, preferenza che si trasforma nel
divieto di dare vita a convenzioni per la gestione associata
delle funzioni fondamentali decorsi cinque anni dalla data
di entrata in vigore della legge. Gli organi di tutte le unioni diventano tre: il Presidente,
il Comitato dei sindaci e il Consiglio. Il primo è eletto,
dal Consiglio, anche con ballottaggio, tra i sindaci dei
Comuni aderenti all'unione. Il Comitato dei sindaci, che
nelle Unioni con più di 30 Comuni può prevedere un comitato
ristretto e l'articolazione in sottocomitati, svolge i
compiti di collaborazione con il Presidente, che ha i poteri
di rappresentanza e di sovrintendenza all'esercizio delle
funzioni. In altri termini la sua figura è modellata su
quella del sindaco. Il Consiglio svolge i compiti di
indirizzo e di adozione degli atti fondamentali. Esso è
composto dai sindaci e da due consiglieri per ogni Comune,
di cui uno in rappresentanza della minoranza. I consiglieri
dei Comuni e i sindaci hanno un peso ponderato in relazione
alla dimensione demografica dell'ente che rappresentano. Si
riconferma l'autonomia statutaria e regolamentare delle
Unioni, con l'assegnazione della competenza alla loro
adozione da parte del Consiglio della Unione. Da rilevare
che scompare il voto dei singoli consigli comunali sullo
Statuto dell'Unione: si affrancano così le Unioni dal
vincolo del consenso di tutti i comuni alle scelte di
maggiore rilievo. Le Unioni, comprese quelle per la gestione associata
dell'insieme di attività dei comuni, sono esclude dal Patto.
Sono previsti incentivi statali per le unioni e le fusioni;
nel caso di fusioni, i Comuni preesistenti possono diventare
municipi e mantenere, fino all'ultimo anno del primo mandato
amministrativo del nuovo Comune, tributi e tariffe
differenziate (articolo Il
Sole 24 Ore del 05.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Planimetrie gratis, il Territorio resiste.
Nonostante la nota di Palazzo Chigi. Le vecchie abitudini sono dure a morire, anche per l'agenzia
del Territorio, incorporata dal 01.12.2012
nell'agenzia delle Entrate. Alcuni Comuni hanno chiesto all'Agenzia il rimborso delle
somme pagate per la fornitura in formato digitale delle
planimetrie «raster», acquisite per controlli Tares, ma la
risposta è stata negativa. La richiesta di rimborso è
motivata sulla base del parere n. 37/2013 reso dalla Corte dei
conti, sezione regionale di controllo dell'Emilia Romagna,
che ha stabilito la gratuità delle planimetrie. Le regole
per l'utilizzo dei dati catastali sono definite dal decreto
del direttore del Territorio del 13.11.2007, nel quale
si precisa che sono a carico della Pubblica amministrazione
richiedente solo «eventuali costi eccezionali» sostenuti
dall'Agenzia per realizzare ed erogare servizi specifici
connessi a particolari esigenze, mentre la pretesa di circa
0,20 euro a planimetria avanzata dall'Agenzia non rispondeva
a questi criteri. Sul tema della gratuità dell'accesso alla banche dati è
intervenuta di recente anche la Presidenza del Consiglio dei
Ministri (si veda Il Sole 24 Ore del 13.07.2013), la
quale ha rammentato che la sussistenza del diritto
all'acquisizione, senza oneri, era già esercitabile dal 09.12.2000, in virtù dell'articolo 25 della legge
340/2000, e successivamente ribadito dall'articolo 43 del Dpr 445/2000 e dal combinato disposto degli articoli 50 e 58
del Codice dell'amministrazione digitale (Dlgs 82/2005). L'Agenzia, nel rigettare la richiesta di rimborso del
Comune, ha evidenziato che l'obbligo di fornitura dei dati
ai fini del controllo delle superfici assoggettabili a Tares
è stato adempiuto dal provvedimento 29.03.2013 del
direttore dell'Agenzia, che in attuazione dell'articolo 14,
comma 9 del Dl 201/2011 ha messo a disposizione dei Comuni,
sulla piattaforma informatica «Portale per Comuni», le
superfici catastali dei fabbricati a destinazione ordinaria. In realtà non si considera che oggi la superficie da
assoggettare a Tares non è data dall'80% della superficie
catastale -che potrà essere utilizzata solo a seguito
dell'allineamento dei dati catastali con i dati riguardanti
la toponomastica e la numerazione civica (articolo 13, comma
9-bis, Dl 201/2011)- ma dalla superficie calpestabile, per
cui le planimetrie sono ancora necessarie per i controlli
comunali. La disponibilità delle planimetrie non rileva solo ai fini
della Tares, ma anche ai fini Imu; basti pensare alla
possibilità di individuare eventuali pertinenze accatastate
con l'abitazione. Infine, nella risposta dell'Agenzia si effettua un distinguo
tra forniture massive, che sarebbero soggette al pagamento,
e forniture collegate ad accertamenti sui singoli
contribuenti, per i quali il rilascio delle planimetrie
avverrebbe in totale esenzione di spese e diritti. Anche qui
non si considera che le procedure di controllo possono
essere massive, e non per singolo contribuente, e che la
normativa (articolo 14, comma 37, Dl 201/2011) non effettua
alcun distinguo, ai fini della gratuità delle forniture, tra
controlli singoli o massivi (articolo Il
Sole 24 Ore del 05.08.2013). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO: Privacy. Pubblica amministrazione.
Non si pubblicizza la malattia del dipendente. RISERVATEZZA/
Il sindaco non può riportare all'Albo pretorio i dati
sensibili di un'impiegata anche se c'è un contenzioso.
La pubblica amministrazione non può divulgare lo stato di
malattia dei propri dipendenti, mentre è tenuta a mantenere
sul proprio sito i dati identificativi del personale anche
nel caso in cui tra le parti sia aperto un contenzioso
davanti al giudice. La I Sez. civile della Corte di Cassazione con la
sentenza
08.08.2013 n. 18980 ha accolto il ricorso dell'impiegata di un
comune bolognese che aveva visto affissi i sui «dati
sensibili» all'albo pretorio, con l'aggiunta di informazioni
sul processo in corso e, contemporaneamente, si era vista
scomparire dall'organigramma pubblicato sul sito municipale. Nell'interpretare le regole del Codice della privacy (Dlgs
196/2003), tra l'altro, la Corte sottolinea che anche le
novità introdotte dal Dlgs 33/2013 («Riordino della
disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità,
trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle
pubbliche amministrazioni») non cambiano gli obblighi del
datore di lavoro pubblico sul tema dei motivi che causano
l'astensione dal lavoro. La questione era nata dal rifiuto del tribunale di Bologna
di dichiarare illecito il trattamento dei dati
dell'impiegata operato dal comune, e pertanto di statuire la
cancellazione del suo "profilo personale" dall'albo
pretorio. A giudizio dei magistrati emiliani, in sostanza,
erano stati rispettati i principi di pertinenza e di
necessità e comunque non erano stati diffusi dati
riguardanti lo stato di salute della ricorrente «essendo
generica la dizione "assenza per malattia"» né dati
giudiziari, per aver genericamente indicato un processo in
corso «per mobbing». Sul tema però nel tempo il Garante aveva più volte espresso
una posizione chiara, specificando che «l'indicazione del
dato relativo all'assenza per "convalescenza" dà luogo ad un
trattamento di dati sensibili, dal momento che tale
informazione, pur non facendo riferimento a specifiche
patologie, è comunque suscettibile di "rivelare lo stato di
salute" dell'interessato». Anche le linee guida in materia
di trattamento dei dati personali di lavoratori per finalità
di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico
avevano ribadito che, tra i dati idonei a rivelare lo stato
di salute, può rientrare anche una informativa relativa
all'assenza dal servizio per malattia, anche se non sia
contestualmente indicata la diagnosi. Quanto invece all'oscuramento dal sito dei dati
dell'impiegata, «va apprezzata quale violazione del
principio di completezza dei dati personali trattati
dall'amministrazione» (articolo Il
Sole 24 Ore del
09.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittimo il diniego di una variante urbanistica col
SUAP adducendo motivazioni di carattere ambientale senza
tenere in considerazione della conclusione positiva sia
della VAS che della conferenza di servizi e, non da ultimo,
delle aspettative sorte in capo agli istanti e delle
particolari situazioni di affidamento.
L’art. 5 del D.P.R. 20.10.1998 n. 447
prevede una procedura semplificata per la variazione di
strumenti urbanistici preordinati all’autorizzazione di
insediamenti produttivi contrastanti con il vigente
strumento urbanistico, allorché il progetto sia conforme
alle norme in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza
sul lavoro e lo strumento urbanistico non individui aree
destinate all’insediamento di impianti produttivi ovvero
questi siano insufficienti rispetto al progetto presentato. Il procedimento si conclude con una conferenza di servizi la
cui determinazione costituisce proposta di variante
urbanistica sulla quale, tenuto conto delle osservazioni,
proposte ed opposizioni formulate, il Consiglio comunale si
pronuncia entro sessanta giorni. La proposta di variazione dello strumento urbanistico
assunta dalla Conferenza di servizi, da considerare alla
stregua di un atto di impulso del procedimento volto alla
variazione urbanistica, non è vincolante per il Consiglio
comunale che conserva le proprie attribuzioni e valuta
autonomamente se aderirvi. Sicché, la speciale procedura semplificata di cui al cennato
art. 5 DPR n. 447/1998 non comporta abdicazione della
istituzionale potestà pianificatoria del Comune, tale da
rendere la proposta della Conferenza di servizi come
obbligatoria, ma lascia integra la possibilità per l’Ente
territoriale di discostarsene, sulla base di valutazioni
urbanistiche. Tuttavia, quando la stessa amministrazione comunale abbia,
con una serie univoca di atti, considerato procedibile il
ricorso allo strumento dell’approvazione della variante per
l’insediamento di impianti produttivi ex art. 5 DPR n.
447/1998 –che ha lo scopo di semplificare l’acquisizione dei
pareri tecnici dei soggetti preposti alla tutela dei diversi
interessi coinvolti– e, nel corso del procedimento, siano
stati espressi i favorevoli pareri culminati nella proposta
di tutte le autorità pubbliche e dei soggetti interessati,
compreso lo stesso Comune, riuniti in conferenza di servizi,
vadano valutate attentamente, e con particolare pregnanza
sul versante motivazionale, le scelte del Comune,
richiedendosi, nell’ambito delle valutazioni urbanistiche,
anche una ponderazione degli opposti interessi, in
considerazione delle aspettative sorte in capo agli istanti
e delle particolari situazioni di affidamento. --------------- Si ritiene che gli argomenti portati dall’Amministrazione
comunale a sostegno del diniego non integrino quella
puntuale motivazione richiesta in un caso in cui la
completezza dei pareri favorevoli acquisiti sotto i plurimi
aspetti richiesti dalla normativa (ambientale, sanitario, di
sicurezza sul lavoro) e la condotta tenuta dallo stesso
Comune in tutte le fasi antecedenti quella della
determinazione finale, anche sotto il profilo della
compatibilità dell’intervento con le scelte urbanistiche,
hanno ingenerato un legittimo affidamento in capo
all’interessato. Nel merito, l’appello del Comune è da respingere. L’art. 5 del D.P.R. 20.10.1998 n. 447 prevede una
procedura semplificata per la variazione di strumenti
urbanistici preordinati all’autorizzazione di insediamenti
produttivi contrastanti con il vigente strumento
urbanistico, allorché il progetto sia conforme alle norme in
materia ambientale, sanitaria e di sicurezza sul lavoro e lo
strumento urbanistico non individui aree destinate
all’insediamento di impianti produttivi ovvero questi siano
insufficienti rispetto al progetto presentato. Il procedimento si conclude con una conferenza di servizi la
cui determinazione costituisce proposta di variante
urbanistica sulla quale, tenuto conto delle osservazioni,
proposte ed opposizioni formulate, il Consiglio comunale si
pronuncia entro sessanta giorni. La proposta di variazione dello strumento urbanistico
assunta dalla Conferenza di servizi, da considerare alla
stregua di un atto di impulso del procedimento volto alla
variazione urbanistica, non è vincolante per il Consiglio
comunale che conserva le proprie attribuzioni e valuta
autonomamente se aderirvi. Si conviene, quindi, con il Comune sul fatto che la speciale
procedura semplificata di cui al cennato art. 5 DPR n.
447/1998 non comporta abdicazione della istituzionale
potestà pianificatoria del Comune, tale da rendere la
proposta della Conferenza di servizi come obbligatoria, ma
lascia integra la possibilità per l’Ente territoriale di
discostarsene, sulla base di valutazioni urbanistiche (Cons.
St. Sez. IV, n. 2170/2012; n. 4498/2012; n. 5471/2007). Occorre, tuttavia, osservare che, quando la stessa
amministrazione comunale abbia, con una serie univoca di
atti, considerato procedibile il ricorso allo strumento
dell’approvazione della variante per l’insediamento di
impianti produttivi ex art. 5 DPR n. 447/1998 –che ha lo
scopo di semplificare l’acquisizione dei pareri tecnici dei
soggetti preposti alla tutela dei diversi interessi
coinvolti– e, nel corso del procedimento, siano stati
espressi i favorevoli pareri culminati nella proposta di
tutte le autorità pubbliche e dei soggetti interessati,
compreso lo stesso Comune, riuniti in conferenza di servizi,
vadano valutate attentamente, e con particolare pregnanza
sul versante motivazionale, le scelte del Comune,
richiedendosi, nell’ambito delle valutazioni urbanistiche,
anche una ponderazione degli opposti interessi, in
considerazione delle aspettative sorte in capo agli istanti
e delle particolari situazioni di affidamento (cfr. sulla
necessità di motivazione in materia di varianti agli
strumenti urbanistici incidenti su situazioni di
affidamento, Cons. St. Sez. IV, 26.10.2012, n. 5492;
13.10.2010, n. 7478). Sotto questo profilo, non vi è dubbio che lo spiegarsi del
procedimento, iniziato sull’istanza della Donadi di
spostamento del proprio impianto colpito dalla procedura
espropriativa per effetto della realizzazione
dell’Autostrada Pedemontana, abbia mostrato ampie aperture
del Comune, sia nella fase iniziale, dove la deliberazione
di procedibilità dell’istanza è stata accompagnata da un
parere favorevole dell’Ufficio tecnico non solo circa la
sussistenza dei presupposti per l’avvio del procedimento
semplificato ex art. 5 DPR n. 447/1998, ma anche
sull’opportunità della conservazione dell’impianto
produttivo per i vantaggi all’occupazione ed allo sviluppo
industriale dell’area, sia dopo l’acquisizione della
favorevole valutazione ambientale strategica, all’esito
della quale è stato richiesto dal Comune ed ottenuto
dall’impresa il versamento di un congruo anticipo sugli
oneri di urbanizzazione. Né vale la considerazione per cui, essendo il Consiglio
Comunale l’unico organo competente a deliberare in ordine
alla variante, gli atti compiuti ed i comportamenti tenuti
da organi diversi, in vista della finale determinazione, non
avrebbero potuto avere l’effetto di ingenerare alcun
affidamento. Occorre invero distinguere tra l'operatività del principio
di tutela del legittimo affidamento che presuppone, sul
piano soggettivo, l’affidamento ragionevole generato dal
comportamento univoco di una amministrazione pubblica,
unitariamente considerata, dalla competenza dell’organo che
eserciti la potestà pubblica, rilevante, sul piano
oggettivo, ai fini della legittimità dell’atto emanato. Una volta accertata, quindi, la necessità di una puntuale
motivazione sotto il profilo delle scelte urbanistiche
oppositive alla realizzazione dell’impianto, deve convenirsi
con il primo giudice che le ragioni poste a base del diniego, fondate quasi esclusivamente su valutazioni di carattere
paesaggistico- ambientale, da un lato si pongano in
contrasto con accertamenti già positivamente raggiunti in
sede di procedimento di VAS, divenuti inoppugnabili, e,
dall’altro, non rivelino precise scelte di tipo urbanistico
idonee a supportare il rifiuto di variante. Sotto il primo profilo, va osservato che la valutazione
ambientale strategica (VAS) è lo strumento volto a garantire
gli effetti sull’ambiente dei piani e dei programmi, così da
anticipare la valutazione della compatibilità ambientale ad
un momento anteriore alla loro elaborazione ed adozione, in
una prospettiva globale di sviluppo sostenibile idonea a
conciliare, anche attraverso soluzioni alternative,
l’utilizzazione del territorio e la localizzazione degli
impianti con la tutela dei valori ambientali (Cons. St. Sez.
IV, 06.05.2013, n. 2446; 13.11.2012, n. 5715). La valutazione favorevole compiuta in sede di VAS non può,
quindi, essere rimessa in discussione per i profili
attinenti alla compatibilità con l’ambiente del piano. Inoltre, nella fattispecie, anche la Provincia,
deputata, ex art. 3-ter L.R. Lombardia n. 86/1983 , a
controllare la compatibilità dei piani con la Rete Ecologica
Regionale, ha espresso parere favorevole in sede di
conferenza di servizi, come attestato nella nota 27.01.2011, pur avendo posto un diverso ostacolo circa la
compatibilità dell’attività di fresatura dell’asfalto con il
piano rifiuti. Deve notarsi che le valutazioni contenute nella
Relazione allegata alla delibera impugnata fanno riferimento
alla Rete ecologica regionale –alla quale occorre
riconoscere prevalenza su difformi previsioni contenute in
altri piani (Cons. St. Sez. IV, 16.04.2012), ai sensi della L.R. n. 86 del 1983- senza tuttavia chiarire se l’area
d’intervento vi ricada interamente o se, come si afferma in
un passaggio, risulti “localizzata nelle immediate vicinanze
del tracciato infrastrutturale della Pedemontana lombarda”,
a 200 metri dal suo limite, rilevando solo come zona di
rispetto; parimenti, la c.d. Greenway, consistente in una
misura di mitigazione su paesaggi caratterizzati da
vulnerabilità paesistico ambientale, delimita, ma non
attraversa il terreno oggetto dell’intervento. Tali incongruità non paiono allora idonee, conformemente a
quanto ritenuto dal primo giudice, a rimettere in
discussione la compatibilità dell’intervento con la tutela
dei valori ambientali e naturalistici, accertata in sede di
VAS. Sotto il profilo urbanistico, quanto alla vicinanza
all’abitato, si condivide l’argomento della resistente, non
smentito dall’appellante, secondo cui il nuovo impianto,
sebbene realizzato su diversa area, manterrebbe la stessa
distanza dall’abitato del vecchio impianto, con la
conseguenza che le condizioni dal punto di vista urbanistico
rimarrebbero immutate. In merito alla valutazione compiuta dal Comune circa la
conservazione dell’area a destinazione agricola,
l’affermazione del Tar è corretta nel senso che una simile
scelta avrebbe dovuto essere operata al termine di una
ponderata valutazione circa le implicazioni
dell’insediamento produttivo (quindi, anche valutando le
opportunità di sviluppo che erano state tenute in
considerazione al momento dell’avvio del procedimento),
nella specie del tutto mancata. In merito, poi, al richiamo contenuto nella Relazione
alle misure che potrebbero essere messe in atto in
esecuzione della deliberazione del Consiglio Comunale n.
22/2010 nella zona oggetto di richiesta di variante, non si
rinvengono precise previsioni di PGT da cui discenda un
obbligo per il Comune nei sensi indicati nella Relazione,
che non contengono vere e proprie scelte pianificatorie, ma
idee progettuali dalla scarsa concretezza e non verificata
fattibilità. Concludendo sull’appello del Comune, si ritiene che gli
argomenti portati dall’Amministrazione comunale a sostegno
del diniego non integrino quella puntuale motivazione
richiesta in un caso in cui la completezza dei pareri
favorevoli acquisiti sotto i plurimi aspetti richiesti dalla
normativa (ambientale, sanitario, di sicurezza sul lavoro) e
la condotta tenuta dallo stesso Comune in tutte le fasi
antecedenti quella della determinazione finale, anche sotto
il profilo della compatibilità dell’intervento con le scelte
urbanistiche, hanno ingenerato un legittimo affidamento in
capo all’interessato (Cons. St. Sez. IV, 13.10.2010, n.
7478) e che, pertanto, la sentenza del Tar vada confermata
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.08.2013 n. 4151 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Pur riconoscendo che il
fresato d’asfalto viene generalmente classificato come
rifiuto in quanto come tale disciplinato dal DM 05.02.1998 e contemplato dal codice europeo dei
rifiuti, nondimeno può essere trattato alla stregua di un
sottoprodotto quando viene inserito in un ciclo produttivo e
viene utilizzato senza nessun trattamento in un impianto che
ne preveda l’utilizzo nello stesso ciclo di produzione senza
operazioni di stoccaggio a tempo indefinito. Considerato che
nell’impianto in questione l’asfalto verrebbe
quotidianamente fresato e riutilizzato, nell’ambito
dell’ordinario ciclo produttivo, esso deve essere
considerato sottoprodotto e non rifiuto speciale, con la
conseguenza che non soggiacerebbe alle regole del Piano
gestione rifiuti che ne impedirebbero la localizzazione.
Ai sensi dell’art. 183, n. 1, lett. a),
del codice dell’ambiente (d.lgs. n. 152/2006), costituisce
«rifiuto» qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore
si disfi o abbia l’intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi. Ai sensi dell’art. 184, comma 3, lett. b), sono rifiuti
speciali i rifiuti derivanti da attività di demolizione,
costruzione o derivanti dall’attività di scavo. Ai sensi dell’art. 184-bis, aggiunto dal comma 1 dell’art.
12 d.lgs. 03.12.2010, n. 205, è sottoprodotto e non rifiuto
qualsiasi prodotto che soddisfi tutte (cumulativamente) le
seguenti condizioni: a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di
produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui
scopo primario non è la produzione di tale sostanza od
oggetto; b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel
corso dello stesso o di un successivo processo di produzione
o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato
direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla
normale pratica industriale. La norma delinea le caratteristiche essenziali del
sottoprodotto consistenti nell’appartenenza della sostanza
ad un ciclo di produzione di cui non costituisce scopo
principale e nella consapevolezza, al momento della sua
produzione, della sua riutilizzazione senza alcun
trattamento diverso dalla normale pratica industriale. Il
sottoprodotto nasce, quindi, con la certezza di essere
riutilizzato senza particolari interventi manipolativi e non
disfatto, non divenendo per questo mai rifiuto. Data la novità della classificazione del sottoprodotto
rispetto a quella contenuta nel codice CER, la
giurisprudenza amministrativa ha già considerato non
vincolante la classificazione recata dal codice CER
anteriore alla definizione dei sottoprodotti alla stregua
dei criteri sostanziali dell’art. 184-bis giungendo, per
alcune sostanze classificate come rifiuto, al riconoscimento
come sottoprodotto (quali la pollina). Anche la Cassazione penale giudica essenziale ai fini della
qualificazione di una sostanza come sottoprodotto la
sussistenza contestuale di tutte le condizioni richieste e
l’assenza di trasformazione preliminare ai fini del
riutilizzo, oltre alla circostanza che il materiale sia
destinato con certezza e non come mera eventualità ad un
ulteriore utilizzo. Si tratta dunque di verificare, dal punto di vista
sostanziale e fattuale, se la fresatura d’asfalto rivesta i
requisiti indicati dalla norma di cui all’art. 184-bis per
essere considerata sottoprodotto e non rifiuto speciale. Alla luce di tali criteri, che il Collegio non può che
condividere, deve ritenersi corretto il metodo di verifica
utilizzato dal Tar, che ha tenuto conto delle seguenti
circostanze: che il bitume d’asfalto si inserisse nel
processo produttivo dell’impianto; che venisse rimosso con
la certezza di essere integralmente riutilizzato; che non
venisse sottoposto ad un processo di trasformazione; che
venisse riutilizzato in tempi ravvicinati (quotidianamente)
rispetto al prelievo, senza particolari operazioni di
stoccaggio; che non si potesse porre a priori in senso
assoluto il problema di doversene disfare, essendo esso
sempre riutilizzabile e riutilizzato. Le conclusioni cui è giunto il Tar sono in linea non solo
con la normativa interna, ma anche con la giurisprudenza
comunitaria secondo cui, quando oltre che riutilizzare la
sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel
farlo, “la sostanza non può essere considerata un ingombro
di cui il detentore cerchi di disfarsi, bensì un autentico
prodotto”. Secondo la giurisprudenza europea “E’ ammesso, alla luce
degli obeittivi della direttiva 75/442, qualificare un bene,
un materiale o una materia prima derivante da un processo di
fabbricazione o di estrazione che non è principalmente
destinato a produrlo non come rifiuto, bensì come
sottoprodotto di cui il detentore non desidera disfarsi ai
sensi dell’art. 1, lett. a) della Direttiva, a condizione
che il suo riutilizzo sia certo, senza trasformazione
preliminare e nel corso del processo di produzione”.
Va, a
questo punto, esaminato l’appello incidentale della
Provincia di Monza e della Brianza, con cui è stata
censurata la sentenza di primo grado per avere annullato la
sua nota del 27.01.2011, nella parte in cui diffida
formalmente il Comune di Arcore a non procedere
all’autorizzazione dell’impianto essendo l’attività di fresa
di asfalto in contrasto con il Piano provinciale di gestione
dei rifiuti che ne esclude la localizzazione. La Provincia, muovendo dalla classificazione del fresato
d’asfalto come rifiuto speciale (codice CER 17.0.002-
materiale di demolizione) e considerando che la
caratteristica del “sottoprodotto” di cui all’art. 184-bis
del d.lgs. n. 152/2006 è costituita dall’essere la sostanza
originata da un processo di produzione di cui costituisce
parte integrante, pur non essendone lo scopo primario,
ritiene che il fresato d’asfalto non sia prodotto originato
da un processo produttivo bensì materiale di risulta
ricavato dalla demolizione di fondi stradali e,
conseguentemente, rifiuto speciale recuperabile, come tale
non utilizzabile nell’impianto di cui si chiede
l’autorizzazione alla realizzazione. In ordine a tale questione ha proposto intervento la SITEB Associazione Italiana Bitume Asfalto Strade che,
vantando l’interesse dei propri associati allo svolgimento
della propria attività conformemente alla normativa in tema
di rifiuti, ha illustrato sia la natura del ciclo di
riutilizzazione dell’asfalto, che non prevede trasformazione
e non viene, quindi, riciclato, e può essere recuperato in
situ senza operazioni di stoccaggio e deposito. Sostiene,
alla luce dell’art. 183 del Codice dell’ambiente, che
caratteristica del rifiuto è che di esso il detentore
intenda disfarsi, mentre del fresato d’asfalto il detentore
non si disfa, ma le sue caratteristiche permettono un
immediato ed integrale reimpiego. Considera quindi che,
conformemente a quanto deciso dal Tar, il materiale in
parola rivesta tutte le caratteristiche indicate dall’art.
184-bis per i sottoprodotti. Occorre a riguardo osservare che il Tar, pur
riconoscendo che il fresato d’asfalto viene generalmente
classificato come rifiuto in quanto come tale disciplinato
dal DM 05.02.1998 e contemplato dal codice europeo dei
rifiuti, nondimeno possa essere trattato alla stregua di un
sottoprodotto quando venga inserito in un ciclo produttivo e
venga utilizzato senza nessun trattamento in un impianto che
ne preveda l’utilizzo nello stesso ciclo di produzione senza
operazioni di stoccaggio a tempo indefinito. Considerato che
nell’impianto in questione l’asfalto verrebbe
quotidianamente fresato e riutilizzato, nell’ambito
dell’ordinario ciclo produttivo, esso deve essere
considerato sottoprodotto e non rifiuto speciale, con la
conseguenza che non soggiacerebbe alle regole del Piano
gestione rifiuti che ne impedirebbero la localizzazione. Ai sensi dell’art. 183, n. 1, lett. a), del codice
dell’ambiente (d.lgs. n. 152/2006), costituisce «rifiuto»
qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o
abbia l’intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi. Ai sensi dell’art. 184, comma 3, lett. b), sono rifiuti
speciali i rifiuti derivanti da attività di
demolizione, costruzione o derivanti dall’attività di scavo. Ai sensi dell’art. 184-bis, aggiunto dal comma 1 dell’art.
12 d.lgs. 03.12.2010, n. 205, è sottoprodotto e non rifiuto
qualsiasi prodotto che soddisfi tutte (cumulativamente) le
seguenti condizioni: a) la sostanza o l’oggetto è originato
da un processo di produzione, di cui costituisce parte
integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di
tale sostanza od oggetto; b) è certo che la sostanza o
l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un
successivo processo di produzione o di utilizzazione, da
parte del produttore o di terzi; c) la sostanza o l’oggetto
può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore
trattamento diverso dalla normale pratica industriale. La norma delinea le caratteristiche essenziali del
sottoprodotto consistenti nell’appartenenza della sostanza
ad un ciclo di produzione di cui non costituisce scopo
principale e nella consapevolezza, al momento della sua
produzione, della sua riutilizzazione senza alcun
trattamento diverso dalla normale pratica industriale. Il
sottoprodotto nasce, quindi, con la certezza di essere
riutilizzato senza particolari interventi manipolativi e non
disfatto, non divenendo per questo mai rifiuto. Data la novità della classificazione del sottoprodotto
rispetto a quella contenuta nel codice CER, la
giurisprudenza amministrativa ha già considerato non
vincolante la classificazione recata dal codice CER
anteriore alla definizione dei sottoprodotti alla stregua
dei criteri sostanziali dell’art. 184-bis giungendo, per
alcune sostanze classificate come rifiuto, al riconoscimento
come sottoprodotto (quali la pollina, Cons. St. Sez. IV,
28.02.2013, n. 1230). Anche la Cassazione penale (Sez. III, 14.06.2012, n. 28609)
giudica essenziale ai fini della qualificazione di una
sostanza come sottoprodotto la sussistenza contestuale di
tutte le condizioni richieste e l’assenza di trasformazione
preliminare ai fini del riutilizzo, oltre alla circostanza
che il materiale sia destinato con certezza e non come mera
eventualità ad un ulteriore utilizzo. Si tratta dunque di verificare, dal punto di vista
sostanziale e fattuale, se la fresatura d’asfalto rivesta i
requisiti indicati dalla norma di cui all’art. 184-bis per
essere considerata sottoprodotto e non rifiuto speciale. Alla luce di tali criteri, che il Collegio non può che
condividere, deve ritenersi corretto il metodo di verifica
utilizzato dal Tar, che ha tenuto conto delle seguenti
circostanze: che il bitume d’asfalto si inserisse nel
processo produttivo dell’impianto; che venisse rimosso con
la certezza di essere integralmente riutilizzato; che non
venisse sottoposto ad un processo di trasformazione; che
venisse riutilizzato in tempi ravvicinati (quotidianamente)
rispetto al prelievo, senza particolari operazioni di
stoccaggio; che non si potesse porre a priori in senso
assoluto il problema di doversene disfare, essendo esso
sempre riutilizzabile e riutilizzato. Le conclusioni cui è giunto il Tar sono in linea non
solo con la normativa interna, ma anche con la
giurisprudenza comunitaria secondo cui, quando oltre che
riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio
economico nel farlo, “la sostanza non può essere considerata
un ingombro di cui il detentore cerchi di disfarsi, bensì un
autentico prodotto” (CGCE sent. 18.04.2002, causa C9/00 Palin Granit).
Secondo la giurisprudenza europea “E’
ammesso, alla luce degli obeittivi della direttiva 75/442,
qualificare un bene, un materiale o una materia prima
derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione
che non è principalmente destinato a produrlo non come
rifiuto, bensì come sottoprodotto di cui il detentore non
desidera disfarsi ai sensi dell’art. 1, lett. a) della
Direttiva, a condizione che il suo riutilizzo sia certo,
senza trasformazione preliminare e nel corso del processo di
produzione” (sent. 11.09.2003, causa C114/01, Avesta
Potarit Chrome). Alla stregua di tali considerazioni, l’appello della
Provincia deve essere respinto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.08.2013 n. 4151 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Cave, il comune non ferma tutto.
Cds: la Conferenza di servizi prevale.
Se la procedura avviata in conferenza di servizi ha avuto
esito positivo, l’impresa proponente ha maturato una valida
aspettativa. E, quindi, è illegittima la decisione del
Consiglio comunale che decide di esprimere parere contrario
alla variante urbanistica per il trasferimento della cava
per inerti, solo perché intende conservare la destinazione
agricola dell’area. In sostanza, se il comune non avesse
voluto l’impianto, avrebbe dovuto deciderlo prima e anche
valutando le opportunità di sviluppo che erano state tenute
in considerazione al momento del procedimento avviato dallo
sportello unico attività produttive in base all’art. 5 del
dpr n. 447/1998 (ora articolo 8 dpr 160/2010). Ciò in quanto
l’impresa è già attiva nel territorio comunale ma si è vista
costretta al suo trasferimento in quanto sull’area attuale
correrà la futura strada Pedemontana.
La questione che è stata decisa dal
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.08.2013 n. 4151,
che ha messo in
evidenza il fatto che la decisione del consiglio comunale,
che si appella a questioni ambientali e paesaggistiche, non
può porsi in contrasto con gli accertamenti già
positivamente raggiunti in sede di procedimento di Vas,
divenuti inoppugnabili, a meno che la decisione non riveli
precise scelte di tipo urbanistico idonee a supportare il
rifiuto di variante. Insomma, ha torto il comune nel
ritenere che essendo il consiglio comunale l’unico organo
competente a deliberare in ordine alla variante, gli atti
compiuti e i comportamenti tenuti da organi diversi, in
vista della finale determinazione, non avrebbero potuto
avere l’effetto di ingenerare alcun affidamento. Infatti, ha
precisato il collegio, «occorre distinguere tra
l’operatività del principio di tutela del legittimo
affidamento che presuppone, sul piano soggettivo, l’affidamento ragionevole generato dal comportamento univoco di
una amministrazione pubblica, unitariamente considerata,
dalla competenza dell’organo che eserciti la potestà
pubblica, rilevante, sul piano oggettivo, ai fini della
legittimità dell’atto emanato» (articolo ItaliaOggi del
09.08.2013). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocato colpevole se non è diligente.
La Cassazione sulla responsabilità
del professionista.
Il contrasto giurisprudenziale non libera l'avvocato dalla
colpa grave. Anzi, proprio in questi casi in cui la
soluzione giuridica diventa più opinabile, il professionista
deve avere perizia e diligenza tali da far cadere la scelta
professionale sulla soluzione che maggiormente tutela il
cliente. Per esempio, in presenza di due diverse visioni sui termini
prescrizionali, il professionista deve riferirsi al termine
più breve così da scongiurare possibili danni al cliente.
Lo
stabilisce la Corte di Cassazione nella sentenza
05.08.2013 n. 18612. La vicenda riguarda il contenzioso tra alcuni cittadini e
una compagnia di assicurazioni, con esito di prescrizione
per sopraggiunto orientamento giurisprudenziale. Avendo così
perso il diritto al ristoro dei danni, i cittadini hanno
denunciato il loro avvocato di responsabilità professionale,
per non aver tempestivamente fatto valere i diritti dei
rappresentanti. La Corte di appello però non ha ravvisato la
responsabilità in capo all'avvocato, in quanto la questione,
sebbene abbia trovano un componimento in una specifica
sentenza (Cassazione sezioni unite), all'epoca dei fatti era
aperta e l'avvocato ha operato in presenza di «opinioni
interpretative diversificate». La cassazione, però, è di parere contrario. Infatti ritiene
che la soluzione della Corte di appello confligga con il
principio per cui «le obbligazioni inerenti all'esercizio
dell'attività professionale sono, di regola, obbligazioni di
mezzi e non di risultato, in quanto il professionista,
assumendo l'incarico, si impegna a prestare la propria opera
per raggiungere il risultato desiderato ma non a
conseguirlo. Pertanto, ai fini del giudizio di
responsabilità nei confronti del professionista, rilevano le
modalità di svolgimento della sua attività in relazione al
parametro della diligenza fissato dall'art. 1176, secondo
comma, cod. civ., che è quello della diligenza del
professionista di media attenzione e preparazione. Sotto tal
profilo, rientra nell'ordinaria diligenza dell'avvocato il
compimento di atti interruttivi della prescrizione del
diritto del suo cliente, i quali, di regola, non richiedono
speciale capacità tecnica, salvo che, in relazione alla
particolare situazione di fatto, che va liberamente
apprezzata dal giudice di merito, si presenti incerto il
calcolo del termine». In definitiva, la corte di cassazione statuisce che
l'opinabilità stessa della soluzione giuridica impone al
professionista una diligenza e una perizia adeguate alla
contingenza, nel senso che la scelta professionale deve
cadere sulla soluzione che consenta di tutelare maggiormente
il cliente e non già danneggiarlo e, dunque, nella specie
egli era tenuto ad avere il comportamento riferito alla
decorrenza del termine più breve (articolo ItaliaOggi del 06.08.2013). |
VARI: All'Enel
il taglio degli alberi pericolosi. Enel è responsabile della manutenzione degli alberi che
crescono sotto le linee aeree di distribuzione
dell'elettricità, almeno nei limiti di sicurezza previsti
dalla legge. La III Sez. civile della Corte di Cassazione (sentenza
05.08.2013 n. 18609) ha riconosciuto il diritto al risarcimento
degli eredi di un giardiniere deceduto 18 anni fa mentre
potava una pianta ad alto fusto in un giardino privato.
Durante l'operazione l'uomo fu raggiunto dalla scarica
elettrica proveniente da un cavo di rame posto a otto metri
dal suolo che, stando alle risultanze del processo, aveva
inavvertitamente sfiorato mentre si trovava a cavalcioni su
un ramo. In primo grado il tribunale aveva escluso la
responsabilità del gestore pubblico, classificando
«imprudente» il comportamento del giardiniere e argomentando
che la distanza minima di sicurezza fissata dalla legge (70
centimetri secondo il Dpr 1062/1962, modificato dal decreto
ministeriale del 21/03/1988) è imposta dalla legge «per il
corretto esercizio del servizio, e non per evitare danni a
chi possa salire sui rami». In appello però, riqualificata la responsabilità «da
attività pericolose» (articolo 2050 del codice civile) in
extracontrattuale (art. 2043 del codice civile), i giudici
avevano riconosciuto il diritto al risarcimento per gli
eredi. La Cassazione ha avallato la decisione, sottolinenando che, se non sono richieste ulteriori indagini
sul fatto, nulla vieta la conversione dell'imputazione. La
legge sulle distanze minime (Dpr 1062/62) pone a capo
dell'Enel un obbligo inderogabile (articolo Il
Sole 24 Ore del 06.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Stop alle reclame.
Niente cartelloni nei centri storici.
Il Cds impone ci sia prima l'ok della Soprintendenza. Niente pubblicità in centro storico senza il nulla osta
della Soprintendenza. E non c'è nessuna lesione ingiusta
degli interessi dell'impresa che si è vista, in parte,
annullare i provvedimenti con i quali era stato autorizzato
il posizionamento della cartellonistica pubblicitaria, dopo
che da anni gli stessi erano stati collocati con il placet
del comune anche in centro storico. Ciò in quanto ciò che prevale è l'interesse pubblico al
decoro. Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 30.07.2013 n. 4010
affermando, tra l'altro, il carattere di beni culturali
delle pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti
urbani. Nel senso dal 01.05.2004, data di entrata in
vigore del codice Urbani (dlgs 22.01.2004, n. 42) non
solo sugli immobili in senso stretto, ma anche per gli spazi
urbani, sussiste lo specifico vincolo imposto ex lege di
bene culturale. Vincolo che, ha precisato il Collegio, non
necessita di verifiche, perché è automatico a norma
dell'art. 10, comma 1, del Codice, e dunque opera fin
dall'entrata in vigore del codice stesso. Tra l'altro, ha
osservato anche la Sezione nella citata sentenza, è
infondata la critica di contraddittorietà del provvedimento
di indizione della gara per il nuovo sistema di arredo
urbano e di approvazione del progetto inerente l'intervento
stesso e la posizione contraria della Soprintendenza, con i
precedenti provvedimenti. Ciò in quanto i poteri della
Soprintendenza, non possono considerarsi circoscritti alla
facoltà di richiedere adattamenti e specifiche modifiche,
ben potendo la stessa precludere in toto la presenza di
installazioni in un determinato contesto. Il Collegio, in
sostanza, ha condiviso il rilievo del giudice di primo grado
circa il fatto che anche se si fosse trattato di indicazioni
stradali, nulla sarebbe mutato. La disposizione dell'art.
23, comma 7, dlgs. 285/1992 (Nuovo codice della strada),
infatti, riguarda gli interessi pubblici connessi alla
viabilità stradale, in primis quello della sicurezza della
circolazione e quindi quelli di informazione. Nel senso che
le ponderazioni di interessi si esauriscono in una
comparazione tra i due. Invece la disposizione dell'art. 49
(manifesti e cartelli pubblicitari) per i beni culturali, e
art. 153 (cartelli pubblicitari) per i beni paesaggistici
del dlgs 42/2004 (codice Urbani) è finalizzata alla cura
dell'interesse culturale e paesaggistico. Questa seconda
cura, anche per ragioni costituzionali (l'art. 9 Cost.,
prevede che la Repubblica tutela il patrimonio culturale), è
preminente e in pratica in ogni caso condizionante la prima.
In altri termini anche nei casi in cui il Codice della
strada presume la compatibilità dell'installazione, per
consentire di legittimare definitivamente l'installazione,
ci deve essere un concreto e positivo giudizio di
compatibilità del Soprintendente che dal 01.05.2004, è con «i
valori paesaggistici degli immobili o delle aree soggetti a
tutela» (articolo ItaliaOggi del 06.08.2013). |
URBANISTICA: Le
osservazioni presentate dai privati ad uno strumento
urbanistico si considerano meri apporti collaborativi e
pertanto l’amministrazione non è onerata dall’obbligo di
fornire una dettagliata motivazione delle ragioni per cui si
è determinata nel senso di respingerle, “essendo sufficiente
che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste a base del piano regolatore o della variante
generale”. In ordine al primo motivo di ricorso va ricordato che le
osservazioni presentate dai privati ad uno strumento
urbanistico si considerano meri apporti collaborativi e
pertanto l’amministrazione non è onerata dall’obbligo di
fornire una dettagliata motivazione delle ragioni per cui si
è determinata nel senso di respingerle, “essendo
sufficiente che siano state esaminate e ragionevolmente
ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni
generali poste a base del piano regolatore o della variante
generale” (tra le più recenti si veda C.d.S. sez. III n.
2836 del 24.05.2013)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 25.07.2013 n. 939 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Va attribuita
all’attività di pianificazione urbanistica un elevato tasso
di discrezionalità, per il quale oneri di specifica
motivazione vengono ravvisati solo qualora si verifichino le
seguenti evenienze: a) superamento degli standard minimi di cui al D.M.
02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va
riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche
complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal
riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) lesione dell'affidamento qualificato del privato
derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di
diritto privato intercorsi col Comune, aspettative nascenti
da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione
edilizia o di silenzio rifiuto; c) modificazione in zona agricola della destinazione di
un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non
abusivo. La giurisprudenza è pacifica nell’attribuire all’attività di
pianificazione urbanistica un elevato tasso di
discrezionalità, per il quale oneri di specifica motivazione
vengono ravvisati solo qualora si verifichino le seguenti
evenienze: “a) superamento degli standard minimi di cui
al D.M. 02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione
ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni
urbanistiche complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona
di determinate aree; b) lesione dell'affidamento qualificato
del privato derivante da convenzioni di lottizzazione,
accordi di diritto privato intercorsi col Comune,
aspettative nascenti da giudicati di annullamento di
dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto; c)
modificazione in zona agricola della destinazione di un'area
limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo
(Cons. St., Ad. Plen., 22.12.1999, n. 24; Cons. St., IV,
09.04.1999, n. 594; Cons. St., IV, 21.05.2004, n. 3314)”
(TAR Piemonte, sez. I 2071/2006)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 24.07.2013 n. 927 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'individuazione
di una distanza minima delle stazioni radio base di
telefonia mobile da particolari tipologie di insediamenti
abitativi, in quanto essenzialmente preordinata a garantire
la tutela della pubblica salute da ipotizzabili fonti di
inquinamento, non costituisce attribuzione che
l'amministrazione comunale può autonomamente esercitare,
spettando tale competenza alla amministrazione statale, e
tale conclusione vale anche per il generalizzato divieto di
installazione delle stazioni radio base per la telefonia
cellulare in tutte le zone territoriali omogenee a
destinazione residenziale ovvero per l'introduzione di
misure che, pur essendo astrattamente e tipicamente
urbanistiche, quali le distanza, le altezze o altro, non
sono in realtà funzionali al governo del territorio, ma alla
tutela dei rischi dell'elettromagnetismo. Secondo consolidati e condivisi principi giurisprudenziali,
“l'individuazione di una distanza minima delle stazioni
radio base di telefonia mobile da particolari tipologie di
insediamenti abitativi, in quanto essenzialmente preordinata
a garantire la tutela della pubblica salute da ipotizzabili
fonti di inquinamento, non costituisce attribuzione che
l'amministrazione comunale può autonomamente esercitare,
spettando tale competenza alla amministrazione statale, e
tale conclusione vale anche per il generalizzato divieto di
installazione delle stazioni radio base per la telefonia
cellulare in tutte le zone territoriali omogenee a
destinazione residenziale ovvero per l'introduzione di
misure che, pur essendo astrattamente e tipicamente
urbanistiche, quali le distanza, le altezze o altro, non
sono in realtà funzionali al governo del territorio, ma alla
tutela dei rischi dell'elettromagnetismo” (TAR Piemonte,
sez. I, 19.12.2008, n. 3150; TAR Catanzaro, sez. I,
03.10.2012, n. 981; Consiglio di Stato, sez, VI, 06.09.2010,
n. 6473)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 23.07.2013 n. 901 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Immobili. La Corte di cassazione conferma la condanna del
titolare di un edificio non a norma che era stato ceduto a
terzi. Il proprietario garantisce l'agibilità.
Scatta l'omicidio colposo in caso di decesso dell'ospite per
una fuga di gas. Scatta la condanna per omicidio colposo per il proprietario
di un appartamento inagibile che, consentendone l'uso a
terzi, nonostante il cattivo funzionamento del l'impianto di
riscaldamento, abbia causato la morte dell'occupante. La
responsabilità è legata alla posizione di garanzia rivestita
dal titolare.
Lo precisa la Corte di Cassazione, Sez. IV
penale, nella
sentenza
22.07.2013 n. 31356. La vicenda ha avuto come vittima un uomo, deceduto per le
lesioni causate dal crollo dell'immobile che lo ospitava. A
innescare l'esplosione, era stata una fuga di gas
all'interno dell'edificio, determinata –secondo l'accusa–
dalla fatiscenza delle apparecchiature, sprovviste di
adeguate aperture di aerazione e ventilazione. Di qui, la
contestazione di omicidio colposo mossa nei confronti del
proprietario dell'appartamento, colpevole di aver violato la
normativa di prevenzione antincendi. L'aver consentito, poi,
l'uso del bene a terzi, disattendendo l'obbligo di sgombero,
ne aveva aggravato la posizione. Assolto in primo grado –per insufficienza delle prove sul
nesso causale tra le omissioni contestate e il decesso– il
verdetto si ribalta in appello, e la Corte territoriale
condanna l'imputato senza sconti. Dalla dinamica dei fatti,
puntualizzano i giudici di secondo grado, emerge con estrema
chiarezza il rapporto tra la condotta dell'imputato e la
morte della vittima, cui era stato consentito l'uso di un
fabbricato in cui era installato un impianto non conforme a
regole cautelari. Come proprietario garante del bene –sottolinea la Corte d'appello– egli era tenuto ad adottare
ogni dispositivo per assicurarne la sicurezza, o,
quantomeno, a impedirvi l'accesso. Contro la sentenza arriva
il ricorso: per la difesa, bisogna valutare che i locali
erano stati affidati all'ospite con autonomia gestionale.
Non è stata vagliata, inoltre, l'eventuale incidenza di
cause alternative atte a escludere la riconducibilità del
decesso a presunte carenze dell'impianto.
La Cassazione boccia il ricorso. È colpevole di omicidio
colposo –spiegano i giudici di legittimità– il
proprietario che abbia ceduto a terzi il godimento di un
appartamento dotato di un impianto per il riscaldamento in
pessimo stato di manutenzione, ove l'evento lesivo sia
riconducibile al suo cattivo funzionamento. Nel sostenerlo,
la Corte richiama il noto orientamento giurisprudenziale,
secondo il quale il titolare di un immobile riveste una
«specifica posizione di garanzia nei confronti del
cessionario delle facoltà di godimento del bene». In virtù
di questo ruolo, è tenuto a consegnare «un impianto di
riscaldamento revisionato, in piena efficienza e privo di
carenze funzionali e strutturali» (Cassazione, 34843/10).
Nel caso specifico, non poteva valere a sollevare il
ricorrente dalla responsabilità penale, per il decesso della
vittima, l'aver eventualmente trasferito al proprio ospite
il compito di assumere in piena autonomia la gestione dei
processi di ristrutturazione (circostanza, tra l'altro, non
provata). Gli unici attestati di conformità, peraltro,
riguardavano interventi eseguiti su parti diverse
dell'impianto. È corretta, dunque, la decisione della Corte
d'appello sulla colpevolezza del ricorrente, consapevole
dello stato dell'immobile, e delle situazioni di rischio che
ne potevano conseguire per i soggetti cui era stata
consentita l'utilizzazione dell'appartamento. Era necessario esigerne, perciò, la resa in conformità alla
normativa e, comunque, il divieto di accesso a eventuali
frequentatori, teso a scongiurarne ogni possibile
comportamento imprudente, potenzialmente idoneo a
determinare eventi lesivi. Da questa violazione di obblighi
precisi deriva, senza dubbio, la «colpa idonea a integrare
gli estremi del contestato delitto» di omicidio colposo. --------------- I punti cardine
01 | IL PRINCIPIO Risponde di omicidio colposo, per il decesso dell'ospite, il
proprietario di un appartamento inagibile, che ne abbia
consentito l'uso, nonostante il cattivo funzionamento
dell'impianto di riscaldamento. Responsabilità penale,
legata alla posizione di garanzia che fa capo al titolare
del bene, tenuto ad adottare tutte le cautele idonee a
garantirne la sicurezza o, quantomeno, a impedirne l'accesso
a terzi 02 | I PRECEDENTI - Scatta la condanna per omicidio colposo, per il decesso
dell'inquilino conseguente a esalazioni di monossido di
carbonio provenienti dalla caldaia, per il comproprietario
dell'appartamento che, occupandosi degli adempimenti legati
alla locazione, sia divenuto garante del regolare
funzionamento dell'impianto -
Cassazione 34843/2010 - Si configura la responsabilità penale, a titolo di
omicidio colposo, per il proprietario di un immobile che,
non consegnando all'affittuario un impianto di riscaldamento
revisionato, in piena efficienza e privo di carenze
funzionali e strutturali, ne abbia provocato il decesso -
Cassazione 32298/2006 03 | LA NORMA In base all'articolo 40, comma 2, del Codice penale, non
impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di
impedire, equivale a causarlo (articolo Il
Sole 24 Ore del 05.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente
all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce
l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e,
quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta
carenza di interesse, atteso che a seguito dell'istanza di
sanatoria l'ordinanza di demolizione deve essere sostituita
o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento
sanzionatorio. Sul punto, la giurisprudenza non fa distinzioni tra istanza
di sanatoria e istanza di condono, dal momento che in
entrambi i casi il provvedimento demolitorio è destinato ad
essere sostituito da un nuovo provvedimento, a seconda dei
casi di accoglimento dell’istanza oppure nuovamente
sanzionatorio. Infatti, secondo consolidati principi giurisprudenziali più
volte affermati da questo stesso Tribunale, la presentazione
dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione
dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere
inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile
l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse,
atteso che a seguito dell'istanza di sanatoria l'ordinanza
di demolizione deve essere sostituita o dalla concessione in
sanatoria o da un nuovo provvedimento sanzionatorio (TAR
Piemonte sez. I, 07.12.2012, n. 1310; TAR Piemonte sez. II,
05.07.2012, n. 813; TAR Brescia, sez. I, 28.12.2012, n.
2022; TAR Bari, sez. III, 12.12.2012, n. 2142). Sul punto, la giurisprudenza non fa distinzioni tra istanza
di sanatoria e istanza di condono, dal momento che in
entrambi i casi il provvedimento demolitorio è destinato ad
essere sostituito da un nuovo provvedimento, a seconda dei
casi di accoglimento dell’istanza oppure nuovamente
sanzionatorio
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 12.07.2013 n. 880 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente
all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce
l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e,
quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta
carenza di interesse. Il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall’istanza
di sanatoria, sia pure al fine di verificare l'eventuale
sanabilità di quanto costruito, ex se comporta la necessaria
formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di
rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal momento che, in
caso di diniego del richiesto accertamento di conformità,
l’amministrazione dovrebbe emettere una nuova ordinanza di
demolizione, con fissazione di nuovi termini per
ottemperarvi. Considerato: - che, come ritenuto da un consistente filone
giurisprudenziale (cfr., ex multis, di recente, Cons.
Stato, sez. IV, n. 5228 del 2011), già fatto proprio anche
da questa Sezione, la presentazione dell'istanza di
sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di
demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale
ultimo provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione
stessa per sopravvenuta carenza di interesse; - che, infatti, il riesame dell'abusività dell'opera
provocato dall’istanza di sanatoria, sia pure al fine di
verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ex
se comporta la necessaria formazione di un nuovo
provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale
comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del
richiesto accertamento di conformità, l’amministrazione
dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con
fissazione di nuovi termini per ottemperarvi
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 05.07.2013 n. 865 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
È concussione imporre al privato l'affido dei lavori. Risponde di concussione il pubblico ufficiale che costringe
il proprietario di un terreno ad affidare a un terzo da lui
indicato l'appalto per realizzare unità abitative, mettendo
la stipula di quel contratto come condizione al rilascio di
una legittima concessione edilizia.
Lo afferma la Corte di Cassazione, Sez. VI
penale, nella
sentenza
09.07.2013 n. 29338. Per i giudici di legittimità, la struttura astratta del
rapporto tra il pubblico ufficiale e il privato era quella
del cittadino che si è posto nelle condizioni di ottenere un
provvedimento amministrativo (avendo soddisfatto le
richieste tecniche della Pa), e tuttavia si vede negato il
rilascio dell'atto di rilevante interesse economico se prima
non dà un'utilità non dovuta a un terzo indicato dal
pubblico ufficiale. In questa ipotesi si ha dunque –scrive
la Corte– «la prospettazione (...) di un danno ingiusto che
può essere evitato solo ottemperando all'intimidazione del
pubblico ufficiale». La determinazione del reato La Cassazione è stata chiamata a stabilire se, nel caso
specifico, ricorreva la concussione prevista dall'articolo
317 del Codice penale o l'induzione indebita a dare o
promettere utilità, punita dall'articolo 319-quater (nuova
fattispecie introdotta dalla legge 190/2012). L'articolo 317 incriminava condotte sia di costrizione sia
di induzione. Nel 2012 le due condotte sono state collocate
in due reati distinti, senza che si sia creato alcun vuoto
sanzionatorio e senza che il pubblico ufficiale autore di
fatti-reato previsti dall'originario testo dell'articolo 317
possa beneficiare di alcuna sopravvenuta irrilevanza penale
(così già Cassazione 21701/2013). Cambia la sanzione, perché
la pena prevista dal l'articolo 319-quater è inferiore. Ma come si distingue la costrizione dall'induzione?
I giudici di legittimità affermano che si può costringere
anche con una minaccia o con qualsiasi forma di pressione
psicologica, purché essa non lasci alcuna scelta al privato
che la subisce. L'induzione va ravvisata nei casi in cui la
pressione esercitata dal pubblico ufficiale lasci al privato
spazi di autonomia «orientati anche da una valutazione del
rapporto costo/beneficio personale». In questo senso, assume
chiara efficacia discriminante non tanto la verifica
dell'intensità della minaccia, quanto un'accurata indagine
sul tipo di male minacciato dal pubblico ufficiale al
cittadino. Se il male si connota per la sua oggettiva ingiustizia, la
vittima non ha margini di autonomia perché l'unica ragione
per la quale dà o promette un'utilità al pubblico ufficiale
è proprio la costrizione subita. Se invece il danno
minacciato non presenta in sé un'oggettiva ingiustizia, il
destinatario della sollecitazione da parte del pubblico
ufficiale è allora orientato a perseguire un vantaggio
personale e aderisce alle richieste da dare o promettere
utilità non solo per la pressione ricevuta ma anche per la
valutazione comparativa dei maggiori vantaggi che per questa
via può ottenere. Nel caso specifico, la Cassazione ha escluso che si potesse
applicare l'articolo 319-quater: non si può parlare di
induzione, ma di vera e propria costrizione (articolo Il
Sole 24 Ore del 05.08.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumori azienda. Giudici divisi.
Due sentenze opposte della Cassazione.
Se gli impianti tecnologici (in particolare condizionatori)
a servizio di un centro commerciale arrecano disturbo non
tollerabile agli occupanti dei soprastanti alloggi, il
direttore va condannato.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. I penale, con
la
sentenza
08.07.2013 n. 28874 che ha
richiamato le sue precedenti decisioni per ribadire che
quando il rumore supera la normale tollerabilità scatta il
reato di cui l'art. 659 Cod. pen.. Nella citata sentenza è stato anche precisato che il
superamento dei valori soglia di rumorosità, stabiliti dalle
competenti autorità amministrative, prodotto da una attività
economica integra il reato previsto dal comma secondo
dell'art. 659 cod. pen. che non è stato implicitamente
abrogato dall'illecito amministrativo di cui all'art. 10,
comma secondo, legge 26.10.1995 n. 447, che è posto a tutela
del diverso bene della salute umana. Di segno opposto, invece, un'altra recente pronuncia della
medesima Sezione, (sentenza
11.06.2013 n. 25601) nella quale si afferma che dalla
comparazione tra l'art. 659, commi 1 e 2, c.p. si desume che
costituisce oggetto della disposizione di cui al secondo
comma ogni ipotesi di esercizio di un mestiere naturalmente
rumoroso, norma attenuata rispetto a quella contenuta nel
primo comma, per il ritenuto necessario contemperamento tra
le esigenze della quiete pubblica con quelle della
produzione. Esigenze, quest'ultime, che sono all'origine della
disciplina dettata in materia di contenimento dei rumori
fastidiosi, da quella relativa alle emissioni o immissioni
sonore a quelle relative alle cautele da adottare in sede
costruttiva o successivamente per contenere la rumorosità
degli impianti produttivi. In sostanza, con l'emanazione della legge quadro
sull'inquinamento acustico (legge 26.10.1995, n. 447) il
superamento dei limiti di accettabilità delle emissioni
sonore integra gli estremi di un illecito amministrativo. E
da ciò ne consegue che la condotta relativa, proveniente
dall'esercizio di mestieri rumorosi, è stata depenalizzata,
ma resta circoscritta alla violazione delle prescrizioni per
rumorosità diverse da quelle concernenti i limiti delle
emissioni o immissioni sonore (articolo ItaliaOggi del
09.08.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO: Condominio.
Reato di disturbo alla quiete delle persone anche se a
lamentarsi è un solo nucleo familiare. No al condizionatore rumoroso. È condannabile penalmente per disturbo alla quiete delle
persone nelle loro abitazioni chi installa condizionatori
rumorosi in casa sua o nel luogo dove svolge la sua
attività, anche se dei rumori si lamenti solo uno dei nuclei
familiari residenti nel condominio.
La Corte di Cassazione, I Sez.
penale, con la
sentenza 08.07.2013 n. 28874, nell'applicare questo
principio, ha confermato la pronuncia emessa dal tribunale
che aveva inflitto un'ammenda, con la sospensione della
pena, al gestore di un centro commerciale che aveva messo
dei condizionatori le cui emissioni si sentivano fino al
quarto piano del condominio soprastante ed erano percepiti
negli appartamenti anche a finestre chiuse. L'imputato, a sua difesa, aveva sostenuto che non sussisteva
l'elemento essenziale della fattispecie del reato previsto
dall'articolo 659, comma 1, del Codice penale (disturbo
delle occupazioni o del riposo delle persone), ossia una
rumorosità tale da disturbare una pluralità di persone e non
i soli vicini (aspetto, quest'ultimo che, nel caso concreto,
non era stato accertato). Ma la Cassazione, nel respingere
il ricorso, ha precisato che per la «la rilevanza penale
della condotta produttiva di rumori» basta «l'incidenza
sulla tranquillità pubblica, in quanto l'interesse tutelato
dal legislatore è la pubblica quiete, sicché i rumori devono
avere una tale diffusività che l'evento di disturbo sia
potenzialmente idoneo a essere risentito da un numero
indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo
taluna se ne possa lamentare». È poi coerente con la
giurisprudenza della Corte che la condizione sia verificata
allorché i rumori molesti siano provocati e si diffondano
nell'ambito del condominio (si veda la sentenza 18517/2010
della Cassazione penale). Il problema della rumorosità dei condizionatori è molto
frequente in condominio. La legge di riforma 220/2012, ha
annoverato formalmente, tra le presunte parti comuni, anche
i sistemi centralizzati per il condizionamento dell'aria
(articolo 1117, n. 3, del Codice civile). Nel caso di
rumorosità di un impianto che superi la normale
tollerabilità, in base all'articolo 844 del Codice civile,
l'amministratore del condominio deve intervenire in modo da
assicurarne il miglior godimento a ciascuno dei condomini.
Egli ha la legittimazione passiva dell'azione inibitoria del
danneggiato prevista dal l'articolo 844 del Codice civile
per fare cessare le immissioni intollerabili mentre non ha
la legittimazione per l'azione di risarcimento dei danni
derivanti dalle immissioni, che spetta ai proprietari delle
singole unità immobiliari i cui patrimoni risultano lesi (articolo Il
Sole 24 Ore del 05.08.2013). |
AGGIORNAMENTO AL 09.08.2013 |
ã |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
PRINCIPALI INTERVENTI NORMATIVI DI SEMPLIFICAZIONE PER LE
IMPRESE ADOTTATI A LIVELLO NAZIONALE NEL PERIODO 2008‐2012 -
Guida ragionata delle disposizioni normative (Conferenza
delle Regioni e delle Province Autonome, giugno 2013). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI LOCALI: G.U.
08.08.2013 n. 185 "Patto di stabilità interno per il
triennio 2013-2015 per le provincie e i comuni con
popolazione superiore a 1.000 abitanti (articoli 30, 31 e 32
della legge 12.11.2011, n. 183, come modificati dalla legge
24.12.2012, n. 228)" (Ministero dell'Economia e delle
Finanze,
circolare 07.02.2013 n. 5). |
LAVORI PUBBLICI: G.U.
08.08.2013 n. 185
"Modifiche agli articoli 3 e 6 del decreto 26.02. 2013,
in materia di procedure di monitoraggio sullo stato di
attuazione delle opere pubbliche" (Ministero
dell'Economia e delle Finanze,
decreto 01.08.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
OGGETTO: PRIMI INDIRIZZI REGIONALI IN MATERIA DI
AUTORIZZAZIONE UNICA AMBIENTALE (AUA) (Regione
Lombardia,
circolare 05.08.2013 n. 19). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Chiarimenti in merito all'applicazione delle
disposizioni di cui al decreto-legge 04.06.2013, n. 63 come
convertito, con modificazioni, dalla legge 03.08.2013, n.
90, in materia di attestazione della prestazione energetica
degli edifici (Ministero dello Sviluppo Economico,
nota 07.08.2013 n. 16416 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
PRIME NOTE INTERPRETATIVE RELATIVE ALLA ALLEGAZIONE DELL’APE
(attestato prestazione energetica) A PENA DI NULLITA’ (anche
per gli atti traslativi a titolo gratuito) (Consiglio
Nazionale del Notariato, 07.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Oggetto: Dichiarazioni in catasto di Unità Collabenti
(categoria F/2) (Agenzia delle Entrate, Direzione
Centrale Catasto e Cartografia,
nota 30.07.2013 n. 29440 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI:
NOTA INTERPRETATIVA ANCI SU VIGENZA ED OPERATIVITA’ DELLE
COMMISSIONI DI VIGILANZA SUI LOCALI DI PUBBLICO SPETTACOLO
(ANCI, 25.07.2013). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
F. Vanetti,
Terre e rocce da scavo e riporti: i decreti «Emergenze» e
«Fare» introducono ulteriori dubbi
(Ambiente & Sviluppo n. 8-9/2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Spina,
Le immissioni intollerabili nella recente giurisprudenza di
legittimità (Ambiente & Sviluppo n. 8-9/2013). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Consiglio, sedute distinte.
Senza numero legale, seconda convocazione. È legittimo
trattare solo gli argomenti all'odg della nuova seduta. È regolare lo svolgimento di una seduta consiliare, il cui
ordine del giorno includeva argomenti di prima e di seconda
convocazione se, a seguito di accertata mancanza del numero
legale, i lavori venivano fatti proseguire per la
trattazione dei soli argomenti di seconda convocazione? L'art. 38, comma 2, del Tuel n. 267/2000 demanda la
disciplina del funzionamento del consiglio comunale al
regolamento consiliare che, nell'ambito dei principi
stabiliti dallo statuto, stabilisce anche le modalità per la
convocazione e per la presentazione e la discussione delle
proposte. Lo stesso comma 2 del citato art. 38 prevede che
il regolamento indichi il numero dei consiglieri necessario
per la validità delle sedute, prescrivendo come unico limite
la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati per
legge all'ente. Nella fattispecie, il regolamento consiliare del comune
disciplina le sedute di prima e seconda convocazione
prevedendo, per la validità della seduta di prima
convocazione, la presenza di almeno la metà dei consiglieri
assegnati al comune e stabilendo che, qualora in corso di
seduta si accerti che il numero dei consiglieri sia
inferiore a quello necessario, il presidente dichiara
deserta la stessa «per gli argomenti a quel momento rimasti
da trattare». La norma regolamentare richiede inoltre, per la validità
della seduta di seconda convocazione, che intervengano
almeno un terzo dei membri del consiglio e prevede che «la
seduta che segue a una prima iniziatasi col numero legale
dei presenti ed interrotta nel suo corso per essere venuto
meno il numero minimo dei consiglieri, è pure di seconda
convocazione per gli affari rimasti da trattare nella
prima». Le richiamate disposizioni regolamentari, in particolare per
quel che concerne il numero minimo di consiglieri presenti
alle sedute, sono coerenti con le previsioni di legge. Sulla problematica sollevata il Tar Campania, seppure con
una risalente sentenza del 12.12.1985, n. 397, ha
ritenuto che «perché possa parlarsi di seduta di seconda
convocazione, non è necessario che la mancanza del numero
legale si sia verificata a inizio di seduta ma può anche
constatarsi in corso di seduta. In tali casi occorrerà tener
presente che non si avrà seduta di seconda convocazione per
quegli oggetti che siano stati rinviati oppure discussi ma
non deliberati, mentre si avrà seduta di seconda
convocazione per quei punti dell'ordine del giorno che non è
stato possibile trattare a causa della sopravvenuta mancanza
del numero legale». Pertanto, si ritiene che la procedura adottata dall'ente sia
conforme alle previsioni regolamentari
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Sindaco eletto alla Camera. Quali effetti determina sull'amministrazione locale
l'eventuale elezione del sindaco alla camera dei Deputati?
Sul tema si richiamano le disposizioni di cui all'art.
13, comma 3, decreto legge 13.08.2011, n. 138, convertito
con modificazioni dalla legge 14.09.2011, n. 148, che
prevede una nuova ipotesi d'incompatibilità, applicata per
la prima volta a decorrere dall'attuale legislatura, tra le
cariche di deputato e quelle di sindaco con popolazione
superiore ai 5.000 abitanti. La stessa norma riconosce all'interessato l'esercizio
dell'opzione per la carica sopraggiunta
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2013). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI: I comuni a rischio default possono vendere i propri immobili. Patrimonio immobiliare degli enti locali a rischio default
in vendita. Utilizzandone i proventi per mettere una toppa
ai bilanci.
Dopo che la sezione autonomie della Corte dei
conti (con
delibera
20.05.2013 n. 14) ha ritenuto che il generale
divieto di usare gli incassi delle cessioni immobiliari per
la copertura dei disavanzi non debba valere per gli enti in predissesto, vista l'eccezionalità della situazione
economica nazionale, arriva ora la prima legge regionale a
istituzionalizzare il principio anche sul piano normativo
per quanto riguarda l'edilizia residenziale pubblica, ancora
soggetta a limitazioni. Si tratta della legge 02.05.2013,
n. 20 della regione Calabria, che ha passato il 26 giugno
scorso il vaglio del Consiglio dei ministri venendo
giudicata pienamente legittima. La legge, che modifica la
disciplina del 1996, si avvia a essere assunta come modello
anche dalle altre amministrazioni regionali, come ha
spiegato Stefano Pozzoli, professore ordinario di ragioneria
generale all'università degli studi di Napoli Parthenope, il
29 luglio scorso nel corso di un convegno svoltosi in
consiglio regionale a Reggio Calabria. La disciplina copre
un vulnus normativo parificando la situazione degli enti in predissesto a quella degli enti in dissesto, che possono
utilizzare qualsiasi tipo di provento per mettere a posto i
bilanci. Nella legge si individua dunque una strada
alternativa per le amministrazioni che hanno in atto piani
di riequilibrio finanziari pluriennali (solo in Calabria
sono oltre 60). Non soltanto aumento delle tasse ma anche
valorizzazione del patrimonio immobiliare con un duplice
scopo: consentire alle famiglie di divenire proprietarie
delle case in cui vivono e garantire ai comuni un gettito
extra utile alla parziale sistemazione dei conti in rosso,
depennando peraltro dai bilanci l'onerosa voce delle spese
di manutenzione. «Ora le amministrazioni locali devono
preoccuparsi di razionalizzare la spesa, prendendo atto che
il mutato contesto dalla finanza locale lo rende necessario:
è più facile e comodo aumentare le tasse (in teoria), ma non
è la strada giusta. E non si usi il comodo alibi di dire che
è un obbligo di legge, perché non è così: il comma 8
dell'art. 243-bis del Tuel, quello sul predissesto, è
chiaro: si può, e non si deve, aumentare le imposte. Ma è
una possibilità di cui non si deve approfittare in un
momento come questo, in cui è anzi necessario lavorare per
ridurre le imposte, a tutti i livelli di governo», ha
commentato Giuseppe Scopelliti, presidente della regione
Calabria
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2013). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA: IL
DECRETO DEL «FARE»/ Niente semplificazioni per le
ricostruzioni. Nuova legge Sabatini estesa anche all'Ict -
Stop all'uso del fax nella Pubblica amministrazione. L'ESAME AL SENATO/ Accantonato l'emendamento dell'esecutivo
sugli stipendi dei manager. Sospesi i pagamenti dei canoni
per concessioni demaniali.
Governo
battuto a sorpresa sulla modifica della sagoma degli edifici
nei casi di demolizione e ricostruzione. Venerdì notte è
stato approvato dalle commissioni Bilancio e Affari
costituzionali un emendamento della senatrice Pd Lucrezia
Ricchiuto che cancella una delle semplificazioni-chiave del
decreto legge del fare. Si torna all'antico: per ricostruire
un edifico cambiandone la sagoma sarà necessario il permesso
di costruire; l'intervento semplificato con Scia che il
decreto legge prevedeva e la Camera aveva approvato con
molta sofferenza salta. A votare l'emendamento il Pd e il Movimento Cinque stelle.
Chi pensa a un segnale politico al Governo e al Pdl è
confortato dal fatto che la presentatrice dell'emendamento è
una dei tre dissidenti del Pd che avevano votato la sfiducia
ad Angelino Alfano. Lo schiaffo delle commissioni è soprattutto al ministro
delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, che alla Camera si era
battuto per far passare la norma. Dopo due giorni di
scontro, ne era venuto fuori un compromesso con il pd
Morassut che prevedeva di salvare la semplificazione nei
centri storici, a condizione che il comune deliberasse
esplicitamente le zone in cui questo era possibile.
Compromesso azzerato ieri.
La norma è molto complessa. In sostanza il Dl spostava dalla
categoria «ristrutturazione urbanistica» a quella
«manutenzione straordinaria» l'intervento di demolizione e
ricostruzione con modifica della sagoma. Prima del Dl era
compresa nella «manutenzione straordinaria» -e così
torna a essere con la conversione del decreto- la
demolizione e ricostruzione con volumetrie e sagoma
invariate, mentre apparteneva alla categoria della «ristrutturazione
urbanistica» la demolizione e ricostruzione in cui uno
di questi due elementi (volume e sagoma) fosse modificato.
La norma azzerata consentiva di mutare sagoma restando nella
«manutenzione straordinaria». La differenza sul piano pratico non è di poco conto (anche
se bisognerà valutare le incongruenze che restano nel
decreto per la permanenza di alcune norme accessorie). Per
la «ristrutturazione urbanistica» occorre -secondo il
TU dell'edilizia e gran parte delle leggi regionali- il
rilascio da parte del comune del permesso di costruire. Per
la «manutenzione straordinaria» si può invece
procedere con Scia (segnalazione certificata di inizio
attività), avviando i lavori 60 giorni dopo aver presentato
domanda. Nella seduta notturna di venerdì le commissioni hanno
approvato anche modifiche su imprese e Pubblica
amministrazione. L'esame riprenderà domani mattina con
l'obiettivo di un rapido via libera, perché il testo è
atteso in Aula nel pomeriggio. Da segnalare l'accantonamento
di diversi temi caldi, a partire dall'emendamento del
governo sul tetto agli stipendi dei manager sul quale manca
l'accordo nella maggioranza. Accantonato anche l'emendamento
per le agevolazioni fiscali alle tv locali. Approvata invece l'estensione della nuova legge Sabatini.
Anche gli investimenti in hardware, in software e in
tecnologie digitali saranno inclusi tra i beni per i quali
le Pmi possono usufruire del credito agevolato nell'ambito
di un plafond di 2,5 miliardi anticipati dalla Cassa
depositi e prestiti alle banche. Novità rilevanti anche sul
Fondo di garanzia per il credito. Viene ripristinata la
riserva del 30% delle risorse per operazioni di
contro-garanzia dei Confidi. Passa poi il compromesso sulla
quota da riservare a interventi di taglia inferiore (non
oltre 500mila euro d'importo garantito per impresa): la
riserva viene ripristinata, ma scende dall'80 al 50%.
Stop all'uso dei fax nella Pa.
Un emendamento di Lega e Pd dispone che le comunicazioni
dovranno avvenire per via telematica ed «è in ogni caso
esclusa la trasmissione di documenti a mezzo fax». Un
emendamento di analogo contenuto era già stato proposto alla
Camera ma era poi sfumato per il parere contrario del
governo rappresentato dal sottosegretario allo Sviluppo
Claudio De Vincenti. Vengono sospesi, fino al 15 settembre, i pagamenti dei
canoni per le concessioni demaniali per le spiagge, anche se
sono «stati iscritti al ruolo esattoriale e siano state
emesse le cartelle». Nasce inoltre il dossier
farmaceutico all'interno del fascicolo sanitario
elettronico, a cura del farmacista che dispensa i
medicinali. Con una modifica applicativa al bonus fiscale
per i gestori di carburanti, si sblocca la liberalizzazione
della rete permettendo la definizione di forme contrattuali
sostitutive rispetto al contratto di fornitura standard. Scattano deroghe alla
spending review nella Pa sugli
acquisti di mobili e arredi nel caso di spese destinate «all'uso
scolastico e dei servizi all'infanzia». Poteri da
commissario per i sindaci nella gestione dei fondi per la
messa in sicurezza delle scuole
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Ape, ok solo su nuove locazioni. Certificato non necessario
in caso di rinnovi contrattuali. Le linee guida del notariato sull'obbligo dell'Attestazione
di prestazione energetica.
L'obbligo di presentare l'Attestazione di prestazione
energetica (Ape) vale solo per i nuovi contratti di
locazione. La previsione, contenuta nel dl 63/2013, non si
applica, infatti, ai contratti di locazione, leasing e
affitto d'azienda che devono essere oggetto solo di rinnovo.
L'obbligo di presentazione dell'Ape è, inoltre, previsto per
i contratti di compravendita, o meglio per tutti quei
contratti che immettono nel mercato immobiliare edifici che
comportano un consumo energetico.
Questo è quanto emerge
dalle
prime note interpretative fornite dal Consiglio
nazionale del notariato, in seguito alle modifiche che il
decreto ecobonus ha apportato all'art. 6, comma 3-bis del
dlgs 192/2005, recante norme per l'attuazione della
direttiva 2002/91/Ce, relativa al rendimento energetico
nell'edilizia. La norma, così come modificata, prevede la
sanzione della nullità assoluta del contratto di
compravendita o locazione, nel caso in cui, al momento della
stipula, l'Ape non sia allegata. Gli oneri in caso di locazione. Il dl 63/2013, la cui legge
di conversione, licenziata giovedì dalla camera, sarà
pubblicata oggi in Gazzetta Ufficiale, ha stabilito che in
caso di stipula di un contratto di locazione è necessaria, a
pena di nullità assoluta del contratto, l'allegazione
dell'Attestato di prestazione energetica. La norma però, si
limita genericamente a parlare di locazione, senza entrare
troppo nel dettaglio. Dalle linee guida dettate dal
Consiglio nazionale emerge, però, che la norma non deve
essere applicata tout court a ogni tipo di contratto di
locazione, ma solo a quelli nuovi. Il dlgs 192/2005, recante
norme per l'attuazione della direttiva 2002/91/Ce relativa
al rendimento energetico nell'edilizia stabilisce, infatti,
che «l'Ape deve essere rilasciato solo per unità immobiliari
costruite, vendute o locate a un nuovo locatario». Diretta
conseguenza di questa previsione, l'applicazione
dell'obbligo di presentazione dell'Ape, sempre a pena di
nullità, anche per la stipula di contratti di leasing
(aventi a oggetto un edificio comportante consumo
energetico) e la stipula di contratti d'affitto d'azienda
(avente per oggetto un edificio comportante consumo
energetico). Il tutto, fermo restando la regola del nuovo
contratto. Atti traslativi.
Non meno complessa la questione relativa ai contratti di
compravendita. La norma, infatti, stabilisce che l'attestato
di prestazione energetica debba essere allegato al contratto
di vendita e a tutti gli atti a titolo gratuito, lasciando
in questo modo il dubbio circa gli adempimenti in caso di
atti a titolo oneroso. Proprio a sviscerare questo dubbio è
intervenuto il Consiglio nazionale del notariato. «Una
limitazione dell'applicabilità della nuova disciplina al
solo atto di vendita», si legge nelle linee guida dei notai,
«apparirebbe poco coerente con quelli che sono gli scopi che
si intendono perseguire, ragion per cui, in prima battuta,
se ne deve ammettere l'applicazione all'atto di permuta».
Non è, però, finita qui. Nelle linee guida è, infatti,
specificato che «ritenendo opportuno adottare
un'interpretazione estensiva della norma per quanto riguarda
gli altri atti traslativi a titolo oneroso, si dovrà
ritenere plausibile la sussistenza dell'obbligo di
allegazione, in occasione della stipula di tutti quei
contratti che comportino l'immissione nel mercato
immobiliare e la successiva commercializzazione, di edifici
con un consumo energetico». La conseguenza. Se, da un lato,
l'art. 6, comma 3-bis, stabilisce l'obbligo di allegazione
dell'Ape a pena di nullità del contratto, non viene però
precisato di che tipo di nullità si tratta. A questo
proposito, i notai hanno fatto presente come, il tipo di
nullità in questione sia da intendersi in senso assoluto.
«Diretta conseguenza della scelta operata dal legislatore»,
hanno spiegato i notai, «è il fatto che la nullità, non solo
può essere fatta valere da chiunque ed essere rilevata
d'ufficio dal giudice, ma anche che, l'azione per far
dichiarare la nullità non è, quindi, soggetta a prescrizione
e il contratto nullo, non può essere convalidato»
(articolo ItaliaOggi del 03.08.2013). |
APPALTI:
Dl fare, Durt verso la cancellazione. Manager, tetto agli
stipendi a due vie. Si va verso la cancellazione al senato del Durt, il
documento unico di regolarità tributaria introdotto nel dl
fare alla camera.
La conferma è arrivata da uno dei relatori
al decreto, il senatore Paolo Guerrieri Paleotti (Pd). «Il
governo», ha affermato, «dovrà prendere atto che l'intero
arco di forze politiche ritiene che questo emendamento, non
per gli obiettivi ma per il modo in cui li persegue, vada
cancellato. Non si può, per un provvedimento che si prefigge
di semplificare la vita degli imprenditori, complicargliela
ulteriormente». Per il tetto ai compensi dei manager pubblici arriva un
sistema differenziato per le società non quotate controllate
da società con titoli quotati rispetto a quelle controllate
da società emittenti altri strumenti finanziari. Lo prevede un emendamento del governo depositato nelle
commissioni affari costituzionali e bilancio di palazzo
Madama, che corregge una disposizione introdotta dalla
camera. La norma prevede che il tetto ai compensi dei
manager non si applica soltanto alle società controllate da
capogruppo con titoli azionari quotati. Il relatore ha
spiegato che si sta lavorando anche sul tema della base
degli operatori che hanno accesso alle garanzie per il
credito. In particolare sulla possibilità che la base sia
ulteriormente allargata ad altri comparti, come per esempio
quelli dell'agricoltura, della pesca e piccole imprese.
Altro tema importante riguarda le agevolazioni per chi
acquista beni strumentali tra cui potrebbero rientrare anche
beni non tangibili come il software
(articolo ItaliaOggi del 03.08.2013). |
APPALTI:
Appalti, diventa obbligatoria l'anticipazione del 10%. FONDI UE AL PIANO CITTÀ/ Sarà la Conferenza delle Regioni a
definire una lista di progetti urbani cui si potranno
destinare i fondi comunitari a rischio spesa. Torna nella notte al Senato, in commissione Bilancio, la
discussione sull'anticipazione del 10% per gli appalti di
lavori pubblici. La Camera l'aveva reintrodotta, eliminando
il divieto imposto fin dalla legge Merloni ma lasciando al
tempo stesso alle amministrazioni appaltanti la scelta
discrezionale di applicarla o meno. Ora a Palazzo Madama si
affaccia un emendamento, concordato dai relatori con i
gruppi di maggioranza e il Governo, che esclude la
facoltatività per passare invece a un regime obbligatorio.
Nel testo le parole «è possibile» vengono sostituite con le
parole «è prevista» e, quel che è più rilevante, viene
soppressa la condizione introdotta dalla Camera che
l'anticipazione si sarebbe pagata «purché la stessa sia già
prevista e pubblicizzata nella gara di appalto».
L'amministrazione non potrebbe più aggirare ora l'istituto
reintrodotto limitandosi a non segnalarlo nel bando di gara. L'emendamento possiede anche il timbro esplicito della
Ragioneria generale che aveva una perplessità specifica per
gli appalti di durata pluriennale. In passato,
l'anticipazione data dall'amministrazione pubblica
all'impresa per avviare il cantiere veniva poi riassorbita
nell'arco dei pagamenti dei primi due anni. La Ragioneria
generale temeva che l'anticipazione potesse comportare anche
una maggiore erogazione di cassa nell'anno in corso rispetto
alle previsioni di spesa. Per questo ha preteso
l'inserimento nel testo di un paletto che mette al riparo da
questo rischio. «Nel caso di contratti di appalto relativi a
lavori di durata pluriennale -afferma l'emendamento-
l'anticipazione va compensata fino alla concorrenza
dell'importo sui pagamenti effettuati nel corso del primo
anno contabile». Il problema sollevato potrebbe riproporsi qualora il
contratto di appalto fosse sottoscritto nell'ultimo
trimestre dell'anno. In questo caso -afferma un comma
ulteriormente aggiunto alla disposizione- «l'anticipazione
è effettuata nel primo mese dell'anno successivo ed è
compensata nel corso del medesimo anno contabile». Una
posizione più rigida di quella presente in tutti gli
emendamenti di origine parlamentare che ammettevano il
pagamento nell'ultimo trimestre dell'anno ma solo fino a un
importo di 90,8 milioni. La cifra corrisponde alle risorse
previste nella legge di stabilità 2013 per l'allentamento
del patto di stabilità interno, ma non utilizzate dalle
Regioni entro la data del 30.06.2013. Su un altro emendamento in materia di infrastrutture si
registra una larga convergenza tra forze politiche di
maggioranza, relatori e Governo. È la modifica all'articolo
9 che prevede la destinazione ai progetti del «piano città»
non ancora finanziati dei fondi Ue a rischio di spesa nella
fase finale della programmazione 2007-2013. Nel testo della
Camera si prevedevano «accordi diretti» fra le «autorità di
gestione dei programmi operativi» e i singoli comuni,
scavalcando di fatto le Regioni e senza una priorità chiara
fra i progetti. Ora verrebbe reintrodotto il livello
regionale: sarà la Conferenza delle regioni a stilare, entro
90 giorni, una lista di possibili interventi dotati delle
caratteristiche tecnico-finanziarie di ammissibilità (articolo Il Sole 24 Ore del 03.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Immobili. Il Governo correggerà il Dl Ecobonus che inficia i
trasferimenti senza documento ma l'intervento non sarà
immediato. Attestati energetici, nodo nullità. Il sottosegretario Vicari: «In ogni caso servono meccanismi
di controllo sostitutivi» I TEMPI/ Quasi impraticabile la strada di un ritocco nel Dl
del Fare Forse l'intervento con il Dl del Fare 2.
Il Governo intende rimettere mano alla normativa sul nuovo
attestato di prestazione energetica (Ape) contenuta nel
decreto ecobonus (Dl 63/2013) convertito in legge giovedì
scorso. L'obiettivo è quello di eliminare la sanzione della
nullità assoluta degli atti di trasferimento di immobili a
cui non sia stato allegato il documento, ma in alternativa
si dovrà prevedere un meccanismo in grado di garantire la
verifica dell'esistenza dell'Ape al momento della stipula.
Come conseguenza, è difficile che sia presentato un
emendamento sul punto nel Dl del fare oggetto di discussione
in Aula in questi giorni, come emerso in un primo momento,
mentre più probabile potrebbe essere il suo inserimento in
un decreto del fare 2 se verrà messo in cantiere, come
sembra, l'8 o il 26 agosto prossimi. Il problema nasce dall'inserimento del comma 3-bis
all'articolo 6 del Dl 63/2013 nel testo convertito in legge.
In esso si è stabilito che l'Ape, destinato a sostituire il
vecchio Ace (attestato di certificazione energetica), «deve
essere allegato al contratto di vendita, agli atti di
trasferimento di immobili a titolo gratuito o ai nuovi
contratti di locazione, a pena di nullità degli stessi». «Questa norma –ha sottolineato ieri Simona Vicari,
sottosegretario al ministero dello Sviluppo economico–
nasce alla luce della reiterata mancata applicazione delle
prescrizioni della Commissione europea in tema di efficienza
energetica in edilizia da parte dell'Italia, che ci aveva
portato a una procedura d'infrazione e a una condanna della
Corte di giustizia europea. Era quindi necessario agire per
evitare pesanti sanzioni economiche all'Italia». Il Governo, come anticipato, è disponibile a rivedere quanto
stabilito dalla nuova legge in riferimento alla nullità dei
contratti, ha confermato Vicari, «ma deve essere chiaro che
sarà necessario prevedere dei meccanismi che consentano di
verificare l'esistenza di tale documentazione all'atto della
stipula di un contratto o di una compravendita. In pratica,
le modifiche che potranno essere apportate dovranno comunque
garantire una piena conoscenza e conoscibilità dell'Ape.
Questo ce lo chiede la Ue e a questo obbligo comunitario
dobbiamo necessariamente attenerci». Prima di conoscere le intenzioni del Governo, la previsione
di nullità assoluta dell'atto per il quale non si fosse
adempiuto all'obbligo di allegazione dell'Ape aveva
allarmato per motivi diversi sia il Consiglio nazionale del
notariato, sia Confedilizia, anche perché destinato a
scavare un solco rispetto alla prassi precedente. Se nel
testo originario del Dlgs 192/2005 la presenza dell'Aqe (poi
Ace) era stata prescritta a pena di nullità, il Dl 112/2008
aveva però poi soppresso la sanzione e l'obbligo di
"dotazione" era stato da allora interpretato come norma
derogabile. Un'offerta di collaborare al restyling della norma è giunta
ieri dagli stessi notai, da cui sono arrivate anche le prime
note interpretative (si legga anche l'articolo più in
basso). «Il notariato –ha detto il consigliere nazionale
Domenico Cambareri– è ben consapevole degli interessi
generali, ribaditi dalla Ue e stabiliti con il Protocollo di
Kyoto, che possono essere perseguiti anche con l'obbligo di
allegazione dell'Ape. In particolare, l'allegazione all'atto
notarile dà maggiore certezza alla documentazione energetica
e la rende immediatamente conoscibile nella fase della
successiva circolazione del bene. Il notariato è disponibile
a collaborare con il Governo per trovare possibili soluzioni
volte a migliorare l'attuale disciplina, senza tradire lo
spirito delle norme imposte a livello europeo». «Siamo grati al Senato e al Governo per la pronta percezione
della gravosità di una previsione che non solo avrebbe
imposto obblighi cartacei e burocratici di nessun giovamento
–ha sottolineato a sua volta il presidente della Confedilizia, Corrado Sforza Fogliani– ma avrebbe peraltro
dato un segnale di estrema pericolosità ai mercati della
compravendita e, in particolare, della locazione, che già
fortemente languono». ---------------
L'interpretazione. Il vincolo vale per donazioni, permute,
conferimenti, rendite vitalizie. Obbligo per tutti gli atti traslativi. OLTRE IL FEDERALISMO/ Le regole regionali in fuorigioco
poiché la disciplina contrattuale costituisce esclusiva
dello Stato.
Nullità per i contratti di «vendita», per gli «atti di
trasferimento di immobili a titolo gratuito» e per i «nuovi
contratti di locazione» se l'attestato di prestazione
energetica (Ape) non sia «allegato al contratto»: è questa
la novità, dirompente, della legge di conversione del Dl
63/2013, in tema di prestazione energetica nell'edilizia (il
cosiddetto dl "ecobonus"), la quale introduce, con tale
tenore letterale, il nuovo comma 3-bis all'articolo 6 del
decreto legislativo. 192/2005. La novità è dirompente perché dispone una sanzione
civilistica gravissima, quando invece l'introduzione, con il
Dl 63/2013, di un largo panorama di notevoli sanzioni
pecuniarie, aveva fatto credere che, sul discorso
sanzionatorio in tema di Ace/Ape fosse stata posta la parola
fine. La norma finirà inevitabilmente per porre seri
ostacoli alla contrattazione immobiliare, almeno per qualche
tempo (e cioè fino a che gli operatori non avranno preso
dimestichezza con questa complicata materia). I temi che la norma solleva sono molteplici e, in taluni
casi, niente affatto semplici. Anzitutto, va notato che la
nuova disciplina ha un ampio spettro applicativo: essa si
occupa infatti di qualsiasi contratto di «vendita» (e quindi
anche i contratti che abbiano a oggetto solo quote di
comproprietà oppure diritti reali parziari), di qualsiasi
atto «a titolo gratuito» (e quindi, ad esempio, di
donazioni, di patti di famiglia e di trust traslativi) e di
qualsiasi nuovo contratto di locazione. Quanto ai contratti traslativi a titolo oneroso, ci sarà da
verificare se la nuova norma riguardi le sole compravendite,
come il suo dato testuale farebbe pensare, oppure se essa
concerna qualsiasi tipologia di atto traslativo: permute,
conferimenti in società, transazioni, rendite vitalizie
eccetera. Su questo punto c'è da dire, da un lato, che
finora l'interpretazione della normativa sull'Ace/Ape era
stata largheggiante e che, in tal senso, farebbe deporre
l'ampio spettro della nuova norma quando essa concerne gli
«atti di trasferimento di immobili a titolo gratuito»;
d'altro lato, essendo invece oggi disposta la sanzione di
nullità, si potrebbe pensare a una interpretazione più
rigorosa, perché, quando si parla di sanzioni, specie se
pesanti, per principio generale l'attività di
interpretazione si fa inevitabilmente restrittiva. Peraltro, è molto probabile che la soluzione in senso
estensivo sia destinata a prevalere, se è vero che, già
dalle primissime note interpretative del Consiglio nazionale
del Notariato, si propende nettamente per questa opinione;
in altri termini, solo le divisioni, in quanto negozi non
traslativi ma dichiarativi, si sottrarrebbero alla nuova
norma, la quale invece riguarderebbe dunque qualsiasi
tipologia di contratto a titolo oneroso che abbia come
effetto il trasferimento della proprietà o di diritti reali
immobiliari. Altro problema sarà quello di stabilire che valenza abbiano
le norme regionali emanate in materia di Ace/Ape con
riguardo all'attività negoziale. Essendo la materia
contrattuale sottratta per definizione al legislatore
regionale (articolo 117, comma 2, lettera l) della
Costituzione) ed essendo disposta una sanzione così grave
come la nullità ad opera della legge statale,
inevitabilmente ciò finisce per mettere fuori gioco
qualsiasi altra prescrizione di rango gerarchico inferiore. Il problema più imbarazzante sarà senz'altro quello che la
mancanza del certificato è destinata, quasi inevitabilmente,
a essere parificata a un certificato irregolare o difettoso
e, insomma, non redatto come vorrebbe la disciplina
applicabile. Tra l'altro, non sarà facile controllare la
congruenza dei singoli certificati, spesso redatti in base a
prassi localistiche e quindi privi di uniformità. Ancora, si tratta di capire se, nelle Regioni che abbiano
legiferato in tema di Ace, si possa ancora o non si possa
più allegare l'Ace al posto dell'Ape (e, almeno, gli Ace
emanati prima del 6 giugno). La risposta pare essere
positiva, come confermato dalle
prime note interpretative
diramate dal consiglio nazionale del Notariato
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.08.2013). |
VARI: In
Gazzetta. Oggi la pubblicazione.
Per mobili e lavatrici il bonifico «parlante» è valido dal 6
giugno. LA PRECISAZIONE/ La causale del versamento deve indicare
alla banca la necessità di effettuare la ritenuta del 4% nei
confronti del beneficiario.
Da domani, dovrebbero essere possibili, per le persone
fisiche, i pagamenti agevolati al 50% per l'acquisto dei
grandi elettrodomestici e al 65% per i condizionatori (anche
estivi, ma con pompa di calore efficiente), degli scaldacqua
verdi, degli impianti geotermici a bassa entalpia o per
l'adozione di misure antisismiche.
È questa la conseguenza
della probabile pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale» di
oggi della legge che ha convertito il decreto ecobonus.
Queste agevolazioni, infatti, non erano presenti
nell'originario decreto legge 04.06.2013, n. 63. Circa la
durata del bonus per mobili e grandi elettrodomestici la
conversione in legge non ha posto alcun limite finale,
rendendo ora difficile un'interpretazione che limiti
l'incentivo al 31.12.2013. Ciò nonostante, si
consiglia di effettuare i pagamenti entro l'anno (principio
di cassa). Tranne che per le misure antisismiche, per tutti gli altri
interventi sembra probabile, però, che prevalga la
retroattività al 06.06.2013 delle modifiche introdotte,
la quale consentirebbe di considerare validi, ai fini della
detrazione fiscale, anche tutti i pagamenti effettuati dai
privati da questa data in poi, tramite bonifico parlante. La causale del versamento può essere anche descrittiva (ad
esempio, «detrazione del 50% per le spese di manutenzione
straordinaria»), se consente all'istituto bancario o
postale, che accredita l'importo sul conto corrente del
beneficiario, di capire che deve trattenere la ritenuta
d'acconto del 4 per cento. Ma se chi accredita il bonifico
all'impresa, non trattiene la ritenuta d'acconto del 4%,
questa omissione è imputabile al contribuente, se ha
«compilato il bonifico in modo tale da non permettere alla
banca di codificare il versamento come soggetto alla
ritenuta d'acconto» (risoluzione Dre Piemonte 901-184/2013, protocollo 2013/41381).
Se la fonte normativa viene
inserita, deve essere quella corretta: quindi, per il 36-50%
(65% per le misure antisismiche) va indicato l'articolo
16-bis, Dpr 22.12.1986, n. 917 (anche Dpr 917/1986 o
Tuir), mentre per il 55-65% l'articolo 1, commi da 344 a
347, legge 27.12.2006, n. 296 (anche legge 296/2006 o
Finanziaria 2007). La detrazione Irpef del 36% (50% per i pagamenti effettuati
dal 26.06.2012 al 31.12.2013) è rivolta alle
persone fisiche, imprese, professionisti e società di
persone e agevola le manutenzioni (ordinarie, solo per le
parti comuni condominiali), le ristrutturazioni edilizie e i
restauri e risanamenti conservativi. Agli stessi soggetti è
rivolta la detrazione Irpef del 50% per i mobili e i grandi
elettrodomestici di classe non inferiore alla A+, nonché A
per i forni. Il bonus del 65% per le misure antisismiche
(costruzioni adibite ad abitazione principale o ad attività
produttive) è rivolta a tutti i contribuenti e dovrà essere
chiarito se si dovranno applicare le regole del 36-50% o del
55-65% (ad esempio, principio di competenza per i soggetti
Ires e invio della scheda tecnica all'Enea). La detrazione Irpef ed Ires del 55% (65% per i pagamenti dal
06.06.2013 al 31.12.2013), infine, si applica a
tutti i contribuenti per i pannelli solari termici (non
fotovoltaici), impianti di climatizzazione invernale,
condizionatori (anche estivi, ma con pompa di calore
efficiente), scaldacqua verdi, impianti geotermici a bassa entalpia,
pareti isolanti, coperture, pavimenti, finestre e
riqualificazione energetica generale degli edifici
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Ecobonus, l'Ape è obbligatoria.
Senza il certificato nulli i contratti di vendita e
locazione. Il decreto energia
convertito in legge impone l'Attestazione di prestazione
energetica. Il decreto energia (63/2013) è legge. Con 249 voti
favorevoli e 2 contrari, ieri l'Aula di palazzo Madama ha
dato il via libera alla versione del testo uscita pochi
giorni fa da Montecitorio. Rispettata, quindi, sul filo del
rasoio, la scadenza del 4 agosto (si veda ItaliaOggi del 31
luglio). Resta ancora aperta, però, la questione relativa
all'obbligatorietà dell'Attestato di prestazione energetica,
a pena di nullità del contratto, in caso di compravendite di
immobili e locazioni. «La previsione è stata introdotta
durante la seconda lettura alla Camera», ha spiegato a ItaliaOggi il presidente della Commissione finanze del
Senato, Mauro Maria Marino, «senza considerare gli effetti
che una norma di questo tipo potrebbe avere soprattutto sul
mercato delle locazioni, già in forte crisi».
La soluzione. Con l'obiettivo di limitare quanto più
possibile i danni, senza far saltare la conversione del
decreto, è arrivata la soluzione della Commissione finanze
del Senato. «Abbiamo deciso di inserire all'interno del
decreto del fare, un emendamento ad hoc», ha dichiarato
Marino, «in modo da eliminare la previsione inserita alla
Camera, limitandone gli effetti quanto più possibile. Siamo
rammaricati del fatto che, però, intercorrerà comunque un
lasso di tempo fisiologico prima che il decreto del fare
arrivi in Gazzetta Ufficiale, durante il quale non avremo
nessun potere sui danni che la vigenza norma in questione
potrà causare». Ecobonus 65%. Il decreto, così come è stato approvato,
prevede la possibilità per i privati che intendano
effettuare un intervento di riqualificazione energetica,
compresa la sostituzione delle caldaie e l'installazione
delle pompe di calore, di portare in detrazione dall'Irpef
il 65% della spesa sostenuta. Il tutto, tramite una rata
l'anno per dieci anni. Ad essere ricompresi all'interno
dell'ecobonus sono anche i lavori di rimozione dell'amianto
dagli edifici, i lavori di adeguamento antisismico, sia per
le abitazioni principali sia per le imprese, nelle zone più
a rischio e i lavori di depurazione delle acque contaminate
da arsenico. Bonus 50%. Sarà possibile detrarre dall'Irpef, con una rata
l'anno per dieci anni, il 50% delle spese sostenute sia, per
effettuare interventi di ristrutturazione, entro il tetto
dei 96 mila euro, sia per l'acquisto di mobili e grandi
elettrodomestici (entro il tetto dei 10 mila euro),
destinati all'arredamento di immobili ristrutturati. Confermato, poi, anche l'emendamento votato all'unanimità
alla Camera che impegna il governo a garantire gli incentivi
(non necessariamente con le aliquote attuali del 65%) agli
interventi di consolidamento antisismico del patrimonio
edilizio esistente, rendendo obbligatoria la certificazione
antisismica degli edifici pubblici e privati e i relativi
controlli strutturali periodici, e a rivedere i vincoli del
Patto di stabilità, per consentire agli enti locali che
abbiano risorse da investire, di realizzare interventi di
manutenzione e messa in sicurezza del territorio, di
riduzione del rischio idrogeologico. Iva. Nessuna modifica nemmeno sul fronte Iva. Confermata
quindi l'aliquota agevolata al 4% per l'editoria scolastica,
così come l'aumento al 10% per i prodotti dei distributori
automatici e l'approdo all'aliquota ordinaria del 21% per i
gadget editoriali. Le reazioni. «Il provvedimento ha una notevole importanza e
produrrà sicuramente effetti positivi sull'economia», ha
dichiarato il sottosegretario allo sviluppo economico,
Simona Vicari. Soddisfatto, inoltre, del risultato anche
Gianpiero Dalla Zuanna (Sc), secondo cui «il
provvedimento è un primo passo importante, ora dobbiamo
lavorare per rendere strutturali gli ecoincentivi»
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Conto termico, contratto tipo per avere gli incentivi. Definito il contratto tipo per usufruire degli incentivi del
conto termico per gli interventi di piccole dimensioni per
l'incremento dell'efficienza energetica e la produzione di
energia termica da fonti rinnovabili.
È con la delibera
25.07.2012 338/2013/R/Fer che l'Autorità per l'energia
elettrica e il gas ha fornito la definizione di contratto
tipo per accedere agli incentivi previsti dal decreto
interministeriale del 28/12/2012. Il contratto disciplina il
rapporto tra il gestore dei servizi energetici, in qualità
di soggetto attuatore del decreto, che deve verificare il
rispetto dei requisiti per l'accesso agli incentivi, e il
soggetto responsabile, cioè chi fa domanda per gli
incentivi. Il soggetto responsabile può essere di sei tipi:
pubblica amministrazione, persona fisica, persona fisica
nata all'estero, persona fisica titolare di una ditta
individuale, persona fisica con partita Iva e persona
giuridica. Il soggetto responsabile deve usare solo le
applicazioni informatiche predisposte dal Gse e comunicare
eventuali variazioni solo attraverso il portale informatico
dedicato. Allo stesso tempo, il Gse è responsabile del
monitoraggio del processo di assegnazione degli incentivi,
dell'erogazione e dell'eventuale revoca. Il soggetto
responsabile può cedere il credito dell'incentivo secondo le
condizioni stabilite dal Gse per minimizzare i costi delle
procedure di gestione. Sull'ammontare dell'incentivo, che
deve essere riportato in una tabella riepilogativa, il Gse
può trattenere fino a 150 euro come copertura delle attività
svolte. La prima rata viene erogata l'ultimo giorno del mese
successivo a quello della fine del semestre in cui ricade la
data di attivazione del contratto. Le altre rate avranno
cadenza annuale. Se l'importo dell'incentivo non supera i
600 euro, la somma viene erogata in un'unica rata. Nei casi
di ritardo nei pagamenti vengono riconosciuti gli interessi
moratori. Il Gse cura l'effettuazione dei controlli mediante
verifiche documentali e controlli in sito , direttamente o
tramite terzi, al fine di accertare la veridicità delle
informazioni e dei dati trasmessi
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La multa va in pensione.
Ai fondi integrativi parte delle contravvenzioni.
Le indicazioni Covip sulla destinazione. Quota decisa dai
comuni.
L'autovelox sovvenziona la pensione di scorta ai vigili
urbani. Parte delle multe stradali, infatti, può essere
destinata al fondo pensione, anche aperto, a cui aderisce il
personale di polizia municipale e provinciale. Spetta
all'ente locale, comune o provincia, fissare ogni anno
l'ammontare di multe da destinarvi. Se il fondo scelto è
quello aperto l'adesione è individuale senza possibilità,
pertanto, di scontare le spese e senza facoltà di riscatto
agli iscritti.
Lo precisa la Covip, con parere conforme
della funzione pubblica. Due interrogativi. Due le questioni entrambe sull'adesione a
fondi pensione aperti del personale di polizia municipale e
provinciale con destinazione delle sanzioni per violazioni
del codice della strada (ex art. 208 del codice), ossia se
sia possibile: • applicare le riduzioni alle spese di partecipazione al
fondo (ex art. 8, comma 2, dello schema di regolamento dei
fondi pensione aperti); • riconoscere la facoltà di riscatto per «altre cause» (ex
art. 14, comma 5, del dlgs n. 252/2005). La Covip ha rappresentato le questioni al ministero del
lavoro e all'Inps, ricevendo riscontro dalla funzione
pubblica. Cosa dice la funzione pubblica. La funzione pubblica spiega
che l'istituzione di forme pensionistiche complementari
collettive per i dipendenti pubblici contrattualizzati, qual
è il personale di polizia, spetta solo alla contrattazione
nazionale (che non si è ancora espressa). In attesa di tali
regole, che specificheranno le modalità di devoluzione delle
multe alla previdenza integrativa, la funzione pubblica
ritiene che spetti a ogni ente locale fissare, ogni anno, il
quantum da destinare alle diverse finalità (ex art. 208
codice della strada), tra cui quelle assistenziali e
previdenziali. Inoltre precisa che spetta all'organismo
sindacale istituito presso il singolo ente provvedere invece
alla finalizzazione e gestione delle quote destinate alle
predette finalità. I chiarimenti Covip. La Covip
precisa che le adesioni a fondi aperti da parte del
personale di polizia municipale o provinciale con la
destinazione delle multe (ex art. 208 codice della strada)
sono da assimilare a adesioni individuali, anche se
effettuate sulla base di convenzioni con i relativi enti di
appartenenza. Di conseguenza non possono trovare
applicazione le riduzioni alle spese di partecipazione, né
la facoltà di riscatto della posizione per «altre ragioni»
da parte degli iscritti, trattandosi in entrambi i casi di
situazioni la cui applicazione è limitata alle adesioni su
base collettiva
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2013). |
TRIBUTI: Tributi locali, vietato allargarsi.
I comuni non possono ampliare l'oggetto dei contratti.
La legge europea 2013 cancella la norma di favore
per i gestori dell'imposta sulla pubblicità.
I comuni non potranno più ampliare l'oggetto dei contratti
di affidamento del servizio di accertamento e riscossione
dell'imposta sulla pubblicità, assegnando ai concessionari
anche la riscossione di altre entrate comunali senza indire
nuove gare.
Lo vieta la legge europea 2013 approvata
mercoledì dall'aula della camera. Il ddl di 34 articoli pone
rimedio ai numerosi casi di non corretto recepimento della
normativa Ue nell'ordinamento italiano che hanno portato
all'avvio di 10 procedure di pre-infrazione e 19 procedure
di infrazione nei confronti del nostro paese. E tra i rilievi mossi alla legislazione italiana, Bruxelles
ha posto sotto la lente anche l'attività di riscossione
locale, un campo su cui da tempo l'Europa chiede una
maggiore apertura al mercato e alla concorrenza. La soppressione della norma (art. 10, comma 2, legge
n. 448/2001) si è resa necessaria a seguito di una specifica
richiesta di informazioni da parte della Commissione
europea, nell'ambito del caso Eu Pilot 3452/12/Markt.
Secondo la Commissione infatti tale fattispecie di
affidamento diretto, non rispettando il principio di libera
concorrenza, avrebbe potuto generare violazioni della
normativa europea sui contratti pubblici. In verità, fin dalla sua introduzione all'interno della
Finanziaria 2002 (legge 448/2001), l'art. 10, comma 2 (a sua
volta precisato e integrato dalla legge 75/2002) ha
rappresentato una norma molto controversa. A originarla fu
il tentativo dell'allora governo Berlusconi di compensare i
concessionari della pubblicità comunale della perdita di
introiti derivanti dall'abbattimento della soglia minima di
imposizione. In pratica, visto che cartelloni e insegne al
di sotto dei cinque metri quadri non erano più soggetti al
pagamento dell'Icp, i concessionari chiesero al governo di
poter estendere il proprio giro d'affari ad altre attività,
fino a mettere le mani su larghe fette della riscossione
locale, senza alcuna gara ad evidenza pubblica. E questo è
accaduto non solo nei piccoli comuni, ma anche in quelli
medio-grandi. Paradigmatico il caso di Brindisi dove Tributi
Italia, partendo dall'affidamento dell'accertamento e
riscossione dell'Icp, arrivò a gestire tutti i tributi
dell'ente. Per rimediare a queste storture, da più parti gli operatori
del settore chiesero una revisione della norma che limitasse
la quota di ulteriori tributi affidabile senza gara al solo
mancato guadagno sofferto dai concessionari per l'esenzione
delle insegne sotto i cinque metri quadri. Tra i più fermi
oppositori della norma si è distinta l'Anutel
(l'Associazione che raggruppa gli uffici tributi degli enti
locali) che oggi applaude alla decisione del governo Letta
di abrogarla all'interno della legge europea 2013. Nel provvedimento ha inoltre trovato posto un articolo che
consente ai familiari di cittadini dell'Unione europea, ai
soggiornanti di lungo periodo, ai rifugiati e ai titolari
dello status di protezione sussidiaria di poter accedere ai
ruoli della pubblica amministrazione. Anche in questo caso
le modifiche sono state originate da rilievi critici mossi
dalla Commissione europea (nell'ambito dei casi Eu Pilot
1769/11/Just e 2368/11/Home)
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Lotta all'evasione. Vigili in campo.
Anci: ma non sono poliziotti tributari. Gli operatori di polizia municipale che partecipano
all'attività di recupero dell'evasione fiscale non possono
fregiarsi della qualifica di polizia tributaria che è una
specialità propria della guardia di finanza. Le squadre
operative dei vigili urbani dedicate al recupero dei tributi
possono comunque denominarsi nuclei antievasione.
Lo ha
chiarito l'Anci con la circolare 26.07.2013 n. 163/sip/ar/mcc-13
di prot. La partecipazione dei comuni al contrasto
dell'evasione fiscale è ormai una pratica molto diffusa tra
i comandi di polizia locale che in alcune realtà hanno
costituito dei gruppi operativi specificamente dedicati a
questo tipo di attività, nello spirito di una normativa
sempre più rivolta all'estensione dei poteri di intervento
del controllo fiscale e tributario. L'autonomia
organizzativa dei comuni e dei singoli comandi di polizia
locale però non deve interferire con le competenze e le
attribuzioni della guardia di finanza. Per questo motivo,
specifica la nota dell'Associazione dei comuni, nella
denominazione dei gruppi di lavoro municipale deve essere
evitato l'utilizzo del termine polizia tributaria. Questa
denominazione è infatti una attribuzione tipica e specifica
solo della guardia di finanza. Le competenze dei militari
discendono infatti ancora dalla legge n. 4/1929 che
identifica gli incaricati all'accertamento dei reati
finanziari esclusivamente nel personale di polizia
tributaria. In buona sostanza solo gli ufficiali e gli
agenti di polizia tributaria possono accertare
ordinariamente qualsiasi tipo di violazione in materia
fiscale e tributaria. Solo il personale della guardia di
finanza quindi ha una competenza principale in questa
delicata materia. Tutta la restante attività di polizia e
degli organi pubblici in generale è subordinata a questa
specialità tanto è vero che con le modifiche innestate dal
dl 223/2006 all'art. 36 del dpr 600/1973 sono obbligati a
comunicare alla guardia di finanza tutti i soggetti pubblici
che nell'espletamento delle loro funzioni sono venuti a
conoscenza di violazioni di natura tributaria. Ai vigili di
finanza non resta quindi che fregiarsi del termine nuclei
antievasione
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Civit subissata di pareri? Il dl fare la alleggerisce. Troppe richieste di pareri sui temi anticorruzione alla
Civit? Rimedia il «decreto del fare», che nel testo
approvato alla Camera pensa bene di ridurre il carico di
lavoro della Commissione indipendente per la valutazione, la
trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche (Civit).
Eppure, la Civit, istituita dalla «legge Brunetta», il dlgs
150/2009, aveva fatto di tutto per rimediare a una carenza
di «status» che aveva sempre un po' sofferto: il non essere
stata qualificata, al momento della sua istituzione, come
«autorità». Ci aveva pensato a rimediare, in proposito,
proprio la legge «anticorruzione», che all'articolo 1, comma
2, dispone: «La Commissione per la valutazione, la
trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche,
di cui all'articolo 13 del decreto legislativo 27.10.2009, n. 150, e successive modificazioni, di seguito
denominata «Commissione», opera quale Autorità nazionale
anticorruzione, ai sensi del comma 1 del presente articolo».
Sull'entusiasmo della ritrovata qualificazione di
«autorità», la Civit era stata incaricata di esprimere
pareri facoltativi a tutte, ma proprio tutte, le
amministrazioni pubbliche su temi rilevanti, in merito alle
iniziative anti corruzione: la conformità di atti e
comportamenti dei funzionari pubblici alla legge, ai codici
di comportamento e ai contratti, collettivi e individuali,
regolanti il rapporto di lavoro pubblico. Evidentemente,
però, le amministrazioni pubbliche debbono aver preso molto
sul serio la funzione consultiva della Civit, subissandola
di richieste di pareri. Così c'ha pensato il decreto del
«fare» ad arginare le richieste delle amministrazioni
pubbliche. La Civit mantiene il ruolo di amministrazione
consultiva sui temi anti corruzione, ma non per tutti.
Esprimerà pareri facoltativi, ma solo agli organi dello
stato e alla Funzione pubblica. Tutte le altre
amministrazioni, dalle regioni agli enti locali, dalle
aziende sanitarie alle camere di commercio, non avranno più
la possibilità di rivolgersi direttamente all'autorità anti
corruzione. Lo stesso varrà per i pareri facoltativi
riguardanti le autorizzazioni ai dipendenti pubblici per lo
svolgimento di attività lavorativa o di collaborazione
presso altri soggetti pubblici o privati. Solo la Funzione
pubblica, invece, avrà la possibilità di rivolgersi alla Civit
perché si esprima sul possibile conflitto di interessi dei
dipendenti pubblici
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: La
correzione.
L'ipoteca dell'«Ape» sulla validità degli accordi. Torna inaspettatamente l'obbligo, per il proprietario, di
produrre l'Ape (attestato di prestazione energetica) a pena
di nullità per tutti i contratti di vendita, di donazione e
di locazione.
Il Senato ha infatti introdotto, all'articolo
6 del Dl 63, il comma 3-bis, che dice «L'attestato di
prestazione energetica deve essere allegato al contratto di
vendita, agli atti di trasferimento di immobili a titolo
gratuito o ai nuovi contratti di locazione, pena la nullità
degli stessi contratti». L'obbligo era già previsto comunque, al comma 1, dove più o
meno sono usate le stesse parole. Il nodo della questione,
però, non è nell'obbligatorietà della disposizione ma nella
sanzione della nullità. Per le locazioni si parla comunque
di «nuovi contratti», il che escluderebbe l'allegazione
dell'Ape in caso di semplice rinnovo di contratto già
esistente. A parte il caso degli immobili nuovi (che comunque dovevano
e devono avere l'Ape, in precedenza chiamato Ace e prima
ancora Aqe), la normativa vigente sino a ieri imponeva che,
se veniva trasferita una unità immobiliare non nuova, essa
doveva essere dotata del certificato energetico. Nel testo
originario del Dlgs 192/2005 la presenza dell'Aqe era
prescritta a pena di nullità, ma poi, con il Dl 112/2008
(articolo 35, comma 2-bis) la sanzione di nullità veniva
soppressa e l'obbligo di "dotazione" è stato da allora
interpretato come norma derogabile. In sostanza, i
contraenti potevano accordarsi che fosse l'acquirente a
farsi carico dell'obbligo di dotare di Ace-Ape l'immobile
acquistato. La nullità di fatto è una sanzione molto forte, perché
incidendo direttamente sull'esistenza delle pattuizioni può
avere un effetto devastante sugli effetti dei contratti
stipulati, anche dal punto di vista economico. Una vera
spada di Damocle sospesa sull'accordo tra le parti, il cui
filo potrebbe essere liberamente tagliato in qualunque
momento e da una qualunque delle parti
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Fisco
e immobili. Convertito il Dl 63/13: il beneficio del 65%
sino a fine anno esteso anche a condizionatori e pompe di
calore Ecobonus, sconto allargato.
Misure antisismiche detraibili al 65% - Senza attestato
energetico contratti nulli. NEI CONDOMINI/
Alla luce delle procedure di approvazione più complicate
ampliati i tempi per beneficiare dell'incentivo «verde».
Nell'ambito degli incentivi per il risparmio energetico,
ritornano detraibili al 65% da Irpef e Ires i
condizionatori, anche estivi, con pompa di calore
efficiente, gli impianti geotermici a bassa entalpia e
scaldacqua verdi. Per il bonus ristrutturazioni (agevolato
al 50% ancora sino a fine 2013), le misure antisismiche
saranno detraibili dall'Irpef al 65% sino a fine anno.
Torna, inoltre, l'allegazione obbligatoria dell'Ape
(attestato di prestazione energetica) per vendite, donazioni
o nuove locazioni. Sono queste le principali modifiche al decreto legge 63/2013
introdotte in sede di conversione in legge ed approvate ieri
in via definitiva dal Senato con 249 voti favorevoli, due
contrari e nessun astenuto. Per quanto concerne il risparmio energetico, la detrazione
Irpef ed Ires del 55% sugli interventi negli edifici, che
sarebbe scaduta il 30.06.2013, è stata prorogata
definitivamente dall'01.07.2013 al 31.12.2013,
aumentandone la detrazione dal 55% al 65% per le spese
sostenute (cioè, pagate per i privati) dal 06.06.2013 al
31.12.2013. Con la conversione in legge del Dl 63/2013, rientrano, poi,
a pieno titolo tra le spese sul risparmio energetico,
agevolabili al 65% fino al 31.12.2013, gli interventi
di «sostituzione di impianti di climatizzazione invernale
con pompe di calore ad alta efficienza e con impianti
geotermici a bassa entalpia» e di «sostituzione di
scaldacqua tradizionali con scaldacqua a pompa di calore
dedicati alla produzione di acqua calda sanitaria». Per la
data di entrata in vigore di questa modifica, valgono le
stesse considerazioni indicate per i grandi elettrodomestici
(si legga l'articolo a fianco). Considerando i tempi lunghi di approvazione dei lavori da
parte dei condòmini, essi avranno più tempo per beneficiare
della maxi-detrazione del 65% per i lavori verdi. In
particolare, per i pagamenti dal 06.06.2013 al 30 giugno
2014 si potrà beneficiare della detrazione del 65% per gli
interventi sul risparmio energetico «relativi a parti comuni
degli edifici condominiali di cui agli articoli 1117 e
1117-bis del Codice Civile» o che interessano «tutte le
unità immobiliari di cui si compone il singolo condominio».
Per le parti comuni, la detrazione del 65% spetta dall'anno
«di effettuazione del bonifico bancario da parte
dell'amministratore e nel limite delle rispettive quote
dello stesso imputate ai singoli condomini e da questi
ultimi effettivamente versate al condominio al momento della
presentazione della dichiarazione» dei redditi. Per gli
interventi che interessano «tutte le unità immobiliari di
cui si compone il singolo condominio», invece, solo se tutti
i condomini effettueranno le spese verdi, si potrà avere il
bonus per le spese sostenute dall'01.01.2014 al 30.06.2014 (dal
06.06.2013 al 31.12.2013, non
conviene utilizzare questa norma specifica, ma è preferibile
beneficiare del bonus per la singola unità immobiliare). Per gli interventi sul recupero del patrimonio edilizio
(manutenzioni, ristrutturazioni e restauro e risanamento
conservativo), l'aumento della detrazione Irpef dal 36% al
50% (con limite di spesa passato da 48.000 a 96.000 euro per
singola unità immobiliare), in vigore per i pagamenti
effettuati dal 26.06.2012, sarebbe scaduto lo scorso 30
giugno, ma l'articolo 16 del Dl 63/2013 l'ha prorogato fino
al 31.12.2013. Chi non è riuscito ad effettuare tutti
i pagamenti entro giugno 2013, quindi, avrà ancora qualche
mese per beneficiare del maxi-sconto fiscale del 50%, che da
gennaio 2014 ritornerà al 36 per cento. La detrazione tipica delle ristrutturazioni edilizie
(36-50%) è stata aumentata al 65% per i bonifici effettuati
dalla data di entrata in vigore della conversione in legge
del decreto e fino al 31.12.2013 per le spese
sostenute per gli interventi relativi all'adozione di misure
antisismiche, le cui procedure autorizzative saranno
attivate dopo l'entrata in vigore della legge di conversione
del decreto eco-bonus. Questi interventi potranno essere
eseguiti «su edifici ricadenti nelle zone sismiche ad alta
pericolosità (zone 1 e 2) di cui all'ordinanza del
presidente del Consiglio dei ministri 3274 del 20.03.2003» e dovranno essere riferiti «a costruzioni adibite ad
abitazione principale o ad attività produttive». Solo in
questi casi, potranno beneficiare della detrazione del 65%,
con un massimo della spesa agevolata di 96.000 euro per
unità immobiliare (articolo 16, comma 1-bis, Dl 63/2013). Negli altri casi, per le misure antisismiche senza questi
requisiti, si potrà beneficiare della classica detrazione
del 36%, aumentata al 50% per i pagamenti effettuati dal
26.06.2012 al 31.12.2013
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.08.2013). |
VARI: Arredamento.
Detrazione Irpef al 50%.
L'aiuto per i mobili copre anche i grandi elettrodomestici.
LA TEMPISTICA/
L'agevolazione per questi prodotti sarà operativa dopo la
pubblicazione della nuova legge in «Gazzetta Ufficiale».
Via libera all'acquisto agevolato per i grandi
elettrodomestici (frigoriferi, congelatori, lavatrici,
lavastoviglie), purché energeticamente efficienti e
utilizzati per arredare l'immobile ristrutturato. Con la conversione in legge del Dl 63/2013 è stata estesa ai
«grandi elettrodomestici di classe non inferiore alla A+,
nonché A per i forni», la nuova detrazione Irpef del 50% per
l'acquisto dei mobili, «finalizzati all'arredo dell'immobile
oggetto di ristrutturazione», la quale può essere anche una
manutenzione straordinaria o, ad esempio, un'opera volta ad
evitare gli infortuni domestici. Prima di pagare il mobile è necessario aver iniziato dei
lavori che consentiranno di fruire della detrazione del
36-50% (65% per le misure antisismiche), cioè dei lavori
indicati nell'articolo 16-bis, Tuir e soprattutto nelle
circolari delle Entrate sul tema. A differenza della vecchia
detrazione del 20% per l'acquisto di mobili,
elettrodomestici, tv e pc, pagati dal 07.02.2009 al 31.12.2009, per quella in vigore per i pagamenti dal
06.06.2013, gli interventi sulle parti comuni condominiali,
la realizzazione di autorimesse o posti auto pertinenziali e
l'acquisto di un'abitazione, facente parte di un fabbricato
interamente ristrutturato dall'impresa costruttrice, possono
essere considerati interventi che consentono la fruizione
della detrazione del 36-50-65%, al fine di poter acquistare,
successivamente, gli arredi, detraibili al 50 per cento. Per i mobili, l'articolo 16, comma 2, del Dl 63/2013 è in
vigore dallo scorso 06.06.2013 e non vi sono dubbi che
siano agevolati tutti i bonifici "parlanti" effettuati da
questa data in poi. Per i grandi elettrodomestici, invece,
oggi la norma non è in vigore, in quanto non ancora
pubblicata in Gazzetta Ufficiale. Dalla data successiva alla
pubblicazione, i bonifici, obbligatoriamente "parlanti" (si
usa sempre l'articolo 16-bis, Tuir), saranno sicuramente
agevolati. Anche se ad oggi non si segnalano molti acquisti
agevolati di elettrodomestici (perché non esisteva la
norma), va detto che questa novità potrebbe avere efficacia
retroattiva al 06.06.2013. La legge di conversione, oltre
ad aggiungere la categoria dei grandi elettrodomestici, ha
previsto, infatti, anche che siano agevolate le spese
«sostenute», cioè pagate, «dalla data di entrata in vigore
del presente decreto» (63/2013), cioè dal 06.06.2013.
Anche se, in generale, le modifiche apportate ad un decreto
legge in sede di conversione non sono retroattive (articolo
15, comma 15, Legge 400/1988), va considerato che la Corte
costituzionale, con la sentenza 51 del 22.02.1985
(confermata dalla 367 del 15.12.2010), ha affermato
che «nel caso di conversione con emendamenti, spetta
all'interprete» stabilire se la modifica possa avere anche
effetto ex tunc, cioè dall'entrata in vigore del Dl. Sarà
compito delle Entrate, quindi, confermare l'efficacia
retroattiva al 6 giugno 2013 dell'acquisto agevolato dei
grandi elettrodomestici. La precedente detrazione del 20% per l'acquisto di mobili,
elettrodomestici, tv e pc, concedeva il bonus solo se
venivano effettuati «interventi di recupero del patrimonio
edilizio effettuati su singole unità immobiliari
residenziali». Per questa ragione, quindi, la condizione
della ristrutturazione non era rispettata da chi detraeva il
36% per interventi su parti comuni condominiali, per la
realizzazione di autorimesse o posti auto pertinenziali e
per chi acquistava un'abitazione in un fabbricato
interamente ristrutturato dall'impresa costruttrice
(circolare 16.07.2009, n. 35/E, paragrafo 2). Ora il
requisito dei lavori su «unità immobiliari residenziali» non
è più richiesto ed è necessario beneficiare della detrazione
del 36% (50% per i lavori pagati dal 26.06.2012 al 31.12.2013) per qualsiasi intervento agevolato in base
all'articolo 16-bis, Tuir e soprattutto in base alle
circolari delle Entrate sul tema. Rilevano, quindi, anche le suddette spese (parti comuni, box
o abitazioni ristrutturate), ai fini del rispetto della
condizione che consente la fruizione del 50% sull'acquisto
dei mobili (comunque, "finalizzati all'arredo dell'immobile
oggetto di ristrutturazione"). Ad esempio, i condomini che
faranno interventi nelle parti comuni condominiali (ad
esempio, portineria, alloggio del portiere, lavanderia,
stenditoi ecc.), possono beneficiare del bonus anche per
l'acquisto dei mobili e degli elettrodomestici finalizzati
ad arredare questi spazi comuni (articolo Il Sole 24 Ore del 02.08.2013). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: «Pc» dei dipendenti inviolabili.
Il terminale contiene dati sensibili tutelati dalle regole
sulla privacy. Cassazione. Il datore
di lavoro non può esaminare il computer per accertare
violazioni disciplinari. L'INDICAZIONE/
La verifica «a strascico» travalica la proporzionalità fra
l'infrazione sospettata e la garanzia sulla riservatezza.
Il computer del dipendente non può essere "perquisito" dal
datore di lavoro per contestare una violazione disciplinare.
Il pc contiene infatti dati sensibili il cui tracciamento
viola la riservatezza del lavoratore e l'attività di
scandagliamento a strascico, inoltre, travalica la
«proporzionalità» che deve comunque essere rispettata tra
l'infrazione commessa e la tutela della privacy della
persona. Con una lunga motivazione la I Sez. civile della Corte di Cassazione
(sentenza 01.08.2013 n. 18443) ha respinto il ricorso
di una casa di cura siciliana contro l'addetto alla
accettazione della struttura. L'uomo, durante l'orario di
lavoro e dalla sua postazione, si collegava abitualmente
alla rete internet (attività peraltro non prevista per la
mansioni cui era applicato) visitando siti sindacali,
religiosi e anche pornografici. Tre ambiti, questi,
attinenti i diritti fondamentali della persona, e sui quali
il Garante della riservatezza –interpellato dall'impiegato
appena ricevuta la contestazione disciplinare– aveva
statuito la massima e doverosa tutela, almeno fino al
fondato sospetto di violazione di diritti costituzionali di
pari grado. L'Authority era stata tranciante circa il metodo risoluto
seguito della clinica, sia sul versante tecnico (accesso
diretto al pc del dipendente e copia della cartella di tutte
le operazioni registrate, invece di accedere dal back up)
sia sulla procedura. In particolare, secondo il Garante, il
lavoratore «non era stato previamente informato
dell'eventualità di tali controlli e del tipo di trattamento
che sarebbe stato effettuato», in violazione del Codice
della privacy, ma soprattutto il trattamento che era stato
fatto dell'enorme mole di file era andato ben oltre i limiti
di pertinenza e di «non eccedenza rispetto alle finalità per
le quali sono raccolti o successivamente trattati», come
previsto dall'articolo 11 del decreto legislativo 196/2003.
Contro le scelte dell'azienda deponeva anche
l'autorizzazione 1/2004 del Garante, citata agli atti dalla
ricorrente, secondo cui «il trattamento dei dati sensibili
deve essere effettuato unicamente con operazioni, nonché con
logiche e mediante forme di organizzazione dei dati
strettamente indispensabili in rapporto ai sopra indicati
obblighi, compiti o finalità». In sostanza, secondo la Cassazione, l'azienda nel caso
specifico avrebbe potuto procedere alle contestazioni
disciplinari limitandosi alla circostanza che il dipendente
si collegava a internet senza che ciò fosse previsto, e
nemmeno indispensabile, per le sue mansioni. Tra le pieghe della motivazione, anche uno spaccato
importante sulla valutazione di «dato sensibile». L'azienda
contestava la circostanza che la registrazione relativa a
siti sindacali, poi religiosi, infine pornografici, non era
in grado di connotarsi come «dato sensibile», idoneo a
svelare gli orientamenti del dipendente, In realtà, spiega
la Corte, il legislatore italiano è stato più restrittivo di
quello europeo parlando non solo di «dati sensibili», ma
anche «dati idonei a rilevare». Come una navigazione su
internet
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.08.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Fotovoltaico abusivo, rischi anche nel lungo periodo. Nella costruzione di un impianto fotovoltaico senza
autorizzazione unica il periculum in mora non può essere
limitato esclusivamente al «carico urbanistico» (o
all'interesse paesaggistico e ambientale), dal momento che
«l'interesse tutelato dalla norma precettiva comprende anche
l'esigenza che il concreto controllo sul corretto esercizio
di impianti di questo genere sia svolto dall'autorità
regionale e non da quella comunale».
E il sistema dei controlli regionali deve svolgersi per
tutta la durata dell'esercizio.
Questo è quanto afferma la
Corte di Cassazione, III Sez. penale, con la
sentenza
30.07.2013 n. 32941. I giudici ricordano che la
costruzione e l'esercizio degli impianti stessi sono
soggetti ad autorizzazione unica, rilasciata dalla regione o
da altro soggetto istituzionale delegato dalla regione, nel
rispetto delle normative in materia di tutela dell'ambiente
e del territorio (articolo 12, comma 3, del dlgs n.
387/2003). Pertanto la rilevanza dell'autorizzazione unica
ambientale emerge sia nella mera edificazione degli impianti
fotovoltaici e delle opere e delle infrastrutture connesse
ma anche per l'esercizio degli stessi. L'intento del
legislatore è quello di far sì che il controllo
amministrativo da parte dell'autorità regionale venga
assicurato non solo nella fase di realizzazione
dell'impianto fotovoltaico, ma anche e soprattutto nella
fase del suo esercizio. Secondo i giudici della Suprema
corte, però, «anche dopo l'ultimazione della sua
realizzazione, l'utilizzazione dell'impianto senza il
possesso del titolo abilitativo occorrente continua a
produrre una lesione del bene giuridico protetto, ossia
dell'interesse alla permanente vigilanza da parte
dell'autorità competente anche sull'esercizio dell'impianto
stesso, e pertanto aggrava o comunque protrae le conseguenze
negative del reato ipotizzato»
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2013). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il part-time non è più blindato.
Contratti ante dl 112/2008 trasformabili in tempo pieno.
La Corte costituzionale ha confermato la
legittimità della norma del collegato lavoro. È legittima la possibilità di trasformare a tempo pieno i
rapporti che erano diventati part-time prima dell'entrata in
vigore del dl n. 112/2008, in base al quale le pubbliche
amministrazioni possono rigettare le domande di
trasformazione in presenza di pregiudizi alla propria
attività. Ciò non vuol dire che le amministrazioni possono decidere
arbitrariamente: esse sono comunque tenute al rispetto degli
obblighi di motivazione dettati dal legislatore. In tale
previsione non si riscontrano ragioni di contrasto con la
normativa comunitaria.
Possono essere così riassunte le
principali indicazioni contenute nella recente sentenza
19.07.2013 n. 224 della Corte Costituzionale. La
pronuncia ha confermato la legittimità della disposizione
contenuta nell'articolo 16 della legge n. 183/2010
(cosiddetto collegato lavoro). Con tale misura è stata data
facoltà alle amministrazioni pubbliche di rivedere i
rapporti di lavoro trasformati da tempo pieno a part-time
prima dell'entrata in vigore del dl n. 112/2008, norma che
ricordiamo ha consentito alle amministrazioni di rigettare
le domande non solo per conflitto di interessi nel caso in
cui finalizzate allo svolgimento di una seconda attività
lavorativa, ma anche nel caso in cui la trasformazione rechi
nocumento alle attività dell'ente. Alla base del rigetto vi è la considerazione che siamo nella
fase di prima applicazione delle nuove disposizioni che
aumentano i poteri delle p.a. rispetto alle richieste di
part-time, per cui si stabilisce un nesso assai stretto tra
le sue disposizioni e si determina una condizione
sostanzialmente paritaria nel trattamento. Non vi è contrasto con le disposizioni comunitarie in quanto
«il diritto europeo è primariamente finalizzato a tutelare
il lavoro part-time e a impedirne ogni forma di
discriminazione, anche in fase di trasformazione del
rapporto. Nel contempo, però, esso dà la necessaria
rilevanza alle esigenze organizzative, tecniche o produttive
che possono imporre modifiche della posizione lavorativa
ovvero del regime temporale della prestazione». Il legislatore consente, e la motivazione è la stessa nel
caso di rigetto della istanza, di rivedere i part-time già
concessi applicando i principi di buona fede e correttezza,
laddove «la trasformazione comporti, in relazione alle
mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal
dipendente, pregiudizio alla funzionalità
dell'amministrazione stessa». Questo elemento è ripreso in
modo esplicito dalla sentenza della Consulta: «il potere di
rivalutazione dei rapporti di lavoro part-time a suo tempo
concessi automaticamente, in applicazione della normativa
dell'epoca, non è arbitrario, né indiscriminato, ma
saldamente ancorato alla presenza obiettiva di verificabili
esigenze di funzionalità dell'organizzazione amministrativa
e condizionato a modalità di esercizio scrupolosamente
rispettose dei canoni generali di correttezza e di buona
fede». Di queste indicazioni le amministrazioni locali devono fare
tesoro. Le loro scelte di negazione della trasformazione in
part-time di un rapporto di lavoro a tempo pieno devono
essere adeguatamente motivate in relazione alle esigenze
organizzative dell'ente; in tal senso, per esempio, il
riferimento ai drastici limiti imposti alle assunzioni di
personale, ivi compreso quello con rapporti flessibili,
costituisce un elemento di giustificazione più che valido. Occorre infine ricordare che la competenza ad assumere
queste decisioni spetta ai dirigenti, in quanto soggetti
dotati delle competenze gestionali e, in particolare, dei
poteri e delle capacità dei privati datori di lavoro. Agli
organi di governo compete, al più, il dettare specifiche
linee guida ed indicazioni di carattere generale, che non
devono in ogni caso entrare nel merito del caso concreto
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2013). |
LAVORI PUBBLICI: Cassazione.
A carico dell'ente gestore.
Se manca la legge resta l'obbligo di adeguare la strada. L'ente gestore di una strada deve adeguarla ai più moderni
standard di sicurezza anche se non c'è un espresso obbligo
giuridico: basta il principio del neminem laedere. E la
responsabilità del mancato adeguamento ricade direttamente
sui vertici aziendali, se hanno deciso di non intervenire
per motivi economici e non hanno adottato misure alternative
per garantire la sicurezza.
Princìpi innovativi, stabiliti
dalla IV Sez. penale della Corte di Cassazione, con la
sentenza 12.07.2013 n. 30190 diventata di
attualità dopo la tragedia del bus precipitato domenica
scorsa da un viadotto dell'autostrada A16 a Monteforte
Irpino (Avellino). In effetti, i princìpi di questa sentenza potrebbero essere
applicati –in tutto o in parte– anche a questo incidente,
perché i teatri dei due sinistri sono analoghi: viadotti con
guard-rail non adeguati. La Cassazione si è pronunciata sul
caso di un'auto che percorreva l'autostrada A20 ed è caduta
dal pericoloso viadotto Ritiro, nell'abitato di Messina. Su
quel tratto di strada non erano state installate barriere in
linea con i requisiti di sicurezza attuali, nonostante dal
1994 al 2003 dai viadotti dell'A20 ci siano stati 32 cadute
(22 mortali e 10 con feriti): la direzione Tecnica e di
esercizio del Cas (Consorzio autostrade siciliane) aveva
escluso quel tratto dalla riqualificazione, per motivi
economici. La carenza riguardava un solo senso di marcia,
quello verso Palermo, in cui procedeva l'auto; l'altra
carreggiata era ben protetta. La sostituzione dei guard-rail era avvenuta volontariamente,
perché in quel caso non c'era alcun obbligo specifico: la
normativa attuale (Dm Lavori pubblici 223/92 e Dm
Infrastrutture 21.06.2004) non si applica alle strade
costruite prima del 1992, salvo che siano sottoposte a
lavori significativi. E questo non era il caso del viadotto
Ritiro al momento dell'incidente. La pubblica accusa aveva così configurato una forma di colpa
generica, come richiesto dalla parte civile, assistita dai
legali dell'Aifvs (Associazione italiana familiari vittime
della strada). La difesa aveva ribattuto che tale colpa non
sarebbe configurabile quando gli imputati si sono comunque
attenuta alle «disposizioni chiare e precise» del Dm 223/92. La Corte ha richiamato una sua precedente sentenza (la
15229/08) per affermare che «l'osservanza delle norme
precauzionali scritte non fa venir meno la responsabilità
colposa dell'agente, perché esse non sono esaustive delle
regole prudenziali realisticamente esigibili rispetto alla
specifica attività o situazione pericolosa cautelata,
potendo residuare una colpa generica in relazione al mancato
rispetto della regola cautelare non scritta del neminem
laedere, la cui violazione costituisce colpa per negligenza
o imprudenza». I giudici "suggeriscono" anche un modo per superare
la mancanza di fondi: restringere la carreggiata per
rallentare i veicoli e imporre un limite di velocità
prudenziale
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.08.2013). |
TRIBUTI: Sul verde pubblico non si paga l'Ici.
Ctr Milano: nei parchi l'inedificabilità è palese. Un'area compresa in una zona destinata dal piano regolatore
generale a verde pubblico attrezzato non è soggetta al
pagamento dell'Ici. Il vincolo di destinazione, infatti, non
consente di dichiarare l'area edificabile poiché al
contribuente viene impedito di operare qualsiasi
trasformazione del bene.
È quanto ha affermato la
Commissione Tributaria regionale di Milano, sezione XXXV,
con la
sentenza 13.05.2013 n. 71.
Per il giudice d'appello, lo strumento urbanistico vigente
destina l'area a spazio pubblico per parco, giochi e sport
«rendendo palese e percepibile il vincolo di utilizzo
meramente pubblicistico con la conseguente inedificabilità».
Nella sentenza vengono richiamate alcune pronunce della
Cassazione che hanno fissato questo principio, che però non
è assolutamente pacifico. In particolare, la Cassazione
(sentenza 25672/2008) ha stabilito che se il piano
regolatore generale del comune stabilisce che un'area sia
destinata a verde pubblico attrezzato, questa prescrizione
urbanistica impedisce al privato di poter edificare. Dunque,
l'area non è soggetta al pagamento dell'Ici anche se
l'edificabilità è prevista dallo strumento urbanistico. La natura edificabile delle aree comprese in zona destinata
a verde pubblico attrezzato impedisce ai privati la
trasformazione del suolo riconducibile alla nozione tecnica
di edificazione. In questi casi, la finalità è quella di
assicurare la fruizione pubblica degli spazi. Mentre, con la
sentenza 19131/2007 aveva sostenuto che l'Ici fosse dovuta
su un'area edificabile anche se sottoposta a vincolo
urbanistico e destinata a essere espropriata: quello che
conta è il valore di mercato dell'immobile nel momento in
cui è soggetto a imposizione. Con questa decisione, tra l'altro, i giudici avevano
precisato che l'Ici non «ricollega il presupposto
dell'imposta all'idoneità del bene a produrre reddito o alla
sua attitudine a incrementare il proprio valore o il reddito
prodotto». Il valore dell'immobile assume rilievo solo per determinare
la misura dell'imposta. L'area doveva essere considerata
edificabile anche se qualificata «standard» e,
quindi, vincolata a esproprio
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2013). |
TRIBUTI: Aumenti Tarsu da non motivare.
Tar Puglia: causa è la copertura
costi.
Il comune non è tenuto a motivare l'aumento delle tariffe
Tarsu. L'aumento può essere giustificato dalla necessità di
coprire i costi del servizio.
Lo ha affermato il TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 30.05.2013 n. 1238.
Secondo
i giudici amministrativi, per coprire i costi del servizio,
l'amministrazione comunale ha disposto «un incremento
percentuale nei confronti di tutte le categorie di
utenti/contribuenti, senza operare alcuna
discriminazione/differenziazione tra di essi, rendendo meno
stringente l'obbligo di una più puntuale motivazione». Sulla
necessità di motivare gli aumenti tariffari per lo
svolgimento del servizio di raccolta e smaltimento rifiuti
non c'è un'uniformità di vedute nella giurisprudenza
amministrativa. Il Consiglio di stato (sentenza 5616/2010),
infatti, ha sostenuto che il comune deve motivare la
delibera che prevede un aumento delle tariffe Tarsu per
coprire i costi del servizio. E non si può invocare
genericamente la necessità di assicurare la tendenziale
copertura totale della spesa, senza avere dati certi sullo
scostamento tra entrate e costo del servizio. Per i giudici
di palazzo Spada il comune non è esonerato da uno specifico
obbligo di motivare l'incremento delle tariffe, nonostante
la Cassazione (sentenza 22804/2006) abbia escluso questo
adempimento per gli atti generali, come previsto
dall'articolo 3 della legge 241/1990. In effetti l'articolo
69 del decreto legislativo 507/1993, ai fini del controllo
di legittimità, dispone che la deliberazione debba indicare
le ragioni dei rapporti stabiliti tra le tariffe, i dati
consuntivi e previsionali relativi ai costi del servizio
discriminati in base alla loro classificazione economica,
nonché le circostanze che abbiano determinato l'aumento per
la copertura minima obbligatoria del costo. Gli enti sono
poi tenuti ad adottare un regolamento che deve contenere non
solo la classificazione delle categorie ed eventuali
sottocategorie, ma anche la graduazione delle tariffe
ridotte per particolari condizioni d'uso. Nell'ambito del
potere regolamentare possono essere individuate anche le
fattispecie agevolative, con le relative condizioni, le
modalità di richiesta e le eventuali cause di decadenza
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2013). |
AGGIORNAMENTO AL 05.08.2013 |
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IN EVIDENZA |
URBANISTICA:
Sul termine ordinatorio e non perentorio dei 90 gg. entro
cui bisogna approvare il PGT a pena di inefficacia degli
atti assunti. Il comma 7 dell’art. 13 L.R. n. 12/2005 dispone che “entro
novanta giorni dalla scadenza del termine per la
presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia
degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle
stesse, apportando agli atti di p.g.t. le modificazioni
conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni.
Contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti,
provvede all'adeguamento del documento di piano adottato,
nel caso in cui la Provincia abbia ravvisato elementi di
incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio
piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui
all'articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive
determinazioni qualora le osservazioni provinciali
riguardino previsioni di carattere orientativo”. Il Collegio ritiene di non potere accedere ad una
interpretazione letterale della previsione di cui al comma
7. Una soluzione che individui la ratio dell’art. 13
nell’esigenza di dettare una rigida tempistica
procedimentale a fini acceleratori correlando alla mera
violazione del termine previsto dal comma 7 l’inefficacia
degli atti del p.g.t., non è percorribile, in quanto conduce
ad esiti contrastanti con il principio di buon andamento
dell’azione amministrativa, posto dall’art. 97 Cost. Difatti, qualora si ritenesse che all’inutile scadenza del
termine entro il quale il Consiglio Comunale deve decidere
sulle osservazioni consegua la perdita di efficacia del
provvedimento di adozione del p.g.t., invero, l’attività
amministrativa precedentemente esercitata verrebbe posta nel
nulla, con conseguente obbligo per l’amministrazione di
rinnovare l’intero procedimento, il tutto in contrasto con
il principio di economicità oltre che con la ratio
acceleratoria sottesa alla norma. Insomma, l’esigenza di celerità sarebbe, invero, del tutto
vanificata ove il termine previsto dall’art. 13, c. 7, della
legge regionale n. 12/2005 fosse sanzionato con la perdita
di efficacia dell’atto di adozione del piano di governo del
territorio, in quanto l’amministrazione dovrebbe reiterare
l’intera procedura amministrativa. Proprio il palese
contrasto con i principi costituzionali già richiamati
esclude la condivisibilità dell’interpretazione ora
esaminata. Questa interpretazione della norma non può, dunque, essere
accolta, in quanto in netto contrasto con i principi
costituzionali. Il Collegio ritiene tuttavia che sia, comunque, possibile
accedere ad una lettura della legge regionale in senso
conforme alla Costituzione. La norma così dispone: “entro novanta giorni dalla scadenza
del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena
di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale
decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le
modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle
osservazioni”. La previsione dell’inefficacia degli atti assunti è
collocata incidentalmente nel testo dell’articolo e ciò
consente di riferire la sanzione della inefficacia alla
inosservanza non del termine di novanta giorni, previsto
nella prima parte della norma, ma di quanto stabilito nella
seconda parte della disposizione, ossia alla violazione
dell’obbligo di decidere sulle osservazioni e di apportare
agli atti del p.g.t. le conseguenti modificazioni. Pertanto, l’inefficacia integra una sanzione dettata non a
tutela di adempimenti formali, come il mero rispetto della
tempistica procedimentale, ma di esigenze sostanziali,
emergenti nell’ipotesi in cui il piano di governo del
territorio sia approvato in assenza di una decisione sulle
osservazioni o non recepisca le osservazioni accolte. Ecco, allora, che l’inefficacia degli atti assunti si
verifica solo quando la loro adozione non sia stata
preceduta dalla decisione delle osservazioni presentate
dagli interessati. Questa lettura sostanzialistica può essere riferita anche
alle altre ipotesi in cui la legge regionale prevede la
sanzione dell’inefficacia degli atti assunti. Così, seguendo questa linea interpretativa, la seconda parte
del comma 7 –secondo cui il Consiglio Comunale
“contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti,
provvede all’adeguamento del documento di piano adottato,
nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di
incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio
piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui
all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive
determinazioni qualora le osservazioni provinciali
riguardino previsioni di carattere orientativo”– punisce non
la mera inosservanza del termine previsto nella prima parte
dell’articolo ma la violazione dell’obbligo di adeguare il
documento di piano alle incompatibilità ravvisate dalla
Provincia con il proprio p.t.c.p.. Ugualmente, il comma 4 -secondo cui “entro novanta giorni
dall’adozione, gli atti di p.g.t. sono depositati, a pena di
inefficacia degli stessi, nella segreteria comunale per un
periodo continuativo di trenta giorni, ai fini della
presentazione di osservazioni nei successivi trenta giorni”-
sanziona non tanto il mancato rispetto del termine per il
deposito quanto una violazione sostanziale, consistente nel
non lasciare gli atti del p.g.t. a disposizione degli
interessati, per un periodo di trenta giorni, al fine di
presentare le osservazioni. In conclusione, dunque, la violazione del termine di novanta
giorni previsto dall’art. 13, c. 7, che si è verificata nel
caso di specie, non comporta alcuna conseguenza, dovendo lo
stesso ritenersi meramente ordinatorio. -------------- E' legittimo il pgt dimensionato sulla base di un previsione
decennale anziché quinquennale. Invero, la norma richiamata (art. 8, c. 4, l. Regione
Lombardia n. 12/2005) -nel prevedere che “il documento di
piano ha validità quinquennale ed è sempre modificabile”- si
riferisce unicamente al documento di piano e non all’intero
pgt e non impedisce quindi che quest’ultimo abbia un
orizzonte temporale più ampio, fermo restando l’obbligo per
il Comune di provvedere all’approvazione di un nuovo
documento di piano allo scadere del quinquennio.
Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente lamenta la
violazione dell’art. 13, c. 7, l. Regione Lombardia n.
12/2005: l’amministrazione non avrebbe rispettato, nella
decisione sulle osservazioni, il termine, ivi previsto, -di
novanta giorni dalla scadenza del termine per la
presentazione delle osservazioni- che scadeva il 20.01.2007,
in quanto, oltre alla delibera del 19.01.2007,
sarebbero state assunte due ulteriori delibere, il 22
gennaio ed il 24 gennaio dello stesso anno. La ricorrente
deduce, inoltre, l’incongruenza e lo sviamento di potere per
avere la p.a. approvato in data 19.01.2007 quanto esaminato
e determinato in data successiva. Nonostante il Comune non abbia effettivamente rispettato il
termine previsto dalla legge regionale, la censura non può
trovare accoglimento. L’art. 13, c. 7, l. Regione Lombardia n. 12/2005 dispone che
“entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la
presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia
degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle
stesse, apportando agli atti di p.g.t.. le modificazioni
conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni”. Nel caso di specie, gli atti del p.g.t. sono stati
depositati presso la segreteria comunale sino al 22.09.2006,
mentre il 22.10.2006 scadeva il termine per la
presentazione delle osservazioni. Il 20.01.2007 era, quindi, il termine ultimo entro il quale
l’amministrazione comunale avrebbe dovuto decidere sulle
osservazioni presentate. Il Consiglio Comunale ha, invece, ultimato la decisione
sulle osservazioni il 24.01.2007, e, pertanto, oltre la
scadenza del termine previsto dalla legge regionale. Il Collegio non condivide quanto prospettato
dall’amministrazione comunale, laddove sostiene che, siccome
la seduta del 19 gennaio sarebbe proseguita, senza nuove
convocazioni, il 22 ed il 24 gennaio, le controdeduzioni
alle osservazioni ed il p.g.t. sarebbero stati approvati con
un processo deliberativo unitario che porta legittimamente
la data dell’unica convocazione, ossia, il 19.01.2007. La delibera n. 3 del 19.01.2007 dà atto che il Consiglio, il
19 gennaio, ha esaminato le osservazioni dalla n. 1 al n.
48, si è poi aggiornato il 22 gennaio e, in tale data, ha
esaminato le osservazioni dalla n. 49 alla n. 106. Infine, nella seduta del 24 gennaio, il Consiglio ha
esaminato le osservazioni dalla n. 107 alla n. 148. La data del 19.01.2007, indicata sulla delibera, è, dunque,
palesemente erronea: l’amministrazione avrebbe difatti
dovuto datare tale atto 24.01.2007, poiché solo in tale
giorno il procedimento decisionale ha avuto termine, non
potendo, certamente, avere deliberato il 19.01.2007 ciò che
invece è stato deciso il 24 gennaio. Prima di esaminare quali conseguenze derivino da tale
violazione, occorre delineare la disciplina del procedimento
di formazione del piano di governo del territorio, dettata
dall’art. 13 della l. Regione Lombardia n. 12/2005. Il Consiglio Comunale adotta il piano di governo del
territorio dopo aver pubblicato l’avviso di avvio del
procedimento e dopo aver acquisito suggerimenti e proposte
da parte degli interessati ed i pareri delle parti
economiche e sociali. Successivamente, il comma 4 prevede che “entro novanta
giorni dall'adozione, gli atti di p.g.t. sono depositati, a
pena di inefficacia degli stessi, nella segreteria comunale
per un periodo continuativo di trenta giorni, ai fini della
presentazione di osservazioni nei successivi trenta giorni”. Contemporaneamente, gli atti del p.g.t. sono trasmessi alla
Provincia, la quale valuta la compatibilità del documento di
piano con il proprio piano territoriale di coordinamento
-entro il termine di centoventi giorni dal ricevimento della
relativa documentazione, decorsi inutilmente i quali la
valutazione si intende espressa favorevolmente- ed il
documento di piano è trasmesso anche all'a.s.l. e all'a.r.p.a.,
che, entro i termini per la presentazione delle osservazioni
di cui al comma 4, possono formulare osservazioni,
rispettivamente per gli aspetti di tutela igienico-sanitaria
ed ambientale, sulla prevista utilizzazione del suolo e
sulla localizzazione degli insediamenti produttivi. Il comma 7 dell’art. 13 dispone, poi, che “entro novanta
giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle
osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il
consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti
di p.g.t. le modificazioni conseguenti all'eventuale
accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena di
inefficacia degli atti assunti, provvede all'adeguamento del
documento di piano adottato, nel caso in cui la Provincia
abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le
previsioni prevalenti del proprio piano territoriale di
coordinamento, o con i limiti di cui all'articolo 15, comma
5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora
le osservazioni provinciali riguardino previsioni di
carattere orientativo”. Infine, gli atti del p.g.t., definitivamente approvati, sono
depositati presso la segreteria comunale ed inviati per
conoscenza alla Provincia ed alla Giunta regionale ed
acquistano efficacia con la pubblicazione dell’avviso della
loro approvazione definitiva sul Bollettino Ufficiale della
Regione, da effettuarsi a cura del Comune. Il Collegio ritiene di non potere accedere ad una
interpretazione letterale della previsione di cui al comma
7. Una soluzione che individui la ratio dell’art. 13
nell’esigenza di dettare una rigida tempistica
procedimentale a fini acceleratori correlando alla mera
violazione del termine previsto dal comma 7 l’inefficacia
degli atti del p.g.t., non è percorribile, in quanto conduce
ad esiti contrastanti con il principio di buon andamento
dell’azione amministrativa, posto dall’art. 97 Cost. Difatti, qualora si ritenesse che all’inutile scadenza del
termine entro il quale il Consiglio Comunale deve decidere
sulle osservazioni consegua la perdita di efficacia del
provvedimento di adozione del p.g.t., invero, l’attività
amministrativa precedentemente esercitata verrebbe posta nel
nulla, con conseguente obbligo per l’amministrazione di
rinnovare l’intero procedimento, il tutto in contrasto con
il principio di economicità oltre che con la ratio
acceleratoria sottesa alla norma. Insomma, l’esigenza di celerità sarebbe, invero, del tutto
vanificata ove il termine previsto dall’art. 13, c. 7, della
legge regionale n. 12/2005 fosse sanzionato con la perdita
di efficacia dell’atto di adozione del piano di governo del
territorio, in quanto l’amministrazione dovrebbe reiterare
l’intera procedura amministrativa. Proprio il palese
contrasto con i principi costituzionali già richiamati
esclude la condivisibilità dell’interpretazione ora
esaminata. Questa interpretazione della norma non può, dunque, essere
accolta, in quanto in netto contrasto con i principi
costituzionali. Il Collegio ritiene tuttavia che sia, comunque, possibile
accedere ad una lettura della legge regionale in senso
conforme alla Costituzione. La norma così dispone: “entro novanta giorni dalla
scadenza del termine per la presentazione delle
osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il
consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti
di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale
accoglimento delle osservazioni”. La previsione dell’inefficacia degli atti assunti è
collocata incidentalmente nel testo dell’articolo e ciò
consente di riferire la sanzione della inefficacia alla
inosservanza non del termine di novanta giorni, previsto
nella prima parte della norma, ma di quanto stabilito nella
seconda parte della disposizione, ossia alla violazione
dell’obbligo di decidere sulle osservazioni e di apportare
agli atti del p.g.t. le conseguenti modificazioni. Pertanto, l’inefficacia integra una sanzione dettata non a
tutela di adempimenti formali, come il mero rispetto della
tempistica procedimentale, ma di esigenze sostanziali,
emergenti nell’ipotesi in cui il piano di governo del
territorio sia approvato in assenza di una decisione sulle
osservazioni o non recepisca le osservazioni accolte. Ecco, allora, che l’inefficacia degli atti assunti si
verifica solo quando la loro adozione non sia stata
preceduta dalla decisione delle osservazioni presentate
dagli interessati. Questa lettura sostanzialistica può essere riferita anche
alle altre ipotesi in cui la legge regionale prevede la
sanzione dell’inefficacia degli atti assunti. Così, seguendo questa linea interpretativa, la seconda parte
del comma 7 –secondo cui il Consiglio Comunale
“contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti,
provvede all’adeguamento del documento di piano adottato,
nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di
incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio
piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui
all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive
determinazioni qualora le osservazioni provinciali
riguardino previsioni di carattere orientativo”– punisce non
la mera inosservanza del termine previsto nella prima parte
dell’articolo ma la violazione dell’obbligo di adeguare il
documento di piano alle incompatibilità ravvisate dalla
Provincia con il proprio p.t.c.p. Ugualmente, il comma 4 -secondo cui “entro novanta giorni
dall’adozione, gli atti di p.g.t. sono depositati, a pena di
inefficacia degli stessi, nella segreteria comunale per un
periodo continuativo di trenta giorni, ai fini della
presentazione di osservazioni nei successivi trenta giorni”-
sanziona non tanto il mancato rispetto del termine per il
deposito quanto una violazione sostanziale, consistente nel
non lasciare gli atti del p.g.t. a disposizione degli
interessati, per un periodo di trenta giorni, al fine di
presentare le osservazioni. In conclusione, dunque, la violazione del termine di novanta
giorni previsto dall’art. 13, c. 7, che si è verificata nel
caso di specie, non comporta alcuna conseguenza, dovendo lo
stesso ritenersi meramente ordinatorio.
Con il secondo
motivo di ricorso, la ricorrente lamenta la violazione
dell’art. 8, c. 4, l. Regione Lombardia n. 12/2005 in quanto
il p.g.t. sarebbe stato dimensionato sulla base di un
previsione decennale anziché quinquennale, in contrasto
anche con quanto segnalato dall’a.r.p.a. nel parere del
23.10.2006. La censura è infondata atteso che la norma richiamata -nel
prevedere che “il documento di piano ha validità
quinquennale ed è sempre modificabile”- si riferisce
unicamente al documento di piano e non all’intero p.g.t. e
non impedisce quindi che quest’ultimo abbia un orizzonte
temporale più ampio, fermo restando l’obbligo per il Comune
di provvedere all’approvazione di un nuovo documento di
piano allo scadere del quinquennio
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.12.2010 n. 7508
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: art. 2 del decreto legge n. 95 del 2012,
convertito in legge n. 135 del 2012, c.d. "Spending
review" - pensionamenti in caso di soprannumero (circolare
29.07.2013 n. 3). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALI: Oggetto:
sedi vacanti e reggenze a scavalco
(Ministero dell'Interno,
circolare 08.07.2013 n. 23581 di prot.) |
SINDACATI |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Il foglio dei lavoratori della Funzione
Pubblica (CGIL-FP
di Bergamo,
luglio 2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Sul
blocco del trattamento economico accessorio la Corte dei
Conti s'incarta
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 29.07.2013). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 03.08.2013 n. 181 "Testo del decreto-legge
04.06.2013, n. 63, coordinato con la legge di conversione
03.08.2013, n. 90, recante: «Disposizioni urgenti per il
recepimento della Direttiva 2010/31/UE del Parlamento
europeo e del Consiglio del 19.05.2010, sulla prestazione
energetica nell’edilizia per la definizione delle procedure
d’infrazione avviate dalla Commissione europea, nonché altre
disposizioni in materia di coesione sociale.»". |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 31 del 01.08.2013, "Direzione
centrale Programmazione integrata e finanza - Circolare
esplicativa per l’attuazione degli artt. 26 e 27 del d.lgs.
14.03.2013, n. 33" (circolare
regionale 25.07.2013 n. 16). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie
ordinaria n. 31 del 30.07.2013,
"Quinto aggiornamento 2013 dell’elenco degli enti locali
idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r.
12/2005, art. 80)" (decreto
D.G. 26.07.2013 n. 7134). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
INCARICHI PROFESSIONALI:
G. Manfredi,
Appunti sull’affidamento degli incarichi legali
delle pubbliche amministrazioni: competenza, procedimento,
forma (Urbanistica e appalti n. 8-9/2013 - tratto da
www.ipsoa.it). |
APPALTI SERVIZI:
F. Dello Sbarba,
Illegittimo l’affidamento diretto mediante convenzione a
cooperative sociali (Urbanistica e appalti n. 8-9/2013). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
A. Nicola,
Gli impianti non centralizzati di ricezione
radiotelevisiva e di produzione di energia da fonti
rinnovabili (Immobili & proprietà n. 6/2013 - tratto
da www.ipsoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: N.
D'Angelo,
Abusi edilizi e falsità dei tecnici
(L'Ufficio Tecnico n. 6/2013). |
URBANISTICA: G.
Ciaglia,
La distinzione tra vincolo conformativo ed espropriativo
nella giurisprudenza più recente
(L'Ufficio Tecnico n. 6/2013). |
APPALTI: M.
Spagnuolo,
L'erronea aggiudicazione determina la mancanza di contatto
sociale qualificato
(L'Ufficio Tecnico n. 6/2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
V. Tarroni,
Conferenza di Servizi: la semplificazione amministrativa "inseguita"
(L'Ufficio Tecnico n. 6/2013). |
ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALI: T.
Grandelli e M. Zamberlan,
Il trattamento economico del segretario comunale e
provinciale
(Risorse Umane, n. 3/2013). |
APPALTI:
O. Cristante,
Sulle competenze del RUP, con riguardo alle procedure di
aggiudicazione di contratti pubblici e, in particolare, al
sub-procedimento di verifica dell'anomalia (I
contratti dello Stato e degli Enti pubblici n. 2/2013). |
INCARICHI PROGETTUALI:
LA RESPONSABILITA' DEGLI INGEGNERI - PROFILI DEONTOLOGICI,
CIVILISTICI E PENALISTICI (17.09.2009 - tratto da
www.lavatellilatorraca.it). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
L’incentivo alla progettazione di cui all'art.
92, comma 5, dlgs 163/2006 può venire riconosciuto
solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla
cui base vi sia una necessaria attività di progettazione. ---------------
L’art. 92, comma 6, dlgs 163/2006 non
può costituire titolo per l’erogazione di speciali compensi
ai dipendenti che svolgono attività sussidiarie, strumentali
o di supporto alla redazione di atti di pianificazione
affidata a professionisti esterni. Tale disposizione,
infatti, abilita (nella misura autoritativamente fissata
dalla legge) a riconoscere uno speciale compenso, al di là
del trattamento economico ordinariamente spettante, solo in
presenza dei due seguenti elementi di fattispecie: a) sul piano dell’oggetto, che la prestazione consista nella
diretta “redazione di un atto di pianificazione”, non in
attività variamente sussidiarie che rientrano nei doveri
d’ufficio dei dipendenti, nel contesto dell’attività di
governo del territorio; b) implicitamente, che la redazione dello stesso non sia
stata esternalizzata ad un professionista esterno ai sensi
dell’art. 90, comma 6. --------------- L’atto di pianificazione, comunque denominato, deve
necessariamente riferirsi alla progettazione di opere
pubbliche e non ad un mero atto di pianificazione
territoriale redatto dal personale tecnico abilitato
dipendente dell’amministrazione. Stante la sedes materiae della norma sugli incentivi alla
progettazione (Codice degli appalti), nonché la ratio della
disposizione (contenere i costi connessi alla progettazione
delle opere pubbliche valorizzando le professionalità
interne alla pubblica amministrazione), si condivide
l’argomentazione secondo cui “la norma àncora chiaramente il
riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso
incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di
pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di
pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno
dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a
far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai
dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente”. In conclusione, ciò che rileva ai fini della riconoscibilità
del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen
juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo
contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione
di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di
progettualità interna, rispetto ad un mero atto di
pianificazione generale (piano regolatore o variante
generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione
dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al
dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente
spettante. La circostanza che nella fattispecie prospettata gli atti di
pianificazione siano stati redatti da professionisti esterni
esclude il diritto al compenso di cui al comma 6, art. 92,
dlgs 163/2006. --------------- Il sindaco del comune di Casorate Primo, con nota n. 7926
del 02.07.2013, chiedeva all’adita Sezione l’espressione di
un parere in ordine all’articolo 92, commi 5 e 6, del codice
dei contratti. In particolare, il Sindaco precisava quanto segue: - che il comune di Casorate Primo (PV), nella seduta del
Consiglio Comunale del 20/07/2010, con deliberazioni n. 40,
41, 42 e 43, ha approvato in via definitiva n. 4 Programmi
Integrati di Intervento in variante al Piano Regolatore
Generale; - che gli atti di pianificazione suddetti sono stati
predisposti da professionisti esterni all'Ente e prevedono,
tra l'altro, la realizzazione di opere pubbliche sul
territorio comunale, in aggiunta alle normali opere di
urbanizzazione riferibili ai singoli Programmi di
Intervento; - che tali opere pubbliche saranno oggetto di separata
progettazione e poi realizzate a seguito di espletamento di
appalto di lavori pubblici da parte dell'Amministrazione
comunale; - che nell'ambito delle singole convenzioni urbanistiche
sono stati posti a carico dell'operatore privato anche le
spese riconducibili al compenso previsto dall'art. 92 del
D.Lgs. n. 163/2006 e s.m.i., definite nelle convenzioni
stesse quali generiche "spese tecniche". Sulla base di tali premesse,
il Sindaco dell’ente locale
formulava i seguenti quesiti: 1)
se può essere riconosciuto ai dipendenti che hanno
istruito le pratiche inerenti i Programmi Integrati di
Intervento specificati in premessa, l’incentivo di cui
all'art. 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006 in ragione
della futura utilizzazione delle opere pubbliche individuate
nei singoli programmi integrati di intervento;
2) se, in alternativa, deve essere riconosciuto ai
dipendenti interessati l'incentivo di cui all’art. 92, comma
5, del D.Lgs. n. 163/2006 all'atto della futura
progettazione interna e successivo appalto delle opere
pubbliche riferite ai Programmi Integrati di Intervento in
argomento; 3)
se sia legittimo, qualora non si dovesse procedere al
riconoscimento degli incentivi ex art. 92 D.Lgs. n. 163/2006
a favore del personale dipendenti, introitare
definitivamente gli importi suddetti, destinando tali
risorse al Bilancio dell'Ente per il potenziamento ed il
miglioramento delle strutture tecniche dell'Ente stesso. ... La questione in esame concerne la corretta interpretazione
dell’articolo 92, commi 5 e 6, del d.lgs. n. 63/2006,
questione su cui la giurisprudenza di questa Sezione è ormai
più che consolidata. Più nel dettaglio, l’istanza di parere concerne
separatamente il comma 5 citato (incentivi per la
progettazione e l’appalto di opere pubbliche) ed il comma 6
(incentivi per la redazione di varianti allo strumento
urbanistico generale), così da rendere opportuna una
separata trattazione. Seguendo l’ordine numerico, il menzionato comma 5 prevede
che “una somma non superiore al due per cento
dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un
lavoro, (…), è ripartita, per ogni singola opera o lavoro,
con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata e assunti in un regolamento
adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del
procedimento e gli incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale
effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita
dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità
dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle
responsabilità professionali connesse alle specifiche
prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è
disposta dal dirigente preposto alla struttura competente,
previo accertamento positivo delle specifiche attività
svolte dai predetti dipendenti (…); le quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai
medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno
all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del
predetto accertamento, costituiscono economie”. La disciplina in discorso è stata già oggetto di attenzione
da parte di precedenti pronunce della Corte dei conti (cfr.,
fra le altre,
Sezione Autonomie
delibera 13.11.2009 n. 16/2009,
Sezione Veneto
parere 26.07.2011 n. 337,
Sezione Piemonte
parere 30.08.2012 n. 290,
Sezione Lombardia
parere 06.03.2012 n. 57
e
parere 30.05.2012 n. 259)
alle cui motivazioni e conclusioni può farsi riferimento per
l’analisi dei profili generali. La norma va letta nel complessivo contesto delle modalità
d’affidamento degli incarichi tecnico professionali,
previste dalla legislazione in materia di contratti
pubblici. Quest’ultima (si rinvia agli artt. 10, 84, 90,
112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006) è informata da un
principio generale, già codificato dall’art. 7, comma 6, del
d.lgs. n. 165/2001, in base al quale i predetti incarichi
possono essere conferiti a soggetti esterni al plesso
amministrativo solo se non si disponga di professionalità
adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia
altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di gestione
delle risorse umane. Tale presupposto mira a preservare le
finanze pubbliche oltre che a valorizzare il personale
interno alle amministrazioni. Pertanto, nelle ipotesi ordinarie in cui
gli incarichi tecnici sono espletati da personale interno,
ai fini della loro remunerazione, occorre far riferimento
alle regole generali previste per il pubblico impiego, il
cui sistema retributivo è conformato da due principi
cardine, quello di definizione contrattuale delle componenti
economiche e quello di onnicomprensività della retribuzione
(cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché
Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Puglia,
sentenze nn. 464, 475 e 487 del 2010). Secondo questi ultimi nulla è dovuto, oltre al trattamento
economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti
collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che
rientra nei suoi doveri d’ufficio, anche se di particolare
complessità.
Il c.d. “incentivo alla progettazione”,
previsto dal Codice dei contratti pubblici, costituisce uno
di quei casi nei quali il legislatore, derogando al
principio per cui il trattamento economico è fissato dai
contratti collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e
speciale, rinviando ai regolamenti dell’amministrazione
aggiudicatrice, previa contrattazione decentrata, i criteri
e le modalità di ripartizione.
L’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006
deroga ai principi di onnicomprensività e determinazione
contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico e,
come tale, costituisce un’eccezione che si presta a stretta
interpretazione e per la quale sussiste il divieto di
analogia posto dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al
codice civile (in
tal senso Sezione Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008). Come evincibile dalla lettera del comma,
la
legge pone alcuni paletti per l’attribuzione del predetto
incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“criteri
e modalità”) ad un regolamento interno assunto previa
contrattazione decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno
deve rispettare
(sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a
quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non
previsti, si rimanda al
parere 30.05.2012 n. 259)
paiono essere i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti
gli incarichi tassativamente indicati dalla norma
(responsabile del procedimento, incaricati della redazione
del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei
lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti
all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro”
(non, pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di
servizi). La norma non presuppone, tuttavia, ai fini della
legittima erogazione, il necessario espletamento interno di
una o più attività (per esempio, la progettazione) purché,
come sarà meglio specificato, il regolamento ripartisca gli
incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite
e devolva in economia la quota relativa agli incarichi
conferiti a professionisti esterni;
- ammontare complessivo non superiore al
due per cento dell’importo a base di gara. Di conseguenza la
somma concretamente prevista dal regolamento interno può
essere stabilita in misura percentuale inferiore;
- ancoramento del fondo incentivante alla
base di gara (non all’importo oggetto del contratto, né a
quello risultante dallo stato finale dei lavori). Si deduce
che non appare ammissibile la previsione e l’erogazione di
alcun compenso nel caso in cui l’iter dell’opera o del
lavoro non sia giunto, quantomeno, alla fase della
pubblicazione del bando o della spedizione delle lettere
d’invito (cfr.,
per esempio, l’art. 2, comma 3, del DM Infrastrutture n. 84
del 17/03/2008). Quanto detto non esclude
che, in sede di regolamento interno, al fine di ancorare
l’erogazione dell’incentivo a più stringenti presupposti,
l’amministrazione possa prevedere la corresponsione solo
subordinatamente all’aggiudicazione dell’opera;
- puntuale ripartizione del fondo
incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile
del procedimento, progettista, direttore dei lavori,
collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo
percentuali rimesse alla discrezionalità
dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari
della logicità, congruenza e ragionevolezza
(cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici,
Deliberazioni n. 315 del 13/12/2007, n. 70 del 22/06/2005,
n. 97 del 19/05/2004; - devoluzione in economia delle quote del
fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte
dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere
analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le
percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal
personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui
alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni,
la predetta devoluzione
(si rinvia alle Deliberazioni dell’Autorità di vigilanza n.
315 del 13/12/2007, n. 35 del 08/04/2009, n. 18 del
07/05/2008 e n. 150 del 02/05/2001). Sulla base di quanto esposto si può così rispondere
al
quesito n. 2 formulato dal comune di Casorate Primo:
l’incentivo alla progettazione di cui al comma 5 può
venire riconosciuto solo per lavori di realizzazione di
un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria
attività di progettazione. Ai sensi dell’articolo 92, comma 6, decreto legislativo n.
163/2003 “il trenta per cento della tariffa professionale
relativa alla redazione di un atto di pianificazione
comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri
previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”. Anche su tale disposto normativo la Sezione si è già più
volte pronunciata con le deliberazioni n. 57, 259 e 440 del
2012 cui si rinvia per la completezza del quadro
giurisprudenziale. Richiamati le suesposte considerazioni sull’eccezionalità
della previsione normativa, va ricordato che le
condivisibili conclusioni di questa Sezione sono pertanto
che “l’art. 92, comma 6, non potrebbe
costituire titolo per l’erogazione di speciali compensi ai
dipendenti che svolgono attività sussidiarie, strumentali o
di supporto alla redazione di atti di pianificazione
affidata a professionisti esterni. Tale disposizione,
infatti, abilita (nella misura autoritativamente fissata
dalla legge) a riconoscere uno speciale compenso, al di là
del trattamento economico ordinariamente spettante, solo in
presenza dei due seguenti elementi di fattispecie: a) sul piano dell’oggetto, che la prestazione consista nella
diretta “redazione di un atto di pianificazione”, non in
attività variamente sussidiarie che rientrano nei doveri
d’ufficio dei dipendenti, nel contesto dell’attività di
governo del territorio (cfr. la deliberazione del
27.01.2009, n. 9 di questa Sezione); b) implicitamente, che la redazione dello stesso non sia
stata esternalizzata ad un professionista esterno ai sensi
dell’art. 90, comma 6”. Quanto al corretto significato da attribuire alla locuzione
“atto di pianificazione” inserita nel testo dell’art.
92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, la Sezione richiama il
condivisibile orientamento espresso dalla Sezione regionale
di controllo per il Piemonte (cfr.
parere 30.08.2012 n. 290),
a tenore del quale, l’atto di
pianificazione, comunque denominato, debba necessariamente
riferirsi alla progettazione di opere pubbliche e non ad un
mero atto di pianificazione territoriale redatto dal
personale tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione.
Stante la sedes materiae della norma
sugli incentivi alla progettazione (Codice degli appalti),
nonché la ratio della disposizione (contenere i costi
connessi alla progettazione delle opere pubbliche
valorizzando le professionalità interne alla pubblica
amministrazione), si condivide l’argomentazione secondo cui
“la norma àncora chiaramente il riconoscimento del
diritto ad ottenere il compenso incentivante alla
circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione,
riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione
del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora
sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il
diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici
tecnici dell’Ente”
(in termini, Sezione contr. Piemonte deliberazione cit.;
cfr. altresì Sezione contr. Lombardia, 30.05.2012, n. 259;
06.03.2012, n. 57; Sezione contr. Puglia,
parere 16.01.2012 n. 1;
Sezione contr. Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213). In conclusione,
ciò che rileva ai fini
della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante
non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di
pianificazione, quanto il suo contenuto specifico
intimamente connesso alla realizzazione di un’opera
pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità
interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale
(piano regolatore o variante generale) che costituisce, al
contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale
dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la
retribuzione ordinariamente spettante. La circostanza che nella fattispecie prospettata gli atti di
pianificazione siano stati redatti da professionisti esterni
esclude il diritto al compenso di cui al comma 6
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 29.07.2013 n. 351). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Un
atto regolamentare non può essere assimilato, per il suo
contenuto intrinseco, ad un progetto di lavori comunque
denominato mentre l’art. 90 del D.lgs. n. 163/2006, sia alla
rubrica che al c. 1, fa riferimento esclusivamente ai lavori
pubblici, e l’art. 92, c. 1, presuppone l’attività di
progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come
finalizzata alla costruzione dell’opera pubblica progettata".
A fortiori, lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che
l’incentivo alla progettazione venga
ripartito <tra i dipendenti dell’amministrazione
aggiudicatrice che lo abbiano redatto” e, dunque, è di
palmare evidenza come il riferimento normativo e la
conseguente voluntas legis sia ascrivibile solo alla materia
dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura ad
evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera
di pubblico interesse>”. Altresì, "La norma àncora chiaramente il riconoscimento del
diritto ad ottenere il compenso incentivante alla
circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione,
riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione
del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente”,
dovendosi, pertanto, escludere dall’incentivo economico la
redazione di atti di pianificazione urbanistica.
Ad ulteriore sostegno del
riconoscimento dell’incentivo agli incaricati della
redazione di un atto di progettazione o pianificazione solo
qualora questo abbia ad oggetto la realizzazione di un’opera
pubblica, il Decreto del Ministero dell’Interno 22.04.2013,
n. 66, recante norme per la ripartizione dell’incentivo
economico al personale del Dipartimento dei vigili del
fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile, detta
disposizioni pregnanti anche ai fini della risoluzione del
caso di specie, laddove prevede, all’art. 2, commi 2 e 3,
che gli incentivi di cui all’art. 92, c. 5, del Codice dei
contratti “sono riconosciuti per le attività del
responsabile del procedimento e degli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione lavori, del collaudo, nonché dei loro
collaboratori. Gli incentivi di cui al comma 1 del presente articolo sono
riconosciuti soltanto quando i relativi progetti siano stati
formalmente approvati e posti a base di gara e riguardino
lavori pubblici di competenza dell'amministrazione, quali
attività di costruzione, demolizione, recupero,
ristrutturazione, restauro e manutenzione straordinaria e
ordinaria, comprese le eventuali progettazioni di connesse
campagne diagnostiche e le eventuali redazioni di perizie di
variante e suppletive nei casi previsti dall'art. 132, comma
1, del codice, ad eccezione della lettera e)”. Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla
Sezione, con nota prot. n. 11287/1.13.9 del 26.06.2013, una
richiesta di parere formulata dal Sindaco del Comune di
Borgo San Lorenzo, in materia di incentivi alla
progettazione di cui all’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006
(Codice dei contratti). In particolare si chiede, alla luce delle diverse
interpretazioni, se possa essere erogato l’incentivo “ai
dipendenti facenti parte dell’ufficio di piano”
costituito al fine di redigere il Regolamento urbanistico
dell’ente, la cui attività di pianificazione è ritenuta
strumentale alla progettazione di opere pubbliche. ... Nel merito, l’art. 92, comma 5, del D.Lgs. 163/2006 (codice
degli appalti) recita: “Una somma non superiore al due
per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di
un lavoro, (…) è ripartita, per ogni singola opera o lavoro,
con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata e assunti in un regolamento
adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del
procedimento e gli incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale
effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita
dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità
dell'opera da realizzare(…)”. L’art. 92, comma 6, del
D.Lgs. 163/2006 (codice degli appalti) recita: “Il trenta
per cento della tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è
ripartito, (…) tra i dipendenti dell'amministrazione
aggiudicatrice che lo abbiano redatto”. Questa Sezione si è già pronunciata su un quesito analogo a
quello proposto con
parere 18.10.2011 n. 213
(come ricordato dall’ente richiedente) e ancor più di
recente con
il
parere 27.11.2012 n. 389
e con il
parere 12.12.2012 n. 459,
ove ha chiarito che “un atto
regolamentare non può essere assimilato, per il suo
contenuto intrinseco, ad un progetto di lavori comunque
denominato mentre l’art. 90 del D.lgs. n. 163/2006, sia alla
rubrica che al c. 1, fa riferimento esclusivamente ai lavori
pubblici, e l’art. 92, c. 1, presuppone l’attività di
progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come
finalizzata alla costruzione dell’opera pubblica progettata".
A fortiori, lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che
l’incentivo alla progettazione venga ripartito <tra
i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo
abbiano redatto” e, dunque, è di palmare evidenza come il
riferimento normativo e la conseguente voluntas legis sia
ascrivibile solo alla materia dei lavori pubblici,
presupponendosi una procedura ad evidenza pubblica
finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico
interesse>”,
in sintonia, peraltro, con un parere di altra sezione della
Corte dei conti (Piemonte
parere 30.08.2012 n. 290),
che, in riferimento alla disciplina normativa di cui
trattasi, afferma: “La norma àncora
chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il
compenso incentivante alla circostanza che la redazione
dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e
non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta
all’interno dell’Ente”, dovendosi, pertanto, escludere
dall’incentivo economico la redazione di atti di
pianificazione urbanistica.
Ad ulteriore sostegno del riconoscimento
dell’incentivo agli incaricati della redazione di un atto di
progettazione o pianificazione solo qualora questo abbia ad
oggetto la realizzazione di un’opera pubblica, il
decreto 22.04.2013 n. 66 del Ministero
dell'Interno, recante norme per la ripartizione
dell’incentivo economico al personale del Dipartimento dei
vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa
civile, detta disposizioni pregnanti anche ai fini della
risoluzione del caso di specie, laddove prevede, all’art. 2,
commi 2 e 3, che gli incentivi di cui all’art. 92, c.5, del
Codice dei contratti “sono riconosciuti per le attività
del responsabile del procedimento e degli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione lavori, del collaudo, nonché dei loro
collaboratori. Gli incentivi di cui al comma 1 del presente articolo sono
riconosciuti soltanto quando i relativi progetti siano stati
formalmente approvati e posti a base di gara e riguardino
lavori pubblici di competenza dell'amministrazione, quali
attività di costruzione, demolizione, recupero,
ristrutturazione, restauro e manutenzione straordinaria e
ordinaria, comprese le eventuali progettazioni di connesse
campagne diagnostiche e le eventuali redazioni di perizie di
variante e suppletive nei casi previsti dall'art. 132, comma
1, del codice, ad eccezione della lettera e)”. Nelle sopra esposte considerazioni è il parere della Corte
dei conti –Sezione regionale di controllo per la Toscana- in
relazione alla richiesta formulata dal Sindaco del Comune di
Borgo San Lorenzo per il tramite del Consiglio delle
autonomie con nota prot. n. 11287/1.13.9 del 26.06.2013
(Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 29.07.2013 n. 252). |
ENTI
LOCALI - SEGRETARI COMUNALI: Segretari,
i costi non si dividono. Delibera
Corte conti sulle convenzioni. Le spese del personale relative al segretario comunale che
opera anche in altri comuni in convenzione, devono essere
classificate per intero nel bilancio dell'ente e non in
quota parte. Infatti, il rapporto di servizio del segretario
che presta la sua opera anche presso un ente diverso da
quello di assegnazione principale rimane, sotto il profilo
del rapporto organico, in capo al comune capofila e
l'inscindibilità del rapporto stesso non consente di
considerare la spesa per il dipendente solo per una quota
parte. È quanto ha affermato la sezione delle autonomie della Corte
dei conti, nella
deliberazione
26.07.2013 n. 17, facendo chiarezza su un aspetto
delle disposizioni previste dall'articolo 76, comma 6, del
dl n. 112/2008, in materia di rapporto tra spesa del
personale e quella corrente. La vicenda.
Il comune di Terranova del Pollino ha in regime di
convenzione con altri due enti il servizio del segretario
comunale. Essendo comune capofila, anticipa per il predetto
servizio l'intero onere finanziario, comprensivo di
contributi fiscali e previdenziali, mentre gli altri due
enti versano mensilmente a quest'ultimo la propria quota, a
scadenze diverse. Il comune afferma che le quote di rimborso provenienti dagli
altri due enti andrebbero escluse in bilancio dalla voce «spese
di personale», perché legate a prestazioni che il
segretario svolge nell'interesse degli altri enti e che le
stesse, per i limiti ex dl n. 112/2008, andrebbero
considerate solo per la propria quota spettante, mentre le
altre dovrebbero rientrare nelle spese per prestazioni di
servizi. La decisione.
Per la Corte, anche se non esiste una disposizione attuale
che indichi quali siano le componenti dell'aggregato spesa
di personale per il vincolo che fa riferimento al rapporto
spesa di personale e spesa corrente, si ritiene preferibile
non ammettere l'esclusione. Rafforza questa conclusione l'evidenza che il rapporto di
servizio del segretario che presta la sua opera anche presso
un ente diverso da quello di assegnazione principale rimane,
in capo al comune capofila. Tale inscindibilità, pertanto,
non consente di considerare la spesa per il dipendente solo
per una quota parte
(articolo ItaliaOggi del 31.07.2013). |
URBANISTICA: L’art.
31, comma 48, della legge n. 448/1998 così dispone: “Il
corrispettivo delle aree cedute in proprietà è determinato
dal comune, su parere del proprio ufficio tecnico, in misura
pari al 60 per cento di quello determinato ai sensi
dell'articolo 5-bis, comma 1, del decreto-legge 11.07.1992,
n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge
08.08.1992, n. 359, escludendo la riduzione prevista
dall'ultimo periodo dello stesso comma, al netto degli oneri
di concessione del diritto di superficie, rivalutati sulla
base della variazione, accertata dall'ISTAT, dell'indice dei
prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati
verificatasi tra il mese in cui sono stati versati i
suddetti oneri e quello di stipula dell'atto di cessione
delle aree. Comunque il costo dell'area così determinato non
può essere maggiore di quello stabilito dal comune per le
aree cedute direttamente in diritto di proprietà al momento
della trasformazione di cui al comma 47”.
La suddetta disposizione deve essere intesa secondo la lettera della
disposizione medesima e cioè nel senso che il calcolo per la
determinazione del corrispettivo per la trasformazione del
diritto di superficie in diritto di proprietà deve essere
effettuato nella misura del 60 per cento del valore venale
del bene con conseguente riduzione del 40 per cento.
---------------
Il Comune di Ferrara,
rappresentato dal Sindaco, con lettera del 16.05.2013, n.
prot. 40015 del 20.05.2013, ha chiesto un parere a questa
Sezione in materia di contabilità pubblica, ai sensi
dell’art. 7 comma 8, della legge n. 131 del 2003, ed in
particolare sulla corretta interpretazione ed
applicazione dell’art. 31, comma 48, della legge n. 448 del
1998 (Finanziaria per il 1999), riguardante la
determinazione del corrispettivo per la trasformazione del
diritto di superficie in diritto di proprietà, anche in
considerazione delle deliberazioni della Corte dei conti,
Sezioni riunite n. 22/CONTR/11 del 14.11.2011 e Sezione
Regionale per la Lombardia n. 1 del 2009. Fa rilevare il Comune richiedente che “dalla lettura
della normativa (art. 31, comma 48, della legge n. 448 del
1998) e dal disposto della Corte, appare una difformità in
merito alla percentuale da applicare: A) valore venale del bene calcolato al 60% e pertanto
riduzione del 40% (secondo l’art. 31, comma 48, della legge
n. 448 del 1998); B) valore venale del bene calcolato al 40% e pertanto
riduzione del 60% (secondo quanto scritto dalla Corte dei
conti a Sezioni riunite che, peraltro, richiama la medesima
normativa)”. ... Ai fini della soluzione del quesito occorre preliminarmente
richiamare la lettera dell’art. 31, comma 48, della legge n.
448 del 1998: “Il corrispettivo delle aree cedute in
proprietà è determinato dal comune, su parere del proprio
ufficio tecnico, in misura pari al 60 per cento di quello
determinato ai sensi dell'articolo 5-bis, comma 1, del
decreto-legge 11.07.1992, n. 333, convertito, con
modificazioni, dalla legge 08.08.1992, n. 359, escludendo la
riduzione prevista dall'ultimo periodo dello stesso comma,
al netto degli oneri di concessione del diritto di
superficie, rivalutati sulla base della variazione,
accertata dall'ISTAT, dell'indice dei prezzi al consumo per
le famiglie di operai e impiegati verificatasi tra il mese
in cui sono stati versati i suddetti oneri e quello di
stipula dell'atto di cessione delle aree. Comunque il costo
dell'area così determinato non può essere maggiore di quello
stabilito dal comune per le aree cedute direttamente in
diritto di proprietà al momento della trasformazione di cui
al comma 47”. Con specifico riferimento all’esegesi della locuzione “Il
corrispettivo delle aree cedute in proprietà è determinato
dal comune, su parere del proprio ufficio tecnico, in misura
pari al 60 per cento…” deve rilevarsi che il dubbio
interpretativo sollevato dal Comune richiedente è solo
apparente in quanto v’è nella sostanza coincidenza tra la
lettera della norma citata e i deliberati della Corte, nel
senso che il calcolo per la determinazione del corrispettivo
per la trasformazione del diritto di superficie in diritto
di proprietà deve essere effettuato nella misura del 60 per
cento del valore venale del bene con conseguente riduzione
del 40 per cento. L’ipotesi della riduzione del 60 per cento del valore del
bene deve essere dunque esclusa dalla lettura complessiva
delle due citate deliberazioni che pure utilizzano
un’impropria sintetica locuzione riportata peraltro sia nel
dispositivo della deliberazione delle Sezioni riunite n. 22
del 2010: “…applicando la riduzione del 60 per cento al
valore individuato facendo riferimento ai vigenti criteri di
calcolo dell’indennità di espropriazione…” (punto 5
della pronuncia), sia in quello del parere reso dalla
Sezione di controllo per la Lombardia n. 1 del 2009 al
Sindaco di Bertonico: “…va affermato che nella
determinazione del prezzo per la trasformazione del diritto
di superficie in diritto di proprietà deve prendersi a base
di calcolo l’equa riparazione stabilita dall’art. 2, comma
89, della Finanziaria per il 2008, da decurtare nei limiti
del 60% come previsto dall’art. 31, comma 48, della
Finanziaria per il 1999”. Conclusivamente
la disposizione di cui
all’art. 31, comma 48, della legge n. 448 del 1998 deve
essere intesa secondo la lettera della disposizione medesima
e cioè nel senso che il calcolo per la determinazione del
corrispettivo per la trasformazione del diritto di
superficie in diritto di proprietà deve essere effettuato
nella misura del 60 per cento del valore venale del bene con
conseguente riduzione del 40 per cento
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 25.07.2013 n.
258). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Il maggior onere finanziario che l’ente locale deve
sostenere per il pagamento, a saldo, di parcelle di avvocati
esterni che hanno assunto il patrocinio dell’ente in un
giudizio non costituisce una fattispecie di debito fuori
bilancio, ex art. 191, lett. e), TUEL, tutte le volte in
cui, essendoci la capienza del capitolo di bilancio relativo
al pagamento delle spese legali, possa essere disposta una
integrazione dell’originario atto di impegno registrato nel
momento di conferimento dell’incarico professionale.
---------------
Il Sindaco del
Comune di Parma ha formulato alla Sezione una richiesta di
parere con la quale intende conoscere quale sia il
corretto procedimento di natura contabile da seguire per
poter assumere il maggior onere finanziario relativo al
pagamento, a saldo, delle parcelle di avvocati esterni
incaricati della difesa giudiziale dell’Ente originato,
rispetto alle previsioni iniziali, da imprevedibili
complessità e peculiarità del giudizio penale. In particolare, vengono posti i seguenti quesiti:
1) “se, in ipotesi di inadeguata previsione di spesa
da parte di un professionista incaricato della difesa
dell’Ente –motivata dalla difficoltà di apprezzamento “a
priori” delle prestazioni richieste, in ragione della
peculiarità, complessità ed imprevedibilità del giudizio
penale– la richiesta di pagamento della somma residua “non
impegnata” costituisca -una volta intervenuta la sentenza
che definisce il giudizio– un debito fuori bilancio”; 2)
"se, diversamente, in caso di capienza del capitolo
destinato al pagamento delle spese legali, sia possibile
procedere all’impegno della somma residua richiesta dal
professionista a titolo di saldo parcella -quest’ultima
regolarmente opinata dall’ordine forense-, facendola
gravare, con determinazione dirigenziale di liquidazione, su
esercizio finanziario successivo rispetto a quello in cui
l’incarico si sia concluso”. ... Ai fini della soluzione del quesito posto occorre
preliminarmente richiamare la deliberazione n. 311/2012/PAR
nella quale questa Sezione si è ampiamente occupata del
rapporto tra la procedura contabile “ordinaria” per
l’assunzione di spese che gravano sui bilanci degli enti
locali e la procedura per il riconoscimento dei cd. debiti
fuori bilancio. In tale pronuncia la Sezione ha rilevato, che gli enti
locali, al pari di tutte le altre pubbliche amministrazioni,
per poter legittimamente assumere a carico del proprio
bilancio obbligazione giuridiche nei confronti dei terzi,
devono seguire una procedura, articolata in più fasi,
prevista e disciplinata negli articoli 182-185 e 191 TUEL.
Tale ultima disposizione, al comma 1, stabilisce che gli
enti locali possono effettuare spese solo a seguito
dell’assunzione, da parte del responsabile del servizio
finanziario, dell’atto di impegno da registrarsi sul
pertinente intervento o capitolo di bilancio, munito
dell’attestazione della relativa copertura finanziaria. Il rispetto di tale procedura, oltre a garantire l’obbligo
della copertura finanziaria degli atti da cui derivano
impegni di spesa e la salvaguardia degli equilibri di
bilancio, consente di evitare la formazione di debiti
originati in via extracontabile. Pur tuttavia, qualora vengano in essere obbligazioni
giuridiche al di fuori della descritta procedura ordinaria,
l’ordinamento giuscontabile prevede, comunque, la
possibilità di ricondurle nella contabilità ordinaria
dell’ente, purché si tratti di obbligazioni rientranti nelle
fattispecie tassativamente elencate nell’articolo 191 TUEL e
purché venga adottato un atto di riconoscimento del debito
da parte dell’organo consiliare. Ciò premesso, la Sezione rileva che,
in
ossequio ai principi di prudenza e di sana gestione
finanziaria, nel momento in cui l’ente locale assume
obbligazioni giuridiche nei confronti dei terzi deve,
contestualmente, procedere a determinare, secondo la stima
più precisa possibile, le somme da corrispondere al fine di
poter adottare i relativi atti della procedura contabile,
evitando la formazione di debiti che si originano con una
procedura extracontabile.
Per le ipotesi di assunzione di atti di
impegno derivanti da contratti di prestazione d’opera
intellettuale si richiama il principio contabile n. 2, cpv.
108, del Testo approvato dall’Osservatorio del Ministero
dell’Interno il 12.03.2008, ai sensi del quale <l’ente
deve determinare compiutamente, anche in fasi successive
temporalmente, l’ammontare del compenso (esempio gli
incarichi per assistenza legale) al fine di evitare la
maturazione di oneri a carico del bilancio non coperti
dall’impegno di spesa inizialmente assunto. Il regolamento
di contabilità dell’ente potrà disciplinare l’assunzione di
ulteriore impegno, per spese eccedenti l’impegno originario,
dovute a cause sopravvenute ed imprevedibili>. Ne deriva, pertanto, che
è onere dell’ente
trovare, nel momento del conferimento dell’incarico
professionale, la copertura finanziaria della spesa per gli
onorari da pagare quale compenso per la prestazione resa che
tenga conto non solo degli acconti, ma anche del saldo in
modo da coprire la spesa complessiva e nella sua interezza.
Ciò nonostante
nell’ipotesi in cui vi sia
uno scostamento tra la previsione di spesa iniziale
(ricompresa nel formale atto di impegno) e quella finale, il
cui superiore ammontare sia derivato,
nella specie, da fatti sopravvenuti ed
imprevedibili, quali la peculiarità, complessità e
imprevedibilità del giudizio penale, questa Sezione,
in conformità all’orientamento già formatosi presso altre
Sezioni regionali di controllo (cfr. Sez. Lombardia,
deliberazioni nn. 19/2009/PAR e 441/2012/PAR; Sez. Campania,
deliberazione n. 9/2007; Sez. Sardegna deliberazione n.
2/2007), ritiene che il maggior onere di
imprevedibile quantificazione debba essere coperto
integrando l’originario atto di impegno di spesa, poiché è
necessario solo aumentare l’importo delle somme da
corrispondere al professionista, restando invariati il
titolo giuridico e gli altri elementi dell’obbligazione
assunta dall’Ente (atto di conferimento dell’incarico
professionale, soggetto creditore). Si rileva, infine, che,
pur potendo il
conferimento di incarichi di natura professionale
astrattamente rientrare nell’ipotesi di cui alla lettera e)
all’articolo 191 TUEL, in quanto trattasi di acquisizione di
un servizio, ritiene la Sezione che non sia necessario
utilizzare la procedura di riconoscimento di debito fuori
bilancio nell’ipotesi,
quale quella in esame, nei limiti
dell’ipotesi di maggiori oneri di imprevedibile
quantificazione, poiché l’incarico era stato regolarmente
conferito ed il relativo impegno era stato assunto secondo
la ordinaria procedura di spesa di cui all’art. 183 TUEL,
seppur con un importo inferiore rispetto a quello necessario
a soddisfare interamente la pretesa creditoria del
professionista esterno. Il presente parere ed i principi in esso espressi vengono
resi dalla Sezione prescindendo dalla verifica, rimessa
all’amministrazione istante, del rispetto della procedura di
conferimento dell’incarico professionale, della valutazione
circa la convenienza e congruità del compenso pattuito,
nonché delle ragioni che non hanno consentito
l’utilizzazione di risorse interne all’amministrazione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 25.07.2013 n.
256). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Il ricorso ai sistemi telematici o agli strumenti
elettronici messi a disposizione dalla Regione Lombardia non
debbono essere intese quale ulteriore specificazione delle
fattispecie di acquisto autonomo (tanto nei casi in cui
l’oggetto dell’acquisizione sia già presente sul MEPA,
quanto nelle ipotesi in cui non sia ivi rinvenibile), bensì
quale vera e propria forma equipollente di e-procurement che
permette l’approvvigionamento di beni e servizi mediante
procedure telematiche previste dalla legge.
--------------- ... il Presidente della Regione Lombardia mediante nota del
20.06.2013, ha posto un quesito sulla disciplina e sulle
modalità di accesso da parte delle pubbliche amministrazioni
lombarde al Sistema telematico regionale (Sintel), quale
piattaforma tecnologica alternativa al MEPA, agli altri
mercati elettronici descritti nell’art. 328 comma1 del
regolamento al Codice degli Appalti (D.P.R. n. 207/2010), al
ricorso alla centralizzazione degli acquisti tramite
convenzioni Consip. ... Tutto ciò premesso, si rileva che il Sistema Telematico
“regionale”: - rappresenta un’alternativa al MEPA o altri mercati
elettronici di cui all'articolo 328, comma 1, del
regolamento del Codice degli Appalti (DPR 2010, n. 207)
nell’ipotesi prevista dal richiamato comma 450, articolo 1,
della legge 27 dicembre 2006, n.296. - rappresenta un’alternativa alla centralizzazione delle
acquisizioni (anche in ambito di lavori) dettate per i
Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti
nell’ipotesi prevista dall’articolo 33, comma 3-bis del Dlgs
n. 163/2006. Tuttavia i pareri svolti dalla Corte dei Conti, Sezioni di
Controllo della Regione Marche (n. 169/2012) e della Regione
Lombardia sul tema (n. 165/2013 e n. 89/2013) non compiono
alcun riferimento ai Sistemi Telematici messi a disposizione
dalle Centrali di Committenza Regionali. Infatti tali
pareri, nel descrivere le ipotesi in cui un Ente Locale è
legittimato ad effettuare un acquisto autonomo, compiono
riferimento unicamente alla fattispecie in cui l’oggetto
dell’acquisizione non è presente nelle categorie
merceologiche del MEPA o altro Mercato Elettronico non
considerando l’alternativa fornita dai richiamati Sistemi
Telematici delle centrali regionali. ... Tutto ciò esposto e in particolare alla luce della
differenza sia formale che sostanziale richiamata, si
chiede pertanto a codesta spettabile Sezione di confermare
l’ambito di alternativa/equipollenza rappresentato dalla
predetta locuzione sistema telematico messo a disposizione
dalla centrale regionale di riferimento (nelle diverse
accezioni sopra elencate) con riguardo al concetto di
Mercato Elettronico. In particolare si richiede di
confermare la legittimità delle modalità di acquisto
descritte nelle ipotesi sub a) e sub b) ovvero che l’ente
locale possa adempiere al dettato normativo anche
utilizzando la piattaforma telematica regionale Sintel.
Tale invero sembra essere senza alcun dubbio l’intenzione
del legislatore e cioè quello di promuovere l’utilizzo di
strumenti telematici di acquisto, siano essi gestiti dalla
centrale di committenza nazionale (MEPA, da Consip) siano
essi gestiti da centrali di committenza regionali (Sintel,
in Lombardia, da ARCA). Analogamente, alla luce delle considerazioni svolte in
merito alle differenze tra diversi sistemi, si chiede a
codesta spettabile Sezione di confermare l’ambito di
alternatività portato dall’articolo 33, comma 3-bis, del
D.Lgs. n. 163/2006, per le acquisizioni di lavori, servizi e
forniture dei Comuni con popolazione non superiore a 5.000,
e segnatamente: in alternativa, gli stessi Comuni possono
effettuare i propri acquisti attraverso gli strumenti
elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di
committenza di riferimento. ----------------- L’amministrazione regionale ha delineato nel contesto del
quesito il quadro normativo che disciplina il sistema degli
acquisti in rete mediante il quale le pubbliche
amministrazioni devono conformarsi nel procurarsi beni e
servizi. Con riferimento alle questioni di coordinamento fra le varie
discipline che si sono stratificate a partire dall’art. 26,
commi 1 e 3, della legge n.488/1999, per concludere con i
precetti dell’art. 1 del D.L. n. 95/2012, è sufficiente
rinviare all’ampia disamina del quadro normativo delineato
nei precedenti consultivi di questa Sezione, cui la stessa
amministrazione istante si è riferita, tanto con riferimento
al (SRC Lombardia, deliberazione n. 89/2013/PAR;
deliberazione n. 165/2013/PAR, ed in termini SRC Marche
deliberazione n. 169/2012/PAR; SRC Piemonte, deliberazione
n. 271/2012/PAR). I pilastri su cui si fonda il sistema di e-procurement
possono essere individuati in primo luogo, nel vincolo di
benchmark rispetto alle convenzioni Consip; in secondo
luogo, nell’utilizzo del MEPA. per la generalità degli
acquisti ed, infine, nella possibilità di aderire ai sistemi
telematici e agli strumenti elettronici di negoziazioni
messi a disposizioni dalle Centrali di committenza regionali
e/o da altre Centrali di committenza di riferimento. Ciò posto, ai fini della tenuta complessiva del sistema di
e-procurement via via delineato dal legislatore, occorre
ribadire la natura vincolistica dei recenti interventi che
hanno profondamente innovato il quadro normativo relativo
agli acquisti di beni e servizi della Pubblica
Amministrazione in genere. Di qui l’adozione di
un’interpretazione rigorosa delle disposizioni di cui
trattasi tale da non frustrarne o eluderne i sottesi
principi informatori, con prioritario rilievo al criterio
letterale. In particolare, per quanto concerne le convenzioni Consip,
ai sensi del sopracitato art. 1, comma 449, l. n. 296/2006,
le amministrazioni pubbliche non statali di cui all'articolo
1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive
modificazioni, possono ricorrere alle convenzioni di cui al
presente comma e al comma 456 del presente articolo, ovvero
ne utilizzano i parametri di prezzo-qualità come limiti
massimi per la stipulazione dei contratti. Ergo, in linea di principio, le sanzioni stabilite dall’art.
1, comma 1, del citato decreto legge n. 95 appaiono
applicabili anche ai contratti stipulati dagli enti locali
senza tener conto dei parametri prezzo-qualità delle
convenzioni Consip quale limite massimo per l’acquisto di
beni o servizi comparabili. Per quanto concerne i Comuni di minore dimensione, dal
momento dell’entrata in vigore dell’art. 33, comma 3-bis,
del d.lgs. n. 163/2006 l’obbligo di avvalersi delle
convenzioni Consip, degli strumenti elettronici di acquisto
gestiti da altre centrali di committenza di riferimento
trova applicazione per tutti gli enti inferiori a 5.000
abitanti, quale possibilità alternativa al ricorso ad
un’unica centrale di committenza nell’alveo di un’unione o
di un consorzio di comuni. Resta fermo il disposto dell’art. 1, comma 7, del D.L. n.
95/2012, relativo ad alcune tipologie specifiche di acquisti
da parte delle amministrazioni pubbliche e delle società
inserite nel conto economico consolidato della pubblica
amministrazione, come individuate dall'ISTAT ai sensi
dell'articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196, a totale
partecipazione pubblica diretta o indiretta (senza
esclusioni soggettive). Siffatti enti, relativamente alle
categorie merceologiche di energia elettrica, gas,
carburanti rete e carburanti extra-rete, combustibili per
riscaldamento, telefonia fissa e telefonia mobile, sono
tenuti ad approvvigionarsi attraverso le convenzioni o gli
accordi quadro messi a disposizione da Consip S.p.A. e dalle
centrali di committenza regionali di riferimento (costituite
ai sensi dell'articolo 1, comma 455, della legge 27.12.2006,
n. 296), ovvero ad esperire proprie autonome procedure nel
rispetto della normativa vigente utilizzando i sistemi
telematici di negoziazione messi a disposizione dai soggetti
sopra indicati. È fatta salva la possibilità di procedere ad affidamenti,
nelle indicate categorie merceologiche, anche al di fuori
delle predette modalità, ma a condizione che gli stessi
conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di
committenza o a procedure di evidenza pubblica, e prevedano
corrispettivi inferiori a quelli indicati nelle convenzioni
e accordi quadro messi a disposizione da Consip S.p.A. e
dalle centrali di committenza regionali. In tali casi i
contratti dovranno comunque essere sottoposti a condizione
risolutiva con possibilità per il contraente di adeguamento
ai predetti corrispettivi nel caso di intervenuta
disponibilità di convenzioni Consip e delle centrali di
committenza regionali che prevedano condizioni di maggior
vantaggio economico. La mancata osservanza delle
disposizioni del presente comma rileva ai fini della
responsabilità disciplinare e per danno erariale. Passando al Mercato elettronico della P.A. (c.d. MEPA), il
richiamato art. 1, comma 450, l. n. 296/2006 distingue il
regime normativo delle “amministrazioni statali centrali
e periferiche” rispetto a quello delle “altre
amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 D.Lgs.
n.165/2001”. Gli Enti locali, ai fini dell’affidamento
di appalti pubblici di importo inferiore alla soglia di
rilievo comunitario, debbono obbligatoriamente ricorrere al
mercato elettronico. Cionondimeno, non sussiste un obbligo assoluto di ricorso al
Mercato Elettronico della P.A. (c.d. MEPA), essendo
espressamente prevista la facoltà di scelta tra le diverse
tipologie di mercato elettronico richiamate dall’art. 328
del d.p.r. 207/2010: segnatamente, tra il mercato
elettronico realizzato dalla medesima stazione appaltante e
quello realizzato dalle centrali di committenza di
riferimento di cui all’art. 33 del Codice dei contratti. Emerge, dunque, evidente un favor del legislatore per
modalità di acquisto effettuata mediante sistemi c.d. di
e-procurement tali da assicurare alla amministrazione la
possibilità di entrare in contatto con una più ampia platea
di fornitori; ma, soprattutto, emerge l’esigenza di
garantire la tracciabilità dell’intera procedura di acquisto
ed una maggiore trasparenza della stessa, attesa
l’automaticità del meccanismo di aggiudicazione con
conseguente riduzione dei margini di discrezionalità
dell’affidamento. Giova osservare che, a parte la gamma di possibilità offerta
alla stazione appaltante alla stregua del richiamato art.
328 del Regolamento di esecuzione ed attuazione, lo stesso
MEPA., diversamente dal sistema delle Convenzioni Consip, si
atteggia come un mercato aperto cui è possibile l’adesione
da parte di imprese che soddisfino i requisiti previsti dai
bandi relativi alla categoria merceologica o allo specifico
prodotto e servizio e, quindi, anche di quella o quelle
asseritamente in grado di offrire condizioni di maggior
favore rispetto a quelle praticate sul MEPA ovvero un
bene/servizio conforme alle esigenze funzionali della
amministrazione procedente. L’amministrazione regionale riferisce di una carenza
previsionale, allo stato dell’arte, negli approdi consultivi
delle varie Sezioni regionali di Controllo, ed in
particolare nell’omissione di ulteriori casi di legittimo
acquisto autonomo da parte dell’Ente Locale, oltre le
ipotesi nelle quali il bene o il servizio richiesto non è
presente nelle categorie merceologiche del MEPA o di altro
mercato elettronico, non considerando l’alternativa fornita
dai richiamati Sistemi telematici messi a disposizione dalle
Centrali Acquisti Regionali. Come si può notare, l’orientamento consultivo già espresso
dalla Sezione nella citata deliberazione n. 89/2013/PAR,
conteneva alcuni richiami espliciti “agli strumenti
elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di
committenza di riferimento”, quale forma alternativa di
e-procurement previsto dal legislatore. Orbene,
non vi è dubbio che la costituzione
dell’Agenzia Regionale Centrale Acquisti, abbia ricevuto
copertura legislativa attraverso la legge regionale n.
33/2007, quale organismo di committenza previsto dall’art.
33 del D.Lgs. n. 163/2006. Il favor del legislatore per la costituzione e l’utilizzo
delle centrali di committenza regionali è avallato dalla
previsione testuale dell’art. 1, commi 449 e 450, della
legge 27.12.2006, n. 296 e dall’art. 2, comma 574, della
legge 24.12.2007, n. 244. Peraltro, i servizi di centralizzazione presi in
considerazione dalla norma di riferimento non si limitano
all’acquisto centralizzato, ma anche alla predisposizione
d’infrastrutture informatiche in grado di aumentare
trasparenza, celerità e quindi economicità degli acquisti
(piattaforme telematiche). Ne consegue che
il ricorso ai sistemi
telematici o agli strumenti elettronici messi a disposizione
dalla Regione Lombardia non debbono essere intese quale
ulteriore specificazione delle fattispecie di acquisto
autonomo (tanto nei casi in cui l’oggetto dell’acquisizione
sia già presente sul MEPA, quanto nelle ipotesi in cui non
sia ivi rinvenibile), bensì quale vera e propria forma
equipollente di e-procurement che permette
l’approvvigionamento di beni e servizi mediante procedure
telematiche previste dalla legge
(sugli obblighi di utilizzare le strutture telematiche di
e-procurement messe a disposizione dalla Regione per gli
enti del Servizio Sanitario Regionale si veda il recente
approdo del Consiglio di Stato, sentenza 18.01.2013, n.
288). Occorre inoltre rilevare che le
funzionalità offerte dai sistemi telematici resi fruibili
dalle centrali di committenza regionali alla platea delle
amministrazioni locali possono garantire talune funzionalità
aggiuntive rispetto ai cataloghi predefiniti di beni e di
servizi presenti sul MEPA, consentendo l’individuazione
selettiva di una categoria merceologica non presente nel
sistema o nel mercato elettronico, ovvero la possibilità di
utilizzare una piattaforma telematica per la gestione
dell’intera procedura di acquisto, indipendentemente dalla
forma di gara in concreto utilizzata. Analogamente,
i Comuni con popolazione non
superiore ai 5.000 abitanti, possono accedere ai sistemi
telematici messi a disposizioni dalle amministrazioni
regionali anche per l‘acquisizione di lavori, servizi e
forniture di cui al richiamato art. 33, comma 3-bis, del
D.Lgs. n.163/2006. Quanto, infine, alla distinzione concettuale fra Mercato
Elettronico della Pubblica Amministrazione e strumento
telematico da utilizzare per le procedure di gara, correttamente
l’amministrazione istante individua nell’art. 289 del D.P.R.
05.10.2010, n. 207 la nozione di Sistema informatico di
negoziazione quale piattaforma telematica strumentale
mediante la quale possono essere gestite le diverse
tipologie di procedure di gara disciplinate nel Codice degli
Appalti, rispetto alla nozione di Mercato Elettronico
richiamata dall’art. 328 del medesimo regolamento. Va da sé, infine, sottolineare che
le
piattaforme telematiche regionali debbano rispettare le
condizioni legali di trasparenza, semplificazione ed
efficacia delle procedure descritte nell’art. 295 del D.P.R.
n. 207/2010, le caratteristiche tecniche delle comunicazioni
telematiche previste dall’art. 77 del Codice degli Appalti,
nonché l’utilizzo delle previsioni contenute nel D.Lgs.
07.03.2005, n. 82
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 18.07.2013 n. 312). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Il riconoscimento del diritto ad ottenere il
compenso incentivante è ancorato dalla normativa al
presupposto che la redazione dell’atto di pianificazione o
il rinnovo delle previsioni di piano regolatore scadute
debbano essere riferibili alla realizzazione di opere
pubbliche ed avvenire interamente all’interno dell’Ente. Pertanto l’incentivo di cui al comma 6 dell’art. 92 del D.
Lgs. 163/2006 deve essere riconosciuto per la redazione di
varianti al piano regolatore collegate alla realizzazione di
opere pubbliche, sempre che il relativo incarico sia
interamente affidato al personale comunale in possesso delle
specifiche professionalità richieste dalla legge.
--------------- Con la nota indicata in premessa
il Comune di Cascia,
dopo aver premesso che in sede di redazione della Variante
Generale del vigente P.R.G., la cui "parte strutturale"
è stata affidata all'esterno, l’Ente valuterà la possibilità
di affidare la progettazione della “parte operativa”
del piano medesimo al personale interno, ha formulato i
seguenti quesiti: 1.
se l'incarico di pianificazione urbanistica da affidare
internamente, fermo restando la disponibilità tecnica,
costituisce deroga rispetto al principio generate della
onnicomprensività dei trattamento economico dei dipendenti
pubblici e pertanto può essere incentivato. La
considerazione scaturisce nell'ottica della complessità
dell'attività svolta, nonché il carattere aggiuntivo
dell'incarico, e in particolare per remunerare i dipendenti
ed i dirigenti che svolgono direttamente l'attività di
progettazione, considerando questa come il maggiore valore
aggiunto; 2.
se l'incarico di redazione della "parte operativa"
del PRG possa essere inquadrata tra gli atti di
pianificazione per i quali il comma 6 dell'art. 92 del D.Lgs
163/2006 riconosce l'incentivazione. Tale atto di
pianificazione, infatti, individua e progetta in maniera
puntuale e non separabile la localizzazione di
infrastrutture e servizi necessari ai bisogni della
collettività locale (in termini di Opere pubbliche e di
pubblica utilità, servizi, pubblici, parcheggi; aree
sportive, parchi pubblici, urbanizzazioni, ecc.);
3. se il rinnovo delle previsioni di piano regolatore
scadute, ai fini della reiterazione delle previsioni, o la
redazione di varianti puntuali per la realizzazione di opere
pubbliche, affidate internamente agli uffici comunali,
possono essere suscettibili di incentivazione ai sensi del
comma 6 art. 92 del D.Lgs. 163/2006. ... Quanto al merito,
con il primo quesito il Comune di
Cascia intende conoscere l’avviso di questa Corte in merito
alla possibilità di corrispondere, in deroga al principio
normativo di onnicomprensività del trattamento economico dei
dipendenti pubblici, l’incentivo di progettazione al
personale interno al quale venga conferito dall’ente un
incarico di pianificazione urbanistica. La risposta ai quesiti proposti dall’ente rende necessario
enucleare preliminarmente la normativa che disciplina
l’erogazione del compenso incentivante per gli incarichi di
pianificazione. Il comma 6 dell’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 recita: “Il
trenta per cento della tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è
ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel
regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto.”
La norma succitata, nonché quella contenuta nel comma 5,
esprime un preciso favor dl legislatore per l’affidamento di
incarichi concretanti prestazioni d’opera professionale a
dipendenti di ruolo dell’ente locale, disponendo misure
volte a remunerare le specifiche professionalità coinvolte e
rinviando ai regolamenti comunali e alla contrattazione
collettiva decentrata la determinazione di “criteri e
modalità” di riparto del compenso. Comportando una deroga al principio di onnicomprensività del
trattamento economico dei dipendenti pubblici, tali
disposizioni, secondo un condivisibile orientamento (ex
multis, Sezione controllo Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008),
costituiscono norme di stretta interpretazione, per le quali
opera il divieto di analogia ai sensi dell’art. 12 delle
disposizioni preliminari al codice civile. Va quindi ben delimitato l’ambito di applicazione della
succitata normativa derogatoria. In tale ottica appare
necessario precisare, preliminarmente, l’esatto significato
della locuzione “atto di pianificazione”, contenuta
nel comma 6 della norma citata. L’indirizzo affermatosi al
riguardo in seno alle Sezioni di controllo della Corte dei
conti (ex multis, Sez. contr. Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259;
parere 06.03.2012 n. 57;
Sez. contr. Puglia,
parere 16.01.2012 n. 1;
Sez. contr. Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213
e
parere 13.11.2012 n. 293;
Sez. Piemonte,
parere 30.08.2012 n. 290,
dal quale questa Sezione non ha motivo di discostarsi, è nel
senso che “l’atto di pianificazione
comunque denominato” indicato nel comma 6 del citato
art. 92 si riferisce ad atti che abbiano ad oggetto la
pianificazione del territorio collegata alla realizzazione
di opere pubbliche (ad es. variante necessaria per la
localizzazione di un’opera) e non si estende alla mera
attività di pianificazione del territorio, quale la
redazione del Piano regolatore o una variante generale.
A tale conclusione conduce peraltro, a giudizio di questa
Corte, un’interpretazione sistematica della normativa che
disciplina l’incentivo di progettazione, atteso che la
previsione di cui al comma 6 va coordinata sia con i commi
precedenti del medesimo art. 92 sia con l’art. 90 del codice
dei contratti pubblici. Invero, l’intero impianto dell’art.
92, rubricato “Corrispettivi, incentivi per la
progettazione e fondi a disposizione delle stazioni
appaltanti”, ruota intorno all’attività di progettazione
di un’opera o di un lavoro che l’amministrazione pubblica,
in veste di stazione appaltante, deve aggiudicare. Nel comma 1 del citato art. 92 si parla di “compensi
relativi allo svolgimento della progettazione e delle
attività tecnico-amministrative ad essa connesse
all'ottenimento del finanziamento dell'opera progettata”.
Il successivo comma 2 si occupa delle tabelle dei
corrispettivi che la stazione appaltante può utilizzare
quale criterio per determinare l’importo da porre a base
dell’affidamento. Il comma 3 si occupa a sua volta dei
criteri di calcolo dei corrispettivi dei vari livelli di
progettazione (preliminare, definitiva ed esecutiva). Il
comma 5 dispone che “Una somma non superiore al due per
cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un
lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell'amministrazione, a valere
direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93,
comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con
le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione
decentrata e assunti in un regolamento adottato
dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e
gli incaricati della redazione del progetto, del piano della
sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché
tra i loro collaboratori…”. L’art. 90 del medesimo D.Lgs. 163/2006 dispone, in relazione
alle “prestazioni relative alla progettazione
preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori, nonché alla
direzione dei lavori e agli incarichi di supporto
tecnico-amministrativo alle attività del responsabile del
procedimento e del dirigente”, che tali attività siano
espletate da risorse interne alla stazione appaltante,
purché in possesso dei requisiti di abilitazione
professionale. In effetti, l’affidamento a soggetti comunque
interni al plesso pubblicistico viene considerato dal codice
dei contratti preferenziale, tanto che il comma 6 dello
stesso articolo 90 stabilisce i casi in cui l’incarico di
progettazione preliminare può essere legittimamente affidato
a professionalità esterne all’Amministrazione. Le suesposte considerazioni consentono al Collegio di
affermare che, ai fini della
riconoscibilità del diritto al compenso incentivante, assume
rilevanza non già il nomen juris attribuito all’atto
di pianificazione, bensì il suo contenuto specifico,
intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica
quale, ad esempio, una variante necessaria per la
localizzazione di un’opera
(cfr. Corte conti, sez. controllo Toscana
parere 18.10.2011 n. 213),
ovvero a quel quid pluris di progettualità
interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale
che costituisce, al contrario, diretta espressione
dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al
dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente
spettante. Va ulteriormente precisato che
il
riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso
incentivante è ancorato dalla normativa suindicata
all’ulteriore presupposto che la redazione dell’atto di
pianificazione -comunque riferibile alla realizzazione di
opere pubbliche– avvenga interamente all’interno dell’Ente. Alla luce di quanto sopra esposto, questa Sezione ritiene,
pertanto, che nessun compenso possa essere corrisposto al
personale interno nella fattispecie in esame, tanto più che
l’incarico che l’ente intende conferire a detto personale
riguarda la redazione della “parte operativa” della
variante al piano regolatore generale, mentre l’incarico di
redigere la “parte strutturale” del piano risulta già
conferito dall’ente a professionalità esterne. Quanto all’ultimo quesito proposto, la Sezione ritiene, in
applicazione delle suesposte coordinate interpretative, che
al personale interno non può essere corrisposto
alcun incentivo per progettare il rinnovo delle previsioni
di piano regolatore scadute, ai fini della reiterazione
delle previsioni in esso contenute. Viceversa, l’incentivo
di cui al comma 6 dell’art. 92 del D.Lgs. 163/2006 deve
essere riconosciuto per la redazione di varianti al piano
regolatore collegate alla realizzazione di opere pubbliche,
sempre che il relativo incarico sia interamente affidato al
personale comunale in possesso delle specifiche
professionalità richieste dalla legge
(Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria,
parere 09.07.2013 n. 119). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: No alla pubblicazione del bando per
l’assunzione di personale se lo stesso
comporta il superamento del limite di spesa
previsto dal patto di stabilità interno. Enti locali - Limite
di spesa per il personale - Estensione
del patto di stabilità interno ai piccoli
comuni. La Corte
dei conti, sezione regionale di controllo per la Toscana, si
è pronunciata sulla richiesta di parere proveniente dal
sindaco di un piccolo comune, relativamente alla possibilità
di non rispettare il limite di spesa dell’anno precedente
per poter effettuare l’assunzione di una unità di
personale in base alla programmazione già avvenuta con
atto del febbraio 2012. Come fatto osservare dall’ente proponente infatti, pur
non essendo ancora stato pubblicato il bando di concorso,
un parere del ministero dell’Economia e delle
finanze “farebbe salve” le assunzioni dei piccoli comuni compresi tra i 1.001 e i 5.000 abitanti.
Nel merito, la Corte ha preliminarmente ripercorso la
normativa relativa alla limitazione di spesa per il
personale
delle pubbliche amministrazioni. Invero, inizialmente
il legislatore ha imposto due differenti discipline a
seconda che gli enti interessati siano stati sottoposti al
patto di stabilità interno o meno. Invero, in relazione ai
primi si applica l’art. 1, comma 557, della legge n.
296/2006 (legge finanziaria per il 2007) che impone una
riduzione di spesa rispetto all’esercizio finanziario
dell’anno
precedente. Per i secondi invece, si applicano le
disposizioni contenute nel comma 562 della legge richiamata,
che impone sì una riduzione di spesa, ma
l’anno di riferimento è il 2008. Tuttavia, l’art. 16, comma 31, del Dl n. 138/2011 (conv.
con la legge n. 148/2011) ha sottoposto al patto di
stabilità interno anche i comuni con popolazione superiore
ai 1.000 abitanti, ampliando in modo esponenziale
l’applicazione del comma 557 richiamato, anziché del
comma 562. Tale circostanza è stata peraltro già trattata
dalla sezione delle autonomie, con la deliberazione n.
6 depositata l’11.05.2012. Nella stessa, la Corte ha avuto modo di affermare che
“sebbene non siano state previste specifiche disposizioni di
diritto intertemporale volte a regolare il passaggio tra i
due
assetti normativi, l’estensione della disciplina del patto
di
stabilità ai comuni con popolazione inferiore a 5.000
abitanti
è avvenuta assicurando, comunque, un congruo arco temporale
durante il quale gli stessi enti potranno provvedere a
riprogrammare non soltanto le procedure di reclutamento,
in linea con il preannunciato regime vincolistico, ma anche
i
livelli complessivi di spesa”. Pertanto la Corte adita, non ravvisando ragioni per
sottrarre tali tipologie di comuni all’immediata e uniforme
applicazione dei vincoli per la spesa pubblica, ha
ritenuto opportuno per l’ente interessato non procedere
alla pubblicazione del bando relativo al concorso
per l’assunzione di personale, in quanto lo stesso
comporterebbe
una violazione del limite di spesa previsto
dal patto di stabilità interno (Corte dei Conti, Sez. reg. controllo Toscana,
parere 18.06.2013 n.
190 - commento tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n.
7-8/2013). |
ENTI
LOCALI:
Le spese per la revisione dei veicoli della
pubblica amministrazione possono e devono
essere debitamente preventivate. Spesa pubblica - Limite
di spesa per la manutenzione
dei veicoli della pubblica amministrazione -
Specificità
delle deroghe previste al limite di
spesa di cui all’art. 6, comma 14, Dl n. 78/2010.
La Corte
dei conti, sezione regionale di controllo per la Toscana,
si è pronunciata sulla richiesta di parere di un sindaco,
relativamente alla possibilità di sostenere le spese per la
manutenzione dei veicoli superando il limite previsto
dall’art. 6, comma 14, del Dl n. 78/2010 (convertito in
legge n. 122/2010) al solo fine di ottenere la revisione
del veicolo ai sensi dell’art. 80 del Dlgs n. 285/1992 e
consentire l’utilizzo del mezzo già in possesso
all’amministrazione. La Corte non ritenendo necessario investire della questione
la sezione delle autonomie ai sensi dell’art. 6,
comma 4, del Dl n. 174/2012 (conv. con modifiche in
legge n. 213/2012) si è espressa nei seguenti termini. La Corte inizialmente ha condiviso la criticità delle
ragioni esposte dal sindaco toscano in merito ai tagli
lineari disposti dal legislatore, i quali hanno finito di
fatto per premiare gli enti meno virtuosi che nell’anno
preso come base di riferimento abbiano sostenuto una
spesa alta, colpendo invece ingiustificatamente gli enti
che hanno contenuto sin da subito la spesa in determinati
settori, trovandosi così ad avere un margine di
spesa più contenuto. Tuttavia, relativamente allo stesso argomento la Corte
si era già espressa (cfr. deliberazione n. 74 del 13.05.2011) ritenendo che la
ratio della norma di cui
all’art. 6, comma 14 citato, esprimesse “l’intenzione del
legislatore di introdurre un’ampia limitazione in
riferimento
all’utilizzo delle autovetture”. Posizione peraltro
confermata
dalla nuova disciplina in materia contenuta nell’art.
5, comma 2, del Dl n. 95/2012 (convertito dalla legge n.
135/2012), disposizione peraltro ancora più stringente
rispetto alla precedente normativa. Nel caso di specie, secondo l’organo adito la revisione
obbligatoria delle autovetture risultava ampiamente
preventivabile sia in relazione ai tempi che ai costi che
ne conseguono. La Corte ha quindi sottolineato la cogenza delle norme
relative al limite di spesa per le pubbliche
amministrazioni. Peraltro, laddove il legislatore ha voluto ampliare
le maglie di tali limiti lo ha fatto in modo espresso e
pertanto, ulteriori deroghe non possono assolutamente
essere estese in via analogica (cfr. anche la deliberazione
n. 1076/2010 della Corte dei conti, sez. Lombardia) (Corte dei
Conti, Sez. reg. controllo Toscana,
parere 18.06.2013
n.
189 - commento
tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 7-8/2013). |
APPALTI SERVIZI: La corretta interpretazione dell’espressione
“accordo consortile” e le acquisizioni
in economia mediante amministrazione diretta. Enti locali - Accordo
consortile - Art.
30 Tuel - Acquisizioni
in economia - Gestione
obbligatoria
da parte della centrale unica di committenza. La Corte
dei conti, sezione regionale di controllo per l’Umbria, si
è pronunciata sulla richiesta di un parere avanzata dal
sindaco di un comune relativa a due quesiti. In primo
luogo veniva richiesto quale fosse la corretta
interpretazione
dell’espressione “accordo consortile” contenuta
nel comma 3-bis
dell’art. 33 del Dlgs n. 163/2006 (comma
aggiunto dal Dl n. 201/2011) e quale sia il suo
rapporto con la disposizione contenuta nell’art. 2, comma
186, della legge n. 191/2009, che ha invece sancito la
soppressione dei consorzi di funzioni tra enti locali. In
secondo luogo veniva richiesto alla Corte se nell’obbligo
di acquisizione mediante la centrale unica di committenza
rientrino anche le acquisizioni in economia ai
sensi dell’art. 125 del citato Dlgs n. 163/2006. Nello specifico, relativamente al primo quesito il sindaco
umbro demandava se, stante soppressione dei consorzi
disposta dalla legge n. 191/2009 richiamata, sia
possibile assolvere l’obbligo previsto dal comma 3-bis
dell’art. 33 del Dlgs n. 163/2006 mediante la stipula di
una convenzione ex art. 30 del Tuel. A parere della Corte, il termine “accordo consortile” di
cui alla norma richiamata, deve essere considerato come
un’espressione “atecnica” con la quale il legislatore
ha inteso genericamente riferirsi alle convenzioni di cui
all’art. 30 del Tuel, come strumento alternativo all’unione
dei comuni. In tale ottica interpretativa dunque,
l’espressione “accordi consortili” deve essere intesa non
già come accordi istitutivi di un vero e proprio consorzio,
ai sensi dell’art. 31 del Tuel (al quale spetterebbe
successivamente la competenza a istituire una propria
centrale di committenza) bensì come atti convenzionali
volti ad adempiere l’obbligo normativo di istituire una
centrale di committenza, evitando però la costituzione
di organi ulteriori e con essi le relative spese. Pertanto,
i comuni con meno di 5.000 abitanti possono assolvere
l’obbligo di cui all’art. 33, comma 3-bis, del Dlgs n.
163/2006 o nell’ambito dell’unione dei comuni ovvero
mediante una convenzione, nei termini di cui all’art. 30
Tuel. Quanto al secondo quesito, ovvero se nell’obbligo di
acquisizione mediante la centrale unica di committenza
rientrino anche le acquisizioni in economia ai sensi
dell’art. 125 del citato Dlgs n. 163/2006, la Corte
evidenzia
che sulla stessa questione si era già espressa la
stessa Corte dei conti, sezione di controllo per il
Piemonte,
con la deliberazione n. 271/2012, in base alla
quale sono da ritenersi escluse dalla gestione obbligatoria
da parte della centrale unica di committenza sia le
acquisizioni in economia mediante amministrazione diretta
sia le ipotesi eccezionali di affidamento diretto
consentite dalla legge, quali quelle previste all’art. 125,
commi 8 e 11, del Dlgs n. 163/2006 (Corte dei Conti, Sez. reg. controllo Umbria,
parere 04.06.2013
n. 112 - commento tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n.
7-8/2013). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Acquisto di beni o servizi da parte
del comune: possibilità di derogare
agli obblighi nei confronti di Consip. Obbligatorio il ricorso al Mepa -
Enti locali - Acquisto
di prodotti e servizi - Obbligo
di utilizzare gli strumenti offerti dalla Consip
o dalle centrali committenti - Obbligo
di ricorso
al Mepa - Principi
di economicità ed efficienza
della spesa pubblica. La Corte
dei conti, sezione regionale di controllo per la Toscana,
ha pronunciato un parere sulla richiesta del sindaco di un
comune relativa all’acquisto dell’ente di prodotti e
servizi. Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte la prima
richiesta del sindaco riguardava la possibilità per
l’ente di rientrare nel concetto di “Amministrazione
dello Stato” ai sensi dell’art. 1, comma 6, del Dl n.
95/2012, (convertito dalla legge n. 135/2012, da ultimo
modificato dall’art. 1, comma 153, della legge n.
288/2012) e conseguentemente avere quindi la possibilità
di poter stipulare contratti con fornitori non
inseriti nell’elenco della Consip, qualora gli stessi
vengano
stipulati a prezzi più bassi rispetto ai parametri di
qualità/prezzo messi a disposizione dalla richiamata
società. In subordine, ovvero qualora la risposta a tale quesito
fosse risultata negativa, il sindaco richiedeva alla Corte:
a) se qualora l’ordinativo minimo sia superiore alle
necessità reali, il comune fosse comunque obbligato a
utilizzare gli strumenti offerti dalla Consip o dalle
centrali di committenza, oppure vi sia la possibilità di
procedere al di fuori di tale procedura; b) la possibilità
per l’ente, dopo aver individuato il fornitore su Consip
o nelle centrali di committenza, di procedere direttamente
con lo stesso per l’adattamento dell’offerta al
di fuori del mercato elettronico; c) se sia possibile
ricorrere a un fornitore esterno qualora quest’ultimo
proponga un prezzo più basso rispetto a quello offerto
dalle centrali di committenza, a parità di caratteristiche
sia qualitative che quantitative; d) se vi sia la
possibilità di evitare il ricorso al Mepa e alle centrali
uniche di committenza nel caso di acquisti di beni o
servizi per importi inferiori a 40.000 euro. Al primo quesito la Corte dà risposta negativa, ovvero
un comune non può esser considerato nel novero
delle “Amministrazioni dello Stato” ritenute esenti
dall’applicazione
del primo periodo dell’art. 1, comma 1,
del Dl n. 95/2012. Ciò in riferimento al significato
letterale della norma che destina la possibilità di deroga
alle amministrazioni rientranti nello Stato, secondo
l’accezione propria di cui all’art. 114 della Costituzione. Invero, la Corte evidenzia che se il legislatore
avesse voluto destinare tale facoltà derogatoria
indistintamente
a tutte le amministrazioni pubbliche lo
avrebbe indicato in modo chiaro, come ha fatto in
altre disposizioni normative in materia.
Quanto ai quesiti sub a) e b) la Corte sottolinea la
cogenza delle norme in materia ed evidenzia che le
possibili deroghe alle procedure dettate in tema di
approvvigionamento di beni e servizi non possono
essere oggetto di trattazione e interpretazione nell’ambito
dell’attività consultiva delle sezioni regionali della Corte dei conti.
Quanto al quesito sub c), la Corte sottolinea che la
domanda avanzata trova la sua naturale risposta nella
ratio delle norme richiamate, che poggiano sui principi
di economicità ed efficienza della pubblica amministrazione.
Invero, l’art. 1, comma 7, del Dl n. 95/2012, nel
far salvo quanto previsto dall’art. 1, commi 449 e 450,
della legge n. 296/2006 lascia inalterata la norma contenuta
nel comma 449 richiamato, che espressamente
dispone: “le restanti amministrazioni pubbliche di cui
all’art.
1 del Dlgs 30.03.2001, n. 165 e successive
modificazioni, possono ricorrere alle convenzioni di cui al
presente comma e al comma 456 del presente articolo,
ovvero ne utilizzano i parametri di prezzoqualità
come
limiti massimi per la stipulazione dei contratti”. In tal
senso l’obbligo di ricorrere agli strumenti di
approvvigionamento
descritti va mitigato ogni qual volta che il
ricorso a un fornitore esterno persegue la ratio del
contenimento della spesa pubblica contenuta nella
normativa. Come evidenziato dalla Corte, a tal proposito
chiara risulta anche la tabella stilata da ConsipMef
“tabella Obbligo facoltà
dal primo gennaio 2013 Strumenti
del Programma di razionalizzazione degli acquisti”
nello stabilire la possibilità di operare acquisti
autonomi a corrispettivi inferiori a quelli delle
convenzioni Consip e della categoria di riferimento, anche in
relazione alle tipologie merceologiche di cui al comma
7 sopra richiamato. Quanto all’ultimo quesito oggetto di parere, sempre
dal riferimento alla tabella appena richiamata, risulta
chiaro per le amministrazioni territoriali non regionali
l’obbligo, sottosoglia comunitaria, di ricorrere al Mepa
o ad altri mercati elettronici o al sistema telematico
della Cat di riferimento, ovvero fare ricorso alle
convenzioni
Consip. In caso di assenza delle stesse, è
invece prevista la facoltà di utilizzo degli acquisti Consip
e dello Sdapa, con obbligo di rispettare comunque
il benchmark della Consip (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 30.05.2013
n. 151 - commento tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n.
7-8/2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Niente danno all’immagine in caso di mancata
percezione di denaro o altra utilità -
Danno erariale all’immagine - In
caso di mancata
percezione di denaro o altra utilità - Non
sussiste. Con la decisione in rassegna, i giudici contabili emiliani
si sono pronunciati sulla novità normativa di cui all’art.
1, comma 62, della legge n. 190 del 06.11.2012,
(Disposizioni per la prevenzione e la repressione della
corruzione e dell’illegalità nella pubblica
amministrazione),
che ha modificato l’art. 1 della legge n. 20 del 14.01.1994 (Disposizioni in materia di giurisdizione e
controllo della Corte dei conti), introducendovi il comma
1-sexies
che dispone quanto segue: “Nel giudizio di
responsabilità, l’entità del danno all’immagine della
pubblica
amministrazione derivante dalla commissione di un reato
contro la stessa pubblica amministrazione accertato con
sentenza passata in giudicato si presume, salva prova
contraria,
pari al doppio della somma di denaro o del valore
patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal
dipendente”. Ad avviso dei giudici contabili dell’Emilia Romagna,
l’ulteriore
inciso secondo cui “l’entità del danno all’immagine
[…] si presume, salva prova contraria, pari al doppio
della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra
utilità illecitamente percepita dal dipendente” induce il
collegio a ritenere che il legislatore abbia inteso
circoscrivere
ulteriormente la tipologia di illeciti da cui può
scaturire un danno all’immagine, fissando il principio
che solo laddove il dipendente abbia illecitamente
“percepito”
una somma di danaro o altra utilità sia possibile
ipotizzare la sussistenza di un danno all’immagine della
pubblica amministrazione (commento
tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 7-8/2013 - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Emilia Romagna,
sentenza 23.04.2013 n. 57
- sentenza tratta da www.respamm.it). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Cosa si intende per legittimo affidamento nel rapporto con
la P.A.? Domanda Nel nostro ordinamento vige il principio comunitario di
tutela del legittimo affidamento che presuppone
l'affidamento ragionevole generato da un precedente
comportamento dell'amministrazione pubblica, e la
correlativa tutela è funzionale alla protezione di
situazioni consolidate contro revoche di atti amministrativi
ampliativi o attributivi di benefici economici, i cui
effetti siano stati acquisiti dal privato in buona fede.
Risposta Una particolare disciplina di tale istituto è stata
introdotta nella L. 27.07.2000, n. 212 "Disposizioni in
materia di statuto dei diritti del contribuente" il cui
articolo 10 è dedicato alla "Tutela dell'affidamento e
della buona fede. Errori del contribuente". La norma prevede che i rapporti tra contribuente e
amministrazione finanziaria siano improntati al principio
della collaborazione e della buona fede. Ne consegue che non sono irrogate sanzioni né richiesti
interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia
conformato a indicazioni contenute in atti
dell'Amministrazione finanziaria, ancorché successivamente
modificate dall'Amministrazione medesima, o qualora il suo
comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti
direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori
dell'amministrazione stessa. Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione
dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata
e sull'ambito di applicazione della norma tributaria o
quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun
debito di imposta. La giurisprudenza (Cass. civ. Sez. V, 03.07.2013, n. 16692)
ha già dato attuazione a tale principio in vari ambiti, ad
esempio con riferimento alle circolari ministeriali in
materia tributaria che non costituiscono fonte di diritti ed
obblighi, per cui, qualora il contribuente si sia conformato
ad un'interpretazione erronea fornita dall'Amministrazione
in una circolare, è esclusa l'irrogazione delle relative
sanzioni, in base al principio di tutela dell'affidamento. In senso opposto (Cons. Stato Sez. III, 24.05.2013, n. 2838)
si è ritenuto che nelle gare pubbliche d'appalto
l'aggiudicazione provvisoria, quale atto endoprocedimentale,
è inidonea ad ingenerare il legittimo affidamento che impone
l'instaurazione del contraddittorio procedimentale prima
della revoca in autotutela (01.08.2013 - tratto da
www.ipsoa.it). |
PATRIMONIO:
L. 228/2012, art. 1, comma 141. Limiti di spesa per
l'acquisto di mobili e arredi.
L'art. 1, comma
143, della L. 228/2012 dispone che le amministrazioni
pubbliche non possono effettuare spese di ammontare
superiore al 20 per cento della spesa sostenuta in media
negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili e arredi,
salvo che l'acquisto dia funzionale alla riduzione delle
spese connesse alla conduzione degli immobili. Spetta, pertanto, all'Ente valutare la sussistenza o meno
delle condizioni al fine di procedere all'acquisto degli
arredi sulla base di una puntuale quantificazione preventiva
dei costi e dei risparmi conseguenti.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di
procedere all'acquisto di mobili e arredi funzionali alla
conduzione del centro di aggregazione giovanile di proprietà
comunale, destinato all'uso non gratuito da parte di terzi,
stante il disposto di cui all'articolo 1, comma 143, della
legge 24.12.2012, n. 228. In via preliminare, si fa presente che la decisione sulla
sussistenza o meno delle condizioni al fine di procedere
all'acquisto degli arredi attiene al merito dell'azione
amministrativa e rientra nella piena ed esclusiva
discrezionalità e responsabilità di codesto ente, non
potendo lo scrivente sostituirsi agli organi e uffici dello
stesso. Sentito il Servizio finanza locale, si formulano le seguenti
considerazioni di carattere generale. La norma in argomento, facendo salve le misure di
contenimento della spesa già previste dalle vigenti
disposizioni, stabilisce che, per gli anni 2013 e 2014, «le
amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione, come individuate
dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi
dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e
successive modificazioni, ... omissis... non possono
effettuare spese di ammontare superiore al 20 per cento
della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per
l'acquisto di mobili e arredi, salvo che l'acquisto sia
funzionale alla riduzione delle spese connesse alla
conduzione degli immobili. In tal caso il collegio dei
revisori di conti verifica preventivamente i risparmi
realizzabili, che devono essere superiori alla minore spesa
derivante dall'attuazione del presente comma». Alla luce del fatto che la violazione della disposizione in
argomento è valutabile ai fini della responsabilità
amministrativa e disciplinare dei dirigenti, si ritiene
necessario che l'Ente effettui un'analisi approfondita
dell'operazione, nell'ottica di una puntuale quantificazione
preventiva dei costi e dei risparmi conseguenti, avendo
presente che la norma impone che: a) l'acquisto di mobili e arredi deve essere funzionale alla
riduzione delle spese connesse alla conduzione degli
immobili. Si tratta di un aspetto che solo l'Ente è in grado
di valutare pienamente; b) i risparmi realizzabili con l'acquisto devono essere
superiori all'entità della spesa di conduzione degli
immobili. In via collaborativa, si riporta quanto specificato da un
articolo di dottrina [1],
avente ad oggetto 'L'applicazione dei limiti sulle
singole tipologie di spesa: il caso dell'acquisto di mobili
e arredi (articolo 1, comma 141, legge di stabilità n.
228/2012', secondo il quale occorre che il collegio dei
revisori certifichi che i nuovi mobili e arredi consentono
un risparmio sulla base di una motivata analisi economica
che dimostri come tali risparmi siano ottenibili dal mancato
taglio e li quantifichi. --------------- [1] Pubblicato sulla newsletter quindicinale 'Bilancio e
contabilità news' di martedì 07.05.2013 (01.08.2013
-
link a
www.regione.fvg.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Smaltimento in proprio.
Domanda
L'azienda, di cui sono titolare, ha smaltito a proprie spese
i cartoni, gli imballaggi e altro utilizzati nel ciclo
produttivo. Il Comune chiede il pagamento di una non
irrilevante tassa per lo smaltimento di detti rifiuti, che
ripeto sono stati smaltiti a spese dell'azienda. L'azienda è
tenuta a detto pagamento? Risposta
La Corte di cassazione, sezione tributaria, con la sentenza
del 30.11.2009, numero 25126, ha affermato che in tema
di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (Tarsu),
per effetto della legge numero 128, del 1998, articolo 17,
comma 3, che ha abrogato la legge numero 146 del 1994,
articolo 39, pur essendo venuta meno l'assimilazione «ope
legis» ai rifiuti urbani di quelli speciali, purché avanti
una composizione merceologica analoga a quella urbana,
secondo i dettagli tecnici contenuti nella deliberazione del
Cipe del 27.07.1984, è al contempo divenuto pienamente
operante il decreto legislativo numero 22, del 1997,
articolo 21, comma 2, lettera g), (cosiddetto decreto
Ronchi) che ha attribuito ai Comuni la facoltà di assimilare
ai rifiuti urbani ordinari quelli derivanti da attività
economiche. Pertanto, aggiungono i Supremi giudici, con
riferimento alle annualità di imposta dal 1997 in poi,
assumono decisivo rilievo le indicazioni proprie dei
Regolamenti comunali con la conseguenza che
l'auto-smaltimento da parte di chi occupa o conduce i locali
dove si producono i rifiuti resta circostanza irrilevante
per l'esonero dalla tassazione allorché risulti esercitato
il potere di assimilazione riconosciuto al Comune per
l'applicazione della Tarsu sulle aree dove si producono i
rifiuti in questione. Per la specifica materia si richiamano anche le sentenze
della predetta Corte di cassazione, sezione tributaria,
numero 16878, del 2009, e numero 1172, del 22.01.2010 (articolo ItaliaOggi
Sette del 29.07.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
D.Lgs. 267/2000, art. 79. Permessi assessore esterno per la
partecipazione al consiglio comunale.
L'assessore esterno che partecipa, quale
referente, alle sedute del consiglio comunale ha diritto
alla fruizione dei permessi retribuiti previsti dal comma 4
dell'art. 79 del D.Lgs. 267/2000, per un massimo di 24 ore
mensili. Il Comune ha
chiesto di conoscere se l'assessore esterno possa usufruire
dei permessi retribuiti di cui all'articolo 79, comma 3, del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, per la
partecipazione alle sedute del consiglio comunale quale
referente. La norma citata prevede che «i lavoratori dipendenti
facenti parte delle giunte comunali, provinciali,
metropolitane, delle comunità montane, nonché degli organi
esecutivi dei consigli circoscrizionali, dei municipi, delle
unioni dei comuni e dei consorzi fra enti locali, ovvero
facenti parte delle commissioni consiliari o
circoscrizionali formalmente istituite nonché delle
commissioni comunali previste per legge ... omissis... hanno
diritto di assentarsi dal servizio per partecipare alle
riunioni di cui fanno parte per la loro effettiva durata...».
Dal tenore della disposizione si evince che l'elencazione ha
carattere tassativo e non può essere estesa all'ipotesi
della partecipazione alle sedute del consiglio comunale, del
quale l'assessore esterno non è componente e la cui
disciplina, peraltro, è contenuta al comma 1 dell'articolo
79. Pertanto, l'assessore esterno che partecipa, quale
referente, alle sedute del consiglio comunale ha diritto
alla fruizione dei permessi retribuiti previsti dal comma 4
dell'articolo 79 per un massimo di ventiquattro ore
lavorative al mese (26.07.2013 -
link a
www.regione.fvg.it). |
APPALTI:
Ritenuta dello 0,5% ex art. 4, comma 3, D.P.R. 207/2010.
L'art. 4, comma 3, del D.P.R.
05.10.2010, n. 207 stabilisce l'obbligo, per le stazioni
appaltanti, di trattenere la percentuale dello 0,50%
sull'importo netto progressivo delle prestazioni al fine di
accantonare una somma da utilizzare nel caso in cui, nel
corso del contratto, venga ravvisata un'inadempienza
contributiva da parte dei soggetti affidatari del servizio.
Lo svincolo delle somme così accantonate, secondo
l'interpretazione letterale delle disposizioni e secondo
quanto ribadito nelle circolari del Ministero del lavoro e
della politiche sociali e dell'Inps, non può avvenire in un
momento anticipato a quello della fine del contratto, ma
unicamente in sede di liquidazione finale e previa
approvazione, da parte della stazione appaltante, del
certificato di collaudo o di verifica di conformità e
rilascio del documento unico di regolarità contributiva.
L'Ente instante riferisce che il Comune ha appaltato i
servizi di una Casa anziani a più ditte e che alcune di
queste intendono fatturare solamente al termine del
contratto, mentre altre stanno emettendo, accanto alla
fattura mensile per il servizio, una pari allo 0,5%,
specificando nella stessa che essa andrà liquidata a fine
appalto. L'Ente chiede di sapere se, in vista di un aumento
dell'I.V.A. che potrebbe comportare un incremento dello 0,5%
sugli importi, il secondo modus operandi risulta essere
corretto. Viene, inoltre, domandato se, nel caso in cui si
abbia un immediato riscontro sulla corretta esecuzione del
servizio, come quello di mensa o quello assistenziale,
l'Ente possa liquidare annualmente lo 0,5% o se debba farlo
comunque alla fine dell'appalto. In via preliminare, si osserva che non compete a questo
Ufficio fornire suggerimenti in merito alle modalità o alle
tempistiche di fatturazione dei servizi appaltati dagli enti
locali. Verranno in questa sede, invece, espresse alcune
considerazioni generali sulla normativa richiamata dall'Ente
instante. L'art. 4, comma 3, del D.P.R. 05.10.2010, n. 207, stabilisce
che: 'In ogni caso sull'importo netto progressivo delle
prestazioni è operata una ritenuta dello 0,50 per cento; le
ritenute possono essere svincolate soltanto in sede di
liquidazione finale, dopo l'approvazione da parte della
stazione appaltante del certificato di collaudo o di
verifica di conformità, previo rilascio del documento unico
di regolarità contributiva'. Tali disposizioni attuano quanto previsto dall'art. 5, comma
5, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (Codice dei
contratti pubblici), laddove si stabilisce che la disciplina
esecutiva del Codice debba contenere disposizioni volte a
regolare l'intervento sostitutivo della stazione appaltante
in caso di inadempienza retributiva e contributiva. Come osservato in precedenti pareri rilasciati da questo
Ufficio [1],
l'art. 4, comma 3, del Regolamento, stabilisce l'obbligo,
per le stazioni appaltanti, di trattenere la percentuale
dello 0,5% sull'importo netto progressivo delle prestazioni
al fine di accantonare una somma da utilizzare nel caso in
cui, nel corso del contratto, il responsabile del
procedimento ravvisi un'inadempienza contributiva da parte
dei soggetti affidatari del servizio. Seguendo l'interpretazione letterale della norma, la
ritenuta va effettuata sempre ed 'in ogni caso' dalla
stazione appaltante e non solo a fronte di una irregolarità
contributiva certificata da un DURC negativo
[2]. E' pertanto compatibile con tali previsioni operare la
ritenuta dello 0,50% nei contratti di servizi, come paiono
essere quelli menzionati dall'Ente instante, in sede di
liquidazione delle singole fatture periodiche emesse secondo
le scadenze preventivamente stabilite nel contratto. Lo svincolo delle somme così accantonate, secondo
l'interpretazione letterale delle disposizioni e secondo
quanto ribadito nelle circolari n. 3/2012 del Ministero del
lavoro e della politiche sociali e n. 54/2012 dell'Inps
[3], non
può avvenire in un momento anticipato a quello della fine
del contratto, ma unicamente in sede di liquidazione finale
e previa approvazione, da parte della stazione appaltante,
del certificato di collaudo o di verifica di conformità e
rilascio del documento unico di regolarità contributiva. ---------------
[1] V. pareri prot. n. 11525 dd. 28.03.2012, n. 22950 del
03.07.2012 e n. 27828 del 30.08.2012.
[2] In senso concorde anche l'ANCI con il parere dd.
15.01.2013. [3] Circolare n. 3 del 16.02.2012 del Ministero e circolare
n. 54 del 13.04.2012 dell'INPS (24.07.2013 -
link a
www.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parere in merito alla possibilità di riduzione della zona di
rispetto cimiteriale per l'attuazione di un "intervento
urbanistico", ai sensi dell'art. 338, comma 5, del R.D. 1265
del 1934 (Regione Lazio,
parere 05.07.2013 n.
184453 di prot.). |
NEWS |
APPALTI: Durt, il senato corre ai ripari.
L'obiettivo è quello di tornare alle origini della norma. Il
presidente della VI Commissione di Palazzo Madama spiega i
lavori sul decreto del fare. Revisione del Durt. Dilazione del debito tributario in 10
anni anche per i soggetti che aderiscono agli istituti
deflattivi del contenzioso. Reinserimento del tetto ai
compensi dei manager che gestiscono aziende che forniscono
servizi pubblici. Abolizione della norma che blocca i
rimborsi Iva per i tour operator extra Ue.
Queste le principali modifiche che la Commissione finanze
del senato, intende apportare al cosiddetto decreto del
fare, il dl 69/2013, approvato la scorsa settimana dalla
camera e trasmesso a Palazzo Madama. Il problema Durt (Documento unico di regolarità tributaria).
Il senato deve correre ai ripari. Questo il grido di allarme
che Palazzo Madama è stato, chiamato a raccogliere nel più
breve tempo possibile. E così è stato. A tale richiesta,
infatti, non ha tardato ad arrivare la risposta da parte del
presidente della Commissione finanze del senato, Mauro Maria
Marino: «ridimensionare il Durt è il nostro obiettivo
principale. Non è, infatti, possibile che una norma nata con
il preciso scopo di agevolare le imprese che già versano in
situazione di difficoltà sia diventata una sorta di tranello
del diavolo, utile solo a complicare gli adempimenti
burocratici». Una precisa dichiarazione di intenti, quindi,
che lascia capire la volontà di voler porre rimedio il prima
possibile a una situazione che, altrimenti, sarebbe
insostenibile per le imprese della filiera degli appalti. Il
mancato possesso del Durt da parte del subappaltatore
impedisce, infatti, all'appaltatore di effettuare i
pagamenti dovuti. Requisito di base per ottenere il Durt da
parte dell'Agenzia delle entrate è l'essere in regola con i
pagamenti fiscali. Rateizzazione del debito. Possibilità in vista anche per i
contribuenti che decideranno di usufruire di un istituto
deflattivo del contenzioso. A oggi, l'art. 52 del decreto
del fare, prevede che i contribuenti che versano in
difficoltà economiche, possano chiedere la dilazione del
pagamento dei propri debiti tributari fino a 120 rate
mensili, ovvero fino a 10 anni. La stessa possibilità però
non è prevista per chi decide di usufruire dell'accertamento
con adesione. Obiettivo della Commissione finanze del
senato, quindi, quello di estendere la possibilità di
usufruire delle 120 rate mensili anche a quei contribuenti
che abbiano optato per l'istituto deflattivo del
contenzioso. «Siamo estremamente soddisfatti del lavoro che
la camera ha fatto su questa norma», ha dichiarato a ItaliaOggi il presidente Marino, «ma riteniamo che il lavoro
potrà dirsi completo solo con questo ampliamento».
Gli stipendi dei manager. Se durante i lavori alla camera
era saltata, o meglio, era stata sbagliata la trascrizione
della norma relativa al tetto sugli stipendi d'oro dei
manager pubblici, è intenzione del senato farla tornare alle
origini. Durante il passaggio del testo dalle Commissioni
all'aula di Montecitorio, all'interno della disposizione
contenente la norma sul tetto agli stipendi dei manager era,
infatti, stato inserito un «non» di troppo che vanifica
l'intento della disposizione. «Riteniamo importante», ha
sottolineato Marino, «che tutti i manager, anche quelli
delle società non quotate che erogano servizi pubblici,
debbano avere un tetto ai loro compensi, così come avviene
per gli altri amministratori delle società non quotate che
possono arrivare al massimo a 300 mila euro».
Iva. Tra gli obiettivi del senato, infine, anche quello di
abolire la norma che impedisce ai tour operator extra Ue di
poter usufruire dei rimborsi Iva in caso di acquisto in
Italia di beni e servizi per i lori clienti. «La
disposizione, così come strutturata, è controproducente
perché limita il settore turistico che per il nostro paese è
vitale, ragion per cui» ha concluso il presidente della
Commissione finanze del senato, «è necessario che la
questione sia regolata livello comunitario per evitare
discriminazioni tra i vari paesi europei»
(articolo ItaliaOggi del 31.07.2013). |
APPALTI: Appalti,
accelerata sulla verifica con Avcpass. Entro metà novembre la banca dati dell'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici sarà l'unico strumento di
verifica dei requisiti degli appaltatori, nonostante il
sistema Avcpass sia obbligatorio soltanto da gennaio 2014.
È
questo uno degli effetti della modifica introdotta al testo
del cosiddetto decreto legge del fare, approvato alla camera
la scorsa settimana e adesso al vaglio del senato (si veda
articolo principale in pagina). La semplificazione delle
procedure di affidamento di contratti pubblici è materia
sulla quale è intervenuto già l'articolo 6-bis del codice
dei contratti pubblici, al fine di ridurre gli oneri
amministrativi, prevedendo che la verifica dei requisiti
dichiarati in gara, a partire dal 01.01.2013, avvenga
attraverso la banca dati, istituita presso l'Autorità di
vigilanza sui contratti pubblici. L'Autorità sui contratti
pubblici, con la delibera 111/2012, ha quindi introdotto l'Avcpass
(Authority virtual company passport), sistema al quale gli
operatori economici devono registrarsi dal 01.07.2013. A
metà giugno, però la stessa Autorità ha differito il termine
al primo gennaio 2014. Adesso con l'articolo 49-ter del
decreto 69 si rafforza la vigenza della Banca dati nazionale
dei contratti pubblici come unico strumento idoneo alla
verifica dei requisiti. In particolare si stabilisce che per
i contratti «sottoscritti dalle pubbliche amministrazioni a
partire da tre mesi successivi alla data di entrata in
vigore della legge di conversione del decreto, la
documentazione comprovante il possesso dei requisiti di
carattere generale, tecnico-organizzativo ed
economico-finanziario è acquisita esclusivamente attraverso
la banca dati di cui all'articolo 6-bis del codice». In
teoria dalla prima metà di novembre scatterebbe quindi un
obbligo che però l'Autorità ha differito a gennaio 2014. In
realtà la norma non brilla per chiarezza, perché il
riferimento alla «sottoscrizione» dei contratti sembra
volere dire che i documenti concernenti i requisiti relativi
ai contratti che verranno stipulati a decorrere da tre mesi
dalla conversione del decreto 69, dovrà essere acquisita
esclusivamente, per le gare future, soltanto attraverso la Bdncp (Banca dati nazionale contratti pubblici).
È evidente,
infatti, che la verifica dei requisiti non avviene mai dopo
la sottoscrizione dei contratti, ma prima. Sarebbe bastato
fare riferimento, invece che ai «contratti», alle «procedure
affidate nei tre-quattro mesi successivi»
(articolo ItaliaOggi del 31.07.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Prepensionati gli esuberi p.a..
Ai dipendenti in eccesso si applicano le regole ante Fornero.
Una circolare della funzione pubblica sui requisiti previsti
dal dl sulla spending review.
Porte spalancate alla pensione per i soprannumerari delle
p.a. Se ci sono volontari, bene. Altrimenti sarà la p.a. a
mettere a riposo i dipendenti in esubero, licenziando quelli
con più anni di contributi e che, in base alle regole
previgenti alla riforma Fornero, ottengono la pensione entro
il 31.12.2014 (vecchia finestra inclusa).
Lo
stabilisce la
circolare
29.07.2013 n. 3 emessa ieri dalla funzione
pubblica in accordo con i ministeri del lavoro e
dell'economia e con l'Inps. La circolare detta istruzioni al
prepensionamento degli esuberi delle pubbliche
amministrazioni in applicazione della spending review (dl n.
95/2012). Spending review. Il dl n. 95/2012 sulla
spending review, nel
prevedere una riduzione degli organici delle p.a (almeno il
20% per i dirigenti e 10% negli altri casi), ha stabilito
che, relativamente al personale risultante in esubero,
possano applicarsi i vecchi requisiti di età e contribuzione
per la pensione, ossia quelli in vigore prima della riforma
Fornero, a quei soggetti ai quali la «decorrenza» della
pensione si venga così a fissare entro il 31.12.2014.
Nello scorso mese di gennaio sono arrivati i decreti sulla
riduzione degli organici per nove ministeri, 21 enti di
ricerca, 20 enti pubblici non economici, Inps, Enac e 24
enti parco nazionali. Adesso le singole p.a., in attuazione
di tali provvedimenti, devono predisporre i piani delle
cessazioni di personale fino al 31.12.2014.
I pensionamenti in deroga. La circolare di ieri, in seguito
alla direttiva n. 10/2012, spiega i criteri che le p.a.
devono seguire per individuare il personale destinatario del
pensionamento. L'applicazione della norma, spiega la
circolare, può comportare o l'esodo volontario, in caso di
dimissioni del dipendente, o la risoluzione unilaterale del
rapporto di lavoro (ossia il licenziamento) da parte
dell'amministrazione. In questo secondo caso, a cui la p.a.
dovrà ricorrere in caso di insufficienza delle domande di
pensionamento volontario, andrà seguito il criterio della
maggior anzianità contributiva: chi ha più anni maturati di
contributi verrà, dunque, licenziato prima. Per questo tipo
di licenziamento, aggiunge la circolare, non c'è necessità
di motivazione e va riconosciuto un preavviso di sei mesi.
In presenza di più soggetti destinatari del licenziamento la
p.a. dovrà seguire il criterio del minor pregiudizio dal
punto di vista pensionistico per gli interessati. Per i casi
di dubbio circa l'anzianità contributiva posseduta dai
dipendenti, le p.a. potranno rivolgersi all'Inps (o altri
enti previdenziali). Attenzione alla «finestra». Trattandosi di requisiti
previgenti alla riforma Fornero, precisa più volte la
circolare, dovrà tenersi conto anche della vecchia finestra.
Di conseguenza, nella scelta del personale da licenziare si
dovrà considerare che entro il 31 dicembre 2014 il
lavoratore deve maturare, non solo il diritto, ma anche la
decorrenza della pensione. I requisiti. Infine, la circolare riepiloga i requisiti per
la pensione applicabili agli esuberi (si veda tabella). Tra
l'altro, ricorda che fino al 2015 la riforma Fornero ha
previsto la possibilità, alle donne, di andare in pensione
con un'anzianità contributiva di almeno 35 anni e un'età di
almeno 57 anni, a condizione di optare per il calcolo della
pensione con il sistema contributivo. Precisa che tale
facoltà può essere invocata dalla lavoratrice in esubero
dimissionaria, ma non può essere invece applicata dalla p.a.
(articolo ItaliaOggi del 30.07.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Assistenza disabili, allargate le tutele.
La Consulta sui beneficiari dei congedi
straordinari. ora l'intervento del legislatore. Ennesimo intervento il 18 luglio scorso –quarto in ordine
di tempo– dei giudici della Corte Costituzionale sui
soggetti legittimati a beneficiare del congedo straordinario
per l'assistenza ai disabili in situazione di gravità,
introdotto dalla legge n. 388/2000 e disciplinato dall'art.
42 del decreto legislativo n. 151/2001 e successivi
modificazioni e integrazioni. Nella formulazione originaria del comma 5 dell'art. 42, il
diritto a fruire del congedo straordinario per assistere un
figlio con handicap in situazione di gravità, non ricoverato
a tempo pieno in strutture specializzate, previsto per la
durata massima di due anni nell'arco della vita lavorativa,
era limitato alla lavoratrice madre o, in alternativa, al
lavoratore padre o, dopo la loro scomparsa, a uno dei
fratelli o sorelle conviventi con il soggetto disabile. Per effetto delle sentenze emanate dei giudici della
Consulta, le n. 233 dell'08.06.2005, n. 158 del 18.04.2007 e n. 19 del 26.01.2009, il comma 5
dell'art. 42 oggi in vigore ha esteso la platea dei pubblici
dipendenti, ivi compresi i dipendenti della scuola aventi
diritto del congedo straordinario anche: ai fratelli e
sorelle conviventi nell'ipotesi in cui i genitori siano
impossibilitati a provvedere all'assistenza del figlio
handicappato, perché totalmente inabili; anche al coniuge
convivente con soggetto con handicap in situazione di
gravità,in via prioritaria rispetto agli altri congiunti
indicati nel comma 5; al figlio convivente, in assenza di
altri soggetti idonei a prendersi cura della persona in
situazione di disabilità grave. Con la
sentenza 18.07.2013 n. 203, i giudici della
Corte Costituzionale hanno dichiarato l'illegittimità
costituzionale del comma 5 dell'art. 42 attualmente in
vigore, nella parte in cui non include nel novero dei
soggetti legittimati a fruire del congedo straordinario ivi
previsto, e alle condizioni ivi stabilite, il parente o
l'affine entro il terzo grado convivente –nonché, per
evidenti motivi di coerenza e ragionevolezza, gli altri
parenti e affini più prossimi all'assistito, comunque
conviventi ed entro il terzo grado- in caso di mancanza,
decesso o in presenza di patologie invalidanti degli altri
soggetti individuati dalla predetta norma secondo un ordine
di priorità, idonei a prendersi cura della persona in
situazione di disabilità grave. Spetterà ora al legislatore recepire con apposita norma
quanto dispone la sentenza e inserirla nel contesto del più
volte citato comma 5. Per effetto degli interventi dei giudici della Consulta, il
congedo straordinario in questione, originariamente
concepito come strumento di tutela rafforzata della
maternità in caso di figli portatori di handicap grave, ha
assunto una portata più ampia. La progressiva estensione del
complesso dei soggetti aventi titolo a richiedere il congedo
ne ha infatti dilatato l'ambito di applicazione oltre i
rapporto genitoriali, per ricomprendere anche le relazioni
tra figli e genitori disabili, e ancora, in altra direzione,
i rapporti tra coniugi e fratelli. Una estensione che certamente rafforza le possibilità di
assistenza dei soggetti disabili in situazione di gravità.
Occorre ora individuare ogni strumento idoneo ad evitare che
un istituto di alta civiltà, quale deve essere considerato
il congedo straordinario, possa essere utilizzato in maniera
impropria, come sta avvenendo nell'utilizzo di un altro
beneficio previsto dall'art, 33 della legge 104/1992, quello
cioè che consente di fruire di tre giorni di permesso
mensile retribuito per assistere un parente handicappato in
situazione di gravità, ancorché con i limiti indicati dal
comma 3-bis dell'art. 6 del decreto legislativo 18.07.2011,
n. 119. In particolare il comma impone al lavoratore che chiede di
assistere un parente disabile residente in comune situato a
distanza stradale superiore a 150 chilometri rispetto a
quella di residenza del lavoratore, di attestare con titolo
di viaggio, o altra documentazione idonea, il raggiungimento
del luogo di residenza dell'assistito nei giorni di permesso
(articolo ItaliaOggi del 30.07.2013). |
APPALTI:
DECRETO DEL FARE/
Maggiori oneri e burocrazia nel settore appalti dal
documento approvato dalla camera. Durt, corsa al credito a ostacoli. Nuovi adempimenti per
l'impresa. O niente pagamenti.
Il decreto del Fare partorisce un nuovo meccanismo
infernale: il Durt. Il Documento di regolarità tributaria
lascia subito intendere che ci sono guai in arrivo per le
imprese che appartengono alla filiera dell'appalto: maggiori
oneri, maggiore burocrazia, maggiore difficoltà a incassare
i crediti. Ma anche notevoli contraddizioni nella norma che appare, su
diversi passaggi, a dir poco controversa. Anche se il Durt è
rubricato nel capo II del decreto del Fare denominato
«semplificazioni in materia fiscale», nel caso in cui il
testo approvato dalla camera non venisse modificato durante
l'esame del senato (ma il governo, viste le polemiche
suscitate, ha annunciato una pesante revisione, se non
addirittura la cancellazione del provvedimento), sarebbe ben
lungi da apportare un alleggerimento ai pesanti oneri che
gravano sulle imprese già interessate dalle problematiche
sulla responsabilità solidale negli appalti. Al contrario.
Scimmiottando l'architettura dell'ormai tristemente noto
Durc (documento di regolarità contributiva), il Durt,
sostanzialmente, impedisce al committente di effettuare i
pagamenti dovuti all'appaltatore se quest'ultimo non è in
regola con determinati adempimenti fiscali, per i quali
l'impresa deve effettuare un ulteriore sforzo organizzativo
e sopportare ulteriori costi amministrativi e non solo. Per esempio, per poter ottenere in tempo reale il Durt
(rilasciato dall'Agenzia delle entrate), le imprese dovranno
impegnarsi a liquidare l'Iva con periodicità mensile, a
prescindere dal volume d'affari realizzato, con una forte
penalizzazione per le piccole imprese che dovranno sostenere
maggiori costi per l'assistenza fiscale. Particolarmente gravoso sarebbe, sotto questo aspetto, la
posizione del soggetto in regime dei minimi che anziché
adempiere alle formalità una volta l'anno, sarebbe costretto
a farlo ogni mese, con un non indifferente aggravio di
oneri. Cosa cambia con il Durt. Pur lasciando inalterata
l'impalcatura generale delle diverse responsabilità tra i
soggetti partecipanti all'appalto o al sub-appalto,
l'attestazione che veniva rilasciata da ciascuna impresa per
ottenere il pagamento dal proprio cliente, verrà sostituita
dal Durt (il cui rilascio avviene da parte dell'Agenzia
delle entrate). Dopo il voto alla camera, l'Iva è stata esclusa dal decreto
del Fare dal meccanismo della responsabilità solidale, ma
solo apparentemente. Da un esame del testo licenziato con il
voto di fiducia, appare evidente che le trasmissioni
telematiche da effettuare con cadenza mensile non riguardino
solo le ritenute dei dipendenti utilizzati per la
realizzazione del subappalto, ma anche la liquidazione
dell'Iva. Viene pure confermato che il committente principale ha una
responsabilità amministrativa al versamento di una sanzione
da 5 mila a 200 mila euro, per il committente che non riceve
la documentazione comprovante il corretto versamento delle
ritenute da parte dell'appaltatore e degli eventuali
subappaltatori. Attualmente la documentazione che il subappaltatore deve
rilasciare al proprio appaltatore e lo stesso appaltatore al
proprio committente, consiste alternativamente: 1) nella documentazione comprovante il versamento delle
ritenute dei dipendenti; 2) in un'asseverazione del corretto versamento delle
ritenute dei dipendenti da parte di un professionista o Caf
imprese; 3) in una autocertificazione sostitutiva dell'impresa
subappaltatrice del corretto versamento delle ritenute. Con le nuove regole del decreto del Fare, il subappaltatore
e l'appaltatore devono chiedere all'Agenzia delle entrate il
rilascio del Durt, che dovrà essere rilasciato
all'appaltatore ovvero al committente. Con tale documento l'Agenzia delle entrate dichiara che
l'impresa è in regola con il versamento di debiti tributari
per imposte, sanzioni o interessi, scaduti e non estinti dal
subappaltatore alla data di pagamento del corrispettivo.
La trasmissione dei dati contabili. La nuova norma prevede
inoltre la nascita di un portale dell'Agenzia delle entrate
nel quale si può ricevere in tempo reale il Durt. Si tratta
di un cassetto fiscale costantemente aggiornato sulla
propria posizione tributaria. Per accedere a questo portale,
occorre tuttavia impegnarsi alla trasmissione telematica
periodica dei «dati contabili e i documenti primari relativi
alle retribuzioni erogate; ai contributi versati e alle
imposte dovute». Appare evidente che da tali adempimenti
scattino nuovi costi amministrativi (consulenza, assistenza,
personale amministrativo ecc.) a carico delle imprese già
pericolosamente in debito di ossigeno. È evidente che l'Agenzia delle Entrate può certificare
solamente che l'impresa ha versato le ritenute, ma non che
l'impresa è in regola con il pagamento delle ritenute
relative alla prestazioni di appalto. L'unica certificazione
che può rilasciare l'Agenzia si riferisce ai versamenti
riferiti all'anno solare per cui è già stato presentato il
modello 770, alla data della richiesta da parte dell'impresa
appaltatrice o subappaltatrice. Pertanto, attualmente, può
essere certificato solamente il corretto versamento delle
ritenute operate sull'anno 2011 in quanto il modello 770
relativo ai compensi erogati nel 2012 deve essere presentato
entro il 20.09.2013. La comunicazione periodica dei dati prevista dalla norma,
pertanto, avendo lo scopo di controllare la regolarità dei
versamenti delle ritenute con una probabilità elevata, sarà
a carattere mensile, anche se non è specificato dalla norma.
Se questo sarà confermato in sede di approvazione al senato,
la norma si pone in contraddizione con l'art. 51 dello
stesso decreto del Fare, laddove si abroga a scopo di
semplificazione, l'obbligo di comunicare mensilmente i dati
contenuti nelle buste paga dei dipendenti, ossia di
presentare mensilmente il modello 770 (articolo
ItaliaOggi Sette del 29.07.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Recupero dei rifiuti, linea dura.
Classificazione dei materiali legata al tipo di riutilizzo.
Il ministero dell'ambiente conferma
la rigidità delle norme sulle materie prime secondarie.
I materiali prodotti da un impianto di recupero possono
essere considerati già «materie prime secondarie» o restare
ancora nello status di «rifiuti», a seconda del tipo di
riutilizzo cui sono destinati.
A confermarlo è il ministero
dell'ambiente con la nota 07.03.2013 n.
18563 di prot., dettata in risposta alle perplessità sollevate da
una amministrazione provinciale sull'interpretazione
precedentemente data dallo stesso dicastero sull'attuale
normativa tecnica in materia di recupero dei rifiuti. In particolare, per il Minambiente i materiali prodotti da
un impianto di recupero di rifiuti inerti, se destinati ad
essere riutilizzati in edilizia, cessano di essere tali
all'esito del solo trattamento, mentre se destinati alla
realizzazione di sottofondi stradali continuano ad essere
rifiuti fin quando non sono effettivamente reimpiegati.
Recupero dei rifiuti, le regole. L'interpretazione del
dicastero ha ad oggetto il dm 05.02.1998, ossia uno
degli storici provvedimenti (insieme dm 161/2002) che,
sebbene adottato sotto l'antico dlgs 22/1997 (cosiddetto
«Decreto Ronchi»), continua a costituire sotto l'attuale
dlgs 152/2006 («Codice ambientale») la norma tecnica di
riferimento per il corretto recupero dei rifiuti non
pericolosi. Confermando la propria lettura di analogo caso data nel 2011
(con nota n. 26749), il Minambiente ricorda infatti come
solo il preciso rispetto delle modalità operative di
recupero dettate dal dm in parola per le singole tipologie
di rifiuti contemplate (tra cui carta, vetro, metallo,
plastica) permette di riabilitare a veri e propri «beni» i
residui processati. E può accadere che, oltre alle condizioni generali del
rispetto di standard qualitativi dei materiali in uscita e
del loro reimpiego effettivo ed oggettivo, il decreto
pretenda condotte ben precise e differenziate per poter
considerare concluso il procedimento di recupero. Ciò
effettivamente accade per gli inerti provenienti da
demolizioni e costruzioni edili, che se destinati al
reimpiego nello stesso settore perdono il loro status di
rifiuti con il semplice trattamento conforme agli allegati
tecnici del dm 5 febbraio 1998, ma che se destinati ad
diverso impiego lo perdono solo all'atto del riutilizzo.
Recupero dei rifiuti, la realtà. Ma se riconoscere agli
stessi materiali sia lo status di «materie prime secondarie»
sia quello di «rifiuti» suscita nella stessa pubblica
amministrazione (provinciale, come accennato in apertura)
solo delle «perplessità», la stessa schizofrenia normativa
rischia di avere effetti ben più seri per gli operatori
privati. Come nel caso posto alla base della stessa ultima
nota del Minambiente, può infatti verificarsi che un'impresa
sottoponga dei rifiuti inerti a un trattamento di recupero
all'esito del quale ottiene materiali riutilizzabili
nell'edilizia (come assicurato dal punto 7.1.3, lettera a),
Allegato 1, Sub allegato 1 al dm 5 febbraio 1998) per poi
cederli ad altra impresa. Ma se l'impresa che li riceve li riutilizza nella diversa
attività di realizzazione di sottofondi stradali (come
permesso dal punto 7.1.3, lettera c), stesso provvedimento),
ebbene (conferma il ministero dell'ambiente) gli stessi
materiali sono da considerarsi ancora come rifiuti, con la
conseguenza che tutte le attività di gestione dei medesimi
sono giuridicamente (e retroattivamente) inquadrabili come
attività di gestione (appunto) di rifiuti.
Recupero dei rifiuti, in futuro. Lo storico dm
05.02.1998 oggetto della controversa interpretazione ministeriale
conserva, come accennato, la propria operatività in virtù
del dlgs 152/2006, ed in particolare in forza dei suoi
articoli 184-ter (in tema di «end of waste», ossia di
cessazione della qualifica di rifiuti dei residui sottoposti
a recupero) e 214 (sulle procedure autorizzatorie
semplificate per la gestione dei rifiuti). La valenza del dm del 1998 nel sancire, in particolare, il
confine tra «rifiuti» e «materie prime secondarie» è
circoscritta dallo stesso articolo 184-ter del «Codice
ambientale», che la assicura solo fino all'adozione di nuove
e specifiche norme comunitarie e nazionali sull'end of waste
che ne detteranno in sostanza l'abrogazione, espressa o
tacita, e in modo totale o parziale. Si ricorda che proprio in materia di end of waste sono già
stati adottati dall'Ue i regolamenti n. 1179/2012 (per il
recupero dei rifiuti in vetro) e n. 1179/2012 (recupero dei
rottami metallici) e dal governo nazionale il dm Ambiente
22/2013 (sul recupero dei combustibili solidi secondari -
c.d. «Css»). E tutti e tre i citati provvedimenti di nuova
generazione appaiono essere molto meno ambigui del dm
05.02.1998 nel fissare il momento di cessazione della
qualifica di rifiuto: per i regolamenti Ue tale momento
coincide infatti con la fase di «cessione» dei
materiali recuperati dal produttore al soggetto
utilizzatore; per il dm nazionale con l'emissione da parte
del produttore dei materiali del certificato di loro
conformità alle prescrizioni tecniche sul recupero (articolo
ItaliaOggi Sette del 29.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Edifici, per l'Ape c'è il software.
Ora è possibile redigere l'ecoattestato.
Con la nuova aggiornata metodologia di calcolo del software
Docet di Enea-Cnr è ora possibile redigere l'attestato di
prestazione energetica («Ape»).
Docet è uno strumento di
simulazione a bilanci mensili per la certificazione
energetica degli edifici residenziali esistenti, mentre per
la certificazione degli edifici di nuova costruzione ed
esistenti, residenziali e non residenziali, si può
utilizzare DocetPro, disponibile sul sito xclima.com. La procedura di calcolo semplificata per la certificazione
energetica degli edifici, si legge nel sito Docet, è stata
aggiornata al decreto legge n. 63/2013 e alla circolare del
Mise del 25.06.2013. Si ricorda che con il decreto legge n. 63 del 2013 è stato
sostituito l'Attestato di certificazione energetica («Ace»)
con il nuovo Ape, redatto da esperti qualificati e
indipendenti. Con la circolare del 25 giugno scorso, il MiSe ha chiarito
che, fino a quando non sarà definita la nuova metodologia di
calcolo della prestazione energetica degli edifici,
l'Attestato di prestazione energetica (Ape), che ha
sostituito l'Attestato di certificazione energetica (Ace),
dovrà essere redatto secondo la vecchia metodologia di
calcolo di cui al dpr n. 59/2009. L'Ape va prodotta nel caso di vendita o di nuova locazione
di edifici o unità immobiliari. Il nuovo articolo 6 del dlgs
n. 192/05 (così come modificato dal dl n. 63/2013) prevede
nei contratti di vendita o nei nuovi contratti di locazione
di edifici o di singole unità immobiliari, l'inserimento di
apposita clausola con la quale l'acquirente o il conduttore
danno atto di aver ricevuto le informazioni e la
documentazione, comprensiva dell'attestato, in ordine alla
attestazione della prestazione energetica degli edifici. L'Ape può riferirsi a una o più unità immobiliari facenti
parte di un medesimo edificio. E ha una validità temporale
massima di dieci anni a partire dal suo rilascio ed è
aggiornato a ogni intervento di ristrutturazione o
riqualificazione che modifichi la classe energetica
dell'edificio o dell'unità immobiliare (articolo ItaliaOggi
Sette del 29.07.2013). |
CONDOMINIO: Abitazioni, sicurezza vs privacy.
Telecamere ok per effettivi pericoli. D'obbligo il cartello.
Alcune cautele da osservare per
lasciare la propria casa senza creare problemi ai vicini. Case da mettere in sicurezza prima di ogni partenza. Accanto
alle misure più tradizionali, dagli interventi strutturali
(inferriate, tapparelle blindate, vetri antisfondamento,
porte blindate ecc.) all'installazione di impianti di
antifurto, dalla stipula di polizze assicurative alla
vigilanza privata, occorre fare i conti con le nuove
tecnologie, senza però tralasciare di adempiere agli
obblighi previsti dalla legge a tutela dei terzi, con
particolare riferimento ai sistemi di videosorveglianza. Una nuova e forse inaspettata fonte di rischio deriva, ad
esempio, dai social network, ormai sempre più diffusi tra
giovani e meno giovani. Tuttavia l'ansia di condivisione delle foto e delle altre
informazioni relative alle ferie può essere abilmente
sfruttata dai malintenzionati per essere sicuri di potere
avere mano libera nell'appartamento. Occorre quindi sforzarsi di utilizzare con maggiore
attenzione i vari Facebook, Twitter e servizi simili, quanto
meno restringendo le possibilità di accesso da parte di
estranei alle proprie informazioni personali. Ma lo stesso consiglio vale anche per la più classica
segreteria telefonica (o per l'impostazione di risposta
automatica alle e-mail): meglio evitare di inserire messaggi
che chiariscano in modo inequivocabile la prolungata assenza
da casa. Le innovazioni tecniche riguardano anche strumenti di
protezione tradizionali come le porte blindate: meglio
essere sempre aggiornati sugli ultimi modelli di serratura e
sulle chiavi di nuova generazione, falsificabili con
maggiore fatica. L'innovazione tecnologica la fa poi da padrona in materia di
antifurti e videosorveglianza (alcune videocamere o più
semplici webcam sono ad esempio in grado di inviare le
immagini anche sugli smartphone). Vi sono poi delle telecamere con specifici sensori che
possono avvertire via e-mail il proprietario di casa sulla
rilevazione di movimenti o variazioni di temperatura
nell'appartamento (segnali che potrebbero ad esempio seguire
all'apertura di una porta o di una finestra). Tuttavia occorre considerare che l'installazione di
telecamere, pur costituendo sicuramente un ottimo deterrente
per scoraggiare i terzi malintenzionati, può anche
condizionare la libertà degli altri condomini di muoversi
all'interno delle aree comuni. Di conseguenza se il
proprietario vuole installare degli impianti di
videosorveglianza per registrare e conservare le immagini
dovrà rispettare determinati principi e adottare particolari
cautele a tutela della privacy degli altri condomini. L'installazione di telecamere è infatti possibile a
condizione che ricorrano concrete situazioni di pericolo, di
regola costituite da furti o danneggiamenti già
verificatisi. È comunque vietata l'installazione con scopo deterrente di
telecamere finte o non funzionanti, in quanto la sola loro
presenza può condizionare il movimento e il comportamento
delle persone. Inoltre, il sistema di videosorveglianza può
essere installato soltanto quando altre misure (es. sistemi
comuni di allarme, blindatura o protezione rinforzata di
porte e portoni, cancelli automatici ecc.) siano valutate
insufficienti o inattuabili. Si deve comunque escludere
qualsiasi uso superfluo o eccessivo del sistema. Il singolo condomino che abbia installato un sistema di
videosorveglianza a protezione dell'appartamento o di
eventuali pertinenze è tenuto a informare i vicini con
appositi cartelli, che devono essere collocati prima del
raggio di azione della telecamera e devono essere visibili
in ogni condizione di illuminazione, allorché il sistema di
videosorveglianza sia eventualmente attivo in orario
notturno. Inoltre è importante sottolineare che le immagini registrate
potranno essere conservate per un periodo limitato, cioè
sino a un massimo di 24 ore, fatte salve specifiche esigenze
per indagini della polizia. Da sottolineare, infine, che l'angolo visuale delle riprese
deve essere comunque limitato ai soli spazi antistanti
l'accesso all'abitazione. Il mancato rispetto di queste
prescrizioni, a seconda dei casi, può comportare
l'applicazione di sanzioni amministrative o penali, oltre
ovviamente a eventuali richieste di risarcimento da parte
dei soggetti danneggiati (articolo
ItaliaOggi Sette del 29.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanza tra edifici senza deroghe.
Il limite legale di dieci metri si applica anche alle
tettoie e alle autorimesse. Costruzioni e ristrutturazioni. Le
interpretazioni dei giudici rafforzano il divieto di
procedere sul confine tra fabbricati limitrofi. Le questioni relative alle distanze dai confini e tra
fabbricati continuano a dare vita ad un notevole contenzioso
giudiziale, tanto che ormai è possibile individuare
orientamenti consolidati, anche nella giurisprudenza della
seconda Sezione della Cassazione, secondo la quale ad
esempio sono soggette ai limiti di distanze anche le
autorimesse e le tettoie. Le disposizioni in tema di distanze tra edifici sono
contenute nel Codice civile (articoli 873 e seguenti), in
cui si prescrive che le costruzioni su fondi finitimi devono
essere tenute a distanza non minore di tre metri, a meno che
non siano realizzate in unione, cioè strutturalmente
collegate, oppure in aderenza. In questo caso (sentenza n.
21227/2009) è necessario che la nuova opera e quella
preesistente combacino perfettamente da uno dei lati, in
modo che non rimanga tra i due muri, nemmeno per un breve
tratto o ad intervalli, una intercapedine, che lasci
scoperte anche solo parzialmente le relative facciate.
I casi Il termine "costruzione" viene riferito dalla giurisprudenza
a qualsiasi opera non completamente interrata e che abbia i
caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione
rispetto al suolo, anche se realizzata mediante appoggio o
incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica
preesistente; e ciò indipendentemente dal livello di posa ed
elevazione dell'opera stessa, dai suoi caratteri e dalla sua
destinazione, come nel caso di elementi accessori e
pertinenze, quali le autorimesse, che abbiano dimensioni
consistenti e siano stabilmente incorporati al resto
dell'immobile (sentenze n. 72/2013, n. 13389/2011 e n.
4277/2011). È stata ritenuta una «costruzione» anche il
manufatto che, anche se privo di pareti, come nel caso delle
tettoie, determini un incremento del volume, della
superficie e della funzionalità dell'immobile (sentenze n.
16776/2012, n. 5934/2011 e n. 22127/2009). Rientrano nella nozione di "costruzione" anche tutte quelle
parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati
(cosiddetti «aggettanti») che, pur non essendo volumi
abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare
la consistenza del fabbricato, salvo siano di ridotte
dimensioni o abbiano un carattere meramente decorativo. Non
sono infatti computabili ai fini delle distanze, solo quegli
elementi con funzione ornamentale, di rifinitura od
accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni o le
grondaie (sentenza n. 17242/2010) La sopraelevazione le distanze vanno rispettate anche nel caso di
sopraelevazione, «per tale intendendosi qualsiasi
costruzione che si eleva al di sopra della linea di gronda
di un preesistente fabbricato» (sentenza n. 22895/2004),
allorquando sviluppi effettivamente una nuova cubatura.
Anche la modifica del tetto di un fabbricato integra una
sopraelevazione, ma viene considerata "costruzione" solo se
produce aumento della superficie esterna e della volumetria
dei piani sottostanti (sentenza n. 20786/2006) Al regime delle distanze legali, secondo quanto previsto
dall'articolo 879, comma 2, del Codice civile, non sono
soggette le costruzioni realizzate a confine con le piazze e
le vie pubbliche, anche di proprietà privata gravate da
servitù pubbliche di passaggio (sentenza n. 6006/2008). Le previsioni del codice civile vengono integrate da quelle
dei regolamenti edilizi locali, che possono anche fissare
distanze superiori, purché nel rispetto della disciplina
urbanistico-edilizia nazionale e regionale, in particolare
quella del Dm 1444/1968. Le distanze minime tra costruzioni
indicate dall'articolo 9 del decreto variano in relazione
alle zone territoriali omogenee in cui ricadono gli edifici,
alla loro altezza ed alla presenza o meno di strade
destinate al traffico veicolare. Solo per i centri storici (le zone A), in caso di
ristrutturazione vi è l'obbligo di mantenere le distanze
intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, mentre
nelle altre zone omogenee per gli edifici di nuova
costruzione è prescritta in ogni caso una distanza minima di
dieci metri tra le pareti finestrate e quelle degli edifici
antistanti. In presenza di strade, le distanze minime
corrisponderanno alla larghezza della sede stradale
maggiorata, per ciascun lato, ad una misura variabile dai 5
ai 10 metri, a seconda dell'ampiezza della strada. Di
conseguenza, in questo caso, la distanza minima potrà andare
dai 17 ai 35 metri. La norma ammette distanze inferiori, ma solo nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate, con
esclusione degli interventi diretti, realizzati sulla base
di un singolo permesso di costruire. --------------- Gli orientamenti
01 | A TUTTE LE FINESTRE
LO STESSO PESO La distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici
antistanti, prevista dall'articolo 9 del Dm 02.04.1968,
n. 1444, va calcolata
con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non alle sole
parti che si fronteggiano
e con riguardo a tutte le pareti finestrate e non solo a
quella principale, prescindendo
anche dal fatto che esse siano o meno in posizione
parallela (Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza
n. 7731/2010) 02 | NESSUNA DEROGA
NEI PIANI URBANISTICI L'articolo 9 del Dm 02.04.1968 n. 1444, che impone la
distanza minima di dieci metri tra costruzioni vincola anche
i Comuni in sede di formazione e di revisione degli
strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni
previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite
minimo è illegittima, essendo consentita all'amministrazione
locale solo la fissazione di distanze superiori (Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza n. 1491/2009)
03 | I BALCONI E LE LOGGE
ESCLUSI DAL CALCOLO La distanza dei dieci metri (fissati dall'ex Dm n.
1444/1968) tra pareti finestrate è stata stabilita
in funzione della tutela della riservatezza delle abitazioni
situate in fabbricati che si fronteggiano, ratio che viene
meno in presenza di balconi e di logge, che quindi non
debbono essere tenuti
presenti ai fini del calcolo
della distanza (Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza n. 3889/2006)
04 | L'ASCENSORE SUPERA
I VINCOLI DI LEGGE
L'installazione di un ascensore, al fine dell'eliminazione
delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino
su parte di un cortile
e di un muro comuni,
deve considerarsi indispensabile ai fini dell'accessibilità
dell'edificio
e della reale abitabilità dell'appartamento, e rientra,
pertanto, nei poteri spettanti
ai singoli condomini ai sensi dell'articolo 1102 del Codice
civile, senza che, ove siano rispettati i limiti di uso
delle cose comuni stabiliti da tale norma, rilevi la
disciplina dettata dall'articolo 907
del Codice civile sulla distanza delle costruzioni dalle
vedute (Cassazione civile, sezione II, sentenza n.
14096/2012) 05 | NESSUNA SANATORIA
PER LE VIOLAZIONI
In tema di distanze legali nelle costruzioni, le
prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei
regolamenti edilizi comunali, essendo dettate,
contrariamente a quelle del Codice civile, a tutela
dell'interesse generale a un prefigurato modello
urbanistico, non tollerano deroghe convenzionali da parte
dei privati. Tali deroghe, se concordate, sono invalide, né
tale invalidità può venire meno per l'avvenuto rilascio di
concessione edilizia, poiché il singolo atto non può
consentire la violazione dei principi generali dettati, una
volta per tutte, con gli indicati strumenti urbanistici (Consiglio di Stato, sezione II, sentenza. n. 9751/2010)
06 | NON BASTA UNO SPIGOLO
PER I FONDI FINITIMI
In materia di
rispetto delle distanze legali delle costruzioni rispetto al
confine, la nozione di fondi finitimi è diversa da quella di
fondi meramente "vicini", dovendo per fondi finitimi
intendersi quelli che hanno in comune, in tutto o in parte,
la linea di confine, ossia quelli le cui linee di confine, a
prescindere dall'essere o meno parallele, se fatte avanzare
idealmente l'una verso l'altra, vengono ad incontrarsi
almeno per un segmento; ne consegue che non possono essere
invocate le norme sul rispetto delle distanze ove i fondi
abbiano in comune soltanto uno spigolo o i cui spigoli si
fronteggino pur rimanendo distanti (Cassazione civile, sezione II, sentenze n. 3036/2009)
07 | PER LE APERTURE
SUFFICIENTE UNA PARETE In tema di distanze tra
le costruzioni, l'articolo 9, n. 2), del Dm 02.04.1968 n.
1444 prescrive, con disposizione tassativa e inderogabile,
la distanza minima assoluta di dieci metri tra i fabbricati
anche nel caso in cui solo una delle pareti antistanti
risulti finestrata e non entrambe (Cassazione civile, sezione II, sentenza n.
22495/2007) 08 | PER I CENTRI STORICI
VIGE L'ESONERO L'articolo 9,
comma 1, n. 2), del Dm 02.04.1968 n. 1444 in base al quale
la distanza tra pareti finestrate di edifici frontisti non
deve essere inferiore a dieci metri, si riferisce alle sole
nuove edificazioni consentite in zone diverse dal centro
storico (zona A), posto che in questo ultimo, dove vige il
generale divieto di costruzioni ex novo, la norma si limita
a prescrivere che la distanza non sia inferiore a quella
intercorrente tra i volumi edificati preesistenti (Cassazione civile, sezione II, sentenza n. 12767/2008)
---------------
FOCUS La finestra è decisiva
La Cassazione ha precisato per le pareti finestrate il
rispetto della distanza di dieci metri dagli edifici
prospicienti si riferisce esclusivamente alle pareti munite
di finestre qualificabili come vedute, cioè quelle che
permettono di affacciarsi per guardare di fronte, ma non
comprende anche le pareti cui si aprono finestre cosiddette
"lucifere", che consentono solo il passaggio di luce e aria,
senza possibilità di affaccio (sentenza n. 6604/2012). Per
questa ragione e in quanto l'articolo 9 del Dm 1444/1968 è
da considerarsi «norma eccezionale, e perciò insuscettibile
di interpretazione analogica», la Cassazione ha anche
affermato che non possono ricomprendersi tra le pareti
finestrate né le vetrate fisse e prive di aperture, poiché
non consentono l'affaccio, né un terrazzo di copertura, il
quale non è elemento integrante della parete sottostante, ma
costituisce parte distinta e sovrapposta dell'edificio
(sentenza n. 19092/2012). Per le sole zone C), l'articolo 9 del Dm stabilisce inoltre
che la distanza minima tra pareti finestrate di edifici
antistanti debba essere pari all'altezza del fabbricato più
alto. Questa previsione si applica anche nel caso in cui una
sola parete sia finestrata, se gli edifici si fronteggiano
per oltre dodici metri lineari. ---------------
I paletti. Norma statale invalicabile. Comuni vincolati nei regolamenti e nei piani urbani.
Le distanze fissate dalle norme nazionali (Dm 1444/1968) non
possono essere scavalcate dai regolamenti comunali. Le Sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 14953/2011)
hanno da tempo riconosciuto a questo decreto efficacia
analoga a quella della legge statale, con la conseguenza che
i Comuni hanno l'obbligo di conformarsi alle sue previsioni
nella formazione di nuovi strumenti urbanistici o nella
revisione di quelli esistenti, e che le sue disposizioni in
tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza
tra i fabbricati prevalgono sulle previsioni eventualmente
contrastanti contenute in un regolamento locale. Proprio in ragione della sua forza di legge, la Cassazione
penale (Sezione III, sentenze n. 10431/2012) ha stabilito che
il pubblico ufficiale che rilascia il titolo abilitativo
edilizio, in caso di dolosa violazione della disciplina in
tema di distanze legali, risponde del delitto di abuso
d'ufficio ai sensi dell'articolo 323 del Codice penale. La seconda Sezione della Cassazione (n. 7563/2006) ha
comunque precisato che la norma non è immediatamente
operante nei rapporti fra i privati e va interpretata nel
senso che l'adozione, da parte degli enti locali, di
strumenti urbanistici contrastanti con questa disposizione
comporta l'obbligo per il giudice di merito non solo di
disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di
applicare direttamente le previsioni dell'articolo 9 del Dm,
che è divenuto, «per inserzione automatica, parte integrante
dello strumento urbanistico». La stessa sezione (sentenze n.13547/2011 e n. 5741/2008) ha
anche chiarito che la finalità perseguita dalla norma non è
la tutela della riservatezza, bensì la salubrità e la
sicurezza, quindi essa va applicata «indipendentemente
dall'altezza degli edifici antistanti». Resta comunque salva la possibilità per gli strumenti
attuativi di derogare legittimamente alle prescrizioni
generali sulle distanze, purché gli stessi risultino
effettivamente «volti a disciplinare l'attività urbanistico-edilizia in particolari zone del territorio
comunale, secondo uniformi criteri planovolumetrici,
organici e funzionali, adeguati alla specificità di singoli
settori urbani» (Cassazione, sezione II, sentenza n.
56/2010). Anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato si è espressa
nello stesso senso, stabilendo che la norma vincola i Comuni
in sede di formazione e di revisione degli strumenti
urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con il limite minimo è
illegittima, essendo consentita all'amministrazione locale
solo la fissazione di distanze superiori ai dieci metri
(Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 844/2013). Unica
eccezione è costituita dagli edifici situati nei centri
storici (zone A), (Sezione IV, n. 3614/2006), anche se
oggetto di ricostruzione a seguito di demolizione,
volontaria o per evento naturale, ma a condizione che
l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse
operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie
dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti
della volumetria, né delle superfici occupate in relazione
alla originaria sagoma di ingombro (sezione IV, n. 844/2013). ---------------
La Consulta. Gli aspetti da contemperare.
Le lottizzazioni fanno eccezione. LE PRONUNCE/ Le Regioni hanno margini di manovra in presenza
di interessi legati alla materia del governo del territorio.
Il carattere inderogabile delle norme sulle distanze legali
(articolo 9 del Dm 1444/1968) e la sua portata integrativa
delle disposizioni del Codice civile, sono stati
ripetutamente affermati anche dalla Corte costituzionale,
chiamata a pronunciarsi in sede di conflitto di attribuzione
tra il legislatore statale e quello regionale. Quest'ultimo,
infatti, è spesso intervenuto in materia rivendicando la
propria potestà legislativa concorrente nella materia del
governo del territorio. Secondo la Consulta (da ultimo sentenza n. 232/2005) le norme
sulle distanze legali costituiscono uno dei limiti alla
proprietà previsti dalla legge per assicurarne la funzione
sociale, così come previsto dall'articolo 832 del Codice
civile e dall'articolo 42 della Costituzione. Al fine di
garantire la coesistenza dei diritti dei singoli
proprietari, «alle facoltà di ciascuno sono imposti dalla
legge limiti atti a conciliare il godimento del diritto sul
proprio bene con quello degli altri sui loro beni». Tra
questi limiti vi sono le norme che impongono di rispettare
determinate distanze minime nell'eseguire costruzioni, «la
cui violazione è suscettibile anche della drastica forma di
risarcimento in forma specifica, attraverso la riduzione in
pristino», ai sensi dell'articolo 872, comma 2, del Codice. Le norme degli strumenti urbanistici che prescrivono le
distanze tra le costruzioni in forza del rinvio contenuto
nell'articolo 873 del Codice hanno carattere integrativo
dello stesso Codice, in quanto concorrono alla stessa
configurazione del diritto di proprietà, disciplinando i
rapporti di vicinato, assicurando un'equità
nell'utilizzazione edilizia dei suoli privati ed attribuendo
il diritto reciproco al loro rispetto. Ne discende che anche le norme degli strumenti urbanistici
devono essere rispettose della normativa statale anche di
livello regolamentare. Secondo la Consulta alle Regioni è
consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime
stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la
deroga sia giustificata dall'esigenza di soddisfare
interessi pubblici legati al governo del territorio. In
particolare, le deroghe sono legittime se funzionali «agli
assetti urbanistici generali e quindi al governo del
territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti
isolatamente considerati». Sulla base di questi presupposti, con la sentenza
n.114/2012, la Consulta ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale delle norme della legge della Provincia di
Bolzano n. 13/1997 (modificate dalla Lp n. 15/2011), nella
parte in cui, ai fini dell'isolamento termico degli edifici,
consentiva di derogare nella misura massima di 20 cm alle
distanze tra edifici, alle altezze degli edifici e alle
distanze dai confini previsti nel piano urbanistico
comunale, con il solo rispetto «delle distanze prescritte
dal codice civile» e non anche di quelle del Dm n. 1444/1968.
Più di recente, la sentenza n. 6/2013 ha ribadito questo
principio, ricordando che le deroghe all'ordinamento civile
delle distanze tra edifici vanno lette con riferimento
all'articolo 9 del decreto, il quale «consente che siano
fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla
normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici
che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche»
(articolo Il Sole 24 Ore del
29.07.2013). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
L'obbligo di seduta pubblica, per la fase di
apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche, va
ritenuto operativo solo per le gare indette dopo l'entrata
in vigore dell'art. 12 del d.l. 07.05.2012 n. 52. Sulla questione riguardante l'applicazione, anche alle
procedure che si erano svolte prima della decisione
dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 13 del
28/07/2011 (e dell'emanazione dell'art. 12 del d.l.
07/07/2012 n. 52), del principio secondo il quale (anche)
l'apertura delle buste contenenti le offerte tecniche deve
avvenire in seduta pubblica, si è recentemente espressa di
nuovo l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, con le
decisioni n. 8 del 22/04/2013 e n. 16 del 27/06/2013, ha
affermato l'ulteriore principio secondo cui l'obbligo di
seduta pubblica, per la fase di apertura dei plichi
contenenti le offerte tecniche, va ritenuto operativo solo
per le gare indette dopo l'entrata in vigore dell'art. 12
del d.l. 07/05/2012 n. 52, conv., con modif., dalla l.
06/07/2012 n. 94, non potendo ritenersi applicabile anche
alle gare indette prima di tale data. Infatti il citato art. 12 non ha portata ricognitiva del
principio affermato con la pronuncia dell'Adunanza Plenaria
n. 13 del 2011, ma ha la specifica funzione transitoria di
salvaguardare gli effetti delle procedure concluse o
pendenti alla data del 09/05/2012, nelle quali si sia
proceduto all'apertura dei plichi in seduta riservata,
recando in sostanza, per questo aspetto, una sanatoria di
tali procedure. Del resto, come affermato dall'Adunanza Plenaria, il
riconoscimento della natura sanante del suddetto art. 12 "è
diretto a contenere gli oneri amministrativi ed economici
che deriverebbero della caducazione, altrimenti inevitabile,
di centinaia di gare che, diversamente, sarebbero di fatto
travolte per il mero mancato rispetto dei canoni di
pubblicità dell'apertura dei plichi contenenti le offerte
tecniche, in assenza di qualsivoglia indizio circa la
manomissione o l'occultamento degli stessi da parte
dell'amministrazione" (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 31.07.2013 n. 4037 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
LAVORI PUBBLICI:
La qualità di associazione di protezione
ambientale non legittima il Codacons al ricorso proposto in
ordine alla sponsorizzazione del restauro sull'Anfiteatro
Flavio di Roma, più comunemente noto come "Colosseo". Secondo un indirizzo giurisprudenziale le associazioni
ambientaliste sarebbero legittimate a ricorrere in sede
giurisdizionale, anche con riferimento ai beni culturali ed
agli strumenti urbanistici, tenuto conto della nozione
allargata di "ambiente" come complesso dei valori che
caratterizzano il territorio. Tuttavia, il sistema normativo
vigente, è fondato su una distinta scansione concettuale tra
patrimonio culturale e ambiente. La Costituzione accomuna nella tutela di cui all'art. 9
paesaggio e patrimonio storico e artistico (vale a dire il
patrimonio culturale come definito nel codice di cui al
d.lgs. n. 42/2004) e invece designa separatamente, tra le
materie di competenza esclusiva dello Stato, le funzioni di
tutela dell'ambiente e dei beni culturali (art. 117, c. 2,
lett. s) e, tra le materie di competenza concorrente (art.
117, c. 3), le funzioni di valorizzazione dei beni
ambientali e culturali. In sintesi, quindi, l'ambiente è un
bene immateriale unitario ma vi sono sue componenti che sono
oggetto di disciplina, cura e tutela isolatamente e
separatamente: tra queste, i beni culturali. Ciò che occorre distinguere, al fine di valutare l'ambito
della legittimazione a ricorrere delle associazioni di
protezione ambientale, è se l'interesse fatto valere attenga
all'ambiente inteso unitariamente ovvero al singolo bene
culturale considerato isolatamente e separatamente. Nel caso di specie, non viene in considerazione il possibile
impatto che piani, programmi o progetti possono avere sul
patrimonio culturale, né qualsiasi altro fatto che rientri
nella funzione di tutela dell'ambiente. Viene invece in
considerazione un intervento su beni culturali pubblici, che
l'Amministrazione dei beni culturali governa con lo
strumento dell'autorizzazione ai sensi degli artt. 21 e 24
del d.lgs. n. 42/2004; in particolare, un intervento di
restauro, ossia di "intervento diretto sul bene
attraverso un complesso di operazioni finalizzate
all'integrità materiale ed al recupero del bene medesimo,
alla protezione ed alla trasmissione dei suoi valori
culturali" (art. 29, c. 4, d.lgs. n. 42/2004), anzi, un
contratto di sponsorizzazione stipulato in vista del
restauro di un bene culturale: un fatto, dunque, che rientra
nella funzione di tutela non dell'ambiente, ma dei beni
culturali. La qualità di associazione di protezione ambientale non
legittimava, quindi, il Codacons al ricorso proposto in
ordine alla sponsorizzazione del restauro sull'Anfiteatro
Flavio di Roma, più comunemente noto come "Colosseo"
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 31.07.2013 n. 4034 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sulla legittimità del provvedimento con il quale
la stazione appaltante procede, in autotutela, alla revoca
dell'intera procedura di gara. L'amministrazione è titolare del potere, riconosciuto
dall'art. 21-quinquies della l. n. 241 del 1990, di revocare
per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, ovvero nel
caso di mutamento della situazione di fatto o di una nuova
valutazione dell'interesse pubblico originario, un proprio
precedente provvedimento amministrativo e che, con riguardo
ad una procedura di evidenza pubblica, deve ritenersi
legittimo il provvedimento di revoca di una gara di appalto,
disposta prima del consolidarsi delle posizioni delle parti
e quando il contratto non è stato ancora concluso, motivato
anche con riferimento al risparmio economico che deriverebbe
dalla revoca stessa, ciò in quanto la ricordata disposizione
ammette un ripensamento da parte della amministrazione a
seguito di una nuova valutazione dell'interesse pubblico
originario. Anche di recente è stato affermato che, ai sensi del citato
art. 21-quinquies, è legittimo il provvedimento con il quale
la stazione appaltante procede, in autotutela, alla revoca
dell'intera procedura di gara dopo averne individuato i
presupposti nei sopravvenuti motivi di pubblico interesse di
natura economica, derivanti da una forte riduzione dei
trasferimenti finanziari, nonché da una nuova valutazione
delle esigenze nell'ambito dei bisogni da soddisfare, a
seguito di una ponderata valutazione che ha evidenziato la
non convenienza di procedere all'aggiudicazione sulla base
del capitolato predisposto precedentemente ed al fine di
ottenere un risparmio economico. Pertanto, nel caso di specie, sussistevano le ragioni di
pubblico interesse all'esercizio del potere di autotutela
dell'Amministrazione e che tali ragioni erano state
chiaramente indicate dall'amministrazione negli atti
impugnati (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 30.07.2013 n. 4026 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Ove un provvedimento
amministrativo sia sorretto da una pluralità di motivazioni,
in base al cd. principio di resistenza, la validità anche di
una sola delle argomentazioni autonomamente poste a base del
provvedimento stesso è sufficiente di per sé a sorreggerne
il contenuto, con il corollario che il venir meno di
un’altra motivazione non potrà determinare l’annullamento
del provvedimento impugnato.
Tanto premesso, si deve, quindi, osservare
come alla fattispecie in esame sia applicabile il principio
fatto proprio dalla giurisprudenza consolidata (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. VI, 18.05.2012, n. 2894; TAR
Puglia Bari, Sez. III, 10.02.2011, n. 240; TAR
Campania, Napoli, Sez. III, 12.04.2010, n. 1923; TAR
Lazio, Roma, Sez. I, 26.01.2010, n. 949), anche di
questa Sezione (TAR Lazio, Latina, Sez. I, 08.03.2012,
n. 197), per cui, ove un provvedimento amministrativo sia
sorretto da una pluralità di motivazioni, in base al cd.
principio di resistenza, la validità anche di una sola delle
argomentazioni autonomamente poste a base del provvedimento
stesso è sufficiente di per sé a sorreggerne il contenuto,
con il corollario che il venir meno di un’altra motivazione
non potrà determinare l’annullamento del provvedimento
impugnato. Il dispositivo di questo, infatti, si regge del
tutto sufficientemente sulla sola enunciata ragione che ha
superato il vaglio di legittimità, ed anzi ciò comporta,
sotto il versante processuale, la sopravvenuta carenza di
interesse o comunque l’irrilevanza dell’esame dei motivi di
doglianza relativi agli ulteriori profili motivazionali
dell’atto (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 23.10.2012, n. 4202)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 29.07.2013 n. 678 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 143, primo comma,
lett. a), del r.d. n. 1775/1933 ha attribuito alla
cognizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche i
ricorsi avverso i provvedimenti definitivi della P.A. in
materia di acque pubbliche e cioè, secondo la
giurisprudenza, tutti i ricorsi contro i provvedimenti
caratterizzati dall’incidenza diretta sulla materia delle
acque pubbliche, ancorché adottati da autorità diverse da
quelle preposte specificamente alla tutela delle acque. Ai fini del riparto di giurisdizione, perciò, il discrimine
è dato dall’incidenza diretta o meno del provvedimento
amministrativo sul governo delle acque pubbliche: criterio,
questo dell’incidenza diretta, su cui concordano la Corte
regolatrice e la giurisprudenza amministrativa. Ed invero, l’art. 143, primo comma, lett.
a), del r.d. n. 1775/1933 ha attribuito alla cognizione del
Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche i ricorsi avverso
i provvedimenti definitivi della P.A. in materia di acque
pubbliche e cioè, secondo la giurisprudenza (cfr., da
ultimo, TAR Lazio, Roma, Sez. I, 14.05.2012, n.
4314), tutti i ricorsi contro i provvedimenti caratterizzati
dall’incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche,
ancorché adottati da autorità diverse da quelle preposte
specificamente alla tutela delle acque. Ai fini del riparto
di giurisdizione, perciò, il discrimine è dato
dall’incidenza diretta o meno del provvedimento
amministrativo sul governo delle acque pubbliche: criterio,
questo dell’incidenza diretta, su cui concordano la Corte
regolatrice (Cass. civ., Sez. Un., 09.11.2011, n.
23300) e la giurisprudenza amministrativa (cfr. C.d.S., Sez.
V, 02.08.2011, n. 4557; id., 25.05.2010, n. 3325;
id., Sez. VI, 31.05.2012, n. 3279), anche di questa
Sezione (TAR Lazio, Latina, Sez. I, 27 maggio 2011, n.
441). Nel caso di specie, tuttavia, deve senz’altro
escludersi un’incidenza diretta delle deliberazioni
impugnate (aventi ad oggetto il regime tariffario del S.I.I.)
sul regime delle acque pubbliche, potendosi ravvisare, al
più, un’incidenza indiretta, che, però, non è idonea a
radicare la cognizione della controversia in capo al
T.S.A.P.: la giurisprudenza ha, infatti, chiarito che
restano al di fuori della giurisdizione del T.S.A.P. ex art.
143, primo comma, lett. a), cit., le controversie aventi ad
oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti
volti ad incidere sul regime delle acque pubbliche, ovvero
provvedimenti aventi un’incidenza indiretta su detto regime
(C.d.S., Sez. V, n. 4557/2011, cit.; id., n. 3325/2010,
cit.), le quali, conseguentemente, rimangono assoggettate
alla giurisdizione del G.A. (v., pure, TAR Lazio, Latina,
Sez. I, 25.07.2012, n. 600)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 29.07.2013 n. 676 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Le domande di partecipazione alle procedure di
gara possono essere presentate anche per telefono o per via
elettronica. Dall'esame delle disposizioni contenute negli artt. 73 e 77
del d.lvo n. 163 del 2006 non è dato scorgere, nella fase di
presentazione delle domande di partecipazione alla procedura
di gara, alcuna formalità da rispettare, atteso che la
domanda può essere presentata anche per telefono o per via
elettronica. Va, anche, osservato che in sede di valutazione delle
domande di partecipazione oggetto di esame è soltanto la
documentazione atta a dimostrare la capacità tecnica,
economica ed i requisiti morali dei partecipanti, i quali
possono essere semplicemente dichiarati, per cui vengono
valutati dalla stazione appaltante, ai fini dell'eventuale
ammissione alle offerte, in modalità non pubblica (TAR
Lazio-Roma, Sez. I-bis,
sentenza 25.07.2013 n. 7636 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
La regola posta dal disciplinare di gara per la
valutazione delle offerte anomale deve essere letta
complessivamente alla luce dei principi che governano la
materia, così come posti dal codice dei contratti pubblici. L'art. 1363 cod. civ. valido per l'interpretazione anche
degli atti amministrativi prevede che le singole
disposizioni di un provvedimento devono essere interpretate
le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il
senso che deriva dal complesso dell'intero provvedimento; a
ciò va aggiunto il principio di conservazione degli atti
giuridici, art. 1367, le disposizioni devono essere
interpretate rinvenendone un effetto, e l'art. 1369, vale a
dire che le singole disposizioni devono essere inteso in
senso più appropriato alla natura dell'articolato. Pertanto, nel caso di specie, non si può prescindere dalla
regola primaria posta dal disciplinare di gara, cioè che la
valutazione della congruità della non congruità delle
offerte deve essere svolta sulla base delle relative norme
di legge, a partire dall'art. 86 e ss. D. Lgs 163/2006
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.07.2013 n. 3964 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Non è necessario l'indicazione del subappaltatore
allorché l'entità delle opere scorporabili trova capienza in
un surplus di qualificazione nella categoria principale. L'art. 92 del d.p.r. n. 207 del 2010, in materia di
partecipazione alla gara stabilisce che "il concorrente
singolo può partecipare alla gara qualora sia in possesso
dei requisiti economico-finanziari e tecnico organizzativi
relativi alla categoria prevalente per l'importo totale dei
lavori ovvero sia in possesso dei requisiti relativi alla
categoria prevalente ed alle categorie scorporabili per
singoli importi". E', dunque, l'esistenza della totale copertura della
categoria prevalente a legittimare la partecipazione alla
gara, pur in carenza dei requisiti nelle categorie
scorporabili, purché accompagnata dalla dichiarazione di
voler subappaltare le scorporabili. In sintesi, la
qualificazione mancante deve essere posseduta in relazione
alla categoria prevalente, dal momento che ciò tutela la
stazione appaltante circa la sussistenza della capacità
economico-finanziaria da parte dell'impresa. Quanto alla identificazione del subappaltatore ed alla
verifica del possesso da parte di questi di tutti i
requisiti richiesti dalla legge e dal bando, essa attiene
solo al momento dell'esecuzione. In tal senso, da ultimo, è
anche la determinazione dell'AVCP n. 4 del 10/10/2012 che
nello stilare le norme che le stazioni appaltanti devono
tenere in fase di stesura dei bandi di gara, rammenta che,
come voluto dall'art. 92 del d.p.r. n. 207/2010, "i
requisiti relativi alle categorie scorporabili non posseduti
dall'impresa devono da questa essere posseduti con
riferimento alla categoria prevalente". La stessa
determinazione precisa che la normativa "non comporta
l'obbligo di indicare i nominativi dei subappaltatori in
sede di offerta, ma solamente di indicare le quote che il
concorrente intende subappaltare, qualora non in possesso
della qualificazione per le categorie scorporabili".
Tale scelta è stata voluta dal legislatore, infatti, la
prima stesura del d.lgs. n. 163/2006 prevedeva
esplicitamente che le opere specializzate eccedenti il 15%
potessero essere eseguite solo da a.t.i. nel caso in cui il
partecipante alla gara non avesse avuto i requisiti
tecnico-organizzativi ed economico-finanziari relativi alla
categoria scorporabile; successivamente, con la modifica
operata dal d.lgs. n. 152 dell'11/09/2008 è stata prevista
la possibilità del subappalto anche per le opere
specialistiche, senza alcuna specificazione, rinviando il
tutto a quanto disposto dall'art. 118, c. 2, terzo periodo
del d.lgs. n. 163/2006, non ritenendo di delineare in modo
diverso le condizioni di partecipazione alla gara neppure
nel caso in cui l'opera specialistica superi il 15%
dell'importo complessivo. Non può, quindi, nel caso di specie, che trovare
applicazione la regola generale dettata dall'art. 118 del d.
lgs. n. 163/2006 e dall'art. 109 del d.p.r. n. 207/2010, che
non impongono di indicare già in sede di qualificazione
l'appaltatore, rimandando anche il controllo dei requisiti
al momento in cui verrà depositato il contratto di
subappalto (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.07.2013 n. 3963 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
In ambito amministrativo
per ordinanze si intendono tutti quegli atti che creano
obblighi o divieti ed in sostanza impongono ordini. Segnatamente, le ordinanze di necessità ed urgenza sono
statuizioni straordinarie adottate nei casi espressamente
previsti dalla legge, espressione di un potere
amministrativo “extra ordinem”, al fine di fronteggiare
situazioni di urgente necessità (in materia di ordine e
sicurezza pubblica nonché di sanità ed igiene pubblica), là
dove, all'uopo si rivelino inutili gli strumenti ordinari
posti a disposizione dal legislatore. In ordine ai limiti, entro i quali può essere esercitato il
potere in questione, la recente giurisprudenza
amministrativa ha, in più occasioni, rimarcato che la
possibilità concessa all’amministrazione di adottare
provvedimenti, in deroga alla disciplina di legge, impone il
rigido rispetto di alcuni adempimenti a garanzia
dell’operato della stessa pubblica amministrazione. Tra
questi l’obbligo di munire i provvedimenti in questione di
una motivazione adeguata: … ”in grado di far comprendere le
ragioni del provvedimento e di adottare il provvedimento
all’esito di una istruttoria congrua”. Ne consegue che il ricorso al potere extra ordinem può
essere esercitato dall’amministrazione previa adeguata
istruttoria e con l’espressa indicazione delle ragioni di
necessità ed urgenza che lo giustificano. E’ vero che l’art. 7 della legge n. 241 del 1990 esclude
che, in ipotesi di adozione di provvedimenti contingibili ed
urgenti, l’Autorità procedente abbia necessità di comunicare
all’interessato, ai fini della validità del provvedimento
adottato, l’avvio del procedimento; è altrettanto vero,
tuttavia che, nella specie, in ragione della documentazione
prodotta in atti, sembra inequivocabilmente evincersi come
il provvedimento qui impugnato, pur rivestendo formalmente
le sembianze di una ordinanza contingibile ed urgente, non
specifica adeguatamente a quali esigenze la stessa deve
sovvenire, tanto più che l’accesso non è peraltro inibito
alle altre categorie di persone. Ed invero, il potere del Sindaco di emanare ordinanze
contingibili ed urgenti postula, per giurisprudenza
costante, “la necessità di provvedere con immediatezza in
ordine a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile,
cui sia impossibile far fronte con gli strumenti ordinari
apprestati dall'ordinamento”. Allo stesso tempo va rimarcato che l’amministrazione può
utilizzare lo strumento in questione solo ove occorra far
fronte ad una effettiva ed imprevedibile situazione di
emergenza. In tal senso si è pronunciata la giurisprudenza
amministrativa, secondo cui: “il potere del Sindaco di
emanare ordinanze contingibili ed urgenti presuppone la
necessità di provvedere con immediatezza in ordine a
situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile, cui sia
impossibile far fronte con gli strumenti ordinari apprestati
dall'ordinamento, nonché l'esistenza e l'indicazione nel
provvedimento impugnato di una situazione di pericolo, quale
ragionevole probabilità che accada un evento dannoso nel
caso in cui l'Amministrazione non intervenga prontamente". Osserva, preliminarmente, il
Collegio che in ambito amministrativo per ordinanze si
intendono tutti quegli atti che creano obblighi o divieti ed
in sostanza impongono ordini. Segnatamente, le ordinanze di
necessità ed urgenza sono statuizioni straordinarie adottate
nei casi espressamente previsti dalla legge, espressione di
un potere amministrativo “extra ordinem”, al fine di
fronteggiare situazioni di urgente necessità (in materia di
ordine e sicurezza pubblica nonché di sanità ed igiene
pubblica), là dove, all'uopo si rivelino inutili gli
strumenti ordinari posti a disposizione dal legislatore. In ordine ai limiti, entro i quali può essere esercitato il
potere in questione, la recente giurisprudenza
amministrativa ha, in più occasioni, rimarcato che la
possibilità concessa all’amministrazione di adottare
provvedimenti, in deroga alla disciplina di legge, impone il
rigido rispetto di alcuni adempimenti a garanzia
dell’operato della stessa pubblica amministrazione. Tra
questi l’obbligo di munire i provvedimenti in questione di
una motivazione adeguata: … ”in grado di far comprendere le
ragioni del provvedimento e di adottare il provvedimento
all’esito di una istruttoria congrua” (cfr. TAR Lazio, sez. III-quater, 15.09.2006, n. 8614).
Ne consegue che il ricorso al potere extra ordinem può
essere esercitato dall’amministrazione previa adeguata
istruttoria e con l’espressa indicazione delle ragioni di
necessità ed urgenza che lo giustificano. E’ vero che l’art. 7 della legge n. 241 del 1990 esclude
che, in ipotesi di adozione di provvedimenti contingibili ed
urgenti, l’Autorità procedente abbia necessità di comunicare
all’interessato, ai fini della validità del provvedimento
adottato, l’avvio del procedimento; è altrettanto vero,
tuttavia che, nella specie, in ragione della documentazione
prodotta in atti, sembra inequivocabilmente evincersi come
il provvedimento qui impugnato, pur rivestendo formalmente
le sembianze di una ordinanza contingibile ed urgente, non
specifica adeguatamente a quali esigenze la stessa deve
sovvenire, tanto più che l’accesso non è peraltro inibito
alle altre categorie di persone. Sotto altro profilo va rilevato che l’esercizio del potere
contingibile ed urgente esercitato, nel caso di specie, dal
Sindaco del Comune di Castro dei Volsci, non è accompagnato
dai requisiti necessari che caratterizzano indefettibilmente
tali atti eccezionali, assumendo viceversa le
caratteristiche di un ordinario provvedimento assunto
all’esito di una situazione che non rivestiva
ragionevolmente i caratteri eccezionali ed imprevedibili. Ed invero, il potere del Sindaco di emanare ordinanze
contingibili ed urgenti postula, per giurisprudenza
costante, “la necessità di provvedere con immediatezza in
ordine a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile,
cui sia impossibile far fronte con gli strumenti ordinari
apprestati dall'ordinamento”. Allo stesso tempo va rimarcato che l’amministrazione può
utilizzare lo strumento in questione solo ove occorra far
fronte ad una effettiva ed imprevedibile situazione di
emergenza. In tal senso si è pronunciata la giurisprudenza
amministrativa (cfr. TAR Toscana, sez. II, 09.04.2004, n.
1006), secondo cui: “il potere del Sindaco di emanare
ordinanze contingibili ed urgenti presuppone la necessità di
provvedere con immediatezza in ordine a situazioni di natura
eccezionale ed imprevedibile, cui sia impossibile far fronte
con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento,
nonché l'esistenza e l'indicazione nel provvedimento
impugnato di una situazione di pericolo, quale ragionevole
probabilità che accada un evento dannoso nel caso in cui
l'Amministrazione non intervenga prontamente"
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 23.07.2013 n. 664 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di reati edilizi,
l'ordine di demolizione di cui all'art. 31, comma 9, d.P.R.
06.06.2001 n. 380 è una sanzione amministrativa di tipo
ablatorio, accessoria rispetto alla condanna principale, che
costituisce esplicitazione di un potere sanzionatorio, non
residuale o sostitutivo ma svincolato rispetto a quelli
dell'autorità amministrativa, attribuito dalla legge al
giudice penale. Il relativo provvedimento, pertanto, al pari delle altri
statuizioni della sentenza, una volta che questa sia passata
in giudicato, è assoggettato all'esecuzione nelle forme
previste dagli art. 655 e ss. c.p.p., onde l'organo
promotore dell'esecuzione va identificato nel p.m.. La giurisprudenza spiega che “in tema di
reati edilizi, l'ordine di demolizione di cui all'art. 31,
comma 9, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 è una sanzione
amministrativa di tipo ablatorio, accessoria rispetto alla
condanna principale, che costituisce esplicitazione di un
potere sanzionatorio, non residuale o sostitutivo ma
svincolato rispetto a quelli dell'autorità amministrativa,
attribuito dalla legge al giudice penale. Il relativo
provvedimento, pertanto, al pari delle altri statuizioni
della sentenza, una volta che questa sia passata in
giudicato, è assoggettato all'esecuzione nelle forme
previste dagli art. 655 e ss. c.p.p., onde l'organo
promotore dell'esecuzione va identificato nel p.m.”
(Cassazione penale sez. III 28.04.2010 n. 32952)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 17.07.2013 n. 646 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La scelta operata
dall’Amministrazione resistente di adottare in autotutela il
provvedimento di annullamento del permesso di costruire in
sanatoria costituisce espressione di potere discrezionale, a
fronte del quale sussisteva l’obbligo dell’Amministrazione
di comunicare agli interessati l’avvio del procedimento. Sul punto è infatti principio consolidato che “la preventiva
comunicazione di avvio del procedimento, prescritta
dall'art. 7 della legge 07.08.1990 n. 241 sul procedimento
amministrativo, costituisce una regola generale dell'azione
amministrativa, soprattutto quando l'amministrazione
eserciti il potere d'annullamento d'ufficio (nella specie,
di un permesso di costruire) per il quale occorre dare
adeguatamente conto della sussistenza di un interesse
pubblico concreto ed attuale alla rimozione dell'atto o alla
cessazione dei suoi effetti”.
Pertanto, la scelta
operata dall’Amministrazione resistente di adottare in
autotutela il provvedimento di annullamento del permesso di
costruire in sanatoria costituisce espressione di potere
discrezionale, a fronte del quale sussisteva l’obbligo
dell’Amministrazione di comunicare agli interessati l’avvio
del procedimento. Sul punto è infatti principio consolidato che “la
preventiva comunicazione di avvio del procedimento,
prescritta dall'art. 7 della legge 07.08.1990 n. 241 sul
procedimento amministrativo, costituisce una regola generale
dell'azione amministrativa, soprattutto quando
l'amministrazione eserciti il potere d'annullamento
d'ufficio (nella specie, di un permesso di costruire) per il
quale occorre dare adeguatamente conto della sussistenza di
un interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione
dell'atto o alla cessazione dei suoi effetti” (Consiglio
di Stato 25.05.2012 n. 3060)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 17.07.2013 n. 646 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il verbale con cui si
accerta l’inottemperanza all’ordine di demolizione è un mero
atto procedimentale avente contenuto conoscitivo e di
accertamento di un fatto storico, di per sé inidoneo a
ledere situazioni giuridiche. --------------- Il fatto che il verbale sottoscritto da dipendenti
incaricati, di accertamento dell’inottemperanza, sia, in sé,
mero atto endoprocedimentale della P.A., privo di efficacia
esterna, fino a che non venga emanata la determinazione
finale della P.A., comporta, tra l’altro, che la presenza
alle operazioni di accertamento dell’inottemperanza
all’ordine di demolire, di cui viene formato verbale, non fa
decorrere il termine per impugnare il successivo
provvedimento terminale, dal quale soltanto conseguono
effetti esterni. --------------- La presentazione di un’istanza di accertamento di conformità
o sanatoria ex art. 13 della l. n. 47/1985 ed ora art. 36
del d.P.R. n. 380/2001, a fronte di un provvedimento di
demolizione precedentemente emesso, fa venir meno
l’efficacia dell’ordine repressivo, dovendo quest’ultimo
venir sostituito o dalla concessione in sanatoria, o, in
caso di diniego della stessa, da un nuovo provvedimento
sanzionatorio. Ciò, giacché il riesame dell’abusività dell’opera, onde
verificarne l’eventuale sanabilità, comporta la (necessaria)
formazione di un nuovo provvedimento, che va a superare
l’ordine di demolizione originariamente adottato dalla P.A.. ----------------- Il
verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordinanza di
demolizione
conserva la sua natura di mero atto
endoprocedimentale e di accertamento di un fatto storico,
non impugnabile in quanto di per sé non lesivo, mentre
l’unico effetto che consegue alla perdita di efficacia
dell’ingiunzione a demolire è la necessaria inidoneità del
verbale stesso a costituire il presupposto dei successivi
atti della sequenza procedimentale prevista dall’art. 31 del
d.P.R. n. 380/2001.
●
Considerato, infatti, che per consolidata
giurisprudenza (cfr. ex multis, C.G.A.R.S., Sez. giurisd.,
12.11.2008, n. 930; TAR Puglia, Bari, Sez. III, 16.02.2006, n. 538; TAR Campania, Napoli, Sez. II, 14.12.2012, n. 5202), il verbale con cui si accerta
l’inottemperanza all’ordine di demolizione è un mero atto
procedimentale avente contenuto conoscitivo e di
accertamento di un fatto storico, di per sé inidoneo a
ledere situazioni giuridiche;
●
Osservato, sul punto, che il fatto che il verbale
sottoscritto da dipendenti incaricati, di accertamento
dell’inottemperanza, sia, in sé, mero atto
endoprocedimentale della P.A., privo di efficacia esterna,
fino a che non venga emanata la determinazione finale della
P.A. (cfr. TAR Trentino Alto Adige, Trento, 02.06.1999
n. 200; TAR Sicilia, Catania, 18.11.1999, n. 2393),
comporta, tra l’altro, che la presenza alle operazioni di
accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolire, di
cui viene formato verbale, non fa decorrere il termine per
impugnare il successivo provvedimento terminale, dal quale
soltanto conseguono effetti esterni (cfr. TAR Friuli
Venezia Giulia, 25.03.2002, n. 124);
●
Considerato che la contraria tesi sostenuta dal ricorrente –basata sull’assunto per cui il verbale di accertamento
dell’inottemperanza costituirebbe, nel caso di specie, il
vero provvedimento, avendo l’ordine di demolizione che ne
integra il presupposto perso efficaci – non può essere
accolta, per le seguenti ragioni:
- alla luce della giurisprudenza prevalente (cfr., ex plurimis, TAR Puglia, Bari, Sez. II, 11.04.2012, n.
705; TAR Lombardia, Milano. Sez. IV, 08.09.2010, n.
5159), cui ha aderito anche questa Sezione (cfr., ex plurimis, TAR Lazio, Latina,
06.02.2002, n. 67), la
presentazione di un’istanza di accertamento di conformità o
sanatoria ex art. 13 della l. n. 47/1985 ed ora art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, a fronte di un provvedimento di
demolizione precedentemente emesso, fa venir meno
l’efficacia dell’ordine repressivo, dovendo quest’ultimo
venir sostituito o dalla concessione in sanatoria, o, in
caso di diniego della stessa, da un nuovo provvedimento
sanzionatorio. Ciò, giacché il riesame dell’abusività
dell’opera, onde verificarne l’eventuale sanabilità,
comporta la (necessaria) formazione di un nuovo
provvedimento, che va a superare l’ordine di demolizione
originariamente adottato dalla P.A. (TAR Lazio, Latina,
Sez. I, 15.10.2012, n. 762);
- nel caso di specie, ciò è indubbiamente avvenuto, avendo
il sig. Angelè presentato al Comune di Sabaudia, in data 01.07.2005, istanza di sanatoria ex art. 36 del d.P.R. n.
380/2001 per le opere già oggetto dell’ordinanza di
demolizione n. 08 del 09.05.2005, collocate sul terreno
distinto in catasto al fg. n. 119, part. n. 578, con il
corollario del venire meno dell’efficacia dell’ordinanza de
qua in data ben anteriore al verbale di accertamento della
sua inottemperanza, impugnato in questa sede;
- quanto si è più sopra illustrato, tuttavia, non vale a
mutare il verbale gravato in un provvedimento impugnabile –come preteso dal ricorrente– poiché tale verbale conserva
la sua natura di mero atto endoprocedimentale e di
accertamento di un fatto storico, non impugnabile in quanto
di per sé non lesivo, mentre l’unico effetto che consegue
alla perdita di efficacia dell’ingiunzione a demolire è la
necessaria inidoneità del verbale stesso a costituire il
presupposto dei successivi atti della sequenza
procedimentale prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001
e dall’art. 15 della l.r. n. 15/2008 (atto di acquisizione
al patrimonio comunale del manufatto e dell’area di sedime;
irrogazione della sanzione pecuniaria ex art. 15 cit.): atti
che, dunque, allo stato, laddove venissero emanati,
sarebbero di per sé illegittimi; - non potrebbe opporsi che la sanatoria è stata
rigettata dalla P.A. (che ha contestualmente ingiunto
nuovamente la demolizione), sia perché tale rigetto è stato
annullato da questa Sezione con sentenza n. 538 del
04.07.2012, sia perché, casomai, la P.A. avrebbe dovuto
accertare l’inottemperanza alla nuova ingiunzione a demolire
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 17.07.2013 n. 639 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
La progettazione delle opere di viabilità, non
strettamente connesse ai singoli fabbricati, è di pertinenza
degli ingegneri.
Con atto spedito per la notifica il
25.02.2013, depositato il 05.03.2013, il ricorrente
espone di aver ricevuto avviso, di cui all’articolo 11 del d.P.R.
08.06.2001, n. 327, per la realizzazione della
strada alternativa di collegamento “Via Calarossano - Via
Parata Grande” interessante un’area in cui è compreso anche
suolo di sua proprietà, al quale è seguito avviso di
occupazione di urgenza in forza di decreto n. 4389 del
21.12.2012. Agisce quindi per l’annullamento di tutti gli
atti in epigrafe indicati. Con decreto presidenziale n. 86 del 06.03.2013, è stata
respinta la tutela cautelare anticipata. Il comune di Ventotene ha depositato documentazione il 09.05.2013 ed opposto, con memoria del successivo 17,
l’infondatezza del ricorso. Alla pubblica udienza del 20.06.2013, il ricorso è
stato chiamato e dopo la discussione è stato introdotto per
la decisione. Il Collegio ritiene di dover esaminare in primo luogo il
quarto motivo di diritto con il quale il ricorrente, nel
prospettare la violazione degli articoli 51, 52 e 54 del
R.D. 23.10.1925, n. 2537 argomenta l’illegittimità
degli atti impugnati versandosi in ipotesi di progettazione
di un’opera viaria pubblica di indubbia rilevanza,
costituente infrastruttura primaria non riconducibile alla
competenza dell’architetto. Il motivo è fondato e va
accolto. Il regolamento di cui al R.D. 23.10.1925, n.
2537, adottato in esecuzione della legge 24.06.1923, n.
1395, disciplina le competenze dell’ingegnere e
dell’architetto. L’articolo 51 riconduce a quella degli
ingegneri la progettazione e conduzione dei lavori per
“estrarre ed utilizzare i materiali direttamente od
indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le
industrie, dei lavori relativi alle vie ed ai mezzi di
trasporto di deflusso e di comunicazione, alle costruzioni
di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali,
nonché, in generale, alle applicazioni della fisica, i
rilievi geometrici e le operazioni di estimo.”. In tale
previsione sono incluse le costruzioni per opere stradali ed
igienico-sanitarie (acquedotti, fognature, impianti di
depurazione), gli impianti elettrici, le opere idrauliche e
le opere di edilizia civile riconducibili alle “costruzioni
di ogni specie”. Per l’articolo 52 rientrano nella
competenza comune, di ingegneri ed architetti, le “opere di
edilizia civile”. Il secondo comma di detta norma poi,
riconduce alla competenza degli architetti le opere di
edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico
e di restauro ed il ripristino degli edifici di interesse
storico-artistico. Le citate norme sono state
pacificamente interpretate (Tar Venezia Veneto sez. I 08.07.2011, n. 1153; in termini anche: Tar Lecce Puglia
sez. III, 18.04.2012, n. 708) nel senso che la
progettazione delle opere di viabilità, non strettamente
connesse ai singoli fabbricati, sia di pertinenza degli
ingegneri (Consiglio Stato, sez. V, 06.04.1998, n. 416;
sez. IV, 19.02.1990, n. 92). Tale ricostruzione
resiste agli argomenti addotti dal comune in sede di memoria
conclusiva. In via preliminare deve esser evidenziato che la
progettazione riguarda una struttura di trasporto, deflusso
e comunicazione, quindi un’opera di rilevante importanza
perché tesa ad eliminare lo stato di pericolo e gli
inconvenienti, conseguenti allo sgrottamento dell’ambito
sottostante la strada comunale Calarossano, elencati nella
relazione tecnica predisposta dal progettista, quali: -
l’isolamento di circa quindici nuclei familiari, comprese
due attività turistico-ricettive, irraggiungibili in caso
di emergenza sanitaria; - l’impossibilità di accesso
all’area dell’eliporto, in caso di emergenza sanitaria; -
l’impossibilità di accesso al cimitero comunale, con
conseguenze igienico-sanitarie in caso di decesso; -
l’impossibilità di raggiungere le aree destinate
all’approvvigionamento delle merci, del gas g.p.l. e del
carburante; - l’impossibilità di provvedere alla raccolta
dei r.s.u. Ciò posto il comune ha contrastato il motivo in
esame: - depositando copia del titolo di studio del
progettista (Laurea Specialistica in Architettura Classe N.
4/S Architettura ed Ingegneria Edile) nonché l’allegato 2
tabella di Corrispondenza tra le Classi di laurea relative
al D.M. 270/04 e le Classi di laurea relative al D.M.
509/99; - argomentando che la Classe di Laurea Specialistica
4/S Architettura ed ingegneria edile di cui al D.M. 509/1999
corrisponde, attualmente alla Classe di Laurea Magistrale LM
- 4 Architettura e ingegneria edile - architettura con
l’ovvia conseguenza per la quale gli architetti che hanno
conseguito il titolo posseduto dal progettista incaricato
sono abilitati alla progettazione di cui alle norme in
esame, anche di quelle viarie. Tuttavia tale tesi non può
esser condivisa dovendosi ad essa opporre, in via
risolutiva, come dette indicazioni rilevano sul piano delle
condizioni fissate per il conseguimento del titolo di studio
quindi di accesso alle distinte professioni, nel mentre la
disciplina invocata dai ricorrenti, diversamente, annette
rilievo alla natura delle attività professionali svolte e
che sostanziano i contenuti della competenza presupposta ai
fini dell’applicazione delle menzionate norme regolamentari. In definitiva i provvedimenti impugnati presuppongono una
progettazione predisposta in violazione delle norme che
fissano le competenze degli ingegneri e degli architetti, in
particolare delle prescrizioni che impediscono a
quest’ultimi di progettare opere di urbanizzazione primaria
(opere viarie). La fondatezza del motivo in esame travolge,
anche in via derivata ed assorbente rispetto ad ogni altra
censura, tutti gli atti della procedura. Il ricorso va
quindi accolto con l’annullamento degli atti impugnati
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 12.07.2013 n. 609 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Niente
condono per lavori in negozio oltre i termini. Niente condono edilizio e certificato di agibilità per la
bottega se i lavori non sono conclusi entro il termine
stabilito dalla legge: decisivo il sopralluogo dei tecnici
del comune che rilevano come all'immobile manchino ancora le
finiture. Non può tuttavia essere il sindaco, come livello
politico dell'amministrazione, a far chiudere l'esercizio
dell'artigiano.
È quanto emerge dalla
sentenza
03.06.2013 n. 3034,
pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di stato.
- Tempo massimo. Ai fini del condono edilizio, ricordano i
giudici, l'opera da assoggettare è identificabile se
l'immobile risulta già eseguito, sia pure al rustico in
tutte le sue strutture essenziali, fra le quali devono
essere comprese le tamponature che sono necessarie per
stabilire la relativa volumetria e la sagoma esterna. In
questo caso sono i tecnici del comune a inchiodare
l'artigiano che ha chiesto il colpo di spugna fuori tempo
massimo: per dimostrare il completamento dell'edificio entro
la data prevista dalla legge, in alternativa alla
dichiarazione sostitutiva dell'atto notorio, l'operatore
economico avrebbe dovuto produrre documentazione con data
certa, per esempio le fatture e le bolle di accompagnamento
dei materiali necessari per la realizzazione dell'opera. Ma
non lo ha fatto e trova ingresso il ricorso dell'ente
locale. - Urgenza esclusa. Sbaglia ancora il Tar quando sostiene che
il comune abbia torto nel negare all'immobile il documento
che attesta l'abitabilità-agibilità: il rilascio del
certificato risulta, infatti, condizionato non soltanto alla
salubrità degli ambienti, ma anche alla conformità edilizia
dell'opera. E l'artigiano non ha presentato la
documentazione prescritta dall'articolo 4 del dpr 425/1994,
necessaria anche nel caso di condono edilizio. L'errore
dell'amministrazione sta invece nel provvedimento che chiude
l'esercizio, laddove l'ordinanza del sindaco può essere
emessa unicamente per situazioni contingibili e urgenti che
comportano rischi per la collettività. E non è il caso della
bottega (mezza) abusiva
(articolo ItaliaOggi del 31.07.2013). |
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