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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di LUGLIO 2013

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aggiornamento al 29.07.2013

aggiornamento al 25.07.2013

aggiornamento al 15.07.2013

aggiornamento al 10.07.2013

aggiornamento al 05.07.2013

aggiornamento all'01.07.2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 29.07.2013

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dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

EDILIZIA PRIVATA: M. Viviani, Allevamenti intensivi di pollame o di suini (27.07.2013).
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Ringraziamo l'amico Avv. Mario Viviani -del foro di Milano- per l'utile contributo.
29.07.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

VARI: Oggetto: Pubblicazione Regolamento per l'aggiornamento della competenza professionale (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 16.07.2013 n. 255).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 23.07.2013, "Programma regionale di sviluppo della X^ legislatura" (deliberazione C.R. 09.07.2013 n. 78).
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Nello specifico, si legga a pag. 198 l'
«Aggiornamento del Piano Territoriale Regionale Anno 2013».

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATAObbligo di dotare gli edifici di impianti alimentati da fonti rinnovabili. Facciamo chiarezza con la tavola sinottica di BibLus-net.
L’obbligo di dotare gli edifici di impianti alimentati da fonti rinnovabili non è certamente una novità. Basti pensare che già nel lontano 1991 la famosa Legge 10, all'art. 26 comma 7, prescriveva “l’obbligo di soddisfare il fabbisogno energetico degli edifici di proprietà pubblica o adibiti ad uso pubblico favorendo il ricorso a fonti rinnovabili di energia, salvo impedimenti di natura tecnica od economica”.
Il D.Lgs. 192/2005, così come modificato dal D.Lgs. 311/2006, al comma 12 dell’Allegato I recitava: “[…] nel caso di edifici pubblici e privati è obbligatorio l’utilizzo di fonti rinnovabili per la produzione di energia termica ed elettrica. In particolare, nel caso di edifici di nuova costruzione o in occasione di nuova installazione di impianti termici o di ristrutturazione degli impianti termici esistenti, l’impianto di produzione di energia termica deve essere progettato e realizzato in modo da coprire almeno il 50% del fabbisogno annuo di energia primaria richiesta per la produzione di acqua calda sanitaria con l’utilizzo delle predette fonti di energia. Tale limite è ridotto al 20% per gli edifici situati nei centri storici”.
L’obbligo di installare impianti a fonti rinnovabili viene ripreso anche dal decreto di attuazione, il D.P.R. 59/2009, che riporta integralmente quanto previsto dal 192/2005, rimandando a sua volta a un “successivo provvedimento”.
E’ presente, però, una novità, ossia l’obbligo di installare impianti fotovoltaici per la produzione di energia elettrica negli edifici di nuova costruzione e in quelli esistenti soggetti a ristrutturazione, con superficie utile superiore a 1000 m².
Intanto anche una modifica al Testo unico per l’Edilizia (D.P.R. 380/2001) introduce l’obbligo di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.
Il 29.03.2011 entra in vigore il cosiddetto “Decreto Rinnovabili” (D.Lgs. 28/2011) che definisce finalmente in maniera compiuta i criteri di dotazione degli edifici di impianti alimentati da fonti rinnovabili.
In particolare, il Decreto introduce nuove definizioni:
edificio di nuova costruzione”, inteso come un edificio per il quale la richiesta del titolo edilizio comunque denominato (Permesso di Costruire, Scia, Dia, etc.), sia stata presentata successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”. Quindi, non solo un semplice nuovo edificio, ma, più in generale, un edificio per il quale si richieda un nuovo titolo abilitativo successivamente al 29.03.2011;
edificio sottoposto a ristrutturazione rilevante”, inteso come edificio esistente avente superficie utile superiore a 1000 metri quadrati, soggetto a ristrutturazione integrale degli elementi edilizi costituenti l'involucro oppure edificio esistente soggetto a demolizione e ricostruzione anche in manutenzione straordinaria.
In definitiva, il Decreto Rinnovabili trova applicazione molto più ampia di quanto sembrerebbe, disciplinando la produzione di energia termica in termini di percentuali di copertura e tempi di intervento.
Da notare che l'inosservanza degli obblighi seguenti comporta il diniego del rilascio del titolo edilizio!
In allegato a questo articolo proponiamo ai lettori di BibLus-net uno speciale contenente la tavola sinottica, con esempi applicativi del Decreto Rinnovabili (25.07.2013 - link a www.acca.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - INCARICHI PROGETTUALIArriva la Legge di conversione del Decreto del Fare?
La Camera ha votato la fiducia al disegno di Legge di conversione del “Decreto del fare.
Assicurazione professionale obbligatoria dal 15.08.2013, possibilità per i professionisti di accedere al fondo unico di garanzia e ristrutturazioni con modifica della sagoma tranne che in alcune zone dei centri storici sono alcune delle novità contenute nel provvedimento.
Tra le novità più interessanti che riguardano il settore segnaliamo:
Polizza professionale
L’obbligo di stipulare un’assicurazione professionale, che copra eventuali danni arrecati a terzi nell’esercizio della propria attività è confermato al 15.08.2013.
Solo i professionisti del settore sanitario beneficeranno della proroga di un anno. Quindi, ingegneri, architetti, geometri dovranno stipulare la polizza; al riguardo, rinviamo alla precedente notizia di BibLus-net con il Vademecum del CNI su come scegliere la polizza.
Fondo centrale di garanzia per i professionisti
Gli interventi del Fondo centrale di garanzia per le piccole e medie imprese sono estesi ai professionisti iscritti agli ordini professionali e a quelli aderenti alle associazioni professionali iscritte nell’elenco tenuto dal Ministero dello Sviluppo Economico.
I professionisti, quindi, dovrebbero avere un accesso facilitato al credito.
Cambio di sagoma con Scia
Le demolizioni e ricostruzioni potranno avvenire senza il rispetto della sagoma originaria e gli interventi potranno essere realizzati con SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività). I Comuni, comunque, individueranno le zone dei centri storici da escludere da questa semplificazione.
Fisco
Equitalia non potrà sequestrare il macchinario o il bene mobile se l’azienda o il professionista dimostra che esso è “strumentale” alla propria attività.
L’unica casa di abitazione non può essere pignorata.
Previste anche comunicazioni telematiche semplificate per le Partite Iva.
Disoccupati ed esodati che non hanno più il datore di lavoro a fare da sostituto di imposta, avranno comunque i crediti fiscali entro l’anno rivolgendosi al Caf.
Appalti
Per le gare d’appalto bandite dopo l’entrata in vigore della Legge di conversione e fino al 21.12.2014, l'ente pubblico potrà anticipare all’appaltatore il 10% dell’importo contrattuale a patto che ciò sia previsto dal disciplinare di gara (25.07.2013 - link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVOROTutto quello che c’è da sapere sul ruolo e le responsabilità del committente.
Chiunque affidi la progettazione o l’esecuzione di lavori per la costruzione, la ristrutturazione o la manutenzione di un’opera edile riveste la funzione di committente dei lavori e, quindi assume gli obblighi e le funzioni previste dalla legge, con importanti responsabilità penali in caso di mancato rispetto di tali obblighi.
L’Inail e il Coordinamento toscano dei CPT hanno pubblicato una utile guida destinata ai privati cittadini, agli amministratori di condominio, ai proprietari di immobili, ai titolari di aziende che intendono far costruire una nuova opera edile o intervenire su una esistente con lavori di riparazione, manutenzione ordinaria e straordinaria ed installazione impianti.
La pubblicazione elenca tutti i rischi e gli obblighi del proprietario di un’opera edile, richiamando puntualmente le norme e le sanzioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro (Decreto Legislativo 81/2008 e s.m.i.) nonché gli articoli del Codice Penale ai quali può essere soggetto il committente.
La guida risponde in maniera chiara ed efficace a questi quesiti:
chi è il Committente?
quali sono gli obblighi del Committente?
quali sono le sanzioni civili e penali? (25.07.2013 - link a www.acca.it).

INCARICHI PROGETTAZIONEParametri per le gare di progettazione: l’ultima bozza del Decreto va al Consiglio di Stato.
Il nuovo regolamento contenente le regole per stabilire i corrispettivi da porre a base di gare per i servizi di ingegneria e architettura (c.d. “Decreto Parametri bis”) ha ottenuto il via libera dal Ministero delle Infrastrutture ed è stato inviato al Consiglio di Stato.
Il “Decreto Parametri bis” non ha avuto un iter semplice: ricordiamo, infatti, che la prima bozza era stata bocciata nel gennaio 2013 sia dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici che dall'Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici, poiché in certi casi i parametri proposti potevano portare alla definizione di corrispettivi più alti rispetto a quelli previsti dalle vecchie tariffe professionali del D.M. 04.04.2001, oramai abrogate.
L’articolo 9 della Legge n. 27/2012 prevede, infatti, che i nuovi parametri non debbano superare i compensi derivanti dalle vecchie tariffe minime.
A ribadirlo è stato anche il CSLLPP auspicando che la responsabilità della verifica di non superamento sia affidata al Responsabile Unico del Procedimento (RUP); il Ministero della Giustizia, però, non ha condiviso la proposta del CSLLPP di affidare al RUP tale incombenza.
L’ultima parola sulla bozza del Decreto passa quindi, al Consiglio di Stato (25.07.2013 - link a www.acca.it).

LAVORI PUBBLICIVariazioni percentuali dei materiali da costruzioni: in aumento di oltre il 10% solo il bitume.
Il Codice degli Appalti, all’art. 133, stabilisce che entro il 30 giugno di ogni anno il Ministero rilevi con proprio Decreto le variazioni percentuali dei singoli prezzi dei materiali da costruzione più significativi.
Qualora il prezzo dei singoli materiali da costruzione subisca variazioni superiori al 10 % rispetto al prezzo rilevato dal Ministero nell'anno di presentazione di un'offerta, si applicano compensazioni per la percentuale eccedente il 10 % e nel limite delle risorse previste tra imprevisti e le somme relative al ribasso d'asta.
Sulla Gazzetta Ufficiale del 19.07.2013, n. 168 è stato pubblicato il D.M. 03.07.2013 del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, contenente la rilevazione dei prezzi medi per l’anno 2012 e delle variazioni percentuali annue (superiori al 10 %) relative all’anno 2011.
L’unico materiale ad aver subito tra il 2012 ed il 2011 una variazione superiore al 10% è il bitume (+12,87%).
Ricordiamo che l’istanza di compensazione può essere presentata dall’appaltatore alla stazione appaltante non oltre i 60 giorni dalla pubblicazione del Decreto.
Per determinare le compensazioni relative ai materiali da costruzione impiegati nelle lavorazioni contabilizzate nell'anno 2012 si può utilizzare la tabella allegata a questo articolo (25.07.2013 - link a www.acca.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLavoro. Assimilazione alla controllante. Spesa di personale, per tutte le in house tetti uguali agli enti.
L'INDICAZIONE/ Per i giudici contabili anche le società fuori dall'elenco Istat rientrano nei vincoli previsti per il Comune.
Tutte le partecipate al 100% titolari di un affidamento in house che gestiscono servizi pubblici devono applicare procedure e regimi assunzionali delle Pa controllanti, adeguandosi agli obblighi contenimento degli oneri per personale e consulenze, a prescindere dal loro inserimento nel l'elenco Istat.

Lo ha chiarito la Corte dei conti, sezione di controllo del Lazio (parere 10.07.2013 n. 143); rispondendo a un quesito sulla disciplina applicabile a una società in house di trasporto regionale (100% pubblica e con fatturato da prestazione di servizi verso la Pa sotto il 90%), la Corte dapprima ne ha chiarito la natura di servizio pubblico di interesse generale a rilevanza economica, escludendo la qualifica di soggetto strumentale. La società è quindi esclusa dall'articolo 4 del Dl 95/2012, ma deve applicare l'articolo 18 del Dl 112/2008 e l'articolo 3-bis del Dl 138/2011, e deve quindi adottare criteri e modalità per il reclutamento di personale e per il conferimento di incarichi conformi ai principi di pubblicità, imparzialità ed economicità (articolo 35, comma 3, del Dlgs 165/2001).
La parte più rilevante del parere riguarda l'articolo 18, comma 2-bis, del Dl 112/2008, che prevede l'applicazione di una serie di vincoli per le società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici locali senza gara, o che svolgano funzioni di interesse generale non industriali o commerciali, oppure per quelle dell'elenco Istat che svolgano attività nei confronti della Pa a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica inserite nel conto economico consolidato della Pa. I vincoli riguardano divieti o limitazioni alle assunzioni delle Pa controllanti, e l'adeguamento delle politiche di personale a quanto previsto per le Pa controllanti in tema di contenimento degli oneri contrattuali, degli stipendi e delle consulenze.
La Corte ha precisato che l'elenco Istat ha natura ricognitiva e non costitutiva dei requisiti per l'inclusione dei soggetti pubblici nel comparto Pa. I regimi assunzionali e i vincoli ai costi del personale, quindi, valgono a prescindere dal loro inserimento nominativo nel l'elenco Istat.
Queste società (fra cui anche la Cotral, a cui era relativo il quesito) sono quindi sottoposte al vincolo dell'articolo 9, comma 28 del Dl 78/2010 (oggetto della richiesta), che fissa per il personale a tempo determinato o con convenzioni o co.co.co il limite di spesa del 50% rispetto a quella del 2009.
Dalla natura ricognitiva del l'elenco Istat, tuttavia, possono derivare anche effetti più generali in tema di operatività delle norme di contenimento degli oneri contrattuali. Ad esempio, alle partecipate dovrebbe applicarsi, in contrasto con la tesi blandamente sostenuta dal ministero dello Sviluppo economico (nota 17/01/2013, n. 946), anche l'articolo 9, comma 2-bis, del Dl 78/2010, in cui si prevede che che, dal 2011 al 2013, l'ammontare delle risorse destinate al trattamento accessorio delle Pa non possa superare quello del 2010 e sia ridotto in proporzione alla diminuzione del personale in servizio. Un intervento legislativo che armonizzi e chiarisca vincoli di finanza pubblica e soggetti coinvolti sarebbe comunque opportuno (articolo Il Sole 24 Ore del 22.07.2013).

LAVORI PUBBLICIFuori dal Patto l'appalto a costo zero. Corte dei conti. Via libera all'offerta della gestione di una struttura in cambio della scuola.
L'appalto di lavori pubblici per la realizzazione di una nuova scuola primaria che non richiede esborso di poste finanziarie non ha problemi di compatibilità con il Patto, né con i limiti al debito. L'acquisto non incappa neppure nei limiti all'acquisto di beni immobili.

A dare il via libera all'operazione è la Corte dei conti Lombardia, nel parere 24.06.2013 n. 248.
Di fronte alla necessità di realizzare una nuova scuola, il Comune intende affidare l'opera a un privato (scelto con gara), remunerato attraverso l'esecuzione e la gestione di un'altra struttura socio-sanitaria e assistenziale da realizzare sull'area occupata dalla vecchia scuola da dismettere una volta realizzato il nuovo edificio. Il privato riconosce all'ente il corrispettivo per il diritto di superficie sul l'area della scuola e su quella utilizzata per la nuova struttura, e il Comune non deve erogare somme di denaro.
L'operazione, secondo i magistrati contabili, non rientra nella finanza di progetto, la quale richiede che ricada sul realizzatore, oltre al rischio di costruzione, uno dei due rischi fra quello di domanda (riferito all'utilizzo del l'opera da parte degli utenti finali) o di disponibilità (inteso come il fatto che il realizzatore deve mettere a disposizione degli utilizzatori l'infrastruttura e il committente corrisponderà un canone destinato a remunerare anche il costo dell'opera).
Mancando sia il rischio di domanda che quello di disponibilità, l'operazione rientra nel contratto di appalto, remunerato con la cessione di un fondo attrezzato per la realizzazione di un'impresa. L'appalto rientra nei vincoli di finanza pubblica, ma in questo caso la mancanza di esborso di denaro fa sì che non si ponga un problema di vincoli di finanza pubblica. L'operazione, quindi, non è elusiva del Patto.
Il parere esamina anche l'impatto dell'articolo 1, comma 138, della legge 228/2012, che vieta l'acquisto di immobili a titolo oneroso. Il Comune in questo caso acquista un bene immobile ma come mera conseguenza, differita nel tempo, dell'appalto di lavori pubblici, perciò non incappa nel divieto di acquisto immobili a titolo oneroso che colpisce le operazioni di compravendita per le quali è necessaria la presenza di un "corrispettivo" in senso tecnico, ovvero di un prezzo.
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L'iter
01 | LO SCAMBIO
Il Comune ha bandito una gara in cui chiedeva la realizzazione di una scuola, a costo zero, dando in cambio la concessione per una struttura sanitaria
02 | IL PATTO
Questo contratto di appalto secondo la Corte dei conti è fuori dai vincoli di contabilità del Patto perché manca l'esborso (articolo Il Sole 24 Ore del 22.07.2013).

QUESITI & PARERI

APPALTI SERVIZI:  Servizi socio-educativi-culturali, quali le modalità di pubblicazione dei bandi?
Domanda
Quali sono le modalità di pubblicazione dei bandi di gara e degli avvisi di aggiudicazione inerenti i servizi socio-educativi-culturali elencati nell'allegato II B del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, per importi sia inferiori che superiori alla soglia comunitaria?
Risposta
L'art. 2 comma 1, D.Lgs. 12-04-2006, n. 163 stabilisce che "1. L'affidamento e l'esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture, ai sensi del presente codice, deve garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza; l'affidamento deve altresì rispettare i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché quello di pubblicità con le modalità indicate nel presente codice".
Si ritiene che, sebbene l'art. 20 D.Lgs. cit. stabilisca l'applicabilità agli appalti nei servizi di cui all'allegato II B di alcune norme soltanto del codice, debba comunque trovare applicazione il principio generale di adeguata pubblicità della gara in relazione al suo valore.
Infatti, l'AVCP con Deliberazione n. 108 del 19.12.2012 ha stabilito che "I servizi elencati nell'allegato II B restano soggetti, oltre che all'art. 20 del D.lgs. n. 163/2006, anche all'art. 27 del medesimo decreto in base al quale l'affidamento di contratti pubblici, sottratti in tutto o in parte all'applicazione del codice, deve avvenire nel rispetto di principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità".
Con Deliberazione n. 25 del 08.03.2012 ha stabilito che "La riconducibilità del servizio appaltato all'All. II B del Codice non esonera le amministrazioni aggiudicatrici dall'applicazione dei principi generali in materia di affidamenti pubblici desumibili dalla normativa comunitaria e nazionale, con particolare riferimento al principio di pubblicità, espressione dei principi di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa di cui all'art. 97 Cost. (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 03.12.2008, n. 5943; 22.04.2008, n. 1856; 08.10.2007, n. 5217; 22.03.2007, n. 1369; TAR Lazio, Sez. III-ter, 05.02.2008, n. 951).
Nella deliberazione n. 102 del 05.11.2009 l'Autorità ha, inoltre, sottolineato che sebbene i servizi rientranti nell'allegato II B siano soggetti, a stretto rigore, solo alle norme richiamate dall'art. 20 del D.Lgs. 163/2006, oltre a quelle espressamente indicate negli atti di gara (in virtù del c.d. principio di autovincolo), quando il valore dell'appalto è decisamente superiore alla soglia comunitaria è opportuna anche una pubblicazione a livello comunitario, in ossequio al principio di trasparenza (cui è correlato il principio di pubblicità), richiamato dall'art. 27 D.Lgs. 163/2006 a tenore del quale l'affidamento deve essere preceduto da invito ad almeno cinque concorrenti, se compatibile con l'oggetto del contratto
".
La codificazione di tali principi conferma dunque la contrarietà per l'affidamento fiduciario. Pertanto, in ossequio ai principi del Trattato, la stazione appaltante dovrà opportunamente nell'ambito della propria discrezionalità scegliere il modulo procedimentale più consono, favorendo la procedura ristretta quando il criterio di aggiudicazione è quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
Conseguentemente, occorre rispettare le regole di pubblicità dei bandi relativi alle gare di importo sopra e sotto soglia anche per le gare inerenti ai servizi di cui all'allegato II B (26.07.2013 - tratto da www.ipsoa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ O in giunta o in consiglio. Decadenza ex lege con l'incarico di assessore. Non va convocato alla prima seduta chi non fa più parte dell'assemblea.
I consiglieri eletti al termine dello scrutinio elettorale, e nominati assessori con decreto sindacale, devono partecipare alla prima seduta del consiglio comunale finalizzata, ai sensi dell'art. 41 Tuel, all'esame della condizione dei consiglieri eletti?
In caso di risposta affermativa, un consigliere, anch'egli nominato assessore, può validamente presiedere la seduta consiliare in qualità di consigliere anziano?

La fattispecie di cui trattasi è regolata dagli artt. 41, 46 e 64 del decreto legislativo n. 267/2000 concernenti, rispettivamente, gli adempimenti della prima seduta del consiglio comunale, la nomina della giunta e l'automatica cessazione dalla carica del consigliere che accetta la nomina ad assessore. Nella prima seduta del consiglio comunale, ancor prima di deliberare su qualsiasi altro oggetto, deve essere esaminata la condizione degli eletti, ai sensi dell'art. 41 del Tuel. Secondo il disposto dell'art. 46, il sindaco nomina i componenti della giunta e ne dà comunicazione al consiglio nella prima seduta successiva all'elezione.
Qualora un consigliere assuma la carica di assessore, lo stesso, sulla base di quanto previsto dall'art. 64 Tuel, cessa dalla carica di consigliere all'atto dell'accettazione della nomina ed al suo posto subentra il primo dei non eletti della medesima lista. La cessazione dalla carica di consigliere, nei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, costituisce un effetto legale automatico, cui segue sempre ex lege, la sostituzione del consigliere nominato assessore col primo dei non eletti. Non sono, pertanto, necessarie le dimissioni del consigliere e il ricorso all'ordinario procedimento di surroga, di cui all'art. 38 del Tuel.
La circolare n. 15900/legge 142-bis/1075 del 13.09.2005 del ministero dell'interno, nel richiamare l'automatismo previsto dal citato art. 64 Tuel finalizzato a evitare la paralisi dell'organo assembleare, si ricollega al parere del Consiglio di stato n. 2775/2005 del 13.07.2005, anche ai fini della convocazione dei consiglieri subentranti.
In merito a tale posizione non risulta siano successivamente intervenute pronunce difformi della giurisprudenza amministrativa. Ciò posto, tenuto conto della espressa previsione del citato art. 64 Tuel e delle considerazioni che precedono, i consiglieri che hanno accettato la carica assessorile e sono, quindi, cessati dalla carica «ex lege», non devono essere convocati a partecipare alla prima seduta del consiglio comunale del quale non sono più componenti. Ne consegue che la presidenza del citato consesso non può essere attribuita ad un soggetto che, avendo accettato la carica assessorile, non ne fa più parte (articolo ItaliaOggi del 26.07.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Incompatibilità.
Sussiste una causa di incompatibilità nel caso in cui il sindaco di un comune ricopra anche la carica di assessore esterno nella regione nel cui territorio è ricompreso il comune stesso?

A seguito della modifica del titolo V della Costituzione con la legge costituzionale n. 3/2001, spetta alle regioni disciplinare le cause di incompatibilità alle cariche elettive regionali.
La legge 02.07.2004, n. 165 (disposizioni di attuazione dell'art. 122, primo comma, della Costituzione) ha poi fissato i principi fondamentali concernenti il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del presidente e degli altri componenti della giunta regionale, nonché dei consiglieri regionali.
Nella fattispecie in esame, la regione ha in proposito disposto che i componenti della giunta possano essere nominati anche al di fuori del consiglio regionale tra i cittadini in possesso dei requisiti di eleggibilità e di compatibilità alla carica di consigliere regionale. Dal momento che risulta interdetto il cumulo di cariche fra la carica di sindaco dei comune compresi nel territorio della regione con la carica di consigliere regionale (art. 4 della legge 23/04/1981, n. 152, e art. 274 del dlgs 18.08.2000, n. 267, che fa salve le disposizioni ivi previste per i consiglieri regionali), anche la carica di assessore esterno è incompatibile con la carica di sindaco dei comuni compresi nel territorio della regione in questione.
Sotto il profilo della ricorrenza dell'incompatibilità rispetto alla carica locale, si presentano due soluzioni praticabili per il capo dell'amministrazione che intenda accettare la carica regionale: può dimettersi dalla carica locale o essere dichiarato decaduto dal consiglio comunale a conclusione del procedimento amministrativo previsto dall'art. 69 decreto legislativo n. 267/2000.
Quanto sopra con salvezza delle prerogative degli organi regionali, deputati a valutare se l'espressione dell'opzione dell'interessato a favore della carica sopravvenuta è idonea a far cessare lo stato d'incompatibilità (articolo ItaliaOggi del 26.07.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Rischi idrogeologici.
Domanda
Si chiede se le Autorità competenti siano tenute ad individuare ed eliminare i rischi idrogeologici connessi anche alle opere realizzate in epoca anteriore all'adozione del piano di bacino distrettuale.
Risposta
Alla luce del disposto dell'articolo 65 del decreto legislativo numero 152, del 03.04.2006, il piano di bacino distrettuale, che ha valore di piano territoriale di settore, è lo strumento conoscitivo, normativo e tecnico-operativo attraverso il quale vengono pianificate e programmate le azioni e le norme di uso finalizzate alla conservazione, alla difesa e alla valorizzazione del suolo ed alla corretta utilizzazione delle acque sulla base delle caratteristiche fisiche ed ambientali del territorio interessato.
Il piano di bacino distrettuale contiene il quadro conoscitivo, organizzato ed aggiornato del sistema fisico e delle utilizzazioni del territorio, previsto dagli strumenti urbanistici comunali ed intercomunali, nonché i vincoli relativi al distretto. Esso individua e quantifica le situazioni, in atto e potenziali, del degrado del sistema fisico, nonché delle relative cause, e dà le direttive alle quali devono conformarsi la difesa del suolo, la sistemazione idrogeologica ed idraulica e l'utilizzazione delle acque e dei suoli.
Pertanto, detto piano di bacino distrettuale ha una triplice funzione: conoscitiva, precettiva, programmatica.
Il piano stralcio di distretto per l'assetto idrogeologico -Pai-, di cui all'articolo 67 del citato decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, ed il predetto piano di bacino distrettuale introducono vincoli di bacino che assumono la natura dei vincoli idrogeologici previsti dall'articolo 866, del codice civile, e dalla normativa speciale portata dal regio decreto 30.12.1923, numero 3267.
Ora, Il Tribunale Amministrativo Regionale del Molise (Tar), sezione I, con la sentenza del 09.03.2012, numero 92, ha affermato che l'efficacia del piano di bacino distrettuale, in ragione della particolare importanza della sua funzione programmatica, ha una efficacia non strettamente limitata dal principio tempus regit actum. Ne consegue, per i Giudici molisani, che le autorità competenti devono individuare ed eliminare i rischi idrogeologici connessi alle opere realizzate anche in epoca anteriore all'adozione del predetto strumento (articolo ItaliaOggi Sette del 22.07.2013).

PATRIMONIO: Alienazione immobili.
Domanda
Un comune, in presenza di apposita disposizione regolamentare, ha provveduto ad alienare un immobile di sua proprietà ad una fondazione pubblica, senza ricorrere a procedure di selezione improntate a criteri di evidenza pubblica.
Si chiede se la procedura seguita e la relativa clausola regolamentare siano legittime.
Risposta
Alla luce delle disposizioni comunitarie e nazionali, nonché dei più recenti orientamenti giurisprudenziali in materia, si ritiene che la procedura seguita dall'ente, seppur conforme alle disposizioni del regolamento comunale, presenti forti elementi di criticità.
In primis, si rileva che tale procedura è astrattamente idonea a pregiudicare la concorrenza in quanto attribuisce al comune la facoltà di vendere un bene pubblico, senza garantire un confronto competitivo, attribuendo in tal modo al diretto aggiudicatario un ingiustificato vantaggio competitivo.
L'art. 12 della legge n. 127/1997 prevede poi che i comuni e le province possono procedere alla alienazione del proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle procedure previste dalle norme sulla contabilità generale degli enti locali, fermi restando però i principi generali dell'ordinamento giuridico contabile. A tal fine sono assicurati «criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, da definire con regolamento dell'ente interessato».
La stessa giurisprudenza amministrativa ha più volte chiarito che i criteri dell'evidenza pubblica debbono essere rispettati anche nei casi di alienazione di beni da parte di una pubblica amministrazione (cfr. Cons. stato, 19.05.2008, n. 2280).
Ciò posto, si segnala infine che, pronunciandosi su un caso analogo, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, con proprio parere del 20.03.2013, ha auspicato le eliminazioni delle disposizioni del regolamento comunale che prevedono l'esclusione di forme di confronto concorrenziale qualora l'acquirente interessato agli immobili oggetto di vendita sia un ente pubblico, una società partecipata da un ente pubblico locale, una fondazione, un'associazione, una onlus o un ente ecclesiastico (articolo ItaliaOggi Sette del 22.07.2013).

PATRIMONIO: Il divieto di acquistare immobili.
Domanda
Il divieto per le pubbliche amministrazioni di procedere all'acquisto di immobili nell'anno 2013 si estende anche alle procedure espropriative?
Risposta
La c.d. legge di stabilità 2013 (legge 24.12.2012 n. 228) nell'introdurre –con l'art. 1, comma 138– i commi 1-ter e 1-quater all'art. 12 del dl 06.07.2011, n. 98 ha apportato una limitazione di carattere assoluto, per l'anno 2013, e condizionata alla verifica dei presupposti di necessità e urgenza, per l'anno 2014, alla possibilità per le Amministrazioni pubbliche di acquistare la proprietà di immobili a titolo oneroso.
La previsione ut supra ha pertanto una portata generale in un'ottica di contenimento della spesa pubblica, imponendo pertanto alle P.a. uno stretto vincolo alle spese per l'acquisto di beni immobili sia per l'anno 2013, sia, anche se in modo meno stringente, per il 2014.
Venendo al quesito posto, al silenzio del legislatore in merito, si sono susseguiti, in questo primo semestre, pareri da parte delle sezioni regionali della Corte dei Conti, tutti improntati a una interpretazione tendente ad estendere il divieto di acquisto previsto dalla norma.
Di particolare importanza, ai fini del quesito posto, la deliberazione n. 9 del 31.01.2013 della Corte dei conti - sezione regionale di controllo per la Liguria, dove, in occasione della risposta alla richiesta di parere formulata da un Comune, la Corte ha espresso le proprie «coordinate interpretative», rispetto ai vincoli posti dalle norme sopra citate.
Nello specifico, per quanto attiene l'estensione del divieto procedere all'acquisto di immobili nell'anno 2013 anche alle procedure espropriative, ha precisato la Corte che le condizioni di cui sopra devono riferirsi applicabili anche all'acquisizione di immobili per la realizzazione di opere assistite da dichiarazione di pubblica utilità.
Il parere della sezione ligure della Corte dei conti ha finito per assumere una inevitabile forza di contagio. Concludendo, auspicando un quanto più repentino intervento del Legislatore in materia, allo stato attuale, considerando l'orientamento della magistratura contabile, si può affermare pertanto che il divieto de quo si estenda anche all'acquisizione di immobili per la realizzazione di opere assistite da dichiarazione di pubblica utilità.
È infine doveroso precisare che, in data 05.06.2013, la Camera ha approvato in via definitiva il disegno di legge di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 08.04.2013, n. 35, recante disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione. Con tale disposizione il blocco degli acquisti viene tolto per tutte le acquisizioni per pubblica utilità di cui al dpr 327/2001, ricomprendendo quindi evidentemente anche l'articolo 42-bis (articolo ItaliaOggi Sette del 22.07.2013).

PATRIMONIO: Scadenza della concessione.
Domanda
Alla scadenza della concessione l'immobile realizzato dal concessionario sull'area demaniale è acquisito al demanio o resta al concessionario?
Risposta
L'art. 934 C.C. prevede che «qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo». È questo il principio dell'accessione.
In particolare, salvo che sia diversamente stabilito nell'atto di concessione, quando venga a cessare la concessione, le opere non amovibili, costruite sulla zona demaniale, restano acquisite allo Stato, senza alcun compenso o rimborso, salva la facoltà dell'autorità concedente di ordinarne la demolizione con la restituzione del bene demaniale nel pristino stato (Art. 49 Codice navigazione).
Concludendo si può quindi affermare che in mancanza di previsioni o clausole dirette a sottrarre il bene realizzato su suolo demaniale alla regola dell'accessione, il bene a tale regola non sfugge ed è quindi acquisito al demanio, nel quale il bene è incorporato (articolo ItaliaOggi Sette del 22.07.2013).

NEWS

ENTI LOCALICONSIGLIO DEI MINISTRI/ Gli effetti delle misure del ddl sul riassetto degli enti locali.
Riordino p.a., incroci pericolosi. Difficile calibrare l'assegnazione di risorse e compiti.

Non sono solo le province a essere direttamente interessate ai contenuti del disegno di legge Delrio, che ieri ha iniziato il proprio iter con l'approvazione in consiglio dei ministri. Esso, infatti, tocca in modo diretto anche i comuni e le regioni, coinvolgendoli nell'articolato (e sotto diversi profili problematico) percorso di riordino della p.a. locale, nella quale rappresenteranno gli unici due livelli di governo ancora direttamente eletti dai cittadini. I principali stakeholders sono gli attuali enti di area vasta, destinati a essere, laddove non soppiantati in toto dalle future città metropolitane, comunque declassati a enti di secondo livello con funzioni fortemente ridotte (si veda Italia Oggi di ieri).
In tali casi, i comuni, singoli o associati in unioni, erediteranno tutte le altre competenze, fatta eccezione per quelle che le regioni, nelle materie di propria competenza (cioè in quelle previste dall'art. 117, commi e 4, Cost.) decideranno di assumere in via diretta.
Ovviamente, il transito delle funzioni dovrà essere accompagnato dal passaggio ai sindaci delle correlate risorse finanziarie, umane, strumentali, organizzative e patrimoniali. A ciò, nelle materie di competenza statale, dovrà provvedere un apposito dpcm da adottare entro il prossimo 31 marzo. Nelle altre materie, invece, il meccanismo dovrà essere regolato da leggi regionali, per la cui adozione non è previsto alcun termine. In via transitoria, peraltro, ovvero in attesa di una futura (ma neppure abbozzata) riforma della finanza locale, le entrate tributarie continueranno a essere riscosse dalle province, che dovranno poi riversarle ai comuni e regioni, salvo che esse non ineriscano a funzioni che questi ultimi avranno nel frattempo deciso di delegare nuovamente alle prime. Un meccanismo di incroci fra compiti e risorse tutt'altro che facile da calibrare.
Altrettanto rilevanti le novità che si prospettano per i municipi più piccoli (quelli al sotto di 5 mila abitanti, o di 3 mila se montani) rispetto all'obbligo a essi imposto di gestire in forma associata il proprio core business, ovvero le cosiddette funzioni fondamentali. Chi si aspettava una proroga (a oggi, dopo lo slittamento a fine anno del termine per l'attivazione delle centrali uniche di committenza, la scadenza per tutte le funzioni è fissata al 31 dicembre 2013) per ora è rimasto deluso. Le modifiche in cantiere, infatti, riguardano solo le modalità per adempiere.
In base alla disciplina vigente, i comuni possono scegliere, in alternativa o contestualmente alla costituzione di una unione, di stipulare una o più convenzioni. In tal caso, essi non devono neppure raggiungere una soglia demografica minima, come invece è previsto per le unioni (che devono raggruppare almeno 10 mila abitanti), a meno che non lo preveda la regione di appartenenza. Gli unici limiti sono rappresentati dalla durata minima della convenzione (almeno tre anni) e dalla necessità di conseguire significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione (in mancanza, scatta l'obbligo di dare vita a una unione).
Il disegno di legge, invece, indica quest'ultimo come il modello privilegiato e limita la durata massima delle eventuali convenzioni a cinque anni dalla data di entrata in vigore delle nuove regole. Decorso tale termine, le convenzioni cesseranno di avere efficacia e i comuni che le avevano stipulate non potranno più utilizzare tale strumento per esercitare in forma associata le proprie funzioni fondamentali, ma dovranno costituire un'unione o (si ritiene) confluire in un'unione già esistente.
Viene confermata la possibilità di costituire unioni «speciali» cui conferire la totalità delle funzioni comunali (non solo quelle fondamentali, ma anche le altre, ivi comprese quelle delegate o conferite), che, anzi, viene estesa a tutti i comuni con meno di 5 mila abitanti, mentre ora è consentita solo a quelli sotto i mille.
La disciplina delle diverse tipologie di unione, peraltro, viene fortemente allineata: in tutti i casi, scompare la giunta, sostituita da un comitato composto dai tutti i sindaci dei comuni aderenti, che continueranno a sedere (insieme a due consiglieri per ogni comune, di cui uno in rappresentanza della minoranza) anche nel consiglio. Fra i componenti dei comitato dei sindaci, il presidente dell'unione potrà nominare un vicepresidente e assegnare deleghe.
Rispetto alla bozza iniziale, tuttavia, gli incentivi per le unioni sono fortemente ridotti: non è più prevista, infatti, alcuna agevolazione diretta ai fini del Patto, ma solo un indirizzo alle regioni affinché individuino misure volte a promuoverne la costituzione in sede di regionalizzazione verticale.
Anche le fusioni fra comuni perdono la maggior parte delle premialità inizialmente contemplate: in pratica, l'unica facilitazione riguarda le possibilità di mantenere tributi e tariffe differenziati per ciascuno dei territori degli enti preesistenti, con l'obiettivo, però, di arrivare all'armonizzazione entro la fine del primo mandato amministrativo del nuovo municipio.
Il disegno di legge, infine, prevede anche di avviare un percorso di monitoraggio dei circa 5 mila enti statali, regionali e locali «impropri», le cui funzioni, cioè, possono trovare un più razionale allocazione, per completare il percorso di razionalizzazione avviato nella scorsa legislatura (articolo ItaliaOggi del 27.07.2013).

VARIRiforma del codice stradale, sanzioni modulate su gravità e frequenza.
Disposizioni per favorire la diffusione e l'installazione di sistemi telematici per l'accertamento delle violazioni stradali. Revisione della disciplina sanzionatoria graduando l'entità degli importi da pagare e semplificando le procedure. Piena ed espressa applicazione ai conducenti minorenni delle sanzioni accessorie gravanti sulla licenza di guida. Riformulazione dei ricorsi amministrativi e giurisdizionali nell'ottica della semplificazione e dell'alleggerimento degli oneri a carico dei cittadini.

Sono alcuni dei principi e criteri direttivi definiti dal disegno di legge delega per la riforma del codice della strada, varato ieri dal Consiglio dei ministri.
I decreti legislativi delegati dovranno dettare una nuova disciplina delle norme di comportamento e delle relative sanzioni nel rispetto di alcuni criteri direttivi, fra i quali assumono particolare rilevanza quelli relativi alla revisione della disciplina sanzionatoria. In particolare, sarà modificata in generale l'entità delle sanzioni, prevedendo la graduazione in funzione della gravità, della frequenza e dell'effettiva pericolosità del comportamento e l'inasprimento in caso di comportamenti particolarmente pericolosi e lesivi dell'incolumità e della sicurezza degli utenti della strada, dei bambini e degli utenti deboli.
Per quanto attiene alle procedure sanzionatorie, saranno snelliti e semplificati i procedimenti per l'applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie e accessorie e delle misure cautelari relative ai documenti di circolazione e di guida.
Il sistema di accertamento degli illeciti amministrativi sarà revisionato tenendo in considerazione i nuovi strumenti di controllo a distanza che consentono la contestazione da remoto e del regime delle spese. Dovrà essere espressamente prevista l'applicabilità ai conducenti minorenni degli istituti della decurtazione di punti e del ritiro, della sospensione e della revoca della patente di guida. I ricorsi amministrativi e giurisdizionali saranno revisionati con l'obiettivo di semplificare le procedure e alleggerire gli oneri amministrativi a carico dei cittadini.
I decreti delegati dovranno poi introdurre disposizioni finalizzate a favorire la diffusione e l'installazione di sistemi telematici idonei a rilevare, anche attraverso il collegamento automatico con l'anagrafe nazionale dei veicoli, le violazioni in materia di circolazione dei veicoli, con particolare riferimento alle prescrizioni relative alla massa complessiva a pieno carico e al trasporto di merci pericolose.
Oltre ai decreti legislativi, il governo sarà delegato ad adottare regolamenti per revisionare la segnaletica stradale in armonia con le norme internazionali e per ridefinire le caratteristiche e la classificazione di alcuni veicoli (articolo ItaliaOggi del 27.07.2013).

EDILIZIA PRIVATASubappalti, aliquota ordinaria. L'agevolazione al 10% solo per il committente principale. L'amministrazione finanziaria ritorna sul problema delle aliquote agevolate negli appalti.
Negli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria delle abitazioni, l'aliquota Iva agevolata del 10% si applica solo nei confronti del committente principale, mentre le prestazioni dei subappaltatori scontano l'aliquota ordinaria del 21%.

Questa indicazione, fornita dall'amministrazione finanziaria in ragione della particolarità dell'agevolazione dall'art. 7 della legge 488/1999, deroga pertanto al principio generale secondo cui il contratto di subappalto segue l'aliquota del contratto principale.
Motivo per cui talvolta risulta inconsapevolmente disattesa dai contribuenti.
L'art. 7, comma 1, lettera b), della legge 488/1999, assoggetta all'aliquota Iva ridotta del 10% le prestazioni aventi ad oggetto gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria eseguiti su fabbricati a prevalente destinazione abitativa privata. Al riguardo, l'amministrazione ha chiarito che, ai fini in esame, si considerano tali: le singole unità immobiliari classificate catastalmente nelle categorie da A1 ad A11, esclusa la A10, indipendentemente dall'utilizzo di fatto (vale pertanto la classificazione in catasto), gli edifici di edilizia residenziale pubblica, adibiti a dimora di soggetti privati, gli edifici destinati a residenza stabile di collettività, quali orfanotrofi, brefotrofi, ospizi, conventi, le parti comuni di fabbricati destinati prevalentemente ad abitazione privata, intendendo tali gli edifici la cui superficie totale dei piani fuori terra è destinata per oltre il 50% ad uso abitativo privato, le pertinenze immobiliari (autorimesse, soffitte, cantine) delle unità abitative, anche se ubicate in edifici destinati prevalentemente a usi diversi.
Sono invece escluse dall'agevolazione le unità immobiliari non abitative (negozi, uffici), anche se situate in edifici a prevalente destinazione abitativa.
A differenza dell'analoga agevolazione prevista per gli interventi edilizi di grado superiore (restauro, risanamento conservativo, ristrutturazione), che riguarda i lavori eseguiti su qualsiasi fabbricato, nonché le cessioni di beni finiti destinati alla realizzazione dei lavori stessi, quella delle manutenzioni ha quindi una portata più ristretta, in quanto si applica solo ai fabbricati abitativi e solo alle prestazioni di servizi. Inoltre, se nei lavori vengono impiegati i beni significativi, scatta un particolare meccanismo limitativo dell'agevolazione.
Il valore di tali beni, infatti, sconterà l'aliquota del 10% nei limiti in cui trova capienza nell'ammontare complessivo dell'intervento al netto del valore dei beni stessi. In pratica, se il valore del bene significativo non supera il 50% del valore complessivo dell'intervento, l'intero corrispettivo è agevolato, altrimenti scatta la limitazione. I beni significativi, elencati nel dm del 29/12/1999, sono i seguenti: ascensori e montacarichi, infissi esterni ed interni, caldaie, video citofoni, apparecchiature di condizionamento e riciclo dell'aria, sanitari e rubinetterie da bagno, impianti di sicurezza.
In considerazione di questa limitazione, nella circolare 71/2000, l'amministrazione finanziaria ha precisato che l'aliquota agevolata non è applicabile nei rapporti tra imprese, per cui ne può beneficiare solo il committente del contratto principale (il quale non deve essere necessariamente né un consumatore finale né una persona fisica: potrebbe anche trattarsi, infatti, della società immobiliare proprietaria del fabbricato).
Secondo la circolare, quindi, in deroga al principio interpretativo di carattere generale che omologa, riguardo all'aliquota Iva, i subappalti all'appalto principale, negli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria non è consentito applicare l'aliquota del 10% alle prestazioni eseguite in dipendenza di subappalti. In tale ipotesi, pertanto, l'appaltatore, tenuto ad applicare l'imposta con il meccanismo dell'inversione contabile, dovrà integrare la fattura del subappaltatore con l'aliquota ordinaria.
A ben vedere, pur salvaguardando le finalità della circolare, non vi sarebbe motivo di escludere l'aliquota agevolata nel caso in cui la prestazione del subappaltatore sia esclusivamente di mano d'opera, o comunque non preveda l'impiego di beni significativi (articolo ItaliaOggi del 26.07.2013).

EDILIZIA PRIVATAL'80% dei comuni tace sui costi al Suap.
Solo il 21% dei comuni del campione (tra accreditati e «camerali») ha provveduto a pubblicare informazioni sugli oneri connessi alla presentazione di una pratica al Suap. E ciò, nonostante ai sensi dell'art. 5 del Cad (Codice dell'amministrazione digitale) l'obbligo di pubblicazione per tutti i procedimenti amministrativi della pubblica amministrazione decorra dal primo giugno di quest'anno e, con riferimento specifico al Suap, lo stesso obbligo sia stato già introdotto dall'art. 2 del dm 10.11.2011. Inoltre, le modalità prevalenti indicate dai comuni accreditati per la compilazione della pratica sono il download della modulistica dal sito web del Suap (45%) oppure soluzioni miste (38%), molto diffuse anche nel Suap «camerale» (23%). Insomma, la compilazione online delle comunicazioni non è ancora diffusa, con la conseguenza che il procedimento avviene tramite Pec.
Sono questi alcuni dei risultati dell'indagine svolta dalla Direzione generale per il mercato, la concorrenza, il consumatore, la vigilanza e la normativa tecnica, Divisione IV, Promozione della concorrenza del Ministero dello sviluppo economico che è disponibile online nel sito del Mise.
A distanza di tre anni dall'entrata in vigore del Suap telematico (dpr 160/2010) non si può certo dire, comunque, che i risultati siano stati negativi anche se elementi di criticità sussistono ancora. Come il fatto che siano pochissimi i comuni che hanno attivato funzioni online per il pagamento degli oneri connessi alle pratiche che transitano attraverso lo sportello E, in parte, questo è dovuto al fatto che solo una minoranza dei comuni applica diritti di segreteria a questi adempimenti.
Circostanza questa che, tuttavia, non va vista negativamente perché soltanto per le pratiche di natura edilizia è prevista dalla legge la possibilità di imporre diritti mentre analoga facoltà non è prevista, ad esempio, per i procedimenti di natura meramente economica, com'è il caso dell'apertura di un negozio, di un bar o di un centro estetico.
In sostanza, ciò che l'indagine ha fatto emergere è che, a tre anni di distanza dall'entrata in vigore del nuovo Suap, è stato sostanzialmente raggiunto quello che era considerato l'obiettivo e funzione principale del Suap e la sua stessa ragion d'essere. Ovvero nella capacità del comune di assumere un ruolo di coordinamento nei confronti degli enti terzi in merito ai procedimenti che vanno oltre la sola competenza comunale. Non è invece stato raggiunto, osserva il Ministero, l'altro importante obiettivo che era quello di prevedere modalità standard nell'organizzazione dei servizi, attraverso livelli minimi condivisi, e facendo perno sulle tecnologie dell'informazione.
Con la conseguenza che il disagio avvertito dalle imprese non riguarda tanto l'informatizzazione del Suap, ma la standardizzazione dei servizi (articolo ItaliaOggi del 26.07.2013).

EDILIZIA PRIVATACertificazione energetica senza competenze certe. La presa di posizione della categoria.
La certificazione energetica sarà pure (purtroppo) alla portata di tutti, ma continua a restare una prerogativa propria dei periti industriali. Quella che può sembrare un'inutile precisazione, diventa invece necessaria all'indomani della pubblicazione di un provvedimento in materia che rischia di creare confusione tra gli addetti ai lavori e tra i cittadini stessi.
Si tratta del dpr che «disciplina i criteri di accreditamento per assicurare la qualificazione e l'indipendenza degli esperti e degli organismi a cui affidare la certificazione energetica degli edifici» in vigore dallo scorso 12 luglio e contiene al suo interno diversi paradossi che rischiano di dar seguito a interpretazioni difformi sul territorio nazionale (e non sarebbe la prima volta). Poiché ora è ormai impossibile modificare una norma che non ha fatto altro che trasformare lo strumento per il risparmio energetico, cioè la certificazione legata alla diagnosi, in un mero adempimento formale e burocratico, si possono però limitarne i danni e evitare che gli addetti ai lavori si trovino in difficoltà. Per questo il Cnpi ha inviato ai singoli presidenti di regione, agli assessorati competenti e naturalmente ai presidenti di collegio di categoria una circolare esplicativa.
Il primo passaggio da chiarire perché non esplicitato in questa norma (specificato nei decreti delegati precedenti, dm 19/02/2007; dm 26/10/2007) è che la figura del certificatore energetico corrisponde senza dubbio al profilo del perito industriale iscritto all'albo professionale nella specializzazione in edilizia, elettrotecnica, meccanica, termotecnica, e quelle affini, cioè costruzioni aeronautiche, fisica industriale, energia nucleare, metallurgia, industria navalmeccanica, industria metalmeccanica e telecomunicazioni. Non solo, perché va anche chiarito che tali soggetti sono abilitati alla certificazione senza alcun attestato di frequenza integrativo. Ma i punti oggetto di confusione non finiscono qui, perché nonostante i rilievi contenuti nel parere del consiglio di stato al fine di restringere l'estrema genericità delle specializzazioni, è evidente una scelta che appare totalmente casuale nei criteri a cui riferire i soggetti abilitati alla certificazione.
Il punto è che il regolamento se da una parte restringe il campo d'azione solo a quei tecnici abilitati «all'esercizio della professione relativa alla progettazione di edifici e impianti asserviti agli edifici stessi», dall'altra la estende a molti altri professionisti che di progettazione di edifici e impianti non hanno niente a che vedere. Come, per esempio, i laureati in fisica, in matematica, oppure in scienze della natura o in modellistico matematico-fisica per l'ingegneria, posti senza differenza accanto ai periti industriali. Dunque un regolamento che ha deciso di togliere e di aggiungere competenze a suo piacimento, considerando la laurea e non la professione esercitata condizione necessaria per svolgere questa attività, scardinando nello stesso tempo, sistema ordinistico e logica delle classi di laurea.
Insomma sembra quasi che il ministero con questo regolamento abbia quasi voluto inventarsi una nuova professione. Forse dimenticandosi che gli esperti in materia già ci sono e operano sul territorio con professionalità e competenza. Purtroppo per le numerose sviste ci saranno quindi certificatori esperti, cioè professionisti, iscritti agli albi e accanto soggetti improvvisati, abilitati dopo un semplice corso di formazione.
La cosa ancora più grave è che il principio di fondo nulla ha a che vedere con l'analisi del comportamento energetico dell'edificio. A questo punto sarebbe stato più fruttuoso fare una semplice fotocopia delle bollette degli ultimi anni. Perché la certificazione energetica imposta in questo modo non è altro che fumo negli occhi (articolo ItaliaOggi del 26.07.2013).

ENTI LOCALIProvince, una scatola vuota. Enti di secondo livello con funzioni di pianificazione. Il ddl di riforma approda sul tavolo del consiglio dei ministri. E fa già discutere.
Province ridotte ad enti territoriali di secondo livello con funzioni circoscritte a pianificazione territoriale, ambiente, trasporti e scuola. Città metropolitane operative dal 01.07.2014 in sostituzione degli attuali enti di area vasta, salva diversa decisione da parte di almeno un terzo dei comuni interessati. Individuazione delle unioni come modalità privilegiata di adempimento dell'obbligo di gestione associata delle funzioni fondamentali da parte dei municipi più piccoli.
Sono questi, in estrema sintesi, i contenuti salienti del disegno di legge sul riassetto della p.a. locale che oggi è approdato all'esame preliminare del consiglio dei ministri. Il testo ricalca, pur con qualche modifica, quello anticipato la scorsa settimana da questo giornale (si veda ItaliaOggi del 20 luglio).
Province. In proposito, il disegno di legge introduce una sorta di disciplina transitoria, destinata ad applicarsi in attesa del varo della riforma costituzionale già avviata. Come accennato, le province cesseranno di avere organi eletti in via diretta dai cittadini. Il presidente, infatti, sarà scelto da e fra i sindaci in carica, una minoranza dei quali comporrà anche il consiglio provinciale. Tutti i primi cittadini, inoltre, siederanno nell'assemblea dei sindaci, chiamata ad approvare lo statuto ed i bilanci. Le elezioni dei nuovi vertici scatteranno subito dopo l'entrata in vigore della legge e dovranno svolgersi entro 20 giorni dalla proclamazione dei sindaci eletti a seguito della prima tornata di elezioni amministrative.
Come detto, le nuove province avranno funzioni limitate a pianificazione del territorio, valorizzazione dell'ambiente, trasporti e strade provinciali, programmazione della rete scolastica. Gli altri compiti passeranno ai comuni (singoli o associati in unioni), salvo quelli che le regioni, nelle materie di propria competenza, decideranno di trattenere a sé. La transizione, peraltro, sarà tutt'altro che semplice, al punto che, in attesa di una futura (e ancora tutta da definire) riforma della finanza locale, le entrate tributarie continueranno ad essere riscosse dalle province, rendendo quindi necessaria la costruzione di un sistema di trasferimenti da queste a sindaci e governatori.
Città metropolitane. Dal prossimo 1° gennaio, saranno costituite le città metropolitane di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria. I nuovi enti (anch'essi di secondo livello, ma con la possibilità di prevedere l'elezione diretta del sindaco e del consiglio metropolitano, sia pure solo dopo l'approvazione di una legge elettorale ad hoc e comunque non prima di un triennio) avranno inizialmente funzioni limitate all'approvazione dello statuto.
Il battesimo vero e proprio è previsto per il 01.07.2014, allorché esse subentreranno alle attuali province, assumendo ampi compiti che includeranno anche sviluppo economico e sociale, organizzazione dei servizi pubblici, mobilità e viabilità. A quel punto, le province saranno soppresse, salvo che, entro il prossimo 28 febbraio, almeno un terzo dei comuni del territorio interessato (fra loro confinanti) non chieda di restare fuori dal nuovo ente: in tal caso, l'attuale provincia resterà in funzione (con organi eletti secondo le nuove modalità) sul nuovo e più ristretto ambito.
Anche qui la successione si prospetta complessa, specie laddove la città metropolitana si affiancherà all'attuale provincia, al punto che si prevede addirittura la possibilità per ciascuno dei due enti di ricorrere alla Corte dei conti avverso gli atti di riparto delle risorse patrimoniali, strumentali, umane e finanziarie. Le città metropolitane, inoltre, avranno le stesse entrate delle province, ma dovranno ritrasferirne una quota se queste sopravvivranno. Anche la gestione del Patto si annuncia come un rebus: in caso di coabitazione fra vecchio e nuovo ente, ciascuno risponderà “in solido” dell'obiettivo.
Unioni di comuni. Esse diventano lo strumento prioritario per l'adempimento dell'obbligo di gestione associata delle funzioni da parte dei piccoli comuni. L'alternativa della convenzione rimane, ma potrà essere adottata al massimo per un periodo di cinque anni dall'entrata in vigore della legge, dopo di che i comuni interessati dovranno comunque unirsi. Rispetto alla bozza iniziale, tuttavia, risultano fortemente depotenziati gli incentivi per tali forme associative. Non è più prevista alcuna forma di agevolazione diretta ai fini del Patto, ma solo un invito alle regioni a favorire i processi aggregativi attraverso la regionalizzazione verticale. Saltano anche le premialità ed i contributi aggiuntivi per le fusioni.
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La transizione è un rebus. Incognite su trasferimento funzioni e risorse. Il passaggio sarà più agevole solo nelle dieci città metropolitane.
Il disegno di legge di riforma delle province presentato dal ministro Graziano Delrio crea notevoli incertezze non solo sull'attribuzione delle funzioni e competenze, ma anche in merito alla finanza locale. Il passaggio delle funzioni dalle province agli enti subentranti, che possono essere a seconda dei territori città metropolitane, comuni o unioni di comuni e, per altro, in modi e dimensioni molto diversificate, richiede necessariamente il transito verso gli enti destinatari delle risorse necessarie alla loro gestione. Occorre, dunque, trasferire sia la titolarità delle entrate tributarie e patrimoniali connesse alle funzioni, sia patrimonio, risorse strumentali e personale.
Per le città metropolitane il problema risulterà di minore difficoltà. Infatti, il disegno di legge prevede che esse subentrino, assorbano le precedenti province, succedendo loro «a titolo universale». Sicché patrimonio, personale e risorse strumentali delle province transiteranno senza soluzione di continuità verso le città metropolitane, che continueranno integralmente a gestire le funzioni provinciali, aggiungendovi quelle ulteriori che il disegno di legge considera come proprie e tipiche dei nuovi enti.
Per quanto concerne le province del resto del territorio, la situazione è molto più complessa. Infatti, il disegno di legge prevede che restino in capo a loro pochissime funzioni, mentre tutte le altre passeranno non per successione universale, bensì particolare, ai comuni o alle unioni dei comuni, fermo restando che alcune regioni potrebbero decidere di assumere direttamente alcune di esse.
Il disegno di legge non affronta la questione, intricatissima, e rinvia la sua soluzione a un dpcm che dovrebbe fissare i criteri generali per l'attribuzione a comuni, unioni e regioni, delle risorse, nonché a provvedimenti attuativi delle stesse province. Poiché, però, regioni e comuni potranno delegare specifiche funzioni alle province, potrebbe innescarsi anche un moto contrario: saranno regioni e comuni a dover ritrasferire le risorse puntualmente necessarie allo svolgimento delle funzioni.
Manca, per regolare tutto questo complessissimo reticolo, un elemento fondamentale: la riforma della normativa sulla finanza locale. Il ddl si limita a prenderne atto e prevede che «fino alla riforma della finanza locale, le entrate tributarie continuano ad essere riscosse dalla provincia». Che, in sostanza, dovrebbe fare da riscossore e redistributore delle risorse.
Il ddl dimentica, tuttavia, che gran parte delle entrate provinciali discendono dal fondo sperimentale di sviluppo, trasferito loro dallo stato. E non fornisce indicazioni su come e chi lo gestirà in futuro. Nebbia anche sulle conseguenze della riforma sul patto di stabilità. Anche in questo caso, il ddl si limita a porre il problema, senza risolverlo. Si prevede solo che fino a quando il patto verrà rivisto, le città metropolitane e le nuove province sono tenuti a conseguire gli obiettivi di finanza pubblica propri delle “vecchie province”. Per le città metropolitane che subentrano in universum ius può anche andare bene, ma la previsione manca di prendere in considerazione gli effetti sul patto e gli altri vincoli (si pensi alla spesa del personale e alle assunzioni) ricadenti sui comuni o le unioni di comuni
(articolo ItaliaOggi del 26.07.2013).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - INCARICHI PROGETTUALIDl del Fare, percorso in salita. Non convince lo stop ai tetti sugli stipendi ai manager. Il provvedimento ottiene la fiducia della camera ma è inondato da odg. Oggi seduta fiume.
Subissato di ordini del giorno (oltre 250, che hanno imposto ieri la seduta notturna) e «lievitato» di oltre il 30%, passando da 86 a 114 articoli, il cosiddetto decreto del fare (69/2013) ottiene la fiducia dell'aula di Montecitorio. Ma i nodi restano: contestati gli emendamenti sulle borse di studio agli universitari meritevoli per introdurre un doppio canale di finanziamento («ministeriale» e «regionale»), sull'eliminazione del tetto di circa 300 mila euro ai manager delle società pubbliche e sulla nomina di un commissario per la spending review che, per tagliare la spesa pubblica, percepirà un compenso di 950 mila euro.
Norme che, probabilmente, vista la contrarietà di parte della maggioranza (oltre che di M5s, Sel e Lega), saranno riviste dai senatori, così come, annuncia il viceministro allo sviluppo economico Antonio Catricalà, i 20 milioni «scippati» alla dotazione per la banda larga, e posti nel finanziamento di radio e tv locali, saranno recuperati dal governo nella prossima legge di stabilità.
Il testo, che a causa dell'ostruzionismo delle opposizioni si avvia a una votazione «a oltranza» nelle prossime ore (deputati allertati in vista di una «seduta fiume»), interviene in materia fiscale, facendo slittare il versamento della tassa sulle transazioni finanziarie (Tobin tax) al 16 ottobre, e rendendo poi lo spesometro facoltativo: dal 1° gennaio 2015, infatti, i soggetti titolari di partita Iva potranno, per scelta, inviare telematicamente e giornalmente alle Entrate i «dati analitici delle fatture di acquisto e cessione di beni e servizi», comprese le note di accredito ricevute o emesse, oltre che l'ammontare dei «corrispettivi delle operazioni effettuate e non soggette a fatturazione».
Novità rilevante per tutti i professionisti (iscritti, o meno ad un ordine) l'ampliamento delle maglie del Fondo centrale di garanzia per le piccole e medie imprese, grazie al quale godranno delle medesime opportunità delle aziende nell'ottenere i finanziamenti necessari; per le imprese, inoltre, sì a 2,5 miliardi per il rinnovo dei macchinari (fino a 2 milioni a società), nonché alla sperimentazione di «zone a burocrazia zero», mentre in edilizia gli interventi di ristrutturazione con modifiche della sagoma non saranno più soggetti a permesso, bensì basterà la procedura semplificata (Scia, Segnalazione certificata di inizio delle attività).
Il wi-fi pubblico sarà realmente «free»: gli esercizi commerciali che lo offrono gratis, non dovranno identificare il cliente che si connette. Converrà pagare le multe entro 5 giorni, perché si usufruirà di uno sconto del 30%, mentre il decreto concederà ad alcune regioni, Puglia e Piemonte, Emilia e Lazio altri 280 milioni per saldare i propri debiti sanitari. E i sindaci-deputati manterranno (anche) lo scranno, giacché i primi cittadini di comuni fino a 15 mila abitanti eletti in Parlamento potranno non essere ritenuti incompatibili fino alle consultazioni amministrative del 2015.
Contestazioni anche dal mondo produttivo: Ivan Malavasi, presidente di Rete Imprese Italia s'aspettava «un provvedimento che alleggerisse la burocrazia, i risultati sono purtroppo antitetici. Chiedevamo l'abolizione della responsabilità solidale negli appalti, e troviamo, invece» chiude, altri adempimenti come il Durt, «un nuovo mostro» (articolo ItaliaOggi del 24.07.2013).

APPALTISolidarietà fiscale, ko parziale. Benefici condizionati dal possesso del durt.
Responsabilità solidale per le ritenute in fuori gioco, ma solo con il possesso del Documento unico di regolarità tributaria (Durt).

Questa è la scomoda novità introdotta nel ddl di conversione del cosiddetto decreto del fare (dl 69/2013) sulla solidarietà fiscale nell'ambito dei contratti di appalto.
Il provvedimento, innanzitutto, dispone che, in presenza di un appalto, l'appaltatore risponde «in solido» per il sub-appaltatore dell'omesso versamento delle ritenute fiscali operate sui redditi di lavoro, nei limiti dell'ammontare del corrispettivo dovuto.
Viene soppressa, invece, la parte della previgente disciplina attraverso la quale lo stesso appaltatore si metteva al riparo anche dalle sanzioni (da 5 mila a 200 mila euro) se si faceva trovare in possesso della documentazione che confermava l'avvenuto e regolare versamento delle dette ritenute o, in alternativa, dell'asseverazione rilasciata da soggetti abilitati (Caf, commercialisti o consulenti del lavoro), che attestasse l'avvenuto versamento. In luogo di questa possibilità, con il provvedimento in commento, viene introdotta una nuova possibilità per liberarsi dalla solidarietà passiva, consistente nell'ottenimento di un Documento unico di regolarità tributaria (Durt); il committente, prima di procedere al pagamento di quanto dovuto per la prestazione, deve ottenere il detto documento dall'appaltatore, pena l'applicazione delle sanzioni indicate.
Il rilascio del documento di regolarità avverrà per via digitale e certificata a cura dell'Agenzia delle entrate che provvederà alla creazione di un portale ad hoc, utilizzando anche i dati reperibili dai modelli Uniemens. Tutti coloro che esercitano attività d'impresa e che «hanno interesse» a farlo, potranno registrarsi in detto portale, comunicando periodicamente i dati contabili e i documenti primari relativi alle retribuzioni erogate, ai contributi versati e alle imposte. Per i soggetti registrati nel portale risulterà impossibile mantenere o optare per la liquidazione Iva trimestrale, giacché le disposizioni introdotte in commissione bilancio, con uno specifico emendamento, dispongono che i soggetti registrati nel portale, a prescindere dall'applicazione o meno della disciplina, devono eseguire le liquidazioni Iva e i relativi versamenti con cadenza mensile, ai sensi del richiamato comma 1, art. 1, dpr 100/1998. Peraltro, si ricorda che la disciplina in commento non è più applicabile per l'Iva e che questa richiesta sembra avere, quale unico scopo, quello di obbligare i contribuenti a tenere in linea la contabilità, implementando ulteriormente gli adempimenti posti a carico delle imprese.
Con un provvedimento dell'Agenzia delle entrate, di concerto con l'istituto previdenziale nazionale (Inps), da adottare entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, saranno fissate le modalità per il rilascio del documento di regolarità e nei due mesi successivi il via libera all'applicazione della nuova procedura (articolo ItaliaOggi del 24.07.2013).

APPALTIGli appalti vanno suddivisi in lotti.
Possibile l'anticipazione del 10% per gli appalti di lavori. Più difficile fare grandi appalti e non suddividere in lotti. Crescita dei fondi per la ristrutturazione delle scuole. Due miliardi per lo sblocco dei cantieri soltanto per le opere infrastrutturali strategiche. Più facile la qualificazione delle imprese di costruzioni.

Sono alcune delle novità introdotte a seguito degli emendamenti approvati al testo del disegno di legge di conversione del dl n. 69/2013 (il cosiddetto decreto del fare), da oggi all'esame dell'aula di Montecitorio.
Una prima novità introdotta dalle commissioni riguarda l'anticipazione del prezzo, argomento sul quale anche il ministro Maurizio Lupi, durante l'assemblea Ance, si era impegnato pubblicamente. In realtà la norma approvata prevede una mera facoltà per le amministrazioni, in deroga ai vigenti divieti di anticipazione del prezzo. Non solo, ma la facoltà è ammessa per le gare bandite dopo l'entrata in vigore della legge di conversione del decreto 69 e fino a fine dicembre 2014. E ancora: la possibilità di anticipazione deve essere prevista e pubblicizzata nella gara di appalto. Con il richiamo alle norme del regolamento viene poi previsto che l'anticipazione è subordinata alla costituzione di una garanzia fideiussoria bancaria o assicurativa gradualmente svincolata nel corso dei lavori.
Un'altra norma introdotta ex novo in commissione è quella sulla suddivisione in lotti degli appalti, tema di cui si parla molto anche in sede comunitaria, nell'ambito della revisione delle direttive europee, vedendo in esso uno strumento a tutela delle piccole e medie imprese. Oggi la disposizione del codice dei contratti stabilisce che al fine di favorire l'accesso delle piccole e medie imprese, le stazioni appaltanti devono, ove possibile ed economicamente conveniente, suddividere gli appalti in lotti funzionali. La norma approvata la scorsa settimana aggiunge l'obbligo per le stazioni appaltanti di motivare, nella determina a contrarre, l'eventuale mancata suddivisione in lotti. Della suddivisione in lotti le stazioni appaltanti dovranno inoltre tenere informato anche l'Osservatorio presso l'autorità.
Sul fronte della qualificazione delle imprese di costruzioni il testo delle commissioni prevede che, fino a fine 2015, sarà possibile documentare i requisiti sulla cifra d'affari globale in lavori, sulle attrezzature e sull'organico con riguardo al decennio e non più al quinquennio né ai migliori cinque anni del decennio. Per la messa in sicurezza degli edifici scolastici (Inail stanzia 100 milioni per ognuno degli anni dal 2014 al 2016), è stata inserita una posta di 3,5 milioni per ognuno dei citati anni per «l'individuazione di un modello unico di rilevamento e potenziamento della rete di monitoraggio e di prevenzione del rischio sismico». Altri 150 milioni per il 2014 sono destinati alla riqualificazione e messa in sicurezza delle scuole statali per le quali sia stata rilevata la presenza di amianto. I fondi dovranno però essere utilizzati entro il 28 febbraio del 2014, pena la revoca totale dei finanziamenti.
Per il fondo sblocca-cantieri è stato chiarito che i due miliardi disponibili saranno utilizzati solo per accelerare la realizzazione di opere inserite nel programma di infrastrutture strategiche della ex legge obiettivo (443/2001); introdotto anche l'obbligo, per il ministro delle infrastrutture, di relazione al parlamento ogni sei mesi sull'utilizzazione dei fondi. Ammessi interventi per l'adozione di misure antisismiche e per infrastrutture annesse o funzionali alle reti telematiche NGN, o wi-fi (articolo ItaliaOggi del 23.07.2013).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'art. 15, comma 2, d.lgs. n. 380 del 2001, la pronunzia di decadenza del permesso a costruire ha carattere strettamente vincolato all'accertamento del mancato inizio (e completamento) dei lavori entro i termini stabiliti dalla norma stessa (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione, con la precisazione che l'inizio dei lavori può ritenersi sussistente solo allorquando le opere intraprese siano tali da manifestare un'effettiva volontà da parte del concessionario di realizzare il manufatto assentito, tale non potendo considerarsi il semplice sbancamento del terreno e la collocazione sullo stesso del materiale necessario per la costruzione.
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La controversia tra proprietari di fondi finitimi non costituisce idonea causa di forza maggiore, ai fini dell’utile aspirazione ad una proroga del conseguito permesso di costruire.
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La natura strettamente vincolata della misura decadenziale, riconnessa alla sua consistenza puramente dichiarativa, rende irrilevante la denunziata omissione della previa partecipazione di avvio del procedimento, giusta il canone antiformalistico scolpito all’art. 21-octies l. n. 241/1990.

- CONSIDERATO che, alla luce degli atti di causa e delle difese assunte dalle parti, il ricorso si appalesa senz’altro infondato e merita di essere, conseguentemente respinto, alla luce del comune intendimento per cui, ai sensi dell'art. 15, comma 2, d.lgs. n. 380 del 2001, la pronunzia di decadenza del permesso a costruire ha carattere strettamente vincolato all'accertamento del mancato inizio (e completamento) dei lavori entro i termini stabiliti dalla norma stessa (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione (Cons. Stato, sez. III, 04.04.2013, n. 1870), con la precisazione che l'inizio dei lavori può ritenersi sussistente solo allorquando le opere intraprese siano tali (come non verificatosi nella specie, in cui se ebbe a dare mera e formale comunicazione) da manifestare un'effettiva volontà da parte del concessionario di realizzare il manufatto assentito, tale non potendo considerarsi il semplice sbancamento del terreno e la collocazione sullo stesso del materiale necessario per la costruzione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15.04.2013, n. 2027);
- RITENUTO che la controversia tra proprietari di fondi finitimi non costituisce idonea causa di forza maggiore, ai fini dell’utile aspirazione ad una proroga del conseguito permesso;
- RITENUTO che la natura strettamente vincolata della misura decadenziale, riconnessa alla sua consistenza puramente dichiarativa, rende irrilevante la denunziata omissione della previa partecipazione di avvio del procedimento, giusta il canone antiformalistico scolpito all’art. 21-octies l. n. 241/1990;
- CONSIDERATO che, per lo stesso ordine di ragioni, debbono essere disattese (in disparte la disamina della contestata ammissibilità in rito) le censure articolate per aggiunzione avverso il sopravvenuto provvedimento di reiezione dell’istanza di proroga (oltretutto correttamente motivato sulla scorta della tardività della formulazione della relativa istanza);
- CONSIDERATO, infine, che la ritenuta legittimità dell’azione amministrativa rende carente dei relativi presupposti la correlata istanza risarcitoria, che deve, quindi, essere disattesa (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.07.2013 n. 1690 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una ringhiera protettiva e di una scala in ferro per consentire l’accesso ad un terrazzo costituiscono interventi per i quali non è richiesto il preventivo rilascio del permesso di costruire.
Infatti, tali opere seppure finalizzate a consentire l’utilizzo del solaio di copertura di un immobile non determinano una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ma si configurano piuttosto come mere pertinenze, essendo preordinate ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale, funzionalmente inserite al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo valore di mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile al quale accedono e, comunque, tale da non comportare un aumento del carico urbanistico.

Preliminarmente, il Tribunale ritiene di poter prescindere dalla richiesta, avanzata da parte resistente, di riunione del presente giudizio agli altri, originati da ulteriori ricorsi, avverso provvedimenti resi dal Comune di Ispani, in relazione all’immobile cui afferisce la scala in contestazione, e tanto perché il presente gravame può essere definito autonomamente dagli altri, concernenti la complessiva situazione dell’immobile di che trattasi.
Esso si presta, infatti, ad essere accolto, in virtù di aspetti, riguardanti la natura stessa dell’opera di cui è stata ingiunta, dal Comune, la demolizione (“installazione di una scala in ferro che si diparte dal piano di campagna per raggiungere il terrazzo posto al primo piano del fabbricato di proprietà della sig.ra Sansone”), quale risalta anche dall’esame della documentazione fotografica allegata al ricorso e la quale, per giurisprudenza pacifica (in disparte, quindi, ogni altra considerazione circa l’eventuale abusività dell’immobile, al cui servizio la medesima scala è destinata) non necessitava all’epoca, per il suo carattere pertinenziale, e non necessiterebbe del resto ancor oggi, di alcuna concessione edilizia (o permesso di costruire), onde illegittima si palesa l’adozione, da parte dell’Amministrazione Comunale di Ispani, della sanzione demolitoria.
E valga il vero: è costante in giurisprudenza la massima, secondo la quale: “La realizzazione di una ringhiera protettiva e di una scala in ferro per consentire l’accesso ad un terrazzo costituiscono interventi per i quali non è richiesto il preventivo rilascio del permesso di costruire; infatti, tali opere seppure finalizzate a consentire l’utilizzo del solaio di copertura di un immobile non determinano una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ma si configurano piuttosto come mere pertinenze, essendo preordinate ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale, funzionalmente inserite al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo valore di mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile al quale accedono e, comunque, tale da non comportare un aumento del carico urbanistico” (TAR Liguria–Genova, Sez. I, 11.07.2011, n. 1088; conformi: TAR Lazio–Latina, Sez. I, 07.05.2010, n. 740; TAR Campania–Napoli, Sez. VII, 27.05.2009, n. 2945).
Il ricorso va dunque accolto, in aderenza a tale orientamento diffuso in giurisprudenza, ed in accoglimento della corrispondente censura, laddove la richiesta di risarcimento del danno ingiusto, evidentemente subito, per asserzione dei ricorrenti, dall’adozione dell’ordinanza gravata, va respinta anzitutto (al di là d’ogni altra considerazione) per la sua assoluta genericità, tale da non consentirne, neppure in astratto, una positiva delibazione (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.07.2013 n. 1680 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVOROAppaltatore e subappaltatore obbligati al piano sicurezza. In caso contrario tutte le imprese sono responsabili per gli incidenti.
I VINCOLI/ In caso di distacco il lavoratore deve ricevere una formazione adeguata al rischio tipico che dovrà fronteggiare.
Sia l'appaltatore sia il subappaltatore sono tenuti alla presentazione del Piano operativo sicurezza. In caso contrario, tutti gli imprenditori possono essere considerati responsabili dell'incidente verificatosi.

Lo precisa la Corte di Cassazione con la sentenza 22.07.2013 n. 31304 della IV Sez. penale depositata ieri.
La pronuncia chiarisce innanzitutto che la responsabilità in carico al committente va valutata con attenzione per evitare che possano venire richieste forme di controllo eccessivamente pressanti, continue e capillari sull'organizzazione dei lavori.
Quanto però alla ripartizione dei doveri tra imprese esecutrici, anche nella forma del subappalto, la Cassazione ricorda che non possono essere accettate forme di "scaricamento" della irresponsabilità. Infatti, tra gli obblighi che l'articolo 9 del decreto legislativo n. 194 del 1996 mette in capo ai datori di lavoro delle imprese esecutrici, quindi di tutte coloro che eseguono anche una sola parte dei lavori come le subappaltatrici, c'è la redazione del piano di sicurezza che corrisponde al piano di valutazione rischi. Il datore di lavoro deve cioè individuare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori e individuare le misure di prevenzione e protezione a tutela dei lavoratori occupati nell'esecuzione.
La presenza poi di più imprese esecutrici non può avere come conseguenza il trasferimento o l'accentramento di quest'obbligo a carico di una sola delle aziende. Anzi, sottolinea la Corte, ciascuna di queste è tenuta a redigere un proprio Pos. Non può allora non essere sanzionato il comportamento dell'imprenditore che non ha redatto il piano e poi si è difeso scaricando la responsabilità sia sul committente sia sulle altre imprese maggiormente coinvolte nell'esecuzione dei lavori.
E sempre in materia di sicurezza lavoro, la sentenza della Cassazione n. 31300, sempre depositata ieri, avverte che il datore di lavoro, prima di effettuare il distacco di un proprio dipendente presso un altra azienda, deve procedere alla verifica. In caso di inadempimento e di incidente verificatosi al lavoratore sarà chiamato a risponderne insieme al collocatario per il mancato rispetto della disciplina antinfortunistica.
Pur non dovendo vigilare nel dettaglio sulle condizioni di sicurezza nell'esecuzione della prestazione, l'imprenditore che provvede al distacco deve avere una consapevolezza della realtà in cui il suo dipendente è chiamato a lavorare e, semmai, provvedere a una formazione specifica e idonea a metterlo al riparo da eventi traumatici. Una formazione del dipendente "in missione" che deve riguardare i rischi più tipici della lavorazione che sarà chiamato a svolgere (articolo Il Sole 24 Ore del 23.07.2013).

LAVORI PUBBLICIL'imprenditore agricolo va in gara d'appalto.
Anche l'imprenditore agricolo che opera nella forma della società semplice può partecipare alle pubbliche gare, nonostante l'articolo 34 del codice dei contratti limiti la possibilità alle sole società commerciali.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 17.07.2013 n. 3891 che chiude una vicenda iniziata nel novembre 2004, con la decisione dell'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici (comunicato n. 42/2004) di negare in via di principio la possibilità per le Soa di rilasciare l'attestazione per la partecipazione alle pubbliche gare in favore delle società semplici.
Ciò in quanto, a suo dire, il dpr 34 del 2000 (il quale disciplina i presupposti e le condizioni per conseguire la qualificazione ai fini della partecipazione alle pubbliche gare) deve essere interpretato nel senso di riferirsi soltanto alle imprese che possono essere idonei concorrenti per le gare d'appalto, e questo non sarebbe stato il caso delle società semplici, che non possono svolgere attività commerciali.
La questione era stata sollevata davanti al giudice amministrativo da una società, imprenditore agricolo in base all'articolo 2135 del codice civile costituito nella forma della società semplice, che si era vista revocare l'attestazione per la partecipazione alle gare. Il Consiglio di stato, vista la complessità della questione, ha disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia (art. 267 del Tfue) al fine di ottenere indicazioni circa la corretta interpretazione delle disposizioni del diritto comunitario.
L'ordinanza di rimessione, in particolare, aveva osservato che nessuna disposizione del diritto nazionale sembrava ammettere le società semplici, alla partecipazione alle pubbliche gare, ma i giudici comunitari hanno invece ritenuto che, in base alla normativa comunitaria, si debba pervenire a conclusioni affatto diverse (ordinanza C-502/2011). Ciò in quanto «Il diritto dell'Unione, art. 6 della direttiva 93/37/Cee del Consiglio, del 14.06.1993, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, come modificata dalla direttiva 2001/78/Ce della Commissione, del 13.09.2001, osta ad una normativa nazionale, [_] che vieta a una società quale una società semplice, qualificabile come “imprenditore” ai sensi della direttiva 93/37, di partecipare alle gare d'appalto esclusivamente a causa della sua forma giuridica».
La sentenza della Corte di giustizia europea del 04.10.2012 vincola il giudice nazionale a disporre la disapplicazione della normativa primaria nazionale in quanto riconosciuta in contrasto con la pertinente normativa comunitaria. Dal che ne consegue, per un verso, l'illegittimità del comunicato dell'Autorità n. 42/2004, per la parte in cui richiama i tradizionali argomenti di diritto interno ostativi alla richiamata partecipazione e per altro verso, l'illegittimità del provvedimento di revoca dell'attestazione Soa a suo tempo rilasciata all'imprenditore agricolo (articolo ItaliaOggi del 24.07.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti verdi, gestione rischiosa. Sfalci triturabili dopo il trasporto. Ma con l'autorizzazione. Cassazione restrittiva sul trattamento dei residui provenienti da parchi e giardini.
Triturare sfalci di parchi e giardini in un luogo diverso da quello di potatura per conferirli più agevolmente in discarica costituisce attività di gestione di rifiuti. Attività che, se non autorizzata, può costare in base al «Codice ambientale» l'arresto fino ad un anno e l'ammenda fino a 26 mila euro.
A ricordare l'attuale penale rilevanza della condotta descritta è la Corte di Cassazione, III Sez. penale, che con sentenza 08.07.2013 n. 28909 ha precisato come la triturazione di tali residui in vista dello stoccaggio definitivo sia infatti, in base al dlgs 152/2006, già parte della più complessa fase di smaltimento di rifiuti.
Rifiuti vegetali da aree verdi. La fattispecie oggetto della pronuncia verte sulla condotta degli addetti di una cooperativa di manutenzione del verde comunale coincidente con la riduzione volumetrica delle potature effettuata in un luogo di deposito intermedio tra quello della loro produzione e quello della discarica di destinazione. Nel confermare, stante l'assenza della prevista autorizzazione, il reato rilevato dal giudice di merito di gestione illecita di rifiuti ex articolo 256 del Codice ambientale, la Corte ha altresì ratificato l'inquadramento dei residui in parola nell'articolo 184 del dlgs 152/2006, a mente del quale sono considerati rifiuti urbani «i rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali», e ciò secondo un criterio fondato sull'origine che (come si vedrà in prosieguo) è già in passato stato messo in discussione dallo stesso Legislatore e promette di esserlo di nuovo.
Verde pubblico e infrastrutture. La Cassazione ha inoltre escluso che la fattispecie potesse essere ricondotta sotto la disciplina di favore prevista dall'articolo 230 del dlgs 152/2006 per i rifiuti provenienti da manutenzione di infrastrutture, disciplina che consente di spostare i residui dal luogo di produzione a quello di primo stoccaggio «di verifica» senza che ciò costituisca attività di gestione dei rifiuti.
Per la Corte la «fictio iuris» che considera come «deposito temporaneo» (ossia un raggruppamento dei residui nel luogo di produzione prima della loro raccolta, effettuabile senza autorizzazione) quello che sarebbe giuridicamente già un «deposito preliminare» (ossia uno stoccaggio effettuato dopo il trasporto, effettuabile solo con autorizzazione) non è applicabile al caso, mancando nello stoccaggio effettuato dalla cooperativa una condizione indefettibile prevista dal citato articolo 230: quella della finalità di «verifica» della presenza di eventuali residui riutilizzabili senza alcun trattamento, come (avverte di giudice) conferma la circostanza che gli operatori procedevano direttamente alla loro trasformazione tramite triturazione.
In questa come in sue precedenti pronunce (si veda la sentenza 33866/2007), vale la pena sottolinearlo, la Corte ha escluso l'applicabilità della citata disciplina di favore su un piano strettamente empirico, senza chiarire se in astratto il verde comunale sia inquadrabile tra le infrastrutture cittadine o meno.
Residui vegetali nel Codice ambientale. Sulla gestione dei residui vegetali il dlgs 152/2006 non reca una disciplina univoca. Mentre i residui verdi provenienti da giardini e parchi sono, come accennato, considerati dall'articolo 184 rifiuti urbani (con tutti gli obblighi formali e tecnici che ne derivano), in base al successivo articolo 185 dello stesso decreto legislativo sono invece esclusi dalla disciplina dei rifiuti «paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana».
Una disparità di trattamento, questa, confermata dal ministero dell'ambiente con la (storica) nota datata 18.03.2011 con la quale si sottolineava come, a parità di residui, il regime eccezionale valga solo per quelli che rispondono ai requisiti di provenienza e di utilizzo sanciti dal dlgs 152/2006. Una disparità di trattamento, ancora, della quale lo stesso legislatore non appare però, come ricordato, essere pienamente convinto: l'originario regime eccezionale riservato agli scarti verdi da agricoltura era stato dalla legge 129/2010 esteso a quelli provenienti da aree verdi, per poi essere nuovamente ristretto ai primi dal successivo dlgs 205/2010.
Un nuovo tentativo di omologazione delle discipline, dopo quelli andati a vuoto nel corso della precedente Legislatura, pare essere ora tornato in pista veicolato dal ddl n. S121 dall'8 maggio all'esame del Senato. Ma, fino ad ordine contrario, ad oggi le uniche alternative alla discarica per i residui verdi da giardini e parchi continuano ad essere l'autoproduzione di compost (permesso dall'articolo 183, dlgs 152/2006) o la creazione di biomassa (legittimata dal dlgs 28/2011 sulla promozione di energia da fonti rinnovabili) (articolo ItaliaOggi Sette del 22.07.2013).

EDILIZIA PRIVATAImpugnazione del permesso più facile per il confinante. Consiglio di Stato. Autorizzazioni alla costruzione.
Nella valutazione della legittimità del permesso a costruire, devono venire in considerazione le proprietà contermini. Solo il diretto confinante della proprietà interessata dall'intervento edilizio può contestare il rilascio del permesso a costruire. Non anche il "confinante del confinante".
Con questo principio, il Consiglio di Stato -IV Sez., sentenza 01.07.2013 n. 3543- ha affrontato la delicata questione della cosiddetta vicinitas. A questo proposito, va detto che anche recentemente –Consiglio di Stato, quarta sezione, sentenza n. 2974/2013– l'eventuale contestazione della concessione edilizia o permesso a costruire può essere fatta valere da chi ha una stabile situazione di collegamento con il terreno oggetto dell'intervento. Il che supera ogni esigenza di indagine diretta a stabilire se i lavori oggetto del permesso comportino un effettivo pregiudizio alla proprietà vicina.
Il Consiglio di Stato ha ora affermato che il "confinante del confinante" in quanto tale non è di per sé soggetto titolare di una posizione sufficiente a giustificare l'impugnazione. Se così fosse, il proprietario confinante con edificio a sua volta confinante con quello oggetto di un intervento edilizio, si verrebbe a trovare nella posizione di "sostituto" processuale. Ma ciò comporterebbe la violazione dell'articolo 181 del Codice di procedura civile, secondo il quale nessuno può far valere in giudizio in nome proprio un diritto altrui se non nei casi espressamente previsti dalla legge.
I principi in materia di legittimazione all'impugnazione di permesso di costruire (sul punto Consiglio di Stato, quinta sezione, n. 2757/2013; sesta sezione, n. 3750/2012), portano ad affermare che è necessaria e sufficiente, come posizione legittimante, la vicinitas. Anche se la cosiddetta vicinitas, secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato (quinta sezione, sent. n. 2234/2012), deve essere intesa in senso ampio. Ciò che rileva è, infatti, non solo e non tanto la vicinanza geografica del ricorrente, ma più specificamente la possibilità di risentire degli effetti sfavorevoli di un certa situazione.
Deve ritenersi, dunque, sufficiente una plausibile prospettazione da parte dell'interessato non potendosi esigere una prova effettiva di un danno attuale. Tali principi sono poi trasferibili anche nei rapporti di vicinanza tra gli stessi enti territoriali. Se un Comune è confinante a quello direttamente interessato dalle possibili ripercussioni derivanti dalla realizzazione di un impianto quella situazione rientra nel concetto di vicinitas.
In conclusione, si può dire che, alla luce della giurisprudenza, le conseguenze della vicinitas, quale rapporto di vicinanza territoriale, possono essere queste:
- condizione di legittimità per il rilascio del permesso a costruire;
- idoneità a dare legittimazione alle richieste, mediante ricorso, di tutela giurisdizionale, per esempio al Tar;
- il rapporto di vicinanza di "secondo grado" ("vicino del vicino") non legittima in quanto tale il ricorso, contro il rilasciato permesso a costruire, ma impone l'esigenza di spiegare quali siano le specifiche situazioni compromesse dalla realizzanda iniziativa non direttamente confinante (articolo Il Sole 24 Ore del 25.07.2013).

COMPETENZE GESTIONALI  - CONSIGLIERI COMUNALI: Sì al sindaco Presidente della Commissione edilizia nei piccoli comuni.
È consentito per i comuni al di sotto dei 5.000 abitanti.

Con la decisione in rassegna, la III sezione, conformandosi a quanto già ritenuto dalla VI sezione, ha concluso nel senso che il sindaco possa legittimamente presiedere la Commissione edilizia integrata, ove ricorra specifica previsione in tal senso posta nel Regolamento edilizio comunale e che trova il supporto normativo anche nel nominato articolo 53, comma 23, della legge n. 388/2000, indirizzato proprio ai comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, e nella stessa legge costituzionale n. 3/2001, recante la riforma del titolo V della Costituzione, che attribuisce potestà regolamentare ai comuni circa la disciplina della organizzazione e delle funzioni proprie.
È proprio la complessità della normativa, in materia urbanistica ed edilizia nonché in quella di impianti radioelettrici, a consentire a quei comuni, nell’ambito dell’autonomia statutaria e regolamentare loro attribuita, l’adozione di disposizioni che deroghino ai principi generali della separazione di cui al Tuel (Dlgs n. 267/2000).
L’esercizio di tale facoltà è stata riconosciuta legittima anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, e in tal senso si richiama la sentenza della IV sezione n. 1070/2009 (Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 26.06.2013 n. 3490 - commento tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 7-8/2013 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALIContratti. Sì a clausole sospensive. Il compenso del tecnico può essere vincolato.
Per la Cassazione la clausola che condiziona il compenso di professionisti, ingegneri e architetti, al reperimento di finanziamenti da destinare alla realizzazione di un'opera pubblica non è affetta da nullità.

Per la Suprema corte le parti di un rapporto contrattuale possono prevedere, nell'esercizio dell'autonomia privata, che l'efficacia di un'obbligazione giuridica resti condizionata, in senso sospensivo o risolutivo, all'avverarsi di un evento futuro e incerto (articoli 1322- 1353 del Codice civile).
Con la sentenza 24.06.2013 n. 15786, la Corte di Cassazione -Sez. II civile- interviene a difesa del primato della fonte contrattuale; pertanto il compenso spettante al professionista, ancorché elemento naturale del contratto di prestazione d'opera intellettuale, sarebbe liberamente determinabile dalle parti, salvi i casi di indisponibilità in base a tariffe.
Sul tema (e giungendo alle stesse conclusioni) si era in precedenza espressa la stessa Corte, a sezioni unite, con la sentenza 18450/2005, con cui veniva dichiarata valida la clausola sospensiva ai sensi della quale il pagamento del compenso ad un ingegnere da parte di un ente pubblico veniva condizionato alla concessione di un finanziamento per la realizzazione del l'opera da progettare.
Nella normativa concernente le professioni di ingegnere ed architetto manca una disposizione espressa diretta a sanzionare con la nullità eventuali clausole in deroga ai minimi tariffari, pertanto la tariffa rappresenta una fonte sussidiaria e suppletiva, alla quale si può ricorrere ai sensi dell'articolo 2233 del Codice civile solo in assenza di pattuizioni al riguardo.
Il principio di inderogabilità della tariffa è infatti diretto a evitare che il professionista possa essere indotto a prestare la propria opera a condizioni lesive della dignità professionale, ma non può tradursi in norma imperativa idonea a rendere invalida qualunque patto in deroga, allorché questa sia stata attentamente valutata dalle parti nell'ambito di una libera ponderazione dei rispettivi interessi.
In presenza di condizione sospensiva, il contratto non può pertanto considerarsi a titolo gratuito; il negozio d'opera professionale resta oneroso ma in esso è introdotto per volontà dei contraenti un elemento ulteriore, cioè un evento che condiziona il pagamento del compenso al finanziamento dell'opera, in assenza del quale la prestazione non può essere eseguita.
La sentenza conferma anche per il settore pubblico la validità di formule contrattuali poste a tutela degli interessi collettivi, purché inserite in contratti liberamente sottoscritti dalle parti (articolo Il Sole 24 Ore del 22.07.2013).
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Il compenso per prestazioni professionali va determinato in base alla tariffa ed adeguato all'importanza dell'opera solo nel caso in cui esso non sia stato liberamente pattuito, in quanto l'art. 2233 cod. civ. pone una garanzia di carattere preferenziale tra i vari criteri di determinazione del compenso, attribuendo rilevanza in primo luogo alla convenzione che sia intervenuta fra le parti e poi, solo in mancanza di quest'ultima, e in ordine successivo, alle tariffe e agli usi e, infine, alla determinazione del giudice, mentre non operano i criteri di cui all'art. 36, primo comma, Cost., applicabili solo ai rapporti di lavoro subordinato.
La violazione dei precetti normativi che impongono l'inderogabilità dei minimi tariffari (quale, per gli ingegneri ed architetti, quello contenuto nella legge 05.05.1976, n. 340) non importa la nullità, ex art. 1418, primo comma, cod. civ., del patto in deroga, in quanto trattasi di precetti non riferibili ad un interesse generale, cioè dell'intera collettività, ma solo ad un interesse della categoria professionale
(massima tratta da www.neldiritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il muro di contenimento non è una costruzione.
La CORTE D'APPELLO di Venezia, Sez. II civile, nella sentenza 23.04.2013 n. 969, chiarisce che il muro di contenimento e la sua (eventuale) sopraelevazione non costituiscono una costruzione atteso che il concetto di costruzione non si identifica con quella di edificio poiché “si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato avente i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente, e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell’opera stessa (Cass. Sentenza n. 15972 del 27/07/2011).
In tema di distanze legali, il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi “costruzione” agli effetti della disciplina di cui all’art. 873 cod. civ. per la parte che adempie alla sua specifica funzione, e, quindi, dalle fondamenta al livello del fondo superiore, qualunque sia l’altezza della parte naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone lo smottamento (Sentenza n. 14 del 10/01/2006).
La parte del muro che si innalza oltre il piano del fondo sovrastante, invece, in quanto priva della funzione di conservazione dello stato dei luoghi, è soggetta alla disciplina giuridica propria delle sue oggettive caratteristiche (Sentenza n. 145 del 10/01/2006); rappresentano, invece, certamente costruzioni nel senso sopra specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati ad opera dell’uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente (Cass. Sentenza n. 1345 del 10/01/2006; Cass. Sentenza n. 1217 del 22/01/2010)
”.
Di conseguenza: “ritiene questa Corte che per la parte in cui il muro costituisce contenimento della parete naturale o scarpata lo stesso non è qualificabile come costruzione, mentre la parte in sopraelevazione rappresenta “muro di cinta” ex art. 878 c.c. che non costituisce costruzione ai fini delle distanze legali perché di altezza inferiore a tre metri (la sopraelevazione è di circa 83 cm.)”.
La sentenza in commento, per la parte che ivi interessa, riforma quanto sancito dal TRIBUNALE di Vicenza, Sez. II civile, con la sentenza 21.11.2008 n. 1834, che aveva considerato come costruzione la parte del muro di contenimento costruita in sopraelevazione: “tale distanza nella fattispecie non risulta osservata, come con divisibilmente affermato dal consulente tecnico d’ufficio, posto che il c.d. muro di contenimento, per le illustrate caratteristiche costruttive, costituisce, quanto meno per la parte superiore, una vera e propria costruzione.
Dal punto di vista edilizio e civilistico, per integrare il concetto normativo di costruzione, come più volte affermato dalla Cassazione, vengono in rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della stabilità e dell’immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti ed oggetti di modeste dimensioni con funzioni meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabili.
Anche la migliore dottrina include nella nozione di “costruzione” non solo l’opera che abbia le caratteristiche di un edificio o di altra fabbrica in muratura, ma anche qualsiasi altra opera edilizia che presenti carattere di solidità, stabilità e di immobilizzazione rispetto al suolo, ancorché manchi di propria individualità ed autonomia in quanto costituente un semplice accessorio del fabbricato.
Per quanto più specificamente concerne la problematica del muro c.d. di contenimento, la giurisprudenza di legittimità afferma che “in tema di distanze legali, il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi “costruzione” agli effetti della disciplina di cui all’art. 873 c.c. per la parte che adempie alla sua specifica funzione, e, quindi, dalle fondamenta al livello del fondo superiore, qualunque sia l’altezza della parete naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone lo smottamento; la parte di muro che si innalza oltre il piano del fondo sovrastante, invece, in quanto priva della funzione di conservazione dello stato dei luoghi, è soggetta alla disciplina giuridica propria delle sue oggettive caratteristiche di costruzione in senso tecnico giuridico, ed alla medesima disciplina devono ritenersi soggetti, perché costruzioni nel senso sopra specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati dall’opera dell’uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente” (Cassazione civ., sez. II, 10.01.2006 n. 145; in senso sostanzialmente conforme Cassazione n. 8144/2005)
” (tratto da  e link a http://venetoius.it).

AGGIORNAMENTO AL 25.07.2013

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UTILITA'

APPALTI: MODIFICHE ALLA RESPONSABILITA’ SOLIDALE FISCALE - NUOVO FACSIMILE DI DICHIARAZIONE SOSTITUTIVA (link a www.ancebrescia.it).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI: FAQ AUSA - Pubblicate domande e risposte al nuovo servizio Anagrafe Unica delle Stazioni Appaltanti (AUSA).
A seguito della messa a disposizione dei nuovi servizi per il rilascio e la verifica dell'Attestato di iscrizione all'Anagrafe Unica delle Stazioni Appaltanti e per la ricerca delle informazioni sulle Stazioni Appaltanti iscritte, ai sensi del comunicato del 16.05.2013 del Presidente dell’Autorità, è stato pubblicato un set di FAQ (aggiornate al 22.07.2013) a supporto dell’operatività degli Utenti (link a www.autoritalavoripubblici.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

TRIBUTI: L. Leombruni, La TARES e il riordino dei prelievi sui servizi di smaltimento dei rifiuti (tratto da www.ipsoa.it - Immobili & proprietà n. 7/2013).

CONDOMINIO: A. Celeste, Alzata irragionevolmente l’asticella per … il superamento delle barriere architettoniche (tratto da www.ipsoa.it - Immobili & proprietà n. 7/2013).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: D.Lgs. n. 33 del 2013 - attuazione della trasparenza (circolare 19.07.2013 n. 2/2013).
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Le p.a. di cristallo. Segnalazioni anche dalle imprese. La circolare del ministro D'Alia sulla trasparenza.
Non solo i cittadini, ma anche le imprese, quali veri e propri arbitri del buon andamento dell'agire pubblico, sono legittimate a segnalare eventuali inadempimenti della pubblica amministrazione in relazione agli obblighi di trasparenza dell'azione amministrativa imposti dal decreto legislativo n. 33/2013.
È quanto si può ricavare dalla lettura della circolare n. 2 diffusa ieri dal ministero della pubblica amministrazione guidato da Gianpiero D'Alia in relazione ai primi indirizzi operativi in attuazione degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazione della p.a., previsti dal dlgs n. 33/2013.
Obiettivo, l'attivazione di un'apposita sezione, denominata «Amministrazione trasparente», sulla home-page istituzionale, dove pubblicare tutti i dati e le informazioni, inclusi i curricula dei componenti degli organi di indirizzo politico e la loro situazione patrimoniale. Dati che devono essere aggiornati periodicamente e mantenuti online per un periodo non inferiore al quinquennio.
Un tassello fondamentale viene dato dall'istituto dell'accesso civico, previsto dall'articolo 5 del citato dlgs. Chiunque, si legge nella nota in esame, può vigilare attraverso il sito web, non solo sul corretto adempimento formale della pubblicazione, ma soprattutto sulle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche. L'esercizio democratico del controllo diretto, pertanto, determina una maggiore responsabilità di chi siede nelle «stanze dei bottoni», soprattutto nelle aree a rischio altamente corruttivo (su tutte l'iter di assegnazione di appalti di opere pubbliche). Il diritto alla segnalazione di eventuali inadempimenti, può essere esercitato come detto sia dai semplici cittadini che dalle imprese, in quanto queste ultime possono essere interessate ad una serie di informazioni diverse da quelle del comune cittadino, ma utili all'esercizio della propria attività. Su tutte, i tempi medi di pagamento dei fornitori e i procedimenti di gara.
A differenza del diritto di accesso ex lege n. 241/1990, l'accesso civico non protegge interessi giuridici particolari, riguarda tutte le informazioni e i dati resi obbligatori per la p.a. dal dlgs n. 33/2013 ed è totalmente gratuito (così escludendo l'evenienza del pagamento di un'imposta in bollo). In caso di silenzio da parte del responsabile della trasparenza, la norma prevede che sia la figura apicale della stessa struttura pubblica che provvederà a fornire al richiedente la risposta richiesta, provvedendo, al contempo, all'immediata attivazione del procedimento disciplinare nei confronti del funzionario «silente».
Inoltre, l'attuazione della trasparenza deve essere contemperata con il rispetto alla riservatezza: le p.a. dovranno assicurarsi che siano tutelati i dati personali al fine di evitarne un'indebita utilizzazione (articolo ItaliaOggi del 20.07.2013).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

LAVORI PUBBLICI: G.U. 19.07.2013 n. 168 "Avvio del Sistema informatico di monitoraggio delle opere incompiute (SIMOI). Attuazione del decreto 13.03.2013, n. 42" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, comunicato).

TRIBUTI: G.U. 19.07.2013 n. 168 "Testo del decreto-legge 21.05.2013, n. 54, coordinato con la legge di conversione 18.07.2013, n. 85, recante: «Interventi urgenti in tema di sospensione dell’imposta municipale propria, di rifinanziamento di ammortizzatori sociali in deroga, di proroga in materia di lavoro a tempo determinato presso le pubbliche amministrazioni e di eliminazione degli stipendi dei parlamentari membri del Governo»".

APPALTI: G.U. 17.07.2013 n. 166 "Saggio degli interessi da applicare a favore del creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle transazioni commerciali" (Ministero dell'Economia e delle Finanza, comunicato).
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Ritardi nei pagamenti nelle transazioni commerciali: tasso 01/07-31/12/2013
Il saggio d'interesse per ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali per il semestre 01.07.2013-31.12.2013
è determinato all'8,50%.
E' quanto risulta dal comunicato del Ministero dell'Economia e delle Finanze pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 166 del 17.07.2013 che ha fissato il saggio di cui all'art. 5, comma 2, del D.lgs. n. 231/2002 (link a www.altalex.com).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 16.07.2013 n. 165 "Rilascio del documento unico di regolarità contributiva anche in presenza di una certificazione che attesti la sussistenza e l’importo di crediti certi, liquidi ed esigibili vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni di importo almeno pari agli oneri contributivi accertati e non ancora versati da parte di un medesimo soggetto" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 13.03.2013).
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Il DURC può essere rilasciato anche a imprese non in regola ma con crediti nei confronti delle PA.
Sulla Gazzetta Ufficiale n. 165 del 16.07.2013 è stato pubblicato il Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze 13.03.2013 recante “Rilascio del documento unico di regolarità contributiva anche in presenza di una certificazione che attesti la sussistenza e l'importo di crediti certi, liquidi ed esigibili vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni di importo almeno pari agli oneri contributivi accertati e non ancora versati da parte di un medesimo soggetto”.
Grazie a questo Decreto, diventa possibile compensare i debiti contributivi delle imprese con i crediti vantati nei confronti della Pubblica Amministrazione.
In particolare, le imprese in possesso di una certificazione che attesti la sussistenza e l’importo di crediti certi, liquidi ed esigibili vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni di importo almeno pari agli oneri contributivi accertati e non ancora versati, possono compensare con il rilascio del DURC.
Gli enti tenuti al rilascio del DURC, su richiesta del soggetto titolare dei crediti certificati che non abbia provveduto al versamento dei contributi previdenziali, assistenziali ed assicurativi nei termini previsti, emettono il documento con l’indicazione che il rilascio è avvenuto ai sensi del comma 5 dell’art. 13-bis del D.L. n. 52/2012 (convertito dalla Legge 94/2012), precisando l’importo del relativo debito contributivo e gli estremi della certificazione esibita per il rilascio del DURC medesimo.
Tutte le specifiche nel testo pubblicato in Gazzetta (commento tratto da www.acca.it).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 15.07.2013 n. 164 "Modalità per l’istituzione e l’aggiornamento degli elenchi dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa, di cui all’articolo 1, comma 52, della legge 06.11.2012, n. 190" (D.P.C.M. 18.04.2013).
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Arriva la white list degli appalti. L'iscrizione è volontaria ma semplifica le procedure. In G.U. il dpcm che istituisce l'elenco in vista dell'Expo e della ricostruzione in Abruzzo.
Expo 2015 e ricostruzione in Abruzzo al riparo da infiltrazioni mafiose. Sarà su base volontaria, e non obbligatoria per le imprese, l'iscrizione alla white list dei prestatori di servizi ed esecutori di lavori immuni da contaminazioni criminali. Ma essere iscritti all'elenco velocizzerà le procedure perché l'impresa che ne fa parte sarà esonerata per tutto il periodo di efficacia dello stesso (un anno) dal produrre la documentazione comprovante lo status di azienda «mafia free».
Il dpcm (datato 18.04.2013) che fa ufficialmente partire l'elenco è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 164 del 15.07.2013. Anche se per la definitiva entrata in vigore bisognerà attendere Ferragosto (30 giorni dalla pubblicazione in G.U.). Il provvedimento disegna una procedura molto rapida per l'iscrizione che potrà essere chiesta dal titolare dell'impresa o dal suo legale rappresentante anche per via telematica indicando i settori di attività. Sarà la prefettura competente per territorio a rilasciare il nullaosta all'iscrizione dopo aver interrogato la Banca dati nazionale unica della documentazione antimafia.
In caso di esito positivo la liberatoria antimafia sarà rilasciata immediatamente. Qualora invece risulti che l'impresa non è censita in Banca dati o qualora gli accertamenti antimafia siano più vecchi di un anno, la prefettura effettuerà le necessarie verifiche e, se accerta la mancanza dei requisiti, procederà al diniego dandone comunicazione all'interessato. In ogni caso la prefettura dovrà esprimersi entro 90 giorni dalla ricezione dell'istanza. Un mese prima che scada l'iscrizione, le imprese dovranno comunicare l'interesse a permanere in elenco anche per settori diversi da quelli per cui sono iscritte.
Le prefetture potranno effettuare in qualsiasi momento controlli a campione per verificare la pulizia delle imprese che fanno parte della white list.
L'elenco delle imprese iscritte sarà pubblicato sul sito istituzionale di ciascuna prefettura nella sezione «Amministrazione trasparente». Dovrà inoltre essere chiaramente indicato l'indirizzo di posta elettronica certificata a cui possono essere inoltrate le richieste di iscrizione (articolo ItaliaOggi del 16.07.2013).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie avvisi e e concorsi n. 28 del 10.07.2013, "Avvio del percorso di revisione del piano territoriale regionale" (deliberazione G.R. 04.07.2013 n. 367).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: INPS – Procedura “regolarità contributiva on-line” (ANCE Bergamo, circolare 19.07.2013 n. 179).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: In tema di “Pubblicazione degli atti di concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi e attribuzione di vantaggi economici a persone fisiche ed enti pubblici e privati (artt. 26 e 27, d.lgs. n. 33/2013)” (CIVIT, delibera 15.07.2013 n. 59).
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P.a., trasparenza a 360°. Esteso l'obbligo di pubblicare i dati sui sussidi. Una delibera della Civit chiarisce la portata soggettiva del dlgs 33/2013.
Tutte le pubbliche amministrazioni senza esclusione, nonché gli enti pubblici e le società partecipate debbono pubblicare i dati concernenti gli atti di concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi e attribuzione di vantaggi economici a persone fisiche ed enti pubblici e privati.
La Civit (Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche), con la delibera 59/2013 di chiarimento della portata delle disposizioni contenute negli articoli 26 e 27 del dlgs 33/2013, interviene per fornire indicazioni su uno dei punti più controversi del decreto sulla trasparenza, confermando l'estensione più ampia possibile dell'ambito soggettivo di applicazione e chiarendo, d'altro canto, che negli atti concernenti le sovvenzioni e i contributi non sono da ricomprendere incarichi e compensi per professionisti e collaboratori.
Ambito soggettivo. La delibera, risolvendo dubbi mossi da enti locali in merito all'applicabilità dei citati articoli 26 e 27 a enti come le aziende speciali, ricorda che il dlgs 33/2013 si riferisce a tutte le pubbliche amministrazioni menzionate dall'articolo 1, comma 2, del dlgs 165/2001. Dunque, sono tenute agli adempimenti imposti dal decreto non solo tutte le amministrazioni dello stato, comprese le scuole, ma anche le aziende e amministrazioni dello stato a ordinamento autonomo, tutti gli enti locali, le comunità montane, loro consorzi e associazioni, istituzioni universitarie, istituti autonomi case popolari, camere di commercio e loro associazioni. Si aggiungono all'elenco tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, amministrazioni, aziende ed enti del Servizio sanitario nazionale.
Non sfuggono gli enti pubblici nazionali, tra i quali sono da comprendere le aziende speciali dei comuni, ritenute da assimilare agli enti pubblici economici.
Agli obblighi di trasparenza su concessioni di sovvenzioni e contributi debbono anche obbedire le società partecipate dalle pubbliche amministrazioni, comprese quelle da esse controllate ai sensi dell'art. 2359 del codice civile, limitatamente, ai sensi dell'articolo 11, comma 2, del dlgs 33/2013 all'attività di pubblico interesse da esse svolta.
Importo. La Civit chiarisce che gli obblighi di pubblicità scattano per sovvenzioni di importo superiore ai mille euro nel corso dell'anno. Tale importo può essere raggiunto anche mediante più atti ed erogazioni: in questo caso occorrerà pubblicare tutta la serie degli atti. Lo stesso anche nel caso di sovvenzioni con atti pluriennali.
Oggetto delle pubblicazioni. Ai sensi dell'articolo 26, comma 2, del decreto trasparenza, sottolinea la Civit, occorre pubblicare i provvedimenti finalizzati a un sostegno, rivolti a soggetti pubblici o privati, dai quali scaturiscano vantaggi economici diretti o indiretti: erogazione materiale di risorse finanziarie, oppure agevolazioni come sgravi o risparmi. Solo questi sono gli atti da pubblicare nella sezione Amministrazione trasparente. Non debbono, invece, essere inseriti i dati concernenti i compensi dovuti dalle amministrazioni, dagli enti e dalle società a imprese e professionisti privati a titolo di corrispettivo per lo svolgimento di prestazioni professionali.
L'articolo 27 del dlgs 33/2013 ha tratto in inganno molti. Essendo il frutto di una cattiva trasposizione dell'articolo 18 del dl 83/2012, che mischiava la fattispecie dei contributi con quella degli incarichi a professionisti e degli appalti, è rimasto un inopportuno riferimento ai curriculum, certamente inutili per il rilascio di sovvenzioni e contributi. La Civit conferma che il dlgs 33/2013 ha scisso le modalità di pubblicazione dei contributi da quelle degli incarichi professionali e, ancora, dagli appalti (articolo ItaliaOggi del 18.07.2013).

INCARICHI PROGETTUALI: Oggetto: informativa sull'obbligo di stipula di polizza professionale (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 12.07.2013 n. 250).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOIn tema di applicabilità del d. lgs. n. 39/2013 ai Comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti o forme associative tra Comuni della medesima regione aventi la medesima popolazione (CIVIT, delibera 11.07.2013 n. 57).
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Incarichi. Nei Comuni medio-piccoli porte chiuse ai condannati.
Le regole sull'incompatibilità e inconferibilità degli incarichi fanno capolino anche nei Comuni con meno di 15mila abitanti, anche se non in formula piena.

A spiegarlo è la Civit, nella delibera 57/2013.
Per individuare il pacchetto di norme chiamate a regolare gli incarichi nei Comuni medio-piccoli, la commissione segue un principio semplice: si applica tutto ciò che non è espressamente limitato dal decreto legislativo 39/2013 alle amministrazioni che superano i 15mila abitanti. Per questa ragione, il decreto anticorruzione chiude le porte agli incarichi dirigenziali a chi abbia subito una condanna, anche in primo grado, per reati contro la Pubblica amministrazione (articolo 3, del decreto).
Non solo, poiché nemmeno l'articolo 4 cita espressamente limiti dimensionali, anche negli enti sotto i 15mila abitanti diventano incompatibili con incarichi dirigenziali quanti, negli ultimi due anni, abbiano ricoperto cariche in enti di diritto privato finanziati dall'ente o anche abbiano semplicemente svolto attività professionali retribuite dall'amministrazione: in altre parole, nemmeno nei Comuni fino a 15mila abitanti il consulente potrà ricevere un incarico da dirigente.
La regola vale anche in senso contrario (articolo 9 del decreto), e impedisce a chi ha un ruolo che comporta «poteri di vigilanza o controllo sulle attività svolte dagli enti di diritto privato regolati o finanziati dall'amministrazione» di assumere incarichi in questi enti (articolo Il Sole 24 Ore del 19.07.2013).

URBANISTICA: Avviato il percorso di revisione del Piano Territoriale Regionale.
Regione Lombardia ha dato avvio al percorso di revisione del Piano Territoriale Regionale (PTR) con l'approvazione della d.g.r. n. 367 del 04.07.2013, pubblicata sul BURL, Serie Avvisi e Concorsi, n. 28 del 10.07.2013.
Tutti i cittadini e i soggetti interessati possono far pervenire alla Giunta regionale proposte utili alla revisione del PTR, entro il termine di novanta giorni a partire dal 10.07.2013 e secondo le modalità indicate nell'avviso (allegato B) (10.07.2013 - link a www.territorio.regione.lombardia.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Linee guida per l’aggiornamento del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità 2014-2016 (CIVIT, delibera 04.07.2013 n. 50).
Si leggano anche i seguenti allegati:
allegato 1 - allegato 1.1 - allegato 2 - allegato 3 - allegato 4 - allegato 5
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P.a., trasparenza in naftalina. L'approvazione dei piani triennali slitta al 31/01/2014.  La Civit fa slittare l'adempimento in attesa del programma nazionale anticorruzione.
Slitta al 31.01.2014 il termine entro il quale le pubbliche amministrazioni dovranno approvare il piano triennale per la trasparenza.
Lo ha stabilito la Civit, con la delibera 04.07.2013 n. 50, «Linee guida per l'aggiornamento del Programma triennale per la trasparenza e l'integrità 2014-2016», pubblicata sul sito della Commissione.
Termini. L'allegato 5 alla delibera contiene un calendario degli adempimenti, vincolante per le amministrazioni statali. Il termine più rilevante è, come rilevato, quello del 31.01.2014. In realtà, il dlgs 33/2013 non fissa un termine entro il quale adottare il piano triennale per la trasparenza. Ciò ha fatto ritenere che le amministrazioni dovessero provvedere al più presto, comunque certamente entro il 2013.
C'era, però, il problema di coordinare il piano della trasparenza con quello anti corruzione, del quale è un elemento accessorio indispensabile. Poiché il programma nazionale anticorruzione non è stato ancora varato, la Civit ha ritenuto di evitare alle amministrazioni di dover fare i due piani in momenti distinti, costringendoli a complesse opere di aggiornamento e coordinamento, rinviando tutto al 31.01.2014, così da consentire anche la redazione dei due documenti in modo da coordinarli anche con il piano della performance, o, negli enti locali, il piano esecutivo di gestione.
Controlli. La Civit negli allegati 3 e 4 mette a disposizione per le amministrazioni statali anche una sorta di check list per il controllo degli adempimenti. L'allegato 3 riassume alcuni contenuti del Programma triennale per la trasparenza; la versione finale della scheda sarà rilasciata successivamente dalla Civit sul Portale della trasparenza a seguito di sperimentazioni con alcuni enti.
La scheda allegato 3 andrà compilata entro il 28.02.2014 esclusivamente dai Responsabili della trasparenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici non economici nazionali. L'allegato 4 è una scheda simmetrica a quella dell'allegato 3, con la quale gli organismi indipendenti per la valutazione verificheranno entro il 31/12/2013 lo stato di avanzamento del programma triennale.
Contenuti essenziali. Utilissimo è l'indice essenziale del piano triennale per la trasparenza, suggerito dalla Civit. Vi deve essere un'introduzione contenente informazioni riguardanti l'organizzazione e le funzioni dell'amministrazione. Il primo capitolo dovrà indicare le principali novità del piano, rispetto a quello precedente. Il secondo, illustrerà il procedimento di elaborazione e adozione, indicando gli obiettivi strategici in materia di trasparenza posti dagli organi di vertice negli atti di indirizzo e i collegamenti con il piano della performance o con analoghi strumenti di programmazione previsti da normative di settore, indicando anche uffici e dirigenti coinvolti. La terza sezione illustra iniziative e strumenti di comunicazione per la diffusione dei contenuti del programma e dei dati pubblicati (comprese le «giornate della trasparenza»). La quarta indica i dirigenti responsabili del conferimento dei dati nei portali e lo stato di attuazione del programma, con le misure organizzative volte ad assicurare la regolarità e la tempestività dei flussi informativi ed i sistemi di controllo.
Enti locali immediatamente obbligati. La delibera chiarisce che nelle more dell'adozione delle intese previste dalla legge 190/2012, gli enti locali sono comunque tenuti a dare attuazione alle disposizioni del dlgs 33/2013 (articolo ItaliaOggi del 16.07.2013).

CORTE DEI CONTI

PUBBLICO IMPIEGO: Scriminante politica pure se l'incarico si dà a interim.
La «scriminante politica» si applica al sindaco che affida incarichi ad interim, anche qualora il dirigente nominato agisca in violazione del principio di onnicomprensività della retribuzione, generando un danno erariale.

Tale principio è stato recentemente ribadito dalla Corte Conti Puglia, nella sentenza 26.06.2013 n. 1014.
I magistrati contabili hanno esaminato il caso di un dirigente comunale a cui è stato affidato anche l'incarico ad interim di comandante della Polizia municipale. La Procura ha rilevato vari atti ritenuti illegittimi, tra delibere di giunta e decreti sindacali, volti alla indebita autoliquidazione di compensi da parte del dirigente.
Non è stata accolta la tesi difensiva secondo cui il conferimento dell'incarico ad interim avrebbe comportato un risparmio per l'ente, perché in contrasto con il principio di onnicomprensività della retribuzione dei dipendenti pubblici. «La norma è chiarissima e non ammette dubbi interpretativi», ha scritto la Corte dei conti in riferimento all'art. 24 del dlgs 165/2001, «e la retribuzione dirigenziale, stabilita dalla contrattazione collettiva, è solo quella e deve remunerare tutti gli incarichi eventualmente assegnati al dirigente».
Diversa, invece, la posizione dei magistrati contabili sulle contestazioni mosse dalla Procura per le varie ordinanze sottoscritte dal Sindaco, verso il quale è stata pienamente riconosciuta la cosiddetta «scriminante politica». Con l'introduzione della speciale esimente, secondo la Corte dei conti il legislatore si è preoccupato «di tutelare l'organo politico da possibili errori della dirigenza che eventualmente gli sottoponesse l'adozione di decisioni di “competenza dirigenziale».
La norma introdotta dall'art. 3 della legge 639/1996 prevede come «nel caso di atti che rientrano nella competenza degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato e consentito l'esecuzione». Un principio, secondo i magistrati contabili, da considerarsi il necessario completamento della distinzione tra atti di direzione politica e atti di gestione (articolo ItaliaOggi del 20.07.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIncremento orario dei rapporti di lavoro a part-time e facoltà assunzionali.
La Corte dei Conti, Sez. controllo regionale Campania, con il parere 13.06.2013 n. 225, conferma l'orientamento secondo il quale l'incremento orario dei rapporti di lavoro instaurati a tempo parziale -non costituendo trasformazione in rapporto a tempo pieno- non deve essere considerato quale nuova assunzione ai sensi dell'art. 76, comma 7, del d.l. 112/2008, convertito in legge 133/2008 (turn-over al 40% della spesa corrispondente alle cessazioni intervenute nell'anno precedente).
In ogni caso,
occorre garantire la riduzione della spesa complessiva di personale e riscontrare l'incidenza massima consentita di questa sulla spesa corrente, oltre al rispetto ai vincoli del patto di stabilità
(per gli enti soggetti).
Quanto detto vale a condizione che l'operazione non si configuri come elusiva delle norme vigenti e, quindi, non concreti deformazioni dei caratteri tipologici del rapporto di lavoro part-time (tratto da www.publika.it).

SEGRETARI COMUNALILa figura del Segretario è prevista come obbligatoria all'interno della Provincia e, pertanto, il divieto di assunzione non può riguardare detta figura.
Questa Sezione ha già avuto modo di precisare, in merito all’assunzione di categorie protette, che le dette norme sono in realtà perfettamente compatibili e vanno correttamente interpretate considerando che all’interno della spesa del personale, ai fini del rispetto del limite debbono essere computate anche quelle relative al segretario provinciale secondo l’enunciato principio della onnicomprensività delle Sezioni riunite della Corte dei Conti.
È allora chiaro che una corretta programmazione del fabbisogno di personale, così come disposto dall’art. 91 del TUEL, consente ed anzi impone di adottare tutte le misure per poter adempiere agli obblighi derivanti anche dall’art. 97 del TUEL.

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Nel merito, si rende necessario al riguardo, preliminarmente, sottolineare che la figura del segretario provinciale, come quella del segretario comunale, è disciplinata dall’art. 97, del TUEL in base al quale “Il comune e la provincia hanno un segretario titolare dipendente dall'Agenzia autonoma per la gestione dell'albo dei segretari comunali e provinciali, di cui all'articolo 102 e iscritto all'albo di cui all'articolo 98”.
Ne risulta che
la figura del Segretario è prevista come obbligatoria all'interno della Provincia.
Pertanto, come peraltro già affermato dalla Giurisprudenza di questa Corte dei conti che questa Sezione regionale ritiene di condividere, il divieto di assunzione non può riguardare detta figura (Sez. Puglia n. 75/2013).
D’altra parte la nomina del segretario provinciale non è costitutiva di un rapporto di lavoro dipendente, che intercorre invece con lo Stato attraverso il Ministero dell'Interno, bensì instaura con la Provincia un rapporto di servizio.
Ciò premesso la Sezione non ritiene di condividere l’assunto del Presidente della Provincia circa l’antinomia normativa dell’art. 97, comma 1, del TUEL che sancisce l’obbligo di nomina e il divieto disposto dal comma 7 dell’art. 76 del D.L. n. 112/2008 in base al quale è fatto divieto agli enti nei quali l'incidenza delle spese di personale è pari o superiore al 50% delle spese correnti di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale.
Questa Sezione ha già avuto modo di precisare con il parere n. 136/2012, richiamato dalla Provincia nella richiesta di parere, in merito all’assunzione di categorie protette, che si appalesa fuorviante considerare inconciliabili le norme di cui si chiede in questa sede di operare un arduo contemperamento atteso che le stesse sono in realtà perfettamente compatibili e vanno correttamente interpretate considerando che all’interno della spesa del personale, ai fini del rispetto del limite debbono essere computate anche quelle relative al segretario provinciale secondo l’enunciato principio della onnicomprensività delle Sezioni riunite della Corte dei Conti (deliberazione n. 27/CONTR711).
Non può inoltre esservi dubbio sul fatto che la lamentata riduzione dei trasferimenti statali non possa essere ragionevolmente presa in considerazione ai fini del superamento del limite che, peraltro, nel tempo è stato incrementato fino al 50% a fronte di uno speculare principio di riduzione della spesa del personale introdotto fin dal 2006.
È allora chiaro che
una corretta programmazione del fabbisogno di personale, così come disposto dall’art. 91 del TUEL, consente ed anzi impone di adottare tutte le misure per poter adempiere agli obblighi derivanti anche dall’art. 97 del TUEL.

La Sezione pertanto ritiene, come in analoga fattispecie di cui al parere n. 136/2012, più volte richiamato, “che non possa essere fatto oggetto di richiesta di parere il contemperamento di norme astrattamente non incompatibili ma che, in via di fatto, risultino tali unicamente in conseguenza della violazione, a monte, dell’obbligo di programmare correttamente l’andamento delle spese attraverso gli strumenti sopra richiamati” (Corte dei Conti, Sez. controllo Molise, parere 05.06.2013 n. 20).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIModalità di ricorso agli strumenti offerti dal MEPa-Consip - l’obbligo di ricorrere agli strumenti di approvvigionamento va mitigato ogni qual volta il ricorso all’esterno persegue la ratio di contenimento della spesa pubblica.
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Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla Sezione, con nota prot. n. 5548/1.13.9 del 25.03.2013, una richiesta di parere formulata dal Sindaco del Comune di Chiesina Uzzanese contenente una serie di quesiti in materia di acquisto di prodotti e servizi.
In particolare chiede:
1. se sia possibile per l’ente rientrare nel concetto di amministrazione dello Stato di cui all’art. 1, comma 6 del d.l. n. 95/2012, convertito dalla L. n. 135/2012, come modificato dall’art. 1, comma 153, della L. n. 288/2012, e, pertanto, stipulare direttamente contratti con fornitori non inseriti fra quelli presenti su Consip qualora gli stessi vengano contratti a prezzi più bassi da quelli derivanti dal rispetto dei parametri di qualità e di prezzo messi a disposizione da Consip spa;
in caso di risposta negativa:
2. se sia sempre obbligatorio per l’ente utilizzare gli strumenti offerti da Consip spa o dalle centrali di committenza ovvero sia possibile per l’ente, nel caso in cui l’ordinativo minimo richiesto da Consip sia superiore alle necessità, procedere a procedura fuori da tali canali;
3. se sia possibile per l’ente, dopo aver individuato il fornitore su Consip o nelle centrali di committenza, procedere direttamente con lo stesso per l’adattamento dell’offerta fuori del mercato elettronico;
4. se sia possibile ricorre a fornitore esterno alle centrali di committenza o a Consip che proponga un prezzo più basso a parità di caratteristiche quali-quantitative;
5. se sia possibile evitare il ricorso al MEPA e alle centrali uniche di committenza nel caso di acquisti di beni o servizi siano di importo inferiore a 40.000 euro.
...
Nel merito, l’art. 1, comma 1, del d.l. n. 95/2012, convertito dalla L. n. 135/2012, come modificato dall’art. 1, comma 153, della L. 288/2012 (con decorrenza dal 01.01.2013) recita: “i contratti stipulati in violazione dell'articolo 26, comma 3, della legge 23.12.1999, n. 488 ed i contratti stipulati in violazione degli obblighi di approvvigionarsi attraverso gli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip S.p.A. sono nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di responsabilità amministrativa. Ai fini della determinazione del danno erariale si tiene anche conto della differenza tra il prezzo, ove indicato, dei detti strumenti di acquisto e quello indicato nel contratto. Le centrali di acquisto regionali, pur tenendo conto dei parametri di qualità e di prezzo degli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip S.p.A., non sono soggette all'applicazione dell'articolo 26, comma 3, della legge 23.12.1999, n. 488. La disposizione del primo periodo del presente comma non si applica alle Amministrazioni dello Stato quando il contratto sia stato stipulato ad un prezzo più basso di quello derivante dal rispetto dei parametri di qualità e di prezzo degli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip S.p.A., ed a condizione che tra l'amministrazione interessata e l'impresa non siano insorte contestazioni sulla esecuzione di eventuali contratti stipulati in precedenza”.
La norma nella sua prima parte fa rinvio all’art. 26, comma 3, della L. 488/1999, che prescrive la possibilità per le amministrazioni pubbliche di ricorrere alternativamente alle convenzioni stipulate dal Ministero dell’Economia e delle Finanze ovvero di utilizzarne “i parametri di prezzo-qualità, come limiti massimi, per l'acquisto di beni e servizi comparabili oggetto delle stesse, anche utilizzando procedure telematiche”, prescrivendo la responsabilità amministrativa in caso di stipulazione di un contratto in violazione della norma suddetta.
Dall’analisi della formulazione dell’art. 1, comma 1, del d.l. n. 95/2012, che sancisce la responsabilità amministrativa in caso di alternativa violazione dell’art. 26 (appena citato) o dell’obbligo di rivolgersi a Consip, vien da sé che non esiste un obbligo generalizzato di rivolgersi alla Consip per qualunque tipo di acquisto o di prestazione, ma la prescrizione va letta alla luce delle altre disposizioni normative sulla materia.
Difatti il comma 1 dell’art. 1 del d.l. 95/2012 citato va combinato con il comma 7 del medesimo articolo che prescrive che “Fermo restando quanto previsto all'articolo 1, commi 449 e 450, della legge 27.12.2006, n. 296, e all'articolo 2, comma 574, della legge 24.12.2007, n. 244, quale misura di coordinamento della finanza pubblica, le amministrazioni pubbliche e le società inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196, a totale partecipazione pubblica diretta o indiretta, relativamente alle seguenti categorie merceologiche: energia elettrica, gas, carburanti rete e carburanti extra-rete, combustibili per riscaldamento, telefonia fissa e telefonia mobile, sono tenute ad approvvigionarsi attraverso le convenzioni o gli accordi quadro messi a disposizione da Consip S.p.A. e dalle centrali di committenza regionali di riferimento (…)”.
Dal combinato dei due commi si deduce che l’obbligo di rivolgersi alla Consip spa per l’acquisto di beni e servizi, da parte delle pubbliche amministrazioni, tra le quali gli enti locali, sussiste solo in riferimento alle diverse tipologie merceologiche elencate nel comma 7, di conseguenza nelle restanti ipotesi vige il residuo sistema di approvvigionamento dettato dalla legge che, come richiamato dal comma 7 sopra riportato, trova il suo fondamento, oltre che nell’art. 26 della l. n. 488/1999, nei commi 449 e 450 dell’articolo 1 della L. 296/2006 (legge finanziaria per il 2007).
In particolare il comma 449 prescrive che “(…) tutte le amministrazioni statali centrali e periferiche, ivi compresi gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado, le istituzioni educative e le istituzioni universitarie, sono tenute ad approvvigionarsi utilizzando le convenzioni-quadro. Le restanti amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, possono ricorrere alle convenzioni di cui al presente comma e al comma 456 del presente articolo, ovvero ne utilizzano i parametri di prezzo-qualità come limiti massimi per la stipulazione dei contratti.”
Il comma 450 prescrive: “Dal 01.07.2007, le amministrazioni statali centrali e periferiche, ad esclusione degli istituti e delle scuole di ogni ordine e grado, delle istituzioni educative e delle istituzioni universitarie, per gli acquisti di beni e servizi al di sotto della soglia di rilievo comunitario, sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all'articolo 328, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207. Fermi restando gli obblighi e le facoltà previsti al comma 449 del presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328 ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle relative procedure.”
Tanto premesso, in risposta al primo quesito, un comune non può considerarsi rientrante nel novero delle “Amministrazioni dello Stato” ritenute esenti dall’applicazione del primo periodo della norma di cui all’art. 1, comma 1, del d.l. 95/2012 nelle ipotesi in cui “il contratto sia stato stipulato ad un prezzo più basso di quello derivante dal rispetto dei parametri di qualità e di prezzo degli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip S.p.A..
A sostegno di tale assunto si pone il significato letterale della norma che nello stabilire che “La disposizione del primo periodo del presente comma non si applica alle Amministrazioni dello Stato” destina la possibilità di deroga alle amministrazioni rientranti nello Stato, secondo l’accezione di cui all’art. 114 della Costituzione, laddove se il legislatore avesse voluto destinare la facoltà derogatoria a tutte le amministrazioni lo avrebbe chiaramente indicato con una formulazione differente, come variamente riportato nelle altre disposizioni normative in materia.
La risposta ai successivi quesiti (2, 3, 4 e 5), investe la possibilità di derogare agli obblighi descritti nei confronti di Consip e MEPA in presenza di fattispecie specifiche illustrate dall’ente richiedente.
In merito ai quesiti 2 e 3, che per semplicità vengono trattati cumulativamente, il collegio non può che sottolineare la cogenza delle norme riportate (nelle ipotesi e con le modalità in cui si applicano al comune richiedente) ed evidenziare che le possibili deroghe -dettate da casistiche specifiche– alle procedure dettate in tema di approvvigionamento di beni e servizi non possono essere oggetto di trattazione ed interpretazione nell’ambito dell’attività consultiva delle Sezioni regionali della Corte dei conti, ma troverebbero miglior collocazione nelle sedi a ciò destinate (sede legislativa e, soprattutto, convenzionale).
In merito al quesito numero 4, il collegio sottolinea che la questione trova risposta analizzando la ratio sottesa alle norme sopra riportate in cui i principi di economicità e di efficienza perseguiti dalle norme sopra riportate si rinvengono in diversi punti. In particolare l’art. 1, comma 7 del d.l. n. 95/2012, convertito dalla l. 135/2012, nel fare salvo “quanto previsto all'articolo 1, commi 449 e 450, della legge 27.12.2006, n. 296” lascia inalterata la norma di cui al comma 449 ivi citato che espressamente prevede che “Le restanti amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, possono ricorrere alle convenzioni di cui al presente comma e al comma 456 del presente articolo, ovvero ne utilizzano i parametri di prezzo-qualità come limiti massimi per la stipulazione dei contratti”; in tal senso l’obbligo di ricorrere agli strumenti di approvvigionamento descritti va mitigato ogni qual volta il ricorso all’esterno persegue la ratio di contenimento della spesa pubblica contenuta nella norma.
Del resto la tabella stilata da Consip-MEF “Tabella Obbligo-Facoltà dal 01.01.2013 - Strumenti del Programma di razionalizzazione degli acquisti” è chiara nello stabilire, in riferimento alle amministrazioni territoriali non regionali, la possibilità di operare “acquisti autonomi a corrispettivi inferiori a quelli delle convenzioni Consip e della CAT di riferimento” anche in riferimento alle tipologie merceologiche di cui al comma 7 più volte citato.
In risposta al quinto quesito in riferimento al ricorso al sistema MePA, la tabella stilata da Consip-MEF “Tabella Obbligo-Facoltà dal 01.01.2013 - Strumenti del Programma di razionalizzazione degli acquisti” è chiara nello stabilire, in riferimento alle amministrazioni territoriali non regionali, sancisce l’obbligo, sottosoglia comunitaria, di “ricorso al MePA o altri mercati elettronici (proprio o della CAT di riferimento) o sistema telematico della CAT di riferimento ovvero ricorso alle convenzioni Consip; in caso di assenza, facoltà di utilizzo degli AQ Consip e dello SDAPA (con obbligo di rispetto del benchmark Consip)”, nonché, in riferimento alle tipologie di cui al comma 7 più volte citato, prescrive la possibilità di “acquisti autonomi a corrispettivi inferiori a quelli delle convenzioni Consip e della CAT di riferimento”.
Nelle sopra esposte considerazioni è il parere della Corte dei conti –Sezione regionale di controllo per la Toscana- in relazione alla richiesta formulata dal Consiglio delle autonomie con nota prot. n. 5548/1.13.9 del 25.03.2013 (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 30.05.2013 n. 151).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Responsabilità da parte degli amministratori per il riconoscimento dei debiti fuori bilancio.
Il riconoscimento del debito non può inglobare l’utile di impresa.
E’ fondata la pretesa di parte attrice, che ha fondatamente rilevato la sussistenza di un danno erariale da ricollegare all’illegittimo riconoscimento di un importo da qualificare come “utile di impresa”, privo di qualsiasi utilità per l’Ente locale.
Invero in fattispecie relativa a “acquisizione di beni o servizi a favore di un ente locale -illegittima sotto il profilo sostanziale (nella fattispecie, perché promanante da soggetto non legittimato) e sotto il profilo contabile (nella fattispecie, perché mancante di atto di impegno contabile)– può essere ipotizzato un “ingiusto” danno erariale nel caso di riconoscimento del debito oltre i limiti del consentito (nel caso di specie oltre l’effettivo arricchimento dell’ente) o in mancanza dei presupposti di riconoscibilità del debito stesso, atteso che la ricognizione di debito della pubblica amministrazione non ha valore di autonoma fonte di obbligazione per l’ente verso il terzo, e non sana vizi originari del rapporto obbligatorio (ad esempio: la mancanza di delibera di conferimento dell’incarico, stipulazione di contratto senza forma scritta) ma solo la mancanza di atto di impegno, per cui, in mancanza di regolare contratto, il terzo non ha azione contrattuale verso l’ente.
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Costituisce senz’altro danno ingiusto il pagamento -a titolo di debito fuori bilancio-:
a) delle somme richieste per prestazioni…non collegate all’esercizio di funzioni o servizi di competenza dell’ente;
b) delle somme cui non corrisponda un “arricchimento” dell’ente, nel senso precisato dall’art. 2041 cod. civ., ovvero di somme rispetto alle quali non vi sia diritto all’indennizzo del privato, in particolare:
   aa) somme cui non corrisponda un beneficio per l’ente stesso, ad esempio le spese eccedenti il valore della prestazione resa (ovvero la differenza tra quanto effettivamente pagato e la somma congrua rispetto al prezzo di mercato, o al prezzo imposto da atti normativi, della prestazione) o le spese legali sostenute dal privato per il pagamento delle prestazioni rese;
   bb) somme cui non corrisponde una diminuzione patrimoniale del privato (danno emergente), ma un mancato utile del privato stesso (lucro cessante) ad esempio interessi e rivalutazione, utile di impresa.

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Nel merito, deve essere innanzitutto valutata la pretesa attorea con riferimento al danno derivante dal riconoscimento di danno in violazione di legge (per la quota eccedente gli importi riconoscibili).
In relazione a tale pretesa, il Giudicante si riporta integralmente alla propria giurisprudenza (cfr. sent. n. 30/2009): “Nell’ordinamento degli enti locali, le obbligazioni contratte per acquisto di beni o servizi senza atto di impegno contabile registrato sul competente capitolo di bilancio ovvero senza attestazione di copertura finanziaria non vincolano l’amministrazione, bensì intercorrono tra il terzo e l’amministratore o funzionario che le ha stipulate e/o ne ha consentito la esecuzione (art. 23 D.L. n. 66/1989, riprodotto nell’art. 37 D.Lgs. n. 77/95 e nell’art. 191 D.Lgs. n. 267/2000; nell’ordinamento del Trentino Alto Adige cfr. il combinato disposto dell’art. 2, comma 1, e dell’art. 19, comma 3, D.P.G.R. - T.A.A. 28.5.1999, n. 4/L come modificato dal D.P.Reg. -T.A.A. n. 4/L 1.2.2005, testo unico che recepisce l’art. 17, commi 27 segg. L.R. T.A.A. n. 10 del 23.10.1998). Nelle ipotesi di “somma urgenza” (art. 191, cit.) o di “urgenza” “per evento eccezionale e imprevedibile” (art. 191 e 19, comma 3, citati), la mancanza dell’atto di impegno può essere ratificata entro 30 giorni o comunque entro il 31 dicembre dell’anno in corso qualora non sia scaduto il predetto termine; ma “in caso di mancata regolarizzazione dell’ordinazione entro i termini stabiliti, il rapporto obbligatorio intercorre (…) tra il privato fornitore e l’amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura o la prestazione” (cfr. articoli 191 e 19 sopra citati, da cui si desume chiaramente la perentorietà del termine).”
Soggiunge questa medesima Sezione (cfr. sent. cit.) che “con l’art. 5 D.Lgs. n. 342/1997 (modificativo dell’art. 37 D.Lgs. n. 77/1995) poi recepito nell’art. 193, comma 4, e nell’art. 194, lett. e) del D.Lgs. n. 267/2000 (cui corrispondono esattamente, nell’ordinamento locale, gli artt. 19, comma 3, e 21, lett. f), D.P.G.R. n. 4/L del 28.05.1999 citato e l’art. 17, commi 29 e 35, L.R. T.A.A. n. 10 del 23.10.1998), si è prevista la possibilità per il Consiglio dell’ente di riconoscere con propria delibera i debiti fuori bilancio nei confronti dei terzi, dovuti all’acquisto di beni e servizi senza previo atto di impegno (o senza ratifica nei casi di somma urgenza), “nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza” [artt. 194, lett. e) e 21, lett. f) citati], stabilendosi altresì che il rapporto obbligatorio intercorre tra terzo ed amministratore, funzionario o dipendente solo “per la parte non riconoscibile” dall’ente con la delibera predetta (art. 193 comma 4 e 19 citati); donde si desume che, per la parte “riconoscibile” (anche se non ancora “riconosciuta” espressamente dall’ente), il terzo non ha azione nei confronti del funzionario e, perciò, può esperire azione di arricchimento nei confronti della pubblica amministrazione.
In merito a tali disposizioni, la Corte di cassazione -in sede civile- ha precisato quanto segue:
   a) Ai sensi dell’art. 1988 c.c., la ricognizione di debito della pubblica amministrazione non ha valore di autonoma fonte di obbligazione per l’ente verso il terzo, e non sana vizi originari del rapporto obbligatorio (ad esempio: la mancanza di delibera di conferimento dell’incarico, stipulazione di contratto senza forma scritta) ma solo la mancanza di atto di impegno, per cui, in mancanza di regolare contratto, il terzo non ha azione contrattuale verso l’ente (in tal senso cfr. Sez. I, sent. n. 7966 del 27.03.2008, Sez. 3, sent. n. 27406 del 18.11.2008).
   b) Tale ricognizione di debito, tuttavia, consente al privato di esperire “un’azione di indebito arricchimento, in precedenza non consentita, nei limiti del riconoscimento dell’utilità della prestazione e dell’arricchimento per l’ente che, quindi, non resta obbligato per la parte di compenso non riconoscibile, dovendo di questa rispondere direttamente chi ha consentito la fornitura” (Sez. I, sent. n. 7966 del 27.03.2008).
   c) Infatti, premesso che ai sensi dell’art. 4 della legge n. 2248, all. E del 1865 il giudizio circa l’“arricchimento” della pubblica amministrazione “è riservato esclusivamente alla pubblica amministrazione e non può essere effettuato dal giudice ordinario, che può solo accertare se e in quale misura l’opera o la prestazione del terzo siano state effettivamente utilizzate”, ne consegue che “l’azione di indebito arricchimento nei confronti della pubblica amministrazione differisce da quella ordinaria, in quanto presuppone non solo il fatto materiale dell’esecuzione di un’opera o di una prestazione vantaggiosa per l’Amministrazione stessa, ma anche il riconoscimento, da parte di questa, dell’utilità dell’opera o della prestazione”.
“Tale riconoscimento, che sostituisce il requisito dell’arricchimento previsto dall’art. 2041 cod. civ. nei rapporti tra privati, può avvenire in maniera esplicita, cioè con un atto formale, oppure può risultare in modo implicito da atti o comportamenti della pubblica amministrazione” (in specie, l’utilizzo di fatto della prestazione: Sez. 1, sent. n. 16596 del 18.06.2008) “dai quali si desuma inequivocabilmente un effettuato giudizio positivo circa il vantaggio o l’utilità della prestazione, promanante da organi rappresentativi dell’amministrazione interessata, mentre non può essere desunta dalla mera acquisizione e successiva utilizzazione della prestazione stessa” (in tal senso, Sez. 3, n. 25156 del 14.10.2008, che conferma Sez. 1, sent. n. 16595 del 18.06.2008, Sez. 2, sent. n. 2312 del 31.01.2008 Sez. 2, sent. n. 2312 del 31.01.2008; in senso contrario si registra solo Sez. 3, sent. n. 11597 del 31.05.2005, che afferma la necessità di un riconoscimento espresso con apposita delibera dell’ente della utilità della prestazione ex art. 35 D.Lgs. n. 77 del 1995 e succ. modd.).
   d) In ogni caso, ai sensi dell’art. 2041 cod. civ., l’indebito arricchimento va indennizzato nei limiti, da un lato, dell’effettivo arricchimento del beneficiato, dall’altro alla “diminuzione patrimoniale” subita dal soggetto impoverito, e quindi non può comprendere il lucro cessante che sarebbe spettato a quest’ultimo se fosse stata contratta una valida obbligazione, ma solo la diminuzione patrimoniale da lui subita (Sez. Un., sent. n. 1875 del 27.01.2009); onde in tal caso l’indennizzo può essere liquidato con riferimento a parametri diversi dal prezzo di mercato della prestazione (ad esempio, l’arricchimento della p.a., per la partecipazione di un professionista ad una commissione comunale per gare, può essere liquidato con riferimento non alla tariffa professionale ma al gettone di presenza degli altri componenti: Cass. Civ. Sez. Un. ult. cit.) e non spettano altre voci di lucro cessante come la revisione prezzi (Sez. Un, sent. n. 23385 dell’01.09.2008)
.”
Ritiene di conseguenza il Giudicante, in aderenza ai propri orientamenti interpretativi, che in fattispecie relativa a “acquisizione di beni o servizi a favore di un ente locale -illegittima sotto il profilo sostanziale (nella fattispecie, perché promanante da soggetto non legittimato) e sotto il profilo contabile (nella fattispecie, perché mancante di atto di impegno contabile)- un “ingiusto” danno erariale può essere ipotizzato….in mancanza dei suddetti presupposti di riconoscibilità del debito (strumentalità della prestazione fuori bilancio all’esercizio di funzioni o di servizi di competenza dell’ente, riconoscimento dell’utilità della prestazione, nel senso di rispondenza agli obiettivi dell’amministrazione, arricchimento dell’ente, nel senso di locupletazione dell’altrui danno ex art. 2041 cod. civ.)”.
Pertanto, costituisce senz’altro danno ingiusto il pagamento -a titolo di debito fuori bilancio-:
a) delle somme richieste per prestazioni…non collegate all’esercizio di funzioni o servizi di competenza dell’ente;
b) delle somme cui non corrisponda un “arricchimento” dell’ente, nel senso precisato dall’art. 2041 cod. civ., ovvero di somme rispetto alle quali non vi sia diritto all’indennizzo del privato, in particolare:
   aa) somme cui non corrisponda un beneficio per l’ente stesso, ad esempio le spese eccedenti il valore della prestazione resa (ovvero la differenza tra quanto effettivamente pagato e la somma congrua rispetto al prezzo di mercato, o al prezzo imposto da atti normativi, della prestazione: Corte dei conti, Sez. II, n. 44 del 12.02.2003; Sez. T.A.A., sede di Trento, n. 12 del 07.02.2006 e n. 24 del 05.04.2006) o le spese legali sostenute dal privato per il pagamento delle prestazioni rese;
   bb) somme cui non corrisponde una diminuzione patrimoniale del privato (danno emergente), ma un mancato utile del privato stesso (lucro cessante) ad esempio interessi e rivalutazione, utile di impresa
”.
Si manifesta quindi munita di giuridico pregio la pretesa di parte attrice, che ha fondatamente rilevato la sussistenza di un danno erariale da ricollegare all’illegittimo riconoscimento di un importo da qualificare come “utile di impresa”, privo di qualsiasi utilità per l’Ente locale (tratto da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 27.05.2013 n. 27).

TRIBUTINiente Tarsu su garage, cantine e pertinenze. La corte conti Abruzzo sconfessa un consolidato orientamento giurisprudenziale.
La tassa smaltimento rifiuti solidi urbani (Tarsu) non è dovuta sui locali destinati a garage, cantine, solai e altri locali accessori o pertinenziali di abitazioni.

Questa è la conclusione a cui è recentemente giunta la sezione regionale di controllo dell'Abruzzo della Corte dei conti, con il parere 25.03.2013 n. 24.
Un comune abruzzese aveva investito la sezione regionale competente di alcune questioni riguardanti l'applicazione della Tarsu, chiedendo se fosse possibile non applicare sanzioni ed interessi in relazione al recupero del tributo calcolato sulle superfici di locali accessori o pertinenziali di case di civile abitazione, non dichiarate a seguito di indicazioni verbali all'epoca fornite dall'ufficio competente e di provvedere contemporaneamente al rimborso delle somme già pagate a tale titolo da taluni contribuenti destinatari di avvisi di accertamento definiti con adesione.
A parere dei magistrati contabili abruzzesi la richiesta dell'ente merita accoglimento, poiché non è possibile irrogare sanzioni e richiedere interessi su di un tributo non dovuto, in quanto i locali accessori di abitazioni non sono soggetti alla Tarsu. Per giungere a tale conclusione vengono invocate alcune sentenze della Ctr Sicilia per le quali la tassa sui rifiuti non è dovuta per i locali accessori di abitazioni (es. sentenza, sez. di Catania, n. 483/34/11).
La decisione si basa sul contenuto della circolare del min. Finanze n. 95/E/1994, secondo la quale «devono considerarsi esclusi dal calcolo della superficie rilevante per l'applicazione della tassa sui rifiuti urbani quei locali il cui uso è del tutto saltuario ed occasionale e nei quali comunque la presenza dell'uomo è limitata temporalmente a sporadiche occasioni e a utilizzi marginal». Da qui i giudici siciliani hanno concluso che il garage privato è luogo adibito al ricovero di uno o più veicoli e quand'anche la persona vi si trattenga per tempi non brevi, non è plausibile ipotizzare che ne derivino rifiuti.
I magistrati della Sezione regionale di controllo dell'Abruzzo sembrano però non condividere l'ormai consolidato orientamento contrario sia della prassi che della giurisprudenza. L'art. 62, comma 1, del dlgs 507/93 stabilisce che sono soggetti al tributo tutti i locali e le aree scoperte occupati o detenuti, a qualsiasi uso adibiti, a esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni diverse dalle aree a verde, esistenti nel territorio comunale. Il successivo comma 2 esonera dall'applicazione della tassa i locali e le aree che non possono produrre rifiuti per la loro natura, per il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel corso dell'anno, qualora tali circostanze siano indicate nella denuncia originaria o di variazione e siano debitamente riscontrate in base ad elementi oggettivi direttamente rilevabili o da idonea documentazione.
La questione è stata affrontata dalla Corte di cassazione la quale, tuttavia, è giunta a conclusioni opposte a quelle della Sezione regionale di controllo abruzzese. La sentenza n. 2202/2011 ritiene infatti tassabili i garage e le autorimesse proprio sulla scorta del principio per il quale vi è una presunzione legale di produttività di rifiuti derivante dall'occupazione o dalla detenzione di locali ed aree, considerando che l'impossibilità di produrre rifiuti negli stessi non può essere presunta dal giudice tributario, ma è onere del contribuente indicare nella denuncia originaria o di variazione le obiettive condizioni di inutilizzabilità.
Ad analoga decisione perviene, sulla scorta dei medesimi principi, la sentenza della Suprema corte, n. 11351 del 06/07/2012, proprio cassando la sentenza n. 483/34/11 della Ctr Sicilia invocata dai magistrati abruzzesi a fondamento del loro convincimento. Anche la prassi ministeriale conferma da tempo tale orientamento. La stessa circolare n. 95/1994, a base della decisione della Corte abruzzese, non intendeva includere tra i locali non tassabili «con sporadica presenza dell'uomo» i garage, come dimostra quando evidenzia che «non è previsto alcun abbattimento per i locali a più bassa potenzialità di produzione di rifiuti rispetto alle restanti parti del complesso (es. cantina o garage a servizio di abitazioni)».
Anche le successive rm n. 149/1998 e n. 45/E/1999 ribadiscono l'applicazione del tributo sui locali accessori. In particolare la seconda evidenzia come il riferimento all'esclusione dal tributo dei locali con sporadica presenza dell'uomo, contenuto nella circ. n. 95/1994, deve intendersi riguardante le superfici caratterizzate da usi meramente occasionali e nettamente distanziati nel tempo diversi da quelli domestici e come la tariffa relativa alle abitazioni è già una tariffa media, che tiene conto della minore potenziale produzione di rifiuti dei locali accessori. Le medesime conclusioni valgono oggi per la Tares, data la sostanziale coincidenza del presupposto impositivo (articolo ItaliaOggi del 19.07.2013).

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGOIncarichi esterni ad alto rischio. Affidamenti con concorso e se mancano professionalità. Per la Corte conti della Campania sussistono gli estremi per la responsabilità erariale.
È fonte di danno erariale la nomina di un funzionario esterno con contratto stipulato ai sensi dell'art. 110, c. 1, dlgs. n. 267/2000, in assenza dei presupposti che legittimano la scelta, e delle procedure selettive pubbliche e trasparenti, in presenza di professionalità interne confacenti alle esigenze organizzative, ma ritenute «ostili» alla politica.

Lo ha argomentato la Corte dei conti, sez. giurisdizionale per la Campania, che con sentenza 31.01.2013 n. 138 ha condannato il sindaco di un comune al pagamento del danno erariale in favore del comune amministrato, per avere conferito un incarico a un professionista esterno a copertura del posto di responsabile del servizio finanziario, pur in presenza del responsabile interno della struttura.
A viziare insanabilmente il provvedimento di individuazione avrebbero concorso almeno quattro circostanze:
1. la mancata previsione dell'assunzione ex art. 110 c. 1 Tuel all'interno della programmazione annuale del fabbisogno di personale, documento autorizzatorio obbligatorio rispetto a qualsivoglia tipologia di assunzione;
2. la sussistenza di un impedimento di non poco conto relativo alla persona dell'incaricato esterno e consistente nella titolarità in capo al medesimo di un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato presso altro comune;
3. la violazione di una norma statutaria che consentiva, in coerenza con una serie di principi normativi contenuti nel dlgs n. 165/2001, l'assunzione di professionalità esterne all'ente unicamente nel caso di mancanza di professionalità interne equivalenti;
4. il mancato previo esperimento di una procedura selettiva pubblica.
La procura contabile ha ritenuto le condizioni evidenziate elementi sintomatici di una volontà dichiaratamente arbitraria del sindaco, finalizzata alla rimozione di un funzionario non gradito, in aperto contrasto con un principio di rilievo costituzionale (separazione tra politica e amministrazione) posto a presidio dell'imparzialità e della sana gestione della cosa pubblica. I rilievi della procura contabile sono stati accolti dal collegio che ha ritenuto sussistenti in capo al sindaco tutti gli elementi tipici della responsabilità amministrativa e lo ha condannato alla refusione del nocumento erariale procurato all'ente.
Il principio di separazione tra politica e gestione (oggi sancito nell'art. 4 del dlgs n. 165/01), è proposito risalente nell'operato del legislatore italiano ed è dogma che ha trovato affermazione anche in ambito comunitario. Da anni sul tema si avvicendano una moltitudine di riforme tutte finalizzate a rendere operativi postulati già normati, ma la prassi amministrativa italiana ha registrato, nel tempo, costanti ingerenze della classe politica nell'ambito di decisioni squisitamente tecniche; consuetudine che persiste nonostante più volte censurata dalla giurisprudenza amministrativa e costituzionale.
Nell'ultimo decennio, la riforma della p.a. italiana ha, infatti, gradualmente ridotto, sin quasi all'eliminazione, ogni competenza gestionale in capo all'organo politico, nel convincimento che le decisioni sulla gestione della cosa pubblica debbano essere adottate in piena autonomia dai dirigenti. Solo i tecnici possiedono una professionalità corrispondente alle funzioni disimpegnate e non sono esposti ai condizionamenti dell'elettorato. Le leggi che via via si sono occupate di riformare la dirigenza pubblica in Italia hanno dilatato le distanze tra tecnici e politici, anche mediante l'introduzione obbligatoria di meccanismi di scelta selettivi e meritocratici, ecco che la prassi infligge ancora sonore smentite a quello che a oggi resta, nonostante i buoni propositi del legislatore, un principio scritto ma poco praticato.
Anche la legge delega (legge 15/2009) all'art. 6 contempla principi e criteri in materia di dirigenza pubblica dettati «al fine di rafforzare il principio di distinzione tra le funzioni di indirizzo e controllo e le funzioni di gestione amministrativa spettanti alla dirigenza regolando il rapporto tra organi di vertice e dirigenti in modo da garantire la piena e coerente attuazione dell'indirizzo politico degli organi di governo in ambito amministrativo».
E la circostanza che la legge nel 2009 sia dovuta tornare sull'argomento a distanza di vent'anni attraverso la revisione delle disciplina degli incarichi dirigenziali è sintomatico del fatto che tutto il quadro normativo esistente si è rivelato, a conti fatti, del tutto inadeguato (articolo ItaliaOggi del 19.07.2013).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Sospensione se c'è reato. Delitto tentato, il sindaco resta in carica. Cassazione: la misura si applica solo se l'illecito è consumato.
Per un sindaco di un comune è applicabile la sospensione di diritto prevista dall'art. 11, comma 1, del dlgs 31.12.2012, n. 235 (che ha sostituito l'abrogato l'art . 59 Tuel)?

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 1990 del 2003, ha escluso l'applicabilità dell'art. 59 Tuel a seguito della condanna di primo grado pronunciata nei confronti di un amministratore locale per il reato di tentata concussione, in quanto reato autonomo, non può essere assimilato al corrispondente delitto consumato, sola causa di sospensione dell'eletto prevista dal citato art. 59.
Il giudice di legittimità ha specificato in particolare che la predetta sospensione automatica dalle cariche elettive, in ragione della commissione di delitti da parte di pubblici ufficiali, non può essere disposta dall'autorità competente quando l'eletto sia risultato autore di un delitto tentato (nella specie, tentata concussione), atteso che alla luce del quadro normativo allora vigente che ha svincolato l'istituto della sospensione dalla carica elettiva dalle ipotesi delittuose residuali stabilite dall'art. 58, comma 1, lett. c.) del Tuel, tale tipo di illecito penale rileva solo ai fini della «decadenza» dell'eletto e non già anche in relazione alla sua sospensione cautelare dalla carica elettiva.
Considerato che il Testo unico di cui al dlgs 31.12.2012, n. 235, che pure ha ampliato la casistica delle ipotesi d'incandidabilità rispetto a quanto previsto dagli artt. 58 e 59 del Tuel, sullo specifico profilo non ha innovato rispetto alla normativa preesistente, si ritiene che i principi elaborati dalla giurisprudenza trovino tuttora applicazione.
Si evidenzia che, quando il legislatore ha voluto prevedere delle differenze nel regime delle incandidabilità, le ha espressamente introdotte, sia per gli amministratori degli enti locali (cfr. art. 10, comma 1, lettera b), sia per le altre cariche ivi contemplate, a seconda dei livelli di rappresentatività – per i deputati e i senatori (art. 1), per i membri del Parlamento europeo (art. 4), per coloro che ricoprono incarichi di governo (art. 6), e per coloro che ricoprono cariche elettive regionali (art. 7).
Anche in sede di documentazione della Camera dei deputati – XVI legislatura, per l'esame dello schema del decreto legislativo in questione (Atti del governo n. 465 del 18/12/2012), si registra «che nei delitti contro la p.a. non è stata riprodotta la specificazione sui delitti consumati o tentati, presente invece nella formulazione che si applica alle cariche regionali».
Quanto ai profili degli effetti dell'indulto, si può richiamare una recente sentenza della Corte di cassazione (Cfr. Cass. civ., sez. I, sent. n. 13831 del 27/05/2008) secondo la quale, ai fini del venir meno della causa d'incandidabilità, non assume rilievo il fatto che la condanna si stata soggetta ad eventuale sospensione condizionale (che l'art. 166 c.p. estende anche alle pene accessorie) – poiché l'incandidabilità non è un aspetto de trattamento sanzionatorio penale del reato, ma si traduce nel difetto di un requisito soggettivo per l'elettorato passivo; né tale assetto risulta in contrasto con alcun parametro costituzionale, come già stabilito dalla Corte costituzionale con sentenza n. 132 del 2001 (articolo ItaliaOggi del 19.07.2013).

TRIBUTI: Regolamento COSAP sui passi carrabili, quando è facoltativo il pagamento?
Domanda
Il regolamento COSAP sui passi carrabili distingue i passi carrabili con opere (quali tagli nei marciapiedi, scivoli, rampe, copertura di fossi o modifiche per facilitare l'accesso alla proprietà privata) per i quali è previsto il pagamento del COSAP e i passi carrabili a raso per i quali il pagamento del COSAP è facoltativo (Cass. civ. Sez. V, 27.07.2007, n. 16733).
Un cittadino dice che il suo passo carrabile, davanti al quale vi è un marciapiede ab origine "basso" non modificato con rampa di accesso, scivolo o altro e che non ha subito tagli, è a raso.
Il Comune ritiene che il cittadino debba pagare il COSAP siccome il marciapiede ai sensi del C.d.S. [art. 3, comma 1 p. 33)] è parte della strada, esterna alla carreggiata, destinata ai pedoni sul quale è vietata la sosta e la circolazione dei veicoli ed è un'opera visibile che rende certa la superficie sottratta all'uso pedonale quando viene attraversato con l'auto anche se non ha subito modifiche o tagli davanti l'accesso.
L'interpretazione del Comune è corretta?
Risposta
La tesi del Comune non è condivisibile in quanto la questione non è legata all'esistenza o meno del marciapiede, secondo la definizione dell'art. 3, comma 1, del D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, ma alla circostanza che sussista un manufatto che, di fatto, occupi il suolo pubblico a vantaggio di un privato. In altre parole è la modifica (la c.d. "opera visibile") del marciapiede stesso a creare il presupposto oggettivo della "tassabilità", non l'accessibilità del privato che dispone del varco.
Si tenga conto del fatto che è lo stesso Comune ad aver disciplinato nel proprio Regolamento la definizione di passo carraio a raso [art. 38, comma 2, lett. b)] e ad aver previsto (art. 45) la tassabilità solo in presenza di richiesta di apposizione del cartello.
Peraltro chi scrive ritiene che la disciplina del COSAP, diversamente da quella della TOSAP, non consenta, in punto diritto, la tassazione dei passi carrai a raso in quanto sic et simpliciter segnalati da cartello. Ciò perché l'art. 63 del D.Lgs. 15.12.1997, n. 446 non prevede nulla a riguardo, diversamente da quanto stabilito al comma 8 dell'art. 44 del D.Lgs. 15.11.1993, n. 507 che ne legittima l'imposizione ma che nel contempo è norma che risulta evidentemente una deroga al principio di tassabilità soltanto nei casi di effettive occupazioni di suolo pubblico.
Lo strumento corretto per pretendere una prestazione patrimoniale nei casi di passi a raso con cartello nei Comuni che hanno abbandonato la tassa dovrebbe essere, ad avviso di chi scrive, il canone ex art. 27 del D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, in quanto il presupposto non è soltanto l'occupazione (che qui non c'è), ma anche l'uso (comma 7 dell'art. 27 e art. 22) (17.07.2013 - tratto da www.ipsoa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Demansionamento.
Domanda
La pubblica amministrazione è tenuta al risarcimento del danno in caso di totale demansionamento del dipendente?
Risposta
La pubblica amministrazione si rende inadempiente quando non assegna al dipendente alcuna mansione per un prolungato periodo di tempo o consente al dipendente, restio a svolgere mansioni di contenuto inferiore rispetto a quelle svolte in precedenza, di non svolgere alcuna mansione.
È vero che l'art. 52, comma 1, dlgs n. 165/2001, che sancisce il diritto alla adibizione alle mansioni per le quali il dipendente è stato assunto o ad altre equivalenti, ha recepito un concetto di equivalenza «formale», ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva (indipendentemente dalla professionalità acquisita); però ove vi sia stato, con la destinazione ad altre mansioni, il sostanziale svuotamento dell'attività lavorativa, si configura la diversa ipotesi della sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell'ambito del pubblico impiego. In tal caso il dipendente ha diritto al riconoscimento del danno, da quantificarsi in via equitativa (articolo ItaliaOggi Sette del 15.07.2013).

SICUREZZA LAVORO: Sicurezza sul lavoro.
Domanda
Il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme di sicurezza, è interamente responsabile dell'infortunio?
Risposta
Le norme dettate in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza e imprudenza dello stesso.
Ne consegue che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l'imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni, all'eventuale concorso di colpa del lavoratore.
L'imprenditore è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità e esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell'evento.
Pertanto, il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela dell'integrità fisica del lavoratore, è interamente responsabile dell'infortunio che ne sia conseguito e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo egli il dovere di proteggere l'incolumità di quest'ultimo nonostante la sua imprudenza o negligenza (articolo ItaliaOggi Sette del 15.07.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Le terre e rocce da scavo provenienti dai piccoli cantieri sono disciplinate dal D.M. n. 161/2012? (15.07.2013 - link a www.ambientelegale.it).

NEWS

APPALTIDecreto del fare. L'emendamento approvato in Commissione introduce l'obbligo di dimostrare di non avere debiti con il Fisco.
Appalti, prima il Durt poi si paga. Dal 2014 le imprese dovranno esibire il Documento unico di regolarità tributaria.

Prima di ricevere il pagamento della prestazione, le imprese appaltatrici dovranno consegnare dall'anno prossimo il nuovo Documento unico di regolarità tributaria (Durt).
Lo prevede un emendamento approvato dalle commissioni Affari costituzionali e Bilancio della Camera al decreto legge «del fare» (Dl 69/2013).
Analizzando l'emendamento, viene confermata l'abrogazione di ogni obbligo per committente e appaltatore in relazione all'Iva non versata nell'ambito della "catena" dell'appalto, semplificazione in vigore dal 22 giugno scorso. Tuttavia, per quanto riguarda le ritenute sui redditi di lavoro dipendente relative al rapporto di subappalto, in luogo dell'attuale documentazione (consistente in una asseverazione rilasciata da professionisti e Caf, ovvero, in alternativa, in un'autocertificazione del prestatore) è prevista l'acquisizione da parte dell'appaltatore presso l'agenzia delle Entrate di un documento (il Durt) attestante l'inesistenza di debiti tributari per imposte, sanzioni o interessi, scaduti e non estinti dal subappaltatore alla data di pagamento del corrispettivo o di parti di esso. Se il pagamento avviene in assenza della prescritta documentazione, scatta la responsabilità solidale dell'appaltatore per le omissioni nei versamenti delle ritenute di lavoro dovute dal subappaltatore.
Il problema è che l'agenzia delle Entrate non ha mai a disposizione dati "in tempo reale" sulle violazioni nei versamenti, per cui viene prevista l'istituzione di un portale in cui «i soggetti interessati» avranno l'obbligo di trasmettere, in via digitale, «i dati contabili e i documenti primari relativi alle retribuzioni erogate, ai contributi versati e alle imposte dovute». Se si pensa alla dimensione e alla strutturazione contabile della maggior parte dei subappaltatori, è facile immaginare che questo costituirà l'adempimento amministrativo più complesso che graverà su di loro, destinato (stando al testo normativo) a interrompersi solo con la piena attuazione delle procedure di fatturazione elettronica.
Il provvedimento attuativo del rilascio del Durt dovrebbe vedere la luce entro quattro mesi dalla conversione del Dl 69, e gli obblighi dovrebbero scattare (previo avviso da pubblicarsi sulla «Gazzetta Ufficiale») entro sei mesi dalla conversione, per cui, indicativamente, a fine gennaio 2014. Fino ad allora, si prosegue con asseverazioni e autocertificazioni, per le quali occorre comprendere se, una volta operativo il Durt, avranno ancora un ruolo o diverranno inutili.
Mentre la responsabilità riguarda le sole ritenute (peraltro relative a quel singolo appalto), il Durt è riferito indistintamente a tutti i debiti tributari, per cui il subappaltatore risulterà "non in regola" anche se non ha versato l'imposta di registro su un contratto di affitto o (se persona fisica) se ha in sospeso una cartella per oneri deducibili non documentati.
L'emendamento approvato riscrive anche il comma 28-bis dell'articolo 35 del Dl 223/2006, che si occupa dei rischi che si assume il committente per le omissioni di ritenute tanto da parte dell'appaltatore quanto del subappaltatore. Il committente paga i corrispettivi senza rischiare la sanzione (da 5mila a 200mila euro) solamente se prima ottiene dall'appaltatore il suo Durt e quello di tutti i subappaltatori di cui egli si è servito (qui la norma riferisce il Durt solo alla regolarità sulle ritenute). Rispetto alla norma vigente, questo comma contiene un inciso piuttosto nebuloso («ferma restando la responsabilità in solido ai sensi del primo periodo del comma 28») che può essere letto in due modi, entrambi negativi. Se sta a significare che la sanzione applicata al committente non elimina la responsabilità solidale dell'appaltatore, l'inciso è inutile. Qualora, invece, si intenda con ciò "trascinare" anche il committente nella solidarietà (cui si aggiungerebbe la sanzione), il peggioramento rispetto alla situazione attuale è di tutta evidenza.
Committente e appaltatore hanno diritto di sospendere il pagamento del corrispettivo fino alla consegna del Durt e che le norme nulla dispongono nel caso in cui la procedura segnali delle irregolarità tributarie del subappaltatore; è prevedibile che sia statuito l'obbligo di dirottare il pagamento alle casse erariali fino a concorrenza del debito. Ma che cosa succede se quest'ultimo deriva da un atto impositivo impugnato dal subappaltatore presso le Commissioni tributarie? (articolo Il Sole 24 Ore del 21.07.2013).

APPALTIDECRETO DEL FARE/ Alle Entrate i dati su retribuzioni, contributi e imposte.
Spauracchio Durt sulle pmi. Un'altra bega burocratica. Per essere pagati prima.
Sei mesi di tempo per la messa in funzione del Durt, il nuovo documento unico di regolarità tributaria che gli appaltatori dovranno acquisire per schivare la responsabilità solidale sulle ritenute.
Alle imprese toccherà anche comunicare periodicamente all'Agenzia delle entrate i dati contabili e i documenti primari relativi alle retribuzioni erogate, ai contributi versati e alle imposte dovute, almeno fin quando le procedure sulla fatturazione elettronica non saranno messe a regime. L'adempimento sulla carta è facoltativo, ma per chi vorrà ottenere le certificazioni in tempo reale (e quindi essere pagato rapidamente dal committente o appaltatore) sarà di fatto un obbligo.

Sono questi ulteriori elementi che emergono dall'emendamento approvato mercoledì notte dalle commissioni riunite I e V della camera, che riscrivendo l'articolo 50 del decreto Fare (69/2013) ha rivisto il regime della responsabilità fiscale negli appalti (si veda ItaliaOggi di ieri).
L'Agenzia delle entrate, di concerto con l'Inps, dovrà stabilire le modalità attuative per il rilascio del Durt, che sarà un «gemello» del Durc già previsto ai fini contributivi. Il provvedimento dovrà essere emanato entro quattro mesi dall'entrata in vigore della legge di conversione del dl n. 69/2013. Per il rilascio in via digitale e certificata del documento sarà creato un apposito portale web, anche avvalendosi del sistema Uniemens già utilizzato dall'istituto previdenziale.
Gli operatori «che vi abbiano interesse», prevede l'emendamento, potranno chiedere la registrazione al sistema. Per farlo, però, appaltatori e subappaltatori dovranno impegnarsi a comunicare all'Agenzia i dati sulle retribuzioni dei dipendenti. Le Entrate, quindi, certificheranno la regolarità della posizione tributaria del soggetto: il Durt comproverà l'inesistenza di debiti tributari per imposte, sanzioni o interessi scaduti e non ancora pagati dal subappaltatore alla data di pagamento del corrispettivo contrattuale.
Il Durt sostituirà integralmente le diverse tipologie di documenti oggi utilizzabili per disapplicare il regime di responsabilità solidale (documentazione attestante il versamento delle ritenute dei dipendenti, asseverazione della regolarità fiscale rilasciata da un professionista o da Caf, oppure autocertificazione sostitutiva dell'impresa subappaltatrice). Si ricorda che resta invece confermata l'esclusione dalla responsabilità solidale negli appalti dei versamenti Iva, come già previsto nella versione originaria del dl n. 69/2013 approdata in G.U. e attualmente in vigore. Rimane invariata pure la sanzione amministrativa da 5 mila a 200 mila euro in capo al committente, laddove questo provveda a effettuare il pagamento senza che l'appaltatore e/o subappaltatore abbiano esibito la documentazione di regolarità tributaria.
Non cambia neppure l'ambito oggettivo della disciplina: le tipologie di appalto (come definite dall'articolo 1655 del codice civile) interessate dalla normativa permangono quelle individuate dall'Agenzia delle entrate con la circolare n. 2/E del 01.03.2013 (articolo ItaliaOggi del 20.07.2013).

APPALTI: DECRETO DEL FARE/ Imposta di soggiorno anche ai comuni dell'hinterland milanese.
Appalti, una mano alle imprese. Qualificazioni Soa meno ostiche. Anticipi ai costruttori
Esteso da cinque a 10 anni il periodo di tempo al quale le imprese possono far riferimento per conseguire le attestazioni Soa, indispensabili per poter partecipare alla gare pubbliche. Mentre nei contratti di appalto relativi a lavori, disciplinati dal decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, affidati fino al 31.12.2014, in deroga ai vigenti divieti di anticipazione del prezzo, sarà possibile la corresponsione in favore dell'appaltatore di una anticipazione pari al 10 per cento dell'importo contrattuale, purché la stessa sia già prevista e pubblicizzata nella gara di appalto.

Queste alcune delle novità emergenti dal testo del decreto del fare (69 del 2013) licenziato ieri dalle commissioni Affari costituzionali e Bilancio della Camera dei deputati e pronto ad approdare in aula la settimana prossima.
Per quanto riguarda le attestazioni Soa, Tino Iannuzzi e Raffaella Mariani, deputati del Partito democratico, esprimono soddisfazione per l'approvazione del loro emendamento. «Questa norma -spiegano- era molto attesa dal mondo delle imprese operanti nel settore degli appalti pubblici. Infatti, in una fase di crisi economica così pesante e prolungata e di enorme contrazione del mercato degli appalti, è sempre più difficile per le imprese, soprattutto piccole e medie, poter ottenere le qualificazioni Soa considerando volume di fatturato e lavori eseguiti solamente negli ultimi cinque anni. Il nuovo periodo di tempo di 10 anni, introdotto dal nostro emendamento, consentirà una maggiore e proficua partecipazione delle pmi alle gare di appalto».
Ma non sono le uniche novità che hanno trovato spazio nel provvedimento. Una di rilievo riguarda i professionisti. Non solo i notai ma anche gli avvocati diventano infatti protagonisti nelle divisioni ereditarie. Nei casi di divisione a domanda congiunta, si legge nella norma approvata, quando non sussiste controversia sul diritto alla divisione né sulle quote o altre questioni pregiudiziali, gli eredi o condomini e gli eventuali creditori e aventi causa che hanno notificato o trascritto l'opposizione alla divisione possono domandare la nomina di un notaio ovvero di un avvocato con potere di autentica delle firme avente sede nel circondario al quale demandare le operazioni di divisione. La versione originaria del decreto faceva riferimento esclusivamente ai notai.
Sul piano delle amministrazioni locali legate a Expo 2015, si prevede che anche i comuni della provincia di Milano, e successivamente ricompresi nella istituenda Area metropolitana, possono istituire l'imposta di soggiorno ai sensi dell'articolo 4 del decreto legislativo 14.03.2011, n. 23. Mentre nelle zone a burocrazia zero scatterà una semplificazione dei controlli. Anzi si intenderanno addirittura non sottoposte a controllo tutte le attività delle imprese per le quali le competenti pubbliche amministrazioni non ritengano necessarie l'autorizzazione, la segnalazione certificata di inizio attività o la mera comunicazione.
Le p.a. dovranno pubblicare sul proprio sito istituzionale l'elenco delle attività soggette a controllo. La disposizione vale per le amministrazioni centrali ma le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle proprie competenze, adegueranno i propri ordinamenti alle disposizioni valide per le altre p.a. (articolo ItaliaOggi del 20.07.2013).

APPALTIAppalti, torna l'anticipazione. Via il divieto imposto dopo tangentopoli: sarà facoltativa per gli enti appaltanti.
«SEIMILA CAMPANILI» - Confermati i 100 milioni al fondo per gli interventi dei piccoli Comuni, ora si aggiungono risorse dai fondi Ue 2014-2020.

Pioggia di misure per appalti, infrastrutture, edilizia, urbanistica. Le due novità più importanti, anche politicamente, del passaggio del «decreto legge del fare» alla Camera sono l'abolizione del divieto assoluto di anticipazione negli appalti di lavori e, sul fronte dell'edilizia privata, la possibilità di utilizzare la Scia (segnalazione certificata di inizio attività) per interventi di demolizione e ricostruzione con modifica della sagoma.
Dopo lunghe discussioni, sono uscite dalle commissioni Bilancio e Affari costituzionali due norme di compromesso, la cui applicazione sarà controversa. Spazi per ulteriori correzioni ci sono nell'Aula di Montecitorio, i relatori ci stanno lavorando. Ma in entrambi i casi il principio imposto è comunque forte.
Nel caso degli appalti, l'abolizione del divieto assoluto di concedere un'anticipazione, imposto dalla legge Merloni dopo la stagione di Tangentopoli, non significa obbligo di farlo per le amministrazioni appaltanti: il ricorso allo strumento, nella misura del 10 per cento, sarà facoltativo. Il compromesso finale sconta un'opposizione molto dura dell'Anci, l'associazione dei Comuni, per cui la norma avrebbe esasperato ulteriormente i vincoli del patto di stabilità, rischiando di bloccare ulteriormente tutto il sistema dei lavori pubblici. Per la demolizione e ricostruzione con modifica della sagoma dell'edificio nei centri storici, sarà ammessa con Scia (quindi senza richiesta del permesso di costruire) solo nelle aree espressamente individuate dai Comuni. Anche qui, soluzione di mediazione fra la proposta del ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, e l'opposizione espressa soprattutto dal pd Maurizio Morassut.
La terza norma approvata dalla Camera che rafforza i segnali già presenti nel decreto legge è l'ulteriore stanziamento per l'edilizia scolastica. Ai 300 milioni di fondi Inail per un piano di manutenzione straordinaria si sommano ora altri 150 milioni che andranno, però, a un ulteriore piano che avrà prioritariamente attenzione allo smaltimento dell'amianto. Un segno politico di grande interesse per la sicurezza delle aule scolastiche, ma al tempo stesso un'esasperazione dei limiti dei piani di edilizia scolastica: ora sono cinque i veicoli, con fondi distinti, competenze distinte, procedure distinte.
Nel capitolo delle semplificazioni, versante pubblico, non si può ignorare la nuova disciplina in materia di terre e rocce da scavo. Viene introdotta una nuova procedura semplificata che sarà applicabile sia ai piccoli cantieri sotto i 6mila metri cubi di materiale estratto sia ai cantieri intermedi, non sottoposti a Via e Aia. Le imprese appaltatrici potranno utilizzare le procedure dell'articolo 184 bis del codice dell'ambiente (Dlgs 152/2006), emendato con una serie di semplificazioni che consentono di cambiare la destinazione di riutilizzo del materiale o di allungare i tempi della procedura oltre l'anno finora previsto.
Numerose correzioni anche al piano sblocca-cantieri. La più rilevante riguarda il piano «seimila campanili», il fondo per i piccoli interventi per i Comuni con meno di 5mila abitanti: confermato lo stanziamento di 100 milioni, si aggiunge che bisognerà trovare nei fondi europei 2014-2020 le risorse per continuare il programma fino al 2020. Saranno ammesse anche infrastrutture annesse o funzionali alle reti telematiche NGN o wi-fi.
Quanto al piano per la sicurezza stradale, curiosamente la priorità si dovrà dare alle piste ciclabili e all'asse viario Terni-Rieti. Per il piano sblocca-cantieri previsto anche un gruppo di opere di riserva che saranno finanziate qualora non si riuscirà a sbloccare le opere già citate nel decreto (si veda Il Sole-24 Ore del 13 luglio per l'intera mappa delle opere) (articolo Il Sole 24 Ore del 20.07.2013).

APPALTIDal nodo della solidarietà alla strettoia del «Durt»
IMPRESE CONTRARIE/ Il procedimento ipotizzato per ottenere il «Documento di regolarità tributaria» rischia di tradursi in un ulteriore vincolo.

Per il momento è ancora sulla carta, ma il documento unico di regolarità tributaria (Durt), previsto da un emendamento al Dl 69/2013, viene già bocciato da una parte del mondo imprenditoriale.
Secondo quanto previsto dall'emendamento a firma del deputato Girolamo Pisano del M5S, e approvato dalle commissioni Affari costituzionali e Bilancio della Camera, viene prevista una nuova procedura per esonerare l'appaltatore dalla responsabilità solidale.
A oggi, per effetto delle modifiche apportate dall'articolo 50 del decreto legge 69/2013 all'articolo 13-ter del Dl 83/2013, la disciplina sulla responsabilità solidale in materia di appalti di opere e servizi prevede in primo luogo la responsabilità dell'appaltatore con il subappaltatore per il versamento delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente (e non più anche dell'Iva dovuta) in relazione alle prestazioni effettuate nell'ambito del rapporto di subappalto. La responsabilità, che è comunque limitata all'ammontare del corrispettivo dovuto, può essere evitata ottenendo, anteriormente al pagamento del corrispettivo, la documentazione che attesta la corretta esecuzione dei versamenti scaduti da parte del subappaltatore, cioè il Durt.
In sostanza questo documento certifica l'inesistenza di debiti tributari per imposte, sanzioni e interessi scaduti e non estinti dal subappaltatore alla data di pagamento del corrispettivo. Viene inoltre confermata una sanzione amministrativa da 5.000 a 200.000 euro in capo al committente nel caso in cui questi paghi l'appaltatore senza essere in possesso della documentazione prevista.
Tuttavia, la circolare 40/E/2012 dell'agenzia delle Entrate ha chiarito che la documentazione può essere costituita da un'autodichiarazione resa in base all'articolo 46 del Dpr 445/2000 che attesti il regolare adempimento degli obblighi richiesti da parte del subappaltatore. Quindi la responsabilità solidale dell'appaltatore è esclusa se quest'ultimo ottiene dal subappaltatore l'autodichiarazione.
Appare ragionevole ritenere che il Durt, se definitivamente introdotto, debba essere considerato uno strumento alternativo rispetto all'autocertificazione, perché gli uffici dell'Agenzia potrebbero essere chiamati a rilasciare un numero consistente di dichiarazioni con l'ovvio allungamento dei tempi. In questo senso occorre tenere presente che l'appaltatore e il committente sono legittimati a non pagare il corrispettivo della prestazione fino al rilascio della documentazione.
Una sonora bocciatura della novità è arrivata ieri da Rete Imprese: «Deve essere cancellato -ha affermato il presidente Ivan Malavasi- l'emendamento al decreto del fare che rischia di dare il colpo di grazia a molte imprese già messe a dura prova da una crisi che sembra non avere fine. Con un procedimento paradossale si chiede alle imprese di comunicare periodicamente all'agenzia delle Entrate i dati delle buste paga al fine di consentire alla stessa Agenzia di accertare che le imprese sono in regola con il fisco». Secondo Rete Imprese il provvedimento aumenta gli adempimenti burocratici a fronte della richiesta delle aziende di andare nella direzione opposta.
L'emendamento prevede che per il rilascio del Durt in via digitale le Entrate realizzino un portale dedicato tramite cui acquisire le informazioni necessarie anche utilizzando il sistema Uniemens dell'Inps. In attesa della fatturazione elettronica, però, i soggetti d'imposta devono trasmettere «per via digitale i dati contabili e i documenti primari relativi alle retribuzioni erogate, ai contributi versati e alle imposte dovute» (articolo Il Sole 24 Ore del 20.07.2013).

INCARICHI PROGETTUALI: Il decreto appalti esce dal pantano. I parametri al Consiglio di stato.
Al Consiglio di stato il regolamento sui parametri per la gare di appalto. Dopo il concerto del ministero delle infrastrutture, quindi, il decreto predisposto dal ministero della giustizia che determina «i corrispettivi a base di gara per gli affidamenti di contratti di servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria» può finalmente riprendere il suo percorso, finora tormentato, verso l'approvazione definitiva. Sempre che i giudici di Palazzo Spada, che potrebbero esaminarlo già entro la fine del mese, non trovino rilievi sostanziali.
Il nodo scoperto sta infatti nella figura del Rup, il responsabile unico del procedimento che, a parere (si tratta del secondo parere espresso nell'adunanza del 17 maggio) del Consiglio superiore dei lavori pubblici è tenuto «in fase di predisposizione degli atti di gara, ad accertare che il corrispettivo da porre a base di gara non superi quello derivante dall'applicazione delle vecchie tariffe professionali vigenti prima dell'entrata in vigore del decreto».
In sostanza, secondo il Cslp, la stazione appaltante deve provvedere a verificare che le nuove tariffe non determinino importi a base di gara superiori a quelli derivanti all'applicazione delle precedenti (dm 04/04/2001), in particolare, affidando al Rup di controllare che gli importi a base d'asta per i servizi di architettura e ingegneria siano inferiori appunto alle vecchie tariffe. Un passaggio inutile secondo le categorie tecniche che attendono il provvedimento da oltre un anno, ma anche per l'ufficio legislativo del ministero della giustizia che ha ritenuto più opportuno «ai fini della buona procedura amministrativa» non inserire questo passaggio che si tradurrebbe solo in una complicazione in più anche in termini di spesa.
La questione di non superare le vecchie tariffe era stato un passaggio preciso esplicitato dalla legge delega. I nuovi parametri, diceva il provvedimento governativo, avrebbero dovuto rispettare un paletto preciso: non determinare un importo a base di gara superiore a quello che derivava dall'applicazione delle tariffe professionali vigenti prima dell'entrata in vigore dello stesso decreto. Ma proprio il superamento di questo paletto aveva bloccato l'iter del provvedimento.
Secondo il parere del gennaio 2013 del Consiglio superiore dei lavori pubblici (sostanzialmente condiviso con quello dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici), infatti, il nervo scoperto della prima bozza di provvedimento era proprio questo: determinare onorari superiori a quelli delle vecchie tariffe previste dal dm 04.04.2001 e quindi in contrasto con il vincolo stabilito dalla stessa legge delega. I valori dei parametri allegati alla bozza di decreto interministeriale quindi furono rivisti. Il testo tornò infatti nelle stanze dell'ufficio legislativo del ministero della giustizia dalle quali era partito, per le opportune modifiche. Ma solo ieri, tra le resistenze di qualcuno e il cambio di governo, è arrivato il concerto anche del ministero. Ora tutti confidano nella rapidità del Consiglio di stato (articolo ItaliaOggi del 19.07.2013).

PATRIMONIO: DECRETO DEL FARE/ Agli enti locali 150 mln per la messa in sicurezza delle scuole
Demanio ai comuni, si riparte. Beni statali trasferiti gratis. Richieste dall'01/09 al 30/11.

Riparte il federalismo demaniale. Dopo essere stato tenuto tre anni in naftalina (il decreto legislativo che aveva dato il là alla riforma risale al 2010) la macchina organizzativa per il passaggio a titolo gratuito degli immobili dello stato a comuni, province e città metropolitane si rimetterà in moto il 1° settembre.
Da questa data e fino al 30 novembre gli enti locali interessati a mettere le mani sugli immobili dismessi dallo stato potranno farne richiesta all'Agenzia del demanio, indicando l'utilizzo che vorranno farne e le risorse a ciò destinate. Per gli enti locali sono poi in arrivo 150 milioni per il 2014 da destinare alla riqualificazione e la messa in sicurezza delle scuole. I fondi saranno ripartiti a livello regionale per essere poi destinati ai comuni e alle province sulla base del numero degli edifici scolastici e della popolazione studentesca. I contributi saranno ripartiti con decreto del Miur entro il 30 ottobre sulla base delle graduatorie presentate dalle regioni entro il 15 ottobre.

Sono queste le novità più significative per gli enti locali contenute negli emendamenti presentati nelle commissioni affari costituzionali e bilancio della camera dai due relatori al «decreto del fare» (dl n.69/2013) Francesco Paolo Sisto (Pdl) e Francesco Boccia (Pd).
Quasi a voler recuperare il tempo perduto, l'emendamento sul federalismo demaniale prevede tempi stretti per il riscontro delle richieste degli enti da parte dell'Agenzia del demanio: 60 giorni dalla ricezione dell'istanza per comunicare l'esito positivo o negativo. Se le richieste avranno ad oggetto beni già utilizzati dalla p.a., il Demanio interpellerà le amministrazioni interessate per sondare (entro il termine perentorio di 30 giorni) il loro interesse a continuare a utilizzarli per esigenze istituzionali.
In caso di mancata risposta da parte degli enti pubblici, l'Agenzia verificherà che gli immobili non assolvano ad altre esigenze statali, dopodiché procederà a trasferire i beni. Qualora sullo stesso immobile giungano richieste di attribuzione da parte di più livelli di governo, il bene sarà trasferito in via prioritaria al comune o alla città metropolitana (e in subordine alle province e alle regioni) sulla base del principio di sussidiarietà. Gli immobili trasferiti agli enti locali torneranno allo stato qualora l'Agenzia accerti che, a distanza di tre anni dal trasferimento, gli immobili non vengono utilizzati dalle amministrazioni.
Se gli enti decideranno di alienare i beni demaniali loro trasferiti, potranno tenere per sé il 75% del ricavato e destinarlo prioritariamente alla riduzione dell'indebitamento. In assenza di debito (o per la parte eventualmente eccedente), le risorse ricavate potranno essere utilizzate per spese di investimento. Il restante 25% sarà invece destinato al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato (articolo ItaliaOggi del 19.07.2013).

ATTI AMMINISTRATIVIMediare è obbligatorio. Ma bisogna correggere le inutili gratuità. Il decreto del fare reintroduce l'istituto puntando sui professionisti.
Il 21 giugno scorso attraverso il decreto legge n. 69 del 2013, detto decreto «del fare», il governo è tornato a occuparsi nuovamente di mediazione civile, reintroducendo la condizione di procedibilità nel dlgs 28/2010.
L'esecutivo, riproponendo l'obbligatorietà attraverso uno strumento formalmente corretto, ha voluto dare un nuovo impulso all'utilizzo di questa metodologia alternativa di risoluzione delle controversie (Adr) -che, seppur con numeri al di sotto delle aspettative, aveva cominciato a dare degli incoraggianti risultati sul piano della deflazione del carico di procedimenti giudiziari- introducendo anche alcune modifiche all'Istituto che possano renderlo più efficace e meno esposto ad alcune critiche di cui era stato oggetto il decreto legislativo nella sua formulazione originaria.
Alcune delle novità introdotte sono:
• durata massima dell'intera procedura ridotta a tre mesi;
• previsione di un incontro informativo e di programmazione tra le parti ed il mediatore, da svolgersi entro 30 giorni dal deposito dell'istanza, in cui insieme si verifica l'esistenza delle condizioni per procedere nella mediazione;
• importo drasticamente ridotto e fino a un massimo di 250,00, anche per gli scaglioni più onerosi, qualora le parti dovessero decidere di non andare oltre l'incontro di programmazione;
• ai fini dell'omologa, il verbale di accordo deve essere firmato dagli avvocati che assistono tutte le parti.
Gli avvocati sono mediatori di diritto.
La Comunità europea ha più volte ribadito che, in alcuni casi, l'introduzione di procedure meramente facoltative di Adr potrebbe non raggiungere gli obiettivi preposti di deflazionare il numero dei processi e di ridurre i tempi e i costi della giustizia e che le procedure alternative obbligatorie non sono pregiudizievoli per l'accesso alla giustizia e possono servire a diffondere la cultura della mediazione, purché siano a basso costo e di breve durata. Con le modifiche apportate al decreto si riducono ulteriormente sia i tempi, sia i costi della mediazione, nei casi in cui questa sia obbligatoria. Una ripresa e uno sviluppo delle procedure Adr è necessario al nostro «Sistema Paese», soprattutto in un momento di grave crisi economica. La mediazione ha dimostrato di alleggerire il carico delle controversie nei tribunali e di essere una fonte di risparmio per cittadini ed imprese, in quanto i costi della giustizia sono di gran lunga più onerosi.
Del resto non si può più pensare che il processo sia l'unico strumento adatto a risolvere i conflitti. Qui in Italia è, forse, quello maggiormente conosciuto ma è anche quello più dispendioso, sia in termini economici che in termini di pace sociale.
Il prof. Frank Sander, dell'università di Harvard, conosciuto come il pioniere della mediazione, nel 1976 a Minneapolis durante i lavori della Pound Conference, la «Conferenza nazionale sulle cause dell'insoddisfazione popolare nei confronti dell'amministrazione della giustizia», introdusse il concetto ormai divenuto celebre della multi-door Courthouse. Rispetto a una crescente domanda di giustizia, la risposta non può essere solo il processo e soprattutto non è detto che sia sempre quella adeguata.
Lo sviluppo delle procedure stragiudiziali, la mediazione e anche altri sistemi permettono al cittadino e all'impresa di scegliere quale sia lo strumento maggiormente adatto alla risoluzione del conflitto e anche di comprendere che molti conflitti possono essere risolti dalle parti, adeguatamente supportate dal mediatore, in piena autonomia e senza la necessità di ricorrere a giudizi esterni.
Le procedure conciliative esplicano spesso i loro migliori effetti quando le parti hanno interesse a salvaguardare la relazione, continuare la partnership, affrontare e risolvere i conflitti emotivi, decidere insieme la sorte della controversia, generando soluzioni creative ed alternative.
Il mediatore è un conflict manager, una persona in grado di permettere alle parti di vivere il conflitto come un momento di confronto, durante il quale uscire dal proprio personale sequestro emotivo e rivivere e ridisegnare il rapporto con l'altro; una opportunità per esplorare nuove soluzioni alle quali non si era pensato in precedenza. Il mediatore deve essere in grado di supportare e aiutare le parti a vivere questo cambiamento e le sue abilità e competenze proprio in questa ottica devono valutarsi.
Per svolgere il proprio compito deve formarsi adeguatamente soprattutto nelle discipline che gli consentano di aiutare le parti a muoversi nel conflitto, e a comprendere gli altrui punti di vista: i modelli di tecniche di mediazione, gli approcci e le diverse teorie negoziali, le tecniche di accoglimento delle emozioni, le tecniche di riconoscimento ed eliminazione delle distorsioni cognitive, i modelli di comunicazione, le teorie comportamentali. Durante i corsi base e di aggiornamento si incontrano tantissimi professionisti desiderosi di acquisire e sviluppare queste specifiche competenze.
Molti sono gli avvocati che frequentano assiduamente questi corsi perché consapevoli che l'essere stati per tanti anni legali di parte nei processi ha contribuito a sedimentare una preparazione e una competenza assolutamente adeguata per svolgere la propria funzione all'interno delle aule di tribunale ma, molto spesso, abbastanza distante da quella richiesta al mediatore.
Pensare a qualcosa di diverso significa continuare a confondere e a sovrapporre dei metodi di risoluzione delle controversie, quali il processo e la mediazione, molto diversi tra loro e per i quali sono necessarie competenze differenti.
Nonostante la norma ora preveda il titolo di mediatore di diritto per gli avvocati, siamo sicuri che questi ultimi, che sempre dimostrano un naturale desiderio a essere preparati e competenti in quello che fanno, continueranno a seguire i corsi base e i corsi di aggiornamento, come del resto stabilisce il loro codice deontologico, proprio perché la formazione indispensabile al mediatore si identifica solo in minima parte con la formazione giuridico-legale. Escludere l'obbligo formativo per qualcuno avrebbe come effetto quello di creare all'interno della stessa categoria dei professionisti che si formano e dei professionisti che scelgono di non farlo, con il rischio di un abbassamento della qualità dei servizi di mediazione. Le ore di formazione andrebbero semmai aumentate ed incentivate. Un corso base di sole 50 ore non è sufficiente. E non lo è per nessuno.
In tempi brevi il decreto dovrà essere convertito in legge e diversi emendamenti sono stati discussi e approvati dalle varie Commissioni preposte (Commissione giustizia, Commissioni riunite affari costituzionali e Bilancio, Finanza).
Alcuni, quelli che prevedono la completa gratuità dell'incontro di programmazione in caso di mancato accordo non sono condivisibili. In questo incontro iniziale il mediatore mette in atto in pieno la propria prestazione professionale, perché è l'unico modo che ha per verificare l'esistenza di margini di trattativa.
Prevedere la completa gratuità in caso di mancato accordo vuol dire chiedere di svolgere una prestazione senza compenso e non tenere conto degli enormi sforzi economici che gli organismi privati, il personale di questi e i mediatori, sostengono per assicurare un servizio di mediazione efficiente e di elevata qualità. Inoltre significherebbe rischiare di svuotare completamente del suo contenuto la norma sulla obbligatorietà, che da alcuni potrebbe essere facilmente aggirata.
Al contrario è opportuno prevedere regimi sanzionatori ancora più forti per i soggetti che senza giustificato motivo decidessero di non partecipare all'incontro di mediazione rendendo più oneroso il proseguimento in giudizio, così come accade in molti paesi stranieri.
Auspicare e supportare un radicamento di questo istituto vuol dire avere a cuore gli interessi generali del Paese. I dottori commercialisti e gli esperti contabili ci credono da sempre perché la mediazione ha dimostrato di esser uno strumento in grado di far risparmiare i cittadini e le imprese ed anche di costituire una affascinante opportunità di lavoro soprattutto per i più giovani. Proprio questa sua capacità di ridurre l'onerosità del sistema giustizia da un lato e creare possibilità di lavoro, soprattutto per i più giovani, ha spinto i dottori commercialisti a costituire la Fondazione Adr commercialisti che nasce da una precisa volontà di coordinare l'impegno della categoria in materia stragiudiziale e in particolare nella mediazione civile e che ieri ha tenuto in Roma la sua 2ª convention.
Riteniamo utile, come indicato in alcuni emendamenti, allargare l'area delle controversie soggette a condizione di procedibilità a quelle riconducibili alle controversie commerciali e a quelle interne delle società, associazioni ed enti associativi in genere.
La mediazione civile è una metodologia stragiudiziale che ha il suo principio fondamentale nell'autonomia delle parti e nella capacità delle stesse di individuare, negoziare e scegliere quali sono le migliori soluzioni per la propria controversia. Prevedere che solo l'accordo firmato dagli avvocati possa essere omologato e quindi diventare titolo esecutivo vuol dire costringere le parti ad avere in ogni caso una «difesa legale» con il conseguente aggravio di costi che potrebbe derivarne.
Quindi sarebbe opportuno ritornare alla previgente formulazione in base alla quale l'accordo poteva essere reso esecutivo attraverso l'omologa del presidente del tribunale, lasciando in questo modo le parti libere di farsi assistere da un legale o meno, e prevedendo eventualmente la possibilità che l'accordo diventi immediatamente esecutivo (senza ulteriore omologa) se firmato dai legali di tutte le parti, e (perché no?) se firmato dai dottori commercialisti, consulenti di parte per le materie di competenza, valorizzando in questo modo il ruolo dei professionisti dell'intero comparto giuridico-economico, senza ledere al contempo l'autonomia delle parti. L'associazione auspica che il Parlamento approvi quegli emendamenti che rafforzano l'istituto a favore del cittadino (articolo ItaliaOggi del 19.07.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Con la Scia indennizzi ko. Senza provvedimento niente ristoro da ritardo. Per il momento solo le imprese possono chiedere i danni alla p.a. lumaca.
Niente indennizzo da ritardo per i procedimenti concernenti le attività produttive soggetti alla Segnalazione certificata di inizio attività (Scia).
L'articolo 28 del dl 69/2013 (cosiddetto decreto del fare) ha introdotto, con moltissime limitazioni al proprio campo applicativo, l'indennizzo per sanzionare il ritardo con il quale le pubbliche amministrazioni attendono ai propri doveri.
Nella prima fase di attuazione della norma, dichiaratamente «sperimentale», essa si applica proprio «ai procedimenti amministrativi relativi all'avvio e all'esercizio dell'attività di impresa», quelli, cioè, nei quali la puntualità dell'azione amministrativa appare particolarmente determinante, in quanto sono in ballo investimenti economici.
Una grandissima fetta, tuttavia, dei procedimenti amministrativi connessi all'avvio di attività imprenditoriali è regolata dall'articolo 19 della legge 241/1990, a mente del quale «ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l'esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall'accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale, e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il rilascio degli atti stessi, è sostituito da una segnalazione dell'interessato, con la sola esclusione dei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali e degli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all'immigrazione, all'asilo, alla cittadinanza, all'amministrazione della giustizia, all'amministrazione delle finanze, ivi compresi gli atti concernenti le reti di acquisizione del gettito, anche derivante dal gioco, nonché di quelli previsti dalla normativa per le costruzioni in zone sismiche e di quelli imposti dalla normativa comunitaria».
In questi casi, l'attività imprenditoriale «può essere iniziata dalla data della presentazione della segnalazione all'amministrazione competente».
Dunque, come concorda ormai la giurisprudenza amministrativa maggioritaria, non si forma alcun provvedimento amministrativo ad opera dell'amministrazione. La Scia è un titolo di abilitazione all'esercizio di un'attività imprenditoriale che viene formato direttamente dal privato, nell'esercizio della propria autonomia di diritto privato. La pubblica amministrazione può intervenire solo dopo alla formazione di tale titolo, mediante poteri inibitori o prescrittivi.
Quindi, la vastissima gamma di attività produttive che si avviano con la Scia non ricade nel campo di applicazione dell'indennizzo da ritardo, per la semplice ragione che non è materialmente e giuridicamente possibile si formi ritardo alcuno, da parte dell'amministrazione. Mancano due fondamentali presupposti: la presentazione di un'istanza e la formazione di un provvedimento amministrativo (articolo ItaliaOggi del 19.07.2013).

ENTI LOCALI: Statali, multe tutte ai comuni. Il ministero: proventi da non ripartire.
Gli importi delle multe accertate dai vigili con l'autovelox sulle strade statali non vanno ripartiti ma spettano integralmente agli enti locali. Trattandosi infatti di strade in concessione salta in questo caso la regola della ripartizione a metà dei proventi tra organo accertatore ed ente proprietario della strada.
Lo ha chiarito il ministero dei trasporti con il parere n. 2144/2013. La vicenda dei proventi autovelox è indecifrabile perché dopo una complessa discussione parlamentare la tanto decantata riforma introdotta con la legge 120/2010 per contrastare l'abuso dei controlli municipali si è arenata, sia per la mancanza dei provvedimenti attuativi sia per alcuni errori di sostanza. Questo ha scatenato polemiche che alla fine sono confluite nel comma 16 dell'art. 4-ter del dl 16/2012, inserito in sede di conversione dalla legge n. 44/2012. Questo provvedimento ha inciso in maniera grossolana sulla delicata questione.
In pratica la novella ha introdotto un automatismo specificando che anche in mancanza del decreto necessario ai sensi dell'art. 25 della legge 120/2010 per avviare il complesso meccanismo della ripartizione dei proventi il meccanismo anti abusi entrerà comunque in vigore. Formalmente quindi dal 1° gennaio è in vigore la novella che prevede la ripartizione a metà dei proventi autovelox tra organo accertatore ed ente proprietario della strada.
Ma alle ragionerie degli enti locali manca ancora di comprendere come dovranno provvedere allo storno dei proventi ovvero se al netto delle spese e con quale tempistica. Resta intanto sul tappeto il nodo delle strade statali. Per affrancare dal meccanismo della ripartizione le autostrade il frettoloso legislatore ha specificato che la ripartizione a metà delle multe tra ente proprietario della strada ed organo accertatore non riguarda le strade in concessione. E quindi neanche tutte le strade statali in concessione all'Anas.
Il ministero specifica quindi che in base alla formulazione letterale dell'art. 142/12-bis del codice stradale non scatta nessuna divisione a metà dei proventi delle multe autovelox accertate su strade statali. Tutto il bottino resta nelle tasche dell'organo accertatore (articolo ItaliaOggi del 19.07.2013).

ENTI LOCALI: Vigili, veicoli a uso vincolato. Occorre l'annotazione sul libretto.
Immatricolare un veicolo della polizia municipale per uso generico può comportare pesanti responsabilità in caso di incidente. L'uso del mezzo per la consueta attività di polizia stradale dei vigili richiede infatti una specifica annotazione sul libretto. Diversamente la compagnia assicurativa potrà esercitare azione di rivalsa contro il comune.

Lo ha chiarito il broker Acros con la nota 05.06.2013 inviata a un comune veronese.
La questione dell'immatricolazione dei mezzi dei vigili, delle targhe speciali e della patente di servizio non agevola l'attività dei comuni stante le continue perplessità operative. L'art. 93 del codice prevede già da tempo l'immatricolazione dei veicoli della pm ad un eventuale uso esclusivo dei servizi di polizia stradale ma solo con il dm 209/2006 sono state individuate le caratteristiche delle targhe speciali.
Per quanto riguarda la patente di servizio dei vigili con il decreto 246/2004 il Viminale ha recepito l'istituto introdotto con la riforma della patente a punti. Questa novella, oltre a specializzare ulteriormente gli operatori della polizia locale, doveva consentire agli stessi di usufruire, al pari degli altri organi di vigilanza, di una duplice idoneità alla guida riconducibile da un lato al ruolo professionale e dall'altro a quello privato.
Ma le cose si sono complicate con alcuni recenti pareri ministeriali secondo cui «i veicoli in dotazione ai corpi o servizi di polizia locale che risultino adibiti esclusivamente alle attività di polizia stradale e muniti di targa speciale di immatricolazione rilasciata ai sensi del dm 27.04.2006, n. 209, possono essere condotti (solo) dai soggetti titolari di patente di servizio rilasciata ai sensi degli articoli 3, comma 1 e 10, comma 2, del decreto 11.08.2004, n. 246».
A gettare ulteriore scompiglio il parere del broker assicurativo in commento. I mezzi del comune possono essere usati dai vigili solo se immatricolati ad uso esclusivo polizia. In pratica se un mezzo della polizia locale è immatricolato ad uso proprio in caso di incidente a parere del broker la compagnia assicurativa potrebbe esercitare diritto di rivalsa per uso diverso del mezzo (articolo ItaliaOggi del 19.07.2013).

APPALTIAppalti, spunta il «Durt» nella responsabilità solidale. Fondo di garanzia esteso ai professionisti. Tetto anche agli stipendi dei dirigenti dei servizi pubblici locali.
INFRASTRUTTURE/ Anticipazioni del 10% alle imprese appaltatrici. Opere «di riserva» già individuate qualora non si sblocchino gli investimenti prioritari.

Maratona notturna per il via libera al decreto del fare nelle commissioni Affari costituzionali e Bilancio della Camera. Una giornata piena di tensioni, con diversi punti di divergenza con il Governo, sancisce l'approdo del testo in Aula in ritardo rispetto alle previsioni. C'è in campo l'ipotesi fiducia, ma Francesco Boccia, presidente della Bilancio e relatore insieme a Francesco Paolo Sisto (Pdl), considera possibile la discussione se ci sarà accordo sul presentare non più di 100 emendamenti.
È stata una seduta convulsa, come ha dimostrato un emendamento sul Parco geominerario della Sardegna, non approvato, sul quale il Governo è stato battuto in una fase di confusione dei lavori. Caos su un emendamento M5S sulla responsabilità solidale negli appalti, approvato con parere positivo del governo, che istituisce il Durt (Documento unico di regolarità tributaria), da acquisire per via telematica da un portale dell'Agenzia delle entrate. Secondo le imprese anziché semplificare la norma potrebbe rappresentare una complicazione. «La norma sarà comunque migliorata» rassicura Boccia, probabilmente al Senato.
Tra le novità, arriva con un emendamento dei relatori concordato con il viceministro all'Economia Stefano Fassina l'estensione del Fondo di garanzia anche ai professionisti, nel limite massimo di assorbimento delle risorse del fondo non superiore al 5%. Quanto alla polizza per i professionisti, il rinvio dovrebbe riguardare solo i medici. In arrivo 150 milioni per la «riqualificazione e messa in sicurezza» degli edifici scolastici. Compromesso sugli incentivi all'energia rinnovabile da bioliquidi: regime di «phasing out» per i produttori che accettano di uscire gradualmente dal regime delle agevolazioni. Arriva una norma che agevola fiscalmente le emittenti tv locali che hanno ricevuto fondi a titolo risarcitorio per liberare frequenze.
Sempre con emendamento dei relatori, viene previsto un comitato interministeriale per la spending review ed è definito l'incarico del commissario straordinario che dovrà presentare un piano entro 20 giorni dalla nomina. Il commissario potrà restare in carica al massimo tre anni e sarà il suo compito sarà tutt'altro che gratuito: percepirà 150mila euro quest'anno, 300mila euro nel 2014 e 2015 e 200mila nel 2016. Si dispone poi la semplificazione delle procedure per il trasferimento di immobili dello Stato, a titolo non oneroso, a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.
Per gli appalti pubblici affidati con gare bandite dopo la conversione in legge del Dl, è prevista in favore dell'appaltatore una anticipazione pari al 10% dell'importo contrattuale. Il tetto agli stipendi ai manager, oggi previsto per le società non quotate controllate dalla Pa, viene esteso anche alle società dei servizi pubblici locali. Sulle infrastrutture vengono individuate alcune opere di riserva, prevalentemente in Piemonte, nel caso in cui quelle già individuate e finanziate dal decreto per non partano entro il 2013. Spunta anche una norma che consentirà al Poligrafico dello Stato di gestire il progetto del documento unificato. Scatta poi il piano del commissario di governo Francesco Caio per accelerare l'Agenda digitale con il «sistema pubblico per la gestione dell'identità digitale». Stop per due anni allo sversamento di rifiuti speciali e rifiuti urbani pericolosi da altre Regioni verso la Campania.
Confermato (si veda Il Sole 24 Ore di ieri) lo stop all'incompatibilità tra le cariche di parlamentare e di sindaco di Comune superiore ai 5mila abitanti: la misura scatterà solo con le prossime amministrative. Tra gli emendamenti dei gruppi approvati, ci sono l'estensione di un anno a Regioni e Comuni per recedere dai contratti di affitto e la stretta sulle spese per le auto blu e i buoni taxi non si applicherà alle società pubbliche quotate, in pratica Eni, Enel, Finmeccanica e loro controllate. Viene "ripescata" Arcus, la spa del Ministero dei Beni culturali soppressa dalla spending review del Governo Monti. Via libera a un Programma nazionale per il sostegno degli studenti capaci e meritevoli a partire dal 2014 con borse di studio suddiviso per le lauree e i dottorati di ricerca.
Tornando a Caio e all'Agenda digitale, per superare i clamorosi ritardi finora accumulati nell'attuazione, verrà semplificata la natura dei regolamenti previsti dal decreto crescita bis e non ancora emanati. Approvato un Programma nazionale per il sostegno degli studenti capaci e meritevoli a partire dal 2014, suddiviso per le lauree, le lauree magistrali e i dottorati di ricerca. Le borse di studio verranno versate in una prima rata semestrale al momento dell'iscrizione all'università e in una seconda rata semestrale il primo marzo dell'anno successivo (articolo Il Sole 24 Ore del 19.07.2013).

APPALTIIl Durc? Un diritto. Decreto in G.U. risponde alle difficoltà delle imprese.
Il Documento unico di regolarità contributiva va rilasciato anche a quelle aziende che possono provare, con apposita certificazione, di essere creditrici nei confronti della pubblica amministrazione per importi almeno pari agli oneri contributivi accertati e non ancora versati.

È stato pubblicato infatti sulla Gazzetta Ufficiale n. 165 di ieri il decreto del ministero dell'economia (di concerto con quello del lavoro) del 13.03.2013 con il quale si stabiliscono le apposite modalità di rilascio del Durc.
Di conseguenza, gli enti tenuti al rilascio del documento, su richiesta del soggetto titolare dei crediti certificati che non abbia provveduto al versamento dei contributi previdenziali, assistenziali ed assicurativi nei termini previsti, dovranno emettere il Durc precisando l'importo del relativo debito contributivo e gli estremi della certificazione esibita per il rilascio del documento medesimo.
Nell'ipotesi di utilizzo del Durc per ottenere il pagamento da parte di pubbliche amministrazioni degli stati di avanzamento lavori o delle prestazioni relative a servizi e forniture, si applica il dpr 207/2010 che prevede l'intervento sostitutivo della stazione appaltante in caso di inadempienza contributiva dell'esecutore. Al fine di assicurare l'assenza di effetti negativi sui saldi di finanza pubblica, l'intervento sostitutivo si applica alle erogazioni a carico di pubbliche amministrazioni.
La certificazione esibita per il rilascio del Durc può essere utilizzata per la compensazione di somme iscritte a ruolo, ai sensi dell'art. 28-quater del decreto del presidente della repubblica 29.09.1973, n. 602, secondo le modalità previste dal decreto del 25.06.2012 e successive modificazioni, ovvero per la cessione o anticipazione del credito presso banche o intermediari finanziari. Qualora l'importo riconosciuto da una banca o da un intermediario finanziario al creditore risulti inferiore al debito contributivo, la delegazione di pagamento si applica per l'estinzione parziale del predetto debito contributivo (articolo ItaliaOggi del 17.07.2013).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATADurc, rilascio solo su Pec. Dal 2 settembre stop all'emissione su carta. Nota Cnce sul decreto Fare. Imprese obbligate a indicare la e-mail.
Addio al Durc su carta. Dal 2 settembre casse edili, Inps e Inail rilasceranno il documento unico di regolarità contributiva esclusivamente per posta elettronica certificata (pec) all'indirizzo indicato sulla richiesta. Professionisti in prima linea; le imprese, infatti, anziché il proprio, possono indicare l'indirizzo mail del consulente.
Lo rende noto la Commissione nazionale per le Casse edili (Cnce) nella nota 15.07.2013 emessa ieri.
Decreto del Fare. La novità è figlia delle semplificazioni al Durc introdotte dal dl n. 69/2013 (si veda ItaliaOggi del 18 giugno). Semplificazioni evidenziate dalla stessa Cnce nella comunicazione n. 521/2013, in cui si precisa che riguardano proprio il rilascio del documento di regolarità. È stato confermato prima di tutto, spiega la Cnce, l'obbligo per stazioni appaltanti ed enti aggiudicatori di acquisire d'ufficio il Durc, in particolare ai fini del pagamento dei lavori all'impresa affidataria e alle subappaltatrici.
È stato confermato, inoltre, l'intervento sostitutivo di stazioni appaltanti e altri enti aggiudicatori con il pagamento diretto agli enti di previdenza e alla cassa edile nei casi di Durc, richiesti per stati di avanzamento lavori, che segnalino inadempienze contributive. Ancora, nel ribadire che il Durc va richiesto d'ufficio in tutte le fasi riguardanti lo svolgimento dell'appalto (verifica autodichiarazione, aggiudicazione, stipula contratto, sal e liquidazione finale), il decreto Fare ne ha fissata la validità di 180 giorni dall'emissione e ne consente l'utilizzo, nello stesso periodo, anche per finalità diverse.
Secondo la Cnce la maggiore innovazione riguarda l'obbligo per le stazioni appaltanti di acquisire il Durc, dopo la stipula del contratto, ogni 180 giorni e di utilizzarlo per pagare i sal che ricadono nel periodo di validità di ciascun documento. La Cnce sottolinea, infine, che il decreto Fare ha previsto, come modalità di invito alla regolarizzazione, l'invio di una Pec all'impresa o al suo consulente con l'indicazione analitica delle cause di irregolarità.
Durc via Pec. E la Pec è inoltre individuata quale unico canale per il rilascio del Durc. A tal fine dal 2 settembre le richieste dovranno obbligatoriamente contenere l'indirizzo Pec a cui recapitare il documento. La Cnce precisa che l'obbligo riguarda le richieste non solo presentate da stazioni appaltanti, enti aggiudicatori o Soa ma anche quelle delle imprese, con la particolarità che a queste ultime è data facoltà di indicare il loro indirizzo Pec oppure quello del consulente. Sempre dal 2 settembre, spiega ancora la Cnce, le casse edili e le sedi di Inps e Inail recapiteranno i Durc esclusivamente tramite Pec, agli indirizzi indicati dai richiedenti.
Infine, la Cnce evidenzia che l'eventuale necessità di ritrasmettere il Durc, ricevuto via Pec dall'impresa, a soggetti non tenuti all'utilizzo di tale strumento (per esempio committenti privati o amministrazioni di altri Paesi) è superata dalla possibilità stampare il documento allegato alla mail certificata. Infatti, l'apposizione sul Durc del cosiddetto «glifo» (è il contrassegno generato elettronicamente), consente di assicurare la provenienza e la conformità all'originale del documento cartaceo (articolo ItaliaOggi del 16.07.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO«Pa». Deliberazione della Civit. Enti locali, piano trasparenza a gennaio 2014.
Tutte le amministrazioni pubbliche, compresi gli enti locali, sono tenute ad approvare entro il 31.01.2014 il piano per la trasparenza, termine che è stato spostato rispetto a quello inizialmente fissato per il prossimo 20 luglio.

È questa la prima indicazione di rilievo contenuta nella
delibera 04.07.2013 n. 50 della Civit «Linee guida per l'aggiornamento del Programma triennale per la trasparenza e l'integrità 2014/2016».
Il documento è aggiornato alle novità introdotte dal Dlgs 33/2013. Nelle more della adozione del piano, ogni amministrazione deve comunque dare corso alla pubblicazione sul proprio sito internet delle informazioni minime imposte da tale provvedimento. Viene ricordato che l'obbligo di istituzione della sezione "amministrazione trasparente" è dettato anche per le società controllate relativamente alle attività di pubblico interesse.
Il termine di approvazione del piano della trasparenza è stato spostato in quanto strettamente connesso con il piano anticorruzione, di cui costituisce di regola una sezione, nonché con il piano delle performance. Alla base di questo rinvio la mancanza del piano nazionale anticorruzione (solamente nei giorni scorsi la Funzione pubblica ha licenziato la proposta che dovrà essere approvata dalla Civit) e delle linee guida per la lotta alla corruzione da parte di regioni ed enti locali (che devono essere adottate dalla Conferenza unificata). Non viene invece rinviato il monitoraggio sul rispetto degli obblighi di trasparenza che sarà comunque effettuato in ogni ente entro la fine del 2013 da parte degli Oiv e i cui esiti dovranno essere comunicati alla stessa Civit. Regioni ed enti locali, nell'adozione del piano della trasparenza, dovranno tenere conto delle linee guida che saranno elaborate dalla Conferenza unificata.
Ogni Pa si deve dare un responsabile della trasparenza, che di regola coincide con quello per la prevenzione della corruzione. Il suo compito essenziale è garantire il rispetto degli obblighi di pubblicità dettati dal legislatore e dei vincoli dettati dal piano della trasparenza. Egli deve inoltre garantire il cosiddetto accesso civico, cioè il diritto dei privati di avere tutte le informazioni che devono essere pubblicate sul sito.
Il piano della trasparenza deve indicare le misure attraverso cui dare attuazione a questi nuovi vincoli. Può prevedere referenti nei singoli uffici delle amministrazioni complesse e indica le procedure di monitoraggio. Esso deve inoltre contenere gli obiettivi strategici che si vogliono conseguire in tema di trasparenza, le modalità di coinvolgimento delle strutture e dei soggetti esterni portatori di interessi.
E ancora, vanno disciplinate le iniziative e gli strumenti di comunicazione per la diffusione dei contenuti del Programma e dei dati pubblicati, nonché l'organizzazione e i risultati attesi delle Giornate della trasparenza che ogni Pa deve realizzare per favorire il controllo diffuso. Nel piano vanno infine indicati i dati ulteriori rispetto a quelli minimi fissati dal legislatore che ogni amministrazione decide di pubblicare (articolo Il Sole 24 Ore del 16.07.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Certificatori, partono i corsi. Dal 12 luglio formazione doc per gli attestati energetici. In vigore il dpr n. 75/2013 che definisce requisiti professionali e procedure per l'abilitazione
Definiti i requisiti professionali e le procedure per diventare tecnico abilitato alla certificazione energetica degli edifici e rilasciare il nuovo attestato di prestazione energetica (Ape). I tecnici dal 12 luglio devono frequentare specifici corsi di formazione per la certificazione energetica della durata minima di 64 ore, al fine di ottenere un attestato di frequenza. I corsi sono tenuti, a livello nazionale, da università, enti di ricerca, ordini e collegi professionali, a livello regionale dalle regioni e province autonome e da altri soggetti autorizzati dalle regioni.

Questo è quanto prevede il dpr 16.04.2013 n. 75 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 27.06.2103 n. 149 .
Il regolamento è composto di 7 articoli e di un allegato, ed è entrato in vigore il 12 luglio. L'emanazione del regolamento è funzionale alla piena attuazione della direttiva 2002/91/Ce, e in particolare dell'articolo 7, visto che la Commissione europea già il 18.10.2006 ha avviato la procedura di messa in mora nei confronti dell'Italia, ai sensi dell'articolo 226 del Trattato Ce (procedura di infrazione 2006/2378). Con questo regolamento si completa il quadro della normativa nazionale in materia di certificazione energetica degli edifici e si definisce la figura del certificatore energetico.
Soggetti abilitati. Il regolamento (dpr n. 75/2013) consente di svolgere l'attività di certificazione energetica ai tecnici abilitati, che possono operare o da soli (come liberi professionisti o associati) o alle dipendenze di:
- enti pubblici e gli organismi di diritto pubblico che operano nel settore dell'energia e dell'edilizia;
- organismi pubblici e privati d'ispezione nel settore delle costruzioni edili, delle opere di ingegneria civile e di impiantistica, accreditati presso l'organismo nazionale o un suo equivalente europeo;
- società di servizi energetici (Esco).
Possono svolgere l'attività di certificatore i tecnici laureati in ingegneria, architettura, agraria e scienze forestali oppure quelli con diploma industriale, di geometra, o di perito agrario.
Corsi di formazione. I tecnici devono partecipare a specifici corsi di formazione, i cui contenuti minimi sono illustrati nell'allegato 1 al dpr n. 75/2013. I corsi sono tenuti, a livello nazionale, da università, enti di ricerca, ordini e collegi professionali, e sono autorizzati dal MiSe di intesa con il ministero delle infrastrutture e il ministero dell'ambiente. A livello regionale i corsi sono tenuti, dalle regioni e province autonome e da altri soggetti autorizzati dalle regioni.
Non sono tenuti a partecipare ai corsi di formazione i tecnici iscritti al proprio albo o collegio e in possesso di abilitazione professionale relativa alla progettazione di edifici e impianti asserviti agli edifici stessi, nell'ambito delle specifiche competenze a esso attribuite dalla legislazione vigente.
Indipendenza dei certificatori. Per assicurare la loro indipendenza, i certificatori devono dichiarare nell'Ape l'assenza di conflitto di interessi con i progettisti, i costruttori e i produttori di materiali coinvolti nella costruzione/ristrutturazione dell'edificio certificato. Il requisito di terzietà deve essere garantito anche rispetto ai vantaggi che possono derivare dai rapporti col committente che, in ogni caso, non potrà essere né un coniuge né un parente fino al quarto grado (articolo ItaliaOggi Sette del 15.07.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Pneumatici, su l'ecocontributo. Dal 20 luglio più costose le gomme per auto e moto.  Il ministero dell'ambiente ritocca gli oneri per i consumatori per la gestione dei futuri rifiuti.
Più caro dal 20.07.2013 l'eco-contributo che gli acquirenti di auto e moto nuove dovranno pagare ai rivenditori per la copertura dei costi di gestione degli pneumatici in dotazione una volta giunti a fine vita. Con il nuovo decreto direttoriale del 03.07.2013 il Minambiente ha infatti previsto un aumento (rispettivamente) del 13 e del 20% circa degli oneri verdi per gli pneumatici di autoveicoli e ciclomotori rispetto al 2012, lasciando invece sostanzialmente invariati quelli per macchine agricole ed industriali e prevedendo altresì una modesta diminuzione (intorno all'1,5%) per quelli relativi ad autobus e camion.
Il nuovo provvedimento adottato in attuazione del dm 82/2011 (e pubblicato sul sito istituzionale www.minambiente.it) sancisce così il passaggio (al netto di Iva) del contributo istituito dal dlgs 152/2006 (c.d. «Codice ambientale») da 5,25 a 5,40 per le auto e da 1,30 ad 1,53 euro per le moto, laddove per autocarri e bus impone invece il passaggio dall'attuale «range» 27/49,85 euro (in base al peso del mezzo) alla nuova gamma 26,97/48,79.
La gestione dei Pfu. Finalità del contributo è, come accennato, il finanziamento del sistema di gestione degli pneumatici divenuti rifiuti (tecnicamente «pneumatici fuori uso», da cui il noto acronimo «Pfu»), sistema disegnato dal dlgs 152/2006 e volto ad ottimizzarne il recupero. In base all'articolo 228 del dlgs 152/2006, infatti, produttori e importatori di pneumatici devono provvedere in forma singola o associata alla gestione su base annuale di un quantitativo potenziale di pneumatici fuori uso pari a quello delle nuove gomme dagli stessi soggetti immesso sul mercato nazionale nell'analogo arco temporale.
Il finanziamento di tale gestione è poi dallo stesso «Codice ambientale» posto a carico degli acquirenti finali, sia di soli pneumatici che di vetture che li hanno in dotazione, secondo il meccanismo previsto dai decreti ministeriali 82/2011 e 20.01.2012 (emanati in attuazione del dlgs 152/2006).
Mentre la riscossione è unica (e a cura del rivenditore del bene, che la indica in fattura) diversa è invece la destinazione del contributo: in caso di acquisto di soli pneumatici, esso è dal rivenditore direttamente versato al sistema di gestione dei Pfu al quale aderisce; in caso di acquisto di nuova vettura (con gomme) esso viene invece versato allo speciale fondo istituito presso l'Aci (Automobile Club d'Italia) per poi passare ai gestori che raccolgono gli pneumatici fuori uso presso gli autodemolitori. L'ammontare del contributo da pagare è ufficializzato annualmente dal Minambiente tramite propri decreti direttoriali, decreti nell'ambito dei quali si inserisce ora il nuovo ed omonimo provvedimento 03.
07.2013 (in vigore dal 20 luglio, ossia 15 giorni dopo la sua pubblicazione sul citato sito web, avvenuta il 5).
Pneumatici usati e Pfu. Nodale nella catena di gestione degli pneumatici a fine vita, sia per le responsabilità degli operatori che per il loro diritto al relativo e citato compenso, è la corretta individuazione della differenza tra gomme che costituiscono giuridicamente dei «rifiuti» (dunque: Pfu) e gomme che, invece, rifiuti non sono.
A chiarire il confine tra le due categorie ha di recente provveduto la Corte di cassazione. Con due sentenze del giugno 2012 (la 25207/2012 e la 25385/2012) la Suprema corte ha infatti indicato i criteri (alternativi) che determinano l'attribuzione dello status di rifiuto ad uno pneumatico, ossia: l'essere la gomma tenuta in stato di abbandono (indifferentemente dalle sue condizioni qualitative); oppure, sebbene non tenuta in stato di abbandono, l'essere lo stesso pneumatico in condizioni tali da non poter più essere riutilizzabile (né tal quale, né tramite ricostruzione).
Alla base dei principi sanciti dal giudice di legittimità due norme cardine del dlgs 152/2006, ossia: la definizione generale di «rifiuto» recata dall'articolo 183, comma 1, lettera a), dello stesso Codice (a mente del quale è tale «qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi», dunque anche uno pneumatico); l'inclusione, in seguito alla riforma operata dalla legge 179/2002, dei soli «pneumatici fuori uso» nell'elenco dei rifiuti allegato al Codice in parola (sotto la voce «16.01.03»), in luogo della più generale categoria degli «pneumatici usati» precedentemente presente, fatto indicante, ad avviso della Corte, la fuoriuscita dal novero dei rifiuti, sempre che non si versino in stato di abbandono, degli pneumatici riutilizzabili, tal quali od a seguito di ricostruzione (articolo ItaliaOggi Sette del 15.07.2013).

CONDOMINIO: Nuovi paletti ai condizionatori. Da rispettare decoro, utilizzo della facciata, immissioni. Slalom tra i divieti per l'installazione. Limiti dai regolamenti di condominio e comunali.
Condominio e condizionatori: un matrimonio difficile ma non impossibile. Con l'arrivo della stagione calda capita spesso di dover affrontare problemi legati all'installazione dei condizionatori nel rispetto della normativa condominiale e della quiete dei propri vicini.
Vediamo di elencare, in estrema sintesi, quelli più ricorrenti.
Le problematiche connesse all'installazione dei condizionatori in facciata. Il primo genere di difficoltà sorgono in relazione all'utilizzo della facciata dell'edificio condominiale per l'installazione del relativo impianto. A questo proposito si ricorda come la legge di riforma del condominio (n. 220/12), in vigore dallo scorso 18 giugno, abbia inserito a pieno titolo la stessa nella più ampia categoria delle parti comuni di proprietà di tutti i condomini. L'installazione in facciata del corpo motore del condizionatore in genere non crea particolari problemi di statica e sicurezza, ma può creare questioni in tema di estetica dell'edificio.
Si ripropone, allora, l'annosa questione dell'impatto visivo che il manufatto può avere sul decoro dello stabile. Tale problema, però, non riguarda solo la parte esterna dell'edificio condominiale, ma può interessare anche altre parti comuni. Così, recentemente, due condomini sono stato condannati a rimuovere i motori di due condizionatori (e tutti i manufatti di sostegno) sistemati nell'androne del fabbricato (Cassazione, sentenza del 13.05.2013, n. 11386). Secondo i giudici supremi, infatti, la destinazione dell'androne non è solo quella del libero transito dall'esterno verso il cortile interno del comprensorio, ma anche quella di conferire e preservare il decoro all'ingresso medesimo, a prescindere dalle condizioni estetiche e di manutenzione dell'immobile.
Il concetto di decoro architettonico. Il decoro architettonico consiste nell'estetica data dall'insieme delle linee e delle strutture ornamentali che caratterizzano l'edificio e imprimono al medesimo una determinata fisionomia: si tratta quindi di un bene comune il cui mantenimento è tutelato a prescindere dalla validità estetica delle modifiche che si intendono apportare.
È necessario sottolineare che si deve parlare di decoro architettonico non solo in relazione a edifici di particolare pregio, ma anche in relazione a costruzioni popolari che, comunque, hanno una loro linea, che può quindi essere danneggiata da opere che la modifichino, anche quando le stesse siano state eseguite per assicurare particolari utilità per l'uso o godimento delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini. In ogni caso l'alterazione del decoro ben può correlarsi alla realizzazione di opere che, pur se minime, vadano a mutare l'originario aspetto anche soltanto di singoli elementi o punti del fabbricato.
Quando i condizionatori compromettono il decoro. Alla luce di quanto sopra risulta evidente che un condomino può certamente installare in facciata un condizionatore di piccole dimensioni che, come tale, non vada a stravolgere l'armonia del caseggiato, soprattutto se, per colore e posizione, sia destinato a essere poco visibile. Al contrario, se un condomino installa un motore del condizionatore di mastodontiche dimensioni, su una parte esterna dell'edificio e nelle immediate vicinanze di alcune finestre, si determina un'alterazione del decoro architettonico e, di conseguenza, un deprezzamento dell'intero fabbricato che il giudice può liberamente quantificare senza bisogno di particolare motivazione.
Questo principio vale anche in caso di installazione effettuata sulla facciata interna dell'edificio e indipendentemente dal fatto che siano già presenti in facciata opere e manufatti oppure altri condizionatori, pur di minori dimensioni, o contatori del gas con relative tubazioni: tali circostanze, secondo i giudici, quand'anche arrechino un pregiudizio all'estetica dell'edificio, non per questo legittimano l'ulteriore aggravio che il condizionatore di considerevoli dimensioni di per sé provoca al decoro dell'immobile.
Il problema delle immissioni. Per l'installazione dei condizionatori non è richiesto il rispetto delle norme di legge in tema di distanze: il manufatto può occupare parte del muro perimetrale della proprietà del vicino o essere sistemato in adiacenza della proprietà del condomino limitrofo. Tuttavia l'impianto non può comportare immissioni intollerabili in direzione della proprietà dei vicini (cioè si deve evitare la fuoriuscita rilevante di vapore o acqua calda o la produzione di rumori insopportabili).
Per quanto riguarda il rumore i giudici hanno precisato che eccedono la normale tollerabilità le immissioni sonore che superino di tre decibel la c.d. rumorosità di fondo, intesa come il complesso dei rumori di origine varia (spesso non esattamente individuabili) presenti nel contesto ambientale in esame. Accertata l'intollerabilità delle immissioni da rumore proveniente dalle macchine di condizionamento dell'aria, ai danneggiati spetta il risarcimento del danno in relazione al periodo nel quale la situazione di disagio sia perdurata.
Quando addirittura si può commettere un reato. Non è raro che scatti anche la condanna penale nei confronti di coloro che installano condizionatori rumorosi nelle proprie abitazioni o nei luoghi delle rispettive attività professionali. Si parla, in questi casi, di disturbo alla quiete delle persone che abitano alloggi limitrofi, anche nel caso in cui a lamentarsi dei rumori sia soltanto uno dei nuclei familiari residenti nel condominio.
A stabilirlo è stata la Corte di cassazione, che con la recente sentenza n. 28874/2013 ha convalidato la somministrazione di 200 euro di multa ai danni del gestore di un centro commerciale responsabile di aver montato dei condizionatori le emissioni dei quali erano percepite fino al quarto piano del condominio sovrastante. In questo caso l'imprenditore è stato condannato anche a risarcire i danni morali subiti dai condomini del quarto piano che precedentemente lo aveva denunciato, contattando altresì un tecnico dell'Arpa per misurare i decibel fastidiosi.
I limiti all'installazione: il regolamento di condominio e quello comunale. Se una norma del regolamento di condominio vieta espressamente l'installazione di condizionatori in facciata il singolo condomino non può che attenersi a tale disposizione che, però, è valida solo se è contenuta in un regolamento predisposto dal costruttore del caseggiato (c.d. contrattuale) ed è stata accettata dai singoli acquirenti degli appartamenti negli atti di acquisto oppure deliberata dalla totalità dei condomini.
Questo significa che in tali casi il singolo condomino non può installare un condizionatore in facciata nemmeno se è stato autorizzato dall'assemblea con una delibera approvata a maggioranza. In ogni caso, prima di installare un impianto sul muro condominiale, è importante verificare anche che non siano previste limitazioni nei regolamenti comunali: questi ultimi, infatti, possono prevedere, ad esempio, il divieto di installare condizionatori sulle pareti esterne degli edifici del centro storico (articolo ItaliaOggi Sette del 15.07.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Controlli di efficienza energetica meno frequenti.
Le nuove regole in materia di esercizio, conduzione, controllo, manutenzione e ispezione degli impianti termici disposte dal dpr n. 74/2013, pubblicato sulla G.U. n. 149 del 27.06.2013 ed entrato in vigore lo scorso 12 luglio, riguardano anche gli impianti per la climatizzazione estiva degli edifici.
Tra le principali novità del regolamento si segnalano la minore frequenza dei controlli di efficienza energetica sugli impianti, che passa a due o quattro anni a seconda della tipologia e della potenza dell'impianto.
Sono state quindi stabilite delle temperature minime negli edifici in caso di climatizzazione estiva. Durante il funzionamento degli impianti per la climatizzazione estiva sono stati infatti fissati i valori minimi della temperatura, espressi in media ponderata, di 26°C–2°C di tolleranza per tutti gli edifici. In particolari condizioni o per specifiche categorie di edifici sono però previste deroghe al rispetto di tali limiti.
Le attività di esercizio, conduzione, controllo, manutenzione e ispezione degli impianti per la climatizzazione, nonché il rispetto delle disposizioni di legge in materia di efficienza energetica, sicurezza e tutela dell'ambiente, sono affidate al responsabile dell'impianto, che può delegarle a un terzo (il c.d. terzo responsabile). Le regioni e le province autonome sono state chiamate a istituire un catasto territoriale degli impianti termici e a gestirlo favorendone la connessione con quello relativo agli attestati di prestazione energetica.
Sono state quindi confermate le sanzioni previste dall'articolo 15 del dlgs n. 192/2005: una sanzione pecuniaria compresa tra 500 e 3 mila euro a carico di proprietario, conduttore, amministratore di condominio o terzo responsabile che non provvedano alle operazioni di controllo e di manutenzione e una sanzione compresa tra mille e sei mila euro a carico dell'operatore incaricato che non provveda a redigere e sottoscrivere il rapporto di controllo tecnico dell'impianto (articolo ItaliaOggi Sette del 15.07.2013).

VARI: Bonus mobili, corsa a ostacoli. I tre momenti più critici: date di acquisto, scelta dell'arredo e pagamento.
Per il bonus mobili si prospetta un percorso ricco di insidie. Chi in queste ore sta valutando la convenienza della detrazione fiscale del 50% per un massimo di 10mila euro di spese deve prestare molta attenzione a date e adempimenti per non perdere il diritto allo sconto fiscale.
Non c'è infatti solo la condizione di legare il rinnovo dell'arredamento a lavori di ristrutturazione che a loro volta beneficiano della detrazione per ottenere la restituzione di metà della spesa in dieci anni.
Il primo accorgimento riguarda le date. I dubbi si sono chiariti solo in questi giorni con il passaggio del decreto (Dl 63/2013) all'esame del Parlamento. In Senato infatti è stato inserito un emendamento all'articolo 16 che chiaramente fissa la partenza del bonus-mobili alle spese «documentate e sostenute dalla data di entrata in vigore del presente decreto». Il provvedimento è entrato in vigore il 6 giugno scorso. Non c'è spazio quindi per eventuali interpretazioni estensive e retroattive.
La data chiave del 6 giugno riguarda le spese sostenute per l'acquisto dei mobili. Discorso diverso è quello delle date dei lavori di ristrutturazione edilizia. In questo caso le certezze sono minori: se infatti non c'è dubbio che la detrazione per l'arredamento e gli elettrodomestici valga per lavori ancora in corso alla fatidica data del 6 giugno scorso, più incerta resta la possibilità di usufruirne per lavori ultimati, con tanto di comunicazione di fine lavori, magari lo scorso anno. In questo caso, prima di contare sullo "sconto" sarebbe meglio attendere le istruzioni dell'Agenzia delle entrate, visto che su questo aspetto non ci sono precedenti.
I pagamenti
Dopo il comunicato stampa dell'Agenzia delle entrate del 4 luglio scorso è chiaro che l'unico mezzo di pagamento accettato è il bonifico bancario o postale, che sul genere di quelli già richiesti per le ristrutturazioni edilizie deve essere "parlante" e quindi riportare:
- la causale del versamento attualmente utilizzata dalle banche e da Poste italiane;
- il codice fiscale del beneficiario della detrazione;
- il numero di partita Iva ovvero il codice fiscale del soggetto a favore del quale il bonifico è effettuato.
L'esigenza del bonifico rischia di scoraggiare qualche contribuente. Al momento infatti il pagamento di mobili ed elettrodomestici avviene in contanti, con assegni o con il ricorso a finanziamenti agevolati offerti dalle finanziarie. E se mentre appare possibile cambiare rotta e passare dall'assegno al bonifico, soprattutto per acquisti rilevanti non in pronta consegna, diventa molto più impervio servirsi dell'acquisto tramite finanziaria, con successivo pagamento a rate. Sia perché occorre cambiare le procedure della società finanziatrice (oggi basate sopratutto su Rid e domiciliazione bancaria), sia perché non c'è coincidenza tra il beneficiario del bonifico (la finanziaria) e l'emittente della fattura (il rivenditore di mobili). Anche su questo punto diventano urgenti i chiarimenti del Fisco.
Quali mobili
Il Senato ha già esteso la detrazione ai «grandi elettrodomestici di classe non inferiore alla A+». Per individuarli può aiutare (in attesa di specifici chiarimenti) il dossier del servizio studi della Camera, secondo cui si considerano tali comunemente: «frigorifero, lavatrice, congelatore, lavastoviglie, lavasciuga, forno» (articolo Il Sole 24 Ore del 15.07.2013).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Riqualificazione. Strumento alternativo all'esproprio per acquisire spazi pubblici senza costi
Milano scambia le aree urbane. Via alla perequazione con il Registro comunale delle cessioni.

Milano mette in pratica la perequazione urbanistica. Il capoluogo lombardo, infatti ha istituito il Registro delle cessioni (delibera di giunta n. 890 del 10.05.2013). Non esiste una legge nazionale sulla perequazione, ma l'istituto ha già modificato i criteri di pianificazione ed è ora pronto ad entrare nella prassi delle trasformazioni edilizie delle nostre città.
La perequazione è quella tecnica di pianificazione (espressamente recepita dall'ordinamento mediante il Dl 70/2011 che ha modificato l'articolo 2643 del codice civile) che prevede una ripartizione equa dei vantaggi e degli svantaggi derivanti dalla pianificazione territoriale. In assenza di una disciplina nazionale, la perequazione viene declinata dalle singole Regioni attraverso disposizioni tra loro non del tutto omogenee (si vedano la scheda e l'articolo in basso).
Le modalità
La città di Milano mediante il Pgt (Piano di governo del territorio) ha introdotto e si accinge ad attuare una peculiare forma di perequazione urbanistica su base diffusa.
Il Comune ha assegnato a tutte le aree della città costruita e consolidata un indice di «Utilizzazione territoriale unico», pari a 0,35 metro quadrato/metro quadrato e, al contempo, un indice di utilizzazione territoriale massimo, pari a un metro quadrato/metro quadrato. La differenza tra i due valori potrà essere raggiunta sfruttando diverse forme di premialità, tra le quali, prima tra tutte, la perequazione urbanistica. Ciò non significa che sia possibile costruire ovunque. La perequazione milanese è, infatti, finalizzata all'acquisizione da parte del Comune delle aree da destinare a servizi e attrezzature pubbliche, classificate come «pertinenze indirette» e anche definite come aree di «decollo» dei diritti volumetrici. I diritti edificatori attribuiti a tali aree non potranno essere utilizzati in loco e il relativo sfruttamento implica, anzi, la cessione gratuita delle stesse al Comune (ove occorra previa bonifica).
I diritti edificatori così "decollati" potranno essere collocati sull'intero territorio comunale edificabile e, in particolare, nelle aree di «atterraggio», che non sviluppino già l'indice massimo pari a 1 metro quadrato/metro quadrato. E qui sta il limite della previsione del Pgt che nella sostanza non consente di densificare le zone già edificate della città, che sviluppano indici ben superiori a questa soglia.
Per dare concreto avvio alla forme di perequazione, il Comune di Milano ha dunque approvato i criteri e gli indirizzi per il Registro delle cessioni.
Il sistema di registrazione deve, tra l'altro, indicare le aree di decollo, le aree di atterraggio, le quantità di diritti edificatori generati e il successivo trasferimento e sfruttamento, con i connessi dati catastali e dati proprietari. La registrazione avviene d'ufficio o su richiesta dell'interessato. Il Registro è tenuto dal responsabile del servizio gestione pianificazione generale che, al momento dell'annotazione, rilascia al proprietario un certificato attestante il numero progressivo di annotazione, l'entità dei diritti edificatori e gli estremi dell'atto dal quale derivano i diritti.
Del registro è prevista la libera consultazione anche su Internet.
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A fare la differenza sono indici e spostamenti all'interno del piano.
Sono tre i modelli sui diritti edificatori.

La perequazione urbanistica include in sé una grande varietà di modelli di pianificazione. Il modello più diffuso e da più tempo utilizzato è quello della perequazione interna al singolo comparto unitario oggetto di trasformazione urbanistica.
La perequazione di comparto prevede che le trasformazioni soggette a piano attuativo vengano realizzate sulla base di un progetto unitario che assicuri un'equa ripartizione dei diritti e degli oneri tra i proprietari delle singole aree incluse nel perimetro dell'ambito, indipendentemente dalle specifiche destinazioni d'uso. In questo modello, la capacità edificatoria non viene quindi attribuita alle specifiche aree ma all'intero ambito. Questa tipologia trova riconoscimento in diverse normative regionali (Lombardia, Campania, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e altre). Discende dall'esperienza sui comparti edificatori della legge urbanistica nazionale e costituisce una modalità di attuazione ampiamente e positivamente sperimentata sull'intero territorio nazionale.
Altro modello, simile, è quello della perequazione «punto a punto». Lo strumento urbanistico generale utilizza questa tecnica individuando, contestualmente, un'area di origine dei diritti edificatori (area di "decollo") e un'area specifica, in altra zona del territorio comunale, in cui i diritti edificatori devono essere ubicati (area di "atterraggio"). I diritti edificatori attribuiti all'area di decollo non possono essere utilizzati in loco e, ai fini del relativo sfruttamento, occorre anzi la cessione gratuita dell'area al Comune. Questa tecnica è presente in numerosi strumenti urbanistici (in particolare in Lombardia e in Veneto).
Un ulteriore modello è, infine, quello della perequazione "diffusa", che si fonda sulla attribuzione di un indice di edificabilità uniforme su tutto il territorio comunale, che generi volumetrie commerciabili e trasferibili su diverse aree di atterraggio, non puntualmente identificate, al fine dell'acquisizione da parte del Comune delle aree da destinare a servizi pubblici. Questo modello è espressamente declinato nella Legge urbanistica della Regione Lombardia.
Il sistema richiede l'istituzione di un Registro comunale delle cessioni e comporta un distacco tra i diritti edificatori (liberamente trasferibili e commerciabili) e il bene immobile che li ha generati.
Un simile modello è stato adottato a Milano (si veda l'articolo in alto). La tecnica perequativa in questione è astrattamente valida, ma in concreto risulta efficace solo in presenza di un mercato immobiliare vivace e dinamico, condizione che certo non è ad oggi presente.
I mercati però sono mutevoli e gli strumenti urbanistici sono destinati a durare nel tempo.
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La trascrizione. Stesso iter degli immobili.
Per il passaggio serve l'atto scritto.

È stato finalmente risolto il dilemma della qualificazione dei diritti edificatori e cioè il tema di stabilire se la potenzialità edificatoria spettante a una data area, in base agli strumenti urbanistici, fosse possibile oggetto di contrattazione e se, quindi, la "capacità volumetrica" di un dato fondo fosse trasferibile ad altro fondo (o, addirittura, potesse essere distaccata da un fondo e rimanere "in volo", e cioè in attesa di essere impressa su un altro fondo, quello sul quale la cubatura assume la concretezza degli edifici che ne sono il risultato).
Infatti, con l'articolo 5, comma 3, del Dl 70/2011, è stata introdotta nel codice civile (all'articolo 2643, n. 2-bis) la previsione della trascrivibilità nei registri immobiliari dei «contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano diritti edificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale».
Con l'introduzione di questa norma, non c'è più dubbio che:
- i diritti edificatori siano un possibile oggetto di un contratto traslativo (ad esempio: di una compravendita, ma anche di una donazione, di una permuta, di un conferimento in società, eccetera);
- una volta "prelevata" una volumetria da una data area, si possa dare pubblicità nei registri immobiliari al fatto che questo fondo "di decollo" è stato privato di una certa quantità di volumetria; così come, reciprocamente, al fatto che, una volta che si sia impressa una certa volumetria sul fondo "di atterraggio", la pubblicità immobiliare possa dar conto del suo avvenuto incremento volumetrico;
- i diritti edificatori staccati da un fondo possano sia essere immediatamente aggregati a un altro fondo sia rimanere "in volo", e cioè immagazzinati nel patrimonio del soggetto che li abbia acquistati, in attesa di essere da costui ceduti ad altro acquirente oppure in attesa di essere impressi sul fondo che sia destinato al materiale sfruttamento della capacità edificatoria prelevata dal fondo "di decollo".
Non pare più esservi dubbio anche sulla natura dei diritti edificatori, dalla cui identificazione discendono una pluralità di rilevanti conseguenze applicative (ad esempio, la normativa contrattuale applicabile, il trattamento tributario, eccetera). In sintesi, rendendo i diritti edificatori possibile oggetto di contratti con i quali i diritti si «trasferiscono, costituiscono o modificano» e disponendo la trascrizione di questi contratti nei registri immobiliari, è assai difficile, d'ora innanzi, accedere a tesi che (come talora è avvenuto in passato) sostengano la loro natura non immobiliare.
Il contratto che dispone il trasferimento dei diritti, al pari di quello relativo a bene immobile, va redatto per iscritto, a pena di nullità, e deve contenere tutte le caratteristiche dei contratti che hanno effetti reali immobiliari: ad esempio, occorre allegare, sempre a pena di nullità, il certificato di destinazione urbanistica.
La fiscalità di questi contratti è quella applicabile agli atti traslativi di aree edificabili: e pertanto, si tratta di contratti soggetti a Iva (se il cedente è un'impresa) oppure, se il cedente è un privato, occorre procedere all'applicazione delle imposte di registro, ipotecaria e catastale con l'aliquota complessiva dell'11 per cento; ma anche con la possibilità di avvalersi di norme agevolative, come quella che dispone l'imposta di registro all'1% per il trasferimento di aree in piani particolareggiati di edilizia residenziale (articolo Il Sole 24 Ore del 15.07.2013).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Il tempo per la divisa è nell'orario di lavoro. Cassazione. Solo il contratto può derogare.
Il tempo impiegato dai dipendenti per indossare la divisa o gli indumenti di lavoro deve essere considerato interno all'orario di lavoro.
Questo principio si applica sia nelle Pubbliche amministrazioni sia nelle aziende private e può essere derogato solamente in presenza di specifiche clausole del contratto nazionale, oppure se il datore di lavoro lascia un ampio margine di autonomia ai lavoratori.

Possono essere riassunte in questi termini le principali indicazioni contenute nella sentenza n. 11828/2013 della Corte di Cassazione, Sez. lavoro.
La pronuncia contiene il seguente principio di diritto: «Il tempo occorrente per la vestizione e la svestizione degli indumenti di lavoro rientra nell'orario di lavoro effettivo, e deve essere retribuito come tale, ove dette operazioni, con apposita disciplina del momento e del luogo di esecuzione, siano imposte dal datore di lavoro, mentre non deve essere retribuito ove la scelta di momento e luogo sia lasciata al lavoratore».
Ecco la chiave interpretativa per distinguere se questo tempo debba essere considerato interno o meno all'orario di lavoro: «Ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa o gli indumenti (anche eventualmente presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro), la relativa operazione fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell'attività lavorativa, e come tale il tempo necessario per il suo compimento non deve essere retribuito. Se, invece, le modalità esecutive di detta operazione sono imposte dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, l'operazione stessa rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito».
La sentenza evidenzia infine che queste indicazioni sono perfettamente coerenti con la definizione di orario di lavoro dettata dal Dlgs 66/2003 e dalle indicazioni comunitarie: l'orario di lavoro è «qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni» (articolo Il Sole 24 Ore del 15.07.2013).

ATTI AMMINISTRATIVIPer i ritardi della Pa rimborsi con il freno.
Il rispetto del termine per la conclusione dei procedimenti amministrativi e i ritardi nell'emanazione degli atti è un problema annoso che negli ultimi tempi è diventato quasi un'ossessione del legislatore. Anche il recentissimo decreto del "fare" (n. 69/2013) introduce un nuovo rimedio: l'indennizzo automatico di 30 euro per ogni giorno di ritardo fino a un massimo di duemila euro.
Come valutare questa iniziativa?
Anzitutto bisogna ricordare che la prevedibilità dei tempi delle decisioni delle amministrazioni è un principio di civiltà e di efficienza. Consente infatti la programmazione delle attività dei privati che per esempio chiedono il permesso a costruire o un'autorizzazione necessaria per avviare un'attività economica. Oltre vent'anni fa la legge sulla trasparenza amministrativa (n. 241/1990) introdusse un sistema per stabilire per ciascun tipo di procedimento un termine certo. Ma subito si pose un problema: che succede se l'ufficio non lo rispetta?
Le conseguenze inasprite da leggi recenti sono di più tipi: responsabilità disciplinare del funzionario negligente; nei casi più gravi responsabilità penale per il reato di rifiuto o omissione di atti d'ufficio (articolo 428 del Codice penale); intervento sostitutivo del superiore gerarchico sollecitato dall'interessato; ricorso al giudice amministrativo contro il cosiddetto "silenzio" della Pubblica amministrazione per ottenere il provvedimento richiesto anche attraverso la nomina da parte del giudice di un commissario ad acta; risarcimento per il danno da ritardo.
Anche la legge anticorruzione (n. 190/2012) prevede che il responsabile della prevenzione della nominato in ciascuna amministrazione debba monitorare il rispetto dei termini procedimentali. I ritardi costituiscono infatti uno dei fattori che promuovono atti corruttivi volti a "oliare" gli ingranaggi burocratici.
Il decreto del fare aggiunge ora l'indennizzo automatico (articolo 29), riprendendo una proposta avanzata già negli anni Novanta del secolo scorso (legge 59/1997).
Anzitutto il nuovo rimedio è introdotto per ora solo in via sperimentale. Vale infatti solo per i procedimenti che riguardano le imprese e tra 18 mesi si stabilirà se confermarlo, rimodularlo o abbandonarlo.
In secondo luogo, il diritto all'indennizzo sorge a due condizioni: che l'interessato abbia richiesto al superiore gerarchico entro un termine perentorio di sette giorni un intervento sostitutivo; che anche il superiore gerarchico non rispetti il termine previsto per l'esercizio del potere sostitutivo.
Viene meno così l'automatismo visto che si presuppone comunque una reazione dell'interessato.
Infine, il decreto del fare prevede alcune norme processuali per agevolare la liquidazione dell'indennizzo e l'invio delle sentenze di condanna alla Corte dei conti affinché questa possa recuperare il danno erariale.
Con queste cautele e limitazioni è probabile che neppure il sistema dell'indennizzo sia risolutivo. Infatti, quasi mai l'interessato "osa" sollecitare il potere sostitutivo. In ogni caso, specie nei casi di iniziative economiche ritardate dalle lungaggini burocratiche, 30 euro al giorno rappresentano una magra consolazione (articolo Il Sole 24 Ore del 15.07.2013).

ENTI LOCALI: Partecipate. Per i municipi fino a 30mila abitanti vale la scadenza del 30 settembre.
Società strumentali, un rinvio solo a metà. La proroga non ha cambiato i termini per le dismissioni di tutte le aziende.

Il decreto «del fare» ha rinviato i termini per dismettere le società strumentali come imposto dalla spending review dello scorso anno, ma lo slittamento opera in pieno solo nei Comuni con più di 30mila abitanti. Per la stragrande maggioranza dei Comuni (7.787 su 8.092) che non raggiungono questa cifra, il rinvio opera solo a metà, perché entro il 30 settembre scatta l'obbligo di liquidazione delle società o di dismissione delle partecipazioni previsto dall'articolo 14, comma 32, del Dl 78/2010.
L'ennesimo intreccio normativo sul travagliato mondo delle partecipate, insomma, fa inciampare ancora una volta i piani del legislatore, alle prese ormai con un affastellarsi di regole praticamente ingestibile. Proviamo a fare ordine.
Il Dl 95/2012 ha imposto la privatizzazione entro il 30 giugno scorso o lo scioglimento entro il 31 dicembre prossimo delle società controllate che nel 2011 hanno raccolto almeno il 90% del fatturato dalla Pa. Il Dl 69/2013 (articolo 49, comma 1), constatata l'ovvia difficoltà applicativa (denunciata su questo giornale fin dall'anno scorso) ha introdotto la consueta soluzione del rinvio, allineando al 31 dicembre i termini per la privatizzazione e lo scioglimento, e facendo decorrere dal 01.07.2014 l'assegnazione del servizio alla società privatizzata per 5 anni.
Il solito escamotage non ha però fatto i conti con l'articolo 14, comma 32, del Dl 78/2010, cioè la norma che vieta ai Comuni fino a 30mila abitanti di avere società e ne consente solo una agli enti che contano fra 30.001 e 50mila abitanti. Nemmeno questa norma ha evitato il consueto tran tran di rinvii, con il solito corredo di inciampi e interventi scoordinati. Nella sua formulazione attuale, la stop alle partecipazioni nei Comuni fino a 30mila abitanti scatta al 30 settembre prossimo (articolo 29, comma 11-bis, della legge 14/2012), e dal momento che non effettua distinzioni di sorta riguarda sia le società di servizi pubblici locali sia le aziende strumentali. Nei Comuni fino a 30mila abitanti, dunque, queste ultime si vedono di fatto prolungare il calendario di soli tre mesi, dal 30 giugno al 30 settembre.
In questa chiave, allora, torna utile ricordare le due deroghe agli obblighi di dismissione previsti dalla stessa manovra del 2010: la chiusura in utile dei bilanci degli ultimi tre anni, il superamento del limite dimensionale grazie a più Comuni soci.
Diverso, e ancor più intricato, il caso dei Comuni che contano fra 30.001 e 50mila abitanti. L'articolo 29, comma 11-bis della legge 14/2012, ha spostato di nove mesi solo il termine riferito alle società dei comuni con meno di 30mila abitanti, in quanto fa riferimento alla precedente disposizione di modifica del comma 32 (articolo 16, comma 27, della legge 148/2011), che riguarda appunto solo la prima parte della disposizione, e non i Comuni fra 30mila e 50mila abitanti. Per loro, quindi, sarebbe rimasta inalterata la scadenza del 31.12.2012 introdotta dall'articolo 2, comma 43, della legge 10/2011.
Tuttavia su questo punto alcune sezioni regionali della Corte dei Conti hanno individuato la scadenza sulla base di un'interpretazione sistemica, che spostando tutti i termini originari di 9 mesi porta la loro scadenza al 30.09.2014 (sezione regionale Lombardia, delibera 66/2013/PAR).
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Le date
30/9 - La scadenza generale
Entro questa data i Comuni fino a 30mila abitanti devono dismettere le loro partecipazioni, sia quelle in società di servizi pubblici locali sia quelle in aziende strumentali. Possibile derogare solo nel caso in cui gli ultimi tre bilanci della società siano stati chiusi in utile
31/12 - I termini per le strumentali
A questa data è stato rinviato dal Dl del «Fare» (articolo 49, comma 1, del Dl 69/2013) il termine per l'alienazione delle società strumentali, che era stato fissato al 30 giugno dal Dl 95/2012. Il rinvio a fine dicembre, però, nei fatti opera solo per i Comuni sopra i 30mila abitanti.
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Razionalizzazione. Negli enti fra 30mila e 50mila abitanti.
La creazione della holding non dribbla gli obblighi.

La costituzione di holding non consente agli enti locali di dribblare gli obblighi di liquidazione delle società partecipate e di razionalizzazione degli altri organismi (fondazioni, aziende speciali, istituzioni).
Le norme sullo scioglimento delle società (articolo 14, comma 32, del Dl 78/2010 e articolo 4 del DL 95/2012), oltre a quelle che disciplinano il riordino degli altri organismi (articolo 9 del Dl 95/2012) sono state oggetto di numerose richieste di parere ai magistrati contabili.
Per la «salvaguardia della finanza pubblica» è stata esclusa, per i Comuni fra 30mila e 50mila abitanti, la possibilità di fare ricorso a una holding per fondere in un'unica società del Comune tutte le partecipazioni esistenti.
È stato infatti evidenziato (sezione regionale di controllo Umbria, delibera 117/2013/PAR) che i profili strutturali della holding fanno emergere la sua oggettiva inidoneità a ridurre ad unità le società che funzionalmente si collegano in essa, con riferimento ad ogni settore del diritto: tributario (Cassazione, sezioni Unite, n. 472/1964), giuslavorista (Cassazione, sezione Lavoro, n. 3869/1982) e/o fallimentare (Cassazione, sezione I, n. 4550/1992). Una pronunzia che si pone in termini più critici rispetto a precedenti valutazioni (Corte dei Conti Lombardia, delibera 1/2012/PAR e Piemonte delibera n. 44/2013/PAR), che hanno focalizzato l'attenzione sulle criticità derivanti dal possibile utilizzo della holding a fini elusivi del Patto.
La linea di massima afferenza al Codice civile (seppure con qualche valutazione contraddittoria) si è avuta in numerose analisi sulla trasformazione di società in aziende speciali, nelle quali la Corte dei conti del Lazio (delibere n. 2/2013/PAR e n. 84/2013/PAR) ha ammesso questa possibilità, mentre quella del Veneto l'ha negata (delibera n. 127/2013/PAR), non individuando l'organismo tra quelli riportati nell'articolo 2500-septies del Codice civile, che disciplina la trasformazione eterogenea. Le analisi sui profili applicativi delle norme sullo scioglimento delle partecipate hanno determinato interpretazioni particolari, a fronte anche delle criticità insite nelle stesse norme.
In relazione all'articolo 4 del Dl 95/2012, dopo l'eliminazione nel comma 8 del parametro di valore riferito agli affidamenti in house di servizi strumentali (200mila euro, abrogato dall'articolo 34, comma 27, del Dl 179/2012) gli enti si sono trovati di fronte a una previsione di deroga alla disciplina dello scioglimento che si è aggiunta a quelle previste nel comma 3 (che riguarda, ad esempio, le società che gestiscono banche dati strategiche). Queste società, anche se evitano gli obblighi di dismissione, non possono però sottrarsi ai vincoli previsti dalle altre parti dell'articolo 4, che impongono limiti ai cda (comma 4), limiti al turn-over e ai contratti a tempo determinato (commi 9-10) e blocco dei trattamenti economici (comma 11).
A chiarirlo è stata la Corte dei conti, sezione di controllo Lombardia, nella delibera 233/2013/PAR
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.07.2013).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATANon può essere opposto il decorso del termine decadenziale a colui che non poteva comunque continuare o avviare l'edificazione per fatti estranei alla sua volontà.
Se ordinariamente la decadenza disciplinata dall'art. 15 D.P.R. n. 380/2001 consegue all'inerzia dell'interessato, questa deve essere esclusa se venga rappresentata la sussistenza di fatti impedienti che possano giustificare l’interruzione dei termini, e questi fatti siano oggetto di valutazione e verifica in sede amministrativa.
Tale situazione deve poi essere considerata in modo del tutto peculiare quando si tratti di ragioni di vera e propria forza maggiore. In tale prospettiva la natura forzosamente estranea alla sfera del controllo del titolare del titolo abilitativo a costruire fa ritenere che il termine per l'ultimazione delle opere non possa decorrere.
In quanto ipotesi di "causa di forza maggiore", l'interessato non può -e quindi non deve neanche- preoccuparsi di procedere alla richiesta di proroga. Il tempo necessario per l'esecuzione delle opere in tali casi è automaticamente prolungato in misura proporzionale al tempo necessario a rimuovere l’impedimento.
La giurisprudenza ha concordemente ritenuto che è illegittimo il provvedimento dell'Amministrazione comunale di declaratoria di decadenza della concessione edilizia allorché sussistano impedimenti assoluti all'esecuzione dei lavori segnalati o comunque conosciuti all'Amministrazione e l'impedimento non sia riferibile alla condotta del concessionario, per cui è tale da costituire quella causa di forza maggiore che sospende il decorso dei termini previsti dall'art. 4, comma 4, l. 28.01.1977 n. 10.
Posto quindi che la scadenza del termine apposto all'autorizzazione edilizia per l'avvio dei lavori non determina, automaticamente, la cessazione di effetti del provvedimento, ma costituisce soltanto il presupposto per l'accertamento della eventuale decadenza dall'autorizzazione edilizia, la Sezione non può che ribadire il proprio precedente orientamento per cui le ipotesi di sospensione o proroga connesse a forza maggiore o ad altre cause non riferibili alla condotta del titolare della concessione, quando assolutamente ostative dei lavori, producono l'effetto di prolungare automaticamente il tempo massimo stabilito per l'esecuzione delle opere.
Peraltro nella fattispecie non può trovare piena applicazione la disposizione di cui al 2° comma dell’art. 15 del D.P.R. n. 380/2001, la quale contempla una decadenza “di diritto” del permesso di costruire nell’ipotesi in cui i termini per l’inizio e la conclusione dei lavori edili siano decorsi e non ne sia stata chiesta la proroga anteriormente alla scadenza. La norma opera nel caso di “fatti sopravvenuti” estranei alla volontà del titolare del permesso, che ostacolino le attività edificatorie. Nel caso di specie gli impedimenti non sono stati determinati da sopravvenienze, ma da circostanze di fatto preesistenti –la presenza di condutture interrate nel suolo interessato dalle opere realizzande- e sconosciute all’impresa prima dell’avvio delle operazioni di scavo.
Vale, perciò, il principio generale dell’interruzione per cause di forza maggiore dei termini volti ad effetti a rilevanza giuridica, e non invece la predetta disposizione restrittiva, la quale in caso di eventi sopravvenuti correla l’effetto decadenziale sul titolo edilizio sia al decorso dei termini sia all’assenza di richiesta di proroga anteriormente ad esso. Norma peculiare che deroga al generale principio dell’interruzione per forza maggiore e che, per questa ragione e per le regole dell’interpretazione legislativa, non può essere applicata oltre i casi strettamente previsti.

Con permesso di costruire rilasciato il 17.06.2009 la Delta Parcheggi s.r.l. è stata autorizzata a realizzare in via Leonardi Cattolica, Roma, un’autorimessa interrata per gli effetti di cui alla legge n. 122/1989.
Con nota del 24.07.2009 la società ha comunicato all’Amministrazione di Roma Capitale l’avvio delle attività. Durante l’esecuzione delle opere di sbancamento è stata riscontrata dagli operai del cantiere la presenza di condutture interrate per il passaggio del metano. La Delta Parcheggi, pertanto, in data 02.08.2009 ha inoltrato richiesta di spostamento dei condotti alla società proprietaria, la ITALGAS. Le operazioni hanno richiesto l’accordo con i proprietari dei suoli e la formalizzazione e l’accettazione del preventivo di costo per le opere di spostamento.
Gli interventi sono stati completati il 12.01.2010; ma ripreso lo scavo è emersa l’esistenza di una conduttura elettrica. È stato dunque richiesto l’intervento della società proprietaria, l’ACEA, alla quale è stato sollecitato lo spostamento dei cavi. I lavori di spostamento del condotto elettrico sono stati ultimati il 19.07.2010.
Con nota n. prot. 5630 del 01.02.2011 la U.O. Permessi di Costruire di Roma Capitale ha comunicato l’avvio del procedimento per la dichiarazione di decadenza del titolo edilizio, ai sensi dell’art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, giacché a seguito di verifiche in loco del 26.11.2010 e del 19.01.2011 è stata constatata l’assenza di attività edilizia utile a definire l’inizio dei lavori quale dies a quo per la decorrenza del termine annuale, alla scadenza del quale il titolo edificatorio decade di diritto in assenza di richiesta di proroga anteriormente presentata.
Con i provvedimenti impugnati è stata pronunciata la decadenza del permesso di costruire.
Il Collegio, come per fattispecie simili esaminate dalla Sezione (cfr. TAR Lazio, II, 07.06.2010 n. 15939), ritiene che non possa essere opposto il decorso del termine decadenziale a colui che non poteva comunque continuare o avviare l'edificazione per fatti estranei alla sua volontà.
Se ordinariamente la decadenza disciplinata dall'art. 15 D.P.R. n. 380/2001 consegue all'inerzia dell'interessato, questa deve essere esclusa se venga rappresentata la sussistenza di fatti impedienti che possano giustificare l’interruzione dei termini, e questi fatti siano oggetto di valutazione e verifica in sede amministrativa.
Tale situazione deve poi essere considerata in modo del tutto peculiare quando si tratti di ragioni di vera e propria forza maggiore. In tale prospettiva la natura forzosamente estranea alla sfera del controllo del titolare del titolo abilitativo a costruire fa ritenere che il termine per l'ultimazione delle opere non possa decorrere.
In quanto ipotesi di "causa di forza maggiore", l'interessato non può -e quindi non deve neanche- preoccuparsi di procedere alla richiesta di proroga. Il tempo necessario per l'esecuzione delle opere in tali casi è automaticamente prolungato in misura proporzionale al tempo necessario a rimuovere l’impedimento.
La giurisprudenza ha concordemente ritenuto che è illegittimo il provvedimento dell'Amministrazione comunale di declaratoria di decadenza della concessione edilizia allorché sussistano impedimenti assoluti all'esecuzione dei lavori segnalati o comunque conosciuti all'Amministrazione e l'impedimento non sia riferibile alla condotta del concessionario, per cui è tale da costituire quella causa di forza maggiore che sospende il decorso dei termini previsti dall'art. 4, comma 4, l. 28.01.1977 n. 10 (cfr. TAR Lazio Roma, II, 15.04.2004 n. 3297; Cons. St., V, 29.01.2003 n. 453; TAR Liguria, I, 22.06.2007 n. 1200).
Posto quindi che la scadenza del termine apposto all'autorizzazione edilizia per l'avvio dei lavori non determina, automaticamente, la cessazione di effetti del provvedimento, ma costituisce soltanto il presupposto per l'accertamento della eventuale decadenza dall'autorizzazione edilizia (cfr. Consiglio Stato, V, 18.09.2008 n. 4498), la Sezione non può che ribadire il proprio precedente orientamento per cui le ipotesi di sospensione o proroga connesse a forza maggiore o ad altre cause non riferibili alla condotta del titolare della concessione, quando assolutamente ostative dei lavori, producono l'effetto di prolungare automaticamente il tempo massimo stabilito per l'esecuzione delle opere (cfr. TAR Lazio Roma, II, 24.11.2004 n. 13996; id., 07.06.2010 n. 15939 cit.).
Peraltro nella fattispecie non può trovare piena applicazione la disposizione di cui al 2° comma dell’art. 15 del D.P.R. n. 380/2001, la quale contempla una decadenza “di diritto” del permesso di costruire nell’ipotesi in cui i termini per l’inizio e la conclusione dei lavori edili siano decorsi e non ne sia stata chiesta la proroga anteriormente alla scadenza. La norma opera nel caso di “fatti sopravvenuti” estranei alla volontà del titolare del permesso, che ostacolino le attività edificatorie. Nel caso di specie gli impedimenti non sono stati determinati da sopravvenienze, ma da circostanze di fatto preesistenti –la presenza di condutture interrate nel suolo interessato dalle opere realizzande- e sconosciute all’impresa prima dell’avvio delle operazioni di scavo.
Vale, perciò, il principio generale dell’interruzione per cause di forza maggiore dei termini volti ad effetti a rilevanza giuridica, e non invece la predetta disposizione restrittiva, la quale in caso di eventi sopravvenuti correla l’effetto decadenziale sul titolo edilizio sia al decorso dei termini sia all’assenza di richiesta di proroga anteriormente ad esso. Norma peculiare che deroga al generale principio dell’interruzione per forza maggiore e che, per questa ragione e per le regole dell’interpretazione legislativa, non può essere applicata oltre i casi strettamente previsti.
Il provvedimento decadenziale del 31.03.2011, che non tiene conto delle circostanze impeditive di forza maggiore preesistenti, deve perciò essere annullato. Altresì deve essere annullato il provvedimento del 31.08.2011, che, sotto la specie del riesame disposto dal Giudice con l’ordinanza n. 2497/2011, è invece atto di mera conferma del precedente, né rinnova l’istruttoria già definita con le verifiche del novembre 2010 e del gennaio 2011, sulla quale fonda il provvedimento del 31.03.2011.
Non sussistono pregiudizi che possano essere oggetto di risarcimento, anche considerato che i provvedimenti cautelari di sospensione concessi dal TAR hanno consentito il prosieguo delle attività edilizie (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 18.07.2013 n. 7256 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASussiste l'inconfigurabilità di vizi di difetto di motivazione con riferimento alla determinazione della somma degli oneri di urbanizzazione, in quanto essa risulta da un mero calcolo materiale da effettuarsi sulla base di puntuali indicazioni normative, senza che in proposito residui un margine di discrezionalità.
Non è pertanto configurabile a carico dell’amministrazione, nella redazione di tali atti aventi natura paritetica, un onere di specificare le ragioni della decisione adottata, sicché l'interessato può solo contestare l'erroneità dei conteggi effettuati dall'ente.

Orbene, sul punto deve richiamarsi la consolidata giurisprudenza amministrativa in ordine alla inconfigurabilità di vizi di difetto di motivazione con riferimento alla determinazione della somma degli oneri di urbanizzazione, in quanto essa risulta “da un mero calcolo materiale da effettuarsi sulla base di puntuali indicazioni normative, senza che in proposito residui un margine di discrezionalità. Non è pertanto configurabile a carico dell’amministrazione, nella redazione di tali atti aventi natura paritetica, un onere di specificare le ragioni della decisione adottata, sicché l'interessato può solo contestare l'erroneità dei conteggi effettuati dall'ente” (in tal senso, Tar Toscana, sez. III, 18.12.2001, n. 2037; Tar Campania, Salerno, 21.07.2005, n. 1319; TAR Lazio, Sez. II, 18.02.2005, n. 1410; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 05.05.2004, n. 1620; TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 29.03.2000 n. 1911; TAR Puglia Bari, sez. III, 03.06.2009, n. 1376; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 17.09.2009, n. 4983) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 18.07.2013 n. 7228 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGODisabili. Va ampliata la possibilità di lasciare temporaneamente il lavoro per assistere un familiare. Congedo straordinario esteso ai parenti entro il terzo grado.
Il disabile ha diritto a essere assistito dai familiari, per questo il congedo straordinario va esteso ai parenti conviventi entro il terzo grado.

La Corte costituzionale (sentenza 18.07.2013 n. 203) afferma il contrasto con la Carta dell'articolo 42, comma 5, del Dlgs 53/2000 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, a norma dell'articolo 15 della legge 53/2000) per la parte in cui, in caso di mancanza o decesso o malattie invalidanti dei soggetti individuati dalla disposizione, non include tra i soggetti legittimati a usufruire del congedo anche i parenti conviventi o gli affini entro il terzo grado.
Secondo la Corte costituzionale è incomprensibile che l'apporto di questi ultimi sia circoscritto e riconosciuto solo per quanto riguarda i permessi previsti dalla legge 104/1992, mentre non è contemplato per ottenere i congedi straordinari.
Nel ripercorrere la storia della norma impugnata il giudice redattore Cartabia ricorda che la Corte costituzionale ha ampliato nel tempo il numero dei soggetti destinatari, allargando il beneficio ai fratelli, al coniuge e al figlio convivente. Integrazioni imposte dai cambiamenti demografici che hanno fatto crescere la richiesta e reso necessario l'adeguamento di uno strumento che è espressione dello Stato sociale.
In questo solco si inserisce la pronuncia che bolla come incostituzionale (articoli 2, 3, 4, 29, 32 e 35) la limitazione imposta.
La famiglia deve costituire l'ambito privilegiato di assistenza la disabile, al quale come soggetto debole vanno garantite, «oltre alle necessarie prestazioni sanitarie e di riabilitazione, anche la cura, l'inserimento sociale e, soprattutto la continuità delle relazioni costitutive della personalità umana». La restrizione imposta mette a rischio tutto nel caso nessuno dei soggetti legittimati per legge sia disponibile o in condizioni di prendersi cura del disabile, ma non solo.
La legge sotto esame lede anche il divieto di disparità di trattamento, perché in maniera discriminatoria non include ulteriori ipotesi «di fronte a una posizione sostanzialmente identica di un congiunto convivente rispetto a quella di altri soggetti già previsti dalla norma e a una pari esigenza di tutela della salute psicofisica della persona affetta da handicap grave e di promozione della sua integrazione nella famiglia».
Il parente che, malgrado escluso dal beneficio, volesse comunque garantire la sua assistenza sarebbe costretto a rinunciare al proprio lavoro, a ridurre il numero di ore o a cercare un'attività compatibile con le sue esigenze.
Del resto la Corte ha affermato da tempo la necessità di adottare gli interventi economici integrativi a sostegno delle famiglie, che rivestono un ruolo fondamentale nella cura dei disabili la cui gravità sia accertata. Il congedo rientra tra questi strumenti (articolo Il Sole 24 Ore del 19.07.2013).

PUBBLICO IMPIEGOHandicap, permessi fino al terzo grado.
Fino al terzo grado di parentela i permessi e congedi per accudire il parente portatore di handicap. E lo straniero che ha famiglia non deve essere automaticamente espulso: si devono valutare i vincoli familiari (anche se non ha chiesto il ricongiungimento).

Con due sentenze la Corte costituzionale, seppure in ambiti diversi, dà rilievo ai collegamenti familiari. Vediamo in che modo.
DISABILI
Il caso è partito dal nipote desideroso di accudire lo zio disabile (parente di terzo grado). Ma la legge arriva, al massimo, al secondo grado (fratelli e sorelle).
Con la sentenza 18.07.2013 n. 203 la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 42, comma 5, del dlgs 151/2001 (Testo unico sulla tutela e sostegno della maternità e paternità), nella parte in cui non include tra i soggetti abilitati a fruire del congedo il parente o l'affine entro il terzo grado convivente, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti degli altri soggetti individuati dalla norma, idonei a prendersi cura della persona in situazione di disabilità grave.
La disciplina prevedeva i permessi per il coniuge convivente di soggetto con handicap o, in mancanza, per il padre o la madre anche adottivi; in caso di mancanza dei genitori, i permessi potevano essere fruiti dai dei figli conviventi e, in caso di mancanza di figli, da uno dei fratelli o sorelle conviventi. Con la sentenza si estende la possibilità di cura anche per i parenti fino al terzo grado.
STRANIERI

Non si può espellere lo straniero condannato senza considerare i sui vincoli familiari. Anche se non ha fatto istanza di ricongiungimento.
La Corte costituzionale con la sentenza 18.07.2013 n. 202 ha esteso la tutela goduta da chi ha presentato domanda di ricongiungimento familiare anche a chi si trova nelle condizioni per chiederlo e non ha presentato l'istanza formale. Nel caso specifico è stato negato il permesso di soggiorno per lavoro autonomo a un extracomunitario per precedenti penali. Nei procedimenti per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno, tuttavia, la legge prevede che nel caso di straniero, che abbia esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o del familiare ricongiunto si tiene anche conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato.
Grazie a questa disposizione, gli stranieri, a seguito di un provvedimento di ricongiungimento familiare, possono godere di una tutela rafforzata: nei loro confronti non è possibile applicare automaticamente misure espulsive o provvedimenti negativi in caso di condanna per i reati indicati dal T.u. sull'immigrazione. La tutela rafforzata consiste nel fatto che l'amministrazione deve valutare in concreto la situazione dell'interessato, tenendo conto anche dei suoi legami familiari e sociali. La legge non prevedeva questa tutela rafforzata per chi non ha fatto richiesta del provvedimento formale di ricongiungimento.
La consulta è intervenuta proprio su questi casi, dichiarando la illegittimità dell'articolo 5, comma 5, del dlgs 286/1998, nella parte in cui non prevede che una valutazione discrezionale per lo straniero «che abbia legami familiari nel territorio dello stato» (articolo ItaliaOggi del 19.07.2013).

INCARICHI PROGETTUALI: Sentenza della corte di giustizia europea. Tariffe anche in base al decoro professionale. Al giudice la valutazione dei possibili effetti restrittivi della concorrenza.
Il tariffario di una categoria che stabilisce il compenso per una prestazione anche in base al decoro professionale può avere effetti restrittivi della concorrenza. E quindi è rimessa al giudice, caso per caso, la valutazione della legittimità di un compenso che deve tenere conto anche della tutela degli interessi del consumatore.

Un chiarimento, quello contenuto nella sentenza 18.07.2013 n. C-136/12 emessa ieri della Corte di giustizia europea, che non esclude a priori la validità di quei tariffari degli ordini professionali che le liberalizzazioni del 2006 declassarono da «inderogabili» a facoltativi. Anzi. Peccato che nel frattempo il legislatore abbia completamente cancellato dall'ordinamento giuridico qualsiasi riferimento alle tariffe e rimesso al libero mercato la definizione di un onorario professionale. Ma vediamo meglio come la Corte del Lussemburgo è arrivata ad occuparsi del caso italiano dei geologi.
Tutto inizia nel luglio del 2006. Con il decreto Bersani (dl 223/2006) sono aboliti, fra le altre cose, i minimi tariffari inderogabili utilizzati fino a quel momento dagli iscritti agli albi professionali. Nel giro di qualche mese tutte le categorie si adeguano, ma qualcuno lo fa ponendo il paletto del decoro. Il che vuol dire che gli iscritti non potranno praticare prezzi stracciati in quanto è in contrasto con il prestigio della professione alla quale si appartiene. Fra i più convinti di questa tesi ci sono i geologi.
Questi ultimi, però, finiscono nel mirino dell'Antitrust che con una delibera del 23/6/2010 multa il Consiglio nazionale per aver posto in essere un'intesa restrittiva della concorrenza e ordina di assumere misure atte a porre termine all'illecito riscontrato.
La battaglia in primo grado. I vertici della professione tecnica però non ci stanno. E si rivolgono al Tar Lazio, che respinge il ricorso presentato. I giudici amministrativi con la sentenza n. 1757 del 25.02.2011 chiariscono che il provvedimento dell'Antitrust è legittimo.
Il Tar però, allo stesso tempo, ritiene viziato il provvedimento dell'Autorità nella parte in cui si sostiene che il riferimento, nel codice del Consiglio nazionale, al «decoro professionale» quale criterio di commisurazione del compenso del professionista costituisca a priori una «restrizione della concorrenza». Obiezione, quest'ultima, impugnata al Consiglio di stato dall'Agcm. Per motivi diversi anche il Cng propone appello.
La battaglia in secondo grado. Nell'atto di appello, in base all'articolo 267 del Trattato di funzionamento dell'Unione europea (Tfue), gli avvocati del Consiglio nazionale dei geologi chiedono (e ottengono) al Consiglio di stato di sottoporre, in via pregiudiziale, alcune questioni alla Corte di giustizia europea.
Una di queste è volta a chiarire se la legislazione europea: vieti e inibisca il riferimento alle componenti di dignità e decoro del professionista nella composizione del compenso professionale e se comportino effetti restrittivi della concorrenza professionale; stabilisca se i requisiti di dignità e decoro, quali componenti del compenso del professionista in connessione con tariffe definite espressamente come derogabili nei minimi, possano ritenersi finalizzati a comportamenti restrittivi della concorrenza (si veda anche ItaliaOggi del 22/03/2012)
La sentenza della Corte di giustizia.
Nella sua sentenza di ieri i giudici hanno dichiarato che «le regole come quelle previste dal codice deontologico relativo all'esercizio della professione di geologo in Italia, approvato dal Consiglio nazionale dei geologi il 19.12.2006 e modificato da ultimo il 24.03.2010, che prevedono come criteri di commisurazione delle parcelle dei geologi, oltre alla qualità e all'importanza della prestazione del servizio, la dignità della professione, costituiscono una decisione di un'associazione di imprese che può avere effetti restrittivi della concorrenza nel mercato interno».
Quindi si rimanda al giudice del rinvio (il Tar) la valutazione, alla luce del contesto globale in cui tale codice deontologico dispiega i suoi effetti, compreso l'ordinamento giuridico nazionale nonché la prassi applicativa di detto codice da parte dell'Ordine nazionale dei geologi, «se i predetti effetti si producano nel caso di specie. Tale giudice deve anche verificare se, alla luce di tutti gli elementi rilevanti di cui dispone, le regole del medesimo codice, in particolare nella parte in cui fanno riferimento al criterio relativo alla dignità della professione, possano essere considerate necessarie al conseguimento dell'obiettivo legittimo collegato a garanzie accordate ai consumatori dei servizi dei geologi» (articolo ItaliaOggi del 19.07.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Sui limiti dell’esame da parte della Soprintendenza dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione (o da un ente subdelegato), si richiama la giurisprudenza costante di questo Consiglio di Stato, per la quale:
a) la Regione (o, nella specie, il Comune subdelegato) deve esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell’opera specificamente assentita in relazione a tutte le circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di istruttoria;
b) il potere di annullamento della Soprintendenza non consente il riesame nel merito delle valutazioni compiute dalla Regione, o dall’ente subdelegato, ma si esprime in un sindacato di legittimità, esteso a tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di potere, anche per difetto di motivazione o di istruttoria e dunque riguardante anche la compiuta presa in considerazione dei termini concreti del giudizio di compatibilità;
c) l’autorità statale, con un tale potere di cogestione del vincolo, dato dalla legge ad estrema difesa del vincolo stesso, se ravvisa un tale vizio nell’atto oggetto del suo riesame, nel proprio provvedimento può motivare sulla non compatibilità degli interventi programmati rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel vincolo.

Sui limiti dell’esame da parte della Soprintendenza dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione (o da un ente subdelegato), si richiama la giurisprudenza costante di questo Consiglio di Stato, per la quale:
a) la Regione (o, nella specie, il Comune subdelegato) deve esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell’opera specificamente assentita in relazione a tutte le circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di istruttoria;
b) il potere di annullamento della Soprintendenza non consente il riesame nel merito delle valutazioni compiute dalla Regione, o dall’ente subdelegato, ma si esprime in un sindacato di legittimità, esteso a tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di potere, anche per difetto di motivazione o di istruttoria e dunque riguardante anche la compiuta presa in considerazione dei termini concreti del giudizio di compatibilità;
c) l’autorità statale, con un tale potere di cogestione del vincolo, dato dalla legge ad estrema difesa del vincolo stesso (Corte cost., 27.06.1986, n. 151; 18.10.1996, n. 341; 25.10.2000, n. 437), se ravvisa un tale vizio nell’atto oggetto del suo riesame, nel proprio provvedimento può motivare sulla non compatibilità degli interventi programmati rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel vincolo (Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9; VI, 11.06.2012, n. 3401; 22.06.2011, n. 3767; 26.07.2010, n. 4861; 22.03.2007, n. 1362).
Nei singoli casi è quindi anzitutto necessario verificare se alla base dell’annullamento dell’autorizzazione esaminata da parte della Soprintendenza competente si riscontri l’incompiutezza o l’inadeguatezza della valutazione di compatibilità paesaggistica resa dalla Regione o dall’ente locale delegato, essendo l’autorizzazione, in questa ipotesi, viziata per difetto di istruttoria o di motivazione e risultando legittimo, perciò, il provvedimento statale di annullamento.
La valutazione di compatibilità paesaggistica resa in concreto è a sua volta adeguata se le caratteristiche dell’intervento –da prendere in considerazione per tutte le sue caratteristiche esteriori- vi risultano individuate, raffrontate e giustificate con i valori riconosciuti e protetti dal vincolo, dovendo essere esposta l’analisi eseguita sulle ragioni di compatibilità o incompatibilità effettiva che, in riferimento a tali valori, rendano o meno compatibile l’opera progettata, non essendo perciò sufficiente, allo scopo, l’asserzione generica della compatibilità paesaggistica (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.07.2013 n. 3896 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'autore di un abuso edilizio, che abbia prestato acquiescenza al diniego di concessione di costruzione in sanatoria, decade dalla possibilità di rimettere in discussione l'abuso accertato in sede di impugnazione dell'ordine di demolizione, atteso che quest'ultimo rinviene nel diniego di sanatoria il suo presupposto.
L'autore di un abuso edilizio, che abbia prestato acquiescenza al diniego di concessione di costruzione in sanatoria, decade dalla possibilità di rimettere in discussione l'abuso accertato in sede di impugnazione dell'ordine di demolizione, atteso che quest'ultimo rinviene nel diniego di sanatoria il suo presupposto (TAR Piemonte, Sez. I, 04.09.2009 n. 2253, C.S. Sez. V 17.09.2008 n. 4446, C.S., Sez. V, 28.12.2007 n. 6715) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 16.07.2013 n. 1874 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASconta l’esonero del versamento del contributo di costruzione, per la realizzazione di impianti ed attrezzature di interesse generale, con riferimento ad alcuni locali realizzati nella nuova stazione ferroviaria, ex art. 9, c. 1, lett. f), della L. n. 10/1977.
Invero, trattasi di locali di superfici modeste, e sono adibiti a deposito biciclette (mq 76,04 e 86,48), a bar (mq 74,48) ed ad officina di riparazione biciclette (mq 21,57) e poiché tutti i locali in questione hanno una destinazione che soddisfa l’interesse collettivo dei viaggiatori, fruitori del servizio pubblico di trasporto, ciò comporta l’applicazione dell’esenzione di cui al predetto art. 9, anche agli spazi in questione, in quanto integrati con la destinazione principale.
La natura commerciale dell’attività posta in essere nei predetti locali è infatti stemperata dalla sua strumentalità alle esigenze dei viaggiatori, dovendo considerarsi congiuntamente alla sua destinazione, unicamente a favore dell’utenza della stazione, ed al tipo di servizi offerti, notoriamente limitati alla vendita di bevande e generi di prima necessità, di cui altrimenti rimarrebbero privi, non essendovi altre strutture analoghe.
Anche il locale adibito a deposito biciclette è meramente funzionale all’interesse dei viaggiatori, spesso pendolari, che si recano alla stazione con tale mezzo e che possono parcheggiare i propri veicoli in un locale adeguato. La verificazione ha accertato che tali locali, ceduti al Comune in comodato e quindi a titolo gratuito, non sono mai stati utilizzati per attività commerciali.

Con il provvedimento impugnato il Comune resistente ha sostanzialmente negato l’applicazione dell’esonero del versamento del contributo di costruzione, per la realizzazione di impianti ed attrezzature di interesse generale, con riferimento ad alcuni locali realizzati nella nuova stazione ferroviaria, ex art. 9, c. 1, lett. f), della L. n. 10/1977.
Il Comune ha infatti differenziato le vere e proprie infrastrutture ferroviarie, per le quali opera il detto esonero, dai “negozi annessi al manufatto”, i quali andrebbero invece considerati spazi commerciali, sottoposti ad un regime differente.
La verificazione disposta in corso di causa ha accertato che i locali in questione hanno superfici modeste, e sono adibiti a deposito biciclette (mq 76,04 e 86,48), a bar (mq 74,48) ed ad officina di riparazione biciclette (mq 21,57).
Il ricorso è fondato, poiché tutti i locali in questione hanno una destinazione che soddisfa l’interesse collettivo dei viaggiatori, fruitori del servizio pubblico di trasporto, ciò che avrebbe dovuto comportare l’applicazione dell’esenzione di cui al predetto art. 9, anche agli spazi in questione, in quanto integrati con la destinazione principale.
La natura commerciale dell’attività posta in essere nei predetti locali è infatti stemperata dalla sua strumentalità alle esigenze dei viaggiatori, dovendo considerarsi congiuntamente alla sua destinazione, unicamente a favore dell’utenza della stazione, ed al tipo di servizi offerti, notoriamente limitati alla vendita di bevande e generi di prima necessità, di cui altrimenti rimarrebbero privi, non essendovi altre strutture analoghe.
Anche il locale adibito a deposito biciclette è meramente funzionale all’interesse dei viaggiatori, spesso pendolari, che si recano alla stazione con tale mezzo e che possono parcheggiare i propri veicoli in un locale adeguato. La verificazione ha accertato che tali locali, ceduti al Comune in comodato e quindi a titolo gratuito, non sono mai stati utilizzati per attività commerciali.
I precedenti giurisprudenziali invocati dalla difesa comunale, in realtà, offrono spunti per confermare l’illegittimità del provvedimento impugnato. Se infatti è vero che i negozi non sono strettamente indispensabili per il servizio di trasporto ferroviario, è tuttavia indubitabile che il nesso di strumentalità tra detto servizio e le attività insediate all’interno della stazione, è certamente più intenso di quello esistente nelle fattispecie citate, come nel caso della connessione che si assume esistente tra uno stabilimento di acque termali e le strutture alberghiere che ospitano gli utenti dello stesso, stante l’assoluta autonomia e prevalenza dell’attività commerciale esercitata in queste ultime.
Il ricorso va pertanto accolto, ed il Comune condannato alla restituzione delle somme versate dalla ricorrente, ed indebitamente riscosse, sulle quali spettano gli interessi legali, dalla data della domanda, ma non la rivalutazione monetaria, trattandosi di pagamento di indebito oggettivo, il quale genera la sola obbligazione di restituzione con gli interessi a norma dell'art. 2033 c.c. (TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 02.11.2010 n. 4519) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 16.07.2013 n. 1872 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAppartiene alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, prevista dall'art. 143 R.D. 11.12.1933 n. 1775, la controversia relativa al diniego di rilascio di concessione in sanatoria, opposto dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione dell'immobile da condonare in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, cit.; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle stesse, la cui tutela ha carattere inderogabile, in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ed il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.
Altresì, qualora sia impugnato un provvedimento incentrato sul contrasto delle opere di cui viene ordinata la demolizione, tra l’altro, con il precitato art. 96, incidendosi immediatamente sulla materia delle acque pubbliche e sulla relativa tutela, occorre attribuire la controversia alla giurisdizione del tribunale Superiore delle Acque pubbliche.

Osserva il Collegio che il diniego impugnato si fonda unicamente sulla violazione del citato art. 96 R.D. n. 523/1904, e precisamente su quanto disposto dalla lettera f) di tale articolo, che prescrive il rispetto di una distanza minima tra il “piede degli argini” del corso d’acqua, e le opere menzionate nello stesso.
Per Cass. Civ. Sez. Un. 12.5.2009 n. 10845 appartiene alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, prevista dall'art. 143 R.D. 11.12.1933 n. 1775, la controversia relativa al diniego di rilascio di concessione in sanatoria, opposto dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione dell'immobile da condonare in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, cit.; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle stesse, la cui tutela ha carattere inderogabile, in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ed il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.
Analogamente, per la giurisprudenza amministrativa, qualora sia impugnato un provvedimento incentrato sul contrasto delle opere di cui viene ordinata la demolizione, tra l’altro, con il precitato art. 96, incidendosi immediatamente sulla materia delle acque pubbliche e sulla relativa tutela, occorre attribuire la controversia alla giurisdizione del tribunale Superiore delle Acque pubbliche (TAR Toscana, Sez. III, 11.11.2011 n. 1676).
Il ricorrente, onde paralizzare la vista eccezione, invoca C.S. Sez. V 21.02.2012 n. 928, la quale tuttavia si è pronunciata su una fattispecie diversa da quella per cui è causa, dichiarando la giurisdizione del g.a. a fronte di un diniego regionale su una domanda di concessione di una derivazione da un fiume per uso idroelettrico.
Parimenti, anche le ulteriori citazioni giurisprudenziali invocate dal ricorrente non sono decisive ai fini del rigetto della vista eccezione, essendo risalenti e superate da parte degli stessi organi giurisdizionali, come nel caso di Cass. Sez. Unite 10.12.1993 n. 12167, sopravanzata da altra giurisprudenza, ben più recente.
Il Collegio osserva che la valutazione circa la compatibilità dei manufatti (tettoia e box) con il vincolo idraulico implica necessariamente un accertamento tecnico dello stato dei luoghi ed una approfondita verifica dell'incidenza dell'opera abusiva sui vincoli di rispetto della risorsa esistenti.
Tale accertamento e tale verifica per evidenti ragioni di riparto della giurisdizione in materia, devono essere comunque rimessi al vaglio della specifica competenza giurisdizionale del Tribunale superiore delle acque pubbliche, ai sensi del combinato disposto degli artt. 143, primo comma lett. a) e 197 del R.D. n. 1775 dell'11.12.1933.
Deve pertanto dichiararsi il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, con conseguente onere del ricorrente di riproporlo innanzi al T.S.A.P., nei termini e per gli effetti di cui all’art. 11, comma 2, c.p.a. (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 16.07.2013 n. 1871 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAppalti, «concorso esterno» ampio. Basta la presentazione di un'offerta guidata per far scattare il coinvolgimento. Cassazione. Allargati i limiti dell'attività ausiliaria alle cosche mafiose: non è necessario dimostrare il vantaggio economico.
Basta anche la sola presentazione di offerte di comodo per conto del clan a far scattare, contro un imprenditore non affiliato a Cosa nostra, l'imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa. Alla prova della collusione, inoltre, non serve la dimostrazione di un effettivo incremento dei ricavi tra il periodo precedente l'assodata partecipazione esterna e quello di effettivo coinvolgimento con il clan: è sufficiente infatti la prova di un mero «rapporto di cointeressenza tale da produrre vantaggi (ingiusti) per entrambi i contraenti».
La VI Sez. penale della Corte di Cassazione (sentenza 15.07.2013 n. 30346) torna a delimitare il perimetro dell'attività "ausiliaria" alla mafia, confermando la condanna al titolare di una cooperativa coinvolta, alla fine degli anni '80, in operazioni per conto della cosca di Bernardo Provenzano.
Il Tribunale di Palermo nel 2004, per quelle stesse attività, aveva riconosciuto il vincolo di appartenenza diretta all'associazione, verdetto però attenuato quattro anni dopo dall'Appello, che le aveva riqualificate come «concorso esterno».
Nei due gradi di merito, scrive il relatore della sentenza finale, era emersa l'esistenza di un rapporto di consapevole e volontaria «collaborazione» della cooperativa con Cosa nostra «attraverso un'attività di illecita interferenza nell'aggiudicazione degli appalti pubblici, con reciproco vantaggio costituito, per l'imputato, dal conseguimento di commesse e, per il consorzio criminoso, dal rafforzamento della propria capacità di influenza nello specifico settore imprenditoriale». Una ricostruzione meramente indiziaria, contestava la difesa, a cui, tra l'altro, sarebbe mancata la prova dell'effettiva utilità ottenuta dal consorzio, atteso che non era stato riscontrato un incremento di lavoro tra il "prima" e il "dopo" del patto scellerato.
Ma proprio il dato contabile, sottolineano i giudici di Cassazione, non è tra gli indici necessari di "mafiosità esterna" cui fare riferimento, perché, ai fini della contestazione dell'articolo 110 del Codice penale associato al 416–bis, è sufficiente offrire «la propria disponibilità al mantenimento di tale sistema». Disponibilità che può ben manifestarsi attraverso la collaborazione nell'aggiudicazione di licitazioni private di imprese "prescelte", ma anche fornendo offerte di comodo, o ancora concorrendo nella fase della turbativa per arrivare a controllare le offerte arrivate da imprese «non manovrabili» e adeguare quindi l'offerta "collusa".
Quindi, argomenta la Sesta penale, per il «concorso esterno», disegnato dalla Corte già a partire dal 2005 (sentenza 46552/2005, confermata dalla successiva decisione 39042/2013) basta «un rapporto sinallagmatico di cointeressenza» con la cosca mafiosa, tale da produrre vantaggi reciproci. In particolare l'imprenditore colluso avrà «una posizione dominante sul territorio grazie all'ausilio del sodalizio, il cui apparato intimidatorio si è reso disponibile a sostenerne l'espansione negli affari, in cambio della sua disponibilità a fornire risorse, servizi o comunque utilità al sodalizio medesimo».
E tutto ciò a condizione che manchi, in capo all'imprenditore servente, sia l'affectio societatis sia l'inserimento nella struttura organizzativa della cosca. Condizioni che porterebbero, ovviamente, a una contestazione più grave rispetto al semplice concorso esterno (articolo Il Sole 24 Ore del 16.07.2013).

APPALTI: Accordo tra p.a. non evita la procedura pubblica.
Vietati gli accordi fra Amministrazioni se c'è un corrispettivo e se le attività possono essere svolte da operatori privati; obbligatoria la gara pubblica e illegittimo l'affidamento diretto.

Con la sentenza 15.07.2013 n. 3849 del Consiglio di Stato, la V Sez. del Consiglio di stato, nel confermare la pronuncia del Tar Puglia-Lecce 416/2010, ha affermato alcuni importanti principi in tema di legittimità degli accordi fra Amministrazioni.
Nel caso specifico -che ha visto come parti in causa da un lato l'Azienda Sanitaria Locale di Lecce e l'Università del Salento e dall'altro lato l'Oice (con l'Ordine degli ingegneri e degli architetti della Provincia di Lecce, il Consiglio nazionale degli ingegneri e il Consiglio nazionale degli architetti)- si è affermato che la presenza di un corrispettivo e il fatto che le attività oggetto dell'accordo siano reperibili presso operatori privati, oltre all'elemento della mancanza di un interesse comune fra le due amministrazioni, fanno sì che si debba procedere con appalto pubblico e non si possa utilizzare lo strumento previsto dall'articolo 15 della legge 241/1990.
La sentenza del Consiglio di stato -nel riconoscere che il contratto vede la Asl affidataria appropriarsi dietro corrispettivo del servizio svolto dall'Università che a sua volta si pone come operatore economico privato che offre sul mercato servizi rientranti nel campo di applicazione delle direttive Ue- recepisce in toto le considerazioni della Corte di giustizia europea del 19.12.2012 (causa C 159/11), che aveva dichiarato illegittimi gli accordi di collaborazione stipulati fra amministrazioni e Università per affidare in via diretta e senza gara, incarichi per servizi di ingegneria e di consulenza; la sentenza aveva affermato che gli accordi previsti dalla legge 241/1990 non possono essere utilizzati per eludere l'obbligo di affidare a terzi con gara contratti a titolo oneroso e sono legittimi soltanto se prevedono una effettiva cooperazione fra i due enti per l'adempimento comune di un servizio pubblico, senza prevedere un compenso.
Per Luigi Iperti, vicepresidente vicario Oic, «trionfano il libero mercato e la concorrenza» (articolo ItaliaOggi del 17.07.2013).

EDILIZIA PRIVATA: L’inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della concessione edilizia può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da evidenziare l’effettiva volontà di realizzare l’opera, non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione.
In termini più espliciti, l’inizio dei lavori non è configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori di sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto l’organizzazione del cantiere, con la sussistenza di altri indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione.
Conseguentemente la declaratoria di decadenza della licenza edilizia per mancato inizio dei lavori entro il termine fissato, può considerarsi illegittima solo se siano stati almeno eseguiti “lo scavo ed il riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna entro il termine di legge” o se lo sbancamento realizzato si estende su un’area di vaste dimensioni.

Con un primo motivo l’appellante lamenta la violazione ed errata applicazione dell’art. 4 della legge n. 10/1977, eccesso di potere per difetto di istruttoria, travisamento dei fatti e dei presupposti di legge, sviamento della causa tipica dell’atto, illogicità ed ingiustizia manifeste.
L’appellante sostiene che la sentenza gravata sarebbe erronea in quanto non avrebbe considerato, in modo complessivo, l’attività da lui posta in essere come “una reale e seria intenzione” di dare corso ai lavori di edificazione, non ritenendo sussistere, nel caso di specie, il così detto principio dell’animus aedificandi.
Sul punto si deve da subito osservare che, diversamente da quanto assunto dall’appellante, il TAR nel determinarsi ha invece tenuto conto di tutte le attività edilizie in atto, evidenziandone l’inconsistenza e proprio dall’esame contestuale di esse ha ricavato che il titolare della concessione non ha dimostrato alcuna volontà di edificare.
La legge n. 10/1977 all’art. 4, commi 3, 4 e 6, dispone che “nell’atto di concessione sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori”; “Il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno; il termine di ultimazione, entro il quale l’opera deve essere abitabile o agibile non può essere superiore a tre anni e può essere prorogato, con provvedimento motivato, solo per fatti estranei alla volontà del concessionario, che siano sopravvenuti a ritardare i lavori durante la loro esecuzione”; “Qualora i lavori non siano ultimati nel termine stabilito, il concessionario deve presentare istanza diretta ad ottenere una nuova concessione; in tal caso la nuova concessione concerne la parte non ultimata”.
Invero l’inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della concessione edilizia può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da evidenziare l’effettiva volontà di realizzare l’opera, non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione (così Cons. Stato, sez. V, 22.11.1993, n. 1165).
In termini più espliciti, l’inizio dei lavori non è configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori di sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto l’organizzazione del cantiere, con la sussistenza di altri indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 03.10.2000, n. 5242).
Conseguentemente la declaratoria di decadenza della licenza edilizia per mancato inizio dei lavori entro il termine fissato, può considerarsi illegittima solo se siano stati almeno eseguiti “lo scavo ed il riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna entro il termine di legge” (Cons. Stato, sez. V, 15.10.1992, n. 1006) o se lo sbancamento realizzato si estende su un’area di vaste dimensioni; circostanze, queste ultime, non comprovate nella specie dal Boschi (Cons. Stato, sez IV, 18.05.2012, n. 2915) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.07.2013 n. 3823 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'art. 10-bis della legge n. 241/1990, prevedente la previa comunicazione della c.d. predecisione di rigetto della domanda del privato, non va interpretato in senso formalistico ma con riguardo all'effettivo e oggettivo pregiudizio che l’inosservanza dell’obbligo di comunicazione è suscettibile di arrecare nel senso in cui l’inosservanza medesima è inidonea di per sé a giustificare l'annullamento del provvedimento amministrativo, non essendo consentito, ai sensi del successivo art. 21-octies della legge n. 241/1990, l'annullamento di atti il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, conseguendone che, in assenza di deduzioni nuove (e/o ulteriori) rispetto a quelle introdotte nel contraddittorio procedimentale ed esaminate dall’Amministrazione, invano viene invocato l’obbligo di comunicazione della menzionata predecisione di rigetto della domanda.
In proposito, infatti, la giurisprudenza prevalente condivisa da questo Tribunale ha avuto modo di affermare che l'art. 10-bis della legge n. 241/1990, prevedente la previa comunicazione della c.d. predecisione di rigetto della domanda del privato, non va interpretato in senso formalistico ma con riguardo all'effettivo e oggettivo pregiudizio che l’inosservanza dell’obbligo di comunicazione è suscettibile di arrecare nel senso in cui l’inosservanza medesima è inidonea di per sé a giustificare l'annullamento del provvedimento amministrativo, non essendo consentito, ai sensi del successivo art. 21-octies della legge n. 241/1990, l'annullamento di atti il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, conseguendone che, in assenza di deduzioni nuove (e/o ulteriori) rispetto a quelle introdotte nel contraddittorio procedimentale ed esaminate dall’Amministrazione, invano viene invocato l’obbligo di comunicazione della menzionata predecisione di rigetto della domanda (Cfr. Cons di Stato – Sez. IV – 20/02/2013 n. 1056; id. 16/02/2012 n. 823; Sez. V – 03/05/2012 n. 2548; TAR Campania – SA – Sez. I – 18/10/2010 n. 11832)    (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 15.07.2013 n. 1583 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione della domanda di sanatoria dell’abuso successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione -o alla notifica del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per gli abusi edilizi- rende inefficaci i precedenti atti sanzionatori.
Sul piano procedimentale il comune è tenuto, innanzi tutto, a esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di sanatoria dovendo effettuare, comunque, una nuova valutazione della situazione, mentre dal punto di vista processuale, la documentata presentazione di detta istanza comporta la improcedibilità del ricorso per carenza di interesse avverso i provvedimenti repressivi.
L'istanza di sanatoria, infatti, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
L’interesse del responsabile dell’abuso si sposta dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio già adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento (esplicito o implicito) di rigetto.

Il ricorso, con il quale è stata impugnata l’ordinanza di demolizione del manufatto descritto in epigrafe, è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse a seguito della presentazione della istanza di accertamento di conformità per le opere di cui alla predetta ordinanza di demolizione, allegata agli atti di altro ricorso fissato nella medesima udienza.
E’, infatti, orientamento consolidato di questo Tribunale quello in forza del quale la presentazione della domanda di sanatoria dell’abuso successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione -o alla notifica del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per gli abusi edilizi- rende inefficaci i precedenti atti sanzionatori (v. anche Consiglio di Stato sez. V 31.10.2012 n. 5553 , sez. V, 08.06.2011, n. 3460; sez. V, 29.12.2009, n. 8935; sez. II, 11.07.2007, n. 624/2005, cui si rinvia in forza del combinato disposto degli artt. 74, co. 1, e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.).
Sul piano procedimentale il comune è tenuto, innanzi tutto, a esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di sanatoria, come avvenuto nel caso sub judice, dovendo effettuare, comunque, una nuova valutazione della situazione, mentre dal punto di vista processuale, la documentata presentazione di detta istanza comporta la improcedibilità del ricorso per carenza di interesse avverso i provvedimenti repressivi (Così, Consiglio di Stato sez. V, 31.10.2012, n. 5553).
L'istanza di sanatoria, infatti, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr. ex multis TAR Campania Salerno, sez. I, 22.02.2011, n. 350 e TAR Campania Napoli, sez. VII, 10.03.2011, n. 1401).
L’interesse del responsabile dell’abuso si sposta dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio già adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento (esplicito o implicito) di rigetto (TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 16.03.1991, n. 67, Palermo, Sez. II, 27.03.2002, n. 826; TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5559, 22.02.2003, n. 1310) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 15.07.2013 n. 1579 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Manufatto abusivo - Esecuzione dell'ordine di demolizione - Condono edilizio - Presentazione di domanda - Presupposti.
In sede di esecuzione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo, disposto con la sentenza di condanna ai sensi dell'art. 7 L. n. 47 del 1985, il giudice, al fine di pronunciarsi sulla sospensione dell’esecuzione per avvenuta presentazione di domanda di condono edilizio, deve accertare l'esistenza delle seguenti condizioni:
1) la riferibilità della domanda di condono edilizio all'immobile di cui in sentenza;
2) la proposizione dell'istanza da parte di soggetto legittimato;
3) la procedibilità e proponibilità della domanda, con riferimento alla documentazione richiesta;
4) l'insussistenza di cause di non condonabilità assoluta dell'opera;
5) l'eventuale avvenuta emissione di una concessione in sanatoria tacita per congruità dell'obiezione ed assenza di cause ostative;
6) la attuale pendenza dell'istanza di condono;
7) la non adozione di un provvedimento da parte della P.A. contrastante con l'ordine di demolizione (Cass. pen. sez. 4 n. 15210 del 05.03.2008).
Ordine di demolizione o di riduzione in pristino - Rilascio del permesso in sanatoria - Effetti - Giudice dell'esecuzione - Poteri.
L'ordine di demolizione o di riduzione in pristino debba intendersi emesso allo stato degli atti, tanto che anche il giudice dell'esecuzione deve verificare il permanere della compatibilità degli ordini in questione con atti amministrativi.
E' altrettanto indubitabile, però, che neppure il rilascio del permesso in sanatoria determini automaticamente la revoca dell'ordine di demolizione o di riduzione in pristino, dovendo il giudice, comunque, accertare la legittimità sostanziale del titolo sotto il profilo della sua conformità alla legge ed eventualmente disapplicarlo ove siano insussistenti i presupposti per la sua emanazione. A maggior ragione, in caso di mera presentazione di un'istanza di condono o, comunque, di una richiesta di sanatoria, il G.E. deve accertare che, secondo una ragionevole previsione, l'istanza possa essere accolta in tempi brevi.
Ordine di demolizione - Richiesta di permesso in sanatoria - Pendenza di un procedimento davanti al TAR - Verifiche per la sospensione - Giudice amministrativo.
La sospensiva da parte del giudice amministrativo del silenzio rigetto sull'istanza di concessione in sanatoria non produce effetti automatici sul potere dovere del giudice penale di disporre ed attuare l'ordine di demolizione, atteso che in tal caso occorre accertare, anche con riferimento alle argomentazioni svolte nel ricorso proposto al giudice amministrativo se il provvedimento cautelare di sospensione sia stato emesso per la sussistenza di vizi formali o sostanziali dell'atto impugnato o se derivi da carenza di motivazione senza incidenza sulla concedibilità o meno della richiesta concessione in sanatoria.
Pertanto, la pendenza di un procedimento davanti al TAR o la mera presentazione del ricorso non determina automaticamente la sospensione dell'ordine di demolizione, occorrendo accertare che sussista la ragionevole previsione di un suo accoglimento (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.07.2013 n. 28955 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Rinnovo espresso del contratto di appalto.
E' legittimo il rinnovo del contratto di appalto pubblico quando l'amministrazione abbia pubblicizzato tale volontà negli atti di gara e sia diretto nei confronti del medesimo contraente, del quale è già stata comprovata l'idoneità tecnica e la capacità economica.

Questa la decisione del Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 05.07.2013 n. 3580, in relazione all'affidamento del servizio di brokeraggio assicurativo.
Nel caso in esame, una società che nel 2009 aveva partecipato alla gara, nel 2012, avvicinandosi la scadenza triennale del contratto, aveva manifestato il proprio interesse a partecipare alla nuova procedura.
L'amministrazione decideva, tuttavia, di esercitare l'opzione prevista negli atti della gara del 2009 e di rinnovare il contratto per un ulteriore triennio.
I Giudici di Palazzo Spada, dichiarando legittimo l'agire amministrativo, prevedono che, "La clausola, conosciuta e accettata da tutti i partecipanti alla gara, ha formato oggetto dell'insieme di regole sulle quali si era svolto il confronto concorrenziale tra le imprese, nel rispetto dei principi di trasparenza e concorrenza, sicché tutti i partecipanti hanno potuto formulare le proprie offerte tenendo conto della possibilità del prolungamento della durata del contratto.".
Si rileva inoltre l'inesistenza di una specifica norma tesa ad impedire il rinnovo espresso della gara, in quanto, "Difatti, l'art. 23 della l. 62/2005, che modifica l'articolo 6, comma 2, della legge 24.12.1993, n. 537, il quale, nella prima parte, espressamente vieta il rinnovo tacito dei contratti scaduti per la fornitura di beni e servizi, prevede che il contratto scaduto può essere prorogato per il tempo necessario all'indizione di nuova gara, anche in assenza della previsione espressa di proroga contenuta negli atti di gara, purché nei detti limiti.
L'art. 57, comma 7, D.lgs. 163/2006 dispone esclusivamente il divieto di rinnovo tacito di tutti i contratti aventi ad oggetto forniture, servizi e lavori, e commina la nullità di quelli rinnovati tacitament
e.".
Le argomentazioni proposte dal Consiglio di Stato tengono altresì conto del dettato dell'art. 29 del Codice dei contratti, nel quale, a proposito del valore stimato degli appalti e dei servizi pubblici, si impone di tener conto di qualsiasi forma di opzione o rinnovo del contratto.
E' scongiurata, pertanto, la violazione dei principi concorrenziali nel caso in cui la richiesta di partecipare alla nuova gara sia avanzata da un operatore economico che ha preso parte alla precedente procedura, permangono dubbi interpretativi nel caso in cui tale richiesta sia avanzata, invece, da un soggetto ignaro del contenuto degli atti della gara bandita in precedenza (tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAppalti, Consiglio di Stato sconfessato dalla Corte Ue.
L'INDICAZIONE/ L'Adunanza plenaria favorisce la stabilità delle aggiudicazioni. I giudici comunitari per un mercato integro.
La Corte di giustizia dell'Unione europea sconfessa il Consiglio di Stato su un tema che interessa molte imprese e cioè la tutela giurisdizionale in materia di appalti pubblici.

Con la sentenza
04.07.2013 in C-100/12 forse un po' sbrigativa, i giudici europei hanno infatti accolto un'interpretazione opposta a quella dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (n. 4/2011) su una questione processuale che ha implicazioni pratiche rilevanti: i rapporti tra ricorso principale proposto dall'impresa che ha perso una gara e ricorso incidentale proposto dall'impresa aggiudicataria contro quest'ultima.
La questione sembra fin troppo tecnica, ma risulta più chiara se si considera il caso concreto posto all'esame della Corte di giustizia.
In attuazione di un contratto quadro aggiudicato dal Centro nazionale per l'informatica nella pubblica amministrazione (Cnipa) per la fornitura di linee dati e fonia, l'Asl di Alessandria stipula un contratto con Telecom Italia il cui progetto tecnico è ritenuto preferibile rispetto a quello di Fastweb. Quest'ultima impugna l'aggiudicazione davanti al Tar Piemonte lamentando che l'offerta di Telecom non rispetta le specifiche tecniche richieste dalla Asl. Telecom a sua volta propone un ricorso incidentale sostenendo che, in realtà, anche l'offerta di Fastweb è affetta dallo stesso vizio. Il Tar ritiene fondate entrambe le censure simmetriche con la conseguenza che l'intera procedura risulta viziata.
Se non che, secondo gli indirizzi dell'Adunanza plenaria, l'esito del processo non potrebbe essere l'annullamento dell'intera procedura. Infatti, in accoglimento del ricorso incidentale di Telecom, Fastweb, erroneamente ammessa alla gara, risulta priva di legittimazione a proporre il ricorso principale, che non va neppure esaminato. Resta dunque confermata l'aggiudicazione a favore di Telecom.
L'orientamento del Consiglio di Stato, che si basa su ragionamenti processuali sofisticati, favorisce dunque la stabilità delle aggiudicazioni e dei contratti, evitando ritardi dovuti al rinnovo della gara. Esso è stato mal "digerito" da alcuni Tar.
Alcuni, infatti, pur seguendo il Consiglio di Stato, hanno ritenuto di poter accertare anche la fondatezza del ricorso principale rimettendo alla stazione appaltante la decisione sul se annullare d'ufficio l'intera procedura (Tar Abruzzo-L'Aquila n. 424/2013). Il Tar del Piemonte invece ha sollevato la questione pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia.
Muovendo dalla normativa europea sui ricorsi in materia di appalti volta ad assicurare «mezzi di ricorso efficaci e rapidi» (direttiva 89/665/Cee), la Corte ha ritenuto errata la tesi del Consiglio di Stato. I giudici di Lussemburgo hanno fatto leva su un precedente nel quale avevano già sostenuto che non si può negare a un'impresa la possibilità di contestare l'esito di una gara per il fatto che l'impresa che propone il ricorso avrebbe dovuto essere esclusa già nella fase antecedente alla comparazione delle offerte (sentenza 19.06.2003 in C-249/01).
Pertanto, nel caso di specie, secondo la Corte, il giudice amministrativo è tenuto a esaminare sia il ricorso principale sia quello incidentale perché in questo modo si riesce «a constatare l'impossibilità di procedere alla scelta di un'offerta regolare».
Il diritto europeo ha dunque a cuore la concorrenzialità e l'integrità del mercato degli appalti, minate da aggiudicazioni illegittime, più che l'esigenza di non rallentare la stipula e l'esecuzione dei contratti (articolo Il Sole 24 Ore del 17.07.2013).

EDILIZIA PRIVATANell'impugnazione di un'ordinanza di ripristino non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'Amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso.
Ne consegue che il titolare di un interesse di mero fatto volto a contrastare il ricorso principale, se non assume la veste di controinteressato in senso formale e sostanziale, può rivestire quella succedanea che legittima l'intervento ad opponendum.
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Non sussiste alcun dubbio sulla natura solo ordinatoria del termine di 45 giorni previsto dall'art. 27, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 e sul dato che "il suo superamento non impedisce l'emissione del provvedimento di demolizione, costituente atto vincolato e necessitato" che, per l'appunto in quanto vincolato e necessitato, anche ove assunto senza esser stato preceduto dall'ordine di sospensione dei lavori, che contiene di per sé ed in sé anche l'avviso di avvio del procedimento sanzionatorio, peraltro qui espressamente dato, non richiede avvisi di sorta.
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La valutazione circa la possibilità di dar corso alla misura ripristinatoria e la conseguente scelta tra demolizione d’ufficio o irrogazione della sanzione pecuniaria di cui all’art. 34 del D.P.R. n. 380/2001 costituisce un’eventualità della fase esecutiva, successiva alla disposta ingiunzione di riduzione in pristino.

Secondo il condivisibile orientamento della giurisprudenza, nell'impugnazione di un'ordinanza di ripristino non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'Amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso (cfr. Consiglio di Stato, IV, 06.06.2011, n. 3380).
Ne consegue che il titolare di un interesse di mero fatto volto a contrastare il ricorso principale, se non assume la veste di controinteressato in senso formale e sostanziale, può rivestire quella succedanea che legittima l'intervento ad opponendum , come è avvenuto nel caso di specie (cfr. Consiglio di Stato, IV, 06.06.2011, n. 3380; Cons. giust. amm. Sicilia, 07.09.2012, n. 750).
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Anche il secondo motivo di ricorso deve essere disatteso poiché secondo la consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, non sussiste alcun dubbio sulla natura solo ordinatoria del termine di 45 giorni previsto dall'art. 27, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 e sul dato che "il suo superamento non impedisce l'emissione del provvedimento di demolizione, costituente atto vincolato e necessitato" (cfr. Tar Lazio, Roma, I, 18.10.2012, n. 8644) che, per l'appunto in quanto vincolato e necessitato, anche ove assunto senza esser stato preceduto dall'ordine di sospensione dei lavori, che contiene di per sé ed in sé anche l'avviso di avvio del procedimento sanzionatorio, peraltro qui espressamente dato, non richiede avvisi di sorta (cfr. Consiglio di Stato, V, 07.04.2011, n. 2159; Consiglio di Stato, IV, 05.03.2010, n. 1277; Tar Campania, Napoli, VI, 23.10.2012, n. 4207).
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Va, peraltro, evidenziato che secondo l’orientamento della giurisprudenza, condiviso dal Collegio, la valutazione circa la possibilità di dar corso alla misura ripristinatoria e la conseguente scelta tra demolizione d’ufficio o irrogazione della sanzione pecuniaria di cui all’art. 34 del D.P.R. n. 380/2001 costituisce un’eventualità della fase esecutiva, successiva alla disposta ingiunzione di riduzione in pristino (cfr. Tar Campania, Napoli, III, 10.05.2010, n. 3418)
(TAR Umbria, sentenza 02.07.2013 n. 359 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA L’art. 5 del D.P.R. n. 447 del 1998 prevede un'ipotesi eccezionale di proposta di variante dello strumento urbanistico e di accelerazione del conseguente procedimento, finalizzata all'individuazione di aree da destinare all'insediamento di impianti produttivi: un'individuazione che presuppone, comunque, la presentazione di un progetto conforme alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro e che opera quando lo strumento urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi, ovvero tali aree siano insufficienti in relazione al progetto presentato.
Invero, secondo la consolidata e condivisibile giurisprudenza, la previsione normativa in esame non determina alcuna abdicazione del Comune alla sua istituzionale potestà pianificatoria; all’organo consiliare, infatti, compete la definitiva valutazione in merito alla sussistenza dei presupposti idonei a giustificare la deroga sul piano urbanistico e tale valutazione deve essere necessariamente svolta in concreto, in relazione, dunque, al singolo caso esaminato.
E’ opportuno precisare, a tale riguardo, che con l’espressione aree “insufficienti rispetto al progetto presentato”, la disposizione in esame intende riferirsi non solo ai casi nei quali non sia possibile per un’impresa insediarsi in un determinato Comune perché mancano del tutto aree a destinazione produttiva ma anche ai casi nei quali la disciplina urbanistica ed edilizia comunale non consente quel determinato tipo di insediamento a causa dell’insufficiente dimensione dell’area o, comunque, della presenza di parametri, limitazioni, indici che producono un effetto impeditivo di carattere equivalente, ben potendo l’insufficienza delle aree essere correlata ad una inidoneità di tipo qualitativo.
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L’avviso espresso dalle amministrazioni competenti nell’ambito della speciale conferenza di servizi ai sensi dell’art. 5 del D.P.R. n. 447 del 1998 ha carattere meramente endoprocedimentale.
Il secondo comma dell'articolo in parola stabilisce, infatti, che qualora l'esito della conferenza di servizi comporti la variazione dello strumento urbanistico, la determinazione costituisce proposta di variante sulla quale il Consiglio Comunale è chiamato a pronunciarsi in via definitiva, tenuto conto delle osservazioni, proposte ed opposizioni formulate dagli interessati.

Con il primo motivo di ricorso è stata dedotta l’illegittimità della variante parziale gravata a motivo della carenza dei presupposti prescritti per l’applicazione dell’art. 5 del D.P.R. n. 447 del 1998, avendo l’amministrazione incentrato la propria attività istruttoria e valutativa sulle specifiche esigenze della società richiedente, senza considerare adeguatamente la sussistenza di una carenza reale ed oggettiva di aree da destinare agli insediamenti produttivi sulla base della strumentazione urbanistica comunale.
Orbene, è anzitutto opportuno evidenziare che l’art. 5 del D.P.R. n. 447 del 1998 prevede un'ipotesi eccezionale di proposta di variante dello strumento urbanistico e di accelerazione del conseguente procedimento, finalizzata all'individuazione di aree da destinare all'insediamento di impianti produttivi: un'individuazione che presuppone, comunque, la presentazione di un progetto conforme alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro e che opera quando lo strumento urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi, ovvero tali aree siano insufficienti in relazione al progetto presentato.
Invero, secondo la consolidata e condivisibile giurisprudenza, (ex multis, Cons. St., sez. IV, 16.04.2012, n. 2170), la previsione normativa in esame non determina alcuna abdicazione del Comune alla sua istituzionale potestà pianificatoria; all’organo consiliare, infatti, compete la definitiva valutazione in merito alla sussistenza dei presupposti idonei a giustificare la deroga sul piano urbanistico e tale valutazione deve essere necessariamente svolta in concreto, in relazione, dunque, al singolo caso esaminato.
E’ opportuno precisare, a tale riguardo, che con l’espressione aree “insufficienti rispetto al progetto presentato”, la disposizione in esame intende riferirsi non solo ai casi nei quali non sia possibile per un’impresa insediarsi in un determinato Comune perché mancano del tutto aree a destinazione produttiva ma anche ai casi nei quali la disciplina urbanistica ed edilizia comunale non consente quel determinato tipo di insediamento a causa dell’insufficiente dimensione dell’area o, comunque, della presenza di parametri, limitazioni, indici che producono un effetto impeditivo di carattere equivalente, ben potendo l’insufficienza delle aree essere correlata ad una inidoneità di tipo qualitativo.
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Come rilevato dalla consolidata giurisprudenza, l’avviso espresso dalle amministrazioni competenti nell’ambito della speciale conferenza di servizi ai sensi dell’art. 5 del D.P.R. n. 447 del 1998 ha carattere meramente endoprocedimentale; il secondo comma dell'articolo in parola stabilisce, infatti, che qualora l'esito della conferenza di servizi comporti la variazione dello strumento urbanistico, la determinazione costituisce proposta di variante sulla quale il Consiglio Comunale è chiamato a pronunciarsi in via definitiva, tenuto conto delle osservazioni, proposte ed opposizioni formulate dagli interessati (TAR Puglia, Lecce, sez. I, 22.02.2007, n. 609; id. 08.03.2007, n. 965) (TAR Umbria, sentenza 02.07.2013 n. 356 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Accesso agli atti: via libera anche per i documenti riguardanti l'attività privatistica.
Con la sentenza 27.05.2013 n. 2894 la III Sez. del Consiglio di Stato conferma l’indirizzo che riconosce ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche il diritto di accesso anche nei confronti degli atti inerenti l’attività privatistica di gestione dei rapporti di lavoro.
La questione oggetto del giudizio
La dirigente di una Azienda USL ha chiesto all’Amministrazione (ex) datrice di lavoro, la corresponsione delle somme asseritamente dovutele a titolo di retribuzione di risultato 2011.
A tal fine, la medesima ha altresì chiesto di “accedere agli atti concernenti il pagamento della medesima voce retributiva in favore dei dirigenti della medesima USL, limitatamente allo stesso periodo temporale”.
La USL ha respinto ambedue le richieste e -con specifico riferimento all’istanza di accesso che qui interessa- ha motivato il diniego adducendo unicamente la natura privatistica degli atti in questione.
La dirigente ha quindi proposto al TAR un ricorso avverso il diniego di accesso e i giudici di primo grado, pur “non condividendo” le argomentazioni dell’Amministrazione, hanno respinto il ricorso sul diverso presupposto secondo il quale l’istanza della ricorrente “appariva preordinata ad un controllo generalizzato dell’operato dell’amministrazione, in assenza di uno specifico interesse concreto ed attuale della ricorrente”.
La sentenza è stata quindi impugnata avanti al Consiglio di Stato con un ricorso mediante il quale l’interessata ha dedotto l’erroneità della sentenza, in ragione del fatto che il proprio interesse fosse sufficientemente “differenziato”, essendo stata uno dei dirigenti dell’Usl tra i quali andava ripartito il fondo unico per la retribuzione di risultato ed avendo –pertanto– la necessità e l’interesse giuridico all’acquisizione della richiesta documentazione riguardante (anche) le posizioni dei suoi colleghi del tempo, per meglio tutelare i propri interessi.
L’Azienda USL si è costituita in giudizio eccependo:
1) in rito, la tardività dell’appello sul presupposto che ai sensi dell’art. 116.1 del Codice del Processo Amministrativo (di seguito, “Codice”), il termine di impugnazione sarebbe stato di soli 30 giorni dalla notifica e/o dalla pubblicazione della sentenza di primo grado;
2) nel merito, la sua infondatezza per le ragioni, tutte, indicate dalla sentenza impugnata di cui si chiedeva la conferma.
La sentenza n. 2894/2013 della Terza Sezione del Consiglio di Stato
All’esito dell’esame del ricorso, i Giudici si sono preliminarmente pronunciati per la tempestività del ricorso, in virtù del combinato disposto degli artt. 87.3 e 116.1 del Codice Secondo la Sezione, le norme sopra citato portano a considerare “ragionevole ricavare che nel rito dell’accesso i termini di impugnazione sono di 30 giorni, in caso di notifica, e di 3 mesi in caso di pubblicazione della sentenza di primo grado”.
Per converso, secondo i Giudici, la tesi di parte appellata farebbe venir meno qualunque distinzione tra sentenza notificata e sentenza pubblicata, con conseguente “inutilità” –in ipotesi- della distinzione normativa tra le due fattispecie.
Sempre sul punto, il Collegio ha rilevato come la tesi dell’appellata si fondi sul presupposto che nel procedimento speciale afferente il diritto d’accesso ai documenti, il termine di impugnazione sia il medesimo previsto per la proposizione del ricorso in primo grado.
Tuttavia, posto che in tutti gli altri riti del processo amministrativo il termine per appellare è disciplinato autonomamente rispetto al termine per ricorrere in primo grado, seppure si volesse aderire alla tesi dubitativa sulla formulazione letterale dell’art. 116.5, è avviso del Collegio che l’interpretazione sistematica sopra illustrata sia la più coerente con il “sistema complessivo”.
Passando quindi al merito dell’appello, la Sezione ne ha rilevato la fondatezza per un duplice ordine di ragioni:
1) l’istanza della ricorrente “è preordinata a tutela di un interesse puntuale ed attuale”, rappresentato dalla “sottostante” richiesta di pagamento di spettanze economiche arretrate a carico del datore di lavoro e l’oggetto della istanza stessa è, almeno nella sua “prima fase” limitato e circoscritto “ai criteri e ai metodi applicati dall’Azienda nella determinazione e nell’applicazione di tale voce retributiva, nello stesso periodo temporale, in una vicenda che peraltro ha interessato un numero definito (circa 20) di dirigenti”;
2) seguendo tale logica ricostruttiva, appare evidente al Collegio che “la conoscenza dei criteri e dei metodi appare utile alla ricorrente per comprendere le ragioni del diniego opposto dall’amministrazione, sulla richiesta di pagamento”, non foss’altro (aggiungiamo noi) in guisa di motivazione –altrimenti assente– del provvedimento di rigetto della richiesta delle somme stesse.
Peraltro, aggiungono i Giudici, se l’USL avesse inteso (come sembrerebbe emerso in giudizio) operare una “sorta di compensazione fra reciproche pretese creditorie”, ciò non potrebbe comunque pregiudicare il diritto della ricorrente “a conoscere in dettaglio i relativi conteggi ed i criteri adottati” non foss’altro per poter verificare la correttezza del saldo finale tra le due poste contabili di dare ed avere individuato dal proprio presunto debitore.
In conclusione, la Sezione rammenta come la consolidata giurisprudenza sulla fattispecie oggetto del giudizio “è nel senso che in materia di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni il dipendente è portatore di un interesse qualificato alla conoscenza degli atti e documenti che riguardano la propria posizione lavorativa, atteso che gli stessi esulano dal diritto alla riservatezza e che l'art. 22 della l. 241/1990 garantisce l'accesso ai documenti amministrativi relativi al rapporto di pubblico impiego "privatizzato", anche se le eventuali controversie attinenti ad detto rapporto sono devolute alla giurisdizione del Giudice Ordinario”.
Per tali motivi, la Sezione ha accolto l’appello, ordinando all’amministrazione di esibire i documenti richiesti, entro 30 giorni dalla comunicazione della presente sentenza, con il limite che l'accesso dovrà riguardare atti già formati dall'amministrazione (nei quali potranno essere oscurati i nominativi dei percettori della retribuzione) e non dati ed informazioni che per essere forniti richiedano una specifica attività di indagine e di elaborazione, circostanza quest'ultima che, dato il tenore dell'istanza di accesso, allo stato il Collegio non è in grado di valutare in riferimento alle singole tipologie di atti relativi alla ricordata istanza.
Brevi note conclusive
La sentenza in questione –non a caso pronunciata quale “sentenza breve”- si pone lungo l’ampio e consolidato solco della giurisprudenza amministrativa sulla materia dell’accesso alla documentazione amministrativa, nella sua declinazione afferente i diritti dei “cittadini-dipendenti pubblici” nei confronti dei propri datori di lavoro.
Questa “declinazione” congiunge gli obblighi “esterni” delle amministrazioni pubbliche con quelli “interni”, nel senso che la trasparenza dell’azione amministrativa deve valere tanto nei rapporti tra cittadini e PA che nei rapporti tra l’amministrazione datrice di lavoro e i soggetti preposti al concreto svolgimento delle funzioni amministrative in qualità di dipendenti; con la (a mio avviso ovvia) conseguenza che i dipendenti pubblici hanno il diritto (nei limiti e nei termini di un interesse giuridico tutelabile) di ottenere tutti i documenti rilevanti per la gestione del rapporto di lavoro, che abbiano un riflesso “pratico, concreto e diretto” sulla propria posizione lavorativa (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon sono condonabili le opere edilizie abusivamente realizzate in aree sottoposte a vincoli idrogeologico, paesaggistico e ambientale, ed è indifferente che questi ultimi siano stati apposti prima o dopo la presentazione dell’istanza di condono, dato che, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria per opere ricadenti in zona sottoposta a vincolo previsto dall’art. 32 della legge n. 47 del 1985, l’obbligo di acquisire il parere da parte della autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione all’esistenza del vincolo stesso al momento in cui deve essere valutata la domanda di condono.
Pertanto, il silenzio-assenso, istituto giuridico legato al condono edilizio previsto dall’art. 35 della legge n. 47 del 1985, non si applica agli abusi non sanabili.

Il silenzio-assenso, istituto giuridico legato al condono edilizio previsto dall’art. 35 della legge n. 47 del 1985, non si applica agli abusi non sanabili.
Ai sensi degli articoli 33 della legge 28.02.1985 n. 47 e 32 comma 27 lett. c), del decreto-legge 30.09.2003 n. 269 convertito in legge 24.11.2003 n. 526 non sono condonabili le opere edilizie abusivamente realizzate in aree sottoposte a vincoli idrogeologico, paesaggistico e ambientale, ed è indifferente che i vincoli siano stati apposti prima o dopo la presentazione dell’istanza di condono, dato che in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria per opere ricadenti in zona sottoposta a vincolo previsto dall’art. 32, della legge n. 47 del 1985, l’obbligo di acquisire il parere da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione all’esistenza del vincolo stesso al momento in cui deve essere valutata la domanda di condono; di conseguenza ricorrendo di tali condizioni vanno applicati l’art. 33 della stessa legge e l’art. 32, comma 27, del decreto-legge n. 269 del 2003, che non prevedono nessuna possibilità di sanatoria mediante l’accertamento sulla compatibilità con il vincolo dell’intervento già effettuato (Consiglio di Stato, IV sez., 21.12.2012 n. 6662).
In proposito la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha ribadito che non sono condonabili le opere edilizie abusivamente realizzate in aree sottoposte a vincoli idrogeologico, paesaggistico e ambientale, ed è indifferente che questi ultimi siano stati apposti prima o dopo la presentazione dell’istanza di condono, dato che, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria per opere ricadenti in zona sottoposta a vincolo previsto dall’art. 32 della legge n. 47 del 1985, l’obbligo di acquisire il parere da parte della autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione all’esistenza del vincolo stesso al momento in cui deve essere valutata la domanda di condono (tra le tante, Consiglio Stato, sez. IV, 19.03.2009 n. 1646).
Ricorrendo tali condizioni vanno applicati l’art. 33 della legge n. 47 del 1985 e l’art. 32 comma 27, del decreto-legge n. 269 del 2003, che non prevedono nessuna possibilità di sanatoria mediante l’accertamento sulla compatibilità con il vincolo dell’intervento già effettuato.
Di fronte al chiaro disposto del citato art. 32, comma 27, che stabilisce l’assoluta insanabilità, alle condizioni ivi previste, degl’interventi abusivi realizzati su immobili sottoposti a vincolo paesaggistico, l’Amministrazione non deve neanche svolgere ulteriori accertamenti sulle caratteristiche dell’intervento al fine di valutare la sua eventuale compatibilità con le ragioni del vincolo stesso, non essendovi ragione di svolgere un’approfondita istruttoria sulla tipologia dell’abuso quando l’Amministrazione non può rilasciare il nulla-osta, stante la preclusione normativa (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 30.04.2013 n. 2057 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Industria insalubre
L’art. 216 t.u.l.s., nel consentire la permanenza delle industrie insalubri nei centri abitati a certe condizioni e accorgimenti tecnici, non ha autorizzato il Comune a disporre una deroga al disposto della norma, tale da porre nel nulla il precetto che vuole lontane dagli abitati le lavorazioni insalubri. Al contrario, ha inserito una prescrizione che si armonizza con le norme dello strumento urbanistico e ha proprio il fine di allontanare quelle lavorazioni a tutela della qualità della vita dei residenti.
Si tratta quindi di un ulteriore strumento di governo del territorio che conferisce all’ente locale, nell’ambito del generale potere pianificatorio, un’ampia potestà di valutazione della tollerabilità o meno di quelle attività, tanto ampia da comprendere anche l’interdizione dall’esercizio delle attività stesse.

Del tutto pacificamente, la giurisprudenza evidenzia come l’art. 216 t.u.l.s., nel consentire la permanenza delle industrie insalubri nei centri abitati a certe condizioni e accorgimenti tecnici, non ha autorizzato il Comune a disporre una deroga al disposto della norma, tale da porre nel nulla il precetto che vuole lontane dagli abitati le lavorazioni insalubri. Al contrario, ha inserito una prescrizione che si armonizza con le norme dello strumento urbanistico e ha proprio il fine di allontanare quelle lavorazioni a tutela della qualità della vita dei residenti.
Si tratta quindi di un ulteriore strumento di governo del territorio che conferisce all’ente locale, nell’ambito del generale potere pianificatorio, un’ampia potestà di valutazione della tollerabilità o meno di quelle attività, tanto ampia da comprendere anche l’interdizione dall’esercizio delle attività stesse (
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.01.2013 n. 364 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rilascio certificato di agibilità.
Clausola convenzionale che subordina il rilascio del certificato di agibilità dell'immobile alla presentazione dell'atto di vincolo a prima casa - Legittimità.
Prima di esaminare nel dettaglio i singoli motivi d’appello è pertanto necessario prendere posizione su tale dirimente aspetto preliminare: la convenzione ed il permesso di costruire recano, o no, disposizioni contrattuali o amministrative aggiuntive rispetto a quanto previsto dalle norme tecniche attuative?
La risposta è affermativa.
In effetti non v’è un’espressa o implicita formulazione normativa, nel corpo dell’art. 42 delle NTA, che lasci specificatamente intendere che l’agibilità dei progettati edifici debba essere condizionata alla trascrizione del vincolo o, ancor prima, alla verifica dei requisiti in capo al fruitore (acquirente o locatario) dell’unità immobiliare. La previsione è per la prima volta introdotta dalla Convenzione di lottizzazione attraverso l’atto d’obbligo allegato alla stessa, nonché ulteriormente specificata, sul versante procedimentale, dal permesso di costruire.
Trattasi di una forma di cautela contrattuale che il Comune ha inteso adottare, con il consenso del lottizzante, per prevenire violazioni contrattuali foriere di conseguenze risolutive e di inevitabile contenzioso. Subordinando l’agibilità alla verifica dei requisiti ed alla trascrizione del vincolo non ha dato una nuova conformazione all’istituto (che com’è noto poggia su ben altre basi) ma ha disciplinato la sequenza procedimentale in modo che l’agibilità sia sostanzialmente richiesta proprio dai proprietari o dai fruitori per i quali l’area è stata urbanisticamente inquadrata, la lottizzazione inizialmente approvata e l’immobile concretamente costruito.
Ciò ha potuto fare, anche attraverso l’imposizione di prescrizioni in sede di rilascio del titolo, in quanto il permesso di costruire ed il rilascio del certificato di agibilità si collocano in un ambito di edilizia convenzionata (basata per l’appunto sulla negoziabilità di alcuni aspetti e sulla rilevanza della particolare “causa” della prevista edificazione) costituendone l’appendice esecutiva. Essi risentono della disciplina negoziale concordata a monte, in modo da porsi come passaggi procedimentali finalizzati non solo a garantire le esigenze di carattere urbanizzativo, ma anche quelle più propriamente connesse alla particolare funzione sociale della progettata edificazione. Del resto che gli accordi sostitutivi di provvedimento, nell’ambito dei quali può ormai pacificamente sussumersi anche la convenzione di lottizzazione, possano prevedere anche la disciplina del procedimento e delle sue fasi non pare revocabile in dubbio.
In questo quadro, il rinvio da parte della NTA alla fonte convenzionale per la disciplina del vincolo di destinazione costituisce base sufficiente per un accordo (quale quello per cui si controverte) in cui si stabiliscono, per il rilascio dell’agibilità, modalità procedimentali causalmente e cautelativamente collegate al vincolo di destinazione. Il valido accordo costituisce, altresì, base consensuale sufficiente a legittimare l’inserimento di concrete previsioni procedimentali in tema di rilascio del certificato di agibilità.
Ciò chiarito può ora passarsi alla disamina dei singoli motivi d’appello.
Con il primo motivo d'appello la società sostiene che il TAR non avrebbe considerato che l'amministrazione comunale -inserendo dapprima nell'atto d'obbligo allegato alla convenzione di lottizzazione, la clausola che "la sottoscrizione del vincolo costituisce condizione necessaria per il rilascio dell'abitabilità delle singole unità immobiliari”, e poi nel permesso di costruire la clausola che "il certificato di agibilità sarà rilasciato per ogni singola unità immobiliare solo dopo che si è conosciuto l'acquirente un locatario che si è dimostrato il possesso dei requisiti dello stesso, e sia sottoscritto, prima del rilascio dell'agibilità, nell'atto di vincolo"- si sarebbe posta al di fuori delle norme urbanistiche di riferimento ed in contrasto con esse (artt. 42, lett. c. e 26, comma 7, NTA).
L’affermazione non è corretta. Si è già detto che la convenzione di lottizzazione reca un quid pluris rispetto a quanto previsto dalle norme attuative, ma anche che trattasi di una disposizione liberamente concordata dalle parti che non è in contrasto con l’art. 42 lett. c. delle NTA, ed anzi, ne costituisce lo svolgimento, consentendo all’amministrazione il monitoraggio delle successive fasi procedimentali sino al rilascio dell’abitabilità, all’evidente fine di assicurare la funzione per la quale l’edificazione è stata consentita (destinazione a prima casa).
A ben vedere la clausola è poi assolutamente il linea con quanto previsto dall’art. 26 comma 7 NTA, ove è stabilito che “per la residenza permanente la validità del vincolo di destinazione stabilita dalla convenzione non può essere inferiore ad anni 20 dalla data di rilascio del certificato di abitabilità”. Contrariamente a quanto sembra sostenere l’appellante, l’aver fissato il dies a quo del vincolo, alla data di rilascio del certificato di abitabilità, non significa che l’abitabilità debba necessariamente essere concessa appena l’immobile è ultimato ed a prescindere dall’utilizzo conforme alla destinazione, ma piuttosto che il vincolo per avere una funzione effettiva deve sortire la sua efficacia solo da quanto l’immobile è dichiarato abitabile e non quando esso è ancora in fase di costruzione o è comunque inutilizzato.
Sotto altro profilo, ritiene la società appellante che sarebbe illogico legare il rilascio del certificato di agibilità alla presentazione di un atto di vincolo ad utilizzare l’immobile quale prima casa, alterando indebitamente lo schema di cui all’art. 24 del DPR 380/2001. Viceversa, sempre a dire dell’appellante, sarebbe stato più logico che fosse il costruttore dell’ immobile, una volta ottenuto il certificato di agibilità, ad imporre, nell’atto contrattuale, all’acquirente, la trascrizione del vincolo.
L’illogicità non sussiste. In disparte ogni considerazione circa il chiaro disposto convenzionale, l’avere subordinato il rilascio dell’abitabilità all’effettiva destinazione a prima casa è espediente contrattuale che assicura, quanto meno in prima battuta, il rispetto della funzione sociale originariamente impressa alla proprietà, prevenendo possibili inadempimenti.
Con il secondo motivo d'appello la società censura l’iter argomentativo seguito dal TAR, il quale ricostruisce la vincolatività ultra partes della clausola convenzionale sulla base dell’espressa accettazione del vincolo di destinazione formulata dall’appellante nell’ambito della compravendita.
Così procedendo, il TAR avrebbe omesso di sciogliere il dubbio, dirimente ai fini del decidere, sulla natura dell’obbligazione, atteso che, ove trattasi –come sarebbe secondo la tesi dell’appellante– di un obbligazione personale, essa non può che impegnare l’acquirente nei confronti dell’alienante, ma non nei confronti del Comune.
Il dubbio può essere sciolto in questa sede. La giurisprudenza è ormai concorde nell’inquadrare la convenzione di lottizzazione negli accordi sostitutivi di provvedimento di cui all’art. 11 della legge 241/1990 (Cass. civ. Sez. Unite, 01.07.2009, n. 15388; Cons. Stato Sez. IV Sent., 29.02.2008, n. 781; Sez. IV, 02.08.2011, n. 4576).
Tali accordi, inserendosi nell'alveo dell'esercizio di un potere, ne mutuano le caratteristiche e la natura, salva l'applicazione dei principi civilistici in materia di obbligazioni e contratti per aspetti non incompatibili con la generale disciplina pubblicistica. La lottizzazione costituisce quindi esercizio consensuale di un potere pianificatorio che sfocia in un progetto ed in una serie di disposizioni urbanistiche generanti obbligazioni od oneri, rese pubbliche attraverso la trascrizione, che si impongono anche agli aventi causa dal lottizzante in forza della loro provenienza e funzione sostitutiva.
Nel caso di specie l’amministrazione si è comunque cautelata imponendo l’obbligo di riferimento, nella stipula dei contratti di compravendita, ai vincoli scaturenti dalla lottizzazione, così creando un circuito obbligatorio che giunge ai medesimi effetti, sebbene con tutti i limiti derivanti dalla natura relativa delle obbligazioni contratte. Ciò, ovviamente, non toglie validità all’assunto di fondo che di per sé solo giustifica l’efficacia anche nei confronti degli aventi causa delle previsioni pianificatorie concordate.
Con il terzo motivo d'appello Immobilcommer afferma che la clausola contenuta nello schema di atto d'obbligo che accede alla convenzione di lottizzazione, e subordina il rilascio della certificato di agibilità dell'immobile alla presentazione dell'atto di vincolo a prima casa, sarebbe nulla: per mancanza di una base di legge; per contrasto con gli articoli 24 e seguenti del Testo unico edilizia; per contrarietà all'ordine pubblico, ed in particolare, per contrasto con gli articoli 41 e 42 della Costituzione; per contrasto con l'articolo 1379 in quanto norma imperativa; per illiceità del contenuto e della causa
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.01.2013 n. 324 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La convenzione di lottizzazione va inquadrata negli accordi sostitutivi di provvedimento di cui all’art. 11 della legge 241/1990.
Tali accordi, inserendosi nell'alveo dell'esercizio di un potere, ne mutuano le caratteristiche e la natura, salva l'applicazione dei principi civilistici in materia di obbligazioni e contratti per aspetti non incompatibili con la generale disciplina pubblicistica.
La lottizzazione costituisce quindi esercizio consensuale di un potere pianificatorio che sfocia in un progetto ed in una serie di disposizioni urbanistiche generanti obbligazioni od oneri, rese pubbliche attraverso la trascrizione, che si impongono anche agli aventi causa dal lottizzante in forza della loro provenienza e funzione sostitutiva.

La giurisprudenza è ormai concorde nell’inquadrare la convenzione di lottizzazione negli accordi sostitutivi di provvedimento di cui all’art. 11 della legge 241/1990 (Cass. civ. Sez. Unite, 01.07.2009, n. 15388; Cons. Stato Sez. IV Sent., 29.02.2008, n. 781; Sez. IV, 02.08.2011, n. 4576).
Tali accordi, inserendosi nell'alveo dell'esercizio di un potere, ne mutuano le caratteristiche e la natura, salva l'applicazione dei principi civilistici in materia di obbligazioni e contratti per aspetti non incompatibili con la generale disciplina pubblicistica.
La lottizzazione costituisce quindi esercizio consensuale di un potere pianificatorio che sfocia in un progetto ed in una serie di disposizioni urbanistiche generanti obbligazioni od oneri, rese pubbliche attraverso la trascrizione, che si impongono anche agli aventi causa dal lottizzante in forza della loro provenienza e funzione sostitutiva
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.01.2013 n. 324 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Struttura balneare per uso temporaneo - Mancata rimozione allo scadere del periodo concesso - Ordinanza di rimozione - Legittimità.
L’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede che vanno considerati interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso «per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso».
Il concetto di “utilizzazione” diversa non presuppone, come erroneamente assunto dalle appellanti, che vengano realizzate opere edilizie in sé difformi dal titolo abilitativo. E’ invece sufficiente, infatti, che venga posta in essere una attività, anche omissiva dell0’adempimento di un dovere di controazione, che per sua propria conseguenza determini un mutamento di fatto nella utilizzazione assentita per un tempo limitato. Per il tempo che non è assentito dal titolo, infatti, l’opera diviene, grazie a questa omissione di rimozione, in tutto e per tutto da equiparare ad un manufatto sine titulo e come va tale va in punto di sanzioni considerata.
Nel caso in esame, la concessione rilasciata autorizzava la realizzazione di una struttura balneare con una “
utilizzazione temporanea” limitata al periodo estivo.
Costituisce dato non contestato che invece le appellanti, non provvedendo alla rimozione annuale, abbiamo creato una struttura con una utilizzazione non più temporanea, ma permanente: dunque abusiva.
L’ordinanza di demolizione è, pertanto, pienamente legittima, con conseguente non rilevanza della questione subordinata, relativa all’avvenuta traslazione della struttura stessa (
Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.01.2013 n. 313 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'Amministrazione non può opporsi all'esercizio del diritto di accesso soltanto sulla base del rifiuto dell'interessato, a meno che non si tratti di dati personali (dati c.d. "sensibili"), cioè di quegli atti idonei a rivelare l'origine razziale o etnica, le convinzioni religiose o politiche, lo stato di salute o la vita sessuale dei terzi; nel qual caso l’accesso deve essere comunque consentito ma a condizione che la posizione giuridica soggettiva, che il richiedente deve far valere o difendere, sia di rango almeno pari a quello della persona cui si riferiscono tali dati.
Più specificamente, va ricordato che il d.lgs. 30.06.2003 n. 196, nel riprendere in larga misura le disposizioni che erano già contenute nel d.lgs. 135 del 1999 ha riordinato i principi applicabili ai dati sensibili e giudiziari graduando la tutela della riservatezza e partendo da una soglia minima per i dati “comuni”, passando per una posizione intermedia relativamente ai “dati sensibili” fino ad arrivare ad un assoluto livello di intangibilità per i “dati sensibilissimi” poiché afferenti la salute o la vita sessuale dell’interessato.
Ciò ricordato, va in ogni caso specificato che il diritto di accesso costituisce la regola e, l’impedimento al suo esercizio, l’eccezione.
Esso costituisce principio generale dell’attività amministrativa in ragione delle sue rilevanti finalità di interesse pubblico, tanto da essere ricondotto tra i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che, in base all’art. 117, comma 2, lettera m), della Costituzione spetta alla potestà legislativa esclusiva dello Stato garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale.
Quindi, il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto dagli artt. 22 e ss., l. 07.08.1990 n. 241 prevale sulle esigenze di riservatezza dei terzi ogniqualvolta l'accesso venga in rilievo per la cura o la difesa di interessi giuridici del richiedente. In tal senso, il diritto ad accedere ai documenti sussiste anche in relazione a dati particolarmente sensibili, allorché preordinato alla tutela giudiziale di interessi di pari dignità costituzionalmente tutelati.

Va preliminarmente specificato che l'Amministrazione non può opporsi all'esercizio del diritto di accesso soltanto sulla base del rifiuto dell'interessato, a meno che non si tratti di dati personali (dati c.d. "sensibili"), cioè di quegli atti idonei a rivelare l'origine razziale o etnica, le convinzioni religiose o politiche, lo stato di salute o la vita sessuale dei terzi; nel qual caso l’accesso deve essere comunque consentito ma a condizione che la posizione giuridica soggettiva, che il richiedente deve far valere o difendere, sia di rango almeno pari a quello della persona cui si riferiscono tali dati.
Più specificamente, va ricordato che il d.lgs. 30.06.2003 n. 196, nel riprendere in larga misura le disposizioni che erano già contenute nel d.lgs. 135 del 1999 ha riordinato i principi applicabili ai dati sensibili e giudiziari graduando la tutela della riservatezza e partendo da una soglia minima per i dati “comuni”, passando per una posizione intermedia relativamente ai “dati sensibili” fino ad arrivare ad un assoluto livello di intangibilità per i “dati sensibilissimi” poiché afferenti la salute o la vita sessuale dell’interessato.
Ciò ricordato, va in ogni caso specificato che il diritto di accesso costituisce la regola e, l’impedimento al suo esercizio, l’eccezione.
Esso costituisce principio generale dell’attività amministrativa in ragione delle sue rilevanti finalità di interesse pubblico, tanto da essere ricondotto tra i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che, in base all’art. 117, comma 2, lettera m), della Costituzione spetta alla potestà legislativa esclusiva dello Stato garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale.
Quindi, il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto dagli artt. 22 e ss., l. 07.08.1990 n. 241 prevale sulle esigenze di riservatezza dei terzi ogniqualvolta l'accesso venga in rilievo per la cura o la difesa di interessi giuridici del richiedente. In tal senso, il diritto ad accedere ai documenti sussiste anche in relazione a dati particolarmente sensibili, allorché preordinato alla tutela giudiziale di interessi di pari dignità costituzionalmente tutelati.
Nel caso che occupa il Collegio ci si trova di fronte ad una semplice istanza di accesso agli atti relativi ad una procedura concorsuale. Non sussistono pertanto motivi per negare l’accesso agli atti, soprattutto se si ricorda che, ad opera della l. n. 15 del 2005, nella l. n. 241 del 1990 è stata codificata la prevalenza del diritto di accesso agli atti amministrativi, salvo alcuni limiti che devono essere previsti da disposizioni di carattere derogativo ed eccezionale.
Solo qualora negli atti oggetto della richiesta, siano contenuti dati che incidono sulla sfera di riservatezza dell’interessata (nel significato sopra ampiamente esposto) e non utili alla tutela della posizione giuridica della ricorrente, non è precluso all’Amministrazione di procedere all’esibizione dei medesimi ed al rilascio di copia, previo ricorso allo strumento dell’occultamento di quei dati ritenuti coperti da esigenze di riservatezza attraverso l'apposizione di un “omissis” nelle copie degli stessi nelle parti eventualmente interessate da tale esigenza (nel senso della illegittimità del diniego motivato sull’esigenza di non rendere conoscibile un dato altamente sensibile per la possibilità di ricorrere all’apposizione di un “omissis” ha già avuto modo di esprimersi questo Tribunale Amministrativo Regionale sezione II, con sentenza 18.09.2006, n. 1711).
Ancora un punto il Collegio intende specificare. Il diritto di accesso non costituisce solo un istituto volto alla difesa in giudizio di una posizione individuale, ma esso, quale principio generale dell’attività amministrativa, deve intendersi quale interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all’impugnazione.
L’unico limite che si può porre è il vaglio della sussistenza dell’interesse meritevole di protezione che, deve essere limitato alla inerenza alla sfera giuridica del soggetto richiedente, alla tangibilità ed alla serietà, requisiti che nel caso di specie sussistono senza dubbio (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 10.04.2009 n. 517 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl potere di annullamento d'ufficio delle concessioni di costruzione illegittime, conferito al Sindaco dagli artt. 10 della l. 06.08.1967 n. 765 e 1 della l. 28.01.1977 n. 10, diverge da quello conferito alla Regione dagli artt. 7 della legge n. 765 cit. e 1 D.P.R. 15.01.1972 n. 8.
Infatti, mentre il primo deve valutare l'interesse pubblico alla rimozione dell' atto invalido alla stregua delle altre possibilità di eliminare, in via alternativa, il vizio riscontrato (modifica agli strumenti urbanistici, offerta di integrazione delle opere di urbanizzazione, ecc.), la seconda -che è titolare solo di poteri di vigilanza e di controllo ma priva della facoltà di sostituirsi all' Ente locale nell' adottare determinate scelte- è tenuta a valutare l'interesse pubblico con riferimento esclusivo all' interesse alla conservazione della situazione esistente.
L’annullamento regionale si configura, anche per espresso richiamo normativo, come esercizio particolare del generale potere di annullamento d’ufficio di cui all’art. 6 del R.D. 03.03.1934 n. 383, caratterizzato nella specifica previsione normativa dall’attribuzione non ad un autorità che si trova in posizione di sovraordinazione rispetto al Comune, ma all’ente che divide con esso (la Regione) le competenze in materia urbanistica, secondo un modello di ripartizione concorrente delle funzioni, che si articola su un piano sostanzialmente paritario, dove la prevalenza della scelta regionale è limitata a quei momenti nei quali essa si presenta come inevitabile per la funzionalità stessa del sistema.
In entrambi i casi si è in presenza di poteri discrezionali, ciò che è differente è lo spettro degli interessi che entrano nella valutazione comparativa che l’ente deve effettuare e la prospettiva –dinamica per il Comune e statica per la Regione– nella quale devono essere esaminati.
Deve soggiungersi che l'esercizio del potere sostitutivo previsto dall'art. 27 legge n. 1150 del 1942 e succ. mod., a differenza dei poteri di autotutela del Comune, non comporta un riesame del proprio precedente operato, ma è finalizzato allo scopo di ricondurre le Amministrazioni comunali al rigoroso rispetto della normativa in materia edilizia.
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Il provvedimento regionale di annullamento ai sensi dell’art. 27 della l. 17.08.1942 n. 1150 –come s’è detto- si caratterizza per la natura discrezionale.
Come è noto, là dove esercita una funzione discrezionale, la P.A. procedente ha l'obbligo di spiegare congruamente le ragioni per cui ha effettuato una determinata scelta, onde consentire la valutazione dell'avvenuto rispetto di tutte la regole che presiedono a detta funzione.
Invero, il difetto di motivazione -in violazione dell'art. 3 della l. 07.08.1990 n. 241, che richiede di indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche in relazione alle risultanze dell'istruttoria- si configura ove l’atto amministrativo non consenta di comprendere in base a quali dati specifici sia stata operata la scelta della pubblica amministrazione, permettendo quindi al giudice di verificare il percorso logico seguito nell'applicare i criteri generali nel caso concreto.
Peraltro, va soggiunto che, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale, in omaggio ad una visione non meramente formale dell'obbligo di motivazione (e coerentemente con i principi di trasparenza e lealtà desumibili dall'art. 97 Cost.), la funzione della motivazione si può dir soddisfatta anche quando nell'atto impugnato non siano esplicitamente e compiutamente esplicitate le ragioni sottese alla statuizione, ma queste possano essere agevolmente colte dalla lettura degli atti afferenti alle varie fasi in cui si articola il procedimento.
...
Va ricordato, che parte della giurisprudenza, muovendo dalla considerazione che l'esercizio del potere sostitutivo previsto dall'art. 27 della l. n. 1150 del 1942 è finalizzato allo scopo di ricondurre le Amministrazioni comunali al rigoroso rispetto della normativa in materia edilizia, ha ritenuto che non sia necessario motivare in ordine alla sussistenza di uno specifico ed ulteriore interesse pubblico all’annullamento, ritenendo che questo inest in re ipsa.

Il thema decidendum all’esame del Collegio attiene all’identificazione dei presupposti, nonché alla determinazione delle modalità procedimentali, del potere regionale di annullamento di deliberazioni comunali non conformi agli strumenti urbanistici.
L’art. 27, primo comma, della l. 17.08.1942 n. 1150 (recante la rubrica “annullamento di autorizzazione comunali”), così come sostituito dall’art. 7 della legge 06.08.1967, n. 765, prevede che “Entro dieci anni dalla loro adozione le deliberazioni ed i provvedimenti comunali che autorizzano opere non conformi a prescrizioni del piano regolatore o del programma di fabbricazione od a norme del regolamento edilizio, ovvero in qualsiasi modo costituiscano violazione delle prescrizioni o delle norme stesse possono essere annullati, ai sensi dell'articolo 6 del testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 03.03.1934, n. 383, con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro per i lavori pubblici di concerto con quello per l'interno”.
Siffatto potere è stato, quindi, trasferito alle Regioni ai sensi dell’art. 1, lett. o), del D.P.R. 15.01.1972 n. 8, là dove si prevede, nell’effettuare il trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di urbanistica la clausola d’ordine generale “ogni ulteriore funzione amministrativa esercitata dagli organi centrali e periferici dello Stato …” (cfr. in tal senso: Cons. Stato sez. V 30.9.1980 n. 801, la quale evidenzia che l’elencazione di cui all’art. lett. da a) ad n) ha carattere esemplificativo, stante la disposizione di chiusura contenuta nella successiva lett. o).
Il terzo comma dell’art. 27 cit. prevede che il provvedimento di accertamento …è preceduto dalla contestazione delle violazioni stesse al titolare della licenza, al proprietario della costruzione e al progettista, nonché alla Amministrazione comunale con l'invito a presentare controdeduzioni entro un termine all'uopo prefissato.
Sotto il profilo sistematico (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 20.02.1998, n. 315, TAR Brescia 06.05.1988 n. 365 e la giurisprudenza antecedente ivi richiamata) va rilevato che il potere di annullamento d'ufficio delle concessioni di costruzione illegittime, conferito al Sindaco dagli artt. 10 della l. 06.08.1967 n. 765 e 1 della l. 28.01.1977 n. 10, diverge da quello conferito alla Regione dagli artt. 7 della legge n. 765 cit. e 1 D.P.R. 15.01.1972 n. 8.
Infatti, mentre il primo deve valutare l'interesse pubblico alla rimozione dell' atto invalido alla stregua delle altre possibilità di eliminare, in via alternativa, il vizio riscontrato (modifica agli strumenti urbanistici, offerta di integrazione delle opere di urbanizzazione, ecc.), la seconda -che è titolare solo di poteri di vigilanza e di controllo ma priva della facoltà di sostituirsi all' Ente locale nell' adottare determinate scelte- è tenuta a valutare l'interesse pubblico con riferimento esclusivo all' interesse alla conservazione della situazione esistente.
L’annullamento regionale si configura, anche per espresso richiamo normativo, come esercizio particolare del generale potere di annullamento d’ufficio di cui all’art. 6 del R.D. 03.03.1934 n. 383, caratterizzato nella specifica previsione normativa dall’attribuzione non ad un autorità che si trova in posizione di sovraordinazione rispetto al Comune, ma all’ente che divide con esso (la Regione) le competenze in materia urbanistica, secondo un modello di ripartizione concorrente delle funzioni, che si articola su un piano sostanzialmente paritario, dove la prevalenza della scelta regionale è limitata a quei momenti nei quali essa si presenta come inevitabile per la funzionalità stessa del sistema.
In entrambi i casi si è in presenza di poteri discrezionali, ciò che è differente è lo spettro degli interessi che entrano nella valutazione comparativa che l’ente deve effettuare e la prospettiva –dinamica per il Comune e statica per la Regione– nella quale devono essere esaminati.
Deve soggiungersi che l'esercizio del potere sostitutivo previsto dall'art. 27 legge n. 1150 del 1942 e succ. mod., a differenza dei poteri di autotutela del Comune, non comporta un riesame del proprio precedente operato, ma è finalizzato allo scopo di ricondurre le Amministrazioni comunali al rigoroso rispetto della normativa in materia edilizia.
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Il provvedimento regionale di annullamento ai sensi dell’art. 27 della l. 17.08.1942 n. 1150 –come s’è detto- si caratterizza per la natura discrezionale.
Come è noto, là dove esercita una funzione discrezionale, la P.A. procedente ha l'obbligo di spiegare congruamente le ragioni per cui ha effettuato una determinata scelta, onde consentire la valutazione dell'avvenuto rispetto di tutte la regole che presiedono a detta funzione.
Invero, il difetto di motivazione -in violazione dell'art. 3 della l. 07.08.1990 n. 241, che richiede di indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche in relazione alle risultanze dell'istruttoria- si configura ove l’atto amministrativo non consenta di comprendere in base a quali dati specifici sia stata operata la scelta della pubblica amministrazione, permettendo quindi al giudice di verificare il percorso logico seguito nell'applicare i criteri generali nel caso concreto.
Peraltro, va soggiunto che, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale, in omaggio ad una visione non meramente formale dell'obbligo di motivazione (e coerentemente con i principi di trasparenza e lealtà desumibili dall'art. 97 Cost.), la funzione della motivazione si può dir soddisfatta anche quando nell'atto impugnato non siano esplicitamente e compiutamente esplicitate le ragioni sottese alla statuizione, ma queste possano essere agevolmente colte dalla lettura degli atti afferenti alle varie fasi in cui si articola il procedimento (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 27.12.2001 n. 6417, idem 29/04/2002, n. 2281).
...
Va, sotto altro profilo, ricordato, che parte della giurisprudenza (cfr. Consiglio Stato sez. IV 16.03.1998 n. 443), muovendo dalla considerazione che l'esercizio del potere sostitutivo previsto dall'art. 27 della l. n. 1150 del 1942 è finalizzato allo scopo di ricondurre le Amministrazioni comunali al rigoroso rispetto della normativa in materia edilizia, ha ritenuto che non sia necessario motivare in ordine alla sussistenza di uno specifico ed ulteriore interesse pubblico all’annullamento, ritenendo che questo inest in re ipsa
(TAR Lombardia-Brescia, sentenza 23.06.2003 n. 870).

ATTI AMMINISTRATIVILe norme in materia di partecipazione al procedimento amministrativo non vanno applicate necessariamente e formalmente, ma debbono essere interpretate in base a un criterio di realistica valutazione sull'effettiva conoscenza o conoscibilità di una sequenza e dei suoi probabili effetti lesivi.
In tale prospettiva, si è rilevato che il sistema di democraticità delle decisioni amministrative, a cui è preordinato l'art. 7 l. 07.08.1990 n. 241, va presidiato nella sostanza e non nella mera forma, sicché ogni qual volta l'interessato sia stato informato dell'esistenza di un procedimento diretto ad incidere sulla sua sfera giuridica e sia stato messo in condizione di utilmente rappresentare il proprio punto di vista, così da integrare la nozione di partecipazione, non può ritenersi violato alcun canone del giusto procedimento.

La giurisprudenza (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 30.09.2002, n. 5058) ha, peraltro, sottolineato che le norme in materia di partecipazione al procedimento amministrativo non vanno applicate necessariamente e formalmente, ma debbono essere interpretate in base a un criterio di realistica valutazione sull'effettiva conoscenza o conoscibilità di una sequenza e dei suoi probabili effetti lesivi.
In tale prospettiva, si è rilevato (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 18.11.2002, n. 6389) che il sistema di democraticità delle decisioni amministrative, a cui è preordinato l'art. 7 l. 07.08.1990 n. 241, va presidiato nella sostanza e non nella mera forma, sicché ogni qual volta l'interessato sia stato informato dell'esistenza di un procedimento diretto ad incidere sulla sua sfera giuridica e sia stato messo in condizione di utilmente rappresentare il proprio punto di vista, così da integrare la nozione di partecipazione, non può ritenersi violato alcun canone del giusto procedimento
(TAR Lombardia-Brescia, sentenza 23.06.2003 n. 870).

EDILIZIA PRIVATANon può affatto riconoscersi alla cupola piramidale e alla copertura della galleria (ndr: di un centro commerciale) natura di volumi tecnici.
Questi ultimi sono, infatti, soltanto quelli destinati ad ospitare impianti aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzazione dell'immobile e che non possono essere sistemati all'interno della parte abitativa, quali impianti idrici, termici, macchine degli ascensori, ecc., mentre non vi possono rientrare quelli che assolvano ad una funzione diversa, sia pur necessaria al godimento dell'edificio stesso e delle sue singole porzioni di proprietà individuale.
In tale seconda categoria rientrano, quindi, la cupola e la galleria coperta, in quanto elementi che sono posti a servizio dei singoli esercizi che costituiscono, nel loro insieme, il centro commerciale, il quale trova la propria ragion d’essere nella comune utilizzazione degli spazi (parcheggi, gallerie coperte, ecc.) che consentono agli utenti di accedere contestualmente e comodamente ad una pluralità di negozi di variegata tipologia.

Per quanto riguarda il superamento delle altezze massime, va evidenziato che non può affatto riconoscersi alla cupola piramidale e alla copertura della galleria natura di volumi tecnici.
Questi sono, infatti, soltanto quelli destinati ad ospitare impianti aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzazione dell'immobile e che non possono essere sistemati all'interno della parte abitativa, quali impianti idrici, termici, macchine degli ascensori, ecc., mentre non vi possono rientrare quelli che assolvano ad una funzione diversa, sia pur necessaria al godimento dell'edificio stesso e delle sue singole porzioni di proprietà individuale.
In tale seconda categoria rientrano, quindi, la cupola e la galleria coperta, in quanto elementi che sono posti a servizio dei singoli esercizi che costituiscono, nel loro insieme, il centro commerciale, il quale trova la propria ragion d’essere nella comune utilizzazione degli spazi (parcheggi, gallerie coperte, ecc.) che consentono agli utenti di accedere contestualmente e comodamente ad una pluralità di negozi di variegata tipologia
(TAR Lombardia-Brescia, sentenza 23.06.2003 n. 870).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAGli spazi di cui al D.M. 02.04.1968 sono aggiuntivi e non sostitutivi di quelli imposti dall'art. 18 della legge 06.08.1967 n. 675 (la cui misura è stata successivamente modificata dalla legge n. 112/1989) commisurati a 1 mq. ogni 10 mc. di edificio.
Infatti, mentre i primi sono disciplinati dall'art. 41-quinquies, ottavo comma, i secondi sono previsti dall'art. 41-sexies della l. 17.08.1942 n. 1150.
Mentre quelli di cui alla prima disposizione sono qualificati come aree pubbliche da conteggiarsi ai fini della dotazione di "standard", i parcheggi di cui al successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree private pertinenziali alle nuove costruzioni, di guisa che l'art. 3, comma 2, lett. d), del D.M. 02.04.1968 espressamente li esclude dal computo nel calcolo della misura degli "standard".
---------------
In relazione alla c.d. monetizzazione degli standard, occorre richiamare l'art. 12, lett. a), della legge regionale 05.12.1977 n. 60, il quale stabilisce che, qualora l'acquisizione delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria e per le attrezzature pubbliche e di uso pubblico "non venga ritenuta opportuna dal comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all'atto della stipula i lottizzanti corrispondano al comune una somma commisurata all'utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell'acquisizione di altre aree".
La legislazione regionale àncora la monetizzazione a precisi presupposti, considerato che la monetizzazione presuppone comunque un'offerta di aree, restando in facoltà del Comune disporne la commutazione sulla base di un apprezzamento complesso, che investe: da un lato l'idoneità o meno delle aree offerte, in funzione dell'uso pubblico cui verrebbero destinate; dall'altro, la possibilità di acquisire aree alternative (monetizzazione a carico del lottizzante) per mantenere invariato il livello di dotazione standard richiesto dal piano regolatore (livello che non può comunque scendere al di sotto del minimo legale).
Si tratta, dunque di una facoltà discrezionale del Comune, non di un diritto del privato, il quale non può ritenersi esente dall'onere di individuare le aree da computare in quota standard.

Infine, va disattesa la contestazione relativa agli spazi per parcheggi.
Il D.M. 02.04.1968, emesso in attuazione dell'art. 41-quinquies, comma ottavo e nono della l. 17.08.1942 n. 1150 (come introdotto dall'art. 17 della l. 06.08.1967 n. 765), disciplina i cosiddetti standard urbanistici ed edilizi.
In particolare, per quanto in questa sede interessa, l'art. 5 di tale Decreto individua i rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti produttivi e gli spazi pubblici destinati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi, prescrivendo che:
1) nei nuovi insediamenti di carattere industriale o ad essi assimilabili compresi nelle zone D) la superficie da destinare a spazi pubblici o destinata ad attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi (escluse le sedi viarie) non può essere inferiore al 10% dell'intera superficie destinata a tali insediamenti;
2) nei nuovi insediamenti di carattere commerciale e direzionale, a 100 mq. di superficie lorda di pavimento di edifici previsti, deve corrispondere la quantità minima di 80 mq. di spazio, escluse le sedi viarie, di cui almeno la metà destinata a parcheggi (in aggiunta a quelli di cui all'art. 18 della legge n. 765); tale quantità, per le zone A) e B) è ridotta alla metà, purché siano previste adeguate attrezzature integrative.
Va chiarito che gli spazi di cui al cit. D.M. sono aggiuntivi e non sostitutivi di quelli imposti dall'art. 18 della legge 06.08.1967 n. 675 (la cui misura è stata successivamente modificata dalla legge n. 112/1989) commisurati a 1 mq. ogni 10 mc. di edificio.
Infatti, mentre i primi sono disciplinati dall'art. 41-quinquies, ottavo comma, i secondi sono previsti dall'art. 41-sexies della l. 17.08.1942 n. 1150.
Mentre quelli di cui alla prima disposizione sono qualificati come aree pubbliche da conteggiarsi ai fini della dotazione di "standard", i parcheggi di cui al successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree private pertinenziali alle nuove costruzioni, di guisa che l'art. 3, comma 2, lett. d), del D.M. 02.04.1968 espressamente li esclude dal computo nel calcolo della misura degli "standard".
Nella regione Lombardia, l'art. 22 della legge regionale n. 51 del 15.04.1975 ha previsto che "la dotazione minima di standard funzionali ai nuovi insediamenti di carattere commerciale - stabilita dall'art. 5 del D.M. n. 1444 in misura dell'80% della superficie lorda di pavimento è elevata al 100%. Di tali aree almeno la metà dovrà essere destinata a parcheggi di uso pubblico".
È evidente la ratio di tali disposizioni: dato che i centri commerciali richiamano un elevato numero di consumatori è necessario -al fine di evitare disfunzioni e pericoli alla circolazione stradale e turbative alle proprietà che potrebbero essere causate dall'ingente numero di veicoli che in tali luoghi affluiscono- predisporre in loco un congruo numero di spazi destinati al parcheggio.
In relazione alla c.d. monetizzazione degli standard, occorre richiamare l'art. 12, lett. a), della legge regionale 05.12.1977 n. 60, il quale stabilisce che, qualora l'acquisizione delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria e per le attrezzature pubbliche e di uso pubblico "non venga ritenuta opportuna dal comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all'atto della stipula i lottizzanti corrispondano al comune una somma commisurata all'utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell'acquisizione di altre aree".
La legislazione regionale àncora la monetizzazione a precisi presupposti, considerato che la monetizzazione presuppone comunque un'offerta di aree, restando in facoltà del Comune disporne la commutazione sulla base di un apprezzamento complesso, che investe: da un lato l'idoneità o meno delle aree offerte, in funzione dell'uso pubblico cui verrebbero destinate; dall'altro, la possibilità di acquisire aree alternative (monetizzazione a carico del lottizzante) per mantenere invariato il livello di dotazione standard richiesto dal piano regolatore (livello che non può comunque scendere al di sotto del minimo legale).
Si tratta, dunque di una facoltà discrezionale del Comune, non di un diritto del privato, il quale non può ritenersi esente dall'onere di individuare le aree da computare in quota standard.
Si comprende, quindi, che la Giunta regionale là dove ha affermato la palese inopportunità della disposta monetizzazione ha utilizzato detto termine in senso improprio, avendo inteso, in realtà, censurare sotto il profilo della legittimità la mancanza dei presupposti nella specie per addivenirsi alla monetizzazione, derivante dalla mancata individuazione, da parte del Comune, in altre zone del proprio territorio, di aree idonee ad integrare le superfici a standard indotte dall’intervento in questione
(TAR Lombardia-Brescia, sentenza 23.06.2003 n. 870).

AGGIORNAMENTO AL 15.07.2013

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Se avete i denti da far sistemare fatelo subito, domani stesso ... altrimenti, il Vs. dentista di fiducia Ve la fa pagar cara (... la dentiera nuova)!!

     Andiamo talmente di fretta che non c'è più tempo per leggere bene e tutto (almeno, parliamo per noi ...).
     E nel caos quotidiano di lavoro, ci è scappato l'okkio su di un pronunciamento della Cassazione penale secondo il quale
"Le acque reflue degli studi odontoiatrici privati rientrano nel novero delle acque reflue industriali in quanto provenienti da attività di prestazione di servizi che ne rendono impossibile l'equiparazione con le acque reflue domestiche anche in ragione dell'utilizzazione, nelle attività terapeutiche, di sostanze, quali anestetici e farmaci, estranee alla vita domestica".

AVETE LETTO BENE??

     Alzi la mano quanti di Voi hanno autorizzato lo studio odontoiatrico, sito nel proprio comune, a scaricare quel liquido proveniente dallo sciacquar la bocca quale "acque reflue industriali"!!
     Non solo, visto che lo studio odontoiatrico -spesso e volentieri- sta all'interno di un condomìnio più o meno grande, alzi la mano quanti di Voi hanno autorizzato a scaricare in pubblica fognatura le "acque reflue industriali" del singolo condòmino (nella fattispecie, lo studio odontoiatrico) quando l'autorizzazione -di norma- è rilasciata all'amministratore di condomìnio ovvero, laddove inesistente, al "capo-casa"!!
     Ebbene, la questione parrebbe stare proprio nei suddetti termini ... e basta leggere le due sentenze sotto riportate.

AMBIENTE-ECOLOGIA: Acque - Reflui derivanti dall’attività odontoiatrica - Acque reflue industriali - Fattispecie (Art. 74, 101, 137, D.Lgs. n. 152/2006).
I reflui promananti dagli studi odontoiatrici privati non sono assimilabili alle acque reflue domestiche, anche in ragione dell’utilizzazione, nelle attività terapeutiche, di sostanze, quali anestetici e farmaci, estranee alla vita domestica, e rientrano perciò nel novero delle acque reflue industriali (nella specie, un odontoiatra faceva confluire i propri reflui nel canale di raccolta delle acque piovane).
Il Tribunale di Catania condannava il titolare di uno studio odontoiatrico perché senza autorizzazione scaricava i reflui provenienti dall’attività medico-dentistica sul marciapiede della pubblica via tramite un tubo in PVC e da questo, mediante una sottotraccia con copertura cementizia, raggiungevano la grata delle acque piovane, senza distinzione tra semplici acque reflue ed acque contenenti rifiuti tossici e nocivi.
L’imputato, insoddisfatto della decisione, ricorreva per cassazione eccependo che il decreto assessoriale n. 34487 del 23.04.2001 prevedeva per gli studi odontoiatrici privati lo smaltimento delle acque reflue mediante scarichi confluenti nella rete fognaria comunale, senza necessità di specifici pozzetti di ispezione giacché tali studi non sono insediamenti produttivi. In secondo luogo, denunciava la violazione del D.Lgs. n. 152/2006 ritenendo che le acque scaricate fossero reflui domestici e non industriali.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha prima di tutto osservato che i motivi del ricorso si fondavano entrambi sull’asserto che le acque reflue degli studi odontoiatrici privati non fossero qualificabili come acque reflue industriali.
In secondo luogo, ha ricordato che, secondo la conforme giurisprudenza della Suprema Corte, per determinare le acque che derivano dalle attività produttive (che non necessitano per essere tali di un vero e proprio stabilimento, ma il cui insediamento può essere effettuato anche in un edificio che non abbia complessivamente destinazione industriale
(1) occorre procedere a contrario, vale a dire escludere le acque ricollegabili al metabolismo umano e provenienti dalla realtà domestica.
Il che significa che non dalla natura della struttura in cui sono prodotte (insediamento industriale o meno), bensì dalla natura delle acque stesse scaturisce l’applicabilità della tutela penale dall’inquinamento idrico.
A questa stregua, la Corte ha opinato che il giudice di merito avesse correttamente applicato la normativa di settore ritenendo che i reflui prodotti dagli studi odontoiatrici non sono qualificabili domestici perché provengono da una attività che effettua servizi terapeutici e che e` anche fornitrice di beni ai clienti (si pensi alle protesi dentarie); inoltre, le acque in questione, per l’utilizzazione nelle attività terapeutiche di sostanze estranee alla vita domestica (quali, per esempio, gli anestetici e in generale i farmaci), non possono neppure qualificarsi come dotate di caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche (cfr. art. 101, comma 7, lett. e) ai fini della disciplina regionale assimilativa
(2).
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(1) Si veda a questo proposito: – Cass. 07.07.2011, Boccia, in questa Rivista, 2012, pag. 467.
(2) In tema di reflui provenienti da laboratori odontotecnici, si veda: – Cass. 18.06.2009, Tonelli, in questa Rivista, 2010, pag. 170
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.01.2013 n. 2340 - commento tratto da Ambiente & Sviluppo n. 7/2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Acque. Reflui provenienti da studio odontoiatrico.
Le acque reflue degli studi odontoiatrici privati rientrano nel novero delle acque reflue industriali in quanto provenienti da attività di prestazione di servizi che ne rendono impossibile l'equiparazione con le acque reflue domestiche anche in ragione dell'utilizzazione, nelle attività terapeutiche, di sostanze, quali anestetici e farmaci, estranee alla vita domestica (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.01.2013 n. 2340 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Acque - Scarico di reflui provenienti da laboratori odontotecnici - Equiparazione acque reflue domestiche - Esclusione (Art. 137, comma 1, del D.Lgs. n. 152/2006).
L’equiparazione delle acque derivanti da attività di produzione di beni o comunque non connesse al metabolismo umano alle acque reflue domestiche è subordinata all’esistenza di determinate condizioni (nella fattispecie si trattava di reflui provenienti da laboratori odontotecnici).
Quella in rassegna è l’ennesima sentenza sulla questione dell’assimilabilità dei reflui derivanti da servizi a quelli domestici.
Nella specie, si tratta dello scarico senza la prescritta autorizzazione nelle pubbliche fognature delle acque di lavorazione della squadra modelli ad acqua, nonché di quelle utilizzate per la rifinitura dei manufatti, nella vaporiera e nel lavabo presenti nell’impianto per la pulizia degli attrezzi, provenienti da un laboratorio odontotecnico.
Per i ricorrenti la condanna è ingiusta perché, premesso che la definizione di acque reflue industriali si caratterizza, ai sensi dell’art. 74, lett. h), D.Lgs. n. 152/2006, per la sua connotazione negativa, il criterio generale adottato dal legislatore per individuare le acque industriali è quello afferente alla qualità del refluo, sicché, in applicazione del citato criterio sostanziale, sono individuate dall’art. 101, comma 7, del decreto legislativo alcune tipologie di acque assimilate a quelle domestiche, ai fini della disciplina degli scarichi.
Tra tali tipologie di acque, nella lett. e) sono indicate le acque «aventi caratteristiche equivalenti a quelle domestiche e indicate nella normativa regionale
Si osserva, quindi, in sintesi, che ai sensi dell’art. 5 del Regolamento della Regione Lombardia 24.03.2006 n. 3, emesso in attuazione dell’art. 52, comma primo lett. A), della legge regionale 12.12.2003, n. 26, sono assimilabili a quelle domestiche, tra le altre, «Le acque che in relazione al tipo di attività da cui derivano e per le quali si realizza un consumo medio giornaliero inferiore a 20 mc. siano ritenute assimilabili senza necessità di accertamenti tecnici dell’autorità competente» (art. 5, comma 4).
Si osserva, poi, che in tale categoria rientrano le acque provenienti dagli studi odontotecnici con un consumo medio giornaliero di acqua inferiore a 20 mc., i cui titolari, secondo la modulistica predisposta dal Comune, non devono chiedere l’autorizzazione all’immissione in pubblica fognatura, bensì presentare la «Dichiarazione di scarico di acque reflue domestiche e/o dichiarazione di assimilabilità degli scarichi idrici
In definitiva, alla luce dei citati riferimenti normativi, l’immissione in pubblica fognatura delle acque reflue provenienti dal laboratorio odontotecnico dei ricorrenti doveva essere equiparata a quella delle acque domestiche e, pertanto, eventualmente soggetta a sanzione amministrativa, ai sensi dell’art. 133 del D.Lgs. n. 152/2006.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, chiarisce che, mentre «l’immissione», secondo la definizione di cui all’art. 74, comma primo lett. ff), del D.Lgs. n. 152/2006, come modificato dall’art. 2, comma 5, del D.Lgs. n. 4/2008, di acque reflue domestiche in pubblica fognatura, senza la prescritta autorizzazione, è punita con sanzione amministrativa, ai sensi dell’art. 133, comma secondo, del D.Lgs. n. 152/2006, l’immissione di acque reflue industriali è prevista come reato dall’art. 137, comma 1, del medesimo decreto legislativo.
Costituiscono inoltre «acque reflue industriali», ai sensi dell’art. 74, comma 1 lett. h), del D.Lgs. n. 152/2006, come sostituito dall’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 4/2008, «qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici od impianti in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento».
Tanto premesso, la sentenza osserva che, effettivamente, come dedotto dai ricorrenti, ai sensi dell’art. 101, comma 7 lett. e), del D.Lgs. n. 152/2006, sono equiparate alle acque reflue domestiche le acque «aventi caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche e indicate dalla normativa regionale», sicché l’immissione in pubblica fognatura di tali acque, senza la prescritta autorizzazione, è punita con sanzione amministrativa.
Passando all’esame della normativa regionale, i giudici romani rilevano che l’art. 5, comma 1, del Regolamento della Regione Lombardia n. 3 del 24.03.2006, emesso in attuazione dell’art. 52, comma 1, lett. a), della legge della Regione Lombardia 12.12.2003 n. 26, considera acque reflue domestiche, oltre a quelle provenienti da insediamenti residenziali, le acque reflue derivanti dalle attività indicate nell’allegato A.
Ai sensi del citato allegato A sono acque reflue domestiche:
1) le acque reflue derivanti esclusivamente dal metabolismo umano e dall’attività domestica ovvero da servizi igienici, cucine e/o mense anche se scaricate da edifici o installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzioni di beni;
2) in quanto derivanti da attività riconducibili per loro natura a quelle domestiche e/o al metabolismo umano, le acque reflue provenienti da:
   a) laboratori di parrucchiere, barbiere e istituti di bellezza;
   b) lavanderie a secco a ciclo chiuso e stirerie la cui attività sia rivolta direttamente ed esclusivamente all’utenza residenziale;
   c) vendita al dettaglio di generi alimentari e altro commercio al dettaglio, anche con annesso laboratorio di produzione finalizzato esclusivamente alla vendita stessa;
   d) attività alberghiera e di ristorazione.
Orbene, dall’elencazione che precede, si deduce che le acque provenienti da laboratori odontotecnici non sono direttamente equiparate alle acque reflue domestiche.
Ai sensi dell’art. 5, comma 4, del citato Regolamento Regionale n. 3 del 24.03.2006 «L‘autorità competente, sulla base dell‘esame delle attività da cui derivano le acque reflue, può procedere alla valutazione della assimilazione delle acque stesse, senza necessità di eseguire accertamenti analitici, se le attività presentano consumo d’acqua medio giornaliero inferiore a 20 mc.».
L’equiparazione delle acque derivanti da attività di produzione di beni o comunque non connesse al metabolismo umano alle acque reflue domestiche risulta, pertanto, subordinata all’esistenza di determinate condizioni.
Tali condizioni, secondo la tabella predisposta dal Comune di Milano congiuntamente con l’ARPA e prodotta in giudizio dagli stessi imputati, devono consistere, con riferimento ai laboratori odontotecnici, nella attestazione da parte dei titolari dell’attività che il consumo medio giornaliero di acque è inferiore ai 20 mc. e che gli scarichi sono costituiti dalle sole acque di lavaggio di calchi in gesso previa decantazione.
Orbene, è evidente che, in assenza dell’accertamento, sia pure mediante attestazione da parte del titolare del laboratorio odontotecnico, che le acque reflue scaricate rispondano ai requisiti indicati, non può ritenersi verificata la condizione che consente di equiparare dette acque reflue a quelle domestiche.
Correttamente, pertanto la sentenza impugnata ha ravvisato la sussistenza della fattispecie contravvenzionale ascritta agli imputati, in assenza delle condizioni previste dal riportato quadro normativo, che determina l’equiparazione delle acque reflue provenienti dai laboratori odontotecnici a quelle domestiche e, cioè, per l’assenza di qualsiasi comportamento positivo, da parte degli interessati, richiesto dalle disposizioni citate al fine di consentire detta equiparazione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.09.2009 n. 35137 - commento tratto da Ambiente & Sviluppo n. 2/2010).

     Sull'argomento affrontato dalla Suprema Corte si leggano anche alcuni commenti di seguito riportati, tanto per avere le idee un poco più chiare.

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Amendola, REFLUI DI DENTISTI E DI LABORATORI DI ALIMENTI: SECONDO LA CASSAZIONE SONO ACQUE REFLUE INDUSTRIALI (05.04.2013 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Muratori, Riflettendo su Cass. pen. n. 2340/2013: la Suprema Corte è mal disposta verso i dentisti? (Ambiente & sviluppo n. 3/2013).

QUINDI??

     Quindi, bisogna metter mano ai provvedimenti autorizzatori già rilasciati quali scarico di "acque reflue domestiche" anziché scarico di "acque reflue industriali" e verificare se tutti gli studi odontoiatrici siti sul territorio comunale siano o meno autorizzati -correttamente- e, laddove necessario, sanzionare a' termini di legge ... ma tutto ciò fatelo solamente dopo aver sistemato la "propria dentiera" in maniera tale che per i prossimi 40 anni non avete più bisogno del dentista, altrimenti vedrete che fattura da capogiro!!
15.07.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA LAVORO: Oggetto: “Decreto del Fare” – D.L. n. 69/2013 – Semplificazione in materia di lavoro e prevenzione incendi (ANCE Bergamo, circolare 12.07.2013 n. 171).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: EE.LL.: l'utilizzo di graduatorie di altri enti (CGIL-FP di Bergamo, nota 11.07.2013).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 12.07.2013, "Modifica dello schema di fideiussione bancaria o assicurativa a carico dei soggetti autorizzati alla realizzazione ed all’esercizio di un impianto di produzione di energia da fonti rinnovabili, ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. 387/2003 e s.m.i. come garanzia della dismissione degli stessi adottato con decreto del 24.06.2013, n. 5448" (decreto D.S. 09.07.2013 n. 6440).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 12.06.2013 n. 136 "Contributi per i costi ambientali di ripristino dei luoghi a valere sul Fondo per la razionalizzazione della rete di distribuzione dei carburanti e suo rifinanziamento" (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 19.04.2013).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: S. Deliperi, Capanni e altane di caccia sono disciplinati dalla normativa di tutela paesaggistica e urbanistica (05.07.2013 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: M. Sanna, Terre da scavo e danno ambientale – D.M. 10.08.2012 n. 161 (01.07.2013 - link a www.industrieambiente.it).

APPALTI: L. Prosperetti, La quantificazione del lucro cessante da illegittima esclusione dalla gara: una prospettiva economica (tratto da www.ipsoa.it - Urbanistica e appalti n. 7/2013).

EDILIZIA PRIVATA: S. Calvetti, Permesso di costruire: la proroga non può essere negata per vizi del titolo abilitativo (Urbanistica e appalti n. 7/2013).

TRIBUTI: P. Aglietta, IMU e imposte sui redditi: le ultime novità e i chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate (tratto da www.ipsoa.it - Immobili & proprietà n. 7/2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: C. Scardaci, Ancora sulla differenza tra inerti e terre e rocce da scavo (nota a Cass. pen. n. 16186/2013) (Ambiente & sviluppo n. 7/2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Amendola, Responsabilità per il trasporto dei rifiuti ad impianto non autorizzato (28.06.2013 - link a www.industrieambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, IL CONDONO EDILIZIO GIURISPRUDENZIALE - Abusi d’ufficio dei magistrati amministrativi? (sulla generale inapplicabilità dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 e ss.mm.ii. alla materia del governo del territorio) (17.06.2013 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: A. Scialò, Gli effetti “penali” del nuovo regime delle terre e rocce da scavo introdotto dal D.M. 161/2012 - La retroattività negata (nota a Cass. Pen., Sez. III, 15.03.2013 n. 12295) (19.06.2013 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: R. Micalizzi, Le sanzioni conseguenti all’annullamento del titolo edilizio, tra interpretazione letterale e principi generali (Urbanistica e appalti n. 6/2013).

URBANISTICA: Fondazione De Iure Publico, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA E MODELLI PEREQUATIVI (Geometra Orobico n. 1/2013).

URBANISTICA: Fondazione De Iure Publico, PEREQUAZIONE E TRASFERIMENTO DEI DIRITTI EDIFICATORI: LA NECESSITÀ DI UNA NUOVA LEGGE NAZIONALE (Geometra Orobico n. 1/2013).

URBANISTICA: Fondazione De Iure Publico, MERCATO DEI DIRITTI EDIFICATORI: DALLA CARTA ALLA REALTÀ (Geometra Orobico n. 1/2013).

URBANISTICA: Fondazione De Iure Publico, PIANI REGOLATORI GENERALI, LA FINE PUÒ ATTENDERE (Geometra Orobico n. 1/2013).

EDILIZIA PRIVATA: VIZI DI COSTRUZIONE: CHI È IL RESPONSABILE (Geometra Orobico n. 1/2013).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante, assume rilevanza non già il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, bensì il suo contenuto specifico, intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica quale, ad esempio, una variante necessaria per la localizzazione di un’opera, ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante.
Inoltre, il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante è ancorato dalla normativa suindicata all’ulteriore presupposto che la redazione dell’atto di pianificazione -comunque riferibile alla realizzazione di opere pubbliche– avvenga interamente all’interno dell’Ente.
Da ultimo,
al personale interno non può essere corrisposto alcun incentivo per progettare il rinnovo delle previsioni di piano regolatore scadute, ai fini della reiterazione delle previsioni in esso contenute. Viceversa, l’incentivo di cui al comma 6 dell’art. 92 del D.Lgs. 163/2006 deve essere riconosciuto per la redazione di varianti al piano regolatore collegate alla realizzazione di opere pubbliche, sempre che il relativo incarico sia interamente affidato al personale comunale in possesso delle specifiche professionalità richieste dalla legge.
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Con la nota indicata in premessa il Comune di Cascia, dopo aver premesso che in sede di redazione della Variante Generale del vigente P.R.G., la cui "parte strutturale" è stata affidata all'esterno, l’Ente valuterà la possibilità di affidare la progettazione della “parte operativa” del piano medesimo al personale interno, ha formulato i seguenti quesiti:
1. Se l'incarico di pianificazione urbanistica da affidare internamente, fermo restando la disponibilità tecnica, costituisce deroga rispetto al principio generate della onnicomprensività dei trattamento economico dei dipendenti pubblici e pertanto può essere incentivato. La considerazione scaturisce nell'ottica della complessità dell'attività svolta, nonché il carattere aggiuntivo dell'incarico, e in particolare per remunerare i dipendenti ed i dirigenti che svolgono direttamente l'attività di progettazione, considerando questa come il maggiore valore aggiunto;
2. Se l'incarico di redazione della "parte operativa" del PRG possa essere inquadrata tra gli atti di pianificazione per i quali il comma 6 dell'art. 92 del D.Lgs 163/2006 riconosce l'incentivazione. Tale atto di pianificazione, infatti, individua e progetta in maniera puntuale e non separabile la localizzazione di infrastrutture e servizi necessari ai bisogni della collettività locale (in termini di Opere pubbliche e di pubblica utilità, servizi, pubblici, parcheggi; aree sportive, parchi pubblici, urbanizzazioni, ecc.);
3. Se il rinnovo delle previsioni di piano regolatore scadute, ai fini della reiterazione delle previsioni, o la redazione di varianti puntuali per la realizzazione di opere pubbliche, affidate internamente agli uffici comunali, possono essere suscettibili di incentivazione ai sensi del comma 6 art. 92 del D. Lgs. 163/2006.
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Quanto al merito, con il primo quesito il Comune di Cascia intende conoscere l’avviso di questa Corte in merito alla possibilità di corrispondere, in deroga al principio normativo di onnicomprensività del trattamento economico dei dipendenti pubblici, l’incentivo di progettazione al personale interno al quale venga conferito dall’ente un incarico di pianificazione urbanistica.
La risposta ai quesiti proposti dall’ente rende necessario enucleare preliminarmente la normativa che disciplina l’erogazione del compenso incentivante per gli incarichi di pianificazione.
Il comma 6 dell’art. 92 del D. Lgs. n. 163/2006 recita: “Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto.”
La norma succitata, nonché quella contenuta nel comma 5, esprime un preciso favor dl legislatore per l’affidamento di incarichi concretanti prestazioni d’opera professionale a dipendenti di ruolo dell’ente locale, disponendo misure volte a remunerare le specifiche professionalità coinvolte e rinviando ai regolamenti comunali e alla contrattazione collettiva decentrata la determinazione di “criteri e modalità” di riparto del compenso.
Comportando una deroga al principio di onnicomprensività del trattamento economico dei dipendenti pubblici, tali disposizioni, secondo un condivisibile orientamento (ex multis, Sezione controllo Campania, delibera 7/2008), costituiscono norme di stretta interpretazione, per le quali opera il divieto di analogia ai sensi dell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile.
Va, quindi ben delimitato l’ambito di applicazione della succitata normativa derogatoria. In tale ottica appare necessario precisare, preliminarmente, l’esatto significato della locuzione “atto di pianificazione”, contenuta nel comma 6 della norma citata. L’indirizzo affermatosi al riguardo in seno alle Sezioni di controllo della Corte dei conti (ex multis, Sez. contr. Lombardia, 30.05.2012, n. 259; 06.03.2012, n. 57; Sez. contr. Puglia, 16.01.2012, n. 1; Sez. contr. Toscana, 18.10.2011, n. 213 e n. 293/2012; Sez. Piemonte, 29.08.2012, n. 290), dal quale questa Sezione non ha motivo di discostarsi, è nel senso che “l’atto di pianificazione comunque denominato” indicato nel comma 6 del citato art. 92 si riferisce ad atti che abbiano ad oggetto la pianificazione del territorio collegata alla realizzazione di opere pubbliche (ad es. variante necessaria per la localizzazione di un’opera) e non si estende alla mera attività di pianificazione del territorio, quale la redazione del Piano regolatore o una variante generale.
A tale conclusione conduce peraltro, a giudizio di questa Corte, un’interpretazione sistematica della normativa che disciplina l’incentivo di progettazione, atteso che la previsione di cui al comma 6 va coordinata sia con i commi precedenti del medesimo art. 92 sia con l’art. 90 del codice dei contratti pubblici. Invero, l’intero impianto dell’art. 92, rubricato “Corrispettivi, incentivi per la progettazione e fondi a disposizione delle stazioni appaltanti”, ruota intorno all’attività di progettazione di un’opera o di un lavoro che l’amministrazione pubblica, in veste di stazione appaltante, deve aggiudicare. Nel comma 1 del citato art. 92 si parla di “compensi relativi allo svolgimento della progettazione e delle attività tecnico-amministrative ad essa connesse all'ottenimento del finanziamento dell'opera progettata”.
Il successivo comma 2 si occupa delle tabelle dei corrispettivi che la stazione appaltante può utilizzare quale criterio per determinare l’importo da porre a base dell’affidamento. Il comma 3 si occupa a sua volta dei criteri di calcolo dei corrispettivi dei vari livelli di progettazione (preliminare, definitiva ed esecutiva). Il comma 5 dispone che “Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori…”.
L’art. 90 del medesimo D.Lgs. 163/2006 dispone, in relazione alle “prestazioni relative alla progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori, nonché alla direzione dei lavori e agli incarichi di supporto tecnico-amministrativo alle attività del responsabile del procedimento e del dirigente”, che tali attività siano espletate da risorse interne alla stazione appaltante, purché in possesso dei requisiti di abilitazione professionale. In effetti, l’affidamento a soggetti comunque interni al plesso pubblicistico viene considerato dal codice dei contratti preferenziale, tanto che il comma 6 dello stesso articolo 90 stabilisce i casi in cui l’incarico di progettazione preliminare può essere legittimamente affidato a professionalità esterne all’Amministrazione.
Le suesposte considerazioni consentono al Collegio di affermare che,
ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante, assume rilevanza non già il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, bensì il suo contenuto specifico, intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica quale, ad esempio, una variante necessaria per la localizzazione di un’opera (cfr. Corte conti, sez. controllo Toscana 213/2011), ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante.
Va ulteriormente precisato che
il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante è ancorato dalla normativa suindicata all’ulteriore presupposto che la redazione dell’atto di pianificazione -comunque riferibile alla realizzazione di opere pubbliche– avvenga interamente all’interno dell’Ente.
Alla luce di quanto sopra esposto,
questa Sezione ritiene, pertanto, che nessun compenso possa essere corrisposto al personale interno nella fattispecie in esame, tanto più che l’incarico che l’ente intende conferire a detto personale riguarda la redazione della “parte operativa” della variante al piano regolatore generale, mentre l’incarico di redigere la “parte strutturale” del piano risulta già conferito dall’ente a professionalità esterne.
Quanto all’ultimo quesito proposto,
la Sezione ritiene, in applicazione delle suesposte coordinate interpretative, che al personale interno non può essere corrisposto alcun incentivo per progettare il rinnovo delle previsioni di piano regolatore scadute, ai fini della reiterazione delle previsioni in esso contenute. Viceversa, l’incentivo di cui al comma 6 dell’art. 92 del D.Lgs. 163/2006 deve essere riconosciuto per la redazione di varianti al piano regolatore collegate alla realizzazione di opere pubbliche, sempre che il relativo incarico sia interamente affidato al personale comunale in possesso delle specifiche professionalità richieste dalla legge (Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria, parere 09.07.2013 n. 119).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L’art. 16, commi 4 e 5, del DL 98/2011, convertito in legge 15.07.2011 n. 111 prevede per gli enti locali la possibilità di "adottare entro il 31 marzo di ogni anno piani triennali di razionalizzazione e riqualificazione della spesa, di riordino e ristrutturazione amministrativa, di semplificazione e digitalizzazione, di riduzione dei costi della politica e di funzionamento, ivi compresi gli appalti di servizio, gli affidamenti alle partecipate e il ricorso alle consulenze attraverso persone giuridiche. Detti piani indicano la spesa sostenuta a legislazione vigente per ciascuna delle voci di spesa interessate e i correlati obiettivi in termini fisici e finanziari".
Ai sensi del comma 5 del medesimo art. 16 del DL. 98/2011, convertito in legge 15.07.2011 n. 111, "le eventuali economie aggiuntive effettivamente realizzate" con i sopra menzionati piani di razionalizzazione delle spese "possono essere utilizzate annualmente, nell'importo massimo del 50 per cento, per la contrattazione integrativa, di cui il 50 per cento destinato alla erogazione dei premi previsti dall'art. 19 del decreto legislativo 27.10.2009, n. 150"; tali risorse "sono utilizzabili solo se a consuntivo è accertato, con riferimento a ciascun esercizio, dalle amministrazioni interessate, il raggiungimento degli obiettivi fissati per ciascuna delle singole voci di spesa previste nei piani di cui al comma 4 e i conseguenti risparmi", che devono essere "certificati, ai sensi della normativa vigente, dai competenti organi di controllo".
Il Dipartimento della Funzione Pubblica, con la circolare n. 13/2011, ha precisato che "le economie indicate nei punti b) e c), all'esito delle procedure di certificazione, sono immediatamente destinabili dalle amministrazioni al finanziamento della contrattazione collettiva", apparendo pacifico l'utilizzo nell'ambito dell'esercizio in cui si realizzano.
La deliberazione della Corte dei Conti –sezione controllo Veneto– del 31.08.2012, n. 532 con riferimento alle economie dei piani di razionalizzazione ne consente l'impiego immediato a consuntivo nell'ambito della contrattazione decentrata; analogamente la deliberazione della Corte dei Conti Piemonte n. 14/2013, in risposta al quesito posto da un comune, che dovendo approvare il piano triennale di razionalizzazione (2013-2015) chiedeva se operassero per il 2013 i limiti ai trattamenti accessori fissati dall'art. 9, commi 1 e 2-bis, del D.L. 78/2010, afferma che rispetto ai piani di razionalizzazione possono essere superati tali limiti e consente un impiego immediato delle economie realizzate nella contrattazione decentrata.
A conclusioni diverse è giunta isolata la pronuncia dell’11.10.2012, n. 398, della Corte dei Conti Emilia Romagna, che rinvia i risparmi dei piani di razionalizzazione ad incremento del fondo integrativo dell'anno successivo a quello di maturazione, rispondendo però a un quesito della Provincia di Piacenza riferito non ai piani di razionalizzazione, ma a un piano di contenimento delle spese di funzionamento previsto dalla legge 24.12.2007 n. 244.
In ogni caso, pare alla Sezione non potersi che concordare con gli elementi di specialità ravvisati dal dicastero veneto laddove evidenzia che “La speciale disciplina introdotta per le menzionate “economie aggiuntive” costituisce la risultante della peculiare tecnica utilizzata dal legislatore al fine di realizzare il contenimento della spesa di personale (…) riconducibile ad un meccanismo in un certo qual modo “premiale”, che, attraverso la creazione di “percorsi virtuosi”, tende a produrre risparmi di spesa “ulteriori” rispetto a quelli imposti dal patto di stabilità e dalla normativa vigente in materia” con conseguente possibilità di attribuzione nell’anno di competenza, in sintonia con quanto auspicato dal comune istante.

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Il comune richiede chiarimenti sulle norme che (art. 16, commi 4 e 5, del decreto legge 06.07.2011 n. 98, convertito in legge 15.07.2011 n. 111) hanno previsto che i risparmi di spesa realizzati nell'anno di attuazione del piano di razionalizzazione possano essere inseriti nel fondo accessorio dello stesso anno, e dunque liquidati nell'anno successivo, a seguito di accertamento del raggiungimento degli obiettivi fissati e dei relativi risparmi, come certificato dagli organi di controllo.
Secondo il comune, la prevista certificazione dei "competenti organi di controllo", avrebbe lo scopo di rendere concretamente erogabili le economie di spesa e anch'essa avverrebbe necessariamente a consuntivo e sempre l'anno successivo. Tale interpretazione della norma sarebbe perfettamente in linea con le disposizioni previste per altri incentivi di natura variabile (quali l'attività di recupero ICI, i fondi per la progettazione interna, i proventi delle sponsorizzazioni) le cui risorse, in sede di costituzione del fondo, vengono previste dalle amministrazioni come valore presunto, e poi materialmente quantificate ed erogate a fine anno previo accertamento a consuntivo delle quantità economiche effettivamente spettanti.
Peraltro, si rileva che numerosi comuni, e anche importanti capoluoghi di regione, nonché province, avrebbero adottato tale criterio nella composizione dei fondi decentrati, facendo confluire le economie dei piani di razionalizzazione nel fondo dell'anno di competenza.
Anche il Ministero dello Sviluppo Economico, con il parere favorevole del Dipartimento della Funzione Pubblica, a seguito dell'accertamento congiunto effettuato con il Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato - IGOP ha sottoscritto con le organizzazioni sindacali abilitate un accordo sull'utilizzo del Fondo unico di amministrazione per l'anno 2012 che prevede che le eventuali somme provenienti dalle riduzioni di spesa ai sensi dell'art. 16 del d.l. 98/2011 andranno ad incrementare la quota per il pagamento della produttività individuale dello stesso anno.
Tale applicazione della norma consentirebbe di premiare a consuntivo, previa verifica e certificazione dei risultati conseguiti e dunque del raggiungimento degli obiettivi assegnati ai dipendenti coinvolti, i lavoratori che effettivamente sono stati in servizio nell'anno di realizzazione di tali economie; essi beneficerebbero di una quota delle stesse, che, diversamente, andrebbero a ricompensare soggetti che non hanno partecipato alla loro formazione, mentre la restante quota andrà ad incremento della produttività generale.
Sul piano finanziario le economie realizzate in un determinato anno, se non fatte confluire nel fondo delle risorse decentrate di competenza dello stesso anno, andrebbero in avanzo di amministrazione, pertanto in sede di bilancio dell'anno successivo il fondo dovrebbe essere finanziato con risorse nuove; qualora dette economie non fossero imputate al fondo delle risorse decentrate dello stesso anno, si determinerebbe come ulteriore conseguenza una riduzione del complesso delle spese di personale dell'anno in cui si sono realizzate le economie, che costituirebbe poi il parametro per l'anno successivo e, in caso di incomprimibilità totale o parziale della spesa di personale nelle sue varie componenti, determinerebbe l'impossibilità di alimentare il fondo con i risparmi dei piani.
Inoltre, le economie provenienti dalla razionalizzazione delle spese previste e monitorate durante l'anno permetterebbero una riduzione di alcuni capitoli di spesa e conseguentemente l'aumento del capitolo del fondo delle risorse decentrate del medesimo anno, contribuendo a garantire il pareggio di bilancio;
Il comune di Bollate, dopo aver approvato i Piani dì razionalizzazione della spesa per il triennio 2012/2014, ha provveduto ad inserire le economie di spesa previste per il 2012 nel fondo delle risorse decentrate dello stesso anno, risorse che saranno erogate nell'anno 2013 solo dopo essere state debitamente rendicontate a consuntivo dal competente organo di controllo.
Tanto premesso, il comune richiede se il complesso normativo consenta di inserire le economie generate dai piani di razionalizzazione approvati ed effettuati nel 2012 nel fondo delle risorse decentrate dello stesso anno (2012), salva la loro effettiva erogabilità nell'anno 2013 a seguito dell'accertamento del raggiungimento degli obiettivi e delle economie a consuntivo da parte del competente organo di controllo.
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La norma menzionata prevede per gli enti locali la possibilità di "adottare entro il 31 marzo di ogni anno piani triennali di razionalizzazione e riqualificazione della spesa, di riordino e ristrutturazione amministrativa, di semplificazione e digitalizzazione, di riduzione dei costi della politica e di funzionamento, ivi compresi gli appalti di servizio, gli affidamenti alle partecipate e il ricorso alle consulenze attraverso persone giuridiche. Detti piani indicano la spesa sostenuta a legislazione vigente per ciascuna delle voci di spesa interessate e i correlati obiettivi in termini fisici e finanziari".
Ai sensi del comma 5 del medesimo art. 16 del decreto legge 06.07.2011 n. 98, convertito in legge 15.07.2011 n. 111, "le eventuali economie aggiuntive effettivamente realizzate" con i sopra menzionati piani di razionalizzazione delle spese "possono essere utilizzate annualmente, nell'importo massimo del 50 per cento, per la contrattazione integrativa, di cui il 50 per cento destinato alla erogazione dei premi previsti dall'art. 19 del decreto legislativo 27.10.2009, n. 150"; tali risorse "sono utilizzabili solo se a consuntivo è accertato, con riferimento a ciascun esercizio, dalle amministrazioni interessate, il raggiungimento degli obiettivi fissati per ciascuna delle singole voci di spesa previste nei piani di cui al comma 4 e i conseguenti risparmi", che devono essere "certificati, ai sensi della normativa vigente, dai competenti organi di controllo".
Il Dipartimento della Funzione Pubblica, con la circolare n. 13/2011, ha precisato che "le economie indicate nei punti b) e c), all'esito delle procedure di certificazione, sono immediatamente destinabili dalle amministrazioni al finanziamento della contrattazione collettiva", apparendo pacifico l'utilizzo nell'ambito dell'esercizio in cui si realizzano.
La deliberazione della Corte dei Conti –sezione regionale di controllo per il Veneto– del 31.08.2012, n. 532 con riferimento alle economie dei piani di razionalizzazione ne consente l'impiego immediato a consuntivo nell'ambito della contrattazione decentrata; analogamente la deliberazione della Corte dei Conti Piemonte n. 14/2013, in risposta al quesito posto da un comune, che dovendo approvare il piano triennale di razionalizzazione (2013-2015) chiedeva se operassero per il 2013 i limiti ai trattamenti accessori fissati dall'art. 9, commi 1 e 2-bis, del D.L. 78/2010, afferma che rispetto ai piani di razionalizzazione possono essere superati tali limiti e consente un impiego immediato delle economie realizzate nella contrattazione decentrata.
A conclusioni diverse è giunta isolata la pronuncia dell’11.10.2012, n. n. 398, della Corte dei Conti Emilia Romagna, che rinvia i risparmi dei piani di razionalizzazione ad incremento del fondo integrativo dell'anno successivo a quello di maturazione, rispondendo però a un quesito della Provincia di Piacenza riferito non ai piani di razionalizzazione, ma a un piano di contenimento delle spese di funzionamento previsto dalla legge 24.12.2007 n. 244.
In ogni caso,
pare alla Sezione non potersi che concordare con gli elementi di specialità ravvisati dal dicastero veneto laddove evidenzia che “La speciale disciplina introdotta per le menzionate “economie aggiuntive” costituisce la risultante della peculiare tecnica utilizzata dal legislatore al fine di realizzare il contenimento della spesa di personale (…) riconducibile ad un meccanismo in un certo qual modo “premiale”, che, attraverso la creazione di “percorsi virtuosi”, tende a produrre risparmi di spesa “ulteriori” rispetto a quelli imposti dal patto di stabilità e dalla normativa vigente in materia” con conseguente possibilità di attribuzione nell’anno di competenza, in sintonia con quanto auspicato dal comune istante (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 27.06.2013 n. 252).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Deve ribadirsi che gli EELL, nella deliberazione ed erogazione delle risorse integrative aggiuntive, in osservanza di un principio di prudenza, corollario alla sana gestione finanziaria, sono tenuti a rispettare gli obiettivi posti dal PdS e le norme vigenti di contenimento delle spese di personale anche con riferimento all'esercizio finanziario venturo o in corso attraverso il bilancio di previsione e relativi assestamenti.
In forza dei richiamati principi e in coerenza con i vincoli normativi, le possibilità di integrare le risorse finanziarie destinate alla contrattazione decentrata integrativa andranno subordinate al rispetto del PdS e dei vincoli finanziari nell'anno precedente e in quello di destinazione di tali risorse.
Fermo l'obbligo di recupero delle somme eventualmente versate nella sessione negoziale successiva (e 2013), l'ente interessato potrà integrare le risorse dopo aver accertato l'effettivo rispetto dei vincoli finanziari (e non prima del 2014).

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Il comune, che specifica di non avere rispettato il patto di stabilità interno per l’anno 2012, richiede:
i) se sia possibile procedere alla corresponsione del trattamento economico accessorio (parte variabile del fondo produttività ex art. 15, comma 2, del c.c.n.l. sottoscritto in data 01.04.1999) relativo all'anno 2012;
ii) se in caso di avvenuto pagamento nello stesso anno dì dette quote retributive accessorie si debba procedere al recupero delle stesse nella sessione negoziale immediatamente successiva;
iii) se per l'anno 2013, lo stesso comune (in caso di certificazione dell'avvenuto rispetto del Patto di stabilità 2013) possa prevedere lo stanziamento di risorse aggiuntive (parte variabile del fondo produttività ex art. 15, commi 2 e 5 del cennato c.c.n.l.).
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Arrivando, in sintesi, agli interrogativi posti dall’Ente, quindi, ferma restando l’astratta ricomprensione delle risorse de quibus tra quelle subordinate al rispetto dei vincoli di finanza pubblica, deve ribadirsi che
gli enti locali, nella deliberazione e successiva erogazione delle risorse integrative aggiuntive, in osservanza di un principio di prudenza, corollario di quello più generale di sana gestione finanziaria, sono comunque tenuti a rispettare gli obiettivi posti dal Patto di stabilità interno e le norme vigenti che impongono il contenimento delle spese di personale anche con rifermento all’esercizio finanziario venturo o in corso (nel caso di specie: il 2012) attraverso lo strumento del bilancio di previsione e i relativi assestamenti.
In forza dei richiamati principi e in coerenza, altresì, con i vincoli del quadro normativo,
le possibilità concrete di integrare le risorse finanziarie destinate alla contrattazione decentrata integrativa andranno poi subordinate al rispetto del Patto di stabilità e dei vincoli finanziari sia nell’anno precedente che in quello di destinazione di tali risorse. Ferma restando, quindi, l’obbligo di recupero delle somme eventualmente versate nella sessione negoziale successiva (nel caso di specie: il 2013), l’ente interessato potrà integrare le risorse destinate alla contrattazione decentrata dopo aver accertato l’effettivo rispetto dei vincoli finanziari (nel caso di specie: non prima del 2014) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 24.06.2013 n. 250).

LAVORI PUBBLICI: Le operazioni di partnership tra pubblico e privato, p.p.p., sono disciplinate dall'art. 3, c. 15-ter, del codice dei contratti pubblici. Elemento caratteristico delle operazioni p.p.p. è la suddivisione del rischio economico tra P.A. e privato, che giustifica un trattamento contabile parzialmente diverso dall'ordinario contratto di appalto.
Il trattamento contabile ai fini dei vincoli di finanza pubblica delle operazioni p.p.p. è stato affrontato dalle SSRR in sede di controllo, -del.ne di indirizzo 16.09.2011, n. 49. Per non essere considerata rilevante ai fini del calcolo del disavanzo e del debito pubblico la spesa inerente la costruzione di opere pubbliche non deve gravare sul bilancio dell'ente; ciò si verifica se: il c.d. rischio di costruzione ricada sul soggetto realizzatore nonché ricada sul realizzatore il rischio di domanda o il rischio di disponibilità. Tali considerazioni possono essere riferite all'anelata operazione di finanza di progetto, definita dalla SRC Veneto, 12.11.2011, n. 228.
Nel caso di specie il riferimento alla disciplina delle p.p.p. è di dubbia utilità: la remunerazione dell'operatore dovrebbe avvenire tramite gestione di struttura diversa e ulteriore rispetto a quella realizzanda per conto del comune e seguirebbe la cessione di un diritto di superficie sull'area su cui insisterebbe l'opificio necessario alla gestione dell'attività economica. Difettando il rischio d'impresa a carico del privato sembrerebbe trattarsi di un mero contratto di appalto, remunerato tramite cessione di un fondo attrezzato per la realizzazione di un'impresa, in quanto,come osservato dalle menzionate SSRR, ''La mancata sussistenza di almeno due parametri indica che l'operazione non ha realmente natura di partenariato con utilizzo di risorse private ma che, di fatto, rientra nella piena disponibilità e rischio per l'ente pubblico''.
Pur in presenza di un rapporto di appalto, astrattamente soggetto ai vincoli di finanza pubblica, non essendo previsto l'esborso di poste finanziarie, non si pone un problema di compatibilità con i vincoli di finanza pubblica o di indebitamento degli enti locali. In relazione alla astratta fattibilità potrebbe paventarsi il rischio dell'ente di incorrere nel divieto comminato dall'art. 1, c. 138, della L. 228/2012. Dal punto di vista oggettivo la fattispecie oggetto del divieto e' costituita dagli acquisti ''a titolo oneroso'' di beni immobili.
A parere della Sezione, l'operazione descritta dal Comune non trova ostacolo nella normativa finanziaria che limita l'acquisto di beni immobili. E' vero che l'Ente locale acquista un'opera pubblica ''un bene immobile'' ma l'articolo 1, c. 138, L. 228/2012 vieta l'acquisto di immobili a titolo oneroso e non la diversa ipotesi dell'appalto di lavori pubblici. D'altra parte, lo stesso articolo 12 della L. 111/2011,modificato dal citato c. 138, comma 1-ter, prevede che ''a decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento.
La congruità del prezzo è attestata dall'Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l'indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell'ente: è chiaro ed evidente il riferimento giuridico alla fattispecie civilistica della compravendita,laddove le parti sono l'alienante e l'acquirente, e non a quella dell'appalto.

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Il comune specifica di essere proprietario di un edificio scolastico, attualmente insufficiente per la platea scolastica servita, occorrente di diversi interventi di ristrutturazione edilizia, anche in adeguamento, per i quali l'ente ha una disponibilità finanziaria non spendibile per i vincoli in essere del cd. patto di stabilità interno.
L'amministrazione comunale di Villa Cortese vorrebbe quindi procedere, tramite l’istituto della finanza di progetto, alla realizzazione della nuova scuola primaria –su altro fondo- per un importo definito sulla base di uno studio di fattibilità.
Con successivo atto di indirizzo del consiglio comunale, a parziale rettifica di un progetto originario, erano definite le linee guida dell’operazione, che prevedono:
i) la copertura dei costi dell'intervento (progettazione definitiva ed esecutiva, realizzazione dell'opera) a totale carico del soggetto promotore, scelto con gara ad evidenza pubblica;
ii) la remunerazione dell'operatore attraverso la gestione di una nuova struttura di tipo sociale, sanitario e assistenziale da realizzare, ad opera del promotore stesso, sull'area su cui insiste l'attuale scuola elementare da dismettere, una volta realizzato il nuovo edificio;
iii) la cessione del diritto di superficie sull’area su cui insiste il citato edificio scolastico al promotore, per una durata decorrente dalla data dì ultimazione dei lavori di realizzazione del nuovo complesso scolastico, da definirsi a seguito di esame del piano economico-finanziario presentato;
iv) il riconoscimento da parte del promotore all'ente, quale corrispettivo per l'accennata concessione del diritto di superficie, e a decorrere dalla data dì entrata in esercizio della nuova struttura socio-sanitario-assistenziale, un canone concessorio annuo.
Di conseguenza, si evidenzia che il comune non subirebbe esborsi di denaro per la realizzazione del nuovo complesso scolastico, ma un'entrata ulteriore determinata dal canone riscosso per il diritto di superficie concesso.
Tanto premesso, il comune richiede chiarimenti sulla esperibilità della finanza di progetto, o di altra formula di partenariato pubblico–privato, e in particolare sulla compatibilità di tali operazioni con le vigenti disposizioni in materia di patto di stabilità interno nonché di indebitamento degli enti locali.
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A parere della Sezione, l’operazione descritta dal Comune non trova alcun ostacolo nella normativa finanziaria che limita l’acquisto di beni immobili.
E’ vero, infatti, che l’Ente locale acquista un’opera pubblica –e quindi un bene immobile– ma è altrettanto vero che l’articolo 1, comma 138, legge n. 228/2012 vieta l’acquisto di immobili a titolo oneroso e non la diversa ipotesi (in cui l’acquisto è mera conseguenza, differita nel tempo, dell’operazione) dell’appalto di lavori pubblici.
D’altra parte, lo stesso articolo 12 della legge n. 111/2011 (modificato dal citato comma 138), comma 1-ter, prevede che “a decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente": è chiaro ed evidente il riferimento giuridico alla fattispecie civilistica della compravendita (laddove le parti sono l’alienante e l’acquirente) e non a quella dell’appalto.
Alla luce di quanto esposto dal Comune,
può in astratto ritenersi che l’operazione come strutturata, e salva ogni considerazione afferente alla sua concreta realizzazione, non pare presentare elementi ostativi con riferimento alle vigenti normative in materia di finanza pubblica (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 24.06.2013 n. 248).

ENTI LOCALI: La Corte dei conti salva le società strumentali della Pa.
L'INTERPRETAZIONE/ La spending review chiede ai Comuni di privatizzare le aziende «interne» ma la magistratura contabile esclude le «in house».
Le società strumentali degli enti locali vanno alienate o sciolte entro la fine dell'anno, perché lo impone la spending review targata Mario Monti, ma la chiusura può essere evitata se l'azienda è in house.

Il principio è stato fissato dalla Corte dei conti della Liguria (parere 17.06.2013 n. 53 della sezione di controllo), ed è rivoluzionario: le società strumentali sono praticamente tutte in house, per cui il dilemma «privatizzazione o chiusura» non riguarderebbe quasi nessuno. La stessa spending review vieta alle strumentali di ricevere dall'anno prossimo affidamenti diretti? Non importa, a quanto pare.
Certo, la vicenda non è inedita, perché di leggi scritte con intenti "rivoluzionari" e poi svuotate dal lavorio interpretativo che ne accompagna la (non) applicazione è piena la Gazzetta Ufficiale: la storia delle società strumentali, però, è illuminante, perché fa risaltare l'eterno conflitto fra regole scritte male e la passione italiana per la deroga, la proroga (i termini delle gare per la privatizzazione sono appena stati rinviati di sei mesi) e l'eccezione che, lungi dal confermare la regola, finisce per ucciderla.
La norma sulle strumentali (articolo 4 del Dl 95/2012) in teoria sarebbe chiara: le società che sono «controllate» da una Pubblica amministrazione, e che ricavano dal rapporto con la Pa almeno il 90% del proprio fatturato, vanno privatizzate o chiuse e gli enti le devono sostituire ricercando i servizi sul mercato. Altrettanto chiaro il presupposto, giusto o sbagliato che fosse: le strumentali sono mediamente inefficienti, spesso nate per far crescere l'occupazione o dribblare il Patto di stabilità, per cui la loro privatizzazione farebbe risparmiare i conti pubblici. Tutto bene, fin qui, ma basta procedere per qualche riga e la questione si complica. Al comma 8 spunta infatti un'altra regola, che in pratica salva fino a fine 2014 gli affidamenti diretti non in linea con le regole Ue.
Questa seconda regola guarda ovviamente ai servizi pubblici locali, travolti dall'uno-due assestato dal referendum e dalla sentenza della Corte costituzionale che ne hanno azzerato l'ultima "riforma", ma il testo si guarda bene dallo specificarlo. Proprio qui si appigliano i magistrati liguri, rispondendo alla Provincia di Genova: «la norma speciale», che salva l'in house, «deroga alla norma generale», che chiede l'addio alle strumentali. Con tanti saluti a un'altra "riforma" (articolo Il Sole 24 Ore del 10.07.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Raccolta differenziata insufficiente.
I. Il Collegio non ritiene sussistente il danno di € 81.771,00, contestato dalla Procura quale danno all’ambiente conseguente alla maggiore quantità di rifiuti versati in discarica. Ciò che rileva ai fini della configurabilità oggettiva del danno ambientale è, dunque, l’incremento dell’inquinamento rispetto alle condizioni originarie, incremento che nel caso in esame non sembra essersi verificato, atteso che nella discarica, regolarmente autorizzata, sono stati versati rifiuti in quantità maggiore rispetto a quelli che si sarebbero prodotti con una raccolta differenziata effettuata nelle misure previste dalla legge, ma non maggiormente inquinanti rispetto a quelli che la stessa discarica, in base alle sue caratteristiche costruttive e operative, era destinata ad accogliere.
II. Il mancato rispetto delle predette disposizioni, con realizzazione della raccolta differenziata in misure significativamente inferiori a quelle previste dal citato art. 24 del decreto n. 22/97, ha comportato a carico del Comune il pagamento di oneri aggiuntivi per il conferimento in discarica del materiale che avrebbe dovuto essere destinato proficuamente alla raccolta differenziata ed ha, pertanto, arrecato al Comune di Recco un danno patrimoniale conseguente.
III. Di tale danno devono essere chiamati a rispondere, tenuto conto dell’apporto causale di ciascuno di essi, i sindaci e gli assessori pro tempore nella misura del 40% ciascuno (link a www.lexambiente.it - Corte dei Conti, Sez. Giur. Liguria, sentenza 27.05.2013 n. 83).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER IL RISPARMIO ENERGETICO (Agenzia delle Entrate, giugno 2013).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAArriva il DURC online: il documento di regolarità contributiva direttamente via Web!
E’ ufficiale, arriva il DURC online!
INPS, INAIL e Casse Edili hanno avviato il progetto che porterà in breve tempo al rilascio via web del Documento Unico di Regolarità Contributiva.
Si inizia il 22 luglio, quando sarà attivata una nuova procedura informatica che permetterà alle aziende di verificare la propria posizione contributiva, rilevare eventuali anomalie e procedere alla relativa regolarizzazione, anche versando online.
L’azienda può usufruire del nuovo servizio direttamente o attraverso il proprio consulente.
Ricordiamo che ad oggi la richiesta DURC si effettua online sul sito Sportello Unico Previdenziale, ma il documento viene poi spedito in forma cartacea all’azienda richiedente.
Una volta attivato il servizio, invece, il DURC sarà rilasciato immediatamente on-line.
In allegato a questo articolo proponiamo una guida completa al DURC a cura dell’INPS (11.07.2013 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATADetrazioni 65%, on-line il sito dell’Enea per la richiesta delle agevolazioni.
La procedura per il riconoscimento delle detrazioni fiscali per gli interventi di risparmio energetico sugli edifici esistenti implica precisi obblighi procedurali, tra cui la comunicazione di opportuna documentazione all’ENEA, che va inoltrata per via telematica.
L’ENEA ha pubblicato on-line il portale per la trasmissione della documentazione relativa agli interventi realizzati dopo l’entrata in vigore del D.L. 63/2013 che innalza la detrazione dal 55% al 65%.
La documentazione deve essere inoltrata per via telematica utilizzando, in base alla tempistica degli interventi, i seguenti portali:
http://finanziaria2013.enea.it (per interventi realizzati nel 2013 anche nell'ambito delle nuove disposizioni del Decreto Legge 04.06.2013, n. 63)
http://finanziaria2012.enea.it (per interventi realizzati nel 2012)
http://finanziaria2011.enea.it (per interventi realizzati nel 2011)
Al riguardo, ricordiamo ai lettori che il nuovo Praticus-ENERGIA (il software ACCA per la gestione delle pratiche di detrazione delle spese per la riqualificazione energetica) è già aggiornato al Decreto Legge 63/2013 e consente di gestire anche pratiche miste, con detrazione del 55% e del 65% (11.07.2013 - link a www.acca.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Dagli architetti i modelli di contratto per le prestazioni professionali.
Il Decreto Liberalizzazioni (D.L. 1/2012 convertito in Legge 27/2012 e s.m.i.) ha abrogato definitivamente le tariffe professionali regolamentate nel sistema ordinistico e ha previsto che il compenso per la prestazione debba essere:
pattuito al momento del conferimento dell’incarico
adeguato all’importanza dell’opera
adeguato alla prestazione da eseguire
Il professionista, quindi, è tenuto ad informare il cliente, attraverso un preventivo, su misura del compenso, grado di complessità dell’incarico, oneri e spese ipotizzabili e a specificare mediante un contratto la natura e la complessità della prestazione.
Per agevolare i progettisti nella redazione dei contratti, il Consiglio Nazionale degli Architetti ha pubblicato una raccolta di Contratti-tipo utili all’attività professionale.
Gli esempi proposti sono i seguenti:
contratto architetto collaboratore
contratto coworking
contratto architetto committente privato
contratto architetto committente privato collaudo
contratto architetto sola determinazione del compenso
contratto architetto domiciliazione
contratto RTP
contratto avvalimento
contratto rete (11.07.2013 - link a www.acca.it).

ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI: RECENTI NOVITA’ IN MATERIA DI PROTEZIONE CIVILE A CARICO DELLE AMMINISTRAZIONI COMUNALI - VADEMECUM SEMPLIFICATO (Regione Lombardia, marzo 2013).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Approvazione P.G.T. e misure di salvaguardia (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del suolo, risposta e-mail del 12.07.2013).

ENTI LOCALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Commissari senza oneri. Non si applicano gli obblighi di trasparenza. La ragione è che i funzionari prefettizi non sono organi elettivi.
Gli obblighi di trasparenza previsti dalla legge 07.12.2012, n. 213, valgono anche per i componenti delle commissioni straordinarie incaricate della gestione degli enti sciolti per fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso?

L'art. 3, comma 1, lettera a), della legge n. 213/2012, dispone che gli enti con popolazione superiore a 15 mila abitanti sono tenuti a disciplinare, nell'ambito della propria autonomia regolamentare, le modalità di pubblicità e trasparenza dello stato patrimoniale dei titolari di cariche pubbliche elettive e di governo.
Tale normativa sottopone gli enti locali alla disciplina sugli obblighi di trasparenza al sussistere di due condizioni: l'appartenenza ad una determinata dimensione demografica e la titolarità di cariche pubbliche elettive.
In base ai contenuti della circolare della presidenza del consiglio dei ministri del 30.01.2013 in tema di pubblicità della situazione patrimoniale dei titolari di cariche direttive di enti, istituti e società si ritiene, su conforme parere espresso dal dipartimento per le politiche del personale dell'amministrazione civile e per le risorse strumentali e finanziarie, che le disposizioni della più volte citata legge 213/2012 non trovino applicazione nei confronti dei componenti della commissione straordinaria incaricata dalla gestione dell'ente locale, atteso che gli stessi, in quanto funzionari dello stato, sono soggetti, in tema di trasparenza e cumulo di incarichi, alle norme dettate dall'art. 53 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (articolo ItaliaOggi del 12.07.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Incandidabilità del Sindaco.
È incandidabile un sindaco nei confronti del quale è stata emessa, dal Tribunale, una sentenza per abuso d'ufficio (art. 323 c.p.), cui ha fatto seguito la sentenza della Corte d'appello che ha dichiarato «non doversi procedere per intervenuta prescrizione»?

La normativa sull'incandidabilità alle cariche elettive negli enti locali e sulle ipotesi di sospensione e decadenza di diritto da dette cariche, già contenuta negli artt. 58 e 59 del Tuel, è ora confluita nel dlgs 31/12/2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell'art. 1, comma 63, della legge 06.11.2012, n. 190), in particolare agli artt. 10 e 11, con un ampliamento delle ipotesi delittuose contemplate rispetto al dettato precedente.
Il delitto di abuso d'ufficio (art. 323 c.p.) è ora elencato fra i reati di maggior allarme sociale, previsti nell'art. 10, comma 1, lettera b), del dlgs 31/12/2012, n. 235, per il quale la condanna definitiva comporta l'incandidabilità o la decadenza di diritto dalla carica ricoperta dalla data del passaggio in giudicato della sentenza di condanna (comma 7 del successivo art. 11).
Se, al momento dell'entrata in vigore della nuova normativa, la fattispecie sottoposta ad esame risultava definita con la citata sentenza della Corte d'appello che ha dichiarato «non doversi procedere per intervenuta prescrizione», non è dato rinvenire il presupposto giuridico della condanna definitiva che configurerebbe l'ipotesi decadenziale prevista dalle norme sopraccitate (articolo ItaliaOggi del 12.07.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Personale degli enti locali. Orario di lavoro.
La definizione dell'orario di lavoro rientra fra le competenze peculiari dei dirigenti/titolari di posizione organizzativa, ai sensi del d. lgs. 150/2009, riguardando l'organizzazione del lavoro.
L'Ente chiede un parere in ordine ad alcune problematiche concernenti l' orario di lavoro del personale dipendente. In particolare, pone le seguenti questioni:
- se la disciplina dell'orario di lavoro debba essere oggetto di un regolamento interno, approvato dalla Giunta;
- se sia corretto che la durata della pausa lavorativa sia unilateralmente fissata dal datore di lavoro in 75 minuti, oppure se un apposito regolamento debba stabilirne la durata, minima e massima, compatibilmente con le esigenze di servizio.
In via collaborativa, sentito il Servizio organizzazione e relazioni sindacali, e ferma restando l'autonoma valutazione dell'Ente in materia, si ritiene utile una disamina del quadro normativo in materia di orario di lavoro, che possa essere d'aiuto all'Ente nelle sue determinazioni.
Si premette che, ai sensi dell'art. 17, CCRL del 07.12.2006, compete all'Ente la determinazione dell'orario di lavoro nel rispetto dei criteri ivi previsti relativi all'ottimizzazione delle risorse umane, al miglioramento della qualità della prestazione, all'ampliamento della fruibilità dei servizi in favore dell'utenza, al miglioramento dei rapporti funzionali con altre strutture, servizi ed altre amministrazioni pubbliche, e tenendo conto dell'obbligo di accertare l'osservanza dell'orario di lavoro da parte del dipendente mediante controlli di tipo automatico.
Inoltre, come rilevato dall'ARAN
[1], che ha riportato un orientamento espresso dal Dipartimento della funzione pubblica, sulla scorta delle innovazioni apportate dal d.lgs. 150/2009, le materie concernenti l'orario di lavoro, allo stato attuale, afferiscono a prerogative dirigenziali (o delle posizioni organizzative), rientrando nell'organizzazione del lavoro. Relativamente alle predette materie non è, infatti, più possibile attivare la contrattazione e la concertazione con le organizzazioni sindacali, dovendosi comunque assolvere alle relazioni sindacali mediante la sola informazione.
Un tanto è avvalorato anche dal contenuto dell'art. 14, commi 47 e seguenti, della l.r. 22/2010, che ha profondamente modificato il sistema delle relazioni sindacali preesistente e disciplinato, nello specifico, dal CCRL del 01.08.2002.
L'art. 8 del citato contratto regionale identificava, infatti, l'articolazione dell'orario di lavoro come una delle materie per le quali i soggetti sindacali potevano, una volta ricevuta l'informazione preventiva di cui all'art. 7 del medesimo contratto, attivare la concertazione.
Attualmente, alla luce del contenuto delle disposizioni approvate con la l.r. 22/2010, potendosi ascrivere l'orario di lavoro alle competenze organizzative dell'amministrazione, si ritiene che il sistema delle relazioni sindacali da porre in essere, ai sensi di quanto previsto dall'art. 14, comma 48, della richiamata L.R. 22/2010, sia meramente quello dell'informazione.
Premesso un tanto, con riferimento ai soggetti e alle modalità di definizione dell'orario di lavoro, compete ai rispettivi responsabili, come individuati dal regolamento di organizzazione dei singoli enti, adottare le opportune determinazioni in merito, volte per l'appunto a stabilirne in dettaglio l'articolazione.
Si osserva inoltre che l'art. 8 del d.lgs. n. 66/2003
[2], prevede che, qualora l'orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore, il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa, le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e dell'eventuale consumazione del pasto, anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo.
Il successivo comma 2 prevede che, in difetto di disciplina collettiva, al riguardo, al lavoratore deve essere comunque concessa una pausa, anche sul posto di lavoro, tra l'inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro, di durata non inferiore a dieci minuti e la cui collocazione deve tener conto delle esigenza tecniche del processo lavorativo
[3].
Il Ministero del lavoro, nel rilevare che la durata e la modalità della pausa sono stabilite dalla contrattazione collettiva, ha precisato che, in mancanza di contrattazione collettiva che preveda una pausa per una finalità qualsiasi, anche ulteriore rispetto a quella prevista dal decreto, il lavoratore ha diritto ad un intervallo non inferiore a 10 minuti.
Nell'ambito del Comparto unico FVG, la contrattazione collettiva ha disciplinato la pausa per usufruire della mensa
[4] con la previsione di cui all'art. 17, comma 2, CCRL del 06.05.2008.
La norma contrattuale in parola, nel riscrivere il comma 2 dell'art. 67, CCRL 01.08.2002, ha previsto che 'hanno diritto alla mensa tutti i dipendenti, ivi compresi quelli che prestano la propria attività in posizione di comando, nei giorni di effettiva presenza al lavoro, qualora sia previsto un rientro in relazione all'articolazione dell'orario di lavoro. Il pasto va consumato al di fuori dell'orario di lavoro e la durata della pausa non può essere superiore a due ore e inferiore a trenta minuti...).
Come si può notare, la riportata clausola contrattuale non stabilisce, in via generale, per la pausa pranzo una durata definita e tassativa, ma pone dei limiti (minimi e massimi) di durata della medesima.
Pertanto, si ritiene che sia lasciata discrezionalità ai singoli enti nel determinare in via preventiva tale durata, in relazione alle concrete esigenze organizzative, secondo principi di efficienza, efficacia, correttezza e ragionevolezza, nel rispetto comunque dei trenta minuti minimi obbligatori di intervallo stabiliti per la pausa pranzo per le giornate in cui è previsto il rientro e tenuto conto dell'orario giornaliero d'obbligo.
In conclusione, come già evidenziato, compete ai dirigenti/responsabili determinare la durata dell'orario di lavoro, nonché della pausa lavorativa, non risultando necessaria l'adozione di una norma regolamentare da parte dell'organo politico, anche in relazione al principio di separazione dei poteri, secondo cui rientrano nell'esercizio delle funzioni dirigenziali le misure inerenti la gestione delle risorse umane, come pure la direzione e l'organizzazione del lavoro nell'ambito degli uffici
[5].
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[1] Cfr. RAL 1220 Orientamenti Applicativi, consultabile sul sito: www.aranagenzia.it.
[2] D.Lgs. 08.04.2003, n. 66, recante: 'Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro'.
Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha ribadito che la disciplina dell'orario di lavoro introdotta dal decreto legislativo si applica a tutti i settori di attività pubblici e privati, in relazione a rapporti di lavoro subordinato (si veda la circolare citata nella nota n. 3) .
[3] Si veda la circolare Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 8 del 03.03.2005.
[4] Cfr. parere prot. n. 0042756 del 19.12.2011, all'indirizzo: www.regione.fvg.it/COMPARTO UNICO E CONTRATTAZIONE/PARERI.
[5] Cfr. art. 5, comma 2, del d.lgs. 165/2001
(11.07.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

APPALTI: Determinazione a contrattare e di aggiudicazione provvisoria, possono essere assorbite in un unico atto?
Domanda
Nel caso di affidamento diretto per lavori di importo inferiore ad Euro 40.000,00 la determinazione a contrattare e la determinazione di aggiudicazione provvisoria possono essere omesse ed assorbite entrambe, dopo aver verificato preliminarmente i requisiti oggettivi e soggettivi e la capacità a contrattare dell'affidatario, dalla determinazione di affidamento?
Risposta
Al fine di rendere più chiaro il quesito di cui si chiede la risoluzione, è opportuno indicare cosa s'intende per determinazione a contrarre e cosa s'intende per determinazione di aggiudicazione provvisoria.
Sommariamente la determinazione a contrarre è l'atto, di spettanza dirigenziale, con il quale la stazione appaltante, P.A., manifesta la propria volontà di stipulare un contratto; invece la determinazione di aggiudicazione provvisoria è l'atto con il quale una gara di appalto viene aggiudicata provvisoriamente in capo a colui che risulta aggiudicatario, essendo però questa un atto necessario ma non definitivo atteso che l'individuazione definitiva del concorrente risulta cristallizzata soltanto con l'aggiudicazione definitiva (cfr. da ultimo Cons. Stato Sez. V, 13.10.2010, n. 7460).
L'art. 11, comma 2, del Codice degli Appalti espressamente prevede che "Prima dell'avvio delle procedure di affidamento dei contratti pubblici, le amministrazioni aggiudicatrici decretano o determinano di contrarre, in conformità ai propri ordinamenti, individuando gli elementi essenziali del contratto e i criteri di selezione degli operatori economici e delle offerte".
Inoltre, sulla questione occorre evidenziare come l'art. 125, comma 8, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, preveda espressamente : "... Per i lavori di importo inferiore a 40.000 euro è consentito l'affidamento diretto da parte del responsabile del procedimento".
Fatte tali doverose premesse, secondo parte della dottrina è possibile rispondere positivamente al quesito proposto.
E' preferibile ritenere che anche per il ricorso all'affidamento diretto ad un operatore per importi inferiori alla suddetta soglia debba comunque esservi la previa determinazione a contrarre in quanto l'art. 11, comma 2, Codice dei Contratti, è espressione di un principio generale applicabile anche alle procedure in economia.
Per i lavori in economia, l'art. 174 del Regolamento di esecuzione ed attuazione rimette in genere tale potere "autorizzatorio" direttamente al responsabile del procedimento.
Nel caso di specie, pertanto, può ritenersi che le determinazioni di cui sopra possono essere assorbite entrambe in un unico atto, in quanto come si evince dal comma 8 dell'art. 125 D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 responsabile dell'affidamento, per i lavori di importo inferiore a 40.000,00, sarà il responsabile del procedimento il quale è investito nella diretta responsabilità della stazione appaltante che è al medesimo tempo committente e parte del rapporto contrattuale: ciò emerge chiaramente dalla stessa lettera della norma dove viene disposto che "Per ogni acquisizione in economia le stazioni appaltanti operano attraverso un responsabile del procedimento ai sensi dell'art. 10".
Ad ulteriore conferma di quanto sopra, al fine di assicurare la massima semplificazione della procedura, lo stesso Legislatore ha previsto all'art. 334, comma 2, del Regolamento che "il contratto affidato mediante cottimo fiduciario è stipulato attraverso scrittura privata, che può anche consistere in apposito scambio di lettere con cui la stazione appaltante dispone l'ordinazione dei beni o dei servizi, che riporta i medesimi contenuti previsti dalla lettera di invito".
Resta inteso che, in ogni caso, dovrà procedersi alla verifica del possesso di requisiti di ordine generale (art. 38) in capo all'affidatario che dovrà dimostrare anche la sussistenza dei requisiti di capacità tecnica necessari per l'esecuzione dei lavori in questione (10.07.2013 - tratto da www.ipsoa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Monetizzazione festività soppresse.
Il Dipartimento della funzione pubblica ha precisato che il divieto di monetizzazione delle ferie e delle festività soppresse non opera solo in relazione a quelle vicende estintive del rapporto di lavoro dovute ad eventi del tutto indipendenti dalla volontà del lavoratore e dalla capacità organizzativa e di controllo del datore di lavoro (ad es. decesso, risoluzione per inidoneità permanente ed assoluta).
L'Ente ha chiesto di conoscere se sia possibile procedere alla monetizzazione di ferie e festività soppresse, maturate e non fruite negli anni 2010 e 2011, residue alla cessazione dal servizio di un dipendente, il cui rapporto è stato risolto nel 2013 a seguito di dichiarazione di inabilità permanente ed assoluta a qualsiasi attività lavorativa, assente peraltro continuativamente dal lavoro per infortunio (luglio 2010/marzo 2011) e poi per malattia da settembre 2011 a fine servizio.
Nel richiamare integralmente le osservazioni espresse in merito nel precedente parere reso dallo scrivente
[1] e citato dall'Amministrazione istante, si ritiene opportuno evidenziare le argomentazioni addotte in proposito dal Dipartimento della funzione pubblica [2].
Il predetto Dipartimento ha, infatti, ritenuto che il divieto di monetizzazione imposto dall'art. 5, comma 8, del d.l. 95/2012, convertito in l. 135/2012, non operi solo in relazione a quelle vicende estintive del rapporto di lavoro dovute ad eventi del tutto indipendenti dalla volontà del lavoratore e dalla capacità organizzativa e di controllo del datore di lavoro.
In questi casi -si è precisato- l'impossibilità di fruire delle ferie non è imputabile o comunque riconducibile al dipendente. Si tratta, ad esempio, delle ipotesi in cui il rapporto di lavoro si conclude in modo anomalo e non prevedibile in alcun modo (decesso, risoluzione per inidoneità permanente ed assoluta), oppure quelle caratterizzate dalla circostanza che il dipendente non ha, comunque, potuto fruire delle ferie maturate a causa di assenza dal servizio antecedente la cessazione del rapporto di lavoro (malattia, congedo di maternità, aspettative a vario titolo). Si tratta, quindi, di situazioni che, proprio per i loro contenuti specifici, non sono considerate rispondenti alla previsione di cui all'art. 5, comma 8, del d.l. 95/2012, convertito in l. 135/2012 e, pertanto, vengono escluse dal suo ambito di applicazione.
Il citato Dipartimento, nell'esaminare le ipotesi in cui la mancata fruizione sia determinata in occasione di cessazioni dal servizio conseguenti a periodi di malattia ovvero a dispensa dal servizio per inidoneità assoluta e permanente o a decesso del dipendente, ha osservato che le predette cessazioni del rapporto di lavoro configurano vicende estintive 'dovute ad eventi indipendenti dalla volontà del lavoratore e dalla capacità organizzativa del datore di lavoro. In base al sopra descritto ragionamento non sembrerebbe, pertanto, rispondente alla ratio del divieto previsto dall'articolo 5, comma 8, del D.L. n. 95 del 2012 includervi tali casi di cessazione, poiché ciò comporterebbe una preclusione ingiustificata e irragionevole per il lavoratore il cui diritto alle ferie maturate e non godute per ragioni di salute, ancorché già in precedenza rinviate per ragioni di servizio, resta integro'.
Si è -in tale sede- richiamata anche giurisprudenza comunitaria che ha ribadito che le disposizioni nazionali non possono prevedere che, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, non sia dovuta alcuna indennità finanziaria sostitutiva delle ferie annuali retribuite non godute dal lavoratore che sia stato in congedo per malattia
[3]. Anche la giurisprudenza italiana ha espresso un orientamento favorevole alla monetizzazione delle ferie in caso di malattia [4].
Si fa presente che l'ARAN
[5] ha rappresentato inoltre che le indicazioni fornite dal Dipartimento della funzione pubblica sono applicabili anche alle quattro giornate di riposo per festività soppresse, di cui alla l. 937/1977.
Ad ogni buon conto considerato che, in relazione ai periodi temporali riferiti dall'Amministrazione, risulta che il dipendente interessato sia stato comunque in servizio da marzo a settembre del 2011, ai fini della legittima monetizzazione, deve emergere da atti formali che, in detto periodo, sia stata inoltrata richiesta di fruizione delle ferie e festività soppresse, negate dall'Ente per motivi di servizio.
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[1] Cfr. n. prot. 19548 del 25.06.2013.
[2] Cfr. nota n. 40033 dell'08.10.2012.
[3] Cfr. Corte di giustizia, Grande sez., sent. 20.01.2009, n. 350/2006, sent. 20.01.2009, n. 520/2006.
[4] Cfr. Cass., 09.07.2012, n. 11462.
[5] Cfr. Il divieto di monetizzazione delle ferie, in: www.aranagenzia.it/araninforma/index.php/dicembre-2012
(10.07.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Compatibilità attività extralavorativa.
L'art. 1, comma 56, della l. 662/1996 consente, ai pubblici dipendenti, l'esercizio della libera professione o di attività libero professionali, a condizione che il lavoratore sia titolare di un rapporto a tempo parziale non superiore al 50 per cento.
L'Ente ha chiesto un parere in ordine alla compatibilità tra un rapporto di pubblico dipendente a tempo indeterminato e pieno e lo svolgimento dell'attività di 'guida turistica', che si concretizza nell'esercizio di una vera e propria professione, comportando l'iscrizione all'albo/elenco disciplinato dall'art. 113 della L.R. 2/2002. Si precisa inoltre che la suddetta attività consisterebbe nell'effettuazione di alcune (non quantificate) visite guidate nei fine settimana o nelle giornate festive, a fronte di un compenso professionale.
Preliminarmente, si osserva che esula dalle competenze dello scrivente Servizio fornire valutazioni in concreto su specifiche questioni sottoposte dagli enti, avendo questa struttura come finalità la prestazione di attività di consulenza consistente nell'indicazione del quadro normativo, giurisprudenziale e dottrinale, in base al quale l'amministrazione locale possa assumere le determinazioni rientranti nella propria autonomia decisionale.
Pertanto, si rimettono alla valutazione di codesto Comune le considerazioni che seguono, come utile contributo da cui, in base agli elementi di fatto posseduti ed in relazione alla concreta situazione, l'Ente potrà trarre le debite conclusioni.
Si ritiene doveroso illustrare preventivamente i principi generali e le regole specifiche che disciplinano il regime dell'incompatibilità per i pubblici dipendenti.
Per i pubblici dipendenti con rapporto di lavoro a tempo pieno o a tempo parziale superiore al 50 % di quello a tempo pieno, vige il principio dell'incompatibilità con altre prestazioni lavorative. Il Dipartimento della funzione pubblica
[1] ha rimarcato come 'il legislatore costituzionale abbia posto, fra i diversi principi a tutela dell'interesse pubblico, che deve essere costantemente perseguito dalla pubblica amministrazione, quello del dovere di esclusività delle prestazioni dei propri dipendenti, nel senso dell'inconciliabilità tra l'impiego presso l'amministrazione pubblica ed il contestuale svolgimento di altre attività lavorative' [2].
Il principio generale in materia di incompatibilità e di cumulo di incarichi ed impieghi è espresso dall'art. 60 del d.p.r. 3/1957, secondo il quale 'l'impiegato non può esercitare il commercio, l'industria né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato
[3] e sia all'uopo intervenuta l'autorizzazione del Ministro competente'.
Detta norma è richiamata espressamente dall'art. 53, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001, che recita testualmente: 'Resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10.01.1957, n. 3'.
A prescindere dalla connotazione delle attività indicate come incompatibili dall'art. 60 del d.p.r. 3/1957, l'incompatibilità sussiste quando l'attività collaterale è caratterizzata da elementi qualificanti di natura quantitativa quali la protrazione nel tempo, il grado di complessità, la non episodicità, la stabilità, la ripetitività e la professionalità richiesta per lo svolgimento.
In particolare, per quanto concerne l'esercizio della libera professione o, più generalmente, di attività libero professionali, si richiama quanto disposto dall'art. 1, comma 56, della l. 662/1996, che lo consente a condizione che il pubblico dipendente sia titolare di un rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno.
La Corte costituzionale ha rimarcato il principio generale secondo il quale l'esercizio di attività professionali per le quali è prescritta l'iscrizione all'albo è consentita ai soli dipendenti pubblici a part-time ridotto entro il 50%
[4].
Anche la circolare del Dipartimento della funzione pubblica n. 3 del 1997
[5] precisa che le attività extraistituzionali sono da considerarsi incompatibili quando: 1) oltrepassano i limiti della saltuarietà ed occasionalità; 2) si riferiscono allo svolgimento di libere professioni.

In sostanza, le norme vigenti non consentono al pubblico dipendente di svolgere la libera professione (anche nel caso in cui difetti un conflitto di interessi in senso stretto) o di avere la titolarità di una qualsiasi attività autonoma, se non in regime di rapporto a part-time, non superiore al 50%
[6].
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[1] Si veda il parere 15.12.2005, n. 220.
[2] Cfr. art. 98, comma 1, della Costituzione, secondo cui i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione.
[3] La regola è valida in riferimento alle nomine effettuate dalle singole amministrazioni locali.
[4] Cfr. sentenze n. 390 del 2006 e n. 166 del 2012, in cui si esamina la particolare questione relativa all'attività forense.
[5] Cfr. punto 6.
[6] Cfr. pareri ANCI del 24.07.2007, del 09.08.2007 e del 05.10.2008
(09.07.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

NEWS

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa p.a. diventa una casa di vetro. Manager ruotati. Niente lavoro nel privato per tre anni. Il ministro D'Alia ha firmato il piano anticorruzione che ora dovrà essere varato dalla Civit.
Rotazione dei dirigenti che operano nelle aree a rischio corruzione. Obbligo di astensione in caso di conflitto di interessi. Giro di vite sulle incompatibilità. Tutela dei dipendenti che segnalano illeciti e casi sospetti di malaffare nella p.a. La strategia anticorruzione degli enti pubblici e delle amministrazioni locali non farà sconti a nessuno.
Arrivando persino a vietare ai dipendenti, che hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali, di lavorare presso i privati (destinatari della loro attività) nei tre anni successivi alla fine del rapporto di lavoro con la p.a..

L'operazione pulizia nella pubblica amministrazione prevista dalla legge n. 190/2012 entra nel vivo grazie alla firma da parte del ministro della funzione pubblica Gianpiero D'Alia della proposta di Piano nazionale anticorruzione.
Il piano, come prevede la legge, è stato trasmesso alla Civit (la Commissione indipendente per la valutazione e l'integrità delle amministrazioni pubbliche a cui la legge 190/2012 assegna il ruolo di Autorità nazionale anticorruzione) che ora dovrà approvarlo. Si tratta di precetti immediatamente operativi salvo che per le regioni, gli enti locali e gli enti del Servizio sanitario nazionale che dovranno prima aspettare il via libera della Conferenza unificata.
Il Piano opererà su due livelli. Uno nazionale, di competenza di palazzo Vidoni a cui spetterà la definizione degli obiettivi strategici e delle azioni di prevenzione (seminari, tutela dei whistleblowers, ossia i dipendenti che segnalano illeciti, sondaggi a campione tra i dipendenti sulla percezione del rischio corruzione). E l'altro a livello locale che si tradurrà nella predisposizione da parte di ciascun ente del Piano triennale di prevenzione della corruzione (Ptpc). Il Ptpc dovrà essere elaborato dal responsabile della prevenzione della corruzione che negli enti locali è individuato nel segretario, salva diversa decisione da parte del sindaco. La mancata predisposizione del Ptpc farà scattare la responsabilità dirigenziale a carico del segretario. Questi risponderà tutte le volte in cui all'interno dell'amministrazione si verifichi un reato di corruzione accertato con sentenza definitiva, a meno che non dimostri di aver osservato tutte le prescrizioni di legge.
Come detto, la strategia di prevenzione a livello decentrato sarà molto restrittiva. Il conferimento di incarichi dirigenziali dovrà essere passato al setaccio per individuare eventuali cause ostative o incompatibilità con cariche in enti di diritto privato. E per garantire il più possibile l'indipendenza e imparzialità dei dirigenti pubblici, si fa divieto di lavorare per tre anni con soggetti privati che siano stati destinatari della loro attività quando lavoravano nella pubblica amministrazione.
Grande importanza andrà data alla trasparenza. I siti web istituzionali delle amministrazioni dovranno essere uno specchio fedele della realtà. E si dovrà assicurare una capillare attuazione al codice di comportamento dei dipendenti pubblici, recentemente entrato in vigore con la pubblicazione in Gazzetta (si veda ItaliaOggi del 05/06/2013), che introduce una sorta di galateo per i dipendenti pubblici. Gli statali non potranno accettare regali (tranne quelli di modico valore), non potranno accettare collaborazioni dai privati e dovranno segnalare la partecipazione ad associazioni o, per i dirigenti, il possesso di partecipazioni azionarie.
Spazio anche alla formazione che opererà anche questa su un duplice livello. Il primo, più generale, rivolto a tutti i dipendenti sui temi dell'etica e dell'integrità. E il secondo a livello specifico rivolto ai responsabili della prevenzione e ai dirigenti e funzionari delle aree a rischio.
Quanto fatto dagli enti a livello locale sul fronte della prevenzione della corruzione dovrà essere comunicato alla Funzione pubblica utilizzando modelli standardizzati secondo istruzioni che saranno pubblicate sul sito di palazzo Vidoni (www.funzionepubblica.it). Il ministero elaborerà i dati ricevuti dalle p.a. e realizzerà un report riepilogativo per ciascuna tipologia di enti (amministrazioni centrali, regioni, enti locali, partecipate) (articolo ItaliaOggi del 13.07.2013).

ENTI LOCALI - ATTI AMMINISTRATIVIAccesso. Le istruzioni di Palazzo Chigi. Banche dati gratuite alle strutture della Pa.
IL PARERE/ Le amministrazioni posso fruire senza oneri dei database per lo svolgimento dei compiti istituzionali.

La Presidenza del Consiglio dei Ministri con parere 24.06.2013 reso al Comune di Ferrara chiarisce il diritto di accesso gratuito alle banche dati per lo svolgimento di compiti istituzionali e di controllo delle dichiarazioni sostitutive e delle certificazioni.
Il Comune di Ferrara, in particolare, ha chiesto chiarimenti in merito alla gratuità dell'accesso alle banche dati/informazioni detenute dal Pra, Camera di Commercio e Motorizzazione civile e la risposta è stata positiva.
Nel parere si ricorda che la sussistenza del diritto all'acquisizione, senza oneri, era già esercitabile dal 09.12.2000, in virtù dell'articolo 25 della legge 340/2000, ribadito dall'articolo 43 del Dpr 445/2000 e dagli articoli 50 e 58 del Codice dell'amministrazione digitale (Dlgs 82/2005). Nello specifico, l'articolo 50 prevede che qualunque dato trattato da una Pa, nel rispetto della normativa sulla privacy, è reso accessibile e fruibile alle amministrazioni richiedenti per lo svolgimento dei propri compiti istituzionali, mentre l'articolo 58 definisce le modalità di accesso e fruizione dei dati stabilendo l'obbligo per tutte le amministrazioni titolari di banche dati accessibili per via telematica di predisporre apposite convenzioni volte a disciplinare le modalità di accesso ai dati da parte delle amministrazioni procedenti, senza oneri a loro carico.
Il principio della gratuità viene meno solo nel caso in venga chiesta una qualsiasi elaborazione aggiuntiva, intesa come attività ulteriore volta all'aggregazione o allo sviluppo dei dati, la quale è soggetta al pagamento del relativo costo. Come recentemente precisato nel parere del 31.01.2013 reso dalla Corte dei Conti, sezione regionale di controllo dell'Emilia Romagna (si veda Il Sole 24 Ore del 25.03.2013) si deve trattare però di costi eccezionali direttamente collegabili alla peculiare natura del servizio richiesto dall'amministrazione procedente.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri, in virtù delle norme richiamate, conferma sussistere in capo alla Polizia municipale, la possibilità di accedere e consultare immediatamente e senza oneri le banche dati del Pubblico registro automobilistico e/o della Motorizzazione civile, "non risultando norme speciali che prevedono l'accesso a titolo oneroso alle predette banche dati da parte delle pubbliche amministrazioni richiedenti".
Infine, se l'amministrazione titolare della banca dati non ha ancora predisposto la convenzione per l'accesso gratuito, la Presidenza del Consiglio dei Ministri precisa che l'unico rimedio che, allo stato, appare percorribile è quello in base al quale l'amministrazione che intende effettuare l'acquisizione dei dati segnali la questione al Presidente del Consiglio dei Ministri affinché quest'ultimo fissi un termine entro il quale l'amministrazione titolare della banca dati provveda a predisporre la convenzione, e, in caso di inutile decorrenza del termine, nomini un commissario ad acta (articolo Il Sole 24 Ore del 13.07.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Da oggi incentivi ambientali ai distributori di carburanti.
Da oggi i titolari dei distributori di carburante che cessano la propria attività possono presentare domanda per ricevere un contributo pari al 60% delle spese sostenute per il ripristino ambientale (per un massimo di 70.000 euro a impianto). Le attività oggetto di contributo vanno dalla bonifica dei serbatoi e delle linee interrate, allo smaltimento e recupero dei rifiuti prodotti, dallo smaltimento dei rifiuti liquidi alla messa in sicurezza operativa.

Questo è quanto prevede il decreto 19.04.2013 del ministero dello sviluppo economico pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 12.06.2013 n. 136.
La domanda di contributo, redatta secondo il modello di cui all'allegato I del dm 19.04.2013 può essere presentata dal 12 luglio al ministero dello sviluppo economico, dipartimento per l'energia, direzione generale per la sicurezza dell'approvvigionamento e le infrastrutture energetiche, unitamente a: copia del decreto di autorizzazione o concessione relative all'impianto per il quale viene richiesto il contributo, copia del prospetto riepilogativo della movimentazione dei prodotti petroliferi del registro di carico e scarico relativo all'impianto medesimo relativa all'ultimo anno di attività fino alla data di chiusura alle vendite o, qualora non disponibile, documentazione fiscale relativa all'ultimo rifornimento effettuato all'impianto, in attesa dell'acquisizione da parte del ministero del suddetto prospetto e ordinativo lavori di ripristino dei luoghi con relativo preventivo e indicazione della data inizio lavori.
L'ordine di presentazione delle domande è determinato in base al timbro dell'ufficio postale di partenza nel caso di invio a mezzo posta e in base alla protocollazione in arrivo nel caso di consegna a mano. Le domande sono esaminate secondo l'ordine di presentazione e ove complete di tutta la documentazione prevista. Nel caso di consegna a mano, si invita a corredare la domanda con una fotocopia della domanda stessa, che sarà restituita all'interessato, con apposto il timbro con la data di ricevimento.
L'obiettivo di questo decreto è ridurre sensibilmente il numero di distributori in Italia, dove la rete conta 23.100 punti vendita attività superando di gran lunga la media di tutti gli altri paesi europei (articolo ItaliaOggi del 12.07.2013).

APPALTI: Appalti unificati. Centrale unica per i piccoli comuni. La Consulta ammette l'errore. La norma resta.
I piccoli comuni non sfuggono all'obbligo di costituire le centrali uniche di committenza per gli appalti. Entro fine anno gli enti fino a 5.000 abitanti dovranno individuare una stazione unica appaltante per l'acquisizione di lavori, servizi e forniture nell'ambito delle unioni di comuni esistenti o stipulando tra loro appositi accordi di tipo consortile.
È giunto a soluzione il piccolo giallo, scoperto da ItaliaOggi (si veda il giornale di ieri) sulla presunta abrogazione dell'art. 23, comma 4, del decreto Salva Italia (dl n. 201/2011) a opera della sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato la riforma delle province.
Non c'è stata nessuna dichiarazione di illegittimità della norma, ma si è trattato semplicemente di un errore materiale di redazione del comunicato che mercoledì scorso ha dato notizia del dispositivo (non ancora depositata) emanato dalla Corte. La certezza sul fatto che si sia trattato di un errore si avrà all'inizio della prossima settimana quando è atteso il deposito delle motivazioni della sentenza che, stando ad alcune indiscrezioni, potrebbe arrivare già lunedì.
La precisazione è arrivata a ItaliaOggi direttamente da palazzo della Consulta e restituisce certezza agli operatori dei piccoli comuni che in questi giorni non sapevano più che pesci prendere. Le centrali uniche di committenza, quindi, andranno costituite. E sul territorio gli enti iniziano già ad organizzarsi.
A Treviso, per esempio, Anci e Upi Veneto hanno sottoscritto una convenzione per la promozione di centrali uniche di committenza. Peccato però che i soggetti deputati a svolgere i nuovi compiti siano stati individuati proprio nelle province che dovrebbero invece essere cancellate. «Si tratta di un servizio gratuito per assicurare anche in tempi economici difficili trasparenza, regolarità ed economicità nella gestione dei contratti pubblici. Mettiamo a disposizione dei piccoli comuni le professionalità e le competenze delle province, perché possano far fronte alle necessità del territorio e per ottimizzare le risorse economiche e umane interessate», ha dichiarato il presidente dell'Upi Veneto e della provincia di Treviso, Leonardo Muraro (articolo ItaliaOggi del 12.07.2013).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAIl ministro. «Gli ecobonus saranno strutturali». Lupi: una vergogna l'Imu sull'invenduto. Appalti, torna l'anticipo.
ANTONIO TAJANI/ «La direttiva che impone alle Pa pagamenti in 30 giorni va applicata senza indugi altrimenti proporrò una procedura d'infrazione».

Una «bad practice» da insegnare nelle università delle vessazioni fiscali. Di più: una «vergogna». Di fronte alla platea di imprenditori infiammata dalle parole piuttosto dirette del presidente dell'Ance, che aveva parlato poco prima, il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi, sceglie di non usare giri di parole, affrontando l'argomento più caldo per un costruttore: la cancellazione dell'Imu sull'invenduto. Il ministro sa che non è più tempo di annunci a vuoto e che il «fattore tempo è fondamentale» per rispondere alle attese di un settore «che ha pagato il conto più salato alla crisi economica».
Sull'Imu arrivano allora tre precisazioni. Entro il 30 agosto «quella sulla prima casa va cambiata e superata senza pregiudizi ideologici». Stessa posizione sull'imposta che grava sulle case invendute: il “magazzino” dei costruttori, che secondo gli ultimi calcoli effettuati dal Cresme includerebbe perlomeno 400mila abitazioni in tutta Italia.
«Il nostro Paese -dice Lupi- è l'unico al mondo in cui esiste un'imposta su un prodotto che non ha trovato sbocco sul mercato», aprendo la strada anche al riutilizzo degli immobili in un piano di housing sociale. Apertura anche sull'Imu pagata per i beni strumentali delle imprese: all'orizzonte non c'è la cancellazione. Ma, chiarisce Lupi, «non è pensabile che un imprenditore paghi 12 volte le tasse: l'Imu sui capannoni va inserita in bilancio e considerata come un costo».
Suonano come balsamo sulle piaghe aperte dalla crisi nei cantieri italiani anche le altre promesse del ministro ai costruttori che affollano il Palazzo dei Congressi di Roma. La prima riguarda la stabilizzazione degli incentivi fiscali per la riqualificazione degli immobili. «Ecobonus del 65% e sconti del 50% sulle ristrutturazioni dal primo gennaio 2014 dovranno diventare strutturali -annuncia il ministro-. Ci metto la faccia: e mi giudicherete dai fatti». Quanto agli investimenti in infrastrutture Lupi ricorda i 2 miliardi di «pronta cassa» sbloccati con il «decreto del fare». Risorse «capaci di assicurare una spesa reale di 50 milioni al mese».
Non lontana, è la sottolineatura, «dai 78 milioni di “tiraggio” garantita dalla spesa in opere pubbliche nel 2004», periodo pre-crisi. E per ovviare al credit crunch che strangola il settore arriva la proposta-choc: il ritorno della vecchia anticipazione sui lavori pubblici, abolita dalla riforma della legislazione sugli appalti varata in epoca post-Tangentopoli. «C'è un problema di liquidità delle imprese che va risolto già nella fase di conversione del decreto del fare». Chi vince un appalto, è la soluzione proposta, «deve ottenere un anticipo» sui lavori. Quanto? «Per me l'ottimo sarebbe il 20% -dice Lupi- ma se fosse anche il 15% o il 10% andrebbe comunque bene: in questa fase la cosa più importante è ribadire il principio, l'attenzione alla soluzione dei problemi».
Il tema dei pagamenti alle imprese è anche al centro dell'intervento di Antonio Tajani, vice presidente della Commissione europea.
«La direttiva che impone pagamenti in 30 giorni per lavori e forniture della Pa -dice Tajani- va applicata senza compromessi. Prima della pausa estiva convocherò i rappresentanti dell'Ance e della Confartigianato e se, come pare, si scoprirà che il recepimento non è confacente alle attese, sarò costretto a proporre una procedura di infrazione con costi notevoli per lo Stato» (articolo Il Sole 24 Ore del 12.07.2013).

APPALTIDecreto del fare. Possibile l'allargamento a tutti gli obblighi fiscali.
Appalti e responsabilità solidale: rispunta la cancellazione piena.
La solidarietà fiscale nell'ambito degli appalti potrebbe essere integralmente abrogata.

Questo è quanto prevede l'emendamento alla legge di conversione del decreto del fare presentato da Enrico Zanetti, deputato di Scelta Civica, e incluso tra le proposte di modifica accolte dalla Commissione Finanze della Camera e inviata ora alle Commissioni referenti (Bilancio e Affari costituzionali).
Inizialmente il decreto del fare, in effetti, prevedeva l'abolizione delle responsabilità solidali per Iva e ritenute alla fonte che obbligano le imprese a controlli onerosi e complicano le procedure di pagamento dei corrispettivi. Successivamente, però, nella versione finale del provvedimento, è stata cancellata solo la responsabilità solidale per l'Iva.
Alla riunione di ieri era presente anche il viceministro dell'Economia, Luigi Casero, che si è impegnato su questo punto a tenere conto del parere votato dalla Commissione Finanze. «È una bella notizia per tutte le imprese e per tutte le persone di buon senso –ha sottolineato, Zanetti-. Il decreto del fare aveva fatto un primo passo nella giusta direzione, ma era insufficiente perché abrogava solo per l'Iva e manteneva in piedi la disciplina per le ritenute alla fonte. Ora speriamo che questa disciplina, già abrogata una prima volta nel 2007, non risorga mai più e si smetta di intralciare chi cerca di lavorare e produrre con disposizioni figlie di una mentalità burocratica completamente slegata dalla realtà».
In commissione sono stati presentati anche altri emendamenti di semplificazione da Zanetti, su cui si conoscerà nei prossimi giorni il parere favorevole o meno di Commissione e Governo prima dell'approdo in Aula, dalla semplificazione dei modelli Intrastat alla trasformazione in adempimento annuale della comunicazione telematica delle dichiarazioni d'intento ricevute dai fornitori degli esportatori abituali, dalla semplificazione della comunicazione telematica delle operazioni con paesi black list all'abrogazione della comunicazione telematica dei beni di impresa concessi in uso a soci e familiari (articolo Il Sole 24 Ore del 12.07.2013).

APPALTI: Appalti, la p.a. non è solidale. Il lavoratore senza salario non può agire contro l'ente. Nel decreto legge sul lavoro l'interpretazione autentica del dlgs n. 276 del 2003.
La solidarietà per il pagamento degli stipendi ai dipendenti dell'appaltatore non si applica alle pubbliche amministrazioni. Il lavoratore, rimasto senza salario, non può invocare la legge Biagi (dlgs 276/2003) per agire contro la p.a., chiedendone la condanna, insieme al suo datore di lavoro, al pagamento delle retribuzioni.

Il decreto legge sul lavoro, 76/2013, all'articolo 9, con una disposizione di interpretazione autentica prevede, infatti, che le disposizioni di cui all'articolo 29, comma 2, del dlgs 276/2003 (legge Biagi) non trovano applicazione in relazione ai contratti di appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni. La norma si applica anche ai processi in corso.
L'articolo 2 citato dispone che in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, e anche con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto.
Stando all'ultima versione della norma il committente imprenditore o datore di lavoro deve essere citato in giudizio per il pagamento unitamente all'appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori. Il committente imprenditore o datore di lavoro può chiedere di pagare solo dopo che il lavoratore ha tentato l'esecuzione contro il suo datore di lavoro (beneficio della preventiva escussione).
In tal caso il giudice accerta la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l'azione esecutiva può essere intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo l'infruttuosa escussione del patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali subappaltatori. Il committente che ha eseguito il pagamento potrà rivalersi sul coobligato.
Nei tribunali si discute se questa disposizione si applica anche agli appalti pubblici e, cioè, quando il committente è una pubblica amministrazione: ci si chiede, quindi, se il dipendente dell'appaltatore può chiedere un decreto ingiuntivo contro la stazione appaltante pubblica o, comunque, fare causa all'ente pubblico per ottenere gli stipendi e i tfr non pagati.
A favore della tesi favorevole sta un ragionamento, che fa perno sulla finalità di tutela del lavoratore, finalità da perseguire anche quando il committente è un ente pubblico (altrimenti ci sarebbe discriminazione tra i lavoratori).
Va detto che la tesi favorevole prevale nelle sentenze di primo grado, mente ci sono pronunce di appello di diversa opinione.
A favore della tesi contraria, che esclude le p.a. dall'articolo 29 della legge Biagi, ci sono considerazioni che riguardano la portata letterale della norma: l'articolo 29 non fa riferimento agli appalti pubblici; l'articolo 29 fa riferimento a committenti-imprese e tali non sono le pubbliche amministrazioni; poi l'articolo 2 della legge Biagi sembra escludere le p.a. dall'ambito di applicazione. Si sostiene ancora che una spia dell'inapplicabilità alle p.a. è lo stesso articolo 29 nella parte in cui prevede l'assunzione dei lavoratori danneggiati presso il committente, norma, questa, incompatibile con le modalità di reclutamento dei dipendenti pubblici.
Inoltre bisogna considerare che nel momento attuale di crisi, in caso di inadempimento contributivo dell'imprenditore, molto spesso la stazione appaltante pubblica non può pagare l'imprenditore, dovendo invece, in caso di Durc negativo, corrispondere le somme dovute direttamente all'ente previdenziale: si trova esposta, magari senza avere avuto la realizzazione dell'opera pubblica, sia con i lavoratori, sia con gli enti previdenziali e assicurativi.
Infine il regolamento del codice dei contratti pubblici (dpr 207/2010) contiene norme specifiche per l'ipotesi di mancato pagamento dei salari: l'ente pubblico può pagare direttamente i lavoratori, ma solo nel limite di quanto eventualmente dovuto all'impresa appaltatrice. Si tratta di una norma speciale, che esclude già oggi, secondo alcuni, l'applicazione della legge Biagi negli appalti pubblici.
Non a caso il decreto legge 76/2013 si autodefinisce, nella relazione di accompagnamento, quale norma di interpretazione autentica: questo significa, quindi, che si applica anche alle controversie in corso (articolo ItaliaOggi dell'11.07.2013).

APPALTI SERVIZI: CONTRATTI PUBBLICI/ L'ok dell'Authority. Bandi tipo al via. Si parte con pulizie e polizze.
L'Autorità avvia i lavori per i bandi-tipo dando priorità ai servizi di pulizia e manutenzione degli immobili, ai servizi assicurativi e a quelli di ingegneria e architettura, da luglio a gennaio 2014; esclusi dai bandi-tipo i servizi di gestione dei rifiuti e quelli sanitari.

È quanto ha deciso l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici con il documento pubblicato l'08.07.2013 che conclude la consultazione avviata il 19.03.2013 sui bandi tipo per l'affidamento dei contratti pubblici di servizi e forniture.
L'indagine era stata utilizzata per comprendere in quali ambiti merceologici vi fossero maggiori criticità e per capire l'impatto economico sul mercato dei contratti di ogni settore. Inizialmente erano stati individuati i settore delle forniture in ambito sanitario (prodotti farmaceutici, apparecchiature medicali, dispositivi medici e materiale di consumo specialistico), i servizi di gestione degli immobili (servizi di pulizia e di manutenzione, i servizi energetici, i servizi integrati del facility management e del global service), i servizi di illuminazione pubblica, la gestione del ciclo dei rifiuti, i servizi assicurativi e i servizi di ingegneria ed architettura.
A seguito della consultazione l'Autorità ha però rilevato profonde differenze fra i diversi settori e quindi ha ritenuto efficace l'intervento di regolazione attraverso bandi-tipo soltanto in alcuni ambiti. In particolare sono stati esclusi i settori della gestione del ciclo dei rifiuti e dell'illuminazione pubblica, data «la complessità degli stessi, legata, soprattutto, al mutevole quadro normativo, alle competenze legislative di livello locale e alle varie articolazioni dei servizi, e la natura delle criticità riscontrate (talune delle quali non risolvibili attraverso la predisposizione di documentazione di gara standard)».
L'Autorità ha anche ritenuto non opportuno intervenire nei servizi del settore sanitario in quanto l'elaborazione di documentazione di gara standard è resa complessa dall'eterogeneità delle forniture, dai diversi schemi contrattuali utilizzati (semplice fornitura, noleggio, gestione dei servizi in modalità «full risk» ecc.), dall'esistenza di forme di centralizzazione degli acquisti. Per questi ambiti l'Autorità si è riservata di valutare altre «forme di intervento regolatorio più opportune» (articolo ItaliaOggi dell'11.07.2013).

APPALTI: Mini-enti, caos appalti. Giallo sulla centrale unica di committenza. L'obbligo sembrerebbe essere stato cancellato dalla Consulta.
A rischio l'obbligo di costituire, entro fine anno, centrali uniche di committenza per gli appalti nei piccoli comuni. La norma del decreto «salva Italia» (art. 23, comma 4 del dl 201/2011) potrebbe infatti essere stata spazzata via dalla Consulta nella sentenza che ha bocciato la riforma delle province.

Il condizionale è d'obbligo perché finora si conosce solo il dispositivo della decisione e non le motivazioni che verranno probabilmente depositate tra il 16 e il 17 luglio.
Nel comunicato diffuso dalla Corte costituzionale per anticipare i contenuti della sentenza, in effetti, si legge che, fra le disposizioni censurate da tale pronuncia, rientra anche l'art. 23, comma 4, del decreto «salva Italia» (dl 201/2011).
Ma secondo alcuni potrebbe trattarsi di un errore materiale, giacché tale previsione sembra essere piuttosto avulsa dalle altre esaminate dalla Corte. Peraltro, la norma incriminata ha poi subito una successiva modifica da parte dell'art. 1, comma 4, della «spending review» (dl 95/2012), che ha previsto, come alternativa all'incardinamento della centrale unica di committenza nell'ambito delle unioni di comuni esistenti, ovvero alla stipula di appositi accordi di tipo consortile fra i municipi interessati, la possibilità per gli stessi di rivolgersi alle centrali di committenza già esistenti, ovvero di passare attraverso il mercato elettronico della p.a. Tale successiva disposizione non risulta in alcun modo censurata, così come pare ancora in vigore il comma 5 del citato art. 23, laddove è stabilito il termine per l'adempimento. Il comunicato non cita neppure l'art. 1, comma 1, del dl 95, che prevede le sanzioni a carico degli enti inadempienti.
Tuttavia nel testo della norma la parola «provincia» compare eccome. Si legge infatti che «i comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti ricadenti nel territorio di ciascuna provincia affidano obbligatoriamente ad un'unica centrale di committenza l'acquisizione di lavori, servizi e forniture nell'ambito delle unioni dei comuni, di cui all'articolo 32 del Tuel, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici». Quindi, gli ambiti di organizzazione delle nuove centrali di committenza saranno o le unioni di comuni, se costituite, o in mancanza un accordo consortile tra gli enti.
Tra le nove regioni che con i loro ricorsi hanno contribuito a «picconare» la riforma delle province, solo una, il Friuli Venezia Giulia ha impugnato anche il comma 4 dell'art. 23 per violazione di svariate norme costituzionali, ma anche dello Statuto che, come per tutte le regioni autonome, ha rango pari a quello della Carta.
Ricordiamo che l'obbligo, che in origine avrebbe dovuto applicarsi e gare bandite dopo il 31.03.2012, è stato poi prorogato due volte, prima (dal dl 216/2011) al 31.03.2013 e poi (dal recente dl 43/2013) al 31.12.2013.
In ogni caso, la centrale unica di committenza ricade comunque nell'ambito delle funzioni fondamentali che i piccoli comuni devono mettere in forma associata entro la fine di quest'anno. La relativa «mappa» è contenuta nell'art. 19 del dl 95, che impone, fra l'altro, la gestione mediante unione o convenzione della funzione «organizzazione generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo». Una dizione, questa, che pare includere anche gli appalti (articolo ItaliaOggi dell'11.07.2013).

EDILIZIA PRIVATAImmobili. Da domani in vigore i Dpr 74 e 75 del 2013. Sugli impianti termici il certificatore è «doc».
I REQUISITI/ Laurea o diploma e attestato di specializzazione per il professionista che rischia grosso se rilascia un «Ape» non conforme.

Da domani nuove regole per i proprietari immobiliari: entra in vigore il Dpr 75/2013, che stabilisce i requisiti dei professionisti e delle società che potranno sottoscrivere l'Ape, acronimo di Attestato di prestazione energetica, che sostituisce l'Ace, ovvero l'Attestato di certificazione energetica. E sempre domani entra in vigore anche il Dpr 74/2013, che fissa invece le regole su controllo e manutenzione degli impianti termici (entrambe le norme sono state pubblicate sulla «Gazzetta Ufficiale» del 27 giugno).
L'Ape –entrato in vigore il 6 giugno e regolato dal Dl 63/2013, si veda anche il focus uscito con il Sole 24 Ore del 19 giugno scorso– risponde all'esigenza introdotta dalla Direttiva Ue 2002/91 di offrire all'acquirente o a chi prende in locazione un immobile un documento sul rendimento energetico e di conoscere gli eventuali miglioramenti da fare ai fini di un risparmio energetico. Ma senza i due Dpr attuativi restava di fatto poco utilizzabile.
L'Ape deve essere rilasciato, nel caso di edifici di nuova costruzione o in caso di ristrutturazioni importanti, al termine dei lavori da chi li ha effettuati, e anche dal proprietario dell'immobile in caso di vendita o locazione; deve essere sottoscritto da un professionista abilitato o da una società, come le Esco (società specializzate nei servizi per il risparmio energetico), gli enti pubblici, le società di ingegneria e tutte quelle che hanno al proprio interno un tecnico abilitato.
Per essere considerato tecnico qualificato, il professionista deve essere in possesso di una laurea tecnica o di un diploma sempre di natura tecnica. Deve, inoltre, disporre di un certificato che attesti l'esperienza nella progettazione di edifici e di impianti. Non ci potranno essere conflitti d'interesse: l'incarico non potrà essere conferito al coniuge o ai parenti sino al quarto grado oppure ai tecnici coinvolti nella progettazione e realizzazione dell'edificio da certificare o che hanno o hanno avuto un coinvolgimento diretto o indiretto con i produttori dei materiali utilizzati.
Non sarà facile far adottare queste nuove regole alle Regioni che, stante il vuoto normativo nazionale, avevano nel frattempo elaborato delle modalità diverse per la qualifica di certificatore.
Da non sottovalutare sono le sanzioni: il certificatore che rilascia un Ape non conforme rischia da 700 a 4.200 euro di multa, oltre alla segnalazione all'Ordine di appartenenza affinché provveda disciplinarmente. Al direttore lavori che al termine degli stessi non presenta al Comune l'Ape può essere applicata una sanzione che va dai 1.000 ai 6.000 euro. Lo stesso vale per il costruttore (3.000-18.000 euro) e per il proprietario (300-1.800 euro). Se, infine, i parametri e la classe energetica non compaiono nell'annuncio di vendita o affitto dell'immobile la multa va da 500 a 3.000 euro.
L'Ape dura dieci anni, sempre che nel frattempo l'immobile non venga sottoposto a una riqualificazione tale che ne modifichi le caratteristiche di consumo come, ad esempio, la sostituzione degli infissi o non vengano rispettate le norme sui controlli di efficienza energetica degli impianti.
Ed è qui che entra in gioco il secondo Dpr (74/2013), sempre in vigore dal 12 luglio, che detta criteri molto precisi proprio sull'esercizio, il controllo e la manutenzione degli impianti termici e sui soggetti responsabili (si veda anche Il Sole 24 Ore del 2 luglio scorso).
In particolare l'esercizio, la manutenzione e il controllo dell'impianto termico per la climatizzazione sia estiva che invernale e il rispetto delle disposizioni di legge in materia di efficienza energetica sono affidati al responsabile dell'impianto, che in condominio è l'amministratore ma che può delegarle a un terzo. Questi risponderà del mancato rispetto delle norme relative all'impianto termico, sempre che l'atto di assunzione di responsabilità sia stato redatto in forma scritta e sottoscritto dal terzo contestualmente all'atto di delega (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.07.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIndennità di posizione. La Ragioneria. Niente tagli lineari agli integrativi.
LE INDICAZIONI/ Le riduzioni agli stipendi collegati alla «gerarchia» vanno pesate caso per caso e devono confluire nel fondo dell'anno dopo.
I Comuni non possono effettuare un taglio lineare delle indennità di posizione dei dirigenti e del personale con incarico di «posizione organizzativa», e gli eventuali risparmi ottenuti con una revisione dei compensi non possono essere destinati ad altre funzioni, ma devono confluire nel fondo della contrattazione decentrata per l'anno successivo. Queste risorse, inoltre, potranno essere integrate con i risparmi di spesa ottenuti tagliando le indennità di sindaci e assessori.

Con queste tre indicazioni di cui alla nota 24.06.2013 n. 54138 di prot. la Ragioneria generale dello Stato, rispondendo ai quesiti posti da un Comune, guida l'azione degli enti locali nella gestione delle indennità aggiuntive allo stipendio tabellare. Il punto più interessante è il primo, costituito dallo «stop» alle ipotesi di taglio lineare delle indennità riconosciute a dirigenti e dipendenti in funzione delle responsabilità loro attribuite nella scala gerarchica dell'ente. Dopo l'epoca dei «premi a pioggia», illegittimi anch'essi in base alle regole fissate dal decreto legislativo 165/2001 e aggiornate dalla riforma Brunetta (decreto legislativo 150/2009), i crescenti vincoli finanziari e i tetti alla spesa di personale hanno spinto molte amministrazioni a percorrere la strada in senso opposto.
Non si può, dice però la Ragioneria generale, dal momento che le indennità di posizione devono essere misurate caso per caso, sulla base di tre parametri: la caratteristica della struttura, la sua complessità organizzativa e le responsabilità interne ed esterne che discendono dal gestirla. Queste decisioni attengono all'«organizzazione degli uffici», per cui sono di competenza esclusiva dell'amministrazione (i sindacati vanno solo informati), che però non può agire in modo lineare tagliando la stessa quota a tutti.
Una volta misurato il sacrificio caso per caso, inoltre, va considerato il fatto che i risparmi non possono uscire dalle voci di spesa dedicate al personale, perché i contratti prevedono l'utilizzo integrale dei fondi integrativi. Queste risorse, quindi, devono confluire nel fondo dell'anno successivo, insieme ai risparmi ottenuti tagliando le indennità di sindaco e assessori una volta ottenuta la certificazione a consuntivo da parte dei revisori dei conti (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.07.2013).

APPALTI: Gare pubbliche, carte al bando. Certificati di esecuzione lavori al casellario informatico. In G.U. la delibera dell'Authority che sta destando preoccupazioni tra gli operatori.
Tutti i certificati di esecuzione dei lavori devono essere trasmessi al Casellario informatico dell'Autorità per la vigilanza ai fini del rilascio dell'attestato Soa di qualificazione; non più utilizzabili i certificati rilasciati in forma cartacea.
È questo l'effetto derivante dall'entrata in vigore della deliberazione 23.05.2013 n. 24 dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 159 del 09.07.2013, che fornisce indicazioni alle stazioni appaltanti, alle Soa e alle imprese in materia di emissione dei certificati di esecuzione lavori (i cosiddetti Cel).
Si tratta della delibera di cui in questi giorni le Associazioni che riuniscono le Soa hanno chiesto il differimento (vedi ItaliaOggi di ieri). Le indicazioni hanno lo scopo di chiarire gli adempimenti per tutti i soggetti della filiera in relazione anche al fatto che, in base al dpr 207/2010 (regolamento del Codice), le Soa nell'attività di attestazione devono rilevare l'esistenza di Cel non presenti nel casellario informatico e darne comunicazione alle stazioni appaltanti e all'Autorità per gli eventuali provvedimenti sanzionatori.
In sostanza già oggi i Cel dovrebbero essere stati inseriti nel Casellario in forma digitale e non dovrebbero più essere utilizzabili i Cel cartacei; ciononostante l'Autorità rileva un «notevole rallentamento nell'attività di attestazione delle imprese provocato dal mancato rilascio dei Cel per via telematica con le conseguenti gravi ripercussioni sul regolare andamento del mercato dei contratti pubblici». Da ciò l'invito, in primis alle imprese di costruzioni, a chiedere formalmente l'emissione del Cel alla stazione appaltante. In secondo luogo la delibera chiede alle stazioni appaltanti di emettere i Cel secondo le modalità telematiche indicate dall'Autorità entro trenta giorni, previo rilascio di copia del Cel all'impresa o indicazione del numero di inserimento nella procedura informatica.
La procedura telematica è consultabile nel «Manuale Utente» presente sul sito dell'Autorità all'indirizzo www.avcp.it. L'organismo di attestazione (Soa) a sua volta, qualora nell'attività di attestazione della qualificazione dell'impresa dovesse riscontrare che il Cel non risulta presente nel casellario informatico, ha l'onere di darne diretta comunicazione alla stazione appaltante e all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici per l'eventuale adozione del provvedimento sanzionatorio.
In questa fase di segnalazione la Soa deve anche allegare la documentazione di comprova dell'avvenuta ricezione da parte della stazione appaltante della richiesta avanzata dall'impresa esecutrice dalla quale sono computati i prescritti 30 giorni per l'emissione del Cel. Queste indicazioni, si legge nella delibera, devono riguardare
«tutti i Cel utili ai fini della qualificazione dell'impresa, indipendentemente dalla loro data di emissione».
Ed è proprio questo il punto più delicato della delibera che Unionsoa e Usi hanno nei giorni scorso contestato (si veda ItaliaOggi di ieri); infatti in molti casi le stazioni appaltanti non si sono adeguate finora e molti sono i certificati rilasciati in forma cartacea che ancora vengono utilizzati (articolo ItaliaOggi del 10.07.2013).

GIURISPRUDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti, il produttore deve verificare i titoli del «gestore».
LE CONSEGUENZE/ Se manca il controllo il detentore concorre nel reato di gestione non autorizzata.
Il produttore/detentore dei rifiuti ha il dovere di verificare che il destinatario sia effettivamente autorizzato a ricevere quella specifica tipologia di rifiuti, a nulla rilevando la mera convenienza economica della transazione. In difetto, il produttore dei rifiuti viene meno al dovere di informazione puntuale che gli compete per la sua attività professionale. Se l'autorizzazione è relativa a rifiuti diversi da quelli oggetto di conferimento, quelli consegnati sono gestiti in modo abusivo.

È questo il principio di diritto della sentenza 11.07.2013 n. 29727 della Sez. III Penale della Corte di Cassazione che, confermando integralmente la decisione di merito del tribunale di Venezia (Sezione distaccata di San Donà di Piave), ha rigettato i ricorsi degli imputati che, in concorso tra loro, sono stati condannati definitivamente per gestione non autorizzata di rifiuti.
I produttori/detentori dei rifiuti sostenevano che la responsabilità fosse del trasportatore che sul titolo abilitativo in capo al destinatario, li aveva tratti in inganno, esibendo l'autorizzazione con i codici Cer dei rifiuti conferiti, titolo abilitativo per il trasporto e non per il destino. La difesa ha quindi cercato di far valere la causa di non punibilità (errore determinato dall'altrui inganno) ma invano. La Corte, infatti, ha ripercorso l'articolo 188, comma 3 del decreto legislativo 152/2006 (Codice ambientale) e le esenzioni previste per la responsabilità del produttore. Tra queste, figura la consegna dei rifiuti a soggetti autorizzati alla loro gestione, purché il detentore riceva la quarta copia del formulario controfirmato e datato in arrivo dal destinatario entro i tre mesi successivi al conferimento al trasportatore.
Tuttavia, la Cassazione ha ricordato che il detentore dei rifiuti, quando ne affida la raccolta, il trasporto e lo smaltimento a terzi soggetti privati affinché svolgano per suo conto tali attività, ha il preciso obbligo di controllare che questi terzi siano autorizzati. Si tratta di una verifica «doverosa» che, conformemente ad arresti precedenti, la Corte eleva a rango di «regola di cautela imprenditoriale». Se omessa comporta la responsabilità colposa del detentore dei rifiuti per il reato di gestione illecita (articolo 256, comma 1, Codice ambientale).
La Corte continua affermando che la responsabilità non è esclusa dal fatto che il terzo sia in possesso di autorizzazione relativa a rifiuti diversi da quelli oggetto di conferimento. Infatti, questo equivale al mancato possesso dell'autorizzazione per i rifiuti conferiti. Quindi non serve avere un'autorizzazione quale che sia, occorre che il titolo di assenso preventivo riguardi lo specifico rifiuto e la specifica attività.
Nel caso di specie, la Corte rileva che gli imputati erano perfettamente in grado di sviluppare le verifiche e le cautele necessarie se solo avessero usato «una pur minima diligenza» e non avessero ceduto alla tentazione di risparmiare sui costi di smaltimento.
Quindi, il produttore/detentore che conferisce i propri rifiuti a terzi affinché questi siano smaltiti o recuperati «ha il dovere di accertare» che i terzi siano debitamente autorizzati a tal fine. È questa regola "elementare" di cautela imprenditoriale che induce a configurare per i produttori/detentori dei rifiuti conferiti la «responsabilità per il reato di illecita gestione dei rifiuti in concorso con coloro che li hanno ricevuti in assenza del prescritto titolo abilitativo» (articolo Il Sole 24 Ore del 12.07.2013).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 15 D.P.R. 380/2001 i termini per l'inizio dei lavori e per la loro ultimazione, da indicare obbligatoriamente nell'atto di concessione, sono configurati come termini di validità ed efficacia della concessione stessa, per cui operano automaticamente, indipendentemente da un’apposita dichiarazione amministrativa, con la conseguenza che, dopo l'inutile scadenza di tale termine la concessione è tamquam non esset, sicché i lavori edilizi iniziati o ultimati dopo la relativa scadenza restano privi di titolo abilitativo, indipendentemente da una dichiarazione amministrativa di decadenza.
Sul punto, deve infatti osservarsi che anche in assenza di un provvedimento di “decadenza” espresso (cfr. Cass. Penale, Sez. III, Sent. n. 12316 del 21.02.2007), non possono sussistere dubbi sulla insussistenza in specie di alcuna validità od efficacia del pregresso titolo concessorio invocato dalla ricorrente avendo riguardo:
a) all’art. 15 D.P.R. 380/2001, con particolare riferimento anche al comma 4 dello stesso articolo;
b) allo stato dei luoghi e allo stadio dei lavori al momento dell’apposizione del vincolo, come accertati in atti;
c) alla incompatibilità dell’opera rispetto alla nuova previsione urbanistica, alla mancata conclusione dei lavori nel termini previsti e alla mancanza di alcuna richiesta di proroga.
Infatti, ai sensi dell’art. 15 D.P.R. 380/2001 i termini per l'inizio dei lavori e per la loro ultimazione, da indicare obbligatoriamente nell'atto di concessione, sono configurati come termini di validità ed efficacia della concessione stessa, per cui operano automaticamente, indipendentemente da un’apposita dichiarazione amministrativa, con la conseguenza che, dopo l'inutile scadenza di tale termine la concessione è tamquam non esset, sicché i lavori edilizi iniziati o ultimati dopo la relativa scadenza restano privi di titolo abilitativo, indipendentemente da una dichiarazione amministrativa di decadenza (nel caso di specie la struttura alberghiera non è mai stata completata consistendo oggi, in una struttura di cemento armato grezza, in stato di abbandono e disfacimento, costituita da pilastri di cemento armato a vista, senza tompagni, i cui lavori sono stati realizzati dal 1989 al 1990 senza che da allora siano più proseguiti) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 10.07.2013 n. 1481 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Silenzio-assenso escluso se la tutela del vincolo non spetta al Comune.
Nel caso in cui esista un vincolo alla cui tutela è preposto un soggetto diverso dal Comune, soggetto che ha espresso parere negativo all’intervento edilizio, non può in alcun modo reputarsi formato il silenzio assenso.
È questo il principio che emerge dalla sentenza 28.06.2013 n. 1669 del TAR Lombardia-Milano, Sez. II.
Nel caso in esame il Tar lombardo ha fornito il suo parere in merito ad un vincolo c.d. autostradale su cui il soggetto concessionario aveva espresso un parere negativo circa l’attestazione di compatibilità tecnica riguardo la realizzazione delle opere oggetto della domanda di titolo edilizio.
I giudici ricordano che l’art. 20 del D.P.R. 06/06/2001, n. 380, come modificato per effetto del D.L. 13/05/2011, n. 70 convertito con L. 12/07/2011, n. 106, prevede che in presenza di determinati presupposti la domanda di permesso di costruire possa reputarsi accolta attraverso il meccanismo del c.d. silenzio assenso. Tuttavia, il comma 10 dell'art. 20 citato esclude l’operatività del silenzio assenso qualora l’immobile oggetto dell’intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela non spetta all’amministrazione comunale.
Si legge nella sentenza «Qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela non compete all'amministrazione comunale, il competente ufficio comunale acquisisce il relativo assenso nell'ambito della conferenza di servizi di cui al comma 5-bis. In caso di esito non favorevole, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-rifiuto» (commento tratto da www.legislazionetecnica.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Offerte aperte in pubblico. Sono salve le vecchie gare.
Nelle gare l'obbligo di apertura delle offerte tecniche in seduta pubblica vale solo dopo il 09.05.2012; salve le gare emesse da luglio 2011 all'08.05.2012 per le quali si è proceduto in via riservata.

È quanto afferma la sentenza 27.06.2013 n. 16 dell'Adunanza plenaria del Consiglio di stato, attivata su richiesta del Consiglio di stato per affrontare alcune questioni relative all'applicazione dell'art. 12, del decreto legge 07.05.2012, n. 52, convertito con modificazioni dalla legge 06.07.2012, n. 94, che prevede l'obbligo di apertura in seduta pubblica dei plichi contenenti le offerte tecniche.
Sul tema più generale, della portata dell'articolo 12, la stessa decisione è nel senso di riconoscere la natura sanante della disposizione per le gare emesse da luglio 2011 a maggio 2012. Le argomentazioni fanno riferimento all'esigenza di «contenere gli oneri amministrativi ed economici che deriverebbero della caducazione, altrimenti inevitabile, di centinaia di gare che, diversamente, sarebbero di fatto travolte per il mero mancato rispetto dei canoni di pubblicità dell'apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche, in assenza di qualsivoglia indizio circa la manomissione o l'occultamento degli stessi da parte dell'amministrazione».
Rilevante è anche il fatto che va tutelato anche «l'affidamento incolpevole da parte dell'aggiudicataria che abbia confidato sulla vigenza di determinate regole procedimentali che, nella specie, nella maggior parte dei casi, prevedevano l'apertura dei plichi in seduta riservata».
Infine il Consiglio di stato ritiene che non sarebbe logico, si deve concludere, attribuire alla norma altra ratio; non vi sarebbe ragione infatti per un intervento normativo che obbliga all'apertura pubblica dei plichi soltanto a partire da una certa data «anche per le gare in corso» (articolo ItaliaOggi dell'11.07.2013).

APPALTI FORNITURE: Legittima esclusione del concorrente per tardivo deposito della campionatura.
E' legittima l'esclusione di un concorrente per tardivo deposito della campionatura oggetto di offerta. Lo stabilisce, nella sentenza in commento, la sesta sezione del Consiglio di Stato. In dettaglio, secondo i giudici del Consiglio di Stato è legittima l'esclusione di un concorrente per tardivo deposito di una parte della campionatura oggetto di fornitura, in quanto la campionatura era funzionale alla valutazione delle offerte da parte della commissione di gara.
Infatti, la stessa era indicata quale elemento da produrre a corredo della relazione tecnica (quest'ultima da inserire senz'altro nel plico contenente l'offerta tecnica) e che, pertanto, solo per ovvie ragioni di spazio la campionatura non doveva essere inserita nei plichi contenenti le offerte, pur dovendosi rispettare, per il suo deposito, la medesima scansione temporale fissata per la presentazione delle offerte (in particolare, la lex specialis disponeva che la stessa doveva essere prodotta "entro il termine di scadenza per la presentazione delle offerte").
Né, in questa situazione, ha motivo di porsi, un problema di possibile violazione dell'art. 46, c. 1-bis, del d.lgs. n.163 del 2006, che sancisce la tassatività delle clausole di esclusione; per vero, è lo stesso art. 42, c. 1, lett. l), del Codice dei contratti pubblici a prevedere, negli appalti di forniture, il deposito di campioni quale ordinaria modalità di prova del requisito di capacità tecnica, di tal che la clausola del bando risulta coerente con la richiamata previsione di rango primario, sia con riguardo alla natura dell'incombente posto a carico degli offerenti, sia in relazione alla necessità di fissare un termine perentorio per il deposito dei campioni di fornitura (in quanto funzionale a comprovare il requisito di capacità tecnica dell'offerente).
Va ritenuta immune da vizi, pertanto, la determinazione di esclusione assunta dall'Università in danno della originaria ricorrente che, avendo tardivamente prodotto la campionatura oggetto di offerta, era senz'altro da escludere dalla selezione, anche a garanzia del principio della par condicio competitorum (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.06.2013 n. 3516 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il candidato a un concorso pubblico ha accesso a tutti gli elaborati.
E’ pacifico in giurisprudenza che il soggetto che ha partecipato alla procedura concorsuale, è titolare di un interesse qualificato e differenziato alla regolarità della procedura che, come tale, concretizza quell'interesse personale e concreto per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti che in puntuale applicazione dell'art. 22 della L. n. 241/1990, è richiesto quale presupposto necessario per il riconoscimento del diritto di accesso.
Tale questione di diritto risulta ormai definitivamente chiarito, e per una piana comprensione dell’evoluzione giurisprudenziale i giudici del Tribunale amministrativo di Salerno richiamano il Tar Sardegna Sez. I 10.04.2009 n. 517. Gli stessi giudici tengono a chiarire, in primis, che non ha nessuna rilevanza la previa comunicazione della istanza di accesso agli altri candidati la cui produzione documentale è oggetto della stessa, al fine di consentire a questi ultimi di opporsi motivatamente al suo accoglimento (ex multis Tar Marche 16.09.2011 n. 729).
Ciò perché le domande ed i documenti prodotti dai candidati, i verbali, le schede di valutazione e gli stessi elaborati costituiscono documenti rispetto ai quali, salvo casi eccezionali, deve essere esclusa l'esigenza di riservatezza a tutela dei terzi, posto che i concorrenti, prendendo parte alla selezione, hanno acconsentito a misurarsi in una competizione di cui la comparazione dei valori di ciascuno costituisce l'essenza. Tali atti, quindi, una volta acquisiti alla procedura, escono dalla sfera personale dei partecipanti che, pertanto, a stretto rigore, neppure assumono la veste di controinteressati in senso tecnico nel giudizio volto all’accesso agli atti della procedura concorsuale da parte di altro soggetto partecipante alla medesima (cfr. Tar Lazio, Roma, sez. III, 08.07.2008 n. 6450), fatta eccezione per effettive esigenze di tutela del titolare della sfera riservata vulnerabile, da valutarsi in concreto.
Sempre in linea di principio, ad avviso dei giudici campani, l'omessa integrale intimazione in giudizio dei concorrenti cui si riferiscono gli atti della procedura concorsuale, non arreca loro alcun significativo pregiudizio non potendo gli stessi, in ragione dei principi sinora esposti, opporsi all'ostensione dei documenti richiesti dalla partecipante ad un concorso. Aggiungono, inoltre, gli stessi giudici che l'Amministrazione non può opporsi all'esercizio del diritto di accesso soltanto sulla base del rifiuto dell'interessato, a meno che non si tratti di dati personali (dati c.d. "sensibili"), cioè di quegli atti idonei a rivelare l'origine razziale o etnica, le convinzioni religiose o politiche, lo stato di salute o la vita sessuale dei terzi; nel qual caso l’accesso deve essere comunque consentito ma a condizione che la posizione giuridica soggettiva, che il richiedente deve far valere o difendere, sia di rango almeno pari a quello della persona cui si riferiscono tali dati.
Più specificamente, va ricordato che il d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, nel riprendere in larga misura le disposizioni che erano già contenute nel d.lgs. 135 del 1999 ha riordinato i principi applicabili ai dati sensibili e giudiziari graduando la tutela della riservatezza e partendo da una soglia minima per i dati “comuni”, passando per una posizione intermedia relativamente ai “dati sensibili” fino ad arrivare ad un assoluto livello di intangibilità per i “dati sensibilissimi” poiché afferenti la salute o la vita sessuale dell’interessato.
In questa occasione era stata, illegittimamente, negata al ricorrente copia degli elaborati di prima e seconda prova e relative schede di valutazione nonché dei titoli presentati dai soggetti che lo precedevano in graduatoria della documentazione di cui al punto, “facultato” dall’Amministrazione comunale soltanto a prenderne visione, senza, peraltro opporre alcuna plausibile giustificazione, con la sola precisazione che l’istanza inoltrata dall’interessato “viene inviata ai concorrenti relativamente ai quali è stata fatta richiesta di presa visione degli elaborati, invitandoli a far pervenire eventuali osservazioni o eccezioni in merito…” (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 24.06.2013 n. 1408 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Illecita gestione e culpa in vigilando.
Il reato di attività di gestione di rifiuti non autorizzata è ascrivibile al titolare dell'impresa anche sotto il profilo della omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno posto in essere la condotta vietata.
La responsabilità per l'attività di gestione non autorizzata di rifiuti non attiene necessariamente al profilo della consapevolezza e volontarietà della condotta, potendo scaturire da comportamenti che violino i doveri di diligenza per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione e che legittimamente si richiedono ai soggetti preposti alla direzione dell'azienda.
In tema di gestione dei rifiuti, Il reato di abbandono incontrollato di rifiuti è ascrivibile ai titolari dl enti ed imprese ed ai responsabili di enti anche sotto il profilo della omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno posto in essere la condotta di abbandono (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.06.2013 n. 26406 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Materiali derivati dallo sfruttamento delle cave ed esclusione dal novero dei rifiuti.
Sono esclusi dalla normativa sui rifiuti solo i materiali derivati dallo sfruttamento delle cave quando restino entro il ciclo produttivo dell’estrazione e connessa pulitura, cosicché l’attività di sfruttamento della cava non può confondersi con la lavorazione successiva dei materiali e, se si esula dal ciclo estrattivo, gli inerti provenienti dalla cava sono da considerarsi rifiuti ed il loro smaltimento, ammasso, deposito e discarica è regolato dalla disciplina generale.
I fanghi sono soggetti alla disciplina sui rifiuti soltanto quando non derivano dalla attività estrattiva e dalle connesse attività di cernita e di pulizia, bensì derivano da una successiva e differente attività di lavorazione dei materiali (estratti, selezionati e puliti) e, cioè, quando può affermarsi che tale successiva attività è ontologicamente estranea al ciclo produttivo dello sfruttamento della cava.
In altre parole, solo quando si dia luogo ad una successiva, nuova e diversa attività di lavorazione sui prodotti della cava, i residui e gli inerti di questa nuova attività, sganciata da quella di cava, devono considerarsi rifiuti, sottoposti alla disciplina generale circa il loro smaltimento, ammasso, deposito e discarica (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.06.2013 n. 26405 - tratto da www.lexambiente.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva morte del reo e posizione erede.
Anche per l'erede deve essere consentito, a fronte di una decisione di proscioglimento per morte del reo nel caso in ci sia stata disposta la confisca per la lottizzazione abusiva, la possibilità di agire in sede di esecuzione, sia pure con i limiti già individuati dalla giurisprudenza per la posizione di colui il quale è rimasto estraneo al giudizio di responsabilità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.06.2013 n. 25883 - tratto da www.lexambiente.it).

TRIBUTI: Terreni, legata al luogo la natura pertinenziale. Sentenza della Commissione tributaria regionale di Roma.
La natura pertinenziale di un terreno deve rilevarsi attraverso l'analisi della conformazione dello stato dei luoghi per cui l'iscrizione autonoma in catasto della pertinenza e del fabbricato non può escludere la natura di pertinenza del terreno.
Il principio è contenuto nella sentenza 07.06.2013 n. 163/35, della Ctr di Roma da cui emerge che la diversa iscrizione in Catasto della pertinenza non è di ostacolo alla considerazione unitaria di essa con l'abitazione principale, non escludendo l'applicazione dell'art. 2 del dlgs 504/1992.
L'Ici, sostituita ora dall'Imu, è un'imposta reale sul patrimonio immobiliare che colpisce il valore oggettivo dei beni immobili e che, per quanto attiene i fabbricati censiti, il valore è dato dalla rendita catastale mentre per le aeree fabbricabili in base al valore venale in commercio. In particolare, il citato art. 2, il quale prevede che le aeree pertinenze dei fabbricati devono considerarsi ai fini Ici come parte integrante dei fabbricati stessi, esclude l'autonoma tassabilità delle aeree pertinenziali.
Tale norma fonda l'attribuzione della qualità di pertinenza su un criterio «fattuale», ovvero sull'effettiva destinazione di una cosa al servizio di un'altra e la prova di ciò ricade sul contribuente il quale deve dimostrare la sussistenza di elementi dell'effettiva destinazione in modo durevole dell'area a pertinenza del cespite. Nel caso in esame due coniugi in comunione dei beni hanno impugnato alcuni avvisi di accertamento emessi dal comune il quale contestava, tra l'altro, l'assenza del vincolo di pertinenzialità di un terreno di loro proprietà con l'annesso fabbricato. La Ctp in primo grado ha accolto parzialmente il ricorso ritenendo legittimo il motivo relativo al rapporto di pertinenzialità del terreno.
I giudici della Ctr hanno ritenuto che la natura pertinenziale di un terreno deve essere rilevata attraverso «l'analisi della conformazione dello stato dei luoghi, che permette di verificare se una cosa sia concretamente destinata a servizio od ornamento di altra secondo l'art. 817 c.c.».
Ai fini dell'esclusione della tassabilità di un'area iscritta in catasto e distinta da quella del fabbricato, non rileva l'intervenuto frazionamento catastale dell'area e la mera iscrizione in catasto della pertinenza e del fabbricato non può escludere la qualifica di pertinenza di un'area posta a servizio esclusivo di un fabbricato. Da qui la diversa iscrizione in catasto della pertinenza non fa venire meno la considerazione unitaria di questa con l'abitazione principale e non impedisce l'applicazione dell'art. 2 dlgs n. 504/1992.
Affinché un'area fabbricabile perda la sua natura di edificabilità è necessario che vi sia una «modificazione oggettiva e funzionale dei luoghi» tale da far venir meno lo ius edificandi sull'area stessa; quindi devono concorrere due elementi, un elemento oggettivo (collegamento funzionale tra pertinenza e cosa principale) e un elemento soggettivo (volontà del soggetto di destinare in modo durevole la pertinenza alla cosa principale). In difetto di uno solo di tali elementi viene a mancare quel vincolo di subordinazione-strumentalità-complementarietà perché una cosa sia a servizio od ornamento di altro bene.
Sulla base di quanto precede la Ctr ha accolto il ricorso dei contribuenti, non irrogando le sanzioni in quanto, non essendo stata notificata l'attribuzione della nuova rendita, il comune può riscuotere solo l'imposta senza interessi e sanzioni, non vertendosi in materia di omessa o infedele dichiarazione (art. 74 legge n. 342/2000) (articolo ItaliaOggi del 12.07.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Sequestro preventivo di opera ultimata e criteri di valutazione.
Il sequestro preventivo di cose pertinenti a reato edilizio può essere adottato anche su un'opera ultimata, se la libera disponibilità di essa possa concretamente pregiudicare gli interessi attinenti alla gestione del territorio ed incidere sui carico urbanistico, il pregiudizio del quale va valutato avendo riguardo agli indici di consistenza dell'insediamento edilizio, del numero dei nuclei familiari, della dotazione minima degli spazi pubblici per abitare, nonché della domanda di strutture e di opere collettive.
Spetta dunque al giudice stabilire in particolare la reale compromissione degli interessi attinenti al territorio ed ogni altro dato utile a stabilire in che misura, sulla base degli indici menzionati, il godimento e la disponibilità attuale della cosa da parte dell‘indagato o di terzi possa implicare una effettiva ulteriore lesione del bene giuridico protetto, ovvero se l'attuale disponibilità del manufatto costituisca un elemento neutro sotto il profilo della offensività (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.06.2013 n. 24852 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Trasporto occasionale.
Il reato di trasporto non autorizzato di rifiuti si configura anche in presenza di una condotta occasionale, in ciò differenziandosi dall’art. 260 del D.L.vo 152/2006 che sanziona la continuità dell’attività illecita (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.06.2013 n. 24787 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Reati paesaggistici e sequestro preventivo.
Per i reati paesaggistici, ai fini della legittimità del provvedimento di sequestro preventivo, la sola esistenza di una struttura abusiva, realizzata senza autorizzazione in area sottoposta a vincolo paesaggistico, integra il requisito dell'attualità del pericolo, indipendentemente all'essere l'edificazione criminosa ultimata o meno, in quanto il rischio di al territorio ed all’equilibrio ambientale (a prescindere dall’effettivo danno al paesaggio) perdura in stretta connessione all'utilizzazione della costruzione ultimata (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.06.2013 n. 24539 - tratto da www.lexambiente.it).

TRIBUTIPubblicità sui rimorchi, la tariffa è ordinaria. Sentenza della corte di cassazione: imposta assimilata a quella degli impianti fissi.
I rimorchi con messaggi pubblicitari devono pagare l'imposta sulla pubblicità con la tariffa della pubblicità ordinaria e non la tariffa relativa alla pubblicità effettuata con i veicoli.

Lo ha deciso la Corte di Cassazione che, con la sentenza 05.06.2013 n. 14143, ha assimilato tali rimorchi agli impianti pubblicitari fissi.
Il problema non è certo indifferente poiché a seconda di come tale fattispecie viene inquadrata, la regolamentazione fiscale è assai diversa, in quanto:
• se si considera come una forma di pubblicità effettuata con veicoli trova applicazione l'art. 13 del dlgs 15.11.1993, n. 507 e l'imposta è dovuta nel comune ove ha sede l'impresa proprietaria dei veicoli stessi;
• se, invece, si ritiene che detti mezzi non siano dei veicoli, trova applicazione la tariffa per pubblicità ordinaria stabilita dall'art. 12 del dlgs n. 507 del 1993, che si applica in via generale anche in tutti i casi in cui la legge non abbia previsto una tariffa specifica, e, deve essere pagata nel comune dove viene effettuata la pubblicità.
La Corte, ripercorrendo l'iter argomentativo svolto nella precedente sentenza n. 5858 del 2012, occupandosi dei camion-vela, ha optato la seconda soluzione, stabilendo che «ai veicoli costruiti o strutturalmente trasformati per l'esclusivo o prevalente esercizio dell'attività pubblicitaria, e concretamente utilizzati a tal fine, è applicabile la disciplina di cui al dlgs 15.11.1993, n. 507, art. 12, relativa alla pubblicità ordinaria, e non quella di cui all'art. 13, del medesimo decreto legislativo, riguardante la pubblicità effettuata con veicoli, poiché questa, a differenza dell'altra, costituisce una modalità eccezionale, insuscettibile di interpretazione estensiva, e che, per il suo tenore letterale, si riferisce ad attività svolta mediante veicoli che mantengano le caratteristiche strutturali e la destinazione d'uso loro propria».
Oggetto della controversia sono stati, infatti, alcuni rimorchi, immatricolati come «veicolo uso speciale auto pubblicitario», di notevoli dimensioni, tali da non poter essere trasportati come comuni rimorchi, che erano stati rinvenuti privi di autoveicolo di traino, ancorati al suolo mediante paletti.
Tali condizioni hanno indotto i giudici ad affermare che non possono «essere considerati per la loro motilità veicoli intesi come mezzo di trasporto idonei alla circolazione»; e a ritenere che per le loro caratteristiche strutturali da un lato, e dall'altro, per il fine a cui venivano in concreto impiegati, e cioè all'esclusivo esercizio dell'attività pubblicitaria, non possono che assumere, ai fini dell'applicazione dell'imposta, la natura di «impianto fisso».
La soluzione cui è addivenuta la Corte potrebbe sembrare un po' forzata, visto che, anche ai sensi delle disposizioni del Codice della strada e del relativo regolamento di esecuzione, i mezzi in questione sarebbero comunque definibili come veicoli, seppure adibiti a uso pubblicitario.
Forse ciò che è prevalso è che il ricorso a tali strumenti diventa sempre più frequente e dà luogo, di fatto, a un'elusione delle disposizioni sia di carattere fiscale sia amministrativo da parte di coloro che, anziché ricorrere a un'impiantistica fissa che deve rispettare tutte le prescrizioni del regolamento comunale e le disposizioni stabilite dal codice della strada, preferiscono pubblicizzare i propri prodotti attraverso veicoli che però, sostando a lungo in determinate zone del comune, finiscono per trasformarsi nel tempo in impianti fissi.
C'è da dire che l'ente locale potrebbe intervenire vietando ogni forma pubblicitaria effettuata con veicoli in sosta, magari anche prevedendo la rimozione o la copertura degli impianti pubblicitari, per coloro che non osservano una simile disposizione regolamentare adottata ai sensi dell'art. 3, comma 2, del dlgs n. 507 del 1993.
Invece la Corte ha rotto ogni indugio e ha degradato (o nobilitato) tali veicoli in veri e propri impianti pubblicitari (articolo ItaliaOggi del 12.07.2013).

APPALTI: Stazione appaltante deve segnalare all'Autorità di Vigilanza false dichiarazioni.
I giudici del Consiglio di Stato si soffermano, nella pronuncia in rassegna, sul dovere per la stazione appaltante di segnalare all'Autorità di Vigilanza le ipotesi di false dichiarazioni relative ai requisiti di ordine generale.
In forza degli artt. 6, c. 11, e 38, c. 1, lett. h), del d.lgs. n. 163 del 2006, secondo i giudici di Palazzo Spada, la stazione appaltante è tenuta a segnalare all'Autorità di Vigilanza le ipotesi di false dichiarazioni relative ai requisiti di ordine generale; che trattasi di segnalazione doverosa per la stazione appaltante, la cui omissione è sanzionata con l'irrogazione di sanzione amministrativa pecuniaria; l'obbligo si esaurisce nella segnalazione, essendo rimessa all'Autorità l'eventuale iscrizione nel casellario informatico, a seguito di procedimento della stessa Autorità, del quale la parte deve essere notiziata; che questa fattispecie differisce da quella di cui all'art. 48 del d.lgs. n. 163 del 2006, la cui disciplina e le relative sanzioni sono rigidamente prefissate dalla legge.
Ad oggi, comunque, ogni questione deve ritenersi superata alla luce delle modifiche apportate all'art. 38 del codice dal d.l. 13.05.2011, n. 70 (decreto sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla l. 12.07.2011, n. 106. Il decreto sviluppo del 2011 ha, infatti, introdotto all'art. 38 del codice il c. 1-ter in virtù del quale, in caso di presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione, nelle procedure di gara e negli affidamenti in subappalto, la stazione appaltante "ne dà segnalazione all'Autorità" che, laddove ritenga che siano state rese con dolo o colpa grave, dispone l'iscrizione nel casellario informatico ai fini dell'esclusione dalle procedure di gara e dagli affidamenti in subappalto.
Pertanto, in base alla normativa vigente ratione temporis, era doverosa la segnalazione all'Autorità dell'accertamento negativo dei requisiti generali in testa alle imprese partecipanti ad una procedura ad evidenza pubblica (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.06.2013 n. 3045 - Link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Opere idrauliche solo a ingegneri. Il Tar Puglia esclude gli architetti.
Le opere idrauliche sono di esclusiva competenza degli ingegneri e non degli architetti. Gli impianti della rete urbana di condotta e distribuzione dell'acqua «non sono riconducibili all'ambito dell'edilizia civile, ma piuttosto rientrano nell'ingegneria idraulica che, ai sensi dell'art.51 del regolamento (regio decreto 23.10.1925 n. 2537), è riservata alla professione di ingegnere».
Questo è quanto emerge dalla sentenza 31.05.2013 n. 1270 del Tar Puglia-Lecce, Sez. II.
Il fatto: veniva presentato ricorso dagli ordini territoriali di Brindisi e Lecce contro la decisione di un ente locale di affidare la direzione dei lavori a un architetto. Dopo aver evidenziato che non sussiste una completa equiparazione delle competenze di architetti e ingegneri, i giudici amministrativi ricordano che l'art. 51 del regolamento per le professioni d'ingegnere e di architetto (regio decreto 23.10.1925 n. 2537), dedicato alla professione di ingegnere, prevede una competenza di carattere generale, comprendente interventi di vario tipo, riconoscendo in senso lato un'abilitazione che racchiude «ogni forma di applicazione delle tecniche relative alla fisica, alla rilevazione geometrica ed alle operazioni di estimo».
L'art. 52 del rd 2537/1925, relativo agli architetti, delimita invece la loro competenza alle sole «opere di edilizia civile». Inoltre i giudici chiariscono come «i principi suddetti, oltre che per la progettazione, non possono non valere anche per la direzione lavori», dato che le disposizioni del codice dei contratti pubblici non incidono sul riparto di competenze tra le diverse figure professionali.
I giudici amministrativi concludono affermando che rimane riservata alla competenza generale degli ingegneri (con conseguente esclusione degli architetti) «la progettazione di costruzioni stradali, opere igienicosanitarie, impianti elettrici, opere idrauliche, operazioni di estimo, estrazione di materiali, opere industriali» (articolo ItaliaOggi del 12.07.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Trasporti rottami ferrosi.
Sussiste il reato di cui all’art. 256 d.lgs. n. 152/2006, e va disposta la confisca obbligatoria del veicolo ai sensi dell’art. 259 del medesimo decreto, nel caso di trasporto di rottami ferrosi destinati allo smaltimento. L’autorizzazione per l'esercizio del commercio su aree pubbliche in forma itinerante, per la vendita di prodotti appartenenti al settore non alimentare, disciplinata dall’art. 28 d.lgs. n. 114/1998, consente al titolare di raccogliere e trasportare rifiuti che formano oggetto del suo commercio (es. beni usati o robivecchi), ma non può essere confusa con quella prevista, a fini ambientali, dal d.lgs. n. 152/2006 (link a www.lexambiente.it - TRIBUNALE di Chieti, ordinanza 30.05.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Diritto di accesso dei dipendenti pubblici privatizzati - Dirigenti pubblici - Conoscenza dei criteri e metodi applicati da una Asl per il pagamento della retribuzione di risultato - Sussiste.
Nel campo del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il dipendente è portatore di un interesse qualificato alla conoscenza degli atti e documenti che riguardano la propria posizione lavorativa, atteso che gli stessi esulano dal diritto alla riservatezza e che l'art. 22 della legge n. 241/1990 garantisce l'accesso ai documenti amministrativi relativi al rapporto di pubblico impiego "privatizzato", anche se le eventuali controversie attinenti a detto rapporto sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario.
In particolare, l'istanza di accesso di un dirigente volto a conoscere i metodi applicati dalla pubblica amministrazione datrice di lavoro (nel caso di specie, una Asl) nella determinazione e nell'applicazione del pagamento della retribuzione di risultato è preordinata alla tutela di un interesse puntuale ed attuale.

... l’appello è anche fondato nel merito, sul fondamentale e duplice rilievo che:
(a) l’istanza dell’avv. Possi è preordinata a tutela di un interesse puntuale ed attuale (il pagamento della retribuzione di risultato per il 2011) e l’oggetto della domanda di accesso può intendersi circoscritto (almeno in una prima fase) ai criteri e ai metodi applicati dall’Azienda nella determinazione e nell’applicazione di tale voce retributiva, nello stesso periodo temporale, in una vicenda che peraltro ha interessato un numero definito (circa 20) di dirigenti;
(b) la conoscenza dei criteri e dei metodi appare utile alla ricorrente per comprendere le ragioni del diniego opposto dall’amministrazione, sulla richiesta di pagamento; d’altra parte, se l’Aziende intende (a quanto pare) operare una sorta di compensazione fra reciproche pretese creditorie, ciò non toglie che la ricorrente abbia ragione ed interesse a conoscere in dettaglio i relativi conteggi ed i criteri adottati;
(c) l'insegnamento giurisprudenziale, consolidato e condivisibile, è nel senso che in materia di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni il dipendente è portatore di un interesse qualificato alla conoscenza degli atti e documenti che riguardano la propria posizione lavorativa, atteso che gli stessi esulano dal diritto alla riservatezza e che l'art. 22 della l. 241/1990 garantisce l'accesso ai documenti amministrativi relativi al rapporto di pubblico impiego "privatizzato", anche se le eventuali controversie attinenti ad detto rapporto sono devolute alla giurisdizione del Giudice Ordinario (cfr., per tutti, TAR Campania Napoli, VI Sezione, 03.02.2011 n. 645) (massima tratta da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 27.05.2013 n. 2894 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Soggetto destinatario dell'ordinanza di demolizione e acquisizione di opere abusive.
E' legittima l’ordinanza di demolizione e di acquisizione di opere edilizie abusive effettuata nei soli confronti del responsabile dell’abuso e non del comproprietario dell'immobile, poiché anche sul piano letterale la norma si riferisce esclusivamente all’uno, e non all’altro, per l’evidente ragione di ancorare l’attività riparatoria in primo luogo all’effettivo autore dell'illecito (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.05.2013 n. 21926 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Posizionamento telo ombreggiante.
La sentenza affronta il tema della rilevanza penale degli interventi edilizi “minimi” (con nota dell'Avv. Alessandro Brustia) (link a www.lexambiente.it - TRIBUNALE di Novara, sentenza 14.05.2013 n. 656).

LAVORI PUBBLICI: Protezione civile. Responsabilità del sindaco.
In tema di responsabilità del sindaco quale organo della protezione civile (fattispecie relativa ad evento catastrofico verificatosi in Sarno il 05.05.1998 con conseguente decesso di 137 persone) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.05.2013 n. 19507 - tratto da www.lexambiente.it).

SICUREZZA LAVORO: Responsabilità del committente e del coordinatore per l’esecuzione dei lavori.
Ecco una nuova, preziosa sentenza in tema di responsabilità penale sia del coordinatore per l’esecuzione dei lavori, sia dello stesso committente per omessa vigilanza sull’operato dei coordinatori (in merito v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, V edizione, Ipsoa, Milano, 2013, sub art. 92, quanto al coordinatore, e sub art. 93 quanto al committente).
Per un infortunio occorso in un cantiere edile, furono condannati il coordinatore per l’esecuzione dei lavori (oltre che direttore di lavori per la parte strutturale e impiantistica) e il legale responsabile della società: il primo per «non aver verificato, con opportune azioni di coordinamento e di controllo l’applicazione, da parte delle imprese esecutrici, delle disposizioni loro pertinenti contenute nel piano di sicurezza e coordinamento (PSC) e dei piani operativi di sicurezza (POS) predisposti dalle imprese esecutrici, non effettuando, nella duplice qualita` richiamata, le necessarie riunioni e i sopralluoghi, e omettendo di vigilare sulla corretta gestione del cantiere, consentendo in particolare l’esecuzione dei lavori nel vano ascensore all’interno del quale si era verificato l’infortunio de quo, in occasione del quale l’infortunato era precipitato, da un’altezza superiore a due metri, da un precario piano di calpestio allestito sul montante orizzontale della struttura in ferro del ridetto vano ascensore»; il secondo «per non aver verificato l’applicazione, da parte delle imprese esecutrici, delle disposizioni loro impartite e contenute nel piano di sicurezza e coordinamento
A) La Sez. IV respinge il ricorso degli imputati.
Quanto al coordinatore, rileva «come la circostanza che l’imputato fosse a conoscenza della realizzazione degli impalcati nel vano ascensore avrebbe dovuto in ogni caso indurlo a verificare la corretta esecuzione dei piani di lavoro, da parte del lavoratore infortunato, senza delegare a quest’ultimo ogni incombente riferibile al controllo della verifica della loro realizzazione in conformità alle norme antinfortunistiche
Ascrive «alla posizione funzionale assunta dal coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione la concreta sussistenza di precisi doveri d’iniziativa e di responsabilità, sul piano della conoscenza effettiva dei processi lavorativi in corso e dei necessari accorgimenti funzionali alla preservazione della tutela delle condizioni di salute e di sicurezza dei lavoratori impegnati nelle lavorazioni riguardanti l’appalto
Osserva che, «secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, diversamente da quanto sostenuto dall’imputato, in tema di prevenzione antinfortunistica, al coordinatore per l’esecuzione dei lavori non è assegnato esclusivamente il compito di organizzare il lavoro tra le diverse imprese operanti nello stesso cantiere, bensì anche quello di vigilare sulla corretta osservanza da parte delle stesse delle prescrizioni del piano di sicurezza e sulla scrupolosa applicazione delle procedure di lavoro a garanzia dell’incolumità dei lavoratori, spettando al coordinatore per l’esecuzione dei lavori la titolarità di un’autonoma posizione di garanzia che, nei limiti degli obblighi specificamente individuati dalla legge, si affianca a quelle degli altri soggetti destinatari delle norme antinfortunistiche, e comprende, non solo l’istruzione dei lavoratori sui rischi connessi alle attività lavorative svolte e la necessità di adottare tutte le opportune misure di sicurezza, ma anche la loro effettiva predisposizione, nonché il controllo continuo ed effettivo sulla concreta osservanza delle misure predisposte al fine di evitare che esse siano trascurate o disapplicate, nonché, infine, il controllo sul corretto utilizzo, in termini di sicurezza, degli strumenti di lavoro e sul processo stesso di lavorazione
Insegna che «il coordinatore per l’esecuzione dei lavori è tenuto a verificare, attraverso un’attenta e costante opera di vigilanza, l’eventuale sussistenza di obiettive situazioni di pericolo nel cantiere, e tanto, in relazione a ciascuna fase dello sviluppo dei lavori in corso di esecuzione.»
Prende atto che, «nel caso di specie, logicamente si è tratto, dall’accertata avvenuta acquisizione della conoscenza, da parte dell’imputato, della necessità di procedere all’esecuzione di lavorazioni all’interno del vano ascensore aperto all’interno del fabbricato in corso di costruzione, l’insorgenza dello specifico dovere, riferibile alla sua posizione funzionale, di provvedere all’immediata adozione di tutte le cautele concretamente necessarie a impedire che l’esecuzione di attività lavorative all’interno di tale vano potesse costituire un potenziale pericolo per l’incolumità dei lavoratori ivi coinvolti.»
B) Per quanto concerne il committente, la Sez. IV premette che, «in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, mentre in capo al datore di lavoro incombe l’obbligo di predisporre le idonee misure di sicurezza, nonché quelli di impartire le direttive da seguire a tale scopo e di controllarne costantemente il rispetto da parte dei lavoratori, nel caso di prestazioni lavorative eseguite in attuazione di un contratto d’appalto, al committente è ascritta la piena corresponsabilità con l’appaltatore per le violazioni delle misure prevenzionali e protettive sulla base degli obblighi sullo stesso incombenti ai sensi di legge, con la conseguenza che la responsabilità dell’appaltatore non esclude quella del committente, da ritenersi corresponsabile unitamente al primo, qualora l’evento si ricolleghi causalmente ad una sua omissione colposa
Precisa che «il committente (unitamente al responsabile dei lavori) è chiamato a verificare l’adempimento da parte dei coordinatori degli obblighi di assicurare e di verificare il rispetto, da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento, nonché la corretta applicazione delle procedure di lavoro
Ne desume che «al committente (così come al responsabile dei lavori) è attribuito dalla legge un compito di verifica non meramente formale, bensì una posizione di garanzia particolarmente ampia, comprendente l’esecuzione di controlli sostanziali e incisivi su tutto quel che concerne i temi della prevenzione, della sicurezza del luogo di lavoro e della tutela della salute del lavoratore, accertando, inoltre, che i coordinatori adempiano agli obblighi sugli stessi incombenti in detta materia
Constata che, nel caso di specie, si è «correttamente ascritta alla posizione del committente l’inosservanza dell’obbligo di vigilare sul corretto adempimento degli obblighi cautelari da parte dell’impresa esecutrice, il cui rispetto avrebbe consentito di rilevare la situazione di pericolo creata attraverso la realizzazione, da parte del lavoratore infortunato, dei piani di lavoro all’interno del vano ascensore, eventualmente scongiurandola, in tal senso indiscutibilmente ponendosi in termini di immediata e diretta relazione causale con l’infortunio verificatosi» (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 06.05.2013 n. 19382 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 6/2013).

EDILIZIA PRIVATA: CONDIZIONI PER L’EQUIPARAZIONE DELLA RESPONSABILITA' DEL NUDO PROPRIETARIO A QUELLA DELL’USUFRUTTUARIO.
Al fine di configurare la responsabilità del ‘‘nudo’’ proprietario di un appartamento per la realizzazione d’interventi abusivi è necessaria la sussistenza di elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che questi abbia concorso, anche solo moralmente, con l’usufruttuario dell’immobile, tenendo conto della piena disponibilità giuridica e, di fatto, del suolo e dell’interesse specifico a effettuare la nuova costruzione, così come dei rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario, della sua eventuale presenza ‘‘in loco’’, dello svolgimento di attività di vigilanza dell’esecuzione dei lavori, della richiesta di provvedimenti abilitativi in sanatoria, del regime patrimoniale dei coniugi, ovvero di tutte quelle situazioni e comportamenti positivi o negativi dai quali possano trarsi elementi integrativi della colpa.
Sostanzialmente nuova, anche se risolta con la coerente applicazione di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, è la questione oggetto di attenzione da parte della Cassazione nella vicenda in esame, in cui i Supremi Giudici sono stati chiamati a pronunciarsi sull’ammissibilità di una responsabilità concorsuale del nudo, proprietario formalmente non committente, in presenza di attività edilizie abusive poste in essere sull’immobile di sua proprietà.
La vicenda processuale segue alla conferma, da parte dei giudici d’appello, di una sentenza di condanna del GIP presso il Tribunale, che aveva dichiarato responsabili del reato di costruzione abusiva edilizia i nudi proprietari di due appartamenti e gli usufruttuari dei medesimi, per aver eseguito opere edilizie in difformità dei titoli rilasciati. Contro la sentenza di condanna proponevano ricorso per Cassazione, per quanto qui di interesse, i difensori dei nudi proprietari delle unità immobiliare, censurandola per aver la corte di merito parificato erroneamente la posizione dei proprietari e dei nudi proprietari, senza distinguere gli obblighi che gravano su ciascuno in funzione del loro titolo.
La tesi è stata accolta dai giudici di legittimità che, pur ritenendo fondate le argomentazioni difensive, hanno annullato senza rinvio la sentenza per intervenuta prescrizione del reato.
In particolare, nell’affermare il principio di cui in massima, i giudici di Piazza Cavour hanno chiarito come la sentenza impugnata non avesse indicato gli elementi che hanno condotto a ritenere che la responsabilità del nudo proprietario dovesse essere equiparata a quella degli usufruttuari, essendo diversamente richiesti dalla giurisprudenza alcuni elementi per sostenere una responsabilità concorsuale (v., tra le tante, sulla responsabilità del proprietario non committente: Cass. pen., sez. III, 15.07.2005, n. 26121, in CED Cass., n. 231954) (Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 16.04.2013 n. 17336 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2013).

EDILIZIA PRIVATA: INAPPLICABILITA' DELLA SANATORIA GIURISPRUDENZIALE O IMPROPRIA AI REATI EDILIZI.
La sanatoria giurisprudenziale o impropria attiene ad un provvedimento giustificabile in relazione ai principi generali inerenti al buon andamento e all’economia dell’azione amministrativa; il tutto in riferimento ad opere che, benché non conformi alle norme urbanistiche/edilizie ed alle previsioni degli strumenti di pianificazione al momento in cui le stesse vennero eseguite, lo siano diventate successivamente per effetto di normative/o disposizioni sopravvenute.
Detto permesso in sanatoria non determina, tuttavia, l’estinzione del reato urbanistico, non essendo applicabile il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 45, per carenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36.

Il tema oggetto di esame da parte della Suprema Corte attiene, all’applicabilità dell’istituto della cd. sanatoria giurisprudenziale (o impropria) alle opere abusive edilizie, con particolare riferimento all’effetto estintivo che la stessa può o meno esplicare sui reati edilizi.
La vicenda processuale vedeva imputati gli attuali ricorrenti dei reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 44, 64, 71, 65, 72, 93, 95 e 94 (ossia costruzione di manufatti abusivi con violazione delle prescrizioni in materia di opere in conglomerato cementizio e della normativa antisismica); all’esito del doppio giudizio di merito gli stessi venivano condannati con demolizione delle opere abusive.
Contro la sentenza di condanna gli interessati proponevano ricorso per Cassazione, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione, in particolare esponendo che non sussisteva la responsabilità penale degli stessi essendo intervenuto il rilascio di valida concessione in sanatoria.
La tesi è stata però respinta dai giudici di legittimità che, nell’affermare il principio di cui in massima, hanno fatto coerente applicazione di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, formatosi ormai da tempo nella giurisprudenza secondo cui non è applicabile la disciplina del condono edilizio né è invocabile la cosiddetta sanatoria ‘‘giurisprudenziale’’ o ‘‘impropria’’ in presenza di una conformità postuma dell’opera, originariamente abusiva, alle norme urbanisticoedilizie ovvero alle previsioni degli strumenti pianificatori, atteso che da ciò non seguirebbe comunque alcun effetto estintivo del reato urbanistico per l’inapplicabilità dell’art. 45 D.P.R. n. 380 del 2001 (v., sul punto: Cass. pen., sez. III, 21.06.2007, n. 24451, in CED Cass., n. 236912) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.04.2013 n. 16769 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2013).

EDILIZIA PRIVATA: REALIZZAZIONE DI AUTORIMESSA E NECESSITA' DEL PDC.
A seguito della modifica legislativa della norma di cui alla L. n. 122 del 1989, art. 9, comma 5, introdotto dal D.L. n. 5 del 2012, art. 10, è consentito esclusivamente trasferire -in epoca successiva alla realizzazione dell’autorimessa- la proprietà del parcheggio con contestuale destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso Comune; non è , invece, consentita sin dall’inizio la realizzazione del parcheggio senza preventiva individuazione nel titolo edilizio del fabbricato cui l’autorimessa è asservita.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame verte sull’eventuale incidenza penale della modifica legislativa operata dal D.L. n. 5/2012 in tema di parcheggi.
La vicenda processuale segue all’impugnazione dell’ordinanza con cui il tribunale del riesame, nell’esaminare una richiesta di revoca di un sequestro preventivo avente ad oggetto un’autorimessa, dichiarava inammissibile l’appello per la sussistenza del giudicato cautelare ovvero, in via subordinata, respingeva il gravame.
In sede di ricorso per Cassazione, la difesa dell’indagato sosteneva che, a seguito della modifica legislativa della norma di cui alla L. n. 122 del 1989, art. 9, comma 5, introdotto dal D.L. n. 5 del 2012, art. 10, la nozione di pertinenzialità del parcheggio era stata estesa a qualunque immobile ubicato nel Comune interessato, anche se l’individuazione di detto immobile veniva effettuato dopo la realizzazione a mezzo di semplice DIA.
La tesi è stata però respinta dagli Ermellini che, sul punto, hanno ritenuto che la predetta disciplina legislativa consente esclusivamente di trasferire -in epoca successiva alla realizzazione dell’autorimessa- la proprietà del parcheggio con contestuale destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso Comune; il tutto in deroga alla originaria destinazione del parcheggio ad unità immobiliare già individuata nel titolo edilizio che aveva legittimato la costruzione. Detta norma, tuttavia, non consente sin dall’inizio la realizzazione del parcheggio senza preventiva individuazione nel titolo edilizio del fabbricato cui l’autorimessa è asservita.
Consegue che -mancando, all’epoca della presentazione della DIA attinente al cosiddetto primo livello delle autorimesse, la individuazione delle abitazioni servite- detta DIA non costituiva valido titolo per la realizzazione delle autorimesse, essendo necessario il preventivo rilascio del permesso di costruire.
La Corte ha, quindi, riconfermato la tradizionale giurisprudenza di legittimità secondo cui i parcheggi realizzati nelle aree urbane fuori dal perimetro dell’edificio e quelli, sotterranei o meno, costruiti fuori del centro urbano richiedono il permesso di costruire (v., da ultimo: Cass. pen., sez. III, 19.01.2012, n. 2191, in CED Cass., n. 251891) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.04.2013 n. 16495 - tratto da Urbanistica e appalti n. 6/2013).

EDILIZIA PRIVATA: RAPPORTI TRA L’ACCERTAMENTO DI COMPATIBILITA' PAESAGGISTICA ED IL REATO DI CUI ALL’ART. 734 C.P..
In presenza dell’esito positivo dell’accertamento di compatibilità paesaggistica, il giudice ha l’obbligo di indicare concretamente le ragioni per le quali -in relazione alla  natura delle bellezze naturali e caratteristiche del paesaggio, nonché di quelle del manufatto realizzato-, dev’essere ritenuta sussistente la distruzione o l’alterazione di tali bellezze a fronte della diversa valutazione espressa dall’amministrazione preposta alla tutela del vincolo.
La questione esaminata dalla Cassazione nella sentenza in commento riguarda l’individuazione di un ambito di rilevanza espressa che la procedura cd. di compatibilità paesaggistica può esplicare rispetto a reati diversi da quelli paesaggistici propriamente detti (art. 181, D.Lgs. n. 42/2004) e, segnatamente, dell’illecito contravvenzionale previsto dall’art. 734 c.p. La vicenda processuale vedeva imputati due titolari di un’officina meccanica del reato di cui all’art. 734 c.p., loro ascritto per avere alterato le bellezze naturali di un’area sottoposta a vincolo paesaggistico, realizzando una tettoia per il ricovero di un impianto tecnologico in aderenza all’officina  meccanica dagli stessi gestita.
La sentenza aveva, invece, assolto i due imputati dal reato paesaggistico loro ascritto (D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181), per effetto del rilascio del certificato di compatibilità paesaggistica della predetta tettoia: sul punto, la sentenza aveva affermato che la valutazione di compatibilità paesaggistica della tettoia da parte dell’autorità amministrativa non scrimina la configurabilità della fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 734 c.p., che punisce chi deturpa o abbruttisce il paesaggio.
Contro la sentenza di condanna hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati sostenendo, per quanto qui di interesse, che la fattispecie di cui all’art. 734 c.p. costituisce reato di danno, che deve essere accertato in concreto dal giudice di merito; in particolare, la sentenza impugnata non conterrebbe una motivazione riferibile all’accertamento dell’esistenza di un danno per il paesaggio derivante dalla realizzazione della tettoia, né, del resto, il giudice penale può ignorare le valutazioni della pubblica amministrazione in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’intervento, ma ne deve tenerne conto con adeguata motivazione.
La tettoia è stata, infatti, realizzata in aderenza ad un manufatto destinato ad officina, ubicato in zona destinata dal Comune ad area artigianale ed era stata ritenuta, pertanto, compatibile con gli strumenti urbanistici di destinazione della zona.
Tesi, questa, che è stata accolta dalla Cassazione che, nell’affermare il principio di cui in massima, ha ben evidenziato come la sentenza si fosse limitata ad affermare l’autonomia della valutazione dell’autorità giudiziaria ordinaria rispetto a quella della pubblica amministrazione, senza concretamente indicare le ragioni per le quali, in relazione alla natura delle bellezze naturali e caratteristiche del paesaggio, nonché di quelle del manufatto realizzato, dovesse essere ritenuta sussistente la distruzione o alterazione di tali bellezze, peraltro in difformità della diversa valutazione espressa dall’amministrazione preposta alla tutela del vincolo.
Si tratta di argomentazione condivisibile che, si noti, si pone in linea di continuità con quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui il reato di cui all’art. 734 c.p. (distruzione o deturpamento di bellezze naturali), si configura in presenza di un effettivo e grave danno ambientale, che risulta anche da impatti negativi di tipo percettivo-visivo, storico-culturale in dimensione locale, di quartiere e urbana, come da impatti negativi sull’ecosistema, sul paesaggio e sulla fauna (Cass. pen., sez. III, 26.03.2001, n. 11716, in CED Cass., n. 221203) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.04.2013 n. 16479 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2013).

EDILIZIA PRIVATA: NECESSITA' DI DISTINGUERE LA RESPONSABILITA' DEL PROGETTISTA E QUELLA DEL DIRETTORE DEI LAVORI.
Le diverse figure professionali del progettista e del direttore dei lavori, pur potendo coincidere nella medesima persona, devono di regola essere tenute distinte, dovendosi quindi escludere la responsabilità del progettista, anche a titolo di concorso, considerando che la fase di redazione di un progetto, anche se difforme dalla normativa vigente, va tenuta distinta da quella di direzione dei lavori, non potendosi configurare un nesso di causalità tra la redazione del progetto e l’attività di attuazione dello stesso, per la quale soltanto sussiste rilevanza penale.
Il tema, di estremo interesse, oggetto di attenzione da parte della Corte Suprema nella decisione in esame verte sull’esatta delimitazione del perimetro applicativo della disciplina edilizia quanto agli obblighi (e correlative responsabilità) gravanti sul progettista e sul direttore dei lavori.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza di condanna che aveva riconosciuto responsabile dei reati edilizi e paesaggistici il direttore dei lavori, in concorso con il proprietario committente, per aver eseguito in zona soggetta a vincolo paesaggistico, lavori di costruzione di una villetta ad un’elevazione fuori terra di circa 100 mq in totale difformità dalla concessione edilizia rilasciata, che prevedeva la realizzazione di un fabbricato rurale di 67 mq.
Avverso tale pronuncia il direttore dei lavori proponeva ricorso per cassazione, deducendo la violazione di legge in relazione alla valutazione delle emergenze processuali che assume erronea, in considerazione del fatto che sarebbe stata documentalmente dimostrata la sua estraneità agli interventi realizzati, confermata anche dai testimoni escussi, non avendo egli rivestito la qualifica attribuitagli di direttore dei lavori, avendo curato esclusivamente i lavori interni, mentre la progettazione della struttura in cemento armato, che esulava dalle sue competenze di geometra, era stata effettuata da altro soggetto.
La tesi difensiva è stata ritenuta priva di giuridico fondamento da parte degli Ermellini che, nell’affermare il principio di cui in massima, hanno chiarito come occorre sempre distinguere il diverso ruolo del progettista delle strutture in cemento armato da quello del direttore dei lavori, rilevando che la prestazione professionale del primo non esonera comunque il secondo dall’adempimento dei doveri connessi alla qualifica di direttore dei lavori (in precedenza, sulla distinzione dei ruoli, v. Cass. pen., sez. III, 20.02.2003, n. 8420 R, in CED Cass., n. 224166) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.04.2013 n. 16204 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2013).

EDILIZIA PRIVATA: LIVELLAMENTO DI TERRENI CON ESTIRPAZIONE DI VEGETAZIONE E CONFIGURABILITA' DEL REATO PAESAGGISTICO.
L’attività di livellamento di un terreno con estirpazione della vegetazione in area sottoposta a vincolo paesaggistico è idonea a configurare il reato di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181, stante la concreta incidenza sull’aspetto esteriore dell’area medesima.
La questione su cui la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi nel caso in esame riguarda le conseguenze derivanti dall’esecuzione delle attività di livellamento di terreni, accompagnate dall’estirpazione della vegetazione. I fatti contestati all’imputata concernevano l’esecuzione di opere, su un’area di circa 15.000 mq, consistenti nello spianamento del terreno per circa 60/70 cm di altezza, lo spiegamento dello stesso con estirpazione, mediante mezzi meccanici, di essenze di macchia mediterranea al fine di renderlo coltivabile, con conseguente danneggiamento delle specie vegetali spontanee e trasformazione morfologica del terreno medesimo.
All’esito del giudizio di merito, la stessa veniva condannata per il reato paesaggistico. Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per cassazione la difesa, censurando la ritenuta sussistenza della violazione paesaggistica, stante la concreta inoffensività della condotta, la quale sarebbe desumibile dalla circostanza che la macchia mediterranea rimossa è stata comunque sostituita da piante di ulivo, pure oggetto di particolare tutela, sebbene riferita alle piante secolari e dalla circostanza che l’intervento eseguito sarebbe stato oggetto di autorizzazione postuma, attestante la compatibilità paesaggistica delle opere realizzate.
La tesi difensiva non ha però convinto gli Ermellini che, nel respingere il ricorso, hanno affermato il principio di cui in massima, sottolineando come le opere descritte erano state realizzate senza la preventiva autorizzazione dell’ente preposto alla tutela del vincolo, ed era pertanto evidente che non potesse assumere alcun rilievo la circostanza che l’intervento fosse finalizzato alla realizzazione di un uliveto e che le piante di ulivo sarebbero state pure oggetto di specifica protezione, non soltanto perché mancava comunque un titolo abilitativo per l’esecuzione delle opere, ma anche perché l’attenzione rivolta dal legislatore regionale riguarda le piante secolari (in precedenza, sulla necessità dell’autorizzazione da parte dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo in consimili ipotesi, v. Cass. pen., sez. II, 12.03.2012, n. 9395, in CED Cass., n. 252174) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.04.2013 n. 16184 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2013).

EDILIZIA PRIVATA: Impianti fotovoltaici: illegittimo il frazionamento della potenza di un unico impianto.
La
Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 08.04.2013 n. 15988 ha confermato il provvedimento di sequestro preventivo adottato per un impianto fotovoltaico di potenza superiore a 20 kw realizzato in assenza di autorizzazione unica regionale.
In particolare il provvedimento aveva ad oggetto 10 impianti fotovoltaici ciascuno con potenza inferiore ad 1 megawatt ubicati su terreni limitrofi con destinazione agricola, originariamente appartenenti ad un unico proprietario e ceduti, previo frazionamento, a società diverse.
Il sequestro era stato disposto poiché, ad avviso del Tribunale di Brindisi, tutti gli impianti dovevano essere considerati un unico complesso unitario per la produzione di energia elettrica, della potenza di circa 10 megawatt, riconducibile al medesimo centro economico giuridico di interessi, cui facevano capo tutte le società che avevano presentato la DIA.
Inoltre era stato altresì ravvisato il reato di lottizzazione abusiva (ex art. 44 d.p.r. 380/2001) sia negoziale che materiale a seguito del frazionamento dei terreni e della trasformazione di un'area da agricola in industriale.
Avverso questo provvedimento veniva proposto ricorso per cassazione nel quale veniva sostenuta la legittimità dell'intervento sia in applicazione della l.r. Puglia (art. 27 l.r. 1/2008 - applicabile ratione temporis) che consentiva l'utilizzo della DIA per impianti di potenza elettrica nominale fino ad 1 megawatt sia in relazione al fatto che il concetto, alla base del provvedimento di sequestro, di "unico centro di interessi giuridico economico" non trovasse riscontro nella normativa civilistica delle società.
La cassazione ha ritenuto infondato il ricorso.
Il giudice adito, dopo aver richiamato la normativa nazionale e regionale in merito alla costruzione di impianti rinnovabili ha precisato che "…ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 3, lett. e3), gli impianti per la produzione di energie alternative, tra cui i fotovoltaici, rientrano tra gii interventi di nuova costruzione e che, in applicazione della normativa specifica del settore, quelli di potenza inferiore ai 20 Kw possono essere realizzati a seguito di presentazione della DIA, mentre quelli di potenza superiore devono essere assentiti mediante il rilascio del permesso di costruire, che è compreso nell'autorizzazione unica regionale di cui al D.Lgs. n. 387 del 2003, art. 12, comma 3".
Sulla base di queste considerazioni è stato precisato come la realizzazione di impianti fotovoltaici di potenza superiore a 20 kw in assenza dell'autorizzazione unica regionale integra il reato di cui al d.p.r. 380/2001 articolo 44, lett. b.
Inoltre è stato ritenuto inconferente il richiamo alla normativa regionale della regione puglia che consentiva la costruzione di impianti fotovoltaici con potenza inferiore a 1 megawatt poiché tale limite era stato ampiamente superato considerata l'unicità dell'impianto; e questo sia nell'ipotesi in cui l'intero intervento fosse riconducibile ad una fittizia creazione di una pluralità di soggetti societari finalizzata ad aggirare la normativa in materia di autorizzazione unica, sia nel caso di sostanziale realizzazione da parte di più società di un unico impianto di energia elettrica di origine fotovoltaica, fittiziamente frazionato.
Per quanto riguarda il reato di lottizzazione abusiva, la Cassazione, pur sottolineando come gli impianti fotovoltaici possono essere ubicati anche in zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici, purché risulti salvaguardata l'utilizzazione agricola del territorio ha precisato che "… anche con riferimento agli impianti fotovoltaici, realizzati in assenza della prescritta autorizzazione, è ipotizzabile il reato di lottizzazione abusiva allorché per le dimensioni dell'impianto, in relazione alla superficie residua del territorio, non risulti salvaguardata la sua utilizzazione agricola e si determini, quindi, lo stravolgimento dell'assetto ad esso attribuito dagli strumenti urbanistici".
In conclusione, il frazionamento di un unico impianto fotovoltaico finalizzato alla sola elusione della normativa in materia di autorizzazione unica integra il reato di cui all'articolo 44, comma 1, lett. b), del d.p.r. 380/2001, e legittima l'adozione del provvedimento di sequestro preventivo (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGOCertificato di prevenzione incendi e autorizzazione all’apertura di un esercizio alberghiero.
Condannato per il reato di abuso di ufficio di cui all’art. 323 c.p. «perché rilasciava una licenza per l’esercizio di una struttura alberghiera in assenza del certificato di prevenzione antincendio, in violazione dell’art. 4 della legge n. 966/1965 e dell’art. 3, commi 1 e 5, D.P.R. n. 37/1998, e inoltre per la capienza di 19 camere in contrasto con il parere del dipartimento di prevenzione della ASL che segnalava un’altezza dei locali inferiore a quella minima prevista», il segretario generale e dirigente delle attività produttive di un comune lamenta che «nessuna norma prevede il rilascio della certificazione antincendio come condizione legittimante l’autorizzazione amministrativa all’apertura di un esercizio, costituendo tale certificato solo un presupposto dell’esercizio concreto dell’attività», «tanto che, a seguito della comunicazione del Comando dei VV.FF. del mancato rilascio del nulla osta era stata immediatamente disposta la sospensione dell’attività
Pur dichiarando la prescrizione del reato, la Sez. III ne trae spunto per precisare che, «contrariamente a quanto dedotto, il rilascio del certificato di prevenzione incendi è requisito legittimante l’autorizzazione amministrativa all’apertura di un esercizio alberghiero, come si ricava inequivocabilmente dal tenore dell’art. 2 D.P.R. 12.01.1998, n. 37 (disciplina poi rielaborata prima con il D.Lgs. n. 139/2006 e poi con il D.P.R. n. 151/2011), che si riferisce agli ‘‘enti’’, oltre che ai ‘‘privati’’ responsabili delle attività per le quali è richiesto una simile certificazione.» (Per alcune indicazioni giurisprudenziali in argomento, nonché per un inquadramento del D.P.R. n. 151/2011, v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, IV edizione, Ipsoa, Milano, 2012, 392 ss.) (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 27.03.2013 n. 14450 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 6/2013).

EDILIZIA PRIVATA: DELIBERA DI CONSIGLIO COMUNALE E ORDINE DI DEMOLIZIONE.
Per arrestare l’ordine di demolizione non è sufficiente, sulla base del dettato del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31, comma 5, una delibera di consiglio comunale che dichiari l’esistenza di prevalenti interessi pubblici e che l’opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali, essendo invece necessari tutti i dettagli tecnici, economici e normativi che dovranno formare oggetto di ulteriori, conseguenti, atti.
Oggetto della decisione esaminata dalla Cassazione è il tema dei rapporti intercorrenti tra le iniziative dell’Autorità amministrativa in presenza di un immobile abusivo edilizio di cui sia stata ordinata la demolizione e l’ordine medesimo impartito dall’Autorità giudiziaria.
La vicenda processuale segue all’emanazione da parte del giudice dell’esecuzione di rigetto di una richiesta di revoca o sospensione dell’ordine di demolizione di manufatto abusivo, impartito con sentenza di condanna passata in giudicato, per intervenuta acquisizione da parte del consiglio comunale dell’immobile in oggetto, insieme ad altri, al fine di trasformarlo in alloggio di edilizia residenziale sovvenzionata. Il GE motivava il rigetto considerando la delibera comunale predetta, in ogni caso illegittima giacché mancante di indicazione di impegno di spesa e di istruttoria svolta per singolo immobile inerente l’effettiva praticabilità dell’intervento, un mero atto di indirizzo non contenente alcuna indicazione specifica.
Ricorrevano in cassazione i condannati, sostenendo, per quanto di interesse in questa sede, che per arrestare l’ordine di demolizione sarebbe sufficiente, sulla base del dettato del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31, comma 5, una delibera di consiglio comunale che dichiari l’esistenza di prevalenti interessi pubblici e che l’opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali senza che siano necessari tutti i dettagli tecnici, economici e normativi che dovranno formare oggetto di ulteriori, conseguenti, atti.
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che, nell’affermare il principio di cui in massima, hanno respinto il ricorso concordando con le argomentazioni del giudice di merito che, qualificando, sotto tale profilo, come ‘‘atto di indirizzo’’ la delibera in oggetto e reputando in definitiva come solo eventuale e futura la valutazione dei presupposti di legge cui l’art. 31 D.P.R. n. 380/2001 condiziona la non operatività della demolizione, ha, conformandosi ai principi sopra enunciati, legittimamente escluso nella specie l’effetto ostativo della demolizione, propriamente derivante solo da una valutazione in termini di attualità degli interessi pubblici alla conservazione dell’opera e della mancanza di contrasto con rilevanti interessi urbanistici (di recente, nel senso che rientra tra i poteri del giudice dell’esecuzione il sindacato sulla compatibilità dell’ordine di demolizione contenuto nella sentenza di condanna con la delibera di acquisizione gratuita dell’opera abusiva al patrimonio comunale, v. Cass. pen., sez. III, 11.03.2013, n. 11419 inedita) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.03.2013 n. 13746 - tratto da Urbanistica e appalti n. 6/2013).

EDILIZIA PRIVATA: LA SPONTANEA DEMOLIZIONE DEL MANUFATTO ABUSIVO NON ELIMINA IL DANNO URBANISTICO.
Ha rilevanza penale l’elusione del controllo che l’autorità amministrativa è chiamata ad esercitare, in via preventiva e generale, sull’attività edilizia assoggettata al regime concessorio e, quando un’attività siffatta venga iniziata senza il preventivo assenso dell’amministrazione comunale, si ha inesistenza di un danno urbanistico soltanto nell’ipotesi di cui al D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 36 (già L. n. 47 del 1985, art. 13: conformità delle opere agli strumenti urbanistici fin dal momento della loro realizzazione), mentre, al di fuori di tale ipotesi, l’eliminazione spontanea del manufatto abusivo non vale ad eliminare l’antigiuridicità sostanziale del fatto reato: il territorio, infatti, ha comunque subito un vulnus, pur se vi è stata una successiva attività spontanea rivolta ad elidere le conseguenze dannose del reato.
La questione giuridica sottoposta al vaglio della Cassazione nel caso in esame attiene alla incidenza in sede penale della eventuale spontanea demolizione di un manufatto abusivo, valutabile in senso da escludere il cd. danno urbanistico.
La vicenda processuale vedeva imputati due soggetti cui era stato addebitata la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), per avere realizzato opere edilizie (lo spianamento di un’area di circa 900 mq, l’ampliamento di un preesistente stradone interpoderale, la creazione di una rampa di circa 50 mq, un muretto di delimitazione di una strada) in assenza del prescritto permesso di costruire.
Contro la sentenza di condanna proponevano ricorso per Cassazione gli stessi sostenendo, per quanto d’interesse in questa sede, l’esclusione della loro responsabilità penale attesa l’intervenuta eliminazione delle opere oggetto di addebito.
La tesi non è stata però accolta dalla Cassazione che, nel respingere il ricorso, ha ribadito il principio secondo cui la demolizione delle opere abusive non comporta l’estinzione del reato commesso con la loro costruzione (v., tra le tante, di recente: Cass. pen., sez. III, 05.03.2013, n. 10245, in CED Cass., n. 254430, che ha aggiunto inoltre che la demolizione spontanea delle opere abusive -al di fuori della tassativa ipotesi prevista dall’art. 8-quater della L. 21.06.1985, n. 298, di conversione del D.L. 23.04.1985, n. 146, riferita alle operazioni eseguite entro la data di entrata in vigore della disposizione normativa (07.07.1985)- pur non producendo l’estinzione del reato urbanistico, può essere comunque valutata ai fini della determinazione della pena, della mancanza di un danno penalmente rilevante e della buona fede dell’imputato) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.03.2013 n. 13738 - tratto da Urbanistica e appalti n. 6/2013).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: REATO DI ABUSO D’UFFICIO DEL PUBBLICO UFFICIALE NEL RILASCIO DI TITOLI EDILIZI E COMPRESENZA DI FINALITA' PUBBLICISTICA.
Il dolo intenzionale del delitto di abuso d’ufficio non è escluso dalla mera compresenza di una finalità pubblicistica nella condotta del pubblico ufficiale, essendo necessario, per ritenere insussistente l’elemento soggettivo, che il perseguimento del pubblico interesse costituisca il fine primario dell’agente.
Interessante la questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte nella vicenda in esame, in cui la Cassazione si sofferma ad esaminare un profilo rilevante sotto il profilo della sussistenza dell’elemento psicologico del reato di abuso d’ufficio in caso di rilascio di titoli edilizi.
La vicenda processuale vedeva imputati, da un lato, il geometra responsabile dell’ufficio tecnico comunale, cui era stato addebitato di aver intenzionalmente procurato un ingiusto vantaggio patrimoniale al legale rappresentante di una s.r.l., rilasciandogli illegittimamente n. 3 permessi di costruzione in variante della originaria concessione edilizia, in area assoggettata a vincolo paesaggistico, senza l’autorizzazione preventiva della Soprintendenza per i beni e le attività culturali ed in difformità dalle previsioni del PRG del Comune, consentendo una volumetria complessiva ed un numero di piani superiori ai limiti consentiti.
In sede di merito, però, entrambi gli imputati venivano assolti dal reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) loro contestato, evidenziando la mancanza di prova in ordine a qualsivoglia ‘‘relazione o accordo stretto’’ intercorsi tra il funzionario comunale ed il legale rappresentante della s.r.l. ed aderendo all’orientamento interpretativo secondo il quale -quando è pacifica la coincidenza del fine realizzato nel procedimento amministrativo con l’interesse pubblico- non è ipotizzabile il reato di abuso di ufficio, atteso che l’eventuale vantaggio verrebbe a profilarsi come effetto indiretto derivante dal perseguimento del pubblico interesse.
Contro la sentenza assolutoria proponeva ricorso per cassazione la difesa della parte civile, lamentando violazione di legge in ordine alla individuazione dell’elemento soggettivo del reato, prospettando la configurabilità evidente del dolo intenzionale, «attesi l’enormità, l’aberrazione, la volontaria travisazione della realtà e la volontaria reiterazione cosciente dei comportamenti palesemente illeciti posti in essere dagli imputati nella considerazione altresì influente e quindi del tutto inesorabile dell’esperienza del geometra».
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che, nell’affermare il principio di cui in massima, hanno fatto coerente applicazione della giurisprudenza di legittimità secondo cui l’intenzionalità del dolo non è esclusa dalla compresenza di una finalità pubblicistica nella condotta del pubblico ufficiale, dovendosi ritenere necessario, per escludere la configurabilità dell’elemento soggettivo, che il perseguimento del pubblico interesse costituisca l’obiettivo principale dell’agente, con conseguente degradazione del dolo di danno o di vantaggio da dolo di tipo intenzionale a mero dolo diretto od eventuale (v., ex multis: Cass. pen., sez. VI, 24.02.2012, n. 7384, in CED Cass., n. 252498; Id., sez. III, 13.05.2011, n. 18895, in CED Cass., n. 250374).
Orbene, poiché nel caso in esame la parte civile ricorrente non aveva escluso la presenza di una finalità pubblica nell’azione amministrativa del geometra ed aveva omesso di specificare quali fossero gli elementi sintomatici da cui potesse desumersi l’effettiva e prevalente intenzione del funzionario comunale di favorire se stesso e/o recare vantaggi patrimoniali al privato, con particolare riguardo alla entità concreta delle accertate violazioni di legge e di piano ed ai rapporti intercorrenti ed intercorsi tra soggetto agente e soggetto avvantaggiato, il ricorso è stato correttamente respinto dalla Cassazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.03.2013 n. 13735 - tratto da Urbanistica e appalti n. 6/2013).

URBANISTICA: LE POSSIBILI FORME DI MANIFESTAZIONE DELLA LOTTIZZAZIONE MATERIALE DI TERRENI EDILIZI.
L’attività lottizzatoria illegittima si configura non soltanto nel caso in cui l’intervento edilizio non potrebbe essere in nessun caso realizzato per essere le sue connotazioni oggettive in contrasto con previsioni di zonizzazione e/o localizzazione dello strumento generale di pianificazione, non suscettibili di essere modificati da piani urbanistici attuativi, ma anche attraverso qualsiasi utilizzazione del suolo che, indipendentemente dalla entità del frazionamento fondiario e dal numero dei proprietari, preveda la realizzazione contemporanea o successiva di una pluralità di edifici a scopo residenziale, turistico o industriale, che postulino l’attuazione di opere di urbanizzazione primaria o secondaria, occorrenti per le necessità dell’insediamento, oppure in presenza di un intervento sul territorio tale da comportare una nuova definizione dell’assetto preesistente in zona non urbanizzata o non sufficientemente urbanizzata, per cui esiste la necessità di attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale attraverso la redazione e la stipula di una convenzione lottizzatoria adeguata alle caratteristiche dell’intervento di nuova realizzazione.
Particolarmente interessante la questione oggetto di attenzione da parte della Cassazione nella vicenda in esame, in cui la Corte affronta ancora una volta il tema della configurabilità dell’illecito lottizzatorio, soffermandosi in particolare sulla figura della lottizzazione abusiva cd. materiale.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con cui il tribunale del riesame ha rigettato il ricorso avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal Giudice per le indagini preliminari e concernente alcuni terreni e fabbricati nel procedimento a carico di alcuni soggetti indagati, tra l’altro per il reato di lottizzazione abusiva.
Le condotte loro ascritte concernono la realizzazione di una lottizzazione abusiva posta in essere mediante la costruzione di un complesso immobiliare composto da più corpi di fabbrica per complessivi 8 edifici e 178 appartamenti, con modifica della destinazione di zona e superamento degli indici di densità edilizia, la esecuzione di opere difformi rispetto all’atto concessorio ritenuto illegittimo, la costruzione in assenza di permesso di costruire di muri destinati a contenere i terrapieni artificiali realizzati anche in contrasto con la prevista viabilità di collegamento ed il rilascio di un permesso di costruire in variante illegittimo che, in assenza di un preventivo piano di lottizzazione, consentiva la costruzione di nuovi fabbricati con altezze e numero di piani superiori a quelli consentiti dalle nuove norme tecniche intervenute.
Contro l’ordinanza di rigetto proponeva ricorso per Cassazione sia il PM che la difesa degli indagati, in particolare sostenendo il primo, per quanto qui di interesse, che la totale assenza di urbanizzazione o la parziale urbanizzazione, tale da rendere necessario un raccordo con il preesistente aggregato abitativo ed il potenziamento delle opere d’urbanizzazione, sono elementi determinanti per la configurabilità della lottizzazione abusiva che avrebbero dovuto essere oggetto di adeguata considerazione da parte dei giudici del riesame, specie in presenza di significativi dati fattuali in tal senso, quale quello per cui l’assenza totale di opere di urbanizzazione sarebbe documentalmente dimostrata.
La prospettazione accusatoria ha fatto breccia nelle valutazioni della cassazione che ha, infatti, ritenuto fondato il ricorso del PM disponendo l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata. In particolare, richiamando giurisprudenza consolidata, la Corte ha riaffermato il principio secondo cui si ritiene configurabile la lottizzazione abusiva anche in mancanza di pianificazione attuativa, per le zone non urbanizzate o per quelle ove preesistono opere di urbanizzazione proporzionalmente insufficienti, sia qualitativamente sia quantitativamente, a soddisfare i bisogni abitativi dei residenti, presenti e futuri (v., ex multis: Cass. pen., sez. III, 13.06.2011, n. 23646, in CED Cass., n. 250521) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.03.2013 n. 13038 - tratto da Urbanistica e appalti n. 6/2013).

EDILIZIA PRIVATA: INTERVENTI EDILIZI IN ZONE SIC NON PRECEDUTI DA VALUTAZIONE DI INCIDENZA E REATO EDILIZIO.
Integra il reato previsto dall’art. 44, comma 1, lett. b), del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 l’esecuzione di interventi edilizi in zone individuate come SIC (siti di importanza comunitaria), se non preceduta dalla valutazione di incidenza prevista dall’art. 5, comma 8, del D.P.R. 08.09.1997, n. 357 da parte della Regione territorialmente competente.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte verte, nel caso in esame, sulla configurabilità o meno del reato edilizio in caso di interventi eseguiti in zona individuate come siti di importanza comunitaria, in difetto della cd. valutazione di incidenza prevista dalla vigente normativa.
La vicenda processuale segue al rigetto da parte del tribunale dell’istanza di riesame proposta dall’indagato insieme ad altri interessati avverso il decreto con cui il GIP aveva disposto il sequestro preventivo di un fabbricato, da destinare a residenza agricola, composto da piano terra e seminterrato con relativa recinzione. Per tale fabbricato era stato rilasciato permesso di costruire, che, a giudizio del tribunale adito deve considerarsi illegittimo in quanto non ha tenuto conto del vincolo SIC/ZPS (sito di interesse comunitario e zona di protezione speciale) istituito con la legge regionale per l’area nella quale risulta ubicato il terreno di insediamento del manufatto (si tratta di un’area ad alta concentrazione di insediamenti rupestri, necropoli e siti archeologici, caratterizzata da fenomeni carsici e ricca di risorse naturalistiche).
La mancata rilevazione di detto vincolo, in base all’impostazione accusatoria, ha comportato l’illegittimità del titolo abilitativo edilizio per l’omessa acquisizione della valutazione d’incidenza del progetto sull’area, la cui necessità è prescritta dal D.P.R. 08.09.1997, n. 357, come modificato dal D.P.R. 12 marzo 2003, n. 120. E' stato configurato, pertanto, in ragione dell’omissione, il reato di cui al D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. b). Contro l’ordinanza proponeva ricorso per Cassazione la difesa dell’indagato deducendo la propria estraneità al fatto illecito contestato, sostenendo di essere solo l’attuale proprietario del fabbricato assoggettato a sequestro, mentre il permesso di costruire risulta rilasciato a suo padre.
La tesi non ha però convinto i giudici di legittimità che, sul punto, hanno respinto il ricorso, affermando il principio di diritto di cui in massima. La Corte, più nello specifico, ha rilevato che il D.P.R. 08.09.1997, n. 357 (Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche), all’art. 5, comma 8, in relazione agli interventi da eseguirsi nelle zone individuate come SIC (siti di interesse comunitario) stabilisce che «l’autorità competente al rilascio dell’approvazione definitiva del piano o dell’intervento acquisisce preventivamente la valutatone di incidenza, eventualmente individuando modalità di consultazione del pubblico interessato dalla realizzazione degli stessi». Viene dunque chiaramente specificato che la valutazione d’incidenza deve precedere il rilascio del titolo abilitativo edilizio.
La prevista procedura ha, infatti, lo scopo di analizzare e valutare gli effetti di una particolare attività all’interno dei siti d’importanza comunitaria, individuando anche eventuali misure per contenerne l’impatto e favorire la conservazione dell’ambiente. Si tratta, quindi, di un procedimento preventivo il cui scopo è, evidentemente, quello di assicurare un adeguato equilibrio tra la conservazione del sito ed un uso sostenibile del territorio anche in ossequio ai principi comunitari di precauzione e prevenzione dell’azione ambientale.
Da qui, dunque, la necessità della previa valutazione d’incidenza che, in difetto, rende configurabile la violazione edilizia ipotizzata (v., in senso conforme: Cass. pen., sez. III, 27.02.2012, n. 7613, in CED Cass., n. 252106) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.03.2013 n. 13037 - tratto da Urbanistica e appalti n. 6/2013).

EDILIZIA PRIVATA: SANATORIA EDILIZIA, DOPPIA CONFORMITA' E ATTIVITA' VINCOLATA DELLA P.A..
Al fine del rilascio del provvedimento di sanatoria, ex D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36, è necessario che l’intervento edilizio sia conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente, sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda; ciò si riconnette ad una attività vincolata della p.a., consistente nell’applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all’Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale.
La Corte di Cassazione si sofferma, con la sentenza in esame, ad analizzare il tema della sanatoria edilizia, focalizzando in particolare l’attenzione sulla natura giuridica dell’attività amministrativa sottesa all’esercizio del potere valutativo dell’istanza di sanatoria.
La vicenda processuale segue al rigetto da parte del GIP di un’istanza di dissequestro avanzata nell’interesse dell’indagato per i reati di abuso d’ufficio e costruzione edilizia abusiva; la misura cautelare aveva per oggetto un immobile in fase di edificazione in proprietà all’indagato medesimo. Il tribunale del riesame, chiamato a pronunciarsi sull’appello interposto dall’indagato, con ordinanza rigettava il gravame. La difesa proponeva ricorso per cassazione, sostenendo la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), e art. 36, per la ritenuta non conformità del permesso di costruire in sanatoria al modello ex art. 36 citato decreto.
La tesi è stata ritenuta infondata dagli Ermellini che, nell’affermare il principio di cui in massima, hanno richiamato una consolidata giurisprudenza (v., tra le tante: Cass. pen., sez. III, 24.03.2011, n. 11960, in CED Cass., n. 249747), peraltro osservando, in relazione al caso in esame, che il provvedimento, lungi dall’asseverare la doppia conformità di un’opera ultimata, e già conforme alle regole urbanistiche ed edilizie, presentava il contenuto tipico di un nuovo titolo abilitativo e si riferiva ad un mutamento della destinazione d’uso, autorizzata con il precedente permesso, mutamento che, tuttavia, risultava già realizzato mediante la edificazione della casa colonica al posto del mero deposito di attrezzi agricoli.
Stante la natura ibrida dell’atto, non inquadrabile in una sanatoria, che presupporrebbe l’assenza di prescrizioni e condizioni (v., sul punto: Cass. pen., sez. III, 12.11.2007, n. 41567, in CED Cass., n. 238020), né un permesso in variante, che dovrebbe precedere e non seguire la realizzazione dell’opera difforme, il giudice di merito ha concluso, correttamente secondo la Cassazione, col ritenere che il provvedimento de quo rappresentasse delle nette dissonanze rispetto all’istituto della sanatoria, sicché lo stesso non poteva essere produttivo di alcun effetto estintivo dell’abuso edilizio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.03.2013 n. 13020 - tratto da Urbanistica e appalti n. 6/2013).

EDILIZIA PRIVATA: CONDIZIONI PER L’AFFERMAZIONE DELLA RESPONSABILITA' DEL COMPROPRIETARIO.
Il comproprietario ha il potere di porre il veto all’esecuzione di opere non assentite sull’area in comunione e, se questi è il coniuge del comproprietario committente dell’opera, non può non tenersi conto della stretta comunanza di interessi, che rendono il coniuge, di norma, naturalmente partecipe di tutte le deliberazioni di rilevanza familiare, a meno che l’interessato non provi, al contrario, che tali presupposti non ricorrano nel caso concreto, per una qualsiasi ragione.
La Corte Suprema torna a pronunciarsi, con la sentenza in esame sul tema della responsabilità del (compro)prietario dell’opera edilizia sulla quale siano eseguiti interventi edilizi.
La vicenda processuale vedeva imputati due coniugi di alcuni reati urbanistici ed edilizi per avere realizzato nella qualità di proprietari, in assenza del permesso di costruire, una tettoia in legno di mq 30,50, un corpo di fabbrica da destinare a civile abitazione, della superficie di mq 139, con struttura portante in cemento armato e conci di tufo, con annesse verande, una piattaforma di cemento armato di mq 65, con 10 pilastri in 6 dei quali già si evidenziava la gittata cementizia.
Contro la sentenza di condanna proponevano ricorso per Cassazione i due imputati, sostenendo, per quanto qui di interesse, l’insussistenza sia dell’elemento soggettivo del reato contestato, che dei presupposti per affermare il concorso degli imputati con la committente dei lavori; in particolare, la qualifica di comproprietario del terreno costituirebbe un mero indizio ai fini dell’affermazione della responsabilità penale, che nel caso avrebbe dovuto essere esclusa, stante l’assenza di qualsiasi contributo, seppure morale alla realizzazione del fatto.
La tesi è stata però respinta dalla Cassazione che, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, precisando che la responsabilità del proprietario o comproprietario, non formalmente committente delle opere abusive, può dedursi da indizi quali la piena disponibilità della superficie edificata, l’interesse alla trasformazione del territorio, i rapporti di parentela o affinità con l’esecutore del manufatto, la presenza e la vigilanza durante lo svolgimento dei lavori, il deposito di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria, la fruizione dell’immobile secondo le norme civilistiche sull’accessione nonché tutti quei comportamenti (positivi o negativi) da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione anche morale alla realizzazione del fabbricato (v., da ultimo: Cass. pen., sez. III, 03.07.2012, n. 25669, in CED Cass., n. 253065; in precedenza, v. Cass. pen., sez. III, 22.06.2000, n. 7314, in CED Cass., n. 216971) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.03.2013 n. 11820 - tratto da Urbanistica e appalti n. 6/2013).

LAVORI PUBBLICI: Opere superspecialistiche. Associazioni obbligate ko. Il parere del Consiglio di stato sul decreto sugli appalti.
Pollice verso dal Consiglio di stato contro alcune norme in tema di appalti contenute nel regolamento di attuazione del codice dei contratti pubblici.

Il parere 11.01.2013 n. 38 reso nell'adunanza della commissione speciale di Palazzo Spada boccia le disposizioni contenute nel dpr 207/2010 laddove penalizza le imprese generali: il provvedimento, infatti, individua ben ventiquattro categorie «superspecialistiche» che impongono la necessaria costituzione dell'associazione temporanea di imprese verticale per poter partecipare alla gara.
Contraddizione in termini
Le censure arrivano da un gruppo di grandi gruppi, attivi soprattutto nel campo delle grandi opere.
Gli effetti del sistema sarebbero penalizzanti per le imprese generali, le quali, pur se in possesso della qualificazione nella categoria generale prevalente, non sarebbero più in grado di eseguire alcuna opera da sole, ma sarebbero costrette, praticamente per tutti gli appalti, a subaffidare opere non ricomprese nelle proprie qualificazioni «generali» e, per moltissime categorie, anche ad associare altre imprese.
In effetti, riconosce Palazzo Spada, le norme sembrano contraddittorie: da una parte c'è la regola generale secondo cui l'affidatario dei lavori in possesso della qualificazione nella categoria prevalente può eseguire direttamente tutte le lavorazioni si cui si compone l'opera, anche qualora sia privo delle relative qualificazioni; dall'altra c'è la tabella sintetica delle categorie: ben 46 delle 52 categorie complessivamente indicate risultano a qualificazione obbligatoria e quindi non realizzabili direttamente dall'affidatario ma necessariamente da subappaltare.
Nell'ambito di queste 46 categorie esiste un ulteriore elenco di 24 categorie, per le quali il subappalto è consentito solo nei limiti del 30 per cento: ne consegue che, in presenza delle opere «speciali», l'impresa munita della qualificazione nella categoria prevalente, già solo per partecipare alla gara, deve necessariamente costituire un'Ati verticale con un'impresa qualificata nella categoria «speciale». «Il dato quantitativo», concludono i giudici, «è già sintomatico di un'evidente contraddittorietà». Il ministero delle Infrastrutture è avvisato (articolo ItaliaOggi del 12.07.2013).

AGGIORNAMENTO AL 10.07.2013

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ANNO 2013: E' ARRIVATO LO SBLOCCO DEI LAVORI PUBBLICI E DEGLI ESPROPRI PER PUBBLICA UTILITA'??

     Con l'AGGIORNAMENTO AL 25.03.2013 davamo conto che il "divieto di acquistare immobili, sancito per il 2013, si estende ad ogni tipo di immobile (e non solo ai fabbricati): cioè, si estende anche ai terreni e alle aree agricole. Non solo: tali condizioni devono riferirsi applicabili anche all’acquisizione di immobili per la realizzazione di opere assistite da dichiarazione di pubblica utilità (esproprio)".
     Ora, la recente L. 06.06.2013 n. 64 di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 08.04.2013 n. 35, con l'art. 10-bis ha introdotto una norma di interpretazione autentica dell'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98 il quale così recita:
"Art. 10-bis. Norma di interpretazione autentica dell'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111
1. Nel rispetto del patto di stabilità interno, il divieto di acquistare immobili a titolo oneroso, di cui all'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, non si applica alle procedure relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di cui al d.P.R. 08.06.2001, n. 327, nonché alle permute a parità di prezzo e alle operazioni di acquisto programmate da delibere assunte prima del 31.12.2012 dai competenti organi degli enti locali e che individuano con esattezza i compendi immobiliari oggetto delle operazioni e alle procedure relative a convenzioni urbanistiche previste dalle normative regionali e provinciali."
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     Ebbene, capitano proprio a fagiuolo -in questi giorni- alcuni pareri della Corte dei Conti che interpretano la novità legislativa de qua, la quale consente agli Enti Locali di respirare una boccata di ossigeno ... a Voi il piacere di leggere tali pareri di seguito riportati.
10.07.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

PATRIMONIO: La Sezione si pronuncia in merito alla richiesta di parere del Sindaco del Comune di Bene Lario (CO), in materia di permuta immobiliare.
Per effetto della recente norma di interpretazione autentica (legge 06.06.2013, n. 64), si deve ritenere che il divieto di acquisto di immobili di cui all’art. 12 del D.L. n. 98/2011 non sia ostativo alle acquisizioni effettuate a seguito di permute a parità di prezzo.
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Il Sindaco del Comune di Bene Lario (CO) ha formulato alla Sezione una richiesta di parere in materia di permuta immobiliare, del seguente tenore.
Il bene oggetto della permuta è un immobile dato in uso perpetuo alla parrocchia di SS. Vito e Modesto che la utilizza come casa parrocchiale, ma la nuda proprietà è rimasta in capo al Comune di Bene Lario. La Curia ha chiesto di acquistare la nuda proprietà della casa parrocchiale e offre in permuta terreni di proprietà che si trovano sul territorio di Bene Lario.
Il Comune sarebbe disponibile alla permuta, in considerazione del fatto che il bene non è utilizzabile a fini istituzionali.
Alla luce dell’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012, che ha disposto il divieto alle pubbliche amministrazioni e tra queste gli enti locali, di acquistare a qualsiasi titolo beni immobili, l’organo rappresentativo dell’ente chiede se sia possibile concludere l’operazione di permuta con la Curia in considerazione del fatto che l’operazione di per sé si caratterizza per lo scambio di immobili, senza pagamento di prezzo in denaro.
...
La Sezione si è già espressa in numerosi precedenti sul tema del divieto di acquisto di immobili sancito dall’art. 1, comma 138, della Legge 24.12.2012 n. 228. Tali pronunce, rese in sede consultiva, devono intendersi integralmente richiamate (SRC Lombardia, deliberazione nn .73/2013/PAR; 162/2013/PAR; 163/2013/PAR, 164/2013/PAR, 173/2013/PAR, 181/2013/PAR, 193/2013/PAR).
Segnatamente, l’art. 12 del decreto-legge 06.07.2011, n. 98 (convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111), novellato dalla richiamata norma del 2012 dispone: «1-quater. Per l’anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, nonché le autorità indipendenti, ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), non possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad avere la disponibilità di immobili venduti. Sono esclusi gli enti previdenziali pubblici e privati, per i quali restano ferme le disposizioni di cui ai commi 4 e 15 dell’articolo 8 del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122. Sono fatte salve, altresì, le operazioni di acquisto di immobili già autorizzate con il decreto previsto dal comma 1, in data antecedente a quella di entrata in vigore del presente decreto».
Inoltre, decorso il periodo di sospensione di cui alla prefata norma, ai sensi del comma 1-ter: «1-ter. A decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente».
Il principio della inapplicabilità del divieto in oggetto alle procedure di permuta “pura” è stato affermato nella deliberazione n. 162/2013.
Successivamente è intervenuta la legge 06.06.2013, n. 64, la quale ha proceduto alla conversione, con modificazioni, del decreto-legge 08.04.2013, n. 35 (recante “Disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonché in materia di versamento di tributi degli enti locali. Disposizioni per il rinnovo del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria”).
Tale fonte contiene al suo interno una “Norma di interpretazione autentica dell'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111” (art. 10-bis) il quale, in modo risolutivo esclude dalla portata applicativa della disposizione alcune ipotesi, e segnatamente: «1. Nel rispetto del patto di stabilità interno, il divieto di acquistare immobili a titolo oneroso, di cui all'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, non si applica alle procedure relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di cui al D.P.R. 08.06.2001, n. 327, nonché alle permute a parità di prezzo e alle operazioni di acquisto programmate da delibere assunte prima del 31.12.2012 dai competenti organi degli enti locali e che individuano con esattezza i compendi immobiliari oggetto delle operazioni e alle procedure relative a convenzioni urbanistiche previste dalle normative regionali e provinciali».
In definitiva, in relazione all’oggetto del quesito,
per effetto della recente norma di interpretazione autentica, si deve concludere che il divieto di acquisto di immobili di cui all’art. 12 del D.L. n. 98/2011 non sia ostativo alle acquisizioni effettuate a seguito di permute a parità di prezzo (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 28.06.2013 n. 268).

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: La Sezione si pronuncia in merito alla richiesta di parere del Presidente della Regione Lombardia, relativamente all’interpretazione 12, comma 1-quater, della legge n. 111/2011 (comma inserito dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012).
In relazione all’oggetto del primo quesito, per effetto della recente norma di interpretazione autentica, si deve concludere che il divieto di acquisto di immobili di cui all’art. 12 del D.L. n. 98/2011 non sia ostativo alle acquisizioni effettuate all’interno delle procedure di cui al T.U. n. 327/2001 (testo unico espropriazione).
Per quanto riguarda il secondo quesito, resta impregiudicato il precedente quadro ermeneutico della giurisprudenza della Sezione. Ne consegue che,
ferme le eccezioni legali (ivi compresa la normativa sugli espropri, laddove applicabile), in linea di principio il divieto di acquisto a titolo oneroso riguarda non solo le procedure ascrivibili al patrimonio disponibile, ma anche quelle finalizzate al perseguimento di obiettivi previsti da legge regionale e statale riconducibili al demanio o al patrimonio indisponibile dell’ente. E’, comunque, fatta salva la salvaguardia del principio di necessità.

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Il Presidente della Regione Lombardia ha formulato alla Sezione una richiesta di parere del seguente tenore.
L’articolo 12, comma 1-quater, della legge n. 111/2011 (comma inserito dall’articolo 1, comma 138, della legge n. 228/2012) prevede quanto segue: “per l'anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'ISTAT ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, (…), non possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad avere la disponibilità di immobili venduti. Sono esclusi gli enti previdenziali pubblici e privati, per i quali restano ferme le disposizioni di cui ai commi 4 e 15 dell'articolo 8 del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122. Sono fatte salve, altresì, le operazioni di acquisto di immobili già autorizzate con il decreto previsto dal comma 1, in data antecedente a quella di entrata in vigore del presente decreto".
Il Presidente della Regione chiede se il divieto posto dall’articolo 12, comma 1-quater, della legge n. 111/2011 riguardi:
a) l’acquisizione tramite il procedimento espropriativo;
b) l’acquisizione al patrimonio indisponibile di aree ad elevata valenza naturalistica e forestale ai sensi dell’art. 5, comma 1, della l.r. 86/1983
.
a. Acquisizione tramite procedimento espropriativo
La norma, ponendo in via generale il divieto di acquisizione di immobili a titolo oneroso, sembra non lasciare spazio ad alcuna eccezione così da ritenere incluso nel divieto anche l’acquisizione dell’immobile a seguito dell’espropriazione per pubblica utilità, dal momento che anche l’espropriazione comporta l’acquisizione di immobili a titolo oneroso.
Tuttavia l’applicazione della norma con riguardo alle espropriazioni si tradurrebbe nel divieto, per l’anno 2013, di realizzare anche le opere di pubblica utilità, quali le opere idrauliche, le opere di difesa del suolo, o comunque opere infrastrutturali in relazione alle quali gli immobili da espropriare sono da intestare al demanio pubblico o al patrimonio indisponibile.
In tali casi, si ritiene che la sospensione del procedimento espropriativo comporterebbe un sacrificio dell’interesse pubblico di rilievo superiore o comunque sicuramente comparabile all’interesse di riduzione della spesa pubblica.
Si chiede, pertanto, se il divieto di acquisto a titolo oneroso comporti l’indiscriminata sospensione per il 2013 di tutte le procedure espropriative, indipendentemente dalla finalità e dalla natura dell’opera da realizzare, o se occorra distinguere tra procedure volte all’acquisizione di immobili ascrivibili al demanio o al patrimonio indisponibile (ad esempio procedure di esproprio volte alla realizzazione di opere idrauliche, opere di difesa del suolo, opere infrastrutturali) e procedure relative ad immobili, pur riconosciuti di pubblica utilità, ascrivibili al patrimonio disponibile.
b) Acquisizione al patrimonio indisponibile di aree ad elevata valenza naturalistica e forestale ai sensi dell’art. 5, comma 1, della l.r. 86/1983
L’art. 5, comma 1, della L.r. n. 86/1983 dispone che “I piani dei parchi e delle riserve prevedono l'acquisizione in proprietà pubblica delle aree per le quali i piani medesimi prevedano un uso pubblico nonché delle aree per le quali i limiti alle attività antropiche comportino la totale inutilizzazione”.
La regione Lombardia, a decorrere dall’anno 2000, in attuazione dell’art. 5, comma 1, della l.r. 86/1983, ha attivato un processo di acquisizione al patrimonio indisponibile di aree ad elevata valenza naturalistica e forestale, localizzate all’interno del Sistema regionale delle aree protette (Parchi Regionali e Naturali, Riserve e Monumenti Naturali) e strumentali all’attività degli Enti gestori.
Nel corso degli anni, tale attività ha consentito l’acquisizione al patrimonio regionale di aree di rilevanza naturalistica, per una superficie catastale complessiva pari a circa 775 ettari. Questa superficie è ripartita in 24 Aree Protette Regionali, tra cui otto Riserve e Monumenti Naturali, quattordici Parchi Regionali e due PLIS.
Una volta acquisite, le aree entrano a far parte del patrimonio forestale regionale indisponibile e, successivamente, vengono assegnate in concessione agli enti gestori delle aree protette.
Le modalità di acquisizione al patrimonio regionale di aree, di proprietà privata, ad alta valenza naturale, sono state, da ultimo, definite con deliberazione di Giunta Regionale n. IX/2109 del 04.08.2011.
Le risorse disponibili per l’acquisizione delle aree sono allocate annualmente in un capitolo di bilancio appositamente dedicato.
Anche in questo caso l’estensione del divieto a questa tipologia di acquisto comporterebbe un sacrificio dell’interesse pubblico di rilievo superiore o comunque comparabile all’interesse di riduzione della spesa: ciò in quanto l’acquisizione di che trattasi è strumentale al perseguimento di obiettivi di tutele e salvaguardia riconducibili a Rete Natura 2000 (d.P.R. 357/1997), anche con presenza di habitat e specie prioritarie (Direttiva 92/43 CEE “Habitat”) o ad emergenza naturalistica (faunistiche/floristiche) a rischio di compromissione (legge regionale 10/2008 e d.g.r. 7736/2008).
Il Presidente della Regione chiede, pertanto, se il divieto di acquisto a titolo oneroso riguardi le sole procedure ascrivibili al patrimonio disponibile con esclusione di quelle, finalizzate al perseguimento di obiettivi previsti da legge regionale e statale e, in quanto tali, riconducibili al demanio o al patrimonio indisponibile dell’ente.
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La Sezione si è già espressa in numerosi precedenti sul tema del divieto di acquisto di immobili sancito dall’art. 1, comma 138 della Legge 24.12.2012 n. 228. Tali pronunce, rese in sede consultiva, devono intendersi integralmente richiamate (SRC Lombardia, deliberazione nn. 73/2013/PAR; 162/2013/PAR; 163/2013/PAR, 164/2013/PAR, 173/2013/PAR, 181/2013/PAR, 193/2013/PAR).
Segnatamente, l’art. 12 del decreto-legge 06.07.2011, n. 98 (convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111), novellato dalla richiamata norma del 2012 dispone: «1-quater. Per l’anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, nonché le autorità indipendenti, ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), non possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad avere la disponibilità di immobili venduti. Sono esclusi gli enti previdenziali pubblici e privati, per i quali restano ferme le disposizioni di cui ai commi 4 e 15 dell’articolo 8 del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122. Sono fatte salve, altresì, le operazioni di acquisto di immobili già autorizzate con il decreto previsto dal comma 1, in data antecedente a quella di entrata in vigore del presente decreto».
Inoltre, decorso il periodo di sospensione di cui alla prefata norma, ai sensi del comma 1-ter: «1-ter. A decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente».
Il tema della estensibilità del divieto in oggetto alle procedure di esproprio è stato ampiamente affrontato nelle deliberazioni nn. 162 e 163/2013/PAR, nonché nn. 169 e 193/2013/PAR e nelle pronunce di altre Sezioni ivi richiamate.
In tali deliberazioni la Sezione riteneva che il ridetto divieto si applicasse alle procedure di esproprio, salve le procedure collegate ad opere di urgenza, anche a salvaguardia del principio di necessità (in questo senso anche SRC Liguria
parere 31.01.2013 n. 9).
Successivamente a tali pronunce rese dalla Magistratura contabile in sede consultiva, è intervenuta la legge 06.06.2013, n. 64, la quale ha proceduto alla conversione, con modificazioni, del decreto-legge 08.04.2013, n. 35 (recante “Disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonché in materia di versamento di tributi degli enti locali. Disposizioni per il rinnovo del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria”).
Tale fonte contiene al suo interno una “Norma di interpretazione autentica dell'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111” (art. 10-bis) che, in modo risolutivo esclude dalla portata applicativa della disposizione alcune ipotesi, tra cui quelle relative alle procedure per acquisti di pubblica utilità di cui al T.U. espropriazioni (D.P.R 327/2001), e segnatamente: «1. Nel rispetto del patto di stabilità interno, il divieto di acquistare immobili a titolo oneroso, di cui all'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, non si applica alle procedure relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di cui al D.P.R. 08.06.2001, n. 327, nonché alle permute a parità di prezzo e alle operazioni di acquisto programmate da delibere assunte prima del 31.12.2012 dai competenti organi degli enti locali e che individuano con esattezza i compendi immobiliari oggetto delle operazioni e alle procedure relative a convenzioni urbanistiche previste dalle normative regionali e provinciali».
In definitiva, in relazione all’oggetto del primo quesito,
per effetto della recente norma di interpretazione autentica, si deve concludere che il divieto di acquisto di immobili di cui all’art. 12 del D.L. n. 98/2011 non sia ostativo alle acquisizioni effettuate all’interno delle procedure di cui al T.U. n. 327/2001 (testo unico espropriazione).
Per quanto riguarda il secondo quesito, resta impregiudicato il precedente quadro ermeneutico della giurisprudenza della Sezione. Ne consegue che,
ferme le eccezioni legali (ivi compresa la normativa sugli espropri, laddove applicabile), in linea di principio il divieto di acquisto a titolo oneroso riguarda non solo le procedure ascrivibili al patrimonio disponibile, ma anche quelle finalizzate al perseguimento di obiettivi previsti da legge regionale e statale riconducibili al demanio o al patrimonio indisponibile dell’ente. E’, comunque, fatta salva la salvaguardia del principio di necessità (Corte dei Conti, Sez. contr. Lombardia, n. 162/2013) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 28.06.2013 n. 267).

LAVORI PUBBLICIQuesta Sezione ritiene che se per “accordo bonario” si fa riferimento all’atto di cessione volontaria cui fa espresso riferimento l'art. 20, comma 9, DPR 327/2001, l’ipotesi rientra senz’altro tra quelle escluse dal divieto di acquisire beni immobili. Infatti, la cessione volontaria è atto conclusivo del procedimento di espropriazione, comportando l'effetto traslativo della proprietà interessata dalla realizzazione dell'opera pubblica.
Come ha ricordato la Cassazione (sent. 11.03.2006, n. 5390), la cessione volontaria è contratto c.d. ad oggetto pubblico che si inserisce necessariamente nell’ambito di un procedimento di espropriazione; produce l’effetto di concludere il procedimento espropriativo senza emettere decreto di esproprio. Il proprietario, in seguito ad un sub procedimento, ha diritto di stipulare l’atto di cessione volontaria e il prezzo è determinato secondo criteri inderogabili stabiliti dalla legge.
In maggior dettaglio, si differenzia dalla compravendita di diritto comune per i seguenti elementi: a) si inserisce necessariamente in un procedimento espropriativo e consente di raggiungere il medesimo risultato (acquisizione della proprietà) con uno strumento di natura privatistica, alternativo al decreto di esproprio; b) il prezzo per il trasferimento volontario del fondo è correlato in modo vincolante a parametri di legge previsti per il calcolo dell’indennità di esproprio (la pa espropriante offre un’indennità all’espropriando il quale può solo rifiutarla o accettarla puramente e semplicemente).

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Il Commissario Straordinario della Provincia di Varese ha posto alla Sezione un quesito sull’interpretazione dell’art. 12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111.
In particolare, l’ente provinciale chiede se nel divieto legislativo in parola rientri anche l’ipotesi di “accordo bonario” per l’acquisizione di diritti immobiliari su aree di proprietà privata, nell’ambito di un progetto finanziato in parte dalla provincia (nella veste di capofila beneficiario coordinatore di un progetto presentato alla Ce all’interno del quarto bando LIFE+ dell’anno 2010).
Nell’istanza di parere si precisa che la Provincia aveva già fatto la variazione di bilancio nell’anno 2011 per realizzare l’opera e che gli acquisiti sono finanziati da fondi provenienti da una fonazione bancaria che assunto la veste di “soggetto esterno non pubblico” che partecipa alla realizzazione del progetto.
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Venendo al merito della richiesta, il quesito posto dall’ente provinciale va ricondotto alla portata della norma introdotta dall’art. 12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, laddove recita che “le Amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della Pubblica Amministrazione di acquisire immobili a titolo oneroso e di stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti ovvero la locazione sia stipulata per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad avere la disponibilità di immobili venduti”.
Nelle more dell’adunanza è intervenuta la L. 06.06.2013, n. 64 di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 08.04.2013, n. 35 che all’art. art. 10-bis ha introdotto una norma di interpretazione autentica dell'articolo 12 testé richiamato.
In particolare, il comma 1 ha stabilito che <<nel rispetto del patto di stabilità interno, il divieto di acquistare immobili a titolo oneroso, di cui all'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, non si applica alle procedure relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di cui al d.P.R. 08.06.2001, n. 327, nonché alle permute a parità di prezzo e alle operazioni di acquisto programmate da delibere assunte prima del 31.12.2012 dai competenti organi degli enti locali e che individuano con esattezza i compendi immobiliari oggetto delle operazioni e alle procedure relative a convenzioni urbanistiche previste dalle normative regionali e provinciali>>.
Chiarito il quadro normativo, occorre affrontare la questione se nel divieto legislativo in parola rientri anche l’ipotesi di “accordo bonario” per l’acquisizione di diritti immobiliari su aree di proprietà privata, nell’ambito di un progetto finanziato in parte dalla provincia (nella veste di capofila beneficiario coordinatore di un progetto presentato alla Ce all’interno del quarto bando LIFE+ dell’anno 2010).
Prima dell’intervento della norma di interpretazione autentica, la magistratura contabile in sede consultiva ha reso numerose pronunce (investe questioni che sono state oggetto di trattazione in analoghe pronunce, ex plurimis SRC Lombardia deliberazioni n. 3/2013/PAR e n. 102/2013/PAR; SRC Liguria
parere 31.01.2013 n. 9 e SRC Marche, deliberazione n. 7/2013/PAR).
Tuttavia, alla stregua della norma di interpretazione autentica successivamente intervenuta,
occorre affrontare la questione se la fattispecie rappresentata rientri in una delle ipotesi in cui il divieto di acquisto non opera e, più in particolare, nell’ipotesi di “acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di cui al d.P.R. 08.06.2001, n. 327”.
L’ente provinciale istante si limita a riferire che la procedura di acquisizione avverrà con “accordo bonario” e che gli acquisiti sono finanziati da fondi provenienti da una fonazione bancaria che assunto la veste di “soggetto esterno non pubblico” che partecipa alla realizzazione del progetto.
Questa Sezione ritiene che
se per “accordo bonario” si fa riferimento all’atto di cessione volontaria cui fa espresso riferimento l'art. 20, comma 9, DPR 327/2001, l’ipotesi rientra senz’altro tra quelle escluse dal divieto di acquisire beni immobili. Infatti, la cessione volontaria è atto conclusivo del procedimento di espropriazione, comportando l'effetto traslativo della proprietà interessata dalla realizzazione dell'opera pubblica. Come ha ricordato la Cassazione (sent. 11.03.2006, n. 5390), la cessione volontaria è contratto c.d. ad oggetto pubblico che si inserisce necessariamente nell’ambito di un procedimento di espropriazione; produce l’effetto di concludere il procedimento espropriativo senza emettere decreto di esproprio.
Il proprietario, in seguito ad un sub-procedimento, ha diritto di stipulare l’atto di cessione volontaria e il prezzo è determinato secondo criteri inderogabili stabiliti dalla legge.
In maggior dettaglio, si differenzia dalla compravendita di diritto comune per i seguenti elementi:
a) si inserisce necessariamente in un procedimento espropriativo e consente di raggiungere il medesimo risultato (acquisizione della proprietà) con uno strumento di natura privatistica, alternativo al decreto di esproprio;
b) il prezzo per il trasferimento volontario del fondo è correlato in modo vincolante a parametri di legge previsti per il calcolo dell’indennità di esproprio (la pa espropriante offre un’indennità all’espropriando il quale può solo rifiutarla o accettarla puramente e semplicemente) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 27.06.2013 n. 262).

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIOLa novella dell'art. 12 del DL 98/2011 (convertito dalla L. 111/2011), operata dal c. 138 dell'art. 1 della L. 228/2012, prevede “Per l’anno 2013 le amministrazioni pubbliche (…) non possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti (…)”.
La stessa disposizione eccettua dal proprio perimetro applicativo una serie di norme. In linea di principio la Sezione ha (del.ne 200/2013) precisato che l’inderogabilità della norma, e la tassatività delle eccezioni indicate, escludono categoricamente ulteriori casi di inapplicabilità della previsioni in relazione alla vantaggiosità dell’operazione, nel senso auspicato dal comune. Circa l’applicabilità del divieto alle fattispecie di espropriazione per pubblica utilità, la questione è stata, tra l’altro, esaminata e confermata dalla SRC Liguria (del.ne 31.03.2013, n. 9).
Non si può concordare con la tesi per cui l’applicazione della norma proibitiva ai casi di espropriazione per pubblica utilità risulterebbe preclusa dalla natura originaria, e non derivativa, dell’acquisto compiuto dall’ente. Il testo della norma, riferito agli “acquisti”, non sembra eccettuare dal proprio perimetro applicativo gli acquisti a titolo originario, in quanto l’esigenza di contenimento delle spese pubbliche sussiste anche per le fattispecie in cui in capo all’ente l’acquisto si determini a titolo originario: la differenza tra le due modalità acquisitive pare irrilevante con riguardo al diverso tema delle ragioni di carattere finanziario. Elemento discretivo potrebbe essere la sussistenza a carico dell’acquirente di un obbligazione pecuniaria, solo requisito sussistente ai fini dell’applicabilità del divieto.
In secondo luogo, il codice civile conosce una serie di ipotesi, a titolo originario, che non prescindono da un’attività dell’acquirente, che può essere in condizione di determinare la propria condotta. Ma, soprattutto, ad abundatiam, il carattere originario dell’acquisto a titolo espropriativo risulta affermazione controversa in dottrina e giurisprudenza. La tesi dell’acquisto a titolo originario si basa su una serie di disposizioni (oggi contenute nel d.p.r. 08.06.2001, 327, t.u. espr.) quali l’art. 2; l’art. 25; più in generale, la circostanza che l’intero procedimento espropriativo prescinda dalla volontà negoziale dell’interessato.
Altra parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene che la qualificazione giuridica dell’acquisto sia condizionata dalle peculiarità della fattispecie e dall’interferenza di un procedimento pubblicistico, che spiegherebbero le norme sopra descritte. Altri elementi sintomatici (l’art. 23 del d.p.r. 327/2001, che prevede la trascrizione dell’acquisto; l’istituto della c.d. retrocessione del bene, che presuppone l’individuazione di un precedente proprietario; più in generale, la potenziale interferenza di momenti di carattere negoziale e volontaristico) indurrebbero a ritenere che l’espropriazione disciplini e incida l’an del trasferimento e non anche il quomodo.
La diatriba risulta superata dal dato normativo: con la L. 64/2013, conversione, con modificazioni, del DL 35/2013, il legislatore ha ritenuto di dettare una disciplina espressa che (art. 10-bis) prevede “Nel rispetto del PdS interno, il divieto di acquistare immobili a titolo oneroso, di cui all'art. 12, c. 1-quater, del DL 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, non si applica alle procedure relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico”.
La sopravvenienza normativa determina la completa rivisitazione del quadro fattuale e normativo e rende superflua l’interpretazione della Sezione. Nulla osta a che l’ente interessato proceda ad acquisizioni espropriative ai sensi del d.p.r. 08.06.2001, n. 327.

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Il comune richiede chiarimenti sull'art. 12, comma 1-quater, della legge 15.07.2011, n. 111, inserito dall'art.1, comma 138, della legge 24.12.2012 n. 228 (legge di stabilità 2013).
In particolare, il comune di Varese, ai fini della realizzazione di opere pubbliche, ha, nel corso degli ultimi anni, acquisito la disponibilità di aree di proprietà di terzi e, ciò, sia in forza di procedure espropriative avviate ai sensi della vigente normativa di cui al d.p.r. 08.06.2001, n. 327, previa occupazione anticipata ex art. 22-bis, concordando in seguito la cessione volontaria dei beni (art. 45) in superamento del procedimento ablatorio; che, in assenza di quest' ultimo, in forza di accordi sin dall'origine raggiunti con la proprietà per la bonaria acquisizione -a titolo oneroso- di dette aree.
Anche nella maggior parte dei casi di accordo bonario, l'ente, per ragioni di qualificata urgenza, ha infatti convenuto con i proprietari di poter occupare le aree necessarie per la realizzazione dell'intervento anteriormente alla stipula del formale atto di compravendita.
Il corrispettivo dell'acquisizione in parola è stato quindi determinato tenendo conto anche dell'indennità dovuta per la suddetta occupazione
Il perfezionamento degli atti di trasferimento immobiliare delle aree già nella disponibilità dell'Amministrazione ed irreversibilmente trasformate per effetto dell'avvenuta realizzazione delle previste opere pubbliche risulterebbe, oggi, inibito, nonostante l'obbligazione in tal senso antecedentemente assunta dall'Amministrazione e l'avvenuto accantonamento delle necessarie risorse finanziarie, dalle disposizioni di cui all'art. 1, comma 138, l. 228/2012.
Non risulterebbe infatti oggettivamente possibile procedere alla retrocessione di dette aree che, pertanto, l'Amministrazione continuerebbe a detenere, mantenendo a proprio diretto carico, pur non avendone la titolarità giuridica, ogni conseguente responsabilità ed onere manutentivo.
Al protrarsi del possesso conseguirebbe, necessariamente, anche un progressivo incremento dell'entità dell'indennità di occupazione dovuta alla proprietà. L'indennità, infatti, non è riferibile all'acquisto del diritto di proprietà o di altro diritto reale, ma, avendo sostanzialmente funzione sostitutiva della mancata percezione dei frutti ritraibili dai beni occupati, è direttamente proporzionale al periodo di occupazione.
Sarebbe quindi, prevedibile, come peraltro già paventato da taluni, che l'alterazione dell'equilibrio economico sotteso all'accordo raggiunto con la proprietà, conseguenza diretta dell'impossibilità per l'Amministrazione di perfezionare l'acquisto, si traduca nella necessità di una rinegoziazione del corrispettivo con la proprietà, con aggravio di costi per l'Amministrazione stessa.
Tanto premesso, il comune richiede se il divieto di procedere ad acquisizioni a titolo oneroso debba ritenersi operante anche in relazione a fattispecie, quali quelle sopra descritte, ove, al contrario, il perfezionamento dell'acquisizione, già nel 2013, si tradurrebbe in un concreto risparmio di spesa per l'Amministrazione.
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La novella dell'art. 12 del decreto-legge 06.07.2011, n. 98 (convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111), operata dal comma 138 dell'art. 1 della legge 24.12.2012, n. 228 prevede che “Per l’anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, nonché le autorità indipendenti, ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), non possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad avere la disponibilità di immobili venduti”.
La stessa disposizione eccettua poi dal proprio perimetro applicativo una serie di norme, e in particolare:
i. gli acquisti compiuti dagli enti previdenziali pubblici e privati (sic);
ii. le operazioni di acquisto di immobili già autorizzate in data antecedente a quella di entrata in vigore del decreto;
iii. le operazioni di acquisto destinate a soddisfare le esigenze allocative in materia di edilizia residenziale pubblica;
iv. le operazioni di acquisto previste in attuazione di programmi e piani concernenti interventi di perequazione socio-territoriale.
In linea di principio la Sezione ha (anche di recente: parere 08.05.2013 n. 200) avuto modo di precisare che l’inderogabilità della norma, e la tassatività delle eccezioni indicate, escludono in modo categorico che ulteriori casi di inapplicabilità della previsioni siano ravvisabili in relazione alla vantaggiosità dell’operazione, e quindi nel senso auspicato dal comune.
Passando al diverso problema relativo all’applicabilità del divieto alle fattispecie di espropriazione per pubblica utilità, tale questione è stata, tra l’altro, esaminata e confermata dalla sezione regionale di controllo per la Liguria della Corte dei Conti (
parere 31.01.2013 n. 9).
Non si può in nessun modo concordare con la tesi per cui l’applicazione della norma proibitiva ai casi di espropriazione per pubblica utilità risulterebbe preclusa dalla natura originaria, e non derivativa, dell’acquisto compiuto dall’ente.
In primis, occorre precisare che il testo della norma, laconicamente riferito agli “acquisti”, non sembra affatto eccettuare dal proprio perimetro applicativo gli acquisti a titolo originario, in quanto l’esigenza di contenimento delle spese pubbliche sussiste, con tutta evidenza, anche per le fattispecie in cui in capo all’ente l’acquisto si determini a titolo originario: la differenza tra le due modalità acquisitive, infatti, se assume un certo pregio al fine della risoluzione dei conflitti tra terzi, pare del tutto irrilevante con riguardo al diverso tema delle ragioni di carattere finanziario.
Elemento discretivo potrebbe, al massimo, essere la sussistenza a carico dell’acquirente di un obbligazione pecuniaria, solo requisito sussistente ai fini dell’applicabilità del divieto (cfr ultra).
In secondo luogo, occorre rammentare che il codice civile conosce una serie di ipotesi (si pensi, a puro titolo di esempio, alla costruzione operata dal fondo con materiali propri o all’usucapione) che, pur essendo a titolo originario, non prescindono certo da un’attività dell’acquirente, che quindi può essere in condizione di determinare la propria condotta.
Ma, soprattutto, ad abundatiam, va precisato che il carattere originario dell’acquisto a titolo espropriativo risulta affermazione ancora controversa in dottrina e giurisprudenza.
La tesi dell’acquisto a titolo originario si basa infatti su una serie di disposizioni (oggi contenute nel d.p.r. 08.06.2001, 327, t.u. espr.) quali l’art. 2, che prevede l’irrilevanza della difettosa individuazione del proprietario; l’art. 25, che indica quale effetto del procedimento l’estinzione dei diritti gravanti sul bene; più in generale, la circostanza che l’intero procedimento espropriativo prescinda dalla volontà negoziale dell’interessato.
Tuttavia, altra parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene che la qualificazione giuridica dell’acquisto sia condizionata dalle peculiarità della fattispecie e dall’interferenza di un procedimento pubblicistico, che spiegherebbero le norme sopra descritte.
Per contro, altri elementi sintomatici (l’art. 23 del d.p.r. 327/2001, che prevede la trascrizione dell’acquisto; l’istituto della c.d. retrocessione del bene, che presuppone l’individuazione di un precedente proprietario; più in generale, la potenziale interferenza di momenti di carattere negoziale e volontaristico – cfr ultra) indurrebbero invece a ritenere che l’espropriazione disciplini e incida l’an del trasferimento e non anche il quomodo.
La diatriba risulta per vero ormai superata dal dato normativo, in quanto, con la legge 06.06.2013, n. 64, di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 08.04.2013, n. 35, il legislatore ha ritenuto di dettare una disciplina espressa che, tra l’altro (art. 10-bis) tra l’altro prevede che “Nel rispetto del patto di stabilità interno, il divieto di acquistare immobili a titolo oneroso, di cui all'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, non si applica alle procedure relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di cui al d.P.R. 08.06.2001, n. 327 (…)”.
La sopravvenienza normativa determina, ovviamente, la completa rivisitazione del quadro fattuale e normativo e, di conseguenza, rende superflua l’interpretazione della Sezione.
Pertanto, nulla osta a che l’ente interessato proceda ad acquisizioni espropriative ai sensi del d.p.r. 08.06.2001, n. 327 (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 27.06.2013 n. 251).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: ALBO GESTORI AMBIENTALI: elenco imprese iscritte (ANCE Bergamo, circolare 05.07.2013 n. 166).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Legislazione nazionale: nuove regole per l’esercizio, la conduzione, il controllo e la manutenzione degli impianti termici (ANCE Bergamo, circolare 05.07.2013 n. 165).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Legislazione nazionale: stabiliti i requisiti professionali degli esperti cui affidare la certificazione energetica (ANCE Bergamo, circolare 05.07.2013 n. 164).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATAImpianti termici: dal 12.07.2013 nuove regole per l’esercizio, il controllo e la manutenzione.
Sulla Gazzetta Ufficiale n. 149 del 27.06.2013 è stato pubblicato il D.P.R. 16.04.2013, n. 74.
Il provvedimento, che entra in vigore il 12 luglio, definisce le nuove regole in materia di esercizio, conduzione, controllo, manutenzione e ispezione degli impianti termici per la climatizzazione invernale ed estiva degli edifici e per la preparazione dell’acqua calda per usi igienici sanitari.
Di seguito segnaliamo i punti più interessanti previsti dal Decreto. ... (04.07.2013 - link a www.acca.it).

LAVORI PUBBLICIPolizze assicurative per i cantieri: ecco una guida utile per il direttore dei lavori e per le imprese.
In base alla norme vigenti, le imprese edili sono spesso chiamate a stipulare polizze assicurative a copertura o fidejussione dei loro impegni assunti in qualità di esecutori di opere.
E la maggior parte di esse sono obbligatorie: ad esempio, in caso di lavori pubblici, l’impresa deve stipulare le seguenti polizze assicurative:
fidejussione provvisoria;
fidejussione definitiva;
fidejussione per svincolo ritenute di garanzia sugli Stati Avanzamento Lavori;
Responsabilità Civile verso Terzi ed Operai (RCT-RCO);
polizza CAR (Constructor’s All Risks).
Altri tipi di polizze sono inoltre previste dalla Legge 210/2004, come ad esempio quelle a tutela di chi acquista un immobile, ossia la fidejussione a garanzia dell’anticipazione degli acconti versati dall’acquirente all’impresa esecutrice per l’acquisto dell’immobile ancora da costruire e la polizza postuma decennale.
Al fine di aiutare il direttore dei lavori a valutare l’esistenza, l’adeguatezza e la correttezza delle polizze sottoscritte dalle imprese con cui lavora, l'Associazione dei geometri fiscalisti (Agefis) ha pubblicato la guida “Le polizze assicurative obbligatorie per l’esecutore dell’opera - cenni utili per il direttore dei lavori”, nella quale sono evidenziate le caratteristiche principali delle stesse.
Nella guida proposta in allegato sono presenti definizioni, casistiche e riferimenti normativi, utili quindi sia alle imprese che ai tecnici chiamati a dirigere i lavori ed a gestire le contabilità di cantiere di lavori pubblici e privati (04.07.2013 - link a www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIEN TE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 dell'08.07.2013, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 30.06.2013, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 01.07.2013 n. 85).

SINDACATI & ARAN

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Possibili contenuti di un contratto decentrato integrativo - Indice ragionato (Comparto Regioni e Autonomie locali - Personale non dirigente) (ARAN, marzo 2013).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

LAVORI PUBBLICIQualificazione per le gare. Imprese a rischio paralisi.
Limitare l'obbligo per le stazioni appaltanti di emettere digitalmente i certificati di esecuzione ai soli lavori seguiti dopo il 2006 e comunque rinviare il divieto di utilizzo dei certificati cartacei alla fine dell'anno, pena l'impossibilità per molte imprese di ottenere la qualificazione per le gare.

È la richiesta formulata all'Autorità per la vigilanza da Unionsoa e Usi, Unione Soa italiane, con una lettera congiunta a firma di Antonio Bargone e Marta Ciummo, rispetto al problema delle certificazioni di esecuzione dei lavori rilasciate dalle amministrazioni alle imprese di costruzioni.
La deliberazione 23.05.2013 n. 24 dell'organismo di vigilanza ha infatti ribadito che è escluso l'utilizzo dei Certificati di esecuzione lavori (Cel) cartacei ai fini dell'ottenimento dell'attestazione di qualificazione che le Soa (Società organismi di attestazione) rilasciano alle imprese per qualificarsi alle gare di importo superiore a 150.000 euro.
In realtà fin dal 2006 le stazioni appaltanti sono obbligate a emettere i Cel esclusivamente in formato digitale ma, come si legge nella lettera inviata al Consiglio dell'Autorità di controllo, ancora oggi molte di esse dichiarano di non avere ancora l'accesso al portale Avcp, utile per la pubblicazione dei Cel digitali, preferendo invece la trasmissione dei certificati in maniera tradizionale cartacea.
Per Unionsoa e Usi, soltanto un numero esiguo di stazioni appaltanti avrebbe utilizzato la procedura telematica. Le due associazioni evidenziano quindi che «la cogenza immediata e letterale dei contenuti della citata Deliberazione n. 24/2013 determinerebbe gravi e incontrollabili problemi operativi in capo a tutti gli attori del sistema».
Da un lato, le «molteplici difficoltà operative lamentate nel corso degli anni dalle stazioni appaltanti nell'inserimento dei Cel» e, dall'altro, la proroga fino al dicembre 2015 dell'utilizzo dei certificati lavori relativi agli ultimi dieci anni (di cui al decreto del fare), unita al perdurare degli effetti dell'art. 357 - dpr 207/2010 riguardo le attestazioni nelle categorie variate, sono elementi negativi tali da determinare «l'impossibilità per moltissime imprese di dimostrare la capacità tecnica per la qualificazione con la conseguente alterazione del principio della libera concorrenza e gravi ripercussioni sul regolare andamento del mercato dei contratti pubblici».
Da ciò la richiesta di un rinvio al primo gennaio 2014 e della limitazione ai soli lavori post 2006 (articolo ItaliaOggi del 09.07.2013).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: La natura ed il contenuto della pianificazione urbanistica, e in particolare dei piani regolatori, consentono l’erogazione dell’incentivo, ex art. 92, comma 6, del Codice dei Contratti pubblici, a favore dei dipendenti che abbiano redatto tali strumenti urbanistici, se e nella misura in cui, sulla base dell’accertamento condotto dall’amministrazione procedente, tali atti afferiscono alla progettazione di opere o impianti pubblici o di uso pubblico.
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Il Sindaco del Comune di Cremona, con nota del 28.05.2013, ha formulato alla Sezione una richiesta di parere inerente la corretta applicazione dell’art. 92, comma 6, del d.lgs n. 163/2006.
Il quesito è posto anche al fine di chiarire la portata applicativa del precedente parere n. 72/2013, reso dalla scrivente Sezione regionale, in particolare laddove afferma che “ciò che rileva ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale (piano regolatore o variante generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante”.
Ciò premesso, il caso specifico del Comune di Cremona afferisce ad atti di pianificazione, redatti dagli uffici interni all’Ente, realizzati, nel corso del 2012, per addivenire alla variante al Piano regolatore generale. Gli atti di pianificazione sono stati realizzati dagli Uffici interni (scelta fatta in un contesto di valorizzazione delle professionalità dell’ente, garantendo, in tal modo, anche il contenimento della spesa). Alla luce della deliberazione della Sezione, sopra richiamata, il Comune ha ritenuto di sospendere, in attesa di chiarimenti, l’erogazione delle somme da ripartire tra il personale interno.
Il quesito sottoposto in questa sede, infatti, attiene all’ammissibilità dell’erogazione dei compensi di cui all’art. 92, comma 6, del D.Lgs n. 163/2006, nel caso di una serie di opere già sviluppate a livello progettuale e pronte per la loro realizzazione, ma non conformi al Piano regolatore previgente, ragion per cui si è reso necessario approntare una variante generale al fine di accompagnare e porre in relazione le trasformazioni sottese alla città ed al suo territorio.
Il Comune precisa che i contenuti della variante al Piano regolatore non sono intimamente connessi alla realizzazione di un’opera pubblica, ma a diverse e molteplici opere pubbliche, presenti nell’atto di pianificazione, con diversi gradi di maturazione progettuale (come da apposito prospetto allegato all’istanza di parere).
Chiede, pertanto, se la fattispecie della redazione della variante urbanistica, con l'introduzione di molteplici opere pubbliche, rende ammissibile l'erogazione dell'incentivo di cui all'art. 92, comma 6, del d.lgs 163/2006, tenendo anche conto del recente parere normativo rilasciato dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici n. 22 del 21.11.2012, in base al quale "l'atto di pianificazione comunque denominato di cui al comma 6 dell'art. 92 del D.Lgs 163/2006…, anche in forma mediata, inerisce a opere o impianti pubblici. La natura stessa e il contenuto della pianificazione urbanistica e, in particolare, dei piani regolatori consente, pertanto, l’erogazione dell’incentivo ex art. 92, comma 6 del Codice dei contratti pubblici a favore dei dipendenti che abbiano partecipato alla redazione di tali strumenti urbanistici, in quanto tali atti afferiscono, sia pure mediatamente, alla progettazione di opere o impianti pubblici o di uso pubblico, dei quali definiscono l’ubicazione nel tessuto urbano".
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Ai sensi dell’articolo 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2003, c.d. codice dei contratti pubblici, “il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
Su tale disposto normativo la Sezione si è più volte pronunciata. Non solo con la Deliberazione n. 73/2013, richiamata dal Comune istante, ma anche, per esempio, con le precedenti nn. 57, 259 e 440 del 2012, cui si fa rinvio.
La norma, alla pari di quella contenuta nel precedente comma 5, disciplinante il c.d. “incentivo alla progettazione”, va letta nel complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli incarichi tecnico professionali, previsti dalla legislazione in materia di contratti pubblici. Quest’ultima (si rinvia agli artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006) è informata da un principio generale, già codificato dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale possono essere conferiti incarichi a soggetti esterni al plesso amministrativo solo se non si disponga di professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di gestione delle risorse umane. Il presupposto mira a preservare le finanze pubbliche oltre che a valorizzare il personale interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi ordinarie, in cui gli incarichi tecnici siano espletati da dipendenti in organico, ai fini della loro remunerazione, occorre far riferimento alle regole generali previste per il pubblico impiego, il cui sistema retributivo è conformato da due principi cardine, quello di definizione contrattuale delle componenti economiche e quello di onnicomprensività della retribuzione (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Puglia, sentenze nn. 464, 475 e 487 del 2010).
Il c.d. “incentivo alla progettazione” (art. 92, comma 5) e l’analogo compenso per la redazione di atti di pianificazione (art. 92 comma 6), previsti dal Codice dei contratti pubblici, costituiscono uno dei casi nei quali il legislatore, derogando al principio per cui il trattamento economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce direttamente un compenso ulteriore.
Alla luce di tali considerazioni di carattere generale, inerenti il carattere eccezionale della previsione normativa, la Sezione aveva già concluso, nei pareri sopra richiamati, nel senso che l’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006 abilita a riconoscere uno speciale compenso, al di là del trattamento economico contrattualmente spettante, solo in presenza di due elementi: a) sul piano dell’oggetto, che la prestazione consista nella diretta “redazione di un atto di pianificazione”, non in attività variamente sussidiarie nel contesto dell’attività di governo del territorio, che rientrano nei doveri d’ufficio dei dipendenti; b) che la redazione dello stesso non sia stata esternalizzata ad un professionista esterno (cfr.
parere 06.03.2013 n. 72, nonché in precedenza deliberazione n. 9/2009).
Quanto al corretto significato da attribuire alla locuzione “atto di pianificazione”, era stato richiamato l’orientamento espresso dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte (cfr.
parere 30.08.2012 n. 290), a tenore del quale, l’atto di pianificazione, comunque denominato, deve necessariamente riferirsi ed essere collegato alla progettazione di opere pubbliche e non essere un mero atto di pianificazione territoriale (cfr., altresì, la Sezione nel parere 30.05.2012 n. 259 e parere 06.03.2012 n. 57, oltre che le deliberazioni della Sezione contr. Puglia, parere 16.01.2012 n. 1, e Sezione contr. Toscana, parere 18.10.2011 n. 213).
A conclusioni non differenti sembra giungere il
parere sulla normativa 21.11.2011 - rif. AG-22/12 rilasciato dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, citato dal Comune istante, che, nel percorso motivazionale, richiama in modo ricorrente i precedenti pronunciamenti delle Sezioni regionali di controllo in sede consultiva.
Secondo l’Autorità di vigilanza, la pianificazione urbanistica, anche se in forma mediata, inerisce anche a opere o impianti pubblici. Infatti, i piani regolatori, strumento urbanistico di base per garantire un ordinato e corretto assetto del territorio, contengono, tra le altre, sia previsioni c.d. di zonizzazione, che suddividono il territorio comunale in zone omogenee (specificando quelle con vocazione edificatoria ed i vincoli da osservare in ciascuna di esse), sia norme di localizzazione di aree destinate a formare spazi di uso pubblico, ovvero riservate a edifici pubblici o di uso pubblico, a opere e impianti pubblici o di pubblico interesse (tanto che tali previsioni sono considerate dalla giurisprudenza ad effetto sostanzialmente espropriativo, se riguardanti beni di proprietà privata).
Pertanto la natura ed il contenuto della pianificazione urbanistica e, in particolare, dei piani regolatori consentono l’erogazione dell’incentivo, ex art. 92, comma 6, del Codice dei contratti pubblici, a favore dei dipendenti che abbiano redatto tali strumenti urbanistici, se e nella misura in cui, sulla base dell’accertamento condotto dall’amministrazione procedente, tali atti afferiscono alla progettazione di opere o impianti pubblici o di uso pubblico (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 03.07.2013 n. 279).

APPALTI: E’ funzione propria della Stazione Unica Appaltante (S.U.A.), come prevista dal DPCM che ha dato attuazione alla previsione dell’art. 13 della legge n. 136/2010, collaborare con l'ente aderente alla corretta individuazione dei contenuti dello schema del contratto, tenendo conto che lo stesso deve garantire la piena rispondenza del lavoro, del servizio e della fornitura alle effettive esigenze degli enti interessati.
La circostanza che alcune delle funzioni sopra indicate facciano riferimento a una procedura di “gara” non vale, secondo questa Sezione, a circoscriverne l’attività alle sole procedure nelle quali la gara è obbligatoria e, pertanto, non vale a escluderne la ricorrenza allorquando, nelle procedure per l’affidamento di lavori di importo inferiore a 1 milione di euro, l’art. 122, comma 7, del “Codice” ammette la procedura negoziata senza pubblicazione di un bando di gara, ex art. 57, comma 6 dello stesso “Codice”.
La disposizione sopra ricordata (art. 13, L. n. 136/2010), che ha previsto l’istituzione, in ambito regionale, di una o più stazioni uniche appaltanti (S.U.A.), ha, infatti, come ulteriore finalità quella di assicurare la trasparenza, la regolarità e l’economicità della gestione dei contratti pubblici e di prevenire il rischio di infiltrazioni mafiose. Ovviamente, stante la natura volontaria dell’adesione dell’Ente alla S.U.A., occorrerà verificare, nel caso di specie, come la convenzione ha regolato i rapporti tra SUA e l’ente aderente, dal momento che è la convenzione che, appunto, determina l’ambito di operatività della S.U.A..

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L’art. 23, c. 4, del D.L. 06.12.2011 n. 201 [recante “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici” (conv. con modificazioni dalla L. 22.12.2011, n. 214)] dispone che all’articolo 33 del d.lgs.vo n. 163/2006 sia aggiunto il comma 3-bis.
Il comma così aggiunto stabilisce che “I Comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti ricadenti nel territorio di ciascuna Provincia affidano obbligatoriamente ad un’unica centrale di committenza l’acquisizione di lavori, servizi e forniture nell'ambito delle unioni dei comuni, di cui all'articolo 32 del testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici. In alternativa, gli stessi Comuni possono effettuare i propri acquisti attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di committenza di riferimento, ivi comprese le convenzioni di cui all'articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488, e il mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all'articolo 328 del decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207”.
Il Sindaco del Comune istante espone che l’Ente, con atto consiliare (non indicato), è stato individuato quale Stazione Unica Appaltante in forma associata (S.U.A.). Tale organismo, secondo quanto previsto dall’art. 13 della legge n. 136/2010 e secondo il DPCM 30.06.2011 che lo regola, ha natura giuridica di centrale di committenza (art. 3, comma 34, D.Lgs.vo 12.04.2006, n. 163), e cura, per conto degli aderenti, l’aggiudicazione di contratti pubblici per la realizzazione di lavori, la prestazione di servizi e l’acquisizione di forniture, ai sensi dell'articolo 33 del citato D.Lgs.vo n. 163/2006, svolgendo tale attività in ambito regionale, provinciale ed interprovinciale.
Tanto esposto, il quesito sottoposto all’esame di questa Sezione regionale di controllo mira a conoscere se la procedura negoziata senza bando, di cui all’art. 122, comma 7, del D.Lgs.vo n. 163/2006, è funzione assorbita dalla Centrale di committenza o resta in capo al singolo ente, attesa l’assenza di pubblicità del bando, ovvero dell’invito a presentare l’offerta, e per essere il RUP a procedere all’affidamento previa individuazione diretta, da parte dello stesso RUP, degli operatori economici nel rispetto del medesimo art. 122, comma 7, citato.
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Ciò posto, in attesa che trovi attuazione il precetto di cui al citato art. 33-bis a far data dal termine del 31.12.2013, secondo la proroga da ultimo concessa, il quesito sottoposto all’esame di questa Sezione regionale di controllo acquista un più circoscritto rilievo, mirando a conoscere se la procedura negoziata senza bando, di cui all’art. 122, comma 7, del D.Lgs.vo n. 163/2006, è funzione assorbita dalla Centrale di committenza o resta in capo al singolo ente, attesa l’assenza di pubblicità del bando, ovvero dell’invito a presentare l’offerta, e per essere il RUP a procedere all’affidamento previa individuazione diretta, da parte dello stesso RUP, degli operatori economici nel rispetto del medesimo art. 122, comma 7, citato.
In altre parole, il quesito mira a sapere se anche per i contratti pubblici aventi per oggetto lavori, servizi e forniture di importo sotto la soglia di rilevanza comunitaria, in particolare per i lavori di importo complessivo inferiore a 1 milione di euro (art. 122, comma 7, del “Codice”), la procedure negoziata senza la previa pubblicazione del bando (art. 57, comma 6 del “Codice”) resti ascritta all’attività della S.U.A. (centrale di committenza), ovvero resti nella disponibilità dell’Ente, attesa l’assenza di pubblicità del bando e atteso che è il RUP a procedere all’affidamento, previa individuazione dell’operatore economico.
Il quesito non concerne l’ambito di applicazione dell’art. 33-bis del “Codice”, se cioè esso si estende anche ai contratti sotto soglia o sia da applicarsi esclusivamente ai contratti sopra la soglia di rilevanza comunitaria (sul punto ci si limita a segnalare l’esistenza di pronunciamenti in sede consultiva della Sezione di controllo Piemonte, delibera n. 271/2012 e della Sezione di controllo per la Lombardia, delibera n. 165/2013).
La questione riguarda se in capo all’Ente che abbia aderito a una Stazione Unica Appaltante residui la possibilità, in caso di contratti sotto soglia, di svolgere attività e funzioni per l’affidamento del contratto senza dover fare ricorso alla centrale di committenza (S.U.A.).
Orbene, è funzione propria della S.U.A., come prevista dal DPCM che ha dato attuazione alla previsione dell’art. 13 della legge n. 136/2010, collaborare con l'ente aderente alla corretta individuazione dei contenuti dello schema del contratto, tenendo conto che lo stesso deve garantire la piena rispondenza del lavoro, del servizio e della fornitura alle effettive esigenze degli enti interessati. In questa funzione la S.U.A. non solo concorda con l’ente aderente la procedura di gara per la scelta del contraente, ma definisce, sempre in collaborazione con l'ente aderente, il criterio di aggiudicazione ed eventuali atti aggiuntivi e definisce in caso di criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, i criteri di valutazione delle offerte e le loro specificazioni. Infine cura gli adempimenti relativi allo svolgimento della procedura di gara in tutte le sue fasi, ivi compresi gli obblighi di pubblicità e di comunicazione previsti in materia di affidamento dei contratti pubblici e la verifica del possesso dei requisiti di ordine generale e di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa.
La circostanza che alcune delle funzioni sopra indicate facciano riferimento a una procedura di “gara” non vale, secondo questa Sezione, a circoscriverne l’attività alle sole procedure nelle quali la gara è obbligatoria e, pertanto, non vale a escluderne la ricorrenza allorquando, nelle procedure per l’affidamento di lavori di importo inferiore a 1 milione di euro, l’art. 122, comma 7, del “Codice” ammette la procedura negoziata senza pubblicazione di un bando di gara, ex art. 57, comma 6, dello stesso “Codice”.
Ritenere che l’attività della S.U.A. si risolva soltanto nell’ambito delle prescrizioni che il legislatore nazionale ha dettato per adeguarsi alle prescrizioni comunitarie in materia di concorrenza nell’affidamento dei contratti pubblici, non tiene conto, a parere di questa Sezione, del fatto che la disposizione sopra ricordata (art. 13, L. n. 136/2010), che ha previsto l’istituzione, in ambito regionale, di una o più stazioni uniche appaltanti (SUA), ha come ulteriore finalità quella di assicurare la trasparenza, la regolarità e l’economicità della gestione dei contratti pubblici e di prevenire il rischio di infiltrazioni mafiose.
Ovviamente, stante la natura volontaria dell’adesione dell’Ente alla S.U.A., occorrerà verificare, nel caso di specie, come la convenzione ha regolato i rapporti tra SUA e l’ente aderente, dal momento che è la convenzione che, appunto, determina l’ambito di operatività della SUA, con riferimento ai contratti pubblici di lavori, di forniture e servizi, “sulla base degli importi di gara o di altri criteri in relazione ai quali se ne chiede il coinvolgimento nonché i rapporti e le modalità di comunicazioni tra il responsabile del procedimento ai sensi dell'articolo 10 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, ed il responsabile del procedimento della SUA ai sensi della legge 07.08.1990, n. 241” (art. 4, comma 1, lett. a), DPCM 30.06.2011) (Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata, deliberazione 01.07.2013 n. 98).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Circa la corretta interpretazione dell'art. 92, comma 6, d.lgs. 163/2006, disciplinante gli incentivi alla progettazione interna quest'ultimi possono essere erogati solo in presenza di atti che abbiano ad oggetto la pianificazione collegata alla realizzazione di opere pubbliche e non anche a fronte di atti di pianificazione generale.
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Conseguentemente all'abrogazione delle tariffe professionali, il parametro sulla base del quale calcolare il trenta per cento delle tariffe da corrispondere si evincerà dai criteri di determinazione dei corrispettivi da porre a base di gara, che saranno stabiliti con regolamento ministeriale. Nelle more dell'approvazione del regolamento, gli enti locali individueranno i parametri provvisori, eventualmente riproponendo le tariffe professionali, o utilizzando i criteri già elaborati dal Ministero della giustizia.

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Il Sindaco di Rimini ha inoltrato a questa sezione, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 131/2003, una richiesta di parere avente ad oggetto l’ambito oggettivo di applicazione della normativa sugli incentivi alla progettazione interna, di cui all’art. 92, comma 6, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, nonché le modalità di quantificazione del compenso.
Il Sindaco domanda, in particolare, se per riconoscere gli incentivi de quibus occorra, quale presupposto necessario, che l’atto di pianificazione risulti finalizzato alla realizzazione di opere pubbliche, oppure se l’incentivo possa essere ripartito anche a fronte di un mero atto di pianificazione generale.
Viene chiesto, inoltre, l’avviso di questa sezione in merito alle corrette modalità di quantificazione del compenso finalizzato ad incentivare l’attività di progettazione interna, conseguentemente all’abrogazione delle tariffe professionali. Il Sindaco di Rimini, alla luce di tale abrogazione, prospetta anche la questione relativa alla vigenza della previsione in forza della quale il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione è ripartito tra i dipendenti pubblici che lo abbiano redatto.
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Mediante la prima richiesta di parere viene chiesto se gli incentivi alla progettazione interna siano riconoscibili solo ove l’atto di pianificazione risulti finalizzato alla realizzazione di opere pubbliche, oppure se possa essere legittimamente corrisposto anche in presenza di un atto di pianificazione generale.
Preliminarmente, è necessario analizzare l’art. 92, comma 6, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, rubricato “Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE” , che disciplina gli incentivi alla progettazione interna prevedendo che “il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
Gli incentivi de quibus, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, hanno la finalità di incoraggiare i dipendenti delle amministrazioni pubbliche ad eseguire attività di progettazione internamente agli uffici, allo scopo di diminuire i costi delle attività collegate alla progettazione delle opere pubbliche. La previsione pone una deroga al principio generale della onnicomprensività del trattamento economico dei dipendenti pubblici e, pertanto, dev’essere interpretata restrittivamente.
Sulla questione non si ravvisano motivi per discostarsi dall’orientamento in materia, ormai consolidato, che emerge da pareri resi da diverse Sezioni regionali di controllo di questa Corte, nel senso che
il riferimento ad un “atto di pianificazione”, operato del richiamato art. 92, comma 6, d.lgs. 163/2006, è da intendersi come limitato ai soli atti che abbiano ad oggetto la pianificazione collegata alla realizzazione di opere pubbliche, e non anche ad atti di pianificazione generale, quali possono essere la redazione del piano regolatore o di una variante generale (ex multis, Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213, Sezione regionale di controllo per il Piemonte, parere 30.08.2012 n. 290 e Sezione regionale di controllo Campania, parere 10.04.2013 n. 141). Gli atti di pianificazione generale, infatti, costituiscono diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente e non giustificano la deroga al principio di onnicomprensibilità della retribuzione. Per una disamina più approfondita delle ragioni di diritto sottostanti a tale interpretazione, si rimanda alle deliberazioni citate.
La seconda richiesta di parere riguarda la quantificazione del compenso incentivante, alla luce dell’abrogazione delle tariffe professionali.
Il Sindaco di Rimini, nel formulare il quesito, domanda preliminarmente se sia da considerarsi vigente la previsione per la quale il trenta per cento della tariffa professionale, relativa alla redazione di un atto di pianificazione, è ripartito tra i dipendenti pubblici che lo abbiano redatto.
L’art. 9, comma 1 del decreto legge 24.01.2012, n. 1, rubricato “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività” (c.d. “decreto sviluppo 2012”), convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27, ha stabilito che “Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico”.
Il successivo comma 2, tuttavia, ha previsto che, ”ferma restando l’abrogazione di cui al comma 1, nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante, da adottare nel termine di 120 giorni successivi alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto (…) Ai fini della determinazione dei corrispettivi da porre a base di gara nelle procedure di affidamento di contratti pubblici dei servizi relativi all’architettura e all’ingegneria di cui alla parte II, titolo I, capo IV del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, si applicano i parametri individuati con il decreto di cui al primo periodo, da emanarsi, per gli aspetti relativi alle disposizioni di cui al presente periodo, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti; con il medesimo decreto sono altresì definite le classificazioni delle prestazioni professionali relative ai predetti servizi. I parametri individuati non possono condurre alla determinazione di un importo a base di gara superiore a quello derivante dall’applicazione delle tariffe professionali vigenti prima dell’entrata in vigore del presente decreto”.
Il comma 3 stabilisce che “Le tariffe vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, fino alla data di entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2…”; infine, ai sensi del comma 5 “sono abrogate le disposizioni vigenti che, per la determinazione del compenso del professionista, rinviano alle tariffe di cui al comma 1”.
L’abrogazione delle tariffe professionali non ha eliminato la necessità di una normativa che disciplini sia la liquidazione del compenso di un professionista da parte di un organo giurisdizionale, sia la determinazione degli importi da porre a base di gara, nell’affidamento dei servizi di progettazione. A quest’ultima questione è connessa quella del corrispettivo da riconoscere al dipendente pubblico, nel caso di progettazione interna.
La liquidazione dei compensi riconosciuti dagli organi giurisdizionali ai progettisti è stata regolamentata dal Ministro della giustizia, in esecuzione di quanto previsto dall’art. 9, comma 2, mediante decreto 20.07.2012, n. 140 (c.d. “decreto parametri”).
Per quanto concerne, invece, gli importi da porre a base di gara nell’affidamento dei contratti pubblici di servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria, alla quale è connessa la questione del compenso conseguente all’attività di progettazione interna, l’atteso regolamento (“decreto parametri-bis”) non è stato ancora approvato.
Questa sezione preliminarmente evidenzia che
l’avvenuta soppressione delle tariffe professionali, ad opera dell’art. 9, del citato d.l. 1/2012 non ha implicitamente abrogato la previsione di cui all’art,. 92, comma 6, del d.lgs. 163/2006, disciplinante gli incentivi per la progettazione interna per i quali, pertanto, si pone solo un problema di quantificazione.
L’art. 9 spiega che “sono abrogate le disposizioni vigenti che, per la determinazione del compenso del professionista, rinviano alle tariffe di cui al comma 1” e limita la possibilità di continuare ad applicare le tariffe vigenti, fino all’entrata in vigore dei decreti ministeriali, alla sola liquidazione delle spese giudiziali. Ne consegue che
le tariffe professionali non sono direttamente applicabili per determinare l’ammontare degli incentivi oggetto del presente parere.
Il regolamento ministeriale che verrà emanato in applicazione dell’art. 9, comma 2, del citato decreto legge, allo scopo di stabilire i criteri di corretta determinazione dei corrispettivi da porre a base di gara nelle procedure di affidamento dei servizi di architettura ed ingegneria, potrà costituire lo strumento utile per individuare il parametro sulla base del quale calcolare il trenta per cento da corrispondere ai dipendenti pubblici in presenza di una progettazione interna.
Peraltro, a supporto di questa ricostruzione è possibile ricordare che, se è vero che si tratta di individuazione dei corrispettivi da porre a base di gara, è altresì da considerare che,
comunque, come previsto dall’art. 9, i parametri individuati dal decreto non potranno condurre alla determinazione di un importo superiore a quello che sarebbe derivato dall’applicazione delle tariffe professionali.
Nelle more dell’approvazione del regolamento ministeriale, invece, gli enti locali, nell’esercizio della propria discrezionalità, individueranno, in via regolamentare, i parametri provvisori da utilizzare come base per calcolare il trenta per cento, da riconoscere ai dipendenti quale incentivo alla progettazione interna. A tal fine, potrebbero essere riproposte provvisoriamente le abrogate tariffe professionali o, in alternativa, essere utilizzati i criteri già elaborati dal Ministero della Giustizia (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 25.06.2013 n. 243).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'avvocato del comune diventa dirigente. Per la corte conti non c'è responsabilità amministrativa.
Il reinquadramento automatico di un avvocato (dipendente di ente locale) a dirigente non determina la maturazione di responsabilità amministrativa in quanto vi sono numerosi dubbi sulla illegittimità di tale scelta.
Possono essere così sintetizzati gli elementi essenziali contenuti nella sentenza 11.06.2013 n. 366 con cui la I Sez. di appello della Corte dei conti ha assolto gli amministratori di un comune.
La sentenza ribalta la condanna che in primo grado era stata irrogata dai giudici contabili della Campania. Le indicazioni della pronuncia risultano convincenti sulla mancanza di colpa grave, anche alla luce del carattere non consolidato della giurisprudenza, mentre non sono attente alle ragioni per cui i reinquadramenti cozzano con i principi di carattere generale che presiedono alla organizzazione dell'ente locale e possono stimolare il contenzioso perché tutti gli avvocati dipendenti degli enti locali si sentono legittimati nella richiesta di diventare dirigenti, anche in comuni in cui non esiste la dirigenza.
Il caso concreto nasce dalla accettazione da parte di un comune della conciliazione intervenuta con un proprio dipendente procuratore legale che, a seguito del superamento della distinzione tra questa figura e quella di avvocato, aveva chiesto il reinquadramento come dirigente.
Il punto di base della sentenza è che vi sono numerose pronunce tanto del giudice civile del lavoro (Trib. Napoli, sent. 04.03.2003, n. 1392) che del giudice amministrativo (Consiglio di stato, 02.02.2009, n. 561) che affermano il diritto degli avvocati di ente pubblico, di qualifica direttiva, ad essere inquadrati nella dirigenza, proprio (e solamente) in virtù dell'entrata in vigore della legge n. 27/1997, che aveva unificato le figure professionali di avvocato e di procuratore legale.
Sulla base di questa constatazione viene ricostruito il possibile percorso logico da porre a base della decisione: «non è del tutto irragionevole che il sindaco e gli assessori competenti del comune abbiano ritenuto opportuno aderire al tentativo di conciliazione al fine di evitare gli ulteriori aggravi economici di una soccombenza in giudizio, ritenuta probabile (a ragione o a torto, ma non infondatamente), per di più in presenza di una norma di legge che consente anche alle pubbliche amministrazioni la transazione giudiziale, anzi incentiva tale strumento». Ricordiamo che in materia di conciliazione la normativa in vigore alla data in cui l'ente ha effettuato tale scelta escludeva il maturare di responsabilità amministrativa in caso di conciliazione. La normativa attualmente in vigore, contenuta nell'art. 31 della legge 04.11.2010, n. 183, stabilisce che la conciliazione «non può dar luogo a responsabilità, salvi i casi di dolo e colpa grave».
Si deve aggiungere che comunque la soluzione della conciliazione giudiziale non è strumento idoneo a superare una prescrizione di legge. Ed infatti, nel caso non è sostenibile che il limite delle norme imperative sia stato superato.
La sentenza prosegue affermando che «la sentenza della Cassazione civile, sezione lavoro n. 5869 del 17.03.2005, chiarisce che in realtà la Suprema corte enuncia il principio che la riforma introdotta nella legge n. 27 del 1997 non imponeva, né impone, all'amministrazione comunale di avere un unico ruolo di avvocati municipali, tutti inquadrati come dirigenti: ebbene, il non imporre indica una situazione nettamente differenziata e non riconducibile al vietare, presupponendo più opzioni, parimenti legittime, di natura latamente discrezionale afferenti l'esercizio di potestà organizzatoria, in ordine alla determinazione delle più efficienti ed adeguate modalità di organizzazione degli uffici legali».
Ed ancora «non vi è un indirizzo univoco, vincolante in un senso anziché nell'altro le scelte organizzative dell'ente locale, bensì un'ampia sfera di autonoma e discrezionale valutazione». Nella stessa direzione va la decisione n. 6336/2009 del Consiglio di stato, sezione V; essa, infatti, si limita a rilevare che l'art. 3 del rdl n. 1578 del 1933 non impone al datore di lavoro pubblico di adottare una organizzazione degli uffici tale da individuare nell'ufficio legale una struttura necessariamente apicale, del tutto autonoma.
La lettura proposta nella sentenza della prima sezione di appello della magistratura contabile appare francamente assai poco convincente, anche alla luce dei principi più volte affermati dalla giurisprudenza della stessa Corte dei conti in materia di scelte organizzative, con particolare riferimento alla considerazione che i costi aggiuntivi determinati dalle scelte autonome devono essere adeguatamente motivati e spiegati in termini di interesse generale (articolo ItaliaOggi del 05.07.2013).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Accesso agli atti.
Domanda
Vorrei sapere se nell'ambito di una gara per i servizi di assistenza domiciliare anziani la ditta arrivata seconda ha diritto di avere copia del progetto di chi l'ha preceduta. Naturalmente la prima classificata ha già risposto di opporsi a quest'evenutalità in quanto il progetto presentato è frutto del proprio lavoro, anche tramite dei consulenti pagati appositamente, e del proprio know-how.
Risposta
L'esigenza di permettere l'accesso agli atti in una procedura di gara è contemperato dalla corrispondente esigenza di tutela del c.d. know-how e della tutela giudiziaria. Come noto, l'art. 3 del Dpr 184/2006 prevede espressamente la notifica ai controinteressati, i quali devono essere messi nella condizione di poter esercitare la propria opposizione alla richiesta di accesso formulata da un altro concorrente.
Ovviamente tale opposizione deve essere motivata e, in relazione alla contrattualistica pubblica, ai sensi dell'art. 13, comma 5, D.lgs. 163/2006, potrebbe essere basata su una delle ragioni che permettono la sottrazione all'accesso:
a) informazioni fornite dagli offerenti nell'ambito delle offerte ovvero a giustificazione delle medesime, che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell'offerente, segreti tecnici o commerciali;
b) eventuali ulteriori aspetti riservati delle offerte, da individuarsi in sede di regolamento;
c) pareri legali acquisiti dai soggetti tenuti all'applicazione del presente codice, per la soluzione di liti, potenziali o in atto, relative ai contratti pubblici;
d) relazioni riservate del direttore dei lavori e dell'organo di collaudo sulle domande e sulle riserve del soggetto esecutore del contratto.
Nel caso di specie, viene in considerazione soprattutto la lettera a) prima citata che, tuttavia, cede all'esigenza di avere una adeguata tutela giudiziaria, in base alle prescrizioni di cui all'art. 13, comma 6, del codice dei contratti. Per rafforzare la protezione della tutela dei dati progettuali, in alcuni casi il bando o il disciplinare prevedono specifiche indicazioni a tal proposito, ma, anche in questo caso, la tutela è comunque cedevole nel caso in cui il documento sia presupposto dall'indagine giudiziaria.
In questo senso, recentemente si è espressa la giurisprudenza, la quale ha chiarito che "La normativa sull'accesso è funzionale a garantire altri interessi e in questi limiti consente la visione e l'estrazione di copia. Pertanto, poiché né il diritto di autore né la proprietà industriale precludono la riproduzione sic et simpliciter, ma solo la riproduzione che consenta uno sfruttamento economico e non essendo l'accesso lesivo di tale diritto all'uso economico esclusivo del progetto, l'ostensione va consentita, fermo restando che l'uso appropriato delle informazioni così ottenute, rappresentato esclusivamente dalla strumentalità alla tutela dell'interesse fatto valere, costituisce non solo la funzione per cui è consentito l'accesso stesso, ma anche il limite di utilizzo dei dati appresi" (TAR, Bari, Puglia, sez. II, 13.02.2013, n. 217) (09.07.2013 - tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA: I titoli abilitativi per presentare domanda di AUA indicati dal regolamento sono esaustivi? Il gestore può decidere di non presentare la domanda? (08.07.2013 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Autorizzazione integrata (Aia).
Domanda
L'Autorizzazione integrata ambientale (Aia), già avviata, preclude la possibilità, per la pubblica amministrazione, di chiedere una valutazione di impatto ambientale (Via)?
Risposta
L'Autorizzazione integrata ambientale (Aia), anche se già avviata, non preclude la possibilità, per la pubblica amministrazione, di chiedere una Valutazione di impatto ambientale (Via). Infatti, come affermato dal Consiglio di stato, sezione VI, con la sentenza del 19.03.2012, numero 1541, è legittima la richiesta della pubblica amministrazione di avviare una nuova procedure di Valutazione di impatto ambientale (Via), anche nel caso di procedura di Autorizzazione integrata ambientale (Aia), già avviata, dovendosi tutelare da ogni pericolo il fondamentale e primario diritto alla salute che, in quanto tale, prevale nella ponderazione degli altri interessi.
Peraltro, per i supremi giudici, detto fondamentale e primario diritto alla salute non può essere affievolito per il solo trascorrere del tempo dall'adozione di inadeguati provvedimenti iniziali, rapportati a un diverso quadro di rischi. E la Valutazione di impatto ambientale (Via) ha lo scopo di proteggere, come afferma il legislatore all'articolo 4, comma 4, lettera b), del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, la salute umana, di contribuire, con un migliore ambiente, alla qualità della vita, di provvedere al mantenimento della specie e di conservare la capacità di riproduzione dell'ecosistema in quanto risorsa essenziale per la vita.
Al riguardo, il Consiglio di stato, sezione V, con la sentenza del 22.03.2012, numero 1640, ha puntualizzato che la valutazione di impatto ambientale (Via) è un istituto finalizzato alla tutela preventiva dell'ambiente in senso ampio. Pertanto, la pubblica amministrazione, in tema di valutazione di impatto ambientale (Via), deve esercitare «un'amplissima discrezionalità», che non si esaurisce in un mero giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo, profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale in relazione all'apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti.
Per inciso, si sottolinea che la normativa portata dall'articolo 10 e dall'articolo 4, comma 4, lettera b), del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, succitato, così come novellato dal decreto legislativo 29.06.2010, numero 128,: «Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, recante norme in materia ambientale, a norma dell'articolo 12 della legge 18.06.2009, numero 69», ci fa comprendere come sussista una diversità di funzione tra Autorizzazione integrata ambientale (Aia) e Valutazione di impatto ambientale (Via) (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.07.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Organi, decide il consiglio. Spetta all'assemblea modificare lo Statuto. Gli istituti di partecipazione possono essere tagliati per ridurre i costi.
Le disposizioni statutarie che prevedono l'istituzione di organismi di partecipazione dei cittadini aventi funzioni consultive sono tuttora compatibili con le numerose previsioni normative volte alla riduzione della spesa?

Il legislatore statale, nell'ambito di un più generale e complesso intervento volto alla riduzione della spesa pubblica, è più volte intervenuto, nel corso degli ultimi anni, con successive disposizioni finalizzate a ridurre gli organi degli enti locali al fine di contenerne i costi di funzionamento.
A tale proposito, giova richiamare l'art. 2, comma 186, della legge 191 del 2009 che ha modificato la disciplina delle circoscrizioni comunali nonché le leggi n. 42 del 2010 e 148 del 2011 che hanno previsto la riduzione dei componenti degli organi collegiali degli enti locali. Va fatto rilevare, quale ulteriore elemento di valutazione, che la grave congiuntura economica, che perdura da un ampio arco temporale, imporrebbe ai vari enti costitutivi della repubblica un dovere di comportamento, coerente con le esigenze superiori della Comunità nazionale; un dovere di concorso al pubblico bene ed interesse, che trova fondamento nei principi della stessa Costituzione.
In linea generale, gli istituti di partecipazione popolare rientrano, ai sensi dell'art. 6, comma 2, del dlgs. n. 267/2000, nell'ambito del contenuto obbligatorio dello statuto dei comuni e delle province.
Generalmente essi vengono declinati dai vari ordinamenti locali nella forma di proposte di iniziativa popolare, interrogazioni e petizioni popolari, iniziativa referendaria ecc.
Nel caso di specie, l'organismo di cui trattasi -il comitato di frazione, istituito con delibera consiliare, i cui membri sono eletti dal consiglio comunale su designazione dei gruppi consiliari- risulta configurato, secondo il regolamento comunale, più che come un istituto di partecipazione popolare, quale un ulteriore organo istituzionale promanante dallo stesso consiglio comunale.
Spetta, comunque, al consiglio comunale, nella sua sovranità ed in quanto titolare della competenza a dettare le norme cui uniformarsi, fornire un'interpretazione autentica delle norme statutarie e regolamentari, procedendo, ove ritenuto necessario, alle relative modifiche ritenute opportune (articolo ItaliaOggi del 05.07.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Decadenza dl sindaco.
Quali sono gli adempimenti conseguenti all'eventuale deliberazione di decadenza dalla carica di sindaco, in caso di sopravvenuta causa d'incompatibilità conseguente alla nomina ad assessore della giunta regionale?

A seguito della modifica del titolo V della Costituzione con la legge costituzionale n. 3/2001, spetta alle regioni disciplinare le cause di incompatibilità alle cariche elettive regionali; fino all'entrata in vigore delle discipline regionali, continuano ad applicarsi le disposizioni statali in materia, in forza del principio di cui all'art. 1, comma 2, della legge n. 131/2003.
Nel caso di specie, il cumulo di cariche fra quella di sindaco e quella di assessore regionale è interdetto dalle disposizioni di cui all'art. 4 della legge n. 154/1981 e dallo statuto regionale.
Restano, pertanto, salve le prerogative degli organi regionali, deputati a valutare se l'espressione dell'opzione dell'interessato a favore della carica sopravvenuta sia idonea a far cessare lo stato d'incompatibilità.
Sotto il profilo della ricorrenza dell'incompatibilità rispetto alla carica locale, si presentano due soluzioni praticabili per il capo dell'amministrazione che intenda accettare la carica regionale: può dimettersi dalla carica locale o essere dichiarato decaduto dal consiglio comunale a conclusione del procedimento amministrativo previsto dall'art 69 del decreto legislativo n. 267/2000.
La decadenza del sindaco, dichiarata dal consiglio comunale, concretizza una delle cause di scioglimento prevista dall'art. 141, comma 1, lett. b), n. 1 del dlgs n. 267/2000, per la quale andrà avviata la relativa procedura (articolo ItaliaOggi del 05.07.2013).

NEWS

CONSIGLIERI COMUNALI: Enti, redditi online. Trasparenza anche per i sindaci. D'Alia: in arrivo una circolare per le p.a. locali.
Dopo i ministri sarà la volta degli enti locali. Anche i sindaci, i presidenti di provincia e i governatori regionali dovranno mettere online i propri redditi esattamente come stanno facendo in questi giorni i componenti del governo Letta.
A richiamare ministri, viceministri e tutti i sottosegretari alla corretta applicazione delle norme di trasparenza (art. 14, dlgs n. 33/2013) che impongono di pubblicare sui siti internet istituzionali entro tre mesi dall'elezione (e quindi entro il 28 luglio) i dati relativi a redditi, patrimonio e cariche ricoperte, è stato il sottosegretario alla presidenza del consiglio, ed ex ministro della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi con una circolare.
E subito è arrivato l'annuncio di Gianpiero D'Alia, suo successore alla guida di palazzo Vidoni, che anche gli enti locali non faranno eccezione alla regola di trasparenza.
«La settimana prossima il ministero diramerà una circolare, una sorta di vademecum, dove saranno indicati gli obblighi di trasparenza per gli amministratori degli enti locali», ha dichiarato il ministro a margine di un convegno sull'ammodernamento della p.a. Ma prima di richiamare gli amministratori locali all'ordine ha voluto dare il buon esempio, pubblicando sul sito del dicastero la dichiarazione patrimoniale (propria e dei prossimi congiunti) e gli importi delle spese di missione. Manca ancora la dichiarazione dei redditi (seppur già trasmessa alla camera dei deputati prima di diventare ministro) che, fanno sapere dall'entourage del ministro, è in fase di aggiornamento.
Riuscirà l'appello del ministro a realizzare una massiccia disclosure nelle pubbliche amministrazioni locali? I sindaci, si sa, sono stati storicamente i soggetti più restii ad applicare le norme in materia di anagrafe degli eletti, previste da una legge vecchia più di 30 anni (n. 441/1982). Ma ora il dlgs 33/2013 ha rilanciato gli obblighi di pubblicità e trasparenza a carico della p.a. prevenendo pesanti sanzioni in caso di inadempimento (danno all'immagine e valutazione ai fini della corresponsione della retribuzione di risultato e del trattamento accessorio collegato alla performance individuale).
D'Alia ha parlato anche di esuberi nella p.a. precisando che i 7 mila lavoratori individuati come in sovrannumero in base ai tagli lineari «non saranno licenziati ma dovranno essere ricollocati» secondo procedure da concordare con i sindacati (articolo ItaliaOggi del 09.07.2013).

APPALTI FORNITURE: Porte e finestre, mercato unico. Per i prodotti edili stesse norme ambientali e di sicurezza.  Il 1° luglio è entrato in vigore il regolamento della Ue che armonizza i requisiti.
Via libera al mercato unico europeo dei prodotti da costruzione. A partire dal primo di luglio i costruttori di porte, cemento, mattoni, cancelli, camini e finestre possono infatti contare su un alleato in più nel processo di espansione all'interno dell'Unione europea: il regolamento sui prodotti di costruzione (Cpr).
Adottato nel 2011 dal Parlamento Ue ma entrato in vigore solamente all'inizio di questo mese, il regolamento 305/2011 sostituisce la direttiva sui prodotti da costruzione (89/106/Cee) fornendo un linguaggio tecnico comune costituito da norme armonizzate che i costruttori potranno utilizzare per descrivere le prestazioni e le caratteristiche dei prodotti commercializzati in Europa.
Niente più ostacoli giuridici e tecnici alla libera circolazione dei prodotti all'interno del Vecchio continente, soggetti fino a pochi giorni fa a requisiti occupazionali, ambientali e di sicurezza diversi da Paese a Paese. «Il Cpr aiuterà i fabbricanti a commercializzare i prodotti da costruzione all'interno di un comune quadro normativo europeo semplificato, nel quale l'affidabilità della prestazione dichiarata di un prodotto da costruzione viene dimostrata dall'impiego della marcatura CE», hanno assicurato dalla Commissione europea secondo cui, aumentando la trasparenza del mercato, il nuovo regolamento garantirà una serie di vantaggi per progettisti, costruttori e appaltatori. «Gli architetti otterranno facilmente informazioni affidabili sulle prestazioni dei prodotti che intendono utilizzare, contribuendo così a garantire la sicurezza delle costruzioni, come previsto dalle rispettive norme nazionali».
Per armonizzare le condizioni di utilizzo dei prodotti all'interno dei Paesi membri, il regolamento ha semplificato le procedure utilizzate dai fabbricanti per ottenere la marcatura CE da apporre soltanto sui prodotti per i quali il fabbricante ha redatto una dichiarazione di prestazione. Elemento che si tradurrà in una significativa riduzione dei costi sostenuti dalle microimprese (quelle con meno di 10 dipendenti e un bilancio annuo non superiore a 2 milioni di euro) nel caso in cui non sussistano criticità in materia di sicurezza.
«Tutti i fabbricanti, in particolare i piccoli produttori, possono usare adesso i risultati di prova esistenti per suffragare una dichiarazione di prestazione, senza che i loro prodotti debbano essere sottoposti a un'inutile ripetizione delle prove», si legge nel documento. «Per ottenere la marcatura CE sono state introdotte procedure semplificate più snelle per i prodotti che non sono oggetto di norme armonizzate». In particolare, secondo l'articolo 8 del regolamento, uno Stato membro non potrà proibire né ostacolare, nel suo territorio o sotto la sua responsabilità, la messa a disposizione sul mercato o l'uso di prodotti da costruzione recanti la marcatura CE se la prestazione dichiarata corrisponde ai requisiti per l'uso in questione in tale Stato membro. Allo stesso tempo, dovrà garantire che l'uso dei prodotti da costruzione recanti la marcatura CE non sia ostacolato da norme o condizioni imposte da organismi pubblici o privati che agiscono come imprese pubbliche.
Ma è il successivo articolo 9 a indicare regole e condizioni per l'apposizione della marcatura che dovrà essere visibile, leggibile e indelebile sul prodotto da costruzione o su un'etichetta a esso applicata.
Nello specifico, la marcatura CE dovrà essere seguita dalle ultime due cifre dell'anno in cui è stata apposta per la prima volta, dal nome e dall'indirizzo della sede legale del fabbricante o dal marchio di identificazione che consente, in modo semplice e non ambiguo, l'identificazione del nome e dell'indirizzo del fabbricante. Non solo. La marcatura CE dovrà contenere anche il numero di riferimento della dichiarazione di prestazione, il livello o classe della prestazione dichiarata e il riferimento alla specifica tecnica armonizzata applicata. Oltre che il numero di identificazione dell'organismo notificato (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.07.2013).

APPALTIContributi. Il decreto del fare consente la possibilità di rimediare a dimenticanze o a mancati versamenti
Durc, l'errore si sana in 15 giorni. La Pa avvisa il datore prima di emettere il documento negativo.

Niente più brutte sorprese o esclusioni inattese dalle gare pubbliche per problemi legati alla regolarità contributiva: l'articolo 31 del decreto legge 69/2013, ha infatti razionalizzato la disciplina del documento unico di regolarità contributiva, apportando alcune correzioni -meramente funzionali ma di notevole impatto per le aziende- nel Codice degli appalti pubblici, il decreto legislativo 163 del 12.04.2006.
La nuova disciplina ha infatti modificato -introducendo alcune semplificazioni- l'articolo 118 del Codice, con un opportuno allentamento di alcune "tagliole" previste dalla norma.
Possibile tornare in regola
In primo luogo -ed è questa la novità di maggior rilievo- è stato espressamente previsto all'articolo 31, comma 8 del Dl 69/2013, che ai fini della verifica del rilascio del Durc, in caso di mancanza di requisiti per il rilascio, prima di emettere il documento negativo (che segnala pertanto la presenza di debiti del datore di lavoro nei confronti degli enti previdenziali o assicurativi) o prima dell'annullamento del documento già rilasciato, l'ente competente a rilasciare il documento ha l'obbligo di informare l'interessato o il suo consulente del lavoro, con l'uso della posta elettronica certificata, del motivo della irregolarità riscontrata, indicandone analiticamente le ragioni e invitando il soggetto interessato a regolarizzare la sua posizione entro il termine massimo di quindici giorni dalla segnalazione.
Questa disposizione è sicuramente da accogliere con grande favore, poiché da un lato non attenua minimamente i controlli e i meccanismi di esclusione dalle gare o dalla sottoscrizione di contratti, di coloro che risultano non essere in regola con il versamento dei contributi previdenziali e assicurativi, dall'altro lato, però, consente ai datori di lavoro di rimediare immediatamente a errori formali, dimenticanze, o a versamenti non eseguiti per momentanea carenza di liquidità.
Il termine di quindici giorni concesso dall'Amministrazione all'interessato per adeguare la propria posizione a quanto stabilito dalla legge, appare infatti assolutamente congruo e tale da non rallentare in modo sensibile i già farraginosi meccanismi delle gare pubbliche. Peraltro, assicura al datore di lavoro che sia incorso in violazioni minime o comunque sanabili, di rimanere in corsa negli appalti pubblici o di ottenere il pagamento del dovuto dalla pubblica amministrazione.
I pagamenti della Pa
Un'altra novità introdotta dal cosiddetto decreto del fare riguarda i pagamenti della pubblica amministrazione (Dl 69/2013, articolo 31, comma 3): nel caso in cui sia riscontrata una inadempienza contributiva (non sanata nei quindici giorni), il soggetto pubblico tenuto al pagamento tratterrà ora solamente l'importo corrispondente all'inadempimento, provvedendo direttamente al versamento di questa somma agli enti previdenziali e assicurativi a credito ed emettendo regolarmente il certificato di pagamento in favore dell'imprenditore per il residuo.
In precedenza era invece previsto -sostanzialmente- il blocco dell'intero pagamento, con la conseguenza che anche per piccoli debiti contributivi o assicurativi l'imprenditore si vedeva sospesa l'erogazione di tutto il dovuto, spesso con sproporzioni assolutamente evidenti, con la conseguenza di privare l'azienda di liquidità importanti.
Anche questo provvedimento è certamente da ritenere positivo, poiché assicura comunque l'adempimento degli obblighi da parte dell'imprenditore -poiché la pubblica amministrazione trattiene il dovuto- ma, corrispondentemente, consente il pagamento di somme pacificamente dovute per lavori o servizi già prestati.
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Le novità introdotte dal Dl 69/2012 sulla regolarità contributiva e gli effetti rispetto al regime precedente
IL RILASCIO
01 | DURC POSITIVO O NEGATIVO
Finora, il Durc era rilasciato positivo (se non si registravano pendenze con la Pa), o negativo (se si segnalavano debiti con Inps o Inail)
02 | LA POSSIBILITÀ DI METTERSI IN REGOLA
Prima di rilasciare il Durc negativo o di revocare il Durc positivo già rilasciato, l'amministrazione invita l'interessato, tramite Pec (anche attraverso il consulente del lavoro), a regolarizzare la sua posizione entro 15 giorni. L'interessato può sanare le inadempienze e ottenere il Durc positivo
I DEBITI VERSO LA PA
01 | BLOCCO TOTALE
Il pagamento dei crediti dell'imprenditore era bloccato per intero se venivano segnalate inadempienze dell'imprenditore verso la Pa
02 | IL REGIME ATTUALE
Ora è trattenuta solo la parte di credito sufficiente a saldare i debiti verso gli enti, che sono pagati direttamente dal soggetto erogante le somme (in genere la stazione appaltante)
L'ACQUISIZIONE
01 | L'UFFICIO SI MUOVE IN AUTONOMIA
Mentre il passato il Durc doveva essere acquisito dall'interessato, oggi il documento è acquisito d'ufficio in via telematica, anche ai fini della verifica della dichiarazione sostitutiva, per l'aggiudicazione del contratto, per la stipula del contratto, per il pagamento dei saldi. Deve essere nuovamente acquisito per il saldo finale
LA VALIDITÀ
01 | TRE MESI DI DURATA
Prima delle modifiche introdotte dal Dl 69/2013, il Durc aveva una validità massima di tre mesi
02 | L'ESTENSIONE
Nei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, la validità del Durc è estesa a 180 giorni, e il documento deve essere acquisito dalla stazione appaltante con strumenti informatici (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.07.2013).

SICUREZZA LAVOROFormazione sulla sicurezza più semplice con i crediti.
Formazione con lo sconto nel decreto del fare. Il Dl 69/2013 è intervenuto, infatti, sul sistema di formazione disegnato dal Testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e completato dagli accordi della Conferenza Stato-Regioni del 26.01.2006 per i responsabili del servizio di prevenzione e protezione, e poi dagli accordi del 21.12.2011 per datori di lavoro, dirigenti, preposti e lavoratori.
Le disposizioni di carattere generale non prevedevano la possibilità di riconoscere crediti formativi a coloro che, nell'ambito del lavoro, svolgessero più funzioni soggette a obbligo formativo: in pratica, ad esempio, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione interno, essendo anche un lavoratore, doveva conseguire la formazione obbligatoria, sia come Rspp, sia come lavoratore, affrontando spesso lo stesso argomento, con dispersione di tempo e di risorse economiche a carico del datore di lavoro, che si vedeva costretto a dover assicurare al proprio dipendente una formazione sostanzialmente doppia su vari argomenti.
La modifica
Con un provvedimento che può consentire notevoli risparmi ai datori di lavoro, e senza allentare la tensione sugli obblighi di formazione (fondamentali per ridurre il rischio di infortuni sul lavoro), il legislatore ha sanato una situazione che appariva paradossale: in tutti i casi di formazione e aggiornamento previsti nel Testo unico sicurezza, in cui i contenuti si sovrappongano in tutto o in parte a quelli previsti per il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, è riconosciuto un credito formativo per la durata e i contenuti della formazione e dell'aggiornamento erogati (è quanto dispone il nuovo comma 5-bis dell'articolo 32 del Dlgs 81/2008, introdotto dall'articolo 32 del Dl 69/2013).
Il provvedimento interessa una platea di addetti piuttosto estesa: in primo luogo coloro che per acquisire i titoli per poter esercitare la funzione di Rspp devono frequentare i corsi di formazione, perché non hanno una delle lauree elencate nel comma 5 dell'articolo 32 del Testo unico (ad esempio, laurea in ingegneria civile, ambientale, industriale o dell'informazione, scienze dell'architettura, scienze e tecniche dell'edilizia), e in generale gli Rspp che, indipendentemente dal tipo di laurea conseguita, sono tenuti a frequentare i corsi di aggiornamento per mantenere l'abilitazione.
Il Dl 69/2013 ha poi aggiunto il comma 14-bis all'articolo 37 del Testo unico, ampliando la platea degli interessati sostanzialmente a tutti i datori di lavoro, dirigenti, preposti e lavoratori, che si vedranno riconosciuti crediti per i corrispondenti argomenti affrontati, in tutti i casi in cui due o più percorsi formativi vadano a sovrapporsi. Il lavoratore che ricopre anche la carica di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, dunque, dovrà frequentare una sola volta i corsi di formazione per gli argomenti previsti nei due percorsi, come ad esempio il modulo giuridico, sostanzialmente comune per i due ambiti formativi. Resta da vedere se le disposizioni sulla formazione saranno modificate nell'iter di conversione del Dl, iniziato dalla Camera. Questa settimana arriverà il parere della commissione Lavoro, che dovrebbe sollecitare emendamenti proprio su questi temi.
È bene ricordare, infine, che, salvo proroghe, scade l'11 luglio il termine per completare la formazione di dirigenti e preposti in base all'accordo della Conferenza Stato-Regioni pubblicato a gennaio 2012.
Sanzioni inasprite
Il Dl 76/2013 sul lavoro ha previsto, dal primo luglio 2013, l'adeguamento del 9,6% delle sanzioni pecuniarie per le contravvenzioni relative all'igiene e alla sicurezza sul lavoro, per la violazione delle norme sulle visite preassuntive, sul Durc e per il mancato rilascio (o mancato uso) del tesserino di riconoscimento ai lavoratori. Le sanzioni saranno aggiornate ogni 5 anni in base all'indice Istat (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.07.2013).

APPALTIAppalti. Gli schemi dell'Autorità. Pronti i bandi tipo per gestire i contratti pubblici.
IN CONSULTAZIONE/ I modelli contengono già le clausole derogabili e adattabili alle necessità specifiche dei singoli enti pubblici.

Le stazioni appaltanti dovranno impostare le gare per appalti pubblici di lavori tenendo conto dei bandi-tipo elaborati dall'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, potendo intervenire solo su alcuni aspetti delle regole delle procedure selettive.
L'Autorità ha infatti avviato la consultazione relativa ai modelli di bandi per i lavori di valore superiore ai 150mila euro, dando una prima attuazione sotto il profilo operativo all'articolo 64 del Codice dei contratti pubblici e sviluppando in schemi dettagliati molte delle indicazioni già fornite con la determinazione n. 4/2012.
I modelli proposti (che non hanno ancora assunto una veste definitiva) non si limitano a specificare le clausole a pena di esclusione, ma configurano una compiuta disciplina della gara, evidenziando le parti obbligatorie e quelle rispetto alle quali le stazioni appaltanti hanno margine di intervenire (quali, in particolare, la definizione concreta dei requisiti di partecipazione e i criteri di valutazione).
Gli schemi sono accompagnati da una nota illustrativa che indica le linee interpretative fondamentali per la partecipazione alle gare di lavori pubblici e le caratteristiche e le modalità di compilazione dei modelli, con particolare riguardo alle parti non derogabili da parte delle stazioni appaltanti, relative alle cause tassative di esclusione di cui all'articolo. 46, comma 1-bis, del Codice.
Un punto-chiave dei bandi-tipo è la sezione dedicata alla specificazione delle categorie delle lavorazioni oggetto dell'appalto e delle relative classifiche per dimensionamento economico. Qui l'Avcp fa rilevare la piena responsabilità del progettista nell'individuazione esatta delle categorie, precisando le caratterizzazioni di quelle generali e di quelle specialistiche e specificando la valenza della codificazione come non obbligatorie o come obbligatorie.
I bandi-tipo presentano anche un quadro di dettaglio per la regolamentazione della partecipazione alla gara dei raggruppamenti temporanei di imprese e dei consorzi, nonché indicano in modo preciso le condizioni per l'avvalimento.
I modelli evidenziano anche una particolare attenzione per il subappalto, anche quando questo debba essere utilizzato dal concorrente per supplire alla mancanza della qualificazione obbligatoria per le lavorazioni scorporabili.
Negli schemi proposti l'Avcp chiarisce finalmente che anche negli appalti di lavori pubblici in sede di offerta devono essere indicati i costi della sicurezza aziendali, come richiesto dall'articolo 87, comma 4, del Codice.
Proprio in ordine alla presentazione delle offerte (e dei documenti per la partecipazione alla gara) l'Avcp ha dettato regole molto dettagliate, evidenziando in particolare le clausole a pena di esclusione, nonché fornendo elementi descrittivi di alcuni passaggi importanti (come la sigillatura dei plichi).
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L'identikit
01 | LE CATEGORIE
Nei bandi tipo l'Autorità chiarisce che il progettista deve individuare le categorie di lavori di cui si compone l'appalto distinguendo le categorie generali dalle specialistiche
02 | LA SICUREZZA
In sede di offerta devono essere indicati i costi della sicurezza aziendali
03 | LE OFFERTE
Nei bandi tipo l'Avcp spiega come presentare le offerte ed evidenzia in particolare le clausole a pena di esclusione, o come devono essere sigillate le buste per essere accettate (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.07.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI: La trasparenza non fa sconti. La pubblicazione online dei redditi non esclude i mini enti. Gli obblighi di pubblicità valgono anche per i comuni con meno di 15.000 abitanti.
Gli amministratori dei comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti sono tenuti agli obblighi di pubblicità e trasparenza previsti dal dlgs 33/2013.
L'articolo 14 del decreto sulla trasparenza si sta dimostrando particolarmente «indigesto» per gli organi di governo, chiamati a rendere pubblica sostanzialmente la propria intera situazione finanziaria e patrimoniale.
Detta disposizione, infatti, obbliga a pubblicare sul sito istituzionale di ogni ente una dichiarazione concernente i diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri; le azioni di società; le quote di partecipazione a società; l'esercizio di funzioni di amministratore o di sindaco di società; copia dell'ultima dichiarazione dei redditi soggetti all'imposta sui redditi delle persone fisiche; una dichiarazione concernente le spese sostenute e le obbligazioni assunte per la propaganda elettorale ovvero l'attestazione di essersi avvalsi esclusivamente di materiali e di mezzi propagandistici predisposti e messi a disposizione dal partito. Tali dichiarazioni vanno estese anche alle posizioni, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano.
La refrattarietà a pubblicare queste informazioni è particolarmente forte nei comuni di piccole dimensioni. È molto forte, infatti, in questi enti la convinzione che gli obblighi di pubblicità previsti dal decreto trasparenza valgano solo per i comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti.
Una prima argomentazione a favore di tale tesi è certamente priva di fondamento. Essa si basa sul dato testuale dell'articolo 41-bis del dlgs 267/2000, come introdotto dall'articolo 3, comma 1, lettera a), della legge 213/2012, che assegna all'autonomia regolamentare degli enti la disciplina della trasparenza della posizione patrimoniale degli amministratori, escludendo i comuni con popolazione fino a 15.000 abitanti. Ma, tale norma risulta espressamente abolita dall'articolo 52, comma 1, lettera c), del dlgs 33/2013.
Una seconda e più forte argomentazione a favore dell'esclusione dall'obbligo di trasparenza per i comuni con meno di 15.000 abitanti discende dall'articolo 52 sempre del dlgs 33/2013. Esso ha modificato l'articolo 1, comma 1, numero 5), della legge 441/1982, il quale stabilisce che le disposizioni di questa legge si applichino «ai consiglieri di comuni capoluogo di provincia ovvero con popolazione superiore ai 15.000 abitanti». Si sostiene, allora, che se la legge 441/1982 limita espressamente il suo campo di applicazione, essa induce ad escludere dagli obblighi di trasparenza gli enti con popolazione fino a 15.000 abitanti.
Di certo, l'estensore del dlgs 33/2013 ha compiuto una cattiva opera di coordinamento tra le sue disposizioni. Infatti vi è un evidente contrasto tra la limitazione contenuta nell'articolo 1 della legge 331/1982 e quanto prevede l'articolo 14, comma 1, del dlgs 33/2013, a mente del quale «con riferimento ai titolari di incarichi politici, di carattere elettivo o comunque di esercizio di poteri di indirizzo politico, di livello statale regionale e locale, le pubbliche amministrazioni pubblicano con riferimento a tutti i propri componenti, i seguenti documenti e informazioni», tra i quali quelli enumerati proprio dagli articoli 2, 3 e 4 della legge 441/1982.
Mentre l'articolo 1 novellato di tale legge, dunque, limita la sua portata escludendo i comuni con meno di 15.000 abitanti, l'articolo 14, come visto, impone a tutte le amministrazioni la pubblicazione dei dati previsti dalla legge 441/1982 «con riferimento a tutti i propri componenti», senza eccezione alcuna, né riguardante la popolazione degli enti, né la tipologia della carica pubblica.
Osservando bene l'articolo 1, comma 1, numero 5), della legge 441/1982, si nota che esso pone gli obblighi di trasparenza solo in capo ai «consiglieri» comunali. Così scritta, allora, la disposizione coinvolgerebbe il sindaco, che è sempre componente dei consigli, ma potrebbe non estendersi a tutti o parte degli assessori, considerando che negli enti con popolazione superiore ai 15.000 abitanti essi non possono far parte del consigli (lo stesso accadrebbe negli enti con popolazione fino a 15.000 abitanti che statutariamente prevedano la nomina di un assessore esterno ai consiglieri).
È evidentemente inammissibile leggere la combinazione tra articolo 14 del dlgs 33/2013 e articolo 1 della legge 441/1982 così da escludere una categoria di amministratori locali, gli assessori esterni, dal campo di applicazione delle regole di trasparenza.
La novellazione dell'articolo 1 della legge 441/1982 non può che considerarsi frutto di cattivo drafting normativo e va considerata recessiva e disapplicata dall'articolo 14, che estendendo gli obblighi di pubblicità a tutti gli amministratori, senza alcuna eccezione e limitazione di popolazione, risponde maggiormente alla ratio legislativa, che è quella della massima trasparenza possibile delle informazioni, la quale mal si concilia, ovviamente, con limitazioni di sorta (articolo ItaliaOggi del 05.07.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi pubblici, incompatibilità senza rinvii. La civit: le situazioni illegittime vanno sanate subito per evitare sanzioni.
Le norme sulle incompatibilità di incarichi pubblici sono immediatamente applicabili e quindi vanno immediatamente sanate le situazioni illegittime relative a incarichi già affidati.

È questo uno dei principi affermati dalla Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche (Civit) che, in tre delibere del 27.06.2013, ha riposto ad alcuni quesiti di natura interpretativa inerenti il conferimento di incarichi nelle pubbliche amministrazioni.
Nella prima delibera (la n. 46/2013) è stato affrontato il tema dell'efficacia nel tempo delle norme sulla inconferibilità e incompatibilità degli incarichi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti privati in controllo pubblico di cui al dlgs n. 39/2013 e si precisa in primo luogo che gli articoli da 4 a 8 del decreto «non incidono sulla validità del preesistente atto di conferimento degli incarichi, mentre ben può la legge sopravvenuta disciplinare ipotesi di incompatibilità tra incarichi e cariche con il conseguente obbligo di eliminare la situazione divenuta contra legem attraverso apposita procedura».
Il principio di fondo è infatti che la nuova disciplina è di immediata applicazione e quindi non è tanto questione che si debba applicare retroattivamente la nuova disciplina, quanto di verificare se vi sia possibilità per sostenere la tesi di un differimento dell'efficacia delle norme sulla incompatibilità. Ciò sarebbe stato possibile laddove l'avesse espressamente previsto la legge ma, non essendo avvenuto, occorre provvedere nel senso di rimuovere le situazioni in conflitto con le nuove norme.
Per la Commissione, infatti, «il protrarsi di situazioni di incompatibilità oggettivamente in contrasto con la nuova disciplina, finirebbe col differire nel tempo la sua efficacia e, quindi, il perseguimento della finalità di prevenzione della corruzione che il legislatore ha attribuito alla disciplina».
In sostanza si creerebbe una disparità di trattamento tra i dirigenti nominati prima del decreto n. 39 e dirigenti nominati successivamente. Per quel che riguarda la delibera n. 47, è stato invece affrontato il problema dei rapporti fra l'articolo 4 del decreto 95/2012, convertito, con modificazioni, in l. n. 135/2012, e gli artt. 9 e 12 del decreto n. 39/2013: il primo impone all'amministrazione titolare della partecipazione, o di poteri di indirizzo e vigilanza, di nominare propri dipendenti nei cda delle società partecipate, i secondi prevedono ipotesi di incompatibilità tra incarichi e cariche in enti di diritto regolati o finanziati (art. 9), e tra incarichi dirigenziali interni e esterni e cariche di componenti degli organi di indirizzo nelle amministrazioni statali, regionali e locali (art. 12).
Al riguardo la Commissione non ravvisa un «diretto e integrale contrasto» perché il decreto 95/2012 «prevede in generale l'obbligatorietà della nomina nei consigli di amministrazione di dipendenti senza specificarne qualifica o funzione, mentre il decreto 39/2013, con riferimento alle amministrazioni centrali, si occupa esclusivamente di dirigenti, salvo il caso di incarichi di funzione dirigenziale nell'ambito degli uffici di diretta collaborazione».
Residuerebbe quindi un parziale contrasto per quanto riguarda la possibilità di nominare dirigenti in enti di diritto privato in controllo pubblico.
L'ultima delibera (n. 48) infine affronta il tema dei limiti temporali alla nomina o alla conferma in incarichi amministrativi di vertice e di amministratori di enti pubblici o di enti di diritto privato in controllo pubblico, ai sensi dell'art. 7, dlgs n. 39/2013 che vieterebbe, non soltanto il conferimento degli incarichi di amministratore di ente pubblico, o di ente di diritto privato in controllo pubblico, presso un ente diverso, ma anche la conferma nella carica presso il medesimo ente, prima ancora che siano trascorsi due anni dalla cessazione del precedente incarico.
Su questa norma la Commissione chiarisce che il divieto opera soltanto per quanto riguarda l'incarico di amministratore presso un diverso ente e che non impedisce invece la conferma dell'incarico già ricoperto (articolo ItaliaOggi del 05.07.2013).

ENTI LOCALIL'in house in una botte di ferro. Gli enti non devono alienare le partecipazioni societarie. Il decreto del fare ha prorogato il termine. Ma gli affidamenti possono essere rinnovati.
Il recente dl 69/2013 (c.d. «decreto Fare») ha prorogato al 31/12/2013 il termine entro cui le amministrazioni pubbliche devono alienare le proprie partecipazioni societarie, assegnando contestualmente il servizio per cinque anni, non rinnovabili, a decorrere dall'01/07/2014.
Tuttavia, un'accorta interpretazione delle disposizioni della «spending review», così come sostenuto dalla sezione regionale di controllo della Campania della Corte dei conti nella deliberazione n. 188/2013, può portare a ritenere che tale obbligo non sussista nei confronti delle società «in house» che rispettano appieno i requisiti richiesti dalla giurisprudenza comunitaria.
Negli ultimi mesi è andata affermandosi l'erronea tendenza ad assimilare le società «in house» a quelle indicate all'art. 4 comma 1 del dl 95/2012, tendenza che, oltre ad essere contraria ai princìpi in materia di in house providing, rischia di portare gli enti ad assumere decisioni sbagliate, con un effetto negativo immediato sul patrimonio di assets, competenze e professionalità accumulato nel corso degli anni.
È innanzitutto necessario rilevare che le società indicate al comma 1 dell'art. 4 sono testualmente quelle «controllate direttamente o indirettamente» dalle pubbliche amministrazioni; si tratta quindi di realtà nelle quali possono essere presenti anche soci privati. Questo aspetto, non secondario, consente di affermare che le società indicate al comma 1 dell'art. 4 non coincidono necessariamente con quelle «in house», in quanto per queste ultime è necessario, fra l'altro, che il loro capitale sia tutto in mano pubblica.
È quindi evidente che il legislatore con tale norma non si è voluto riferire alle categoria delle società «in house», ma, più genericamente, a società che operano prevalentemente con le amministrazioni pubbliche e che possono essere totalmente pubbliche o miste. Non dimentichiamo, inoltre, che l'art. 13 del dl 223/2006 (il c.d. decreto Bersani), tuttora vigente, prevede diversi vincoli per le società strumentali di province e comuni, fra cui quello di operare solo con l'amministrazione pubblica che le partecipa. Come sostenuto dalla sez. reg. di controllo della Campania della Corte dei conti nel parere n. 188 del 09/05/2013, tale disposizione ha come effetto immediato quello di portare ex lege le società strumentali a superare il limite del 90% del fatturato previsto al comma 1 dell'art. 4.
Il rischio è quindi che si arrivi al paradosso che le società strumentali «in house» che hanno rispettato in passato il vincolo imposto dall'art. 13 del Bersani ricadano nelle limitazioni della «spending review», mentre quelle che tale vincolo non lo hanno rispettato si vedano addirittura premiate per il loro comportamento illegittimo, non rientrando nell'obbligo di dismissione. Essendo inammissibile che si arrivi ad una simile situazione, è lecito pensare che le società strumentali «in house» soggette all'art. 13 del decreto Bersani non rientrino nell'ambito applicativo dell'art. 1 comma 4 del dl 95/2012, anche in considerazione del fatto che la ratio sottostante a tale norma, consistente nella salvaguardia della concorrenza e del mercato, sarebbe di fatto già preservata dal rapporto di esclusività che esiste fra la società «in house» e l'amministrazione pubblica socia della stessa.
Inoltre, il comma 3-sexies dell'art. 4, stabilisce che le amministrazioni pubbliche avrebbero potuto predisporre appositi piani di ristrutturazione e razionalizzazione delle società controllate per individuare attività connesse esclusivamente all'esercizio di funzioni amministrative di cui all'art. 118 della Costituzione, che potevano essere riorganizzate e accorpate attraverso società che rispondessero ai requisiti della legislazione comunitaria in materia di «in house providing».
Quindi, se le società «in house» esistenti alla data di entrata in vigore del dl n. 95/2012 sono già organizzate per l'espletamento di attività connesse a funzioni amministrative, non si vede perché non possano continuare ad essere destinatarie di affidamenti diretti, visto che possiedono già i requisiti indicati al comma 3-sexies. Tali interpretazioni sono rafforzate anche dalla norma speciale per le società «in house» contenuta al primo periodo del comma 8 dello stesso art. 4 che prevede che «a decorrere dal 01.01.2014 l'affidamento diretto può avvenire solo a favore di società a capitale interamente pubblico, nel rispetto dei requisiti richiesti dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in house».
Il riferimento all'importo di 200 mila euro che era stato inizialmente previsto quale limite l'importo all'affidamento diretto è stato rimosso dall'art. 34, comma 27, del dl 179/2012 all'indomani della sentenza della Corte costituzionale n. 199 del 17/07/2012, con la quale è stata dichiarata l'incostituzionalità dell'art. 4 del dlgs 138/2012 relativo l'affidamento dei Servizi pubblici locali di rilevanza economica; ciò, forse anche in vista della prossima decisione della Corte costituzionale sui ricorsi ancora pendenti presentati da alcune regioni italiane sulla legittimità costituzionale dell'art. 4.
In conclusione, nei prossimi mesi le amministrazioni pubbliche dovrebbero evitare interpretazioni inutilmente restrittive della loro autonomia organizzativa, che le porterebbero a non rinnovare gli affidamenti diretti alle proprie società «in house», finendo così per mettere in crisi un intero sistema, per distruggere centinaia di posti di lavoro (articolo ItaliaOggi del 05.07.2013).

TRIBUTI: Ruralità acclarata, stop al recupero Ici.
Se dalle visure catastali risulta chiaramente l'annotazione della dichiarata sussistenza di ruralità, i comuni non possono recuperare l'imposta comunale sugli immobili pregressa.

Così i giudici aditi della Commissione tributaria regionale di Firenze che, con la sentenza 10.06.2013 n. 58/25/13, pronunciata il 04/04/2013, sono intervenuti sull'eterna diatriba del riconoscimento della ruralità dei fabbricati, di cui ai commi 3 e 3-bis, dell'art. 9, dl n. 557/1993.
La sentenza accoglie totalmente l'appello della ricorrente che era stata raggiunta da un avviso di accertamento ai fini Ici, notificato dall'ente comunale ove erano collocati gli immobili, per gli anni dal 2004 al 2008. I giudici di prime cure (Ctp di Pistoia, sent. 5/10/2010 n. 211/02/2010) avevano respinto il ricorso principale affermando che erano da esentare dal tributo locale soltanto gli immobili che in catasto erano censiti nelle specifiche categorie (A/6 per gli abitativi e D/10 per gli strumentali), in linea con quanto affermato dalla Suprema corte (Cassazione s.u., sent. 21/08/2009 n. 18565), procedendo nella tassazione per tutti gli altri diversamente censiti.
I giudici della commissione tributaria regionale di Firenze, pur tenendo in considerazione la sentenza appena citata, hanno preso atto delle modifiche introdotte dal legislatore, con particolare riferimento a quelle inserite nel dm 26/7/2012 che ha «chiaramente disposto che la presentazione delle domande e l'inserimento negli atti catastali dell'annotazione producono gli effetti previsti per il riconoscimento della ruralità», a decorrere dal quinto anno antecedente quello di presentazione della domanda. Peraltro, i giudici aditi hanno affermato che la giurisprudenza di merito sostiene da tempo che debba riconoscersi il carattere di ruralità agli immobili strumentali necessari allo svolgimento dell'attività agricola, ribadendo con forza il solo rispetto del requisito «oggettivo» dell'immobile.
Pertanto, detta giurisprudenza di merito sta consolidando il principio, codificato dal recente decreto del 26/7/2012, di attuazione del comma 14-bis, dell'art. 13, dl 201/2011 (ItaliaOggi 5/2/2013), che il requisito di ruralità, posto il rispetto delle condizioni indicate dal comma 3 (abitativi) e 3-bis (strumentali), dell'art. 9, dl n. 557/1993, non si acquisisce con l'iscrizione in una categoria specifica dell'immobile, ma soltanto con l'annotazione in catasto della dichiarata sussistenza dei detti requisiti.
D'altra parte, il comma 2, dell'art. 7, dm 26/7/2012 ha disposto che «la presentazione delle domande e l'inserimento negli atti catastali dell'annotazione producono gli effetti previsti per il riconoscimento del requisito di ruralità» e che, di conseguenza, non si rende necessario il cambio di categoria catastale (Agenzia territorio, circolare 2/T/2012) potendo l'immobile mantenere la categoria originaria e rispondente alla legge catastale.
Infine, la sentenza in commento, con l'accoglimento totale dell'appello del contribuente, sostiene la «retroattività» (quinquennio) della ruralità ai fini Ici con la sola annotazione, chiudendo a qualsiasi e ulteriore interpretazione delle recenti disposizioni, e conferma che la ruralità deve essere riconosciuta, naturalmente ai fini del tributo comunale (Ici), oggi sostituito dall'imposta municipale (Imu), solo in presenza dei requisiti di natura soggettiva e oggettiva, con l'annotazione in calce alla visura catastale e con il mantenimento nella categoria ordinaria dell'immobile (articolo ItaliaOggi del 05.07.2013).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAIn materia di vincolo cimiteriale, la salvaguardia del rispetto dei 200 metri prevista dall'art. 338 del T.U. del 1934 si pone alla stregua di un vincolo assoluto di inedificabilità, valevole per qualsiasi manufatto edilizio anche ad uso diverso da quello di abitazione, che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col vincolo medesimo, e tanto in ragione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico-sanitarie, nella salvaguardia della peculiare sacralità dei luoghi destinati alla sepoltura e nel mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
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Appare evidente che l’impianto di autolavaggio in questione, composto da tettoie, casotti prefabbricati, macchinari, vada a costituire un manufatto edilizio dotato di una certa importanza e stabilità, e che una volta autorizzato non potrebbe più essere rimosso a discrezione dell’amministrazione; e ciò andrebbe in pregiudizio degli interessi sottesi al vincolo cimiteriale, ed in particolare dell'esigenza di consentire l'espansione della cinta cimiteriale (dovendo sorgere, peraltro, proprio a ridosso delle mura perimetrali del cimitero).
La realizzazione dell’impianto contrasterebbe inoltre con l’esigenza di limitare la frequentazione di tale zona da parte del pubblico per motivi igienico-sanitari. Non meno evidente è il contrasto della natura dell’opera con la sacralità del luogo soggetto a tutela.
Conseguentemente, non sembra dubbio che l’impianto di autolavaggio in questione rientri tra le costruzioni edilizie del tutto vietate dalla disposizione di cui all’art. 338 citato e tale circostanza, puntualmente rilevata dall’Amministrazione, costituisce valido motivo giustificativo dell’opposto diniego.

Il ricorso è infondato.
L’art. 338 del Testo unico delle leggi sanitarie di cui al r.d. n. 1265 del 27.07.1934 nonché l’art. 57 del Dpr 10.09.1990 n. 285 vietano l’edificazione nelle aree ricadenti in fascia di rispetto cimiteriale dei manufatti che, per durata, inamovibiltà ed incorporazione al suolo possano qualificarsi come costruzioni edilizie, come tali, incompatibili con la natura dei luoghi e con l’eventuale espansione del cimitero.
Ora, la giurisprudenza ha affermato che in materia di vincolo cimiteriale, la salvaguardia del rispetto dei 200 metri prevista dal citato art. 338 del T.U. del 1934 si pone alla stregua di un vincolo assoluto di inedificabilità, valevole per qualsiasi manufatto edilizio anche ad uso diverso da quello di abitazione, che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col vincolo medesimo, e tanto in ragione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico-sanitarie, nella salvaguardia della peculiare sacralità dei luoghi destinati alla sepoltura e nel mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale (Cons. Stato Sezione IV, 20.07.2011, n. 4403, Cons. Stato Sez. V 03.05.2007 n.1933; TAR Toscana, Sez. III, 02.07.2008 n. 1712).
Ora, appare evidente che l’impianto di autolavaggio in questione, composto da tettoie, casotti prefabbricati, macchinari, vada a costituire un manufatto edilizio dotato di una certa importanza e stabilità, e che una volta autorizzato non potrebbe più essere rimosso a discrezione dell’amministrazione; e ciò andrebbe in pregiudizio degli interessi sottesi al vincolo cimiteriale, ed in particolare dell'esigenza di consentire l'espansione della cinta cimiteriale (dovendo sorgere, peraltro, proprio a ridosso delle mura perimetrali del cimitero). La realizzazione dell’impianto contrasterebbe inoltre con l’esigenza di limitare la frequentazione di tale zona da parte del pubblico per motivi igienico-sanitari. Non meno evidente è il contrasto della natura dell’opera con la sacralità del luogo soggetto a tutela.
Conseguentemente, non sembra dubbio che l’impianto di autolavaggio in questione rientri tra le costruzioni edilizie del tutto vietate dalla disposizione di cui all’art. 338 citato e tale circostanza, puntualmente rilevata dall’Amministrazione, costituisce valido motivo giustificativo dell’opposto diniego.
Per le suesposte considerazioni, il ricorso si appalesa infondato e va, perciò, respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.07.2013 n. 932 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Chi vince l'appalto può perderlo. Gara a rischio anche se il concorrente non ha i requisiti. La Corte di giustizia Ue: il fatto che il ricorrente non sia in regola non salva l'aggiudicatario.
L'aggiudicatario, non in regola, rischia di perdere l'appalto, anche se chi ha impugnato la gara doveva essere escluso dal procedimento. Il giudice deve valutare tutte le offerte, sia dell'aggiudicatario sia di chi ha impugnato l'aggiudicazione, ed eventualmente annullare la procedura di aggiudicazione dell'appalto, che a quel punto è da rifare.

Cambiando radicalmente la tesi prevalente dei giudici amministrativi italiani, su sollecitazione del Tar Piemonte, la Corte di giustizia europea del Lussemburgo, con la sentenza 04.07.20123 causa C-100/12, ha stabilito che «se l'aggiudicatario, che ha proposto ricorso incidentale in un giudizio amministrativo, solleva un'eccezione di inammissibilità fondata sul difetto di legittimazione a ricorrere dell'offerente/ricorrente, con la motivazione che l'offerta di quest'ultimo avrebbe dovuto essere esclusa dall'autorità aggiudicatrice per non conformità alle specifiche tecniche, la direttiva europea 89/665 non ammette che il ricorso sia dichiarato inammissibile senza verifica della compatibilità con le suddette specifiche tecniche dell'offerta sia dell'aggiudicatario, sia dell'offerente/ricorrente principale».
Cerchiamo di capire gli effetti della sentenza, partendo dalla giurisprudenza tradizionale dei Tar e del Consiglio di stato.
Il caso è quello del ricorso principale presentato da una ditta, che non ha vinto l'appalto, contro l'aggiudicazione assegnata a un'altra ditta. In corso di causa, la ditta, che ha vinto l'appalto, a sua volta, con un ricorso, chiamato incidentale, chiede al giudice amministrativo di dichiarare inammissibile il ricorso principale.
L'orientamento attuale della giurisprudenza amministrativa dice che l'esame di un ricorso incidentale, diretto a contestare la legittimazione del ricorrente principale, deve precedere l'esame del ricorso principale. Quindi, bisogna prima bisogna esaminare la domanda della ditta vincitrice, che contesta l'ammissibilità del ricorso della ditta perdente. Il Consiglio di stato ritiene, infatti, che la legittimazione a ricorrere contro la decisione di aggiudicazione di un appalto pubblico spetti soltanto al soggetto che abbia legittimamente partecipato alla procedura di aggiudicazione. Se la ditta perdente non ha i requisiti per partecipare all'appalto, allora non può nemmeno impugnare gli esiti dello stesso.
Il Tar Piemonte, davanti al quale pendeva un ricorso che proponeva il quesito di diritto, ha rinviato la questione alla corte di giustizia. Che ha ritenuto fondato il dubbio del Tribunale amministrativo piemontese e ha stabilito che devono essere verificate sia l'offerta del ricorrente principale (ditta perdente) sia l'offerta del ricorrente incidentale (ditta vincente). Nella sua sentenza, la Corte ricorda che la direttiva 89/665 obbliga gli stati europei a rendere accessibili le procedure di ricorso, a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l'aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione.
Nel procedimento italiano, il giudice ha constatato che sia offerta della ditta perdente sia l'offerta della ditte aggiudicataria non erano conformi alle specifiche tecniche.
In sostanza è solo per errore che l'offerta prescelta non sia stata esclusa al momento della verifica delle offerte, nonostante essa non rispettasse le specifiche tecniche della singola gara. Da qui la conclusione per cui la legislazione Ue non permette che un ricorso contro l'aggiudicazione di un appalto sia dichiarato inammissibile senza verifica della compatibilità con le specifiche tecniche dell'offerta sia dell'aggiudicatario, sia dell'offerente/ricorrente principale. Se in esito alla verificazione delle offerte presentate, il giudice constati che nessuna è conforme alle specifiche imposte dal piano, si apre la strada all'annullamento dell'aggiudicazione dell'appalto (articolo ItaliaOggi del 05.07.2013).

COMPETENZE GESTIONALI - INCARICHI PROFESSIONALI: Affidamento di incarichi di difesa legale.
Alla Giunta (artt. 48 e 107 del T.U. 18.08.2000, n. 267), in quanto organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, non spettano funzioni di gestione quale è da annoverare quella di attribuzione di un incarico professionale.
Invero, la scelta del contraente per l’affidamento di un incarico per lo svolgimento di una prestazione d’opera intellettuale (art. 2230 cod. civ.), a seguito di una gara formale o informale, o anche per trattativa privata, è atto di gestione, privo di qualsiasi contenuto di indirizzo per gli uffici, risolvendosi nella individuazione del soggetto o dei soggetti che appaiono più quotati, secondo regole obbiettive e prefissate, per il conseguimento dei fini della P.A..

... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia, della nota prot. 371/2013 recante la comunicazione della delibera n. 58/2013 avente ad oggetto la scelta del vincitore della selezione per l’affidamento di incarico di difesa dell’ente dinanzi alle giurisdizioni superiori e non.
...
- Considerato che alla Giunta (artt. 48 e 107 del T.U. 18.08.2000, n. 267), al pari della Commissione Straordinaria con i poteri della Giunta Comunale, in quanto organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, non spettano funzioni di gestione quale è da annoverare quella di attribuzione di un incarico professionale;
- Ritenuto, infatti, che, come ha affermato la giurisprudenza condivisa dal Collegio, la scelta del contraente per l’affidamento di un incarico per lo svolgimento di una prestazione d’opera intellettuale (art. 2230 cod. civ.), a seguito di una gara formale o informale, o anche per trattativa privata, è atto di gestione, privo di qualsiasi contenuto di indirizzo per gli uffici, risolvendosi nella individuazione del soggetto o dei soggetti che appaiono più quotati, secondo regole obbiettive e prefissate, per il conseguimento dei fini della P.A. (CdS V 4654/2005, che conferma TAR Lazio–Sez. staccata di Latina n. 00604/2011, cfr. per una analoga procedura TAR Napoli Campania sez. II, 26.05.2011, n. 2854);
- Considerato che nel caso di specie l’individuazione del professionista al quale affidare l’incarico e la sua nomina è avvenuta ad opera della Commissione Straordinaria con i poteri della Giunta comunale, come si legge nella delibera impugnata, e non ad opera dei dirigenti, ai quali spetta per esplicito disposto dell’art. 107 dlgs 267/2001;
- Ritenuto che l’art. 22 dello Statuto, ove conferisce alla Giunta il potere di autorizzare l’introduzione o la resistenza in giudizio non abbia riguardo alla ben diversa ipotesi di conferimento di incarico di attività di difesa dell’ente in una serie indeterminata di controversie e per un determinato periodo di tempo (cfr. CdS V 2730/2012);
- Considerato altresì che il profilo di illegittimità evidenziato supera le eccezioni di inammissibilità del ricorso, in quanto comporta la rinnovazione della procedura in conformità al bando ad opera del dirigente, come peraltro previsto dall’art. 3 del bando medesimo ove si legge che “la valutazione dei candidati sarà effettuata dal Responsabile del Settore A.A.”
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 24.06.2013 n. 1405 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - ESPROPRIAZIONE: Competenze del consiglio comunale.
L’atto adottato ex art. 43, d.P.R. n. 327 del 2001 di acquisizione al patrimonio indisponibile comunale di beni utilizzati per scopi di interesse pubblico deve essere assunto dal Consiglio comunale, trattandosi dell’acquisto di un diritto immobiliare che richiede l’espressione formale di una specifica autonoma volontà.
L’art. 42, comma 2, lett. l), T.U. enti locali, stabilisce che rientrano nelle competenze consiliari gli “acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della giunta, del segretario o di altri funzionari”. Tra questi rientra sicuramente anche l’acquisto di un bene tramite l’istituto della c.d. acquisizione sanante.
L’atto di acquisizione sanante ex art. 43 d.P.R. n. 327 del 2001, per i profili di discrezionalità che lo caratterizzano, esorbita dall'ambito della competenza dell’ufficio per le espropriazioni e, comunque, degli uffici comunali per rientrare nelle attribuzioni del Consiglio comunale in materia di acquisti ed alienazioni immobiliari, di cui all'art. 42 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267.
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La giurisprudenza ha precisato che “l’istituto della “acquisizione sanante” ex art. 43 T.U. n. 327/2001 è di competenza del Consiglio comunale, stante anche la particolare natura di tale acquisizione di cui l’A.P. di questo Consiglio ha fornito una puntuale illustrazione, chiarendo che non risulta possibile qualificare la scelta di farvi ricorso come meramente esecutiva di atti presupposti o rientrante tra le ordinarie funzioni della giunta, del segretario o di altri funzionari, onde tale scelta deve essere ricondotta all’esclusiva competenza dell’organo elettivo consiliare, ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. l, del T.U.E.L.”.
La natura discrezionale dell’atto di acquisizione sanante esclude, poi, che lo stesso possa qualificarsi come previsto in atti fondamentali del consiglio o mera esecuzione degli stessi, sicché si deve escludere anche per tal verso la riconduzione dell’atto alla competenza dei dirigenti.
Il ricorso è fondato.
In particolare, è fondata la dedotta incompetenza del dirigente comunale ad adottare un provvedimento di acquisizione sanante.
L’atto adottato ex art. 43, d.P.R. n. 327 del 2001 di acquisizione al patrimonio indisponibile comunale di beni utilizzati per scopi di interesse pubblico deve essere assunto dal Consiglio comunale, trattandosi dell’acquisto di un diritto immobiliare che richiede l’espressione formale di una specifica autonoma volontà.
L’art. 42, comma 2, lett. l), T.U. enti locali, stabilisce che rientrano nelle competenze consiliari gli “acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della giunta, del segretario o di altri funzionari”. Tra questi rientra sicuramente anche l’acquisto di un bene tramite l’istituto della c.d. acquisizione sanante. (Cons. St., sez. V, 13.10.2010, n. 7472).
L’atto di acquisizione sanante ex art. 43 d.P.R. n. 327 del 2001, per i profili di discrezionalità che lo caratterizzano, esorbita dall'ambito della competenza dell’ufficio per le espropriazioni e, comunque, degli uffici comunali per rientrare nelle attribuzioni del Consiglio comunale in materia di acquisti ed alienazioni immobiliari, di cui all'art. 42 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (Cons. St., sez. III, 31.08.2010, n. 775).
Non può poi ritenersi, come sostiene la difesa del Comune, che il Dirigente ha semplicemente dato attuazione alla volontà comunale espressa in precedenti atti deliberativi, in particolare nella delibera che iniziava la procedura espropriativa.
A tale proposito, la giurisprudenza ha precisato che “l’istituto della “acquisizione sanante” ex art. 43 T.U. n. 327/2001 è di competenza del Consiglio comunale, stante anche la particolare natura di tale acquisizione di cui l’A.P. di questo Consiglio ha fornito una puntuale illustrazione, chiarendo che non risulta possibile qualificare la scelta di farvi ricorso come meramente esecutiva di atti presupposti o rientrante tra le ordinarie funzioni della giunta, del segretario o di altri funzionari, onde tale scelta deve essere ricondotta all’esclusiva competenza dell’organo elettivo consiliare, ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. l, del T.U.E.L.” (Cons. St., sez. III, 31.08.2010, n. 775).
La natura discrezionale dell’atto di acquisizione sanante esclude, poi, che lo stesso possa qualificarsi come previsto in atti fondamentali del consiglio o mera esecuzione degli stessi, sicché si deve escludere anche per tal verso la riconduzione dell’atto alla competenza dei dirigenti
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 21.06.2013 n. 1500 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO DEL SUOLO - Art. 244, c. 2 d.lgs. n. 152/2006 – Attività successive all'accertamento dell'inquinamento di un sito – Competenza provinciale – Sindaco – Ordinanza contingibile e urgente – Limiti.
Il d.lgs. 152/2006 delinea il procedimento volto all’accertamento dell’inquinamento: in particolare l’art. 244, comma 2, accertato il superamento dei valori di concentrazione soglia in ordine al livello di contaminazione di un sito, impone alla provincia, dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell'evento e sentito il Comune seguito dell'accertamento del superamento, di diffidare con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere agli interventi di bonifica e ripristino ambientale del sito inquinato. La previsione normativa sopra indicata esclude ordinariamente il concorso di altri enti nell’attività successiva all’accertamento dell’inquinamento di un sito, comportando, di conseguenza, l’incompetenza del Sindaco ad emanare provvedimenti contingibili e urgenti ex art. 50 T.U.E.L..
Tuttavia la competenza in materia della Provincia può essere considerata come esclusiva soltanto in relazione ai procedimenti ordinari, visto che la norma attributiva del potere non fa uno specifico riferimento alle situazioni in cui si ravvisi l'indifferibilità e l'urgenza di provvedere (per una fattispecie opposta, ossia in cui è prevista esplicitamente l'emanazione di ordinanze contingibili e urgenti, si veda l'art. 191 del D. Lgs. n. 152 del 2006).
Di conseguenza, pur a fronte di una normativa speciale che si occupa, di regola, dell'attività amministrativa in ordine ai siti inquinati, si deve ritenere applicabile la normativa generale, espressione di un potere atipico e residuale, in materia di ordinanze contingibili e urgenti previste dall'art. 50, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000 (T.U.E.L.), allorquando se ne configurino i relativi presupposti (Cons. St., V, 12.06.2009, n. 3765; Cons. St., sez. II, 24.10.2007, n. 2210; Tar Milano, IV, 16.07.2009, n. 4379).
Ammettendo la competenza del Sindaco a utilizzare lo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente, i presupposti di un tale intervento straordinario devono comunque essere individuati e verificati nella loro esistenza in modo rigoroso, rischiandosi altrimenti di derogare all'ordine legale delle competenze, in chiara violazione di legge (nella specie, l'ordinanza, emanata a oltre 6 anni dall'avvenuta conoscenza del superamento delle CSR, è stata ritenuta carente dei presupposti ex artt. 50 e 54, potendo peraltro la situazione di inquinamento essere fronteggiata con gli ordinari rimedi previsti dall’art. 244 d.lgs.152/2006) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 21.06.2013 n. 1465 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI FORNITURETra amministrazioni per le forniture serve la gara pubblica.
LE INDICAZIONI/ Qualificata la fattispecie come appalto e considerata inapplicabile l'eccezione dell'affidamento in house.
Il principio della gara pubblica per la fornitura di beni e servizi vale anche per i contratti tra pubbliche amministrazioni.

Lo ha ribadito la Corte di Giustizia dell'Unione europea in relazione a un caso pendente davanti a una corte tedesca riguardante un appalto di servizi tra enti territoriali (sentenza 13.06.2013 n. C-386/11).
Il distretto di Düren, che raggruppa una pluralità di comuni, decide di affidare senza gara alla città di Düren la pulizia dei propri uffici ubicati nel territorio di quest'ultima per un periodo di due anni. Il contratto prevede un corrispettivo per le spese sostenute da quest'ultimo commisurato a un'aliquota di tariffa oraria. Inoltre, il distretto si riserva una facoltà di controllo sull'attività commissionata e il diritto di recesso.
Una società privata operante nel settore delle pulizie propone un ricorso per vietare la stipula di un siffatto contratto per due ragioni: l'oggetto dell'appalto si riferisce in realtà ad attività che possono essere offerte sul mercato da operatori privati; non si tratta di un affidamento in house sottratto alla normativa sugli appalti pubblici. Risultata soccombente in primo grado, la società propone appello e il giudice investe la Corte di giustizia in via pregiudiziale per ottenere un chiarimento sull'applicabilità della Direttiva 2004/18.
La Corte di giustizia conclude per l'applicazione del principio della gara, pur trattandosi di un contratto tra pubbliche amministrazioni, con una pluralità di argomenti.
In primo luogo, il contratto in questione va qualificato come un appalto pubblico di servizi (articolo 1, paragrafo 2, lett. d), della direttiva 2004/18). Infatti i servizi di pulizia rientrano nell'elenco dei servizi inclusi nella direttiva (All. II A). Non si tratta cioè di una cooperazione tra enti pubblici finalizzata a garantire l'adempimento di una funzione di pubblico servizio sottratta alla normativa europea.
In secondo luogo, non opera neppure l'eccezione dell'affidamento in house, sul quale si è formata ormai un'ampia giurisprudenza europea (a partire dalla sentenza Teckal della Corte di Giustizia 18.11.1999 in C-107/98) e nazionale. Infatti, per assolvere al requisito del «controllo analogo», cioè dell'influenza penetrante dell'ente affidante rispetto all'affidatario tale da considerare quest'ultimo come un'articolazione organizzativa del primo, non basta una semplice clausola contrattuale che riserva al distretto un controllo sull'esecuzione del contratto.
In definitiva, in una fase nella quale si sollecitano le amministrazioni a cooperare e a razionalizzare la politica degli acquisti di beni e servizi, l'affidamento diretto non è lo strumento più idoneo. Ma, volendo, il Codice dei contratti pubblici prevede altri mezzi per farlo, come le centrali di committenza che consentono alle stazioni appaltanti anche di associarsi e di consorziarsi (articolo Il Sole 24 Ore del 06.07.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - INCARICHI PROFESSIONALI: Sindaco in tribunale solo con l'ok della giunta. La Cassazione interviene sulla legittimazione a stare in giudizio.
Il sindaco di un comune può legittimamente stare in un giudizio (civile, amministrativo e anche tributario) solo in presenza di una delibera della giunta comunale che ne autorizzi la rappresentanza processuale, laddove tale delibera sia prevista nel regolamento o nello statuto del comune.
Il sindaco del comune (o il presidente della provincia), ove non sia prevista dal regolamento o dallo statuto alcuna autorizzazione della giunta dell'ente locale, può comunque stare in giudizio personalmente in quanto ha piena legittimità processuale attiva.

La riflessione su tale argomento ci viene suggerita dalla recentissima sentenza 07.06.2013 n. 14389 della Corte di Cassazione, emessa ai fini di un contenzioso relativo ad un rimborso Ici promosso da un contribuente, che aveva eccepito che la norma dell'art. 50 Tuel, non consentisse al dirigente o al sindaco di impugnare la sentenza di una commissione tributaria provinciale in assenza di una delibera della giunta, in quanto nel caso in esame, lo statuto comunale attribuiva invece in via esclusiva alla giunta comunale la competenza ad autorizzare il sindaco a stare in giudizio anche dinanzi agli organi tributari.
In via generale, i giudici della Cassazione hanno ritenuto che nel nuovo quadro delle autonomie locali, ai fini della rappresentanza in giudizio del comune, l'autorizzazione a essere parte della controversia da parte della giunta comunale non costituisce più, in linea generale, atto necessario ai fini della proposizione o della resistenza all'azione. Occorre, però, ad avviso della Cassazione, verificare se lo statuto comunale - competente a stabilire i modi di esercizio della rappresentanza legale dell'ente, anche in giudizio («ex» art. 6, comma 2, del Testo unico delle leggi sull'ordinamento delle autonomie locali, approvato con il dlgs 18.08.2000, n. 267) - preveda l'autorizzazione della giunta, ovvero una preventiva determinazione del competente dirigente. Se così fosse, per costituire validamente la legittimazione a stare in giudizio in capo al sindaco o al dirigente amministrativo, occorre una delibera della giunta in tal senso.
Invece, in mancanza di una disposizione statutaria che la preveda espressamente, l'autorizzazione alla lite da parte della giunta municipale, non costituisce atto necessario ai fini della promozione di azioni o della resistenza in giudizio da parte del sindaco. Nel silenzio quindi del regolamento o dello statuto dell'ente a tale riguardo, il sindaco, infatti, sempre secondo la sentenza in commento, trae la propria investitura direttamente dal corpo elettorale e costituisce, esso stesso, fonte di legittimazione dei componenti della giunta municipale, nel quadro di un sistema costituzionale e normativo di riferimento profondamente influenzato dalle modifiche apportate al Titolo V della Costituzione dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, nonché di quelle introdotte dalla legge n. 131 del 2003 con ripercussioni anche sull'impianto del Testo unico sugli enti locali.
Quest'ultimo, all'art. 50, infatti indica il sindaco quale organo responsabile dell'amministrazione comunale e gli attribuisce la rappresentanza, in via generale, dell'ente locale. Nel caso in esame, invece lo statuto del comune indicava chiaramente che la giunta «autorizza il sindaco a stare in giudizio come attore o come convenuto, dinanzi alla magistratura ordinaria, amministrativa, agli organi amministrativi o tributari, approva transazioni o rinuncia alle liti».
Tale organo, quindi, effettua un processo di valutazione sull'opportunità di costituirsi in giudizio sulla base della tutela degli interessi pubblici alla proposizione dell'azione (o alla resistenza alla lite) e la sua delibera costituisce un atto necessario, secondo l'espressa previsione statutaria, ai fini della legittimazione processuale dell'organo investito della rappresentanza. Al di fuori di tale autorizzazione, la parte (ente locale) non può costituirsi in giudizio, né può proseguire il contenzioso, in quanto appare priva del potere di rappresentanza dello stesso ente locale, con tutte gli effetti processuali che conseguono a questa carenza.
Per completezza si consideri che dal punto di vista tributario, l'art. 11 del dlgs 546/1992, è relativo alla capacità di stare in giudizio (legitimatio ad processum).
La disposizione, infatti, prevede al comma 3 dello stesso art. 11, che «l'ente locale nei cui confronti è proposto il ricorso sta in giudizio mediante l'organo di rappresentanza previsto dal proprio ordinamento», con ciò rinviando alle leggi speciali in materia di enti locali, appena rammentate.
Conseguentemente i giudici, in questo, come negli altri casi citati nella giurisprudenza della Suprema corte, precedenti che ormai rappresentano un andamento consolidato, hanno accolto le ragioni del contribuente, condannando alle spese di lite il comune resistente (articolo ItaliaOggi del 05.07.2013).

COMPETENZE PROGETTUALIRete idrica, lavori diretti da ingegneri, no architetti.
Non può essere aggiudicata a un architetto la direzione dei lavori per l'adeguamento della rete idrica del Comune: l'attività rientra nelle opere idrauliche, e va dunque riservata a un ingegnere, perché esula dal concetto di «edilizia civile», laddove quest'ultima prevede invece anche la partecipazione dell'architetto.

È quanto emerge dalla sentenza 31.05.2013 n. 1270 emessa dal TAR Puglia-Lecce, Sez, II..
Fonte sovraordinata - Accolto il ricorso dell'Ordine degli ingegneri, rimasti esclusi dall'appalto. I lavori sugli impianti della rete urbana di condotta e distribuzione dell'acqua costituiscono un'opera idraulica vera e propria. Nella nozione di «edilizia civile» sono invece comprese tutte le opere anche connesse e accessorie, purché ovviamente si tratti di pertinenze al servizio di singoli fabbricati o complessi edilizi. Ma non vi rientrano anche i lavori di ingegneria idraulica.
Il regolamento dell'ente locale, poi, non può derogare alla disciplina portata da fonti sovraordinate come, fra l'altro, il dlgs 129/92, che agli art. 1 e 2 ha attribuito una specifica riserva a favore degli ingegneri per quanto concerne la progettazione di opere viarie non connesse con opere di edilizia civile. È in particolare riservata agli ingegneri la progettazione di costruzioni stradali, opere igienico-sanitarie, impianti elettrici, opere idrauliche, operazioni di estimo, estrazione di materiali, opere industriali.
Legittimazione attiva - Nessun dubbio che l'organismo professionale sia legittimato a far annullare l'attribuzione dell'incarico. Gli Ordini degli ingegneri, degli architetti, dei geologi, devono ritenersi, infatti, legittimati a impugnare avvisi o bandi di gara o, più in generale, atti di procedure selettive poste in essere da pubbliche amministrazioni per la scelta dei professionisti cui affidare incarichi di progettazione, ogni qual volta le regole di scelta del contraente e gli atti della procedura siano idonei a determinare la lesione di profili della professionalità dei professionisti partecipanti.
La legittimazione sussiste se le regole della procedura incidono direttamente sulle regole professionali. Spese di giudizio compensate (articolo ItaliaOggi del 09.07.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE PROGETTUALILa giurisprudenza amministrativa <<ha da tempo riconosciuto ampia legittimazione al ricorso giurisdizionale in capo agli Ordini e Collegi professionali a tutela sia di interessi propri dell’ente che di interessi propri ed esponenziali del gruppo professionale nel suo complesso. Gli Ordini degli ingegneri, degli architetti, dei geologi, devono ritenersi, infatti, legittimati ad impugnare avvisi o bandi di gara o, più in generale, atti di procedure selettive poste in essere da pubbliche amministrazioni per la scelta dei professionisti cui affidare incarichi di progettazione, ogni qual volta le regole di scelta del contraente e gli atti della procedura siano idonei a determinare la lesione di profili della professionalità dei professionisti partecipanti. Detta legittimazione sussiste […] qualora le regole della procedura siano direttamente incidenti sulle regole professionali (ad es. ammissione di altre professionalità allo svolgimento di attività riservate alla categoria ricorrente>>.
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Non vi è dubbio che nella nozione di “edilizia civile” siano da comprendere tutte le opere anche connesse ed accessorie, purché ovviamente si tratti di pertinenze al servizio di singoli fabbricati o complessi edilizi.
Sennonché, nella specie, la delibera impugnata riguarda incarichi relativi all’ammodernamento ed all’ampliamento della rete idrica comunale.
In proposito, tali lavori, concernenti gli impianti della rete urbana di condotta e distribuzione dell’acqua, non sono riconducibili all’ambito dell’“edilizia civile”, ma piuttosto rientrano nell’ingegneria idraulica che, ai sensi dell’art. 51 del citato regolamento, forma bensì oggetto riservato alla professione di ingegnere.
Ciò risulta confermato dal successivo art. 54 che, pur estendendo, in via eccezionale, la competenza ordinaria degli architetti diplomati entro una certa data, fa esplicita eccezione per una serie di applicazioni, di carattere più marcatamente tecnico-scientifico, tra le quali appunto le “opere idrauliche”.
In definitiva è, quindi, da escludere che gli incarichi in questione possano essere conferiti ad architetti.
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Quanto all’applicabilità dei principi appena richiamati al caso in esame, gli stessi non possono non rilevare anche con riferimento all’attività di direzione lavori.
Invero, gli articoli 51 e 52 del r.d. n. 2537/1925, confermato nella sua piena vigenza e nel suo contenuto dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. 129/1992 (di attuazione, tra l’altro, della direttiva Cee n. 384/85), riservano alla comune competenza di architetti e ingegneri le sole opere di edilizia civile, mentre rimane riservata alla competenza generale degli ingegneri la progettazione di costruzioni stradali, opere igienico-sanitarie, impianti elettrici, opere idrauliche, operazioni di estimo, estrazione di materiali, opere industriali.
Né può valere l’obiezione per cui, per la direzione dei lavori […], varrebbe una diversa regola rispetto a quella valevole per la progettazione, in quanto ormai la sede della disciplina della direzione dei lavori si trova nel “Codice dei contratti pubblici” (art. 130), atteso che l’art. 130 del d.lgs. 163/2011 manifesta solo una opzione per quanto concerne la direzione dei lavori, da svolgersi preferibilmente all’interno della stazione appaltante, ma non è norma che riguarda il riparto di competenze tra diverse figure professionali, che rimane invece, regolato dal r.d. n. 2537/1925.
Inoltre, l’art. 148 del d.p.r. 207/2010 (regolamento di esecuzione del d.lgs. 163/2011), sancisce che il direttore dei lavori cura che i lavori cui è preposto siano eseguiti a regola d’arte e in conformità del progetto; sembra pertanto logico che se la progettazione dei lavori è rimessa, secondo l’ordine delle competenze professionali di cui si è detto, alla categoria degli ingegneri anche la direzione dei lavori deve essere affidata per quelle opere alla stessa categoria.
Né può essere accolta la tesi comunale, in base alla quale la distinzione delle competenze tra architetti e ingegneri, in quanto disciplinata da una norma regolamentare (r.d. n. 2357/1925), sarebbe modificabile da regolamenti successivi dei singoli enti locali, e ciò per due ordini di motivi: in primo luogo, in ragione della circostanza per cui il citato r.d., pur non essendo una norma di rango legislativo primario, è fonte sovraordinata rispetto ai regolamenti degli enti locali e, in secondo luogo, in quanto il riparto delle competenze tra le due figure professionali ivi fissato è stato cristallizzato, come detto, dal d.lgs. 129/1992, che agli articoli 1 e 2 ha attribuito una specifica riserva a favore degli ingegneri per quanto concerne la progettazione di opere viarie non connesse con opere di edilizia civile, qual è all’evidenza l’opera pubblica in parola.

1.- Premesso che gli Ordini professionali ricorrenti censurano il provvedimento con il quale l’Amministrazione Comunale intimata aggiudicava, relativamente ai disposti <<lavori di adeguamento dei recapiti finali di reti di fognatura pluviale che scaricano nel sottosuolo attraverso pozzi assorbenti>>, i servizi di <<direzione lavori, misura e contabilità, nonché coordinamento in materia di sicurezza nella fase esecutiva>>.
2.- Rilevato che, in particolare, essi contestano la riconducibilità dei servizi in parola alle competenze degli iscritti all’Albo degli Architetti (tale è l’aggiudicataria) piuttosto che a quelle degli iscritti all’Albo degli Ingegneri.
3.- Osservato in via preliminare, quanto al tema della legittimazione al gravame, che la giurisprudenza amministrativa <<ha da tempo riconosciuto ampia legittimazione al ricorso giurisdizionale in capo agli Ordini e Collegi professionali a tutela sia di interessi propri dell’ente che di interessi propri ed esponenziali del gruppo professionale nel suo complesso. Gli Ordini degli ingegneri, degli architetti, dei geologi, devono ritenersi, infatti, legittimati ad impugnare avvisi o bandi di gara o, più in generale, atti di procedure selettive poste in essere da pubbliche amministrazioni per la scelta dei professionisti cui affidare incarichi di progettazione, ogni qual volta le regole di scelta del contraente e gli atti della procedura siano idonei a determinare la lesione di profili della professionalità dei professionisti partecipanti. Detta legittimazione sussiste […] qualora le regole della procedura siano direttamente incidenti sulle regole professionali (ad es. ammissione di altre professionalità allo svolgimento di attività riservate alla categoria ricorrente […])>> (Tar Basilicata, I, 08.06.2011, n. 352; v. anche Tar Veneto, I, 25.11.2003, n. 5909; Tar Campania Napoli, I, 22.02.2000, n. 500).
3.1 Osservato ancora, quanto alla pure dedotta inammissibilità del gravame per mancata censura degli atti inditivi della selezione, che gli atti stessi non esplicitavano, a ben vedere, l’apertura della medesima -anche- a categorie professionali diverse da quella degli ingegneri (<<Soggetti che possono presentare manifestazioni d’interesse per il conferimento dell’incarico: Liberi professionisti in forma singola o associata […]>>), sicché di per sé non risultavano concretamente lesivi dell’interesse oggi azionato.
4.- Ritenuto, quanto al ‘merito’ delle questioni in esame, che secondo l’indirizzo della giurisprudenza amministrativa <<il capo IV del regolamento per le professioni d’ingegnere e di architetto, approvato con regio decreto n. 2537 del 1925, disciplina l’oggetto ed i limiti delle competenze spettanti alle due figure professionali.
Al riguardo, non è invero riscontrabile una completa equiparazione tra tali categorie di professionisti. L’art. 51, concernente la professione di ingegnere, prevede una competenza di carattere generale comprendente interventi di vario tipo, relativi alla progettazione, conduzione e stima relativi alle “costruzioni di ogni specie” ed all’impiantistica civile ed industriale, alle infrastrutture ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione, riconoscendo in senso lato una abilitazione comprendente ogni forma di applicazione delle tecniche relative alla fisica, alla rilevazione geometrica ed alle operazioni di estimo.
L’art. 52 delimita, invece, la competenza professionale degli architetti alle sole “opere di edilizia civile”, che rientrano pure nelle competenze degli ingegneri, eccetto per quanto riguarda la parte non “tecnica” degli interventi su edifici di rilevante interesse artistico.
Orbene non vi è dubbio che nella nozione di “edilizia civile” siano da comprendere tutte le opere anche connesse ed accessorie, purché ovviamente si tratti di pertinenze al servizio di singoli fabbricati o complessi edilizi.
Sennonché, nella specie, la delibera impugnata riguarda incarichi relativi all’ammodernamento ed all’ampliamento della rete idrica comunale.
In proposito, tali lavori, concernenti gli impianti della rete urbana di condotta e distribuzione dell’acqua, non sono riconducibili all’ambito dell’“edilizia civile”, ma piuttosto rientrano nell’ingegneria idraulica che, ai sensi dell’art. 51 del citato regolamento, forma bensì oggetto riservato alla professione di ingegnere.
Ciò risulta confermato dal successivo art. 54 che, pur estendendo, in via eccezionale, la competenza ordinaria degli architetti diplomati entro una certa data, fa esplicita eccezione per una serie di applicazioni, di carattere più marcatamente tecnico-scientifico, tra le quali appunto le “opere idrauliche” (cfr. Cons. St., IV, 19.02.1990, n. 92).
In definitiva è, quindi, da escludere che gli incarichi in questione possano essere conferiti ad architetti
>> (Tar Campania Napoli, I, 14.08.1998, n. 2751; più di recente, v. Tar Calabria Catanzaro, II, 09.04.2008, n. 354; Consiglio di Stato, IV, 09.05.2001, n. 2600).
4.1 Ritenuto inoltre, quanto all’applicabilità dei principi appena richiamati al caso in esame, che gli stessi non possono non rilevare anche con riferimento all’attività di direzione lavori, secondo quanto correttamente precisato dal Tar Emilia Romagna Parma nella sentenza n. 389 del 09.11.2011: <<gli articoli 51 e 52 del r.d. n. 2537/1925, confermato nella sua piena vigenza e nel suo contenuto dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. 129/1992 (di attuazione, tra l’altro, della direttiva Cee n. 384/85), riservano alla comune competenza di architetti e ingegneri le sole opere di edilizia civile, mentre rimane riservata alla competenza generale degli ingegneri la progettazione di costruzioni stradali, opere igienico-sanitarie, impianti elettrici, opere idrauliche, operazioni di estimo, estrazione di materiali, opere industriali.
Né può valere l’obiezione per cui, per la direzione dei lavori […], varrebbe una diversa regola rispetto a quella valevole per la progettazione, in quanto ormai la sede della disciplina della direzione dei lavori si trova nel “Codice dei contratti pubblici” (art. 130), atteso che l’art. 130 del d.lgs. 163/2011 manifesta solo una opzione per quanto concerne la direzione dei lavori, da svolgersi preferibilmente all’interno della stazione appaltante, ma non è norma che riguarda il riparto di competenze tra diverse figure professionali, che rimane invece, regolato dal r.d. n. 2537/1925.
Inoltre, l’art. 148 del d.p.r. 207/2010 (regolamento di esecuzione del d.lgs. 163/2011), sancisce che il direttore dei lavori cura che i lavori cui è preposto siano eseguiti a regola d’arte e in conformità del progetto; sembra pertanto logico che se la progettazione dei lavori è rimessa, secondo l’ordine delle competenze professionali di cui si è detto, alla categoria degli ingegneri anche la direzione dei lavori deve essere affidata per quelle opere alla stessa categoria.
Né può essere accolta la tesi comunale, in base alla quale la distinzione delle competenze tra architetti e ingegneri, in quanto disciplinata da una norma regolamentare (r.d. n. 2357/1925), sarebbe modificabile da regolamenti successivi dei singoli enti locali, e ciò per due ordini di motivi: in primo luogo, in ragione della circostanza per cui il citato r.d., pur non essendo una norma di rango legislativo primario, è fonte sovraordinata rispetto ai regolamenti degli enti locali e, in secondo luogo, in quanto il riparto delle competenze tra le due figure professionali ivi fissato è stato cristallizzato, come detto, dal d.lgs. 129/1992, che agli articoli 1 e 2 ha attribuito una specifica riserva a favore degli ingegneri per quanto concerne la progettazione di opere viarie non connesse con opere di edilizia civile, qual è all’evidenza l’opera pubblica in parola
>>).
4.2 Ritenuto, infine, che la presenza di un ingegnere all’interno dell’ufficio di direzione dei lavori (l’ing. Martina, ispettore di cantiere) non incide, giuridicamente, sulla questione della legittimazione -in questo caso insussistente- degli architetti a ricoprire l’incarico di cui oggi si discute (TAR Puglia-Lecce, Sez. II,  sentenza 31.05.2013 n. 1270 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Accesso carrabile e pedonale da un’area privata su strada ad uso pubblico senza il consenso del proprietario.
L’amministrazione comunale non può, in sede di rilascio di un permesso di costruire, consentire l’accesso carrabile e pedonale, da un’area privata su una strada ad uso pubblico, qualora tale strada sia di proprietà di un altro soggetto privato e qualora manchi il consenso da parte del proprietario.
La compressione delle prerogative del proprietario conseguenti all’assoggettamento del bene al pubblico passaggio non può spingersi (per evidente eterogeneità di ratio) sino ad ammettere l’adozione di atti abilitativi (nel caso di specie: il permesso di costruire) i quali comportino un’ulteriore forma di compressione volta al soddisfacimento di un interesse squisitamente privato ed individuale, quale l’accesso alla strada di uso pubblico.
Se si ammettesse che in sede di rilascio del permesso di costruire all’autorità amministrativa sia consentito costituire sull’area di un terzo un peso (nel caso si specie: l’obbligo di consentire il passaggio) indipendentemente dal consenso del proprietario, si giungerebbe ad ammettere un modo surrettizio di costituzione di una servitù sostanziale (quale quella che consente il passaggio attraverso e sul fondo del vicino) al di fuori dei tassativi modi di costituzione espressamente richiamati dall’articolo 1032 del Codice civile e in assenza della corresponsione dell’indennità dovuta ai sensi degli articoli 1032 e 1053 del medesimo Codice.

Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto da una società cooperativa edilizia avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale dell’Abruzzo con cui è stato accolto il ricorso proposto da una società cooperativa controinteressata e, per l’effetto, è stato disposto l’annullamento del titolo edilizio rilasciato in suo favore nel dicembre del 2004 per la parte in cui le ha consentito di realizzare un accesso carrabile su una strada privata (ma ad uso pubblico) di proprietà della ricorrente in primo grado.
Il thema decidendum consiste nello stabilire se legittimamente l’amministrazione comunale possa, in sede di rilascio di un permesso di costruire, consentire l’accesso –carrabile e pedonale– da un’area privata su una strada ad uso pubblico, qualora tale strada sia di proprietà di un altro soggetto privato e qualora manchi il consenso (anzi: vi sia l’espresso dissenso) da parte del proprietario
Ad avviso del Collegio, la sentenza è meritevole di conferma laddove ha ritenuto che al quesito debba essere fornita risposta in senso negativo.
Al riguardo si osserva in primo luogo:
- che è pacifico in atti che la via Ateleta è un’arteria viaria in parte di proprietà comunale e in parte di proprietà della cooperativa edilizia appellata e che essa si configura –almeno in parte– come strada privata di suo pubblico in quanto consente il collegamento fra due strade piuttosto importanti per la viabilità cittadina (la Via Abruzzo e la Via della Scuola);
- è parimenti pacifico che l’accesso pedonale e carrabile che il Comune ha ammesso da e per il complesso immobiliare della società appellante ricade in toto nella porzione della via Ateleta di proprietà della cooperativa appellata (in tal senso depone, oltretutto, la relazione tecnica che il primo giudice ha demandato al dirigente del Settore Viabilità – Mobilità della provincia dell’Aquila).
Ora, risulta in atti che sia sorta fra le parti private una controversia avente ad oggetto la delimitazione della consistenza dei reciproci diritti sulla strada in questione e che essa sia stata definita con sentenza del Tribunale civile dell’Aquila n. 202 del 2009, il quale si è espresso nei termini che seguono: “l’utilizzazione di una strada privata per il transito di veicoli da parte di una pluralità indeterminata di persone, se da un lato vale ad evidenziare l’assoggettamento del bene ad uso pubblico di passaggio, non può dall’altro legittimare il proprietario del fondo confinante all’apertura di accesso alla strada stessa, nemmeno in forza di concessione amministrativa, trattandosi di facoltà che esorbita dai limiti del predetto uso pubblico del bene privato e che correlativamente non può essere neppure oggetto di concessione, essendo a tal fine necessario un più ampio titolo di acquisto del bene rispetto al contenuto minimo qualificante del diritto “uso pubblico”; pertanto, [l’assoggettamento] ad uso pubblico della strada Ateleta (…) non poteva certamente legittimare la resistente, una volta acquistato il fondo confinante, ad aprire un accesso sulla strada stessa e ad esercitarvi il passaggio per accedere al proprio fondo; ciò a prescindere dalla presenza di concessione edilizia, che nulla vale a questi fini in mancanza di atti costitutivi di una servitù di passaggio”.
Ritiene il Collegio le conclusioni cui è pervenuto il giudice civile siano condivisibili e applicabili anche ai fini della definizione della presente controversia, nel cui ambito la questione relativa alla delimitazione dei diritti e degli obblighi delle parti private in lite viene in rilievo in quanto incide sulla legittimità degli atti abilitativi rilasciati dall’amministrazione comunale.
In particolare, la sentenza civile è condivisibile laddove ha osservato che la compressione delle prerogative del proprietario conseguenti all’assoggettamento del bene al pubblico passaggio non può spingersi (per evidente eterogeneità di ratio) sino ad ammettere l’adozione di atti abilitativi (nel caso di specie: il permesso di costruire) i quali comportino un’ulteriore forma di compressione volta al soddisfacimento di un interesse squisitamente privato ed individuale, quale l’accesso alla strada di uso pubblico.
Si osserva, d’altronde, che se si ammettesse che in sede di rilascio del permesso di costruire all’autorità amministrativa sia consentito costituire sull’area di un terzo un peso (nel caso si specie: l’obbligo di consentire il passaggio) indipendentemente dal consenso del proprietario, si giungerebbe ad ammettere un modo surrettizio di costituzione di una servitù sostanziale (quale quella che consente il passaggio attraverso e sul fondo del vicino) al di fuori dei tassativi modi di costituzione espressamente richiamati dall’articolo 1032 del Codice civile e in assenza della corresponsione dell’indennità dovuta ai sensi degli articoli 1032 e 1053 del medesimo Codice.
Si osserva, inoltre, che le conclusioni richiamate non sono in contrasto con i princìpi enucleati dalla sentenza di questo Consiglio di Stato, quinta sezione, 09.06.2008, n. 2864 (espressamente richiamata nell’atto di appello).
Si osserva al riguardo:
- che quella sentenza ha compendiato i princìpi giurisprudenziali in tema di presupposti e condizioni per l’assoggettamento all’uso pubblico di una strada privata, ma non ha trattato la questione (che qui viene in rilievo) relativa al se tale assoggettamento ad uso pubblico comporti altresì che l’amministrazione possa –in assenza o in contrasto con la volontà del proprietario– consentire un accesso ad uso esclusivamente privato sull’area;
- che, se per un verso è vero che la sentenza in parola ha affermato che l’assoggettamento ad uso pubblico di una strada privata comporta che questa diviene soggetta alla normale disciplina stradale “e la proprietà privata si riduce al fatto che l'area ritornerebbe nella piena disponibilità del proprietario quando cessasse la destinazione stradale”, per altro verso essa non ha affatto affermato che ciò comporti necessariamente la possibilità di adottare in modo legittimo atti di carattere abilitativo quale quello impugnato in primo grado. Anzi, se si portasse alle estreme conseguenze di sistema l’assunto dell’appellante, si giungerebbe alla conclusione (invero inammissibile) secondo cui, anche una volta venute meno le condizioni che hanno comportato l’assoggettamento ad uso pubblico della strada, non verrebbe meno l’impropria forma di servitù in tal modo costituita (lo si ripete: in assenza di una fonte legale o volontaria di costituzione ai sensi dell’articolo 1032 del Codice civile) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.05.2013 n. 2416 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’utilizzazione di una strada privata per il transito di veicoli da parte di una pluralità indeterminata di persone, se da un lato vale ad evidenziare l’assoggettamento del bene ad uso pubblico di passaggio, non può dall’altro legittimare il proprietario del fondo confinante all’apertura di accesso alla strada stessa, nemmeno in forza di concessione amministrativa, trattandosi di facoltà che esorbita dai limiti del predetto uso pubblico del bene privato e che correlativamente non può essere neppure oggetto di concessione, essendo a tal fine necessario un più ampio titolo di acquisto del bene rispetto al contenuto minimo qualificante del diritto “uso pubblico”.
Pertanto, “l’assoggettamento…ad uso pubblico della strada Ateleta……non poteva certamente legittimare la resistente, una volta acquistato il fondo confinante, ad aprire un accesso sulla strada stessa e ad esercitarvi il passaggio per accedere al proprio fondo; ciò a prescindere dalla presenza di concessione edilizia, che nulla vale a questi fini in mancanza di atti costitutivi di una servitù di passaggio.
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Il Comune non può consentire, senza l’accettazione espressa dei proprietari, l’accesso di terzi attraverso la strada privata e se lo fa vìola l’art. 11 del D.P.R. 380/2001 consentendo l’edificazione a chi non dispone del titolo (limitatamente al disposto accesso) per farlo.
E ciò, si ribadisce, per quanto sopra detto, nonostante la natura pubblica del passaggio attraverso il tratto privato di strada.

I. I ricorrenti impugnano il permesso di costruire rilasciato alla controinteressata nella parte in cui consente gli accessi, carrabili e pedonali, attraverso una strada che i ricorrenti qualificano di loro esclusiva proprietà.
I.1) E’ accaduto che il Comune dell’Aquila ha autorizzato la costruzione di un fabbricato in L’Aquila su area riportata al N.C.T. al foglio 90, part.lle nn. 1664, 2644, sulla base (anche) di una dichiarazione della cooperativa controinteressata (in produzione di parte ricorrente, doc. n. 3) attestante che “gli accessi del futuro edificio avverranno dall’antistante strada privata di uso pubblico via Ateleta. Viabilità in corso di cessione al Comune da parte delle cooperative”.
La circostanza che la strada attraverso la quale realizzare gli accessi non fosse nella disponibilità della cooperativa richiedente, e neppure del Comune, era dunque ben chiara alla stessa richiedente (come comprovato dalla prudenziale aggiunta alla succitata dichiarazione in ordine alla “viabilità in corso di cessione al comune”, che, a ben vedere, corregge la qualificazione di “strada privata di suo pubblico”) e dello stesso comune (a margine della dichiarazione succitata il funzionario istruttore attesta che “via Ateleta a tutt’oggi risulta strada privata aperta al pubblico transito. Si ritiene di dover chiedere l’autorizzazione agli attuali proprietari dell’area”).
Nello stesso senso si esprime il Settore territorio del Comune di L’Aquila che attestava (doc. n. 4 in produzione di parte ricorrente) che “per la realizzazione dell’accesso al lotto d’intervento risulta necessario acquisire specifico assenso da parte dei proprietari dell’area di fatto utilizzata come viabilità. L’attuale via Ateleta, sebbene aperta al pubblico transito, risulta essere strada privata”.
Il settore Opere pubbliche (doc. n. 2 in produzione di parte ricorrente) del pari certificava che “la strada denominata via Ateleta in località Torretta, di collegamento tra via Abruzzo e via della Scuola, è di natura privata, aperta al pubblico transito”.
II. Osserva il Collegio che, sulla base della relazione tecnica commessa dal TAR al Dirigente del Settore Viabilità – Mobilità della Provincia dell’Aquila, può senz’altro addivenirsi alla conclusione che la contestata Via Ateleta, nel tratto in contestazione, sia “strada privata aperta al pubblico transito”, come del resto riconoscono pacificamente sia il Comune resistente che la controinteressata; e ciò non solo per quanto attestato dal Comune e risultante dalla documentazione esibita in atti, ma per la circostanza del tutto evidente che via Ateleta è arteria di collegamento (di proprietà privata) tra due strade pubbliche (via Abruzzo e via della Scuola); se non altro per il passaggio generalizzato, ripetuto e prolungato, per la finalità suindicata, l’uso pubblico non può ragionevolmente escludersi.
II.1) Il tecnico nominato ha invero sul punto chiarito che “dalla documentazione prodotta dalle parti si evince che un tratto di via Ateleta è privato in quanto i terreni su cui insiste la stessa sono di proprietà degli assegnatari degli alloggi della Cooperativa giusta atto del Notaio Antonio Battaglia rep. n. 92043 del 16.02.1996. Un altro tratto di strada è di proprietà del Comune di L’Aquila il quale l’ha acquisita con atto del notaio Franca Fanti del 12.07.2006, n. rep. 37786 di cessione gratuita di area tra la soc.cooperativa edilizia Eccezione a r.l. ed il Comune stesso. Lungo il tratto privato di via Ateleta insiste il terreno su cui è stata realizzata dalla Orione Costruzioni Generali s.r.l. la palazzina situata al n. civico 26 di via Ateleta previo permesso a costruire n. 512 del 28.12.2004…Il progetto allegato al permesso di costruire prevedeva la realizzazione di un accesso pedonale e di uno carrabile che effettivamente insistono sulla parte privata di via Ateleta di proprietà degli assegnatari degli alloggi della cooperativa edilizia Novità”.
Conclude il tecnico, condivisibilmente, che: “1. La strada via Ateleta è parte di proprietà comunale parte di proprietà privata; 2. La strada via Ateleta è di effettivo uso pubblico ed in particolare di pubblico transito; 3. L’uso pubblico è manifesto sin dalla realizzazione delle n.2 cooperative e quindi almeno dal 1981”.
III. Ma tale circostanza (uso pubblico della strada) non comporta affatto, come sia il Comune che la controinteressata intendono, che la strada possa essere utilizzata come accesso alla proprietà privata di altri che non sia il proprietario della strada medesima.
L’uso pubblico, come sopra detto, serve (e tali sono i limiti della servitù imposta) per collegare, carrabilmente e pedonalmente, via degli Abruzzo e via della Scuola.
Tale è la conclusione cui è pervenuto il giudice civile (sentenza tribunale L’Aquila, n. 202/2009) pronunciandosi sulla controversia inter partes incentrata sulla esatta consistenza dei diritti reciproci sulla strada in questione.
Puntualmente, il giudicante evidenziava che “l’utilizzazione di una strada privata per il transito di veicoli da parte di una pluralità indeterminata di persone, se da un lato vale ad evidenziare l’assoggettamento del bene ad uso pubblico di passaggio, non può dall’altro legittimare il proprietario del fondo confinante all’apertura di accesso alla strada stessa, nemmeno in forza di concessione amministrativa, trattandosi di facoltà che esorbita dai limiti del predetto uso pubblico del bene privato e che correlativamente non può essere neppure oggetto di concessione, essendo a tal fine necessario un più ampio titolo di acquisto del bene rispetto al contenuto minimo qualificante del diritto “uso pubblico”; pertanto, “l’assoggettamento…ad uso pubblico della strada Ateleta……non poteva certamente legittimare la resistente, una volta acquistato il fondo confinante, ad aprire un accesso sulla strada stessa e ad esercitarvi il passaggio per accedere al proprio fondo; ciò a prescindere dalla presenza di concessione edilizia, che nulla vale a questi fini in mancanza di atti costitutivi di una servitù di passaggio”.
III.1) Giova aggiungere che proprio la natura privata della strada (riconosciuta dallo stesso Comune) non avrebbe in ogni caso consentito l’automatica possibilità di apertura dell’accesso, quand’anche assoggettata a pubblico passaggio, considerato che finanche per le strade pubbliche l’accesso è consentito solo per espressa “concessione” dell’ente proprietario ed è regolamentato, nei casi specifici, ricorrendone le condizioni di legge (cfr, ad esempio, art. 27 delle norme tecniche di attuazione del P.R.G. di L’Aquila, pagg. 3 e 4 , in produzione di parte controinteressata).
III.2) L’intervenuto accertamento della effettiva consistenza dei “diritti” reciproci comporta conseguentemente l’illegittimità del permesso di costruire nella parte in cui consente l’accesso privato traverso il tratto di via Ateleta di proprietà privata dei ricorrenti.
Il Comune pertanto non avrebbe comunque potuto consentire, senza l’accettazione espressa dei proprietari, l’accesso di terzi attraverso la strada privata e nel farlo ha violato, come esattamente rilevato dai ricorrenti nel primo motivo di ricorso, l’art. 11 del D.P.R. 380/2001 consentendo l’edificazione a chi non disponeva del titolo (limitatamente al disposto accesso) per farlo.
E ciò, si ribadisce, per quanto sopra detto, nonostante la natura pubblica del passaggio attraverso il tratto privato di strada.
IV. Il ricorso va pertanto accolto con l’annullamento del permesso di costruire impugnato in parte de qua in positiva delibazione del motivo sopra illustrato, con assorbimento del secondo, terzo e quarto motivo (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 29.03.2012 n. 208 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’assoggettamento ad uso pubblico di una strada privata, in forza del quale essa diviene soggetta alla normale disciplina stradale e la proprietà privata si riduce al fatto che l’area ritornerebbe nella piena disponibilità del proprietario quando cessasse la destinazione stradale, deriva o dall’inserimento, ricollegabile alla volontà del proprietario e palesantesi nel mutamento della situazione dei luoghi, della strada nella rete viaria cittadina, come può accadere in occasione di convenzioni urbanistiche, di nuove edificazioni o di espropriazioni oppure da un immemorabile uso pubblico (a sua volta indice di un comportamento del proprietario verificatosi in epoca remota e imprecisabile).
Tale uso deve essere inteso come comportamento della collettività contrassegnato dalla convinzione -pur essa palesata da una situazione dei luoghi che non consente di distinguere la strada in questione da una qualsiasi altra strada della rete viaria pubblica- di esercitare il diritto di uso della strada

Vanno preliminarmente richiamati i principi vigenti in materia di costituzione dell’uso pubblico delle strade, esposti nelle sentenze impugnate e confermati con le decisioni non definitive indicate in epigrafe e desumibili, ora, dagli articoli 2, comma 7, e 3, comma 1, definizione n. 52, del codice della strada emanato con decreto legislativo 30.04.1992 n. 285 cioè che:
- l’assoggettamento ad uso pubblico di una strada privata, in forza del quale essa diviene soggetta alla normale disciplina stradale e la proprietà privata si riduce al fatto che l’area ritornerebbe nella piena disponibilità del proprietario quando cessasse la destinazione stradale, deriva o dall’inserimento, ricollegabile alla volontà del proprietario e palesantesi nel mutamento della situazione dei luoghi, della strada nella rete viaria cittadina, come può accadere in occasione di convenzioni urbanistiche, di nuove edificazioni o di espropriazioni (vedasi, in aggiunta ai precedenti già citati nella sentenza impugnata e nelle decisioni non definitive della Sezione, la decisione 23.06.2003 n. 3716),
- oppure da un immemorabile uso pubblico (a sua volta indice di un comportamento del proprietario verificatosi in epoca remota e imprecisabile).
Tale uso deve essere inteso come comportamento della collettività contrassegnato dalla convinzione -pur essa palesata da una situazione dei luoghi che non consente di distinguere la strada in questione da una qualsiasi altra strada della rete viaria pubblica- di esercitare il diritto di uso della strada (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.06.2008 n. 2864 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASi ha uso pubblico, che comporta l’assoggettamento della strada alla disciplina delle strade comunali anche se esse siano “vicinali” ossia fuori dal centro abitato (decreto legislativo 30.04.1992 n. 285, contenente il codice della strada, articoli 2, comma 7, e 3, comma 1, definizione n. 52) quando un’area privata venga dal proprietario destinata ad essere inserita nella rete viaria pubblica, o mediante atto negoziale oppure, in modo simile a quanto è previsto dall’articolo 1062 del codice civile per la costituzione di servitù per destinazione del padre di famiglia, mediante una sistemazione dei luoghi nella quale sia implicita la realizzazione di una strada per uso pubblico, seguita da uso pubblico effettivo.
Inoltre ha ragione il comune a rilevare che, anche indipendentemente dall’efficacia del negozio di cessione, si era verificato un uso pubblico della strada, per comportamento esplicito e spontaneo del proprietario.
Si ha uso pubblico, che comporta l’assoggettamento della strada alla disciplina delle strade comunali anche se esse siano “vicinali” ossia fuori dal centro abitato (decreto legislativo 30.04.1992 n. 285, contenente il codice della strada, articoli 2, comma 7, e 3, comma 1, definizione n. 52) quando un’area privata venga dal proprietario destinata ad essere inserita nella rete viaria pubblica, o mediante atto negoziale oppure, in modo simile a quanto è previsto dall’articolo 1062 del codice civile per la costituzione di servitù per destinazione del padre di famiglia, mediante una sistemazione dei luoghi nella quale sia implicita la realizzazione di una strada per uso pubblico, seguita da uso pubblico effettivo.
Nella specie la cessione del dottor G.T., seguita dall’uso pubblico effettivo, dalla toponomastica e dall’illuminazione pubblica, ha appunto realizzato in modo conclamato quanto meno la destinazione ad uso pubblico della strada, indipendentemente, anche qui, dalle vicende del procedimento amministrativo di lottizzazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.06.2003 n. 3716 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 05.07.2013

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A proposito dell'incentivo alla progettazione interna:
BUTTIAMO L'OKKIO NELL'ORTICELLO ALTRUI...

     Giorni fa sulla GURI è stato pubblicato il DM dell'Interno circa la disciplina del'incentivo alla progettazione interna del personale del "Dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile" che, di seguito, riportiamo:
 

INCENTIVO PROGETTAZIONE: G.U. 13.06.2013 n. 137 "Regolamento recante norme per la ripartizione dell’incentivo economico, di cui all’articolo 92, comma 5, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, al personale del Dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile" (Ministero dell'Interno, decreto 22.04.2013 n. 66).


     Ebbene, l'art. 2, comma 3, cosi dispone: "3. Gli incentivi di cui al comma 1 del presente articolo sono riconosciuti soltanto quando i relativi progetti siano stati formalmente approvati e posti a base di gara e riguardino lavori pubblici di competenza dell’amministrazione, quali attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro e manutenzione straordinaria e ordinaria, comprese le eventuali progettazioni di connesse campagne diagnostiche e le eventuali redazioni di perizie di variante e suppletive nei casi previsti dall’art. 132, comma 1 del codice, ad eccezione della lettera e).".

AVETE LETTO BENE??

     Il Ministero riconosce l'incentivo alla progettazione riguardante anche la manutenzione straordinaria e ordinaria quanto la Corte dei Conti, a più riprese, ha statuito che non spetta in tali casi !!
     Tanto per rinvigorire la memoria ai distratti di turno, riproponiamo di seguito alcuni pronunciamenti sul tema:
 

INCENTIVO PROGETTAZIONEAppalti. Per i giudici contabili il bonus va assegnato solamente per le opere pubbliche. Manutenzioni ed economie senza incentivo ai progetti.
LA SOMMA URGENZA/ Da valutare caso per caso l'erogazione del compenso straordinario negli interventi decisi in emergenza.

Per le manutenzioni ordinarie, per i lavori in economia e per le progettazioni diverse dalle opere pubbliche non spetta l'incentivo per la realizzazione di opere pubbliche, mentre nelle cosiddette «somme urgenze» occorre fare una valutazione caso per caso.
Sono queste le indicazioni di maggiore rilievo contenute nel parere 19.03.2013 n. 15 della sezione regionale di controllo della Corte dei Conti della Toscana.
In questo modo si spingono gli enti ad applicare in modo restrittivo l'incentivazione prevista dall'articolo 92 del Codice dei contratti (Dlgs n. 163/2006) ai dipendenti pubblici, pari al 2% dell'importo dell'opera.
Queste indicazioni vengono dopo i chiarimenti che varie sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti hanno fornito sul divieto di erogare questo compenso nel caso di interventi sul verde, di redazione di piani urbanistici effettuata all'esterno dell'ente e di strumenti urbanistici non collegati alla realizzazione di lavori pubblici. Ora, con il parere della magistratura contabile toscana arriva a compimento il processo di drastica delimitazione dei casi in cui l'incentivo può essere erogato.
Il parere parte dal richiamo al dettato normativo; esso fa «riferimento esclusivamente ai lavori pubblici, e l'articolo 92, comma 1, presuppone l'attività di progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell'opera pubblica progettata. A fortiori, lo stesso comma 6 dell'articolo 92 prevede che l'incentivo alla progettazione venga ripartito tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto». In altri termini, il dato normativo subordina il compenso alla realizzazione di opere pubbliche. Quindi occorre escludere «i lavori di manutenzione ordinaria, peraltro finanziati con risorse di parte corrente del bilancio. Lo stesso può concludersi in riferimento ai lavori in economia, siano essi connessi o meno ad eventi imprevedibili». Cioè non siamo in presenza in nessuna di queste due fattispecie di opere pubbliche.
Le conclusioni sono più differenziate per i lavori di somma urgenza. In questo caso «appare dirimente, alla luce delle interpretazioni proposte, valutare la natura del lavoro eseguito che dovrà presentare i caratteri dell'opera pubblica o del lavoro finalizzato alla realizzazione di un'opera di pubblico interesse per poter rientrare» nell'incentivazione.
Infine, viene chiarito che «l'attività di redazione del piano di gestione di una Zona di Protezione Speciale, non rientra in quelle oggetto di incentivo». Anche in questo caso alla base della esclusione vi è la considerazione che il dettato legislativo prevede l'incentivo solamente nel caso di realizzazione di lavori pubblici e non può essere estesa allo svolgimento di altre attività (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: ► Non sono incentivabili ex art. 92, comma 5, d.lgs. 163/2006 i lavori di manutenzione ordinaria, peraltro finanziati con risorse di parte corrente del bilancio;
► analogamente, sono escluse dall'applicabilità della predetta norma i lavori in economia, siano essi connessi o meno ad eventi imprevedibili o d'urgenza ex art. 175 del d.p.r. 207/2010;
► riguardo, invece, ai lavori di somma urgenza (art. 176 d.p.r. 207/2010) risulta dirimente valutare la natura dei lavori eseguiti che dovranno presentare i caratteri dell'opera pubblica o dei lavori finalizzati alla realizzazione di un'opera di pubblico interesse per poter rientrare nelle tipologie incentivabili ai sensi dell'art. 92 del d.lgs. 163/2006;
►  l'attività di redazione di un piano di gestione di una zona di protezione civile (legge 56/2000) non rientra tra quelle oggetto di incentivo disciplinato dal menzionato art. 92.
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Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla Sezione, con nota in data 08.02.2013 prot. n. 2866/1.13.9, richiesta di parere formulata dal Presidente della provincia di Prato in materia di incentivi alla progettazione di cui all’art. 92 del D.Lgs. 163/2006.
In particolare, ai fini della corretta applicazione delle norme in materia di incentivi al personale, chiede di sapere se rientra nell’applicazione della normativa in materia di incentivi di cui all’art. 92, commi 5 e 6, del D.Lgs. 163/2006 l’ipotesi di:
1. lavori di manutenzione ordinaria con finanziamento di parte corrente, escludendo attività di taglio del verde, sostituzione di infissi e apparati termoidraulici;
2. lavori in economia connessi ad eventi imprevedibili di cui all’art. 125, comma 6, lett. a), del D.Lgs. 163/2006 e lavori di urgenza di cui all’art. 175 del DPR n. 207/2010 realizzati sulla base di perizia tecnica o progettazione esecutiva affidati ai sensi dell’art. 125, comma 8, D.Lgs. 163/2006;
3. lavori di somma urgenza ordinati in via d’urgenza e successivamente regolarizzati mediante approvazione di perizia giustificativa redatta dal responsabile del procedimento con le modalità di cui all’art. 176 DPR 207/2010;
4. redazione del Piano di Gestione di una Zona di Protezione Speciale (L. 56/2000) che prevede tra l’altro la localizzazione di interventi pubblici in relazione ai quali l’ente agisce in veste di stazione appaltante.
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Nel merito, l’art. 92, comma 5, del D.Lgs. 163/2006 (codice degli appalti) recita: “Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo dipendente non può superare l'importo del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. I soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono adottare con proprio provvedimento analoghi criteri”.
Il comma 6 del medesimo articolo 92 recita: “Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, (…) tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
In risposta ai primi due quesiti la Sezione ribadisce quanto già espresso in altra deliberazione (n. 293 del 23.10.2012), peraltro citata dal comune richiedente, ritenendo che l’art. 90 del D.lgs. n. 163/2006 sia alla rubrica che al c. 1, faccia “riferimento esclusivamente ai lavori pubblici, e l’art. 92, c. 1, presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell’opera pubblica progettata.
A fortiori, lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che l’incentivo alla progettazione venga ripartito “tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto” e, dunque, è di palmare evidenza come il riferimento normativo e la conseguente voluntas legis sia ascrivibile solo alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse
”; quanto espresso pare escludere dal novero delle attività retribuibili con l’incentivo in questione i lavori di manutenzione ordinaria, peraltro finanziati con risorse di parte corrente del bilancio. Lo stesso può concludersi in riferimento ai lavori in economia, siano essi connessi o meno ad eventi imprevedibili.
In risposta al terzo quesito, riferito a lavori di somma urgenza ordinati in via d’urgenza, appare dirimente, alla luce delle interpretazioni proposte, valutare la natura del lavoro eseguito che dovrà presentare i caratteri dell’opera pubblica o del lavoro finalizzato alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse per poter rientrare nelle tipologie incentivabili ai sensi dell’art. 92 del codice dei contratti (D.Lgs. 163/2006).
In merito al quarto quesito, come già evidenziato da questa Sezione in altri pareri (deliberazione n. 213 del 18.10.2011 e deliberazione n. 389 del 27.11.2012) un atto regolamentare “non può essere assimilato, per il suo contenuto intrinseco, ad un progetto di lavori comunque denominato” mentre “l’art. 90 del D.lgs. n. 163/2006 sia alla rubrica che al c. 1, fa riferimento esclusivamente ai lavori pubblici, e l’art. 92, c. 1, presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell’opera pubblica progettata. A fortiori, lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che l’incentivo alla progettazione venga ripartito “tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto” e, dunque, è di palmare evidenza come il riferimento normativo e la conseguente voluntas legis sia ascrivibile solo alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse”; a parere di questo collegio, pertanto, l’attività di redazione del Piano di Gestione di una Zona di Protezione Speciale, non rientra in quelle oggetto di incentivo disciplinato dalla norma sopra riportata (
Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 19.03.2013 n. 15).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Il sindaco del comune di Cislago chiedeva se fosse corretto corrispondere l’incentivo ex art. 92 al personale dipendente interno all’ufficio tecnico comunale coinvolto nella realizzazione di opere e di lavori di manutenzione sugli immobili comunali o del verde pubblico quali: opere di manutenzione ordinaria e straordinaria sugli immobili (di carattere edile e relative agli impianti); opere di manutenzione ordinaria e straordinaria sulle strade, manutenzione del verde.
Chiedeva, inoltre, se l’incentivo per gli atti di pianificazione fosse erogabile per la redazione di varianti allo strumento urbanistico generale (Piano di Governo del Territorio), relative alla predisposizione di modifiche parziali e/o totali di articoli delle norme tecniche di attuazione del PGT o alla stesura di elaborati relativi all’azzonamento, sia riguardanti aree con destinazioni di interesse pubblico che di carattere privato, con relativa procedura di V.A.S..
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L’incentivo alla progettazione non può venire riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale ma solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria attività di progettazione.
Esulano, pertanto, tutti quei lavori manutentivi per la cui realizzazione non è necessaria l’attività progettuale richiamata negli articoli 90, 91 e 92 del decreto n. 163.
E' di palmare evidenza come il riferimento normativo e la conseguente voluntas legis sia ascrivibile solo alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse.
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Quanto al corretto significato da attribuire alla locuzione “atto di pianificazione” inserita nel testo dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, la Sezione richiama il condivisibile orientamento espresso dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte a tenore del quale, l’atto di pianificazione, comunque denominato, debba necessariamente riferirsi alla progettazione di opere pubbliche e non ad un mero atto di pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione.
Stante la sedes materiae della norma sugli incentivi alla progettazione (Codice degli appalti), nonché la ratio della disposizione (contenere i costi connessi alla progettazione delle opere pubbliche valorizzando le professionalità interne alla pubblica amministrazione), si condivide l’argomentazione secondo cui “la norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente”.
In conclusione, ciò che rileva ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale (piano regolatore o variante generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante.

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Il sindaco del comune di Cislago, con nota n. 2011 del 05.02.2013, chiedeva all’adita Sezione l’espressione di un parere in ordine alla corretta interpretazione dell’articolo 92, commi 5 e 6, del d.lgs. n. 163/2006.
In particolare, il sindaco del comune di Cislago chiedeva se fosse corretto corrispondere l’incentivo ex art. 92 al personale dipendente interno all’ufficio tecnico comunale coinvolto nella realizzazione di opere e di lavori di manutenzione sugli immobili comunali o del verde pubblico quali: opere di manutenzione ordinaria e straordinaria sugli immobili (di carattere edile e relative agli impianti); opere di manutenzione ordinaria e straordinaria sulle strade, manutenzione del verde.
Chiedeva, inoltre, se l’incentivo per gli atti di pianificazione fosse erogabile per la redazione di varianti allo strumento urbanistico generale (Piano di Governo del Territorio), relative alla predisposizione di modifiche parziali e/o totali di articoli delle norme tecniche di attuazione del PGT o alla stesura di elaborati relativi all’azzonamento, sia riguardanti aree con destinazioni di interesse pubblico che di carattere privato, con relativa procedura di V.A.S..
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La questione in esame concerne la corretta interpretazione dell’articolo 92, commi 5 e 6, del d.lgs. n. 63/2006, questione su cui la giurisprudenza di questa Sezione è ormai più che consolidata.
Più nel dettaglio, l’istanza di parere concerne separatamente il comma 5 citato (incentivi per l’affido di lavori di manutenzione ordinaria/straordinaria) ed il comma 6 (incentivi per la redazione di varianti allo strumento urbanistico generale), così da rendere opportuna una separata trattazione.
Seguendo l’ordine numerico, il menzionato comma 5 prevede che “una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, (…), è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti (…); le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie”.
La disciplina in discorso è stata già oggetto di attenzione da parte di precedenti pronunce della Corte dei conti (cfr., fra le altre, Sezione Autonomie delibera 13.11.2009 n. 16/2009, Sezione Veneto parere 26.07.2011 n. 337, Sezione Piemonte parere 30.08.2012 n. 290, Sezione Lombardia parere 06.03.2012 n. 57 e parere 30.05.2012 n. 259) alle cui motivazioni e conclusioni può farsi riferimento per l’analisi dei profili generali.
La norma va letta nel complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli incarichi tecnico-professionali, previste dalla legislazione in materia di contratti pubblici. Quest’ultima (si rinvia agli artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006) è informata da un principio generale, già codificato dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale i predetti incarichi possono essere conferiti a soggetti esterni al plesso amministrativo solo se non si disponga di professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di gestione delle risorse umane. Tale presupposto mira a preservare le finanze pubbliche oltre che a valorizzare il personale interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi ordinarie in cui gli incarichi tecnici sono espletati da personale interno, ai fini della loro remunerazione, occorre far riferimento alle regole generali previste per il pubblico impiego, il cui sistema retributivo è conformato da due principi cardine, quello di definizione contrattuale delle componenti economiche e quello di onnicomprensività della retribuzione (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Puglia, sentenze nn. 464, 475 e 487 del 2010). Secondo questi ultimi nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri d’ufficio, anche se di particolare complessità.
Il c.d. “incentivo alla progettazione”, previsto dal Codice dei contratti pubblici, costituisce uno di quei casi nei quali il legislatore, derogando al principio per cui il trattamento economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice, previa contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione.
L’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006 deroga ai principi di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico e, come tale, costituisce un’eccezione che si presta a stretta interpretazione e per la quale sussiste il divieto di analogia posto dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al codice civile (in tal senso Sezione Campania, parere 07.05.2008 n. 7/2008).
Come evincibile dalla lettera del comma, la legge pone alcuni paletti per l’attribuzione del predetto incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“criteri e modalità”) ad un regolamento interno assunto previa contrattazione decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno deve rispettare (sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non previsti, si rimanda al parere della Sezione n. 259/2012) paiono essere i seguenti:
erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di servizi).
La norma non presuppone, tuttavia, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione) purché, come sarà meglio specificato, il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni;
ammontare complessivo non superiore al due per cento dell’importo a base di gara. Di conseguenza la somma concretamente prevista dal regolamento interno può essere stabilita in misura percentuale inferiore;
ancoramento del fondo incentivante alla base di gara (non all’importo oggetto del contratto, né a quello risultante dallo stato finale dei lavori).
Si deduce che non appare ammissibile la previsione e l’erogazione di alcun compenso nel caso in cui l’iter dell’opera o del lavoro non sia giunto, quantomeno, alla fase della pubblicazione del bando o della spedizione delle lettere d’invito (cfr., per esempio, l’art. 2, comma 3, del DM Infrastrutture n. 84 del 17/03/2008). Quanto detto non esclude che, in sede di regolamento interno, al fine di ancorare l’erogazione dell’incentivo a più stringenti presupposti, l’amministrazione possa prevedere la corresponsione solo subordinatamente all’aggiudicazione dell’opera;
puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza (cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, Deliberazioni n. 315 del 13/12/2007, n. 70 del 22/06/2005, n. 97 del 19/05/2004;
devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione (si rinvia alle Deliberazioni dell’Autorità di vigilanza n. 315 del 13/12/2007, n. 35 del 08/04/2009, n. 18 del 07/05/2008 e n. 150 del 02/05/2001).
Sulla base di tali criteri si può rispondere negativamente al primo quesito posto dal Comune di Cisalgo: l’incentivo alla progettazione non può venire riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale ma solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria attività di progettazione.
Esulano, pertanto, tutti quei lavori manutentivi per la cui realizzazione non è necessaria l’attività progettuale richiamata negli articoli 90, 91 e 92 del decreto n. 163.

Sulla stessa linea, con motivazione ampiamente condivisibile, va richiamata la deliberazione della Sezione Toscana n. 293/2012/PAR secondo cui “l’art. 90 del D.lgs. n. 163/2006 sia alla rubrica che al c. 1, fa riferimento esclusivamente ai lavori pubblici, e l’art. 92, c. 1, presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi come finalizzata alla costruzione dell’opera pubblica progettata. A fortiori, lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che l’incentivo alla progettazione venga ripartito tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto e, dunque, è di palmare evidenza come il riferimento normativo e la conseguente voluntas legis sia ascrivibile solo alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse” (nello stesso senso, la medesima Sezione si è espressa più di recente con il parere n. 459/2012).
Analoga risposta negativa merita la seconda ipotesi prospettata nell’istanza di parere (incentivi per la redazione di varianti allo strumento urbanistico generale).
Ai sensi dell’articolo 92, comma 6, decreto legislativo n. 163/2003 “il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
Anche su tale disposto normativo la Sezione si è già più volte pronunciata con le deliberazioni n. 57, 259 e 440 del 2012 cui si rinvia per la completezza del quadro giurisprudenziale.
Richiamati le suesposte considerazioni sull’eccezionalità della previsione normativa, va ricordato che le condivisibili conclusioni di questa Sezione sono pertanto che “l’art. 92, comma 6, non potrebbe costituire titolo per l’erogazione di speciali compensi ai dipendenti che svolgono attività sussidiarie, strumentali o di supporto alla redazione di atti di pianificazione affidata a professionisti esterni. Tale disposizione, infatti, abilita (nella misura autoritativamente fissata dalla legge) a riconoscere uno speciale compenso, al di là del trattamento economico ordinariamente spettante, solo in presenza dei due seguenti elementi di fattispecie:
a) sul piano dell’oggetto, che la prestazione consista nella diretta “redazione di un atto di pianificazione”, non in attività variamente sussidiarie che rientrano nei doveri d’ufficio dei dipendenti, nel contesto dell’attività di governo del territorio
(cfr. la deliberazione del 27.01.2009, n. 9 di questa Sezione);
b) implicitamente, che la redazione dello stesso non sia stata esternalizzata ad un professionista esterno ai sensi dell’art. 90, comma 6
”.
Quanto al corretto significato da attribuire alla locuzione “atto di pianificazione” inserita nel testo dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, la Sezione richiama il condivisibile orientamento espresso dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte (cfr. deliberazione n. 290/2012/SRPIE/PAR), a tenore del quale, l’atto di pianificazione, comunque denominato, debba necessariamente riferirsi alla progettazione di opere pubbliche e non ad un mero atto di pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione.
Stante la sedes materiae della norma sugli incentivi alla progettazione (Codice degli appalti), nonché la ratio della disposizione (contenere i costi connessi alla progettazione delle opere pubbliche valorizzando le professionalità interne alla pubblica amministrazione), si condivide l’argomentazione secondo cui “la norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente” (in termini, Sezione contr. Piemonte deliberazione cit.; cfr. altresì Sezione contr. Lombardia, 30.05.2012, n. 259; 06.03.2012, n. 57; Sezione contr. Puglia, 16.01.2012, n. 1; Sezione contr. Toscana, 18.10.2011, n. 213).
In conclusione, ciò che rileva ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale (piano regolatore o variante generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 06.03.2013 n. 72).


    Ma ciò che sorprende, per lo meno a chi scrive, e che il D.M. de quo ha acquisito la preliminare registrazione alla Corte dei Conti. Ora, pur non masticando a menadito la materia giuridica, ci sembra di ricordare che la registrazione della Corte dei Conti è obbligatoria per alcuni atti dello Stato centrale e ciò avviene solo dopo aver accertato che gli stessi siano conformi alle norme di legge (per saperne di più cliccare qui).
     Ma conforme alla legge non vuol dire solamente un confronto letterale del testo dell'atto da registrare con la norma ma anche, e soprattutto, un confronto coi pronunciamenti giurisprudenziali e/o con quei pareri resi da altri enti deputati a far chiarezza (qualificata) allorquando il legislatore, troppo spesso, è farraginoso nel tramutare nero su bianco la propria attività.

Quindi, sorge spontaneo porsi il seguente interrogativo: come mai la Corte dei Conti romana ha registrato il D.M. senza tener conto di quanto affermato sempre dalla Corte di Conti a livello regionale??
Non si vorrà far credere che, nel caso di specie, la mano sinistra non sapeva cosa facesse la mano destra??
Se, invece (ed è il nostro auspicio), siamo di fronte ad un madornale lapsus (e può capitare a qualsiasi comune mortale) auspichiamo una rettifica in tempo reale...

     Il fatto è che le varie sezioni regionali della Corte dei Conti "bacchettano" con solerzia (e fanno bene !!) gli enti locali laddove sperperano, scialacquano il denaro pubblico  con un modus operandi alquanto disinvolto mentre lo Stato centrale, nelle sue varie articolazioni, opera come meglio crede per il sol fatto di avere un visto di registrazione ...

E ALLORA??

     Allora, vogliamo provare a fare una segnalazione alla Procura Regionale della Corte dei Conti per vedere se il Dirigente del "Dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile", che andrà (indebitamente) ad erogare l'incentivo alla progettazione relativamente a lavori di "manutenzione straordinaria e ordinaria", sarà condannato a rifondere di tasca propria la somma elargita ??
     Fino a prova contraria, ancora oggi LA LEGGE E' UGUALE PER TUTTI !! (a fatti e non a parole ...).
05.07.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

EDILIZIA PRIVATA: R. Cartasegna, L’ART. 30 DEL DECRETO-LEGGE 21.06.2013 N. 69 - Inquietante deregulation urbanistica … e “centri storici” a rischio (28.06.2013).

SINDACATI & ARAN

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: EE.LL. - LE ASSUNZIONI ED IL D.LGS. N. 33 DEL 2013 (CGIL-FP di Bergamo, nota 01.07.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Il foglio dei lavoratori della Funzione Pubblica (CGIL-FP di Bergamo, giugno 2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La procedura della contrattazione decentrata integrativa - Comparto Regioni e Autonomie locali (ARAN, marzo 2013).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 04.07.2013, "Testo coordinato della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio»".

DOTTRINA E CONTRIBUTI

SICUREZZA LAVORO: E. Faiazza, Il “Decreto del Fare”: le modifiche apportate in materia di sicurezza sul lavoro (03.07.2013 - link a www.diritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: E. Morici e M. Petracca, Caratteristiche e presupposti dell’annullamento d’ufficio del provvedimento amministrativo (1. Riferimento normativo dell’annullamento d’ufficio - 2. Vizi di legittimità del provvedimento – 3. Interesse pubblico concreto e attuale – 4. La necessaria comparazione fra l’interesse pubblico e gli interessi dei privati – 5. L’annullamento doveroso - 6. Efficacia ex nunc o ex tunc) (03.07.2013 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Impianti termici: ecco le nuove regole in vigore dal 12 luglio (02.07.2013 - link a www.leggioggi.it).

EDILIZIA PRIVATA: C. Lamberti, Demolizione di opere parzialmente difformi e pregiudizio alle parti conformi (Urbanistica e appalti n. 7/2013 - tratto da www.ispoa.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: GLI INCENTIVI PER LA PROGETTAZIONE URBANISTICA INTERNA (ART. 92, COMMA 6, DEL CODICE DEI CONTRATTI) - LA POSIZIONE DI ANCI TOSCANA (20.06.2013).
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La disamina dell'incentivo alla progettazione interna con particolare riferimento "alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato", dalla sua istituzione ad oggi, ad opera di ANCI Toscana è assolutamente condivisibile in termini di principio.
   Tuttavia, bisogna fare i conti con la realtà di ogni giorno. Detto altrimenti:
► se il responsabile dell'UTC redige d'ufficio il nuovo PRG/PGT gli viene riconosciuto l'incentivo pari al 30% della tariffa professionale;
► se è sfigato, la Procura regionale lo viene a sapere e la Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale regionale di competenza, lo condanna (o condanna chi ha sottoscritto la determina di liquidazione) a risarcire l'amministrazione di appartenenza per indebita elargizione di somma non dovuta poiché finalizzata a NON realizzare (ancorché indirettamente ma in stretta correlazione) un'opera pubblica. E le sentenze/pareri in tal senso non si contano più ... (cfr. i contenuti del nostro dossier INCENTIVO PROGETTAZIONE);
► "va beh, chi se ne frega ... facciamo ricorso in appello" dirà il tecnico condannato;
► il ricorso in appello viene presentato ma a decidere sono sempre loro, i Giudici contabili ... ergo, tempo e denaro buttati dalla finestra per arrampicarsi sui vetri bagnati a sostenere una posizione indifendibile il cui esito è scontato: conferma della condanna di 1° grado!!
   E allora, chi è quel temerario che s'azzarda ad intascare denaro pubblico sapendo che la Corte dei Conti ha gridato ai quattro venti che è illegittimo??
   Beh sì, invero temerari ce ne sono assai in giro ed a costoro facciamo tanti, tanti, tantissimi auguri ...
05.07.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

INCENTIVI PROGETTAZIONE: A. Olessina, Il nuovo regime degli incentivi per la progettazione e diritti quesiti (Urbanistica e appalti n. 9/2009).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

VARI: Detrazione Irpef per acquisto mobili: ecco le prime istruzioni dell’Agenzia - I pagamenti dovranno essere effettuati mediante bonifici bancari o postali, con le medesime modalità già previste per usufruire dell’agevolazione sui lavori di ristrutturazione (04.07.2013 - link a www.fiscooggi.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Oggetto: Termini approvazione PUGSS (Piano Urbano Generale dei Servizi del Sottosuolo) (Regione Lombardia - Direzione Generale Ambiente, Energia e Sviluppo Sostenibile - Energia e Reti Tecnologiche - Reti Tecnologiche, nota 04.07.2013 n. 23654 di prot.).

SICUREZZA LAVOROOggetto: Applicazione delle disposizioni contenute nell'articolo 306, comma 4-bis, del d.lgs. 09.04.2008, n. 81 così come modificato dal decreto-legge 28.06.2013, n. 76 (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, nota 02.07.2013 n. 12059 di prot.).
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Sicurezza nei luoghi di lavoro: aumentate ammende e sanzioni.
A seguito dell'aumento, stabilito dal D.L. n. 76/2013, delle contravvenzioni in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro e delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal D.Lgs. n. 81/2008, il Ministero del Lavoro sottolinea l'applicazione dall'01.07.2013 della rivalutazione del 9,6%.
Il D.L. n. 76/2013, con l’art. 9, comma 2, ha sostituito il comma 4-bis del D.Lgs. n. 81/2008, relativo alle contravvenzioni in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro ed alle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal medesimo decreto legislativo.
In virtù della nuova modifica, le ammende previste con riferimento alle contravvenzioni in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro e le sanzioni amministrative pecuniarie previste dal Testo Unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, nonché da atti aventi forza di legge sono rivalutate ogni cinque anni con decreto del direttore generale della Direzione generale per l'Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in misura pari all'indice ISTAT dei prezzi al consumo previo arrotondamento delle cifre al decimale superiore.
Tuttavia lo stesso articolo stabilisce che in sede di prima applicazione la rivalutazione avviene, a decorrere dal 01.07.2013, nella misura del 9,6%.
A seguito di quanto sopra, con nota prot. 12059 del 02.07.2013 la Direzione Generale per l’Attività Ispettiva ha comunicato che tutte le ammende riferite alle contravvenzioni in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro e le sanzioni amministrative previste dal D.Lgs. n. 81/2008 nonché da altre normative in materia, riferite a violazioni commesse a decorre dall’01.07.2013, sono incrementate del 9,6%.
Inoltre, per il momento, salvo successive modifiche in sede di conversione del decreto legge, il risultato finale della sanzione non va arrotondato (commento tratto da www.ispoa.it).

PATRIMONIO - VARI: OGGETTO: Regime IVA cessioni e locazioni di fabbricati – Decreto-legge 22.06.2012, n. 83 (Agenzia delle Entrate, circolare 28.06.2013 n. 22/E).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incremento orario del part-time e limitazioni alle assunzioni.
La Corte dei Conti, sezione regionale Veneto, con il parere 02.07.2013 n. 168 risponde al Comune di Povegliano Veronese circa la possibilità di non considerare come "assunzione" l'incremento orario di un proprio dipendente a tempo parziale elevandolo dal 70% al 92%.
Trattasi di dipendente assunto a tempo indeterminato e pieno da altro ente, presso il quale ha ottenuto la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale e, successivamente, passato all'istante mediante mobilità volontaria ex art. 30 d.lgs. 165/2001. L'amministrazione precisa di aver rispettato il patto di stabilità, il limite di cui all'art. 1, comma 557, legge 296/2006, ma di non poter procedere ad assunzioni di nuovo personale in base al disposto dell'art. 76, comma 7, del d.l. 112/2008, convertito in legge 133/2008.
Queste le conclusioni della sezione:
"... ritiene che
l'ipotesi di sola trasformazione della percentuale lavorativa di un dipendente, assunto con contratto full-time, a tempo indeterminato, e successivamente trasformato in contratto part-time a tempo indeterminato, non costituisca una nuova assunzione e può considerarsi ammissibile, nella misura in cui vengano rispettati i limiti ed i vincoli in materia di spesa per il personale di cui si ricorda, in particolare, l'obbligo di riduzione tendenziale della spesa di personale di cui all'art. 1, comma 557, della legge 27.12.2006, n. 296 (e non di 'non superamento' della spesa per il personale sostenuta nell'esercizio finanziario precedente, come specificato nella richiesta di parere del Sindaco di Povegliano Veronese) e la percentuale non inferiore al 50% (rectius: non superiore) della spesa del personale sulle spese correnti di cui all'art. 76, comma 7, legge 133/2008: del rispetto di tali vincoli, il Collegio ne ribadisce il carattere inderogabile" (tratto da www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMobilità.
La Corte dei Conti, sezione regionale Veneto, con il parere 27.06.2013 n. 162, risponde al Comune di Villaverla sul seguente quesito:
"... premette che un dipendente dell'ente ... ha richiesto la mobilità presso altro ente per aspirazioni professionali proprie e l'amministrazione comunale non intende ostacolare tale legittima aspirazione. ... chiede pertanto se il Comune di Villaverla, prima di esprimersi su tale richiesta di mobilità, possa attivare a propria volta un procedimento di mobilità volontaria ai sensi dell'art. 30 del D.Lgs. n. 165/2001 per accertare se altri dipendenti di pubbliche amministrazioni, di pari categoria e qualifica, siano disposti a trasferirsi presso l'ente, ovvero, in virtù di quanto indicato all'art. 34-bis del medesimo D.Lgs. n. 165/2001 ed in applicazione dell'art. 2, comma 13 del D.L n. 95/2012, il ... Comune sia tenuto, previamente, ad attivare la procedura di verifica di dipendenti inseriti negli elenchi di disponibilità onde consentire agli stessi di ricollocarsi".
La sezione esamina la richiesta con 57 pagine di analisi normativa ed argomentazioni; in particolare, sulle differenti caratteristiche e finalità della mobilità ex art. 30 d.lgs. 165/2001, rispetto a quella prevista dall'art. 34-bis, sul rapporto di concorrenza-prevalenza tra i due istituti e ritiene che:
- in prima istanza, "... in relazione al caso concreto posto dal comune di Villaverla ...
un eventuale ricorso alla procedura di mobilità ex articolo 30 D.Lgs. n. 165/2001 debba essere considerata prevalente rispetto alla procedura di cui agli articoli 34 e 34-bis del medesimo decreto";
- successivamente -passate al vaglio- le disposizioni del d.l. 95/2012 (convertito in legge 135/2012) sulla riduzione degli organici delle pubbliche amministrazioni nonché quelle sulla verifica degli esuberi di personale ex art. 33 d.lgs. 165/2001, "in mancanza di una norma di coordinamento, la mobilità per ricollocazione di cui comma 13, dell'articolo 2 (d.l. 95/2012), intesa quale norma di sistema che si integra alle procedure previste dal D.Lgs. n. 165/2001 nella soluzione delle crisi da eccedenze o sovrannumero, vada esperita prima della mobilità volontaria ex articolo 30 del D.Lgs. n. 165/2001";
- da ultimo, come riflessioni ulteriori "Il Collegio, tuttavia, pur persuaso dal punto di vista interpretativo dalla soluzione prospettata, è consapevole che dal punto di vista applicativo, sorgono una serie di problematiche non di poco conto di seguito sintetizzabili:
   · la nuova procedura, al pari di quelle ex articolo 34 e 34-bis, prevede la presenza di personale collocato in disponibilità che può formulare domanda di ricollocazione presso le amministrazioni che abbiano comunicato vacanze (ex art. 34 e 34-bis) o che siano indicate nell'elenco di Funzione Pubblica (ex art. 2, comma 13): come deve comportarsi l'amministrazione che, presentando vacanze di organico, non riceva apposite domande da parte dei dipendenti collocati in disponibilità perché non ve ne sono o perché l'elenco delle vacanze non risulta ancora adottato da parte di Funzione Pubblica?
   · In tali circostanze, l'assunta prevalenza della mobilità per ricollocazione cede il passo alla procedura di mobilità volontaria ex art. 30 del decreto 165/2001 che, come già evidenziato dal Collegio, prevale invece sulla procedura ex artt. 34 e 34-bis?
   · In quest'ultima ipotesi quanto tempo deve aspettare l'amministrazione a fronte della mancata presentazione di istanze da parte dei soggetti collocati in disponibilità prima di attuare la procedura di mobilità ex articolo 30, tenendo conto che gli effetti di una mancata conclusione della stessa entro l'esercizio finanziario rischierebbe di incidere sulla spesa di personale precludendo all'ente di riproporla nell'anno successivo (cfr., sul punto, le deliberazioni di questa Sezione nn. 45 e 46/2013/PAR)?
  · L'amministrazione che presenta vacanze in organico è ancora tenuta ad effettuare la comunicazione all'ente regionale o alla Funzione Pubblica al fine di attivare la mobilità per ricollocazione ex art. 34 e 34-bis?
La Sezione ritiene che a detti quesiti applicativi, possano sommariamente essere fornite le seguenti soluzioni:
   · in mancanza di personale collocato in posizione di disponibilità o di domande pervenute (anche a seguito della mancata attivazione dell'apposito elenco), le amministrazioni con vacanze in organico dovranno necessariamente attivare la procedura di mobilità volontaria ex art. 30 del decreto 165/2001;
   · solo dopo che la mobilità volontaria non sia andata a buon fine le amministrazioni potranno attivare la comunicazione alla funzione pubblica ex articolo 34-bis (prodromica assieme a quella dell'articolo 2, comma 13, del decreto 95/2012 allo svolgimento delle procedure di reclutamento);
   · nell'incertezza circa l'effettiva attivazione dell'elenco di cui all'articolo 2, comma 13, del decreto legge 95/2012, le amministrazioni sono comunque tenute:
- qualora abbiano personale collocato in disponibilità, a comunicare ai due soggetti preposti l'elenco dello stesso (in attesa che Funzione pubblica chiarisca se vada ancora effettuata la comunicazione alle strutture regionali data la centralizzazione della tenuta dell'elenco prevista dall'articolo 2, comma 13, del decreto legge 95/2012);
- qualora abbiano vacanze di personale, ad inserire nella programmazione triennale la previsione che le eventuali nuove assunzioni siano subordinate, oltre che alla sussistenza dei presupposti di spesa ed assunzionali normativamente previsti, alla verificata impossibilità di ricollocare il personale in disponibilità iscritto nell'apposito elenco (ai sensi dell'articolo 2, comma 13, del decreto legge 95/2012 e dell'articolo 34, comma 8, del D.Lgs. n. 165/2001 e tenendo conto della riflessione di cui al precedente punto);
- qualora debbano coprire dette vacanze, ad inviare alla Funzione Pubblica ed alle strutture regionali, contestualmente alla comunicazione di voler attivare le procedure di mobilità ex articolo 30 del D.Lgs. n. 165/2001, le comunicazioni relative ai concorsi che intendono bandire qualora detta procedura non vada a buon fine;
- di procedere, qualora la procedura di mobilità ex articolo 30 non abbia sortito gli effetti sperati, all'avvio delle procedure concorsuali, osservando l'eventuale regime di autorizzazione delle assunzioni ed il regime dei vincoli di spesa ed assunzionali vigente, decorsi due mesi dall'invio della comunicazione di voler bandire in mancanza di risposte delle strutture regionali o della Funzione pubblica"
(tratto da www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Compensi aggiuntivi per incarichi dirigenziali ad interim e danno erariale.
La Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale Puglia, con la sentenza 26.06.2013 n. 1014, condanna il dirigente di un ente locale al risarcimento del danno patrimoniale per le somme personalmente percepite quali compensi aggiuntivi a fronte dello svolgimento di incarico dirigenziale ad interim. Il soggetto è pienamente e gravemente colpevole ed ha adottato l'atto di riconoscimento dei compensi in proprio favore (ancorché a fronte di conforme previsione regolamentare).
Le motivazioni, in sintesi:
- "... nel nostro ordinamento vige attualmente il principio della c.d. onnicomprensività della retribuzione dei dipendenti pubblici e, in particolare ... del personale con qualifica dirigenziale. In tal senso depone l'art. 24 d.lgs. 165/2001, meramente ricognitivo della normativa già vigente, alla cui stregua '... la retribuzione del personale con qualifica dirigenziale è determinata dai contratti collettivi ... (comma 1) e ... il trattamento economico ... remunera tutte le funzioni ed i compiti attribuiti ai dirigenti ... nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall'amministrazione presso cui prestano servizio o su designazione della stessa ...'. La norma è chiarissima e non ammette dubbi interpretativi: la retribuzione dirigenziale, stabilita dalla contrattazione collettiva, è solo quella e deve remunerare tutti gli incarichi eventualmente assegnati al dirigente, senza che residui alcuna ulteriore possibilità di utilizzazione di istituti economici diversi da quello di cui qui si discute. A loro volta, le norme della contrattazione collettiva dirigenziale del comparto Regioni-Enti Locali, via via succedutesi nel tempo, e tuttora operanti, nel recepire il surriferito principio, hanno definito la struttura della retribuzione in parola, prevedendo, oltre allo stipendio tabellare, solo la retribuzione di posizione e di risultato (cfr. art. 33 C.C.N.L. del 10.04.1996; cfr. artt. 24-32 C.C.N.L. del 23.12.1999)";
- "Ed è bene evidenziare che le singole amministrazioni non possono in alcun modo determinare autonomamente nuove voci retributive al di là di quelle previste dalla contrattazione collettiva, a ciò ostando il nitido disposto dell'art. 2, comma 3, T.U. n. 165/2001, che devolve esclusivamente a quest'ultima la fissazione delle regole relative al trattamento economico";
- "... nell'ipotesi di affidamento ad interim di funzioni dirigenziali diverse da quelle di titolarità, è da escludersi la possibilità per il dirigente di usufruire di una maggiorazione della retribuzione di posizione già goduta, ovvero -e a fortiori- di una seconda indennità, laddove a remunerare siffatti incarichi aggiuntivi soccorre l'art. 27, comma 9, CCNL cit., secondo cui '... le risorse destinate al finanziamento della retribuzione di posizione devono essere integralmente utilizzate. Eventuali risorse ancora disponibili sono temporaneamente utilizzate per la retribuzione di risultato relativa al medesimo anno ...".
La sentenza affronta anche una seconda questione: la sottoscrizione di ordinanze da parte del Sindaco con vizio di incompetenza. Al riguardo, la i magistrati contabili pugliesi ritengono che ricorrano gli estremi della c.d. scriminante politica.
Osservano, a tal proposito:
- "... la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede abbiano approvato atti di gestione ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l'esecuzione" - in tal senso l'art. 1 della legge 20/1994 e perché ciò "può considerarsi il necessario completamento della distinzione tra atti di direzione politica ed atti di gestione";
- "La ratio della disposizione in esame è, infatti, quella di porre a riparo da possibili conseguente pregiudizievoli -sul piano della responsabilità per danno all'erario- i titolari degli organi politici per gli atti assunti dagli organi tecnici ed amministrativi, nell'ambito di competenze che sono loro proprie, dopo l'entrata in vigore del D.lgs. 29/1993 (ora D.lgs. 165/2001) e presuppone l'intervento dell'ufficio tecnico o amministrativo come meramente propedeutico alla decisione che compete all'organo politico: una decisione che per il suo contenuto tecnico è condizionata dal parere o da altro adempimento istruttorio dell'ufficio tecnico o amministrativo";
- "E tuttavia, sebbene di limitata applicazione, la esimente soggettiva della buona fede conserva immutata la sua validità anche nel nuovo assetto dei rapporti tra politica ed amministrazione, in quanto si è osservato che se il legislatore si è preoccupato, da un lato, di garantire spazi di autonomia decisionale alla dirigenza nei confronti di possibili tendenze invasive ed indebite ingerenze da parte dell'apparato politico, con la previsione di una riserva di funzione amministrativa di esclusiva spettanza della dirigenza, dall'altra, comunque, si è preoccupato, con la introduzione della speciale esimente, di tutelare l'organo politico da possibili errori della dirigenza che eventualmente gli sottoponesse l'adozione di decisioni di competenza dirigenziale";
- "Si è voluto, cioè, ribadire che l'istituto della responsabilità amministrativa attiene strettamente al campo della vera e propria attività (amministrativa) di gestione e di conseguimento dei risultati, e non anche alla attività intrinsecamente politica, per la quale deve sussistere un altro tipo di responsabilità (politica)" (tratto da www.publika.it)

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

LAVORI PUBBLICI: Indicazioni alle stazioni appaltanti, alle SOA e alle imprese in materia di emissione dei certificati di esecuzione lavori (deliberazione 23.05.2013 n. 24).
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Certificati Esecuzione Lavori
Indicazioni alle stazioni appaltanti, alle SOA ed alle imprese sulle emissioni CEL

Pubblicata la Deliberazione n. 24 del 23.05.2013 con cui l’Autorità fornisce indicazioni sulla corretta emissione dei Certificati di Esecuzione Lavori ai soggetti interessati: stazioni appaltanti, Società Organismi di Attestazione (SOA) ed imprese.
Il procedimento previsto nella Delibera, che sarà pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, riguarda tutti i CEL utili ai fini della qualificazione dell’impresa, indipendentemente dalla loro data di emissione. Dalla data di pubblicazione dell’atto nella G.U., decadranno gli effetti della precedente determinazione n. 6 del 27.07.2010
(02.07.2013 - link a www.avpc.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Non è consentito estendere l’incentivo per la progettazione di cui dall’art. 92, co. 6, D.Lgs. n. 163/2006 ai redattori di atti di pianificazione del servizio integrato di igiene urbana preliminare all’indizione di gare per l’affidamento del servizio stesso, poiché lo svolgimento di detta attività, intesa come programmazione del servizio eseguita dai dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice e doverosa in base al D.Lgs. n. 163/2006 e al d P.R. n. 207/2010, rientra nei doveri d’ufficio (parere sulla normativa 21.11.2011 - rif. AG-22/12 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
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L’esame della questione posta all’attenzione dell’Autorità presuppone il corretto inquadramento teorico degli incentivi per la progettazione e dell’attività pianificatoria dei servizi integrati d’igiene urbana, al fine di stabilire se la previsione contenuta nell’art. 92, comma 6, del Codice dei contratti pubblici possa essere interpretata in modo estensivo o analogico, al fine di riconoscere tale incentivo anche a coloro che hanno contribuito alla redazione di piani non espressamente contemplati nella formulazione della norma.
L’art. 92 del Codice dei contratti pubblici rubricato “Corrispettivi, incentivi per la progettazione e fondi a disposizione delle stazioni appaltanti”, contiene una serie di disposizioni volte a disciplinare l’assegnazione di specifici incentivi, che assolvono alla finalità di valorizzare le professionalità interne all’ente e di incrementarne la produttività. L’Autorità, con il parere sulla normativa del 10.05.2010 (AG 13/2010), ha chiarito che
l’incentivo “assolve alla funzione di compensare i progettisti dipendenti dell’amministrazione che abbiano in concreto effettuato la redazione degli elaborati progettuali.” La ratio legis è di favorire l’ottimale utilizzo delle professionalità interne a ogni amministrazione e di assicurare un risparmio di spesa sugli oneri che l’amministrazione dovrebbe sostenere per affidare all’esterno gli incarichi. L’incentivo, infatti, può essere corrisposto al solo personale dell’ente che abbia materialmente redatto l’atto e ciò in funzione incentivante e premiale per l’espletamento di servizi propri dell’ufficio pubblico (C. Conti, Sez. controllo, Veneto, n. 337 del 26.07.2011).
L’art. 92, comma 6, in particolare, recita: “Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5, tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
L’espressione “atto di pianificazione comunque denominato” è stata ampiamente valorizzata dall’istante e dai cointeressati per sostenere la tesi della spettanza dell’incentivo anche a favore dei dipendenti pubblici che abbiano contribuito alla redazione degli atti di pianificazione dei servizi d’igiene ambientale.
Al fine di dare una soluzione al quesito posto dall’istante occorre chiarire la portata applicativa dell’art. 92, comma 6 del Codice dei contratti pubblici e, contrariamente a quanto assumono l’Istante e i cointeressati,
sono molteplici gli argomenti che inducono a escludere gli atti pianificatori dei servizi d’igiene ambientale dalla nozione di “piano comunque denominato”.
In primo luogo depone a favore dell’esclusione la genesi della disposizione. L’articolo 92, come afferma la Relazione illustrativa al Codice dei contratti pubblici, è “sostanzialmente riproduttivo” di norme contenute negli artt. 17 e 18 della Legge n. 109/1994, che contemplavano tale incentivo solo nel caso della progettazione di opere pubbliche.
In secondo luogo assume rilievo l’interpretazione letterale dell’art. 92, comma 6, del Codice medesimo, dalla quale è agevole desumere che la disposizione è chiaramente incentrata sulla determinazione dell’ammontare dell’incentivo e sull’individuazione di una misura e di un parametro. La misura è il trenta per cento e il parametro è indicato per relationem, attraverso il richiamo alla tariffa professionale relativa a un qualsiasi atto di pianificazione “comunque denominato”, senza altre specificazioni. L’“atto di pianificazione comunque denominato” quindi viene richiamato solo per il calcolo dell’incentivo, pertanto, contrariamente a quanto assume l’Istante, essa non ha la finalità di estendere l’incentivo, previsto in base agli altri commi della norma solo in materia di lavori e di opere pubbliche, alla pianificazione in materia di servizi o forniture.
Infine rileva la stessa formulazione del comma 6 in esame, nella parte in cui stabilisce che la ripartizione dell’incentivo avviene “secondo le modalità stabilite nel regolamento adottato ai sensi del comma 5”, ossia il regolamento che l’ente adotta per la ripartizione dell’incentivo destinato a retribuire il personale degli uffici tecnici incaricati della progettazione di opere pubbliche.
La riferibilità dell’incentivo alla sola progettazione di lavori si evince, poi, dal tessuto normativo dell’art. 92 del Codice dei contratti pubblici, che nel comma 1 richiama l’“opera progettata”; nel comma 3 e nel comma 7 richiama “la progettazione preliminare, esecutiva e definitiva”, riferite, come noto, solo ai lavori; nel comma 5 calcola l’incentivo sull’importo “posto a base di gara di un’opera o di un lavoro”, nel comma 7-bis richiama il quadro economico di ciascun “intervento”, parola che, nella terminologia del Codice dei contratti pubblici, designa sempre i lavori e mai i servizi.
Infine la lettura prospettata trova conferma anche nella collocazione sistematica del citato art. 92, inserito nella sezione I dedicata alla “progettazione interna ed esterna, livelli di progettazione” del capo IV del Codice dei contratti pubblici denominato “servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria” avente ad oggetto la progettazione in tema di lavori pubblici. La prima norma di tale capo è l’art. 90 che tanto nella rubrica “progettazione interna ed esterna alle amministrazioni aggiudicatrici in materia di lavori pubblici”, quanto nel comma 1 fa riferimento esclusivamente ai lavori pubblici. Il successivo art. 92, comma 1, richiama le varie fasi dell’attività di progettazione finalizzata alla costruzione di un’opera pubblica e il comma 6, come si è detto, ripartisce gli incentivi tra i dipendenti “delle amministrazioni aggiudicatrici”, utilizzando una espressione sintetica, ma comunque evocativa di quanto già contenuto nella rubrica dell’art. 90 che richiama espressamente la materia dei lavori pubblici.
La lettura storica, letterale e sistematica dell’art. 92, comma 6, del Codice dei contratti pubblici induce, quindi, a ritenere che tale disposizione trova applicazione unicamente nelle attività relative alla progettazione di opere pubbliche.
Considerato il tenore della istanza di parere e le osservazioni dei cointeressati, occorre valutare se la norma in commento possa essere riferita in via analogica anche alla progettazione in materia di servizi.
Tale opzione è esclusa dalla natura dell’art. 92, comma 6, in esame, che è una norma eccezionale, in quanto deroga al principio di omnicomprensività della retribuzione, in base al quale l’ordinario trattamento economico mensile compensa il dipendente per lo svolgimento di tutti i compiti rientranti nei doveri d’ufficio. Tale principio, come rilevato anche dalla Corte dei conti in recenti pronunce, si desume anche dall’inderogabilità della struttura della retribuzione stabilita dai contratti collettivi, a termini del combinato disposto di cui agli artt. 2 e 45 del D.Lgs. n. 165 del 2001 (C. Conti, 20.07.2010, n. 464; C. Conti 02.08.2010, n. 487).
L’art. 92, comma 6, del Codice dei contratti pubblici, dunque, è una norma di stretta interpretazione, con la conseguenza che non può essere applicata oltre i casi in essa previsti, stante il divieto contemplato nell’art. 14 delle Disposizioni sulla legge in generale.
La lettura delle norme appena illustrata trova il conforto della giurisprudenza della Corte dei Conti che, in recentissime decisioni, si è occupata degli incentivi alla progettazione.
In particolare la Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, con il parere n. 1 del 16.01.2012, pronunciandosi con riferimento a varie tipologie di piani, tra cui il piano per il servizio rifiuti, ha ritenuto che l’art. 92, comma 6, trova applicazione esclusivamente in materia di lavori pubblici e non è consentita alcuna interpretazione analogica atta ad includere nel disposto normativo le attività di pianificazione non attinenti alla progettazione di opere pubbliche, ciò anche in ragione della puntualità descrittiva della norma in commento (C. Conti, Sez. controllo Campania, parere 10.07.2008, n. 14).
Le decisioni richiamate confermano, peraltro, anche altri precedenti, tutti unanimi nel ritenere che il piano “comunque denominato”, la cui redazione fonda il diritto all’incentivo, non può essere un piano neppure mediatamente riconducibile alla materia dei lavori pubblici e l’incentivo presuppone una procedura di evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un‘opera di pubblico interesse (C. Conti, Sez. controllo, Toscana, parere 18.10.2011, n. 213; C. Conti, Sez. controllo per la Campania, parere 10.07.2008, n. 14).
E’ doveroso, tuttavia, dar conto di un indirizzo della Corte dei Conti che ha riconosciuto l’incentivo anche ai redattori dei piani urbanistici, sul presupposto che l’attività di pianificazione urbanistica presenta elementi di similitudine con la progettazione dei lavori pubblici, tanto che è ricompresa nella categoria degli appalti pubblici di servizi elencati nell’allegato IIA del Codice dei contratti pubblici (C. Conti Sez. controllo, Veneto, parere n. 37 del 26.07.2011).
Secondo l’istante questa decisione fonderebbe il diritto all’incentivo anche nel caso della pianificazione in materia di servizi integrati d’igiene urbana.
Le argomentazioni assunte dalla Corte dei Conti con riferimento alla pianificazione urbanistica, non si attagliano tuttavia al caso di specie, riguardante la pianificazione dei servizi integrati d’igiene urbana, in quanto tale attività, nonostante richieda l’impiego di molte professionalità e competenze specifiche di tipo multidisciplinare, come assumono l’istante e i cointeressati, non può in alcun caso essere assimilata alla progettazione di opere pubbliche, neppure mediatamente. Sussiste, infatti, una radicale differenza tra la pianificazione urbanistica e quella in materia di rifiuti, che non consente di assimilare le due fattispecie.
La pianificazione in tema di rifiuti, come rileva anche l’Istante, assolve una duplice finalità: da un lato è utile per determinare il corrispettivo del servizio e dall’altro consente di stabilire il livello qualitativo dei servizi, il metodo di controllo degli stessi, la convenienza economica, il raggiungimento degli obiettivi previsti dal legislatore con particolare riferimento alla raccolta differenziata. Tale pianificazione, quindi, per le stesse finalità e per il suo contenuto non inerisce alla progettazione di opere o impianti pubblici.
In tal senso assumono rilievo gli allegati all’istanza e alla nota inviata dai cointeressati da cui si evince che l’attività programmatoria posta in essere ha richiesto l’elaborazione di studi demografici; la rilevazione delle quantità e qualità dei rifiuti prodotti nelle varie zone ricomprese nell’ATO; la individuazione delle dinamiche della produzione e delle utenze dei servizi stessi distinte in domestiche e imprenditoriali; la rilevazione dei fabbisogni; la individuazione dei metodi di raccolta, degli operatori e dei mezzi impiegati (etc.). La pianificazione ha inoltre richiesto un’analisi del territorio, non riguardante però scelte di governo del territorio, ma l’individuazione dei materiali, le modalità di raccolta, gli obiettivi quantitativi, il dimensionamento dei servizi.
Sotto tale profilo, la suddivisione in zone del territorio comunale eseguita in sede di programmazione del servizio integrato dei rifiuti, era diretta solo ad individuare le caratteristiche che accomunano il servizio di raccolta e smaltimento in una determinata zona e alla localizzazione delle zone di raccolta, al fine di “tarare” il servizio stesso in modo conforme alle specificità di quella parte del territorio comunale, come ammettono gli stessi cointeressati. La ripartizione in zone operata dai piani del servizio integrato dei rifiuti, quindi, in nessun caso può essere assimilata alla “zonizzazione” in ambito urbanistico, come invece assumono i cointeressati medesimi nelle note illustrative.
La pianificazione urbanistica, invece, anche se in forma mediata, inerisce anche a opere o impianti pubblici. Si ricorda, infatti, che i piani regolatori, strumento urbanistico di base per garantire un ordinato e corretto assetto del territorio, contengono, come noto, tra le altre, sia previsioni cd. di zonizzazione, che suddividono il territorio comunale in zone omogenee, specificando quelle con vocazione edificatoria e i vincoli da osservare in ciascuna di esse; sia norme di localizzazione di aree destinate a formare spazi di uso pubblico, ovvero riservate a edifici pubblici o di uso pubblico, a opere e impianti pubblici o di pubblico interesse, tanto che tali previsioni sono considerate dalla giurisprudenza ad effetto sostanzialmente espropriativo, se riguardanti beni di proprietà privata.
La natura stessa e il contenuto della pianificazione urbanistica e in particolare dei piani regolatori consente, pertanto, l’erogazione dell’incentivo ex art. 92, comma 6, del Codice dei contratti pubblici a favore dei dipendenti che abbiano partecipato alla redazione di tali strumenti urbanistici, in quanto tali atti afferiscono, sia pure mediatamente, alla progettazione di opere o impianti pubblici o di uso pubblico, dei quali definiscono l’ubicazione nel tessuto urbano.
L’Autorità, con riferimento all’art. 18, comma 2, della Legge n. 109/1994, trasfuso in parte qua nell’art. 92, comma 6, del suddetto Codice, ha assunto, con argomentazioni da cui non vi è ragione per discostarsi, che nella norma in esame sono ricompresi “oltre ai vari tipi di atti di pianificazione anche gli atti a contenuto normativo, come ad esempio i regolamenti edilizi che accedono alla pianificazione urbanistica, purché completi e idonei alla successiva approvazione da parte degli organi competenti”, mentre ne sono esclusi gli interventi manutentivi ordinari e straordinari di opere ed impianti, che non comportino la redazione degli elaborati progettuali, in quanto la norma collega il diritto all’incentivo all’espletamento di una attività di progettazione (Determinazione n. 43 del 25.09.2000). Inoltre, con il successivo parere sulla normativa, già richiamato, AG 13/2010 del 10.05.2010, l’Autorità ha ulteriormente specificato che il documento identificativo degli interventi manutentivi su opere o impianti pubblici e la loro pianificazione rientrano nella nozione di “piano comunque denominato”, che fonda il diritto all’incentivo per la progettazione in capo ai redattori del piano.
La natura stessa e il contenuto della pianificazione urbanistica e in particolare dei piani regolatori consente, pertanto, l’erogazione dell’incentivo ex art. 92, comma 6, a favore dei dipendenti che abbiano partecipato alla redazione di tali strumenti urbanistici, in quanto tali atti afferiscono, sia pure mediatamente, alla progettazione di opere o impianti pubblici o di uso pubblico, dei quali definiscono l’ubicazione nel tessuto urbano.
I richiamati precedenti dell’Autorità e i pareri della Corte dei Conti, quindi, contrariamente a quanto assumono l’Istante e i cointeressati, quindi, non fondano il diritto all’incentivo per i redattori degli atti di pianificazione dei servizi integrati d’igiene urbana.
Tale conclusione è rafforzata anche dalla finalità degli atti di pianificazione in esame, così come dichiarata dall’Istante e quale emerge negli allegati.
In particolare, la società istante assume che la pianificazione dei servizi è stata elaborata da dipendenti incaricati dalla stessa società al fine di predisporre “alcuni affidamenti di servizi integrati d’igiene urbana” e gli atti di gara allegati all’istanza richiamano in più parti i risultati di tale pianificazione. L’istante non specifica il tempo in cui tali gare sono state indette, ma dagli allegati all’istanza e in particolare dall’allegato n. 8 degli atti della gara indetta per il Comune di Caltanisetta -che contiene le schede di rilevazione dei dati relativi ai rifiuti per gli anni dal 2007 al 2010, e dall’allegato n. 7 della gara indetta per il degli atti della gara indetta per il Comune di Marianopoli -che contiene le schede di rilevazione dei dati relativi ai rifiuti per gli anni dal 2006 al 2009- si può desume che le gare in oggetto siano state bandite nel vigore del Codice dei contratti pubblici e verosimilmente nel vigore del D.P.R. n. 207/2010, con la conseguenza che l’attività di pianificazione eseguita dai dipendenti dell’Istante può essere ricompresa nell’attività di programmazione del servizio di cui all’art. 94 del Codice dei contratti pubblici.
Tale norma rubricata “Livelli della progettazione per gli appalti di servizi e forniture e requisiti dei progettisti” demanda, tra l’altro, al Regolamento attuativo la definizione dei livelli di progettazione negli appalti di servizi e forniture. Tale norma deve essere letta in combinato disposto con l’art. 5, comma 5, lett. d), del Codice, che affida al Regolamento stesso il compito di adottare disposizioni riferite alla progettazione dei servizi e delle forniture con le connesse attività tecniche.
Alla norma in commento è stata data attuazione con l’art. 279 del Regolamento, il quale stabilisce che la progettazione dei servizi e delle forniture, articolata di regola in un unico livello, ha la finalità di identificare l'oggetto della prestazione del servizio e, in particolare, comprende vari atti, quali: a) la relazione tecnica-illustrativa con riferimento al contesto in cui è inserita la fornitura o il servizio; b) le indicazioni e disposizioni per la stesura dei documenti inerenti la sicurezza di cui all'articolo 26, comma 3, del decreto legislativo 09.04.2008, n. 81; c) il calcolo della spesa per l'acquisizione del bene o del servizio con indicazione degli oneri della sicurezza non soggetti a ribasso di cui alla lettera b); d) il prospetto economico degli oneri complessivi necessari per l'acquisizione del bene o del servizio; e) il capitolato speciale descrittivo e prestazionale; f) lo schema di contratto.
La progettazione che l’Istante assume di aver effettuato prima di bandire le gare per l’affidamento del servizio integrato dei rifiuti, desumibile dagli stessi allegati all’istanza, ha assunto i contenuti indicati dall’art. 279 del Regolamento, il quale stabilisce che tale progettazione “è predisposta dalle amministrazioni aggiudicatrici mediante propri dipendenti in servizio” (comma 2).
Tale previsione, formulata con il verbo nel modo indicativo, attesta che, di regola, l’incarico della progettazione in materia di servizi e forniture è affidato a professionalità interne all’ente, con la sola specificazione che “per i contratti di cui all’art. 300, comma 2, lettera b), la progettazione di servizi o forniture può avvenire nell’ambito di gare per l’affidamento di servizi o di concorsi di progettazione concernenti servizi o forniture, finalizzati a fornire alla stazione appaltante la progettazione”; si tratta, dunque, di una possibilità di ricorso a soggetti esterni riservata solo a speciali fattispecie contrattuali caratterizzate da particolare complessità.
In materia di lavori invece la progettazione può essere affidata sia a professionisti esterni che interni, ancorché sussista un favor per la progettazione interna, e solo in tale secondo caso, è stato contemplato l’incentivo al fine di assicurare, come si è detto, un risparmio di spesa ed invogliare così le amministrazioni pubbliche ad affidare l’incarico ai propri dipendenti.
L’assenza di un’alternativa, in termini generalizzati, alla progettazione interna nell’ambito degli appalti di servizi e forniture, costituisce un ulteriore elemento che induce ad escludere la spettanza dell’incentivo.
Pertanto, lo svolgimento dell’attività di pianificazione del servizio integrato di igiene urbana prodromica all’indizione di gare per l’affidamento del servizio stesso, intesa come programmazione del servizio eseguita, nella specie, dai dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice e doverosa in base al Codice dei contratti pubblici e al Regolamento attuativo, rientra nei doveri d’ufficio e non può fondare il diritto a una retribuzione ulteriore rispetto a quella percepita dal dipendente pubblico, pena la violazione del principio di omnicomprensitivà della retribuzione, che tollera solo deroghe espresse.
La tesi, peraltro, incontra l’avallo della giurisprudenza della Corte dei Conti, che argomentando proprio sulla natura di “attività vincolata espressamente prevista dalla normativa di riferimento” assume che “se l’attività rientra nelle funzioni istituzionali dell’ente, il dipendente che abbia redatto materialmente l’atto “svolge un’attività lavorativa ordinaria che deve essere ricompresa nei compiti e nei doveri d’ufficio (art. 53 del D.lgs. n. 165/2001) non suscettibile della liquidazione dell’incentivo di cui all’art. 92, comma 6, del D.lgs. n. 163/2006.”.
Secondo l’istante l’attività di pianificazione, essendo riconducibile a quelle remunerate con la tariffa professionale degli ingegneri e degli architetti, ai sensi dell’art. 5 della Legge 02.03.1949, n. 143- Approvazione della tariffa professionale degli ingegneri ed architetti e degli artt. 5 e 6 della Circolare del Ministero dei Lavori pubblici n. 6679 del 01.12.1969, esplicativa della legge stessa, dovrebbe dare diritto agli incentivi.
Premesso che non è compito di questa Autorità indagare la corretta interpretazione della legge che regola le tariffe professionali degli ingegneri e degli architetti, con la conseguenza che la seconda parte del quesito prospettato dall’Istante in ogni caso non potrebbe essere esaminata, si osserva che l’affermazione dell’istante non scardina la lettura proposta. Ed invero, anche se la tariffa professionale prevedesse la remunerazione delle prestazioni professionali rese per l’elaborazione del piano dei rifiuti, ciò non potrebbe in nessun caso costituire un argomento per interpretare analogicamente una norma eccezionale quale è l’art. 92 del Codice dei contratti pubblici che, per collocazione sistematica, ratio e contenuto assolve ad altre finalità e disciplina altri settori dell’ordinamento.
Peraltro la prospettata tesi dell’Istante prova troppo anche in ragione del fatto che la pianificazione in materia di rifiuti non è espressamente compresa tra le attività remunerate con la tariffa degli ingegneri e degli architetti, in quanto le norme richiamate dall’istante sono riferite esclusivamente alla pianificazione urbanistica; l’inclusione della programmazione in materia di rifiuti tra le attività remunerate a tariffa è frutto di una interpretazione di per sé estensiva e, come tale, non idonea a costituire un argomento utile per fondare la lettura estensiva (… rectius analogica) di un’altra norma -l’art. 92, comma 6 del Codice- che come già detto più volte ha natura eccezionale .

QUESITI & PARERI

ATTI AMMINISTRATIVI: Associazioni ambientaliste non individuate.
Domanda
Le associazioni ambientaliste non individuate ai sensi dell'articolo 13 della legge numero 349, del 1986, possono impugnare provvedimenti, ritenuti lesivi, di interessi ambientali in ambito territoriale circoscritto?
Risposta
Il Consiglio di stato, sezione V, con la sentenza del 22.03.2012, numero 1640, ha affermato che, in tema di legittimazione attiva di associazioni ambientaliste non individuate ai sensi dell'articolo 13 della legge numero 349, del 1986, a ricorrere avverso provvedimenti potenzialmente lesivi di interessi ambientali in ambito territoriale circoscritto, non sussiste detta legittimazione attiva delle suddette associazioni ambientaliste se le stesse non posseggono criteri legittimandi, quali quelli: «Di perseguire la tutela ambientale in modo non occasionale e per espressa previsione statutaria nonché di godere di un adeguato grado di rappresentatività e stabilità nell'area ricollegabile alla zona in cui si trova il bene ambientale che si presume leso».
In altre parole, le summenzionate associazioni ambientaliste devono essere in possesso dei requisiti atti a svolgere, in modo non occasionale e per espressa previsione contenuta nello statuto, attività connesse alla tutela ambientale. Le stesse, poi, devono essere collegate, in modo stabile, con il territorio e devono godere di un adeguato grado di rappresentatività delle popolazioni locali.
I succitati Supremi giudici, nel decidere, hanno tenuto bene in evidenza, e ne hanno fatto tesoro, la precedente sentenza della stesso Consiglio di stato, Adunanza plenaria (sentenza numero 4, del 07.04.2011), che, a proposito di legittimazione attiva di associazioni ambientaliste non individuate ai sensi dell'articolo 13 della legge numero 349, del 1986, aveva chiaramente ed esplicitamente affermato: «Il collegio premette che la legittimazione al ricorso, in quanto condizione dell'azione, deve essere accertata con rigore».
Parte della dottrina ha criticato pesantemente il principio affermato da succitata sezione V, del Consiglio di stato, sostenendo, che, nella fattispecie, avrebbe dovuto trovare applicazione il principio della sussidiarietà orizzontale prevista dall'articolo 118, ultimo comma, della Carta costituzionale «in alternativa al complesso accertamento ex iudice dell'esistenza di criteri quali la vicinanza, lo stabile collegamento e l'adeguata rappresentatività».
Per questa dottrina, l'articolo 118, summenzionato, è da solo rappresentativo di un efficace rimedio in difesa di quelle posizioni giuridiche meritevoli di tutela «che altrimenti non avrebbero modo di emergere» (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.07.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Natura pubblica di una strada.
Domanda
L'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche comporta la natura pubblica della strada?
Risposta
L'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche non comporta la natura pubblica della strada.
L'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico non ha infatti natura costitutiva e portata assoluta, ma riveste una funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell'uso, superabile con la prova contraria della natura della strada.
Stante pertanto la natura dichiarativa degli elenchi delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico, è necessario individuare altri elementi costitutivi da valutarsi al fine dell'accertamento della natura pubblica di una strada, quali l'uso pubblico (inteso come l'utilizzo da parte di un numero indeterminato di persone), l'ubicazione della strada all'interno di luoghi abitati, nonché il comportamento tenuto dalla p.a. nel settore dell'edilizia e dell'urbanistica.
Ciò posto e ribadito pertanto che l'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche non comporta la natura pubblica della strada, avendo l'inserimento una sola valenza dichiarativa, è opportuno precisare però che chi intende affermare la natura privata della strada o negare l'esistenza della servitù non può limitarsi a sostenere che l'elenco non ha valenza costitutiva, ma deve fornire prove idonee a dimostrare la diversa connotazione della strada (Tar Veneto, Sezione II, n. 1555 del 13/12/2012) (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.07.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Silenzio della Soprintendenza.
Domanda
Su un'area demaniale sottoposta a vincolo vengono realizzate delle opere in assenza della prescritta concessione. Nella successiva procedura di sanatoria la Soprintendenza, a cui viene richiesto il prescritto e vincolane parere, non si esprime. Vale il principio del silenzio-assenso?
Risposta
L'articolo 167, comma 5, dlgs n. 42/2004 prevede che «L'autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di 180 giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di 90 giorni», nulla precisando in casso di silenzio della Soprintendenza.
Sono però gli articoli 16 e 17 della legge n. 241/1990 e Smi a chiarire in modo esplicito il problema, prevedendo che il principio del silenzio assenso non si applica «in caso di pareri che debbano essere rilasciati da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e della salute dei cittadini».
Pertanto il parere della Soprintendenza deve essere formulato espressamente, attesa l'inapplicabilità dell'istituto del silenzio assenso giusta gli artt. 16, comma 3, e 17, comma 2, legge n. 241/1990 e Smi (cfr. Tar Puglia Lecce, sez I, 13/04/2011 n. 669 e Tar Veneto Venezia, sez. II, 18/12/2006, n. 4094) (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.07.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Rimborso oneri concessori.
Allorché un privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire a lui concesso, sorge in capo alla p.a. concedente l'obbligo di restituzione delle somme da costui corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costi di costruzione.
Il Comune riferisce di avere ricevuto da una cittadina la richiesta di restituzione degli oneri concessori da costei pagati per l'edificazione di un fabbricato residenziale i cui lavori non risultano mai essere iniziati e la cui concessione a costruire è nel frattempo decaduta.
L'Ente chiede di sapere se la richiesta della cittadina sia fondata e se, perciò, debba essere assunto il provvedimento di rimborso.
La questione giuridica prospettata nel quesito è stata oggetto di una recente pronuncia di un giudice amministrativo, conforme ad altre sentenze più risalenti, che porta a ritenere legittima la richiesta della cittadina
[1].
Il Tar Catania
[2], in un caso analogo a quello sopra rappresentato, ha, infatti, deciso che: 'Allorché il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire ovvero anche quando sia intervenuta la decadenza del titolo edilizio, sorge in capo alla p.a., anche ex artt. 2033 [3] o, comunque, 2041 [4] c.c., l'obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione e conseguentemente il diritto del privato a pretenderne la restituzione. Il contributo concessorio è, infatti, strettamente connesso all'attività di trasformazione del territorio e quindi, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell'originaria obbligazione di dare cosicché l'importo versato va restituito; il diritto alla restituzione sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia stato utilizzato solo parzialmente (cfr: CS, V, 02.02.1988 n. 105, 12.06.1995 n. 894 e 23.06.2003 n. 3714; TAR Lombardia, Sez. II, 24.03.2010, n. 728 e TAR Abruzzo 15.12.2006 n. 890, TAR Parma 07.04.1998 n. 149)'.
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[1] Concorde è anche l'Anci, nel suo parere dd. 27.08.2012.
[2] Tar Catania, sez. I, 18.01.2013, n. 159.
[3] Art. 2033 c.c. Indebito oggettivo: 'Chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda'.
[4] Art. 2041 c.c. Azione generale di arricchimento: 'Chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un'altra persona è tenuto, nei limiti dell'arricchimento, a indennizzare quest'ultima della correlativa diminuzione patrimoniale. Qualora l'arricchimento abbia per oggetto una cosa determinata, colui che l'ha ricevuta è tenuto a restituirla in natura, se sussiste al tempo della domanda'
(28.06.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

COMPETENZE GESTIONALI - PATRIMONIO: Accettazione di una donazione immobiliare.
Ai sensi dell'art. 42, comma 2, lett. l), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (Tuel), l'accettazione di una donazione immobiliare rientra nell'ambito delle competenze del consiglio comunale in quanto, per 'acquisti immobiliari', devono intendersi sia quelli a titolo oneroso sia quelli a titolo gratuito.
Il Comune chiede di sapere se all'accettazione di una donazione immobiliare sia competente il Consiglio o la Giunta comunale.
Tale questione, già affrontata da questo Ufficio
[1], risulta risolvibile ai sensi dell'art. 42, comma 2, lett. l), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (Tuel) che prevede, tra le attribuzioni dei consigli, 'gli acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della giunta, del segretario o di altre funzioni'.
Non essendo stato specificato diversamente dal legislatore, per 'acquisti immobiliari' devono intendersi sia quelli a titolo oneroso (come nella compravendita) sia quelli a titolo gratuito (come nella donazione).
Per tale ragione, si ritiene che anche l'accettazione di una donazione immobiliare rientri all'interno delle competenze del consiglio comunale.
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[1] V. parere prot. n. 166 del 04.01.2007, reperibile alla pagina web http://autonomielocali.regione.fvg.it (25.06.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Monetizzazione festività soppresse.
Il Dipartimento della funzione pubblica ha precisato che il divieto di monetizzazione delle ferie e delle festività soppresse non opera solo in relazione a quelle vicende estintive del rapporto di lavoro dovute ad eventi del tutto indipendenti dalla volontà del lavoratore e dalla capacità organizzativa e di controllo del datore di lavoro (ad es. decesso, risoluzione per inidoneità permanente ed assoluta).
Premesso un tanto, per quanto concerne le quattro giornate di riposo per festività soppresse, ai fini dell'eventuale monetizzazione nei casi sopra evidenziati, necessita pertanto tener conto delle caratteristiche del relativo sistema regolativo (monetizzazione solo per mancata fruizione nell'anno solare di riferimento per esigenze di servizio, impossibilità di trasporto all'anno successivo).

Il Comune ha chiesto di conoscere se, ai sensi dell'art. 5, comma 8, del d.l. 95/2012, convertito in l. 135/2012, nel caso di festività soppresse non fruite per indifferibili ragioni di servizio, negli anni precedenti l'entrata in vigore della predetta normativa (ad es. dal 2002 al 2011), sia possibile procedere ad un'eventuale monetizzazione o se le stesse possano essere comunque fruite.
La citata norma prevede che le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'ISTAT (fra tali amministrazioni figurano anche i Comuni), sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. Si precisa altresì che detta disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età. Eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dalla data di entrata in vigore del medesimo d.l. n. 95/2012.
Si ritiene utile riportare le considerazioni espresse in proposito dal Dipartimento della funzione pubblica
[1].
Il suddetto Dipartimento ha evidenziato che la norma in esame non prevede una disciplina transitoria e, quindi, ha ritenuto che debbano rimanere salvaguardate tutte quelle situazioni che si sono definite prima dell'entrata in vigore della legge medesima. Pertanto, la preclusione alla monetizzazione non riguarda i rapporti di lavoro già cessati prima dell'entrata in vigore del d.l. 95/2012, le situazioni in cui le giornate di ferie sono state maturate prima dell'entrata in vigore della predetta disposizione e ne risulti incompatibile la fruizione a causa della ridotta durata del rapporto o a causa della situazione di sospensione del rapporto cui segua la sua cessazione (ad es. i casi di collocamento in aspettativa per lo svolgimento del periodo di prova presso altra amministrazione a seguito della vincita di un concorso, secondo le clausole di alcuni contratti di comparto). In ogni caso, anche in queste ipotesi residuali, la monetizzazione delle ferie potrà avvenire solo in presenza delle limitate ipotesi normativamente e contrattualmente previste
[2].
Secondo l'ARAN
[3], 'viene meno, quindi, sul piano formale, dall'entrata in vigore del d.l. 95/2012, ogni possibilità di ulteriore ricorso all'istituto della monetizzazione, sia delle ferie, sia dei quattro giorni di riposo delle festività ex lege 937/1977, con la conseguente disapplicazione di tutte le norme legali e contrattuali che la consentivano.' [4].
La predetta Agenzia ha richiamato, al riguardo, quanto enunciato nella circolare esplicativa diramata sulla materia dal Dipartimento della funzione pubblica
[5], che ha sottolineato come il divieto di monetizzazione non opererebbe solo in relazione a quelle vicende estintive del rapporto di lavoro dovute ad eventi del tutto indipendenti dalla volontà del lavoratore e dalla capacità organizzativa e di controllo del datore di lavoro. In questi casi, infatti, si è ritenuto che l'impossibilità di fruire delle ferie non sia imputabile o comunque riconducibile al dipendente. Si tratta delle ipotesi in cui il rapporto di lavoro si conclude in modo anomalo e non prevedibile in alcun modo (decesso, risoluzione per inidoneità permanente ed assoluta), oppure quelle caratterizzate dalla circostanza che il dipendente non ha, comunque, potuto fruire delle ferie maturate a causa di assenza dal servizio antecedente la cessazione del rapporto di lavoro (malattia, congedo di maternità, aspettative a vario titolo). Si tratta, quindi, di situazioni che, proprio per i loro contenuti specifici, non sono considerate rispondenti alla ratio della norma in argomento e, pertanto, vengono escluse dal suo ambito di applicazione.
L'ARAN rappresenta inoltre che le indicazioni fornite dal Dipartimento della funzione pubblica sono applicabili anche alle quattro giornate di riposo per festività soppresse, di cui alla l. 937/1977.
Per quanto concerne, infatti, le predette quattro giornate di riposo, ai fini dell'eventuale monetizzazione, nei casi in cui ciò sia ancora possibile come sopra evidenziato, necessita comunque tenere conto delle caratteristiche del relativo sistema regolativo (monetizzazione solo per mancata fruizione nell'anno solare di riferimento per esigenze di servizio, a condizione che sussistano documentati dinieghi a fronte di puntuali richieste nel medesimo anno; impossibilità di trasporto all'anno successivo).
In sostanza, la monetizzazione delle giornate di festività soppresse sarà possibile solo in presenza di una delle vicende interruttive del rapporto di lavoro sopra richiamate, intervenute in corso di anno (prima cioè del 31 dicembre), e con riferimento ai riposi maturati e non fruiti per esigenze di servizio alla data di cessazione.
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[1] Cfr. nota del 06.08.2012.
[2] L'art. 18 del CCNL del 06.07.1995, tuttora applicabile agli enti locali della Regione Friuli Venezia Giulia, consente la monetizzazione solo in caso di cessazione del rapporto, ove il rinvio della fruizione sia avvenuto legittimamente per esigenze di servizio.
[3] Cfr. Il divieto di monetizzazione delle ferie, consultabile in: aranagenzia.it/araninforma/index.php/dicembre-2012.
[4] Per quanto concerne le festività soppresse, per gli enti locali del Friuli Venezia Giulia, la monetizzazione, nell'ipotesi di mancata fruizione, è disciplinata dall'art. 60, comma 3, del CCRL del 07.12.2006.
[5] Cfr. nota n. 40033 dell'08.10.2012
(25.06.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

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SICUREZZA LAVOROSicurezza, le multe rincarano. Dal 1° luglio ammende e sanzioni salgono del 9,6%. Le istruzioni del ministero del lavoro dopo la rivalutazione prevista dal dl 76/2013.
Multe più salate per gli inadempimenti sulla sicurezza lavoro. Ammende e sanzioni infatti vanno su del 9,6%, per le violazioni commesse dal 1° luglio, senza arrotondamento per i nuovi importi.
Lo precisa il ministero del lavoro nella nota 02.07.2013 n. 12059 di prot..
Per esempio, dimenticare di effettuare la valutazione dei rischi costa oggi al datore di lavoro l'ammenda da 2.740 a 7.014,40 euro; fino al 30 giugno la multa è stata da 2.500 a 6.400 euro. La novità è stata prevista dal dl n. 76/2013 (il pacchetto lavoro) in vigore dal 29 giugno.
Tra le varie modifiche normative introdotte, spiega il ministero, il decreto ha modificato il comma 4-bis dell'art. 306 del Tu sicurezza (dlgs n. 81/2008) e nella nuova versione recita così: «Le ammende previste con riferimento alle contravvenzioni in materia di igiene salute e sicurezza sul lavoro e le sanzioni amministrative pecuniarie previste dal presente decreto nonché da atti aventi forza di legge sono rivalutate ogni cinque anni con decreto del direttore generale della direzione generale per l'attività ispettiva del ministero del lavoro e delle politiche sociali, in misura pari all'indice Istat dei prezzi al consumo previo arrotondamento delle cifre al decimale superiore. In sede di prima applicazione la rivalutazione avviene, a decorrere dal 01.07.2013, nella misura del 9,6%».
La norma, precisa il ministero, individua in un decreto direttoriale lo strumento per la rivalutazione quinquennale di ammende e sanzioni pecuniarie; e inoltre consente l'immediata applicazione della rivalutazione, dal 1° luglio, in quanto già fissata nella misura del 9,6%.
Pertanto, tutte le ammende previste con riferimento alle contravvenzioni in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro e le sanzioni amministrative previste dal Tu sicurezza nonché da altre normative, riferite a violazioni commesse dal 1° luglio, sono incrementate del 9,6% (articolo ItaliaOggi del 04.07.2013).

LAVORI PUBBLICILavori da oltre 150 mila Bandi-tipo per chi appalta. L'indirizzo dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici.
Al via i bandi-tipo che le stazioni appaltanti potranno utilizzare per l'affidamento di lavori pubblici di importo superiore a 150.000 euro; entro fine luglio si chiuderà la consultazione con le categorie interessate, poi il parere del ministero delle infrastrutture e il varo del provvedimento; previsti 12 schemi suddivisi per procedure; gli appalti integrati (di progettazione e costruzione) da affidare solo con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa; necessaria una adeguata motivazione per il requisito del fatturato aziendale.
Sono questi alcuni degli elementi che emergono dalla lettura dei documenti messi in consultazione venerdì pomeriggio dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici in attuazione dell'articolo 64, comma 4-bis del Codice che attribuisce all'Autorità il compito di elaborare specifici modelli (bandi-tipo) sulla base dei quali le stazioni appaltanti sono tenute a predisporre i propri bandi di gara.
Per i lavori tale obbligo riguarda tutte le procedure di importo superiore ai 150.000 euro per le quali l'Autorità ha messo quindi a punto 12 schemi di disciplinare di gara e lettere di invito in relazione alle diverse procedure, aperta, ristretta e negoziata. All'interno di ogni modello una parte sarà sempre obbligatoria, altre parti varieranno in ragione delle diverse alternative che avranno a disposizione le stazioni appaltanti.
Nel dettaglio, i modelli di gara si riferiscono agli appalti di lavori di sola esecuzione, di esecuzione e progettazione esecutiva, di esecuzione, progettazione definitiva e progettazione esecutiva e sono articolati per procedura aperta, ristretta e negoziata e in base al criterio di aggiudicazione (prezzo più basso o offerta economicamente più vantaggiosa). Per gli appalti integrati, l'Autorità ha messo a punto soltanto modelli di bando per aggiudicazione con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa che, come già chiarito dall'Autorità nella determinazione n. 5 del 27.07.2010, «appare il sistema di affidamento preferibile in relazione alla specificità e alla complessità dei servizi in questione, come confermato da varie disposizioni del Regolamento nelle quali si fa espresso riferimento all'utilizzo dell'offerta economicamente più vantaggiosa (cfr. artt. 120 e 266)».
I bandi-tipo contemplano anche i documenti che i concorrenti devono presentare per poter partecipare in forma di «aggregazione di imprese di rete». Per la verifica sul possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario, i bandi-tipo fanno riferimento all'utilizzo del sistema AVCpass, ancorché rinviato a inizio 2014. Infine fra le indicazioni fornite interessante è anche quella ai requisiti di fatturato per i quali l'Autorità afferma che ai sensi dell'art. 41, comma 2, del Codice occorre indicare una congrua motivazione in ordine ai limiti di accesso connessi al fatturato aziendale che «potrà essere riferita, per esempio, alla necessità di un'organizzazione progettuale di elevato livello imprenditoriale» (articolo ItaliaOggi del 02.07.2013).

TRIBUTITares a luglio se il comune tace. Prima rata entro fine mese in assenza di delibere diverse. Le scadenze per la nuova tassa sui rifiuti modificabili in attesa di regolamento.
La prima rata della Tares va pagata entro la fine di luglio, a meno che i comuni non abbiano fissato una scadenza diversa da quella prevista dalla legge. Nel caso in cui l'ente non indichi le scadenze delle rate, infatti, il tributo deve essere versato a luglio e ottobre. A partire dal prossimo anno, invece, i pagamenti rateali vanno effettuati a gennaio, aprile, luglio e ottobre. Queste scadenze possono essere modificate con regolamento comunale. La nuova tassa sui rifiuti e i servizi a saldo deve essere pagata con F24, con bollettino di conto corrente postale o tramite servizi elettronici di incasso e di pagamenti interbancari. Solo per il 2013, per il pagamento degli acconti i comuni possono inviare ai contribuenti i modelli di pagamento precompilati già predisposti per il pagamento di Tarsu, Tia1 o Tia2 o indicare altre modalità di versamento giù utilizzate in passato.
Scadenze e scelte dei comuni. La nuova tassa sui rifiuti e la maggiorazione sui servizi possono essere pagate con l'ultima rata, a conguaglio delle somme versate in acconto che sono determinate in base a quanto già versato dai contribuenti nell'anno precedente per Tarsu, Tia1 e Tia2. Inoltre la maggiorazione, fissata nella misura di 0,30 euro per metro quadrato, non può essere aumentata dai comuni e il gettito è riservato allo stato. Gli enti locali, con propria deliberazione, sono tenuti a indicare scadenze e numero delle rate di versamento del tributo. Altrimenti, le scadenze sono quelle previste dalla legge: luglio e ottobre.
I cittadini devono comunque essere informati, anche con la pubblicazione sul sito internet del comune, almeno 30 giorni prima della data del versamento. Per il 2013, infatti, scadenze e numero delle rate di versamento sono stabiliti dal comune con deliberazione adottata, «anche nelle more della regolamentazione comunale del nuovo tributo». La prima rata, dunque, non deve essere necessariamente versata a luglio, come previsto in un primo momento dal dl rifiuti (1/2013), ma può essere anticipata o posticipata, anche nel caso in cui il comune non abbia adottato il regolamento, il cui termine di scadenza è attualmente fissato al prossimo 30 settembre. Per le prime due rate le amministrazioni locali possono inviare i modelli già predisposti per il pagamento di Tarsu, Tia1 o Tia2. Gli acconti verranno scomputati dal quantum dovuto, a titolo di Tares, per l'anno 2013. L'articolo 10 del dl 35/2013 ha infatti differito l'applicazione delle regole di determinazione della Tares al momento del saldo, con la richiesta di conguaglio di quanto dovuto dal contribuente in sede di pagamento dell'ultima rata.
Modalità di pagamento. L'Agenzia delle entrate con un comunicato pubblicato sul proprio sito ha reso noto che dal 27 maggio scorso è possibile pagare la Tares presso gli sportelli di banche, poste e agenti della riscossione utilizzando il modello F24. Inoltre, i pagamenti possono essere effettuati tramite i servizi di home-banking e remote-banking messi a disposizione dall'Agenzia delle entrate oppure online, con Entratel e Fisconline, collegandosi al sito della stessa Agenzia.
Va ricordato che con la risoluzione 37E/2013 sono stati istituiti i codici per il versamento con l'F24 del nuovo tributo sui rifiuti, della tariffa corrispettiva e della maggiorazione. I contribuenti, in alternativa all'F24, dal 1° luglio hanno facoltà di versare la Tares anche con il nuovo bollettino di conto corrente postale. Questo bollettino, approvato con decreto ministeriale, riporta un unico numero di conto corrente che è valido per tutti i comuni del territorio nazionale. Il modello intestato a «pagamento Tares», infatti, riporta obbligatoriamente il numero di conto 1011136627. Il dm ha fissato anche le modalità di riversamento ai comuni delle somme riscosse con il bollettino. La tempistica e le modalità sono analoghe a quelle previste per i versamenti unitari (F24) dal decreto legislativo 241/1997.
Soggetti obbligati al pagamento. La Tares è dovuta da chiunque possieda, occupi o detenga a qualsiasi titolo locali o aree scoperte, a prescindere dall'uso a cui sono adibiti. Sono obbligati in solido al pagamento anche i componenti del nucleo familiare e coloro che usano in comune locali e aree. Rispetto al regime previgente, la nuova normativa introduce il criterio della prevalenza, vale a dire che il tributo va pagato al comune nel cui territorio insiste, interamente o prevalentemente, la superficie degli immobili.
I soggetti tenuti al pagamento della tassa devono denunciare la superficie calpestabile e non più la superficie catastale, in seguito alle modifiche apportate all'articolo 14 dalla legge di stabilità (228/2012). È stata infatti rinviata sine die l'applicazione della superficie catastale per gli immobili a destinazione ordinaria come parametro per la determinazione del tributo. Considerato che per la maggior parte degli immobili non esiste ancora la superficie catastale, all'Agenzia era demandato il compito non semplice di stabilire medio tempore una superficie convenzionale in base ai dati in suo possesso.
Tenuto conto delle difficoltà di utilizzare la superficie catastale, viene consentito ai comuni di fare ricorso alle superfici già denunciate per Tarsu e Tia, calcolando la tassa sulla superficie calpestabile anche per gli immobili a destinazione ordinaria (classificati nelle categorie A, B e C). Si passerà alla commisurazione del tributo sulla superficie catastale solo quando verranno allineati i dati degli immobili a destinazione ordinaria e quelli riguardanti la toponomastica e la numerazione civica, interna e esterna, di ciascun comune (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.07.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATADopo il decreto legge del fare, anche il dl emergenze ritocca le regole sui sottoprodotti
Terre da scavo, si torna indietro. Per i piccoli cantieri si applica il codice ambientale.
Cambia per ben due volte nel giro di una settimana il quadro normativo di riferimento per gestire i materiali da scavo destinati al riutilizzo in sito diverso da quello di provenienza come «sottoprodotti», ossia fuori dal regime dei rifiuti.

Dopo il «decreto legge Fare» (in vigore dal 22 giugno) che ha limitato l'applicazione delle regole in materia stabilite dal dm 161/2012 ai soli residui provenienti da attività e opere soggette a Via e Aia, interviene ora la versione consolidata del dl «Emergenze ambientali» (dl 43/2013, come convertito dalla legge 71/2013 in vigore dal 26 giugno) che, oltre a confermare la limitazione sancita dal dl 69/2013, riesuma il «vecchio» regime previsto dall'articolo 186 del Codice ambientale stabilendo che esso continua ad applicarsi alla gestione (come sottoprodotti) dei materiali da scavo provenienti dai cantieri di piccole dimensioni con produzione non superiore a 6 mila metri cubi di materiale.
Residui da attività e opere soggette a Via o Aia. Come anticipato, nella nuova versione (conferitale dalla legge di conversione pubblicata sulla G.U. del 25.06.2013 n. 147) del dl 43/2013 appare ora una previsione analoga a quella del Decreto legge Fare (dl 69/2013, G.U. del 21.06.2013) sulla limitazione dell'applicazione del dm 161/2012 alle sole attività soggette ad Aia e Via, previsione però che nel nuovo decreto d'urgenza appare priva di eccezioni (laddove il dl 69/2013 ne teneva fuori i residui provenienti da attività di posa in mare ex articolo 109 del dlgs 152/2006, «Codice Ambientale») e limitata ai soli interventi ambientali necessari per risolvere le situazioni di emergenza oggetto del decreto convertito.
Residui da cantieri di piccole dimensioni. Vera e propria novità introdotta invece dalla legge di conversione nel dl 43/2013 è il ripristino (seppur circoscritto) dell'operatività delle pregresse regole recate dallo stesso Codice ambientale sulla gestione come sottoprodotti delle terre e rocce.
Stabilisce infatti ora il nuovo articolo 8-bis del dl emergenze che per la gestione (fuori dal regime dei rifiuti) di terre e rocce da scavo provenienti dai cantieri di piccole dimensioni la cui produzione non superi i 6 mila metri cubi di materiali «continuano ad applicarsi su tutto il territorio nazionale» le disposizioni stabilite dall'articolo 186 del dlgs 152/2006.
Disposizioni, lo ricordiamo, costituenti una declinazione (specifica sui materiali da scavo) delle più generali regole del Codice ambientale sulla gestione dei sottoprodotti in generale con l'aggiunta di alcuni obblighi specifici a carico dei detentori (obblighi tecnici, come quello di caratterizzazione dei residui, e formali, come quelli relativi ai tempi massimi del loro deposito).
Disposizioni, ricordiamo ancora, con due particolarità: sono state formalmente abrogate il 06.10.2012 (ad opera del dlgs 205/2010, che ne ha sancito la soccombenza a favore del dm 161/2012, che doveva costituire l'unica disciplina in materia); sono modellate su una nozione di «sottoprodotto» nel frattempo diventata obsoleta (essendo stato nel 2010 l'originaria nozione recata dall'articolo 183 del dlgs 152/2006 modificata per adeguarla alle regole Ue e parallelamente spostata nell'articolo 184-bis dello stesso Codice ambientale).
La reviviscenza del regime ex «articolo 186» (nel silenzio del legislatore d'urgenza, plausibilmente da intendersi nella sua più fresca versione pre-abrogazione, quale risultante dalla formulazione datane dal dlgs 4/2008, di modifica del dlgs 152/2006) sembra però essere temporanea, poiché lo stesso dl 43/2013 la porta solo fino all'adozione della una futura e specifica disciplina di semplificazione amministrativa per i piccoli cantieri (affidata al Minambiente dall'articolo 266 del Codice ambientale).
Residui da altre attività. La gestione come sottoprodotti dei materiali da scavo provenienti da attività diverse dalle precedenti appare a rigor di logica, e nel silenzio dei due legislatori d'urgenza, da condurre in base al più generale regime stabilito in materia dal citato articolo 184-bis del dlgs 152/2006, regime (sempre in vigore ma) per godere del quale il produttore degli inerti dovrà (senz'altro con non poche difficoltà) dimostrare che: i residui provengono da un processo di produzione di cui costituiscono parte integrante ed il cui fine primo non sia la loro produzione; sono destinati a riutilizzo certo ed effettuato in un processo di produzione o utilizzazione; sono riutilizzabili direttamente senza trattamenti diversi dalla «normale pratica industriale»; sono oggetto di riutilizzo «legale» (ossia senza impatti negativi per ambiente e salute umana) (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.07.2013).

CONDOMINIORitorna l'obbligo di conciliare per le liti condominiali. Agli incontri solo l'amministratore.
La mediazione? Vicina di casa. Competenti gli organismi nella circoscrizione dell'edificio.

Ritorna la mediazione obbligatoria per le controversie condominiali, arricchita dalle specifiche novità previste dalla legge di riforma n. 220/2012, entrata in vigore lo scorso 18 giugno: gli unici organismi di mediazione competenti saranno quelli con sede nella circoscrizione del tribunale in cui si trova l'edificio condominiale, agli incontri potrà partecipare soltanto l'amministratore, previa delibera assembleare, l'eventuale proposta di conciliazione dovrà essere approvata dalla maggioranza degli intervenuti all'assemblea che rappresentino almeno la metà del valore dell'immobile e alla stessa potrà essere attribuita efficacia esecutiva soltanto ove sottoscritta dai legali delle parti che abbiano partecipato all'incontro.
Il vizio di delega e l'intervento del governo con il c.d. decreto Fare. Con l'ormai famosa sentenza del 24.10.2012 la Corte costituzionale aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale per eccesso di delega legislativa del dlgs n. 28/2010 nella parte in cui era stata prevista l'obbligatorietà della mediazione, ossia il suo carattere di condizione di procedibilità per tutta una serie di controversie, tra le quali anche quelle in materia condominiale. Tuttavia, con il recentissimo decreto legge approvato dal governo lo scorso 15 giugno (c.d. decreto Fare), si è deciso di reintrodurre detta obbligatorietà, prevedendo altresì ulteriori e importanti novità relative alla procedura di mediazione. Per quanto riguarda lo specifico delle liti condominiali, dette novità vanno quindi coordinate con le altrettanto rilevanti innovazioni contenute nella legge di riforma del condominio, delle quali finora si è poco parlato.
Il concetto di controversia in materia di condominio. L'art. 5 del dlgs n. 28/2010, normativa quadro in materia di mediazione, nella nuova versione post c.d. decreto Fare, obbliga quindi le parti a far precedere l'eventuale azione giudiziaria in materia di condominio da un tentativo di risoluzione bonaria della controversia presso specifici organismi iscritti in un apposito registro tenuto presso il ministero della giustizia. In primo luogo è opportuno ricordare che anche per questo tipo di controversie vige la regola generale sull'ambito di applicazione oggettivo della mediazione stabilita dall'art. 2, comma 1, del dlgs n. 28/2010, in base alla quale è possibile sottoporre a tentativo di conciliazione soltanto i diritti disponibili.
Per quanto riguarda le controversie in materia di condominio non è stato però così semplice provvedere alla delimitazione del relativo ambito oggettivo, perché in questo caso la disposizione di cui al predetto art. 5 si prestava a interpretazioni contrastanti. Il nuovo art. 71-quater disp. att. c.c. introdotto dalla legge di riforma del condominio ha quindi opportunamente chiarito che per detto tipo di controversie si intendono quelle derivanti dalla violazione o dall'errata applicazione delle disposizioni codicistiche relative al condominio negli edifici e, dunque, alle liti tra condomini e condominio e a quelle tra condomini, allorché esse vertano su una di dette questioni.
Occorre anche aggiungere, per completezza, che in ambito condominiale non è necessario far precedere l'azione giudiziale dal tentativo di mediazione nei seguenti casi:
a) ricorsi per decreto ingiuntivo, inclusa l'opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione (l'amministratore potrà quindi continuare con la normale prassi usualmente seguita in materia di morosità condominiale per assicurare alla cassa comune gli oneri evasi dai condomini in ritardo nei pagamenti);
b) procedimenti urgenti e cautelari (si pensi ai ricorsi urgenti ex art. 700 c.p.c. per tutelare, ad esempio, i beni comuni da pericoli imminenti) e procedimenti ex art. 696-bis c.p.c. (procedimento di consulenza tecnica preventiva), questi ultimi menzionati dal c.d. decreto Fare;
c) procedimenti possessori, fino all'adozione di provvedimenti interdittali;
d) procedimenti in camera di consiglio (dunque, ad esempio, nei casi di domanda di nomina/revoca dell'amministratore di condominio).
La scelta dell'organismo di mediazione. L'art. 4 del dlgs n. 28/2010 prevede la massima libertà per i privati di scegliere l'organismo di mediazione che preferiscono, ovviamente tra quelli iscritti nel predetto registro ministeriale, senza fare riferimento a criteri processuali, quale ad esempio quello della competenza per luogo. In generale le parti sono quindi pienamente libere di scegliere l'organismo di mediazione sulla base delle proprie motivazioni personali, che potrebbero essere le più disparate.
Sono però evidenti i limiti di un meccanismo di scelta così liberale: se da una parte si facilita al massimo il privato nel decidere la soluzione a questi più congeniale, dall'altra si offre il destro a possibili strategie volte a mettere in difficoltà la controparte e a ostacolarne la presenza in mediazione, con la speranza di lucrare sulle possibili ricadute negative che la mancata partecipazione al tentativo di mediazione può avere in sede processuale.
Anche su questo aspetto il nuovo art. 71-quater disp. att. c.c. ha però inserito una disposizione del tutto peculiare per il condominio, sicuramente destinata a riaprire il dibattito, mai sopito, sul criterio di scelta dell'organismo di mediazione. La nuova disposizione introdotta dalla legge n. 220/2012 prevede infatti che la domanda di mediazione per le controversie condominiali debba essere presentata, a pena di inammissibilità, presso un organismo di mediazione ubicato nella circoscrizione del tribunale nella quale il condominio è situato (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.07.2013).

EDILIZIA PRIVATAUrbanistica. Sopraelevazione, cambio d'uso e sfruttamento delle volumetrie residue tra gli effetti della norma per le città.
La ricostruzione perde i vincoli. Con il decreto «del fare» sostituzione edilizia anche senza rispetto della sagoma.

Con l'eliminazione del vincolo di rispettare la sagoma negli interventi di demolizione e ricostruzione del patrimonio edilizio esistente per effetto del Dl 69/2013 (decreto "del fare") si potrà rimodellare profondamente la conformazione delle città, superando gli indici di edificabilità assegnati dai piani regolatori alla sola condizione di non aumentare la volumetria preesistente.
Secondo il Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001) gli interventi di ristrutturazione edilizia consistono nelle opere rivolte a trasformare gli organismi edilizi «mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un edificio in tutto o in parte diverso dal precedente». Questi interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nella ristrutturazione edilizia è compresa anche la demolizione e ricostruzione. Mentre la possibilità di modificare la sagoma era già riconosciuta dal Testo unico per le opere che non comportano la demolizione integrale, il decreto "del fare" consentirà di modificare la sagoma anche nelle operazioni di demolizione e ricostruzione.
Le possibilità di intervento
La norma entra in vigore con la legge di conversione del decreto, quindi al più tardi il 21 agosto. A breve sarà possibile, ad esempio, trasformare un'autorimessa composta da più piani interrati (a cui il titolo edilizio originario riconosceva la permanenza di persone per lo svolgimento di attività lavorative), in una palazzina che trasferisce la volumetria nel soprassuolo (aumentando l'altezza dell'edificio preesistente o erigendo ex novo sull'area sovrastante), collocando nel sottosuolo i parcheggi senza permanenza di persone.
Il caso può apparire irragionevole, ma corrisponde alla realtà di diversi interventi realizzati in Lombardia durante la vigenza dell'articolo 27, comma 1, lettera d), della legge regionale 12/2005, che per primo aveva eliminato l'obbligo del rispetto della sagoma negli interventi di demolizione e ricostruzione. La norma era stata annullata dalla sentenza della Corte Costituzionale 309/2011 per il contrasto con il principio fondamentale contenuto nella definizione di ristrutturazione del Testo unico sull'edilizia. Ma la definizione ora è stata riscritta nei termini citati eliminando così il vizio di incostituzionalità.
Senza giungere al caso limite appena illustrato, si deve rimarcare che il solo vincolo del rispetto della volumetria consentirà agli interventi di demolizione e ricostruzione infedele di superare l'indice edilizio (generalmente espresso dal rapporto tra la volumetria o superficie edificabile e la superficie dell'area di intervento) assegnato dallo strumento urbanistico comunale, tutte le volte in cui esso sia inferiore alla volumetria esistente. Questo è un caso molto frequente nei tessuti consolidati delle nostre città, dove gli edifici sono stati costruiti ben prima dell'approvazione del primo piano regolatore (che ha poi imposto indici inferiori all'esistente), se non prima della stessa legge urbanistica nazionale del 1942.
Appaiono evidenti le positive implicazioni per la rigenerazione dello stock edilizio italiano il cui valore, in ragione del riconosciuto degrado, è da attribuirsi quasi esclusivamente alla localizzazione e alla volumetria espressa.
Ma vi è una seconda novità non meno importante introdotta dal decreto: potranno mantenere la volumetria esistente senza vincolo di sagoma anche «gli interventi rivolti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza». Per questa via, di cui non risultano precedenti nella legislazione regionale, si potrà porre rimedio alle ferite inferte alle nostre città da sinistri, calamità naturali ed eventi bellici.
Gli edifici vincolati
Un'ultima notazione, critica, merita la previsione che continua ad imporre il rispetto della sagoma agli immobili sottoposti a vincoli. Il decreto non considera che la difesa dei valori culturali riconosciuti dal vincolo è assicurata dalla necessaria e preventiva autorizzazione che deve essere rilasciata dagli organi tutori (su tutti le soprintendenze).
Per salvaguardare i beni vincolati resta ferma anche la possibilità che il Prg inibisca gli interventi di demolizione e ricostruzione infedele in determinate aree o zone urbanistiche.
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Semplificazioni. Raccolta pareri centralizzata. Allo sportello unico le autorizzazioni per la Scia e la Cia.
Prosegue il percorso legislativo finalizzato a perfezionare la Segnalazione certificata di inizio attività (Scia) in materia edilizia. Il decreto "del fare" (Dl 69/2013) interviene direttamente sul Testo unico in materia edilizia, inserendo un nuovo articolo (articolo 23-bis), che ha ad oggetto le autorizzazioni preliminari alla Scia e alla comunicazione di inizio lavori (Cia) in materia edilizia.
La norma prevede che l'interessato a realizzare opere edilizie soggette a Scia o Cia, prima della presentazione della segnalazione stessa, possa richiedere allo sportello unico comunale per l'edilizia di acquisire tutti gli atti di assenso necessari per realizzare l'intervento. A fronte della richiesta, lo sportello dovrà ottenere gli atti dagli uffici competenti e comunicarne l'avvenuta acquisizione. Se non sono acquisiti entro 60 giorni dalla domanda, lo sportello unico deve, invece, convocare una conferenza di servizi tra le amministrazioni competenti.
La Scia è stata introdotta dalla legge 122/2010 che ha sostituito l'articolo 19 della legge 07.08.1990, n. 241, norma che originariamente regolava la denuncia di inizio attività (Dia). La disposizione ha poi subito ulteriori modifiche e correzioni, in buona parte dirette a regolare l'applicazione al settore dell'edilizia.
Con l'ultima precisazione introdotta dal decreto legge 69/2013, a partire dal 22 giugno scorso vengono meno i dubbi sorti sull'individuazione del soggetto tenuto ad acquisire le autorizzazioni inerenti ai vincoli ambientali, paesaggistici, culturali o previsti dalla normativa per le costruzioni in zone sismiche, la conformità ai quali non è autocertificabile mediante Scia: su richiesta dell'interessato, l'onere ricade in capo allo sportello unico.
Il tenore letterale della disposizione, peraltro, non pare escludere che l'interessato possa richiedere la formale acquisizione di atti di assenso che sarebbero comunque sostituibili mediante Scia. La norma così interpretata potrebbe rivelarsi utile nei casi in cui sussistano margini di incertezza rispetto alla conformità del progetto a specifiche normative.
Il Dl 69 introduce, infine, un'importante previsione a tutela delle zone omogenee A del Dm 1444/1968, ossia delle parti del territorio interessate da agglomerati a carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale: in tali zone (di fatto i centri storici) gli interventi e le varianti a permessi di costruire attuabili mediante Scia e che comportano modifiche alla sagoma dell'edificio preesistente o già assentito non potranno avere inizio prima di 20 giorni dalla data di presentazione della segnalazione.
La disposizione se, da un lato, consente una maggior tutela dei centri storici, dall'altro incide parzialmente sulla natura della Scia che, in effetti, si distingue dalla Dia e dal permesso di costruire in particolare per la possibilità di avviare i lavori immediatamente. Una breve attesa è, in ogni caso, un sacrificio accettabile se rivolto, come pare, a tutelare i beni di pregio del patrimonio edilizio esistente.
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Procedure. Il titolo di livello «parziale». Sull'agibilità spazio ai professionisti.
L'AUTOCERTIFICAZIONE/ I tecnici abilitati potranno dichiarare l'esistenza dei requisiti per il rilascio del certificato al posto del Comune.
Nessun dubbio sulla possibilità di rilasciare certificati di agibilità parziali. Inoltre i professionisti abilitati potranno autocertificare i requisiti di agibilità. Il decreto "del fare" ha introdotto rilevanti novità anche in materia di agibilità.
Il legislatore ha sancito la possibilità di rilascio dell'agibilità parziale delle costruzioni. L'istituto, in realtà, era già in uso nella prassi anche a seguito di alcuni interventi interpretativi resi da parte della giurisprudenza amministrativa (Tar Lombardia-Milano, Sezione II, sentenza n. 332/2010).
Ma in assenza di un dato normativo esplicito, alcune amministrazioni comunali hanno, tuttavia, continuato a negare la possibilità di certificazione parziale. Il decreto "del fare" fuga ora ogni dubbio in merito, subordinando però l'agibilità parziale a puntuali condizioni.
In forza delle nuove disposizioni (articolo 30 del Dl 69/2013), il certificato di agibilità potrà essere richiesto anche per singoli edifici o singole porzioni della costruzione, purché funzionalmente autonomi.
La richiesta risulterà accoglibile se sono state realizzate e collaudate le opere di urbanizzazione primaria relative all'intero intervento edilizio e sono state completate le parti comuni relative al singolo edificio o alla singola porzione della costruzione.
L'istanza può anche avere ad oggetto singole unità immobiliari, purché siano state completate le opere strutturali, gli impianti e le parti comuni e a condizione che le opere di urbanizzazione primaria siano state ultimate o dichiarate funzionali rispetto all'edificio oggetto di agibilità parziale.
Il decreto, nondimeno, prevede che il rilascio delle agibilità parziali incida direttamente sulla durata dei titoli edilizi: nei casi di rilascio di agibilità parziale, prima della scadenza del termine di fine lavori dettato dal titolo, il termine stesso è infatti prorogato per una sola volta per tre anni.
Non solo. La precedente formulazione del Testo unico in materia edilizia (Dpr 380/2001) prevedeva che l'agibilità degli edifici potesse essere acquisita esclusivamente attraverso il rilascio espresso del certificato da parte dell'amministrazione ovvero mediante silenzio-assenso. L'autocertificazione circa l'agibilità dell'edificio da parte di un professionista abilitato era, infatti, contemplata esclusivamente riguardo alle attività produttive (Dpr 07.09.2010, n. 160) e da parte di alcune specifiche normative regionali (ad esempio articolo 86, legge regionale Toscana n. 1/2005).
Ebbene, il decreto, modificando l'articolo 25 del Testo unico, estende ora questa facoltà a tutte le costruzioni. L'interessato, in luogo dell'ordinaria domanda di rilascio del certificato di agibilità, potrà presentare una dichiarazione del direttore dei lavori o, qualora questi non sia stato nominato, di un professionista abilitato, con la quale si attesti l'agibilità dell'opera e la sua conformità al progetto.
L'autodichiarazione, salvo diversa indicazione da parte delle Regioni –che dovranno anche prevedere norme attuative e per l'effettuazione dei controlli– non potrà però essere utilizzata riguardo alle agibilità parziali (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.07.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOAnticorruzione. Le indicazioni della Civit sulle conseguenze delle nuove regole.
L'incompatibilità blocca anche i mandati in corso. Fermati soltanto i dirigenti pubblici con deleghe di gestione diretta.

Civit, ora anche Autorità nazionale anticorruzione, è intervenuta su alcuni punti del Dlgs 39/2013, sciogliendo così dubbi importanti sulle incompatibitilità e inconferibilità, con tre delibere pubblicate il medesimo giorno (si veda Il Sole 24 Ore del 29 giugno).
Il primo punto è quello dell'invocato principio del «tempus regit actum» (delibera 46/2013). Alcuni si chiedevano se il regime delle incompatibilità si riferisse solo agli incarichi conferiti dopo l'entrata in vigore del decreto (04.05.2013). La risposta dell'Autorità è stata negativa, visto che all'articolo 9, comma 1 e all'articolo 12, comma 1 si parla di assunzione e mantenimento dell'incarico e, all'articolo 15, comma 1, si precisa che il responsabile dell'anticorruzione deve contestare l'esistenza o l'insorgenza di incompatibilità. Anche per gli incarichi in essere, quindi, andrà verificata la rispondenza al decreto.
Il secondo è il tema della conciliabilità tra articolo 4 del Dl 95/2012 e Dlgs 39/2013 (delibera 47/2013). In merito Civit accoglie l'interpretazione secondo cui inconferibilità e incompatibilità si applicano solo a presidente con deleghe di gestione diretta e di amministratore delegato (si veda Il Sole 24 Ore del 20.05.2013) e conferma quindi la possibilità di indicare come consiglieri senza deleghe dirigenti e dipendenti dell'ente controllante, purché non rientrino tra quanti (articolo 9, comma 1) non abbiano incarichi e cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati. La conferma che per «incarichi di amministratore di enti pubblici e di enti privati in controllo pubblico» si debbano intendere solo quelli di presidente con deleghe di gestione diretta e di amministratore delegato risolve per altro molteplici questioni.
Terzo nodo è la possibilità di riconfermare nel ruolo di presidente e di ad di una società i medesimi soggetti. Il dubbio nasce dall'articolo 7 del Dlgs 39/2013. Secondo Civit (delibera 48/2013) la riconferma è autorizzata sia per la lettera sia per la ratio della norma, che mira a contenere la migrazione da un incarico all'altro e non la permanenza nello stesso ruolo.
Risolte queste questioni, ne restano però altre che dovrà affrontare, e con urgenza, il legislatore. La prima è l'evidente ed immotivata disparità di trattamento tra ex parlamentari ed ex consiglieri regionali e comunali: i primi non ricadono in quasi nessuna incompatibilità mentre chi fa politica sul territorio viene trattato come un untore.
Occorre poi rimediare a quello che, almeno per quanto riguarda le società pubbliche, è il vizio fondamentale del Dlgs 39/2013, cioè l'equiparazione degli amministratori di azienda ai politici e non ai dirigenti. La scelta è irragionevole, soprattutto se si pensa alla frequenza di situazioni di regime in house, e crea enormi problemi operativi. I punti da affrontare sono dunque la compatibilità tra amministratore delegato e direttore generale e, all'interno dei gruppi aziendali, la rimozione del divieto di conferire, nelle partecipate di secondo livello, deleghe di gestione diretta a dirigenti ed amministratori della capogruppo. Infine, perché a chi è stato amministratore con deleghe di una società deve essere vietato di essere nominato in una società diversa? (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.07.2013).

ENTI LOCALIBilanci. Dal 2014 i piccoli enti perdono il controllore unico. Revisione dei conti «vietata» per i professionisti al debutto.
Addio progressivo al revisore contabile unico nei piccoli Comuni, una modalità di controllo dei bilanci che dovrebbe quasi sparire dal 1° gennaio prossimo in favore dei collegi di revisione con tre membri.
L'evoluzione è un "effetto collaterale" dell'obbligo di gestione associata di tutte le funzioni fondamentali previsto per i Comuni fino a 5mila abitanti proprio dal 2014 (quest'anno i piccoli enti stanno mettendo insieme le prime tre delle dieci attività caratterizzanti: articolo 14, comma 31-ter del Dl 78/2010).
Nelle Unioni che esercitano tutte le funzioni fondamentali, infatti, la vigilanza sui conti è affidata a un collegio di revisione di tre componenti, che va a sostituire il vecchio revisore unico dei singoli Comuni (lo prevede il Dl 174/2012 all'articolo 3, comma 1, lettera m-bis e comma 4-bis). Sul punto, è appena intervenuto il Viminale con una serie di istruzioni (si veda anche Il Sole 24 Ore del 27 giugno), spiegando soprattutto che quando l'Unione inizia a svolgere tutte le funzioni l'effetto sostitutivo è immediato, e il collegio subentra al precedente revisore unico senza attendere la fine del mandato di quest'ultimo. Nelle Unioni che arrivano al traguardo dello svolgimento associato di tutte le funzioni prima del 01.01.2014, quindi, il subentro avverrà già da quest'anno.
La novità nasce per consentire un controllo più compiuto sulla gestione finanziaria dei nuovi enti, ma non aumenta le occasioni di attività per i professionisti perché ovviamente le Unioni riuniranno in media più di tre piccoli enti (occorre di norma raggiungere la soglia minima di 10mila abitanti), e di conseguenza a regime i posti da revisore saranno meno di prima.
Questa evoluzione, semmai, ha il "pregio" di rendere più evidenti i paradossi del meccanismo attuale, e quindi di offrire maggiori argomenti a chi chiede una riforma più organica nella revisione degli enti locali. Nel nuovo sistema, infatti, i conti dei piccoli enti saranno vigilati da un collegio di tre membri, mentre quelli dei Comuni fra 5mila e 15mila abitanti, anche se più complessi, continueranno a essere controllati da un revisore unico. In questo sfortunato intreccio di regole, poi, si chiuderanno quasi tutti gli accessi al ruolo per i giovani professionisti.
In base all'ultima "riforma" (articolo 16, comma 25, del Dl del Dl 138/2011), infatti, chi non ha alle spalle precedenti esperienze di revisione locale deve debuttare nei Comuni con meno di 5mila abitanti, cioè proprio quelli che entrando nelle Unioni perderanno i posti da revisore. L'unica strada, quindi, rimarrebbe quella dei Comuni che dribblano l'obbligo dell'Unione e scelgono l'alternativa delle convenzioni. Un pasticcio, a cui occorre rimediare in fretta (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.07.2013).

PUBBLICO IMPIEGOPrevidenza. Negato il diritto al rimborso della trattenuta. L'Inps respinge al mittente le diffide per riavere il 2,5%.
IL QUADRO/ La trattenuta bocciata dalla Corte costituzionale per chi è in regime di Tfs viene «congelata» dall'evoluzione normativa.

Nonostante le numerose diffide, l'Inps -gestione dipendenti pubblici- non restituisce nulla sia ai lavoratori in gestione Tfs che a quelli in regime Tfr, con buona pace della sentenza della Corte Costituzionale 223/2012.
L'istituto di previdenza, con il messaggio 21.06.2013 n. 10065, risponde in questo senso ai dipendenti che, sollecitati soprattutto dalle organizzazioni sindacali, chiedono il rimborso della trattenuta del 2,50% a loro effettuata a titolo di contribuzione Tfr.
Come si ricorderà, la vicenda è sorta dall'applicazione dell'articolo 12, comma 10, del Dl 78/2010, il quale stabiliva che tutti i dipendenti assunti a tempo indeterminato fino al 2000, e quindi assoggettati al regime Tfs, fossero inquadrati nel regime Tfr a partire dal 01.01.2011.
Interpellati da alcuni lavoratori, i giudici delle leggi hanno dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma in quanto non aveva escluso l'applicazione a carico del dipendente della rivalsa del 2,50% della base contributiva. Conseguenza avrebbe voluto che le amministrazioni provvedessero alla restituzione di questa trattenuta.
Sulla questione interviene prima il Dl 185/2012 e poi la legge 228/2012 (articolo 1, commi 98-101), i quali abrogano in toto l'articolo 12, comma 10, del Dl 78/2010, azzerandone tutti gli effetti e riportando, in pratica, sempre dal 01.01.2011, i dipendenti pubblici interessati nel regime Tfs. E, nel contempo, si dispone l'estinzione di diritto di tutti i ricorsi in essere, fatti salvi quelli già passati in giudicato.
Sulla base del nuovo quadro normativo, l'istituto di previdenza può ben rispedire al mittente le lettere di diffida ricevute per la restituzione delle trattenute a titolo di Tfr, ma la questione è un'altra: può una legge del 24.12.2012 (appunto la 228/2012) disporre un reinquadramento del personale in regime Tfs con decorrenza 01.01.2011? Come si concilia questa previsione con il principio della irretroattività delle norme sancito dall'articolo 11 delle disposizioni preliminari del Codice civile, derivazione dell'articolo 25 della Costituzione?
Ma se i dipendenti assunti a tempo indeterminato fino al 2000 hanno ragione di reclamare per le trattenute effettuate nel 2011 e nel 2012, maggiori rivendicazioni dovrebbero vantare i soggetti divenuti dipendenti pubblici dal 2001. Per loro si applica, sin dall'assunzione, il regime Tfr, così come previsto dal Codice civile.
Ma per garantire l'invarianza della retribuzione netta rispetto ai loro colleghi in Tfs, il datore di lavoro deve ridurre lo stipendio lordo di un importo pari sempre al 2,50% della base imponibile. È palese la salvaguardia della parità del risultato in busta paga dei dipendenti pubblici in regimi previdenziali diversi, ma è altrettanto evidente la disparità di trattamento fra lavoratori pubblici e quelli del settore privato, ai quali viene applicata la medesima normativa di stampo civilistico. I giudici costituzionali, nuovamente chiamati ad esprimersi, potrebbero offrire una risposta ancora più ampia sulla questione.
La partita, però, non si gioca solo sul mero piano giuridico. Sul piatto della bilancia ci sono, infatti, maggiori oneri per le casse dello Stato che ammonterebbero a qualche miliardo di euro (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.07.2013).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATARelativamente al credito per restituzione di somme pagate a titolo di oneri di urbanizzazione per mancato inizio dei lavori stessi e conseguente decadenza della relativa concessione edilizia, il dies a quo dell’ordinario termine di prescrizione decennale del suddetto diritto, deve necessariamente essere individuato nel momento in cui il diritto al rimborso poteva essere effettivamente esercitato, e, pertanto, (nel caso di specie) nella data di scadenza del termine annuale di decadenza per mancato inizio dei lavori relativi a concessione edilizia ritirata dall’interessata in data 22/04/1994.
E’ solo da tale momento, infatti, che l’odierna ricorrente poteva esercitare il diritto in questione, mediante richiesta al Comune di restituzione delle relative somme, essendo sempre da tale momento spirato anche il termine per potere iniziare i lavori concessionati senza incorrere nella decadenza.
Sulla questione, la giurisprudenza amministrativa ha osservato che “…per i diritti di credito, la realizzazione dei quali esige un’attività del creditore, la prescrizione decorre dal giorno in cui l’attività poteva essere compiuta ed egli poteva, così, mettersi in grado di esigere la prestazione dovuta …. sia perché l’inerzia del titolare del diritto assume rilevanza dal momento in cui è possibile esercitare il diritto…”.

Il Collegio osserva che il ricorso merita accoglimento.
Va rilevato che non è in contestazione –tra le parti– che la concessione edilizia rilasciata alla ricorrente in data 10/01/1994 e da questa formalmente ritirata in data 22/04/1994, sia stata dichiarata decaduta dal Comune per mancato inizio dei lavori entro il termine annuale decorrente dalla data in cui il titolo è stato ritirato, e nemmeno è oggetto di contestazione l’esistenza del credito vantato dalla ricorrente nei confronti dell’Amministrazione comunale debitrice. Resta, quindi, da risolvere la questione relativa alla diversa decorrenza del termine ordinario di prescrizione del diritto dalla ricorrente alla restituzione delle somme in questione, al fine di accertare l’intervenuta o meno prescrizione del credito in questione.
La ricorrente individua il dies a quo nella data del 22/04/1995, nella quale, in ragione dello spirare del termine annuale di inizio dei lavori, è intervenuta la decadenza della concessione edilizia ritirata il 22/04/1994, con conseguente produzione di effetti quali: l’impossibilità di realizzazione dell’intervento e, sotto diverso angolo di visuale, la possibilità di esercitare il diritto alla restituzione degli oneri urbanistici già corrisposti al Comune.
La civica amministrazione, invece, come già si è accennato, fa coincidere il termine iniziale della prescrizione con la data di rilascio del titolo edilizio (10/01/1994) o, al limite, con quella successiva di rilascio dello stesso (22/04/1994).
Il Collegio ritiene di condividere la tesi della ricorrente, in quanto, relativamente al credito per restituzione di somme pagate a titolo di oneri di urbanizzazione per mancato inizio dei lavori stessi e conseguente decadenza della relativa concessione edilizia, il dies a quo dell’ordinario termine di prescrizione decennale del suddetto diritto, debba necessariamente essere individuato nel momento in cui il diritto al rimborso poteva essere effettivamente esercitato, e, pertanto, nel giorno 22/04/1995, ovvero nella data di scadenza del termine annuale di decadenza per mancato inizio dei lavori relativi a concessione edilizia ritirata dall’interessata in data 22/04/1994.
E’ solo da tale momento, infatti, che l’odierna ricorrente poteva esercitare il diritto in questione, mediante richiesta al Comune di restituzione delle relative somme, essendo sempre da tale momento spirato anche il termine per potere iniziare i lavori concessionati senza incorrere nella decadenza.
Sulla questione, la giurisprudenza amministrativa ha osservato che “…per i diritti di credito, la realizzazione dei quali esige un’attività del creditore, la prescrizione decorre dal giorno in cui l’attività poteva essere compiuta ed egli poteva, così, mettersi in grado di esigere la prestazione dovuta …. sia perché l’inerzia del titolare del diritto assume rilevanza dal momento in cui è possibile esercitare il diritto…” (v. Cons. Stato, Sez. V, 19/06/2003 n. 954; TAR Campania –SA- Sez. II, 28/02/2008 n. 247).
Per le suesposte ragioni, il ricorso è accolto e, per l’effetto, si accerta il diritto della ricorrente alla restituzione, da parte del comune di Bologna, dell’importo a suo tempo pagato a titolo di oneri di urbanizzazione primaria e secondaria di cui all’oggetto, con accessori di legge dal dì del dovuto alla data del saldo completo del debito, con conseguente condanna dello stesso Comune al pagamento delle suddette somme di cui è debitore (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 01.07.2013 n. 489 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI: Comuni, legittimo affidare ai dirigenti la rappresentanza a stare in giudizio.
Mediante specifica previsione statutaria, nell'ambito dei rispettivi settori di competenza, è possibile affidare la rappresentanza processuale dei Comuni ai dirigenti.

Nel nuovo sistema istituzionale e costituzionale degli enti locali, lo statuto del Comune -ed anche il regolamento del Comune, ma soltanto se lo statuto contenga un espresso rinvio, in materia, alla normativa regolamentare- può legittimamente affidare la rappresentanza a stare in giudizio ai dirigenti, nell'ambito dei rispettivi settori di competenza, quale espressione del potere gestionale loro proprio, ovvero ad esponenti apicali della struttura burocratico-amministrativa del Comune, fermo restando che, ove una specifica previsione statutaria (o, alle condizioni di cui sopra, regolamentare) non sussista, il sindaco conserva l'esclusiva titolarità del potere di rappresentanza processuale del Comune, ai sensi dell'art. 50 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con il d.lgs. 18.08.2000, n. 267.
In particolare, qualora lo statuto (o, nei limiti già indicati, il regolamento) affidi la rappresentanza a stare in giudizio in ordine all'intero contenzioso al dirigente dell'ufficio legale, questi, quando ne abbia i requisiti, può costituirsi senza bisogno di procura, ovvero attribuire l'incarico ad un professionista legale interno o del libero foro (salve le ipotesi, legalmente tipizzate, nelle quali l'ente locale può stare in giudizio senza il ministero di un legale) e, ove abilitato alla difesa presso le magistrature superiori, può anche svolgere personalmente attività difensiva nel giudizio di cassazione.
Il principio, già espresso in precedenti arresti (cfr., Cass. civ. n. 4556/2012), è stato enunciato nuovamente dalla Suprema Corte che ha in tal modo cassato con rinvio la sentenza con la quale la corte territoriale aveva dichiarato inammissibile l'impugnazione proposta avverso una pronuncia di condanna da parte di un amministrazione comunale.
Esito del ricorso: Cassa con rinvio, Corte di Appello di Napoli, sentenza 13.07.2005, n. 2315
I precedenti giurisprudenziali: Cassazione civile, Sez. I, sentenza 22.03.2012, n. 4556; Cassazione civile, Sez. I, sentenza 05.04.2006, n. 7879; Cassazione civile, Sez. U, sentenza 16.06.2005, n. 12868
Riferimenti normativi: Decreto Legisl. 18/08/2000 num. 267 art. 1; Cod. Proc. Civ. art. 75 (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 20.06.2013 n. 15493).

APPALTI SERVIZI: Affidamento del servizio di tesoreria? Serve sempre la gara pubblica.
Il TAR della Campania ha accolto il ricorso da una società specializzata nel servizio di tesoreria e tributi nei confronti di un ente locale: per i giudici amministrativi il rinnovo del servizio di tesoreria nei confronti dello stesso operatore economico già aggiudicatario del servizio deve essere effettuato tramite gara pubblica.

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Il contenzioso amministrativo
La vicenda si sviluppa seguito del fatto che, con deliberazione del Consiglio Comunale, è stato rinnovato l’affidamento del servizio di tesoreria comunale alla Banca che già in precedenza lo gestiva , in assenza di indizione di procedura di gara ad evidenza pubblica per l'affidamento del suddetto servizio.
Avverso tale provvedimento una banca si è opposta davanti alla competente sede del TAR.
L’analisi del TAR
I giudici amministrativi osservano che l’affidamento del servizio di tesoreria comunale, inteso ai sensi dell’art. 209 del D.Lgs. 267/2000 quale complesso di operazioni legate alla gestione finanziaria dell’ente locale, inclusa la riscossione delle entrate, la custodia di titoli e valori e gli adempimenti connessi, rientra nell’ambito di operatività della normativa di cui al D.Lgs. n. 163/2006, risultando assoggettato alle disposizioni del Codice degli Appalti Pubblici ai sensi del comma 2 dell’art. 20, in quanto incluso tra “i servizi finanziari” di cui all’allegato II A.
Nel caso in esame il servizio affidato dal Comune sulla base di una convenzione che ne stabiliva la remuneratività tramite la previsione di un compenso annuale a carico dell’ente si differenzia per tale ragione dalle concessioni di servizi in quanto l’onere del servizio viene a gravare integralmente sull’amministrazione per cui è riconducibile, anche sotto tale profilo, alla disciplina degli appalti.
Come previsto dall’art. 210 del D.Lgs. n. 267/2000 l’ente può procedere al rinnovo del contratto di tesoreria nei confronti del medesimo soggetto per non più di una volta solo “qualora ricorrano le condizioni di legge”.
Il TAR osserva che in seguito all’entrata in vigore dell’art. 23 della legge n. 62/2005, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha chiarito che, in tema di rinnovo o proroga dei contratti pubblici di appalto non vi è alcuno spazio per l’autonomia contrattuale delle parti, ma vige il principio che l’amministrazione, una volta scaduto il contratto, qualora abbia ancora la necessità di avvalersi dello stesso tipo di prestazioni, deve effettuare una nuova gara.
L’art. 57, comma 5, lett. b), del Codice degli Appalti Pubblici, in tema di procedure negoziate senza previa pubblicazione di un bando di gara circoscrive i casi in cui è ammesso l’affidamento diretto all’operatore economico aggiudicatario del contratto iniziale solo per i “nuovi servizi consistenti nella ripetizione di servizi analoghi” alle condizioni indicate tra cui la “previa indicazione nel bando originario della possibilità del ricorso alla procedura negoziata”.
Le conclusioni
Per i giudici amministrativi del TAR essendo il quadro normativo di riferimento, e stante la preminenza della legislazione di derivazione comunitaria rispetto alle norme di diritto interno, nonché la necessità di privilegiare in ogni caso un’interpretazione del dato normativo il più possibile coerente con il diritto comunitario, deve escludersi che il rinnovo del servizio di tesoreria nei confronti del medesimo operatore economico già aggiudicatario del servizio possa avvenire, in via diretta, senza previo espletamento di una gara pubblica.
Tra l’altro, evidenziano i giudici amministrativi, l’ente locale con la delibera di rinnovo impugnata dalla banca interessata , ha altresì concordato ed approvato la modifica e l’integrazione di più clausole della convenzione in precedenza stipulata così modificando l’assetto contrattuale originariamente posto a base di gara; tale modifica dell’assetto contrattuale determinato nella originaria convenzione induce, altresì, ad escludere la ravvisabilità nella specie di una sorta di “proroga” della convenzione originariamente stipulata peraltro ammessa dalla legge, per il solo tempo strettamente necessario all’espletamento di una nuova gara, mentre nella specie il rinnovo è avvenuto per un periodo di quattro anni identico a quello coperto dalla precedente convenzione.
Il ricorso per il TAR merita accoglimento e la delibera dell’ente locale è, pertanto , da annullare (commento tratto da www.ispoa.it - TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 21.06.2013 n. 3261 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOTribunale Siena. Lo stop al decentrato non cancella l'integrativo.
I dipendenti pubblici hanno diritto a mantenere il trattamento integrativo stabilito dal contratto decentrato, anche se il contratto è nullo. I lavoratori interessati, avendo confidato in buona fede nella contrattazione integrativa stipulata dalle parti sociali, hanno adottato scelte di vita e assunto impegni che devono essere tutelati. Quindi la nullità della contrattazione, anche se determina responsabilità personali e patrimoniali per chi l'ha sottoscritta, non legittima in alcun modo il recupero delle somme erogate ai dipendenti che hanno prestato la propria attività lavorativa in base ad accordi decentrati siglati in precedenza.

Questo il principio sancito dal TRIBUNALE di Siena, sezione lavoro, nella sentenza 13.05.2013 n. 717/2012 con cui ha respinto il ricorso presentato da una Pa contro i decreti ingiuntivi, presentati da alcuni dipendenti, per il pagamento del trattamento economico accessorio riconosciuto dalla contrattazione decentrata.
Nel caso, l'ente aveva unilateralmente sospeso l'erogazione del trattamento economico integrativo riconosciuto dalla contrattazione decentrata, in quanto aveva ritenuto tale contratto nullo per "mancanza di copertura" (articolo 40, comma 3-quinquies, del Dlgs 165/2001).
Il giudice del lavoro ha chiarito che nel rapporto di pubblico impiego riformato, la Pa non esercita più poteri di supremazia speciale, ma opera con la capacità del datore di lavoro privato. Pertanto, la Pa si trova in qualità di datore di lavoro su un piano di parità contrattuale con i dipendenti, che sono titolari di diritti, tutelati dall'articolo 2907 del Codice civile, non degradabili con atti unilaterali del datore pubblico. Quindi, non è configurabile, in linea di principio, un potere di autotutela della Pa quando agisce in qualità di datore di lavoro.
La mancata corresponsione (o il recupero successivo all'erogazione) del trattamento economico accessorio, previsto dal contratto integrativo, benché tale ultimo atto sia nullo, contrasta con i fondamentali canoni di buona fede e affidamento incolpevole del pubblico dipendente percettore di corrispettivi previsti dal contratto.
Il principio dell'irriducibilità della retribuzione, infatti, dettato dall'articolo 2103 c.c., impone che la retribuzione concordata al momento dell'assunzione non sia riducibile, neppure a seguito di accordo tra il datore e il prestatore di lavoro.
Ogni patto che preveda una diminuzione del compenso pattuito è da ritenersi nullo nel caso in cui la decurtazione riguardi le componenti della retribuzione erogate per compensare particolari modalità della prestazione lavorativa.
Il diritto dei lavoratori interessati al mantenimento del trattamento integrativo, deciso in contrattazione, non scaturisce soltanto dalla tutela dell'affidamento incolpevole durante il periodo di esecuzione del rapporto, ma dalla natura sostanzialmente retributiva del corrispettivo erogato, nel rispetto dell'articolo 36 della Costituzione.
Il trattamento integrativo, infatti, nonostante sia erogabile solo "a consuntivo", in quanto corrispettivo connesso alla prestazione concretamente effettuata e per le attività concretamente svolte, ha natura retributiva e come tale è assistito dalla garanzia di irriducibilità.
Una tale decisione del datore di lavoro sarebbe stata legittima soltanto nel caso in cui lo stesso datore fosse riuscito a dimostrare, sul piano quantitativo e qualitativo, di aver disposto una diminuzione delle prestazioni, tanto da giustificare la decurtazione del trattamento retributivo (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.07.2013).

EDILIZIA PRIVATALa semplice inclusione di una strada nell'elenco delle strade comunali (o vicinali) non ha efficacia costitutiva e, ciò, considerando come tali elenchi hanno natura meramente dichiarativa, per cui detta inclusione non è di per sé sufficiente a comprovare la natura pubblica o privata di una strada.
In tal senso si è espressa recentemente la Corte di Cassazione, secondo cui "l'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva e portata assoluta, ma riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell'uso, superabile con la prova contraria della natura della strada e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività mediante un'azione negatoria di servitù".
Stante la natura meramente dichiarativa degli elenchi in questione, la giurisprudenza ha precisato l’esistenza di ulteriori requisiti da valutarsi al fine dell'accertamento della natura “pubblica” di una strada, quali l'uso pubblico (inteso come l'utilizzo da parte di un numero indeterminato di persone), l'ubicazione della strada all'interno di luoghi abitati, nonché il comportamento tenuto dalla Pubblica Amministrazione nel settore dell'edilizia e dell'urbanistica.

La risoluzione della controversia si sposta quindi sull’esistenza o meno della connotazione di “strada pubblica” di Via Tagliamento, presupposto quest’ultimo per sancire l’applicabilità o meno del disposto di cui al Decreto Ministeriale sopra citato.
Sul punto va rilevato come questo il Collegio sia consapevole come la semplice inclusione di una strada nell'elenco delle strade comunali (o vicinali) non abbia efficacia costitutiva e, ciò, considerando come tali elenchi hanno natura meramente dichiarativa, per cui detta inclusione non è di per sé sufficiente a comprovare la natura pubblica o privata di una strada.
In tal senso si è espressa recentemente la Corte di Cassazione, secondo cui "l'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva e portata assoluta, ma riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell'uso, superabile con la prova contraria della natura della strada e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività mediante un'azione negatoria di servitù (Cass. Civ., Sez. Un., 27.01.2010, n. 1624)”.
Stante la natura meramente dichiarativa degli elenchi in questione, la giurisprudenza ha precisato l’esistenza di ulteriori requisiti da valutarsi al fine dell'accertamento della natura “pubblica” di una strada, quali l'uso pubblico (inteso come l'utilizzo da parte di un numero indeterminato di persone), l'ubicazione della strada all'interno di luoghi abitati, nonché il comportamento tenuto dalla Pubblica Amministrazione nel settore dell'edilizia e dell'urbanistica.
Tutto ciò premesso va comunque rilevato che l’inclusione di cui si tratta, sancisce comunque un effetto quanto meno “presuntivo” e per quanto ritiene la qualificazione di una strada pubblica.
Fermo restando detto criterio presuntivo, e i criteri fatti propri dall’orientamento sopra ricordato, parte ricorrente avrebbe dovuto individuare, nel concreto, quegli elementi, quelle caratteristiche, suscettibili di connotare diversamente la strada di cui si tratta e, ciò, senza limitarsi (come in realtà è avvenuto nel ricorso) a porre in essere una generica contestazione del carattere presuntivo sopra ricordato.
Al contrario il Comune di Venezia ha rilevato come Via Tagliamento sia una strada aperta al pubblico; ha, altresì, precisato come essa costituisca un tratto viario che unisce le pubbliche strade di Via Rio Cimetto e Via Muggia; elementi tutti così elencati che, non solo avvalorano il carattere presuntivo sopra citato, ma consentono di ritenere insussistente la violazione dell’art. 8 del DM 1444/1968 sostenuta da parte ricorrente.
Il primo motivo deve, pertanto, ritenersi infondato (Tar Veneto, Sezione II, sentenza 13.12.2012 n. 1555 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONEIl compenso incentivante previsto in favore del personale degli uffici tecnici di Amministrazioni pubbliche per la progettazione di opere pubbliche dalla L. 11.02.1994, n. 109, art. 18, comma 1, e successive modificazioni, e posto a carico delle amministrazioni aggiudicatarie o titolari di atti di pianificazione generale, particolareggiata o esecutiva -compenso che costituisce trattamento retributivo accessorio a carattere premiale rispetto a quello ordinario ed incentivante dell’attività lavorativa svolta con mansioni di progettazione- è disciplinato nei suoi presupposti dal regolamento che tali amministrazioni sono chiamate ad emanare ai sensi della L. 15.05.1997, n. 127, art. 6 e richiede in generale un’attività di progettazione per un’opera pubblica, prevista in un atto di pianificazione suddetto, per la realizzazione della quale ci sia stata l’aggiudicazione dell’appalto.
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Il compenso incentivante di cui si discute ha natura retributiva e, quindi, su di esso vanno operate le ordinarie ritenute previdenziali e fiscali, sicché la quota prevista dalla normativa sopra richiamata è da corrispondere al lordo di tali oneri.
Stante appunto la natura retributiva di tale trattamento incentivante, su tale compenso il percettore deve -come per l’ordinario trattamento retributivo- corrispondere la quota contributiva (e quella fiscale) con il meccanismo della ritenuta operata dall’Amministrazione datrice di lavoro.
Non si rinviene infatti alcuna normativa derogatoria che consenta di ritenere che tale particolare trattamento retributivo accessorio sia da calcolare come netto rispetto ad un altro maggior valore che inglobi gli oneri previdenziali (e fiscali) suddetti e che la differenza debba essere posta a carico dell’Amministrazione erogante.
La L. 23.12.2005, n. 266, art. 1, comma 207, -secondo il quale la L. 11.02.1994, n. 109, art. 18, comma 1 e successive modificazioni, deve interpretarsi nel senso che la quota percentuale di ripartizione della incentivazione per la progettazione di opere pubbliche, "è comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione"- è norma di interpretazione autentica, con efficacia retroattiva.
Non è quindi fondata la pretesa dei ricorrenti incidentali di percepire, dalla Amministrazione provinciale, le incentivazioni previste dal citato art. 18 al netto degli oneri di previdenza ed assistenza (nonché fiscali) a carico della Provincia stessa.

L'attività di progettazione è "premiata" con l’attribuzione degli incentivi dell’art. 18 se e solo se -come correttamente sostenuto dalla difesa della Provincia- si risolva in un’"effettiva utilità per l’amministrazione come attività propedeutica alla realizzazione dell’opera pubblica", quale appunto può essere l’approvazione di un progetto esecutivo dell’opera pubblica. D’altra parte la determinazione dei presupposti più di dettaglio del beneficio costituito da questo trattamento retributivo accessorio è demandata ad una specifica regolamentazione dell’Amministrazione pubblica (nella specie i regolamenti del 1998 e del 1999 dell’Amministrazione provinciale ricorrente).
Emerge quindi che la Corte d’appello da una parte ha svalutato i dati normativi suddetti che invece mostrano doversi trattare di una progettazione arrivata in una fase avanzata, quando ci sono un progetto esecutivo approvato ed un’opera da realizzare.
D’altra parte ha immotivatamente ritenuti illegittimi -e quindi disapplicato- i regolamenti del 1998 e del 1999 dell’Amministrazione provinciale ricorrente sulla base della mera asserzione che essi –si legge nella sentenza impugnata- "introducono requisiti ulteriori rispetto a quelli non previsti dalla legge"; laddove sia la L. n. 109 del 1994, art. 18 che la L. n. 144 del 1999, art. 13 prevedono espressamente tale potere regolamentare che quindi ben poteva disciplinare più in dettaglio i presupposti -id est: i "requisiti ulteriori"- del trattamento retributivo accessorio costituito dagli incentivi in esame (cfr. in proposito che Cass., sez. lav., 19.07.2004, n. 13384).
Sotto questo aspetto il ricorso va accolto e l’impugnata sentenza va cassata con affermazione, ex art. 384 c.p.c., comma 1, del seguente principio di diritto: "Il compenso incentivante previsto in favore del personale degli uffici tecnici di Amministrazioni pubbliche per la progettazione di opere pubbliche dalla L. 11.02.1994, n. 109, art. 18, comma 1, e successive modificazioni, e posto a carico delle amministrazioni aggiudicatarie o titolari di atti di pianificazione generale, particolareggiata o esecutiva -compenso che costituisce trattamento retributivo accessorio a carattere premiale rispetto a quello ordinario ed incentivante dell’attività lavorativa svolta con mansioni di progettazione- è disciplinato nei suoi presupposti dal regolamento che tali amministrazioni sono chiamate ad emanare ai sensi della L. 15.05.1997, n. 127, art. 6 e richiede in generale un’attività di progettazione per un’opera pubblica, prevista in un atto di pianificazione suddetto, per la realizzazione della quale ci sia stata l’aggiudicazione dell’appalto".
La causa va rinviata, pure per le spese di lite, alla Corte d’appello di Bologna cui è demandato di accertare, anche alla luce della disciplina regolamentare dell’ente ricorrente, quali progetti abbiano raggiunto quella fase avanzata di cui si è detto sopra.
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Correttamente la Corte d’appello ha considerato che il compenso incentivante di cui si discute ha natura retributiva e quindi su di esso vanno operate le ordinarie ritenute previdenziali e fiscali, sicché la quota prevista dalla normativa sopra richiamata era da corrispondere al lordo di tali oneri. Ed ha ritenuto che, stante appunto la natura retributiva di tale trattamento incentivante, su tale compenso il percettore dovesse -come per l’ordinario trattamento retributivo- corrispondere la quota contributiva (e quella fiscale) con il meccanismo della ritenuta operata dall’Amministrazione datrice di lavoro.
Non si rinviene infatti alcuna normativa derogatoria che consenta di ritenere -come richiedono i ricorrenti incidentali- che tale particolare trattamento retributivo accessorio sia da calcolare come netto rispetto ad un altro maggior valore che inglobi gli oneri previdenziali (e fiscali) suddetti e che la differenza debba essere posta a carico dell’Amministrazione erogante.
Tale interpretazione ha poi trovato conferma -come puntualmente ha rilevato la Corte d’appello– nella L. n. 350 del 2003, art. 3, comma 29, che ha previsto che "i compensi che gli enti locali, ai sensi della L. n. 109 del 1999, art. 18 e successive modificazioni ... si intendono al lordo di tutti gli oneri accessori connesse alle erogazioni, ivi compresa la quota di oneri accessori a carico degli enti stessi" e con la ulteriore previsione, di analogo contenuto, di cui alla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 257, riprodotta al D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 92, comma, (c.d. codice degli appalti).
Questa Corte (Cass., sez. lav., 27.07.2010, n. 17536) del resto ha già affermato in proposito che la L. 23.12.2005, n. 266, art. 1, comma 207, -secondo il quale la L. 11.02.1994, n. 109, art. 18, comma 1 e successive modificazioni, deve interpretarsi nel senso che la quota percentuale di ripartizione della incentivazione per la progettazione di opere pubbliche, "è comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione"- è norma di interpretazione autentica, con efficacia retroattiva.
Non è quindi fondata la pretesa dei ricorrenti incidentali di percepire, dalla Amministrazione provinciale, le incentivazioni previste dal citato art. 18 al netto degli oneri di previdenza ed assistenza (nonché fiscali) a carico della Provincia stessa
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 12.04.2011 n. 8344 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 01.07.2013

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E' illegittima la verifica di compatibilità al PTCP, del PGT, espressa dalla Giunta ovvero dal Consiglio Provinciale poiché spetta al dirigente!!
E allora, perché le Province lombarde (quasi tutte) si ostinano a rendere il parere (di legge) a firma dei politici anziché del dirigente??
Cosa c'è di politico, su cui pronunciarsi, perché si debba "scomodare" la Giunta provinciale??

     Le sotto riportate sentenze del TAR meneghino sono assolutamente condivisibili ed equilibrate sotto il profilo del riparto di competenze ... e se avete conseguito la 5^ elementare (come noi che scriviamo) non potete NON condividerne i contenuti essenziali.
     Tuttavia, se c'è qualcuno che dissente saremo ben lieti di pubblicare qui le proprie argomentazioni ... il confronto è sempre motivo di crescita professionale (e non solo).
     Comunque, in disparte quanto sentenziato dal Giudice Amministrativo, potremmo cavarcela da soli nel pervenire alle medesime conclusioni se abbiamo tempo e voglia di leggere cosa dispone la norma regionale. Invero, l'art. 13, comma 5, della L.R. n. 12/2005 così recita: "5. Il documento di piano, il piano dei servizi e il piano delle regole, contemporaneamente al deposito, sono trasmessi alla provincia se dotata di piano territoriale di coordinamento vigente.
La provincia, garantendo il confronto con il comune interessato, valuta esclusivamente la compatibilità del documento di piano con il proprio piano territoriale di coordinamento entro centoventi giorni dal ricevimento della relativa documentazione, decorsi inutilmente i quali la valutazione si intende espressa favorevolmente. Qualora il comune abbia presentato anche proposta di modifica o integrazione degli atti di pianificazione provinciale, le determinazioni in merito sono assunte con deliberazione di Giunta provinciale. In caso di assenso alla modifica, il comune può sospendere la procedura di approvazione del proprio documento di piano sino alla definitiva approvazione, nelle forme previste dalla vigente legislazione e dalla presente legge, della modifica dell’atto di pianificazione provinciale di cui trattasi, oppure richiedere la conclusione della fase valutativa, nel qual caso le parti del documento di piano connesse alla richiesta modifica della pianificazione provinciale acquistano efficacia alla definitiva approvazione della modifica medesima. In ogni caso, detta proposta comunale si intende respinta qualora la provincia non si pronunci in merito entro centoventi giorni dalla trasmissione della proposta stessa." (comma così modificato dalla legge reg. n. 4 del 2008)
     Orbene, leggendo il 3° periodo del suddetto comma se ne deduce che è la Giunta provinciale a doversi esprimere ma solamente "qualora il comune abbia presentato anche proposta di modifica o integrazione degli atti di pianificazione provinciale, ..." mentre nei casi di ordinarietà -ovverosia di conformità dell''adottato PGT al PTCP- la valutazione sarà resa (ovviamente) dal dirigente competente per materia in quanto trattasi di "valutare esclusivamente la compatibilità del documento di piano con il proprio piano territoriale di coordinamento" e, quindi, trattasi di attività meramente gestionale ... anche perché mai (ragionevolmente) potrebbe sortire il dubbio che sia il Consiglio Provinciale a doversi pronunciare.
     E le sentenze che andiamo a proporre scaturiscono, neanche a farlo apposta, dall'impugnazione -tra l'altro- della valutazione di compatibilità resa dal dirigente laddove il ricorrente sosteneva la tesi che la competenza fosse, invece, in capo al Consiglio/Giunta provinciale.
 

COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA: La valutazione di compatibilità del PGT al PTCP non si configura affatto né come atto di indirizzo, né come espressione di un potere di controllo politico, ma tende alla mera attuazione degli obiettivi della pianificazione provinciale ed è, pertanto, riconducibile alle attribuzioni dirigenziali. 
La valutazione di compatibilità del P.G.T. rispetto al P.T.C.P. non può essere intesa come limitata ad un mero riscontro della conformità estrinseca del piano comunale alle previsioni ad efficacia prescrittiva e prevalente del piano provinciale.
Inteso in tal modo, infatti, non soltanto il rapporto di collaborazione istituzionale fra i due enti verrebbe del tutto svilito, ma neppure si comprenderebbe il senso della previsione contenuta nel comma di apertura dell’art. 18 della legge regionale n. 12/2005.
Detta prescrizione, infatti, pone in luce la portata, teleologicamente orientata, della valutazione che fa capo alla Provincia, nel senso di valorizzare l’accertamento dell’idoneità dell’atto comunale al raggiungimento degli obiettivi del piano di coordinamento.
Non va trascurato, poi, quanto già sostenuto da questo Tribunale, proprio facendo leva sul presupposto che sia istituzionalmente demandata alla provincia la tutela dei valori paesaggistici, cosicché non appare illegittimo:<<… che tale potere si esprima mediante raccomandazioni affinché il Comune riveda le proprie previsioni: e ciò perché tali raccomandazioni, indicazioni o inviti, ispirati alla tutela dei valori ambientali, ben si rapportano a quella funzione (ed efficacia) di orientamento, indirizzo e coordinamento che l’art. 2, quarto comma, della legge regionale citata attribuisce espressamente al piano territoriale regionale ed ai piani territoriali di coordinamento provinciali>>.
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Il Consiglio di Stato ha statuito che la lettera b) dell’art. 42, secondo comma, del t.u.e.l. si riferisce “non a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque coinvolga i piani o programmi dallo stesso approvati, ma soltanto ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione di quei piani e programmi (o delle relative varianti e deroghe)”, sicché “restano fuori dalla previsione, ad esempio, i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa la compatibilità con il proprio piano o programma di attività poste in essere da altri soggetti (è il caso del parere di conformità al P.R.G. di un intervento edilizio, che non si dubita non appartenga alla competenza consiliare)”.
Tale conclusione è perfettamente applicabile anche al caso in esame, in cui la Provincia è chiamata ad esprimere una “valutazione di compatibilità” tra due strumenti urbanistici di diverso livello, al fine di verificare, dal riscontro tra le previsioni dell’uno e dell’altro, se quello sottordinato (PGT) rispetti le previsioni del piano sovraordinato (PTCP).
Si tratta di un riscontro che non implica alcuna di quelle scelte di indirizzo che radicano la competenza del consiglio provinciale, ex art. 42, primo comma, t.u.e.l., che definisce il consiglio come “organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo”.
Tanto basta a disattendere la tesi secondo cui la valutazione di compatibilità in questione sarebbe riservata al consiglio provinciale.
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L’art. 13, quinto comma, della legge regionale n. 12/2005 dispone che: “qualora il comune abbia presentato anche proposta di modifica o integrazione degli atti di pianificazione provinciale, le determinazioni in merito sono assunte con deliberazione di giunta provinciale”.
Si desume da ciò che la competenza della giunta provinciale si prospetti nel solo caso in cui occorra delibare se la proposta di modifica sia o meno assentibile ai fini della sospensione ovvero del proseguimento della procedura di approvazione del PGT, secondo una delle opzioni previste dallo stesso comma, ferma restando comunque la competenza del consiglio provinciale per la “definitiva approvazione…. della modifica dell’atto di pianificazione provinciale”.
L’art. 48 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (t.u.e.l.), d’altro canto, demanda alla giunta gli atti che non sono riservati al consiglio e che non rientrano nelle competenze del presidente o nelle attribuzioni dei dirigenti.
A questi ultimi, l’art. 107, secondo comma, del t.u. assegna “tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente” (secondo comma), nonché (terzo comma) “l’attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati” dagli organi di governo.
Ai dirigenti competono, tra l’altro (art. 107, secondo comma, lettera f), “i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie”; nonché (lettera h) “le attestazioni, certificazioni, comunicazioni, diffide, verbali, autenticazioni, legalizzazioni ed ogni altro atto costituente manifestazione di giudizio e di conoscenza”.
Se si considera che la valutazione di compatibilità in questione mira esclusivamente a verificare, attraverso la comparazione del contenuto dei due piani, il rispetto del P.T.C.P. da parte del piano comunale di governo del territorio e non implica profili di discrezionalità, se si eccettuano quelli insiti nella valutazione della idoneità dell’atto al conseguimento degli obiettivi del piano (arg. ex art. 18 co. I cit.), se ne trae la conferma che essa non si configura affatto né come atto di indirizzo, né come espressione di un potere di controllo politico, ma tenda alla mera attuazione degli obiettivi della pianificazione provinciale, e sia, pertanto, riconducibile alle attribuzioni dirigenziali.
Con il primo motivo, la Società lamenta, in sintesi, la violazione di legge e l’eccesso di potere poiché, ai sensi degli artt. 13, co. V, e 18, co. II, della legge regionale Lombardia n. 12/2005, la Provincia avrebbe dovuto valutare esclusivamente la compatibilità del P.G.T con le previsioni prescrittive e vincolanti del proprio P.T.C.P., onde salvaguardare l’autonomia comunale in ambito pianificatorio. Si comprende, così, prosegue l’istante, l’illegittimità dell’operato provinciale, per avere violato l’ambito dei poteri pianificatori riservato al Comune, atteso che nessuna delle previsioni prescrittive del P.T.C.P. di Como riguarderebbe l’ambito di proprietà della Società.
Sul punto, la difesa comunale contro-deduce affermando che la Provincia, in sede di valutazione di compatibilità del P.G.T. col P.T.C.P., non dovrebbe affatto limitarsi al mero riscontro formale delle previsioni di cui all’art. 18, co. II cit., ma, in forza del co. I della stessa norma, dovrebbe valutare la compatibilità dell’intera struttura del piano urbanistico comunale con i principi ispiratori del P.T.C.P.
A supporto di tale tesi, il Comune cita il precedente giurisprudenziale di questo TAR n. 4301/2009.
Anche la Provincia di Como svolge analoghe difese, contro-deducendo ai motivi nn. 1, 2 e 10 (ritenuti connessi) con cui viene attaccato l’operato provinciale.
Così, a proposito della valutazione, di spettanza provinciale, di conformità al P.T.C.P., viene richiamata la sentenza del C.d.S. n. 24/2011, nonché l’art. 11 delle N.T.A. del P.T.C.P. il quale, nell’indicare le componenti essenziali della rete ecologica, menziona anche quelle zone che, pur non essendo cartograficamente comprese nella rete ecologica, rivestono la medesima valenza ambientale, assicurando una funzione di cuscinetto in vista e in aderenza ai principi dello sviluppo sostenibile.
Senza trascurare, poi, prosegue la Provincia, che il comparto de quo sarebbe interessato da un’area seppur marginale di pertinenza idraulica.
Da ultimo, la Provincia ribadisce come l’art. 18 della cit. legge reg. preveda che le valutazioni di compatibilità rispetto al P.T.C.P. concernano l’accertamento dell’idoneità dell’atto scrutinato ad assicurare il conseguimento degli obiettivi fissati dal piano, salvaguardando i limiti di sostenibilità ivi previsti. In tal senso, andrebbe valorizzata la previsione dell’art. 1 delle N.T.A. del P.T.C.P. di Como, che contemplerebbe fra gli obiettivi strategici proprio la tutela dell’ambiente e la valorizzazione degli ecosistemi, l’assetto idrogeologico e la difesa del suolo. Ed è in tale contesto, conclude la Provincia, che si collocherebbe la valutazione operata con la deliberazione impugnata in ordine all’area dell’esponente, i cui caratteri specifici ne giustificherebbero l’inserimento nel novero degli <<ambiti boschivi della rete ecologica locale>>, disciplinati dall’art. 41 del Piano delle Regole del P.G.T. del Comune.
Il motivo è infondato.
Al riguardo il Collegio ritiene, in primo luogo, di dover chiarire che la valutazione di compatibilità del P.G.T. rispetto al P.T.C.P. non può essere intesa, come vorrebbe parte ricorrente, come limitata ad un mero riscontro della conformità estrinseca del piano comunale alle previsioni ad efficacia prescrittiva e prevalente del piano provinciale.
Inteso in tal modo, infatti, non soltanto il rapporto di collaborazione istituzionale fra i due enti verrebbe del tutto svilito, ma neppure si comprenderebbe il senso della previsione contenuta nel comma di apertura dell’art. 18 della legge regionale n. 12/2005.
Detta prescrizione, infatti, pone in luce la portata, teleologicamente orientata, della valutazione che fa capo alla Provincia, nel senso di valorizzare l’accertamento dell’idoneità dell’atto comunale al raggiungimento degli obiettivi del piano di coordinamento.
Non va trascurato, poi, quanto già sostenuto da questo Tribunale, proprio facendo leva sul presupposto che sia istituzionalmente demandata alla provincia la tutela dei valori paesaggistici, cosicché non appare illegittimo:<<… che tale potere si esprima mediante raccomandazioni affinché il Comune riveda le proprie previsioni: e ciò perché tali raccomandazioni, indicazioni o inviti, ispirati alla tutela dei valori ambientali, ben si rapportano a quella funzione (ed efficacia) di orientamento, indirizzo e coordinamento che l’art. 2, quarto comma, della legge regionale citata attribuisce espressamente al piano territoriale regionale ed ai piani territoriali di coordinamento provinciali>> (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, n. 4301 del 06.07.2009).
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Con il quinto motivo si deduce il vizio di incompetenza del parere di compatibilità provinciale, in quanto adottato dal dirigente, anziché dagli organi politici.
In particolare, secondo l’istante qui si tratterebbe di un giudizio sugli strumenti urbanistici comunali, che fuoriesce dall’ambito prescrittivo del PTCP e, dunque, di una valutazione ampiamente discrezionale, che esulerebbe dalla competenza gestionale per radicarsi in quella degli organi di governo, deputati al controllo politico amministrativo.
Il motivo è infondato.
Il Collegio ritiene qui opportuno richiamare un precedente in cui, in una vicenda analoga, il Consiglio di Stato ha statuito (sentenza 28.05.2009 n. 3333, Sez. IV) che la lettera b) dell’art. 42, secondo comma, del t.u.e.l. si riferisce “non a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque coinvolga i piani o programmi dallo stesso approvati, ma soltanto ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione di quei piani e programmi (o delle relative varianti e deroghe)”, sicché “restano fuori dalla previsione, ad esempio, i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa la compatibilità con il proprio piano o programma di attività poste in essere da altri soggetti (è il caso del parere di conformità al P.R.G. di un intervento edilizio, che non si dubita non appartenga alla competenza consiliare)”.
Tale conclusione è perfettamente applicabile anche al caso in esame, in cui la Provincia è chiamata ad esprimere una “valutazione di compatibilità” tra due strumenti urbanistici di diverso livello, al fine di verificare, dal riscontro tra le previsioni dell’uno e dell’altro, se quello sottordinato (PGT) rispetti le previsioni del piano sovraordinato (PTCP).
Si tratta di un riscontro che non implica alcuna di quelle scelte di indirizzo che radicano la competenza del consiglio provinciale, ex art. 42, primo comma, t.u.e.l., che definisce il consiglio come “organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo” (cfr. in terminis, TAR Lombardia, Milano, II, 28.07.2009 n. 4468).
Tanto basta a disattendere la tesi secondo cui la valutazione di compatibilità in questione sarebbe riservata al consiglio provinciale.
Si tratta ora, una volta esclusa -per le ragioni esposte al punto che precede- una riserva di competenza al consiglio provinciale, di esaminare la censura della Società secondo cui la competenza in materia apparterrebbe alla giunta provinciale, anch’essa “organo di governo dell’ente” (art. 36 t.u.e.l.).
Al riguardo, va osservato che, la cit. sentenza n. 3333/2009 del Consiglio di Stato, menzionata da parte ricorrente, non ha affermato (positivamente e definitivamente) la competenza della giunta provinciale, ma si è limitata ad escludere la riserva di competenza al consiglio, in una fattispecie in cui la valutazione di compatibilità -rispetto al sopraordinato PTCP- di un P.I.I. (programma integrato di intervento), adottato da altro comune in variante al PRG, era stata effettuata dalla giunta provinciale con provvedimento impugnato per incompetenza.
Non si può, dunque, trarre argomento, sic et simpliciter, dalla sentenza citata per desumerne tout court la competenza della giunta e l’incompetenza del dirigente.
In verità, ritiene il Collegio che al quesito di cui sopra (se cioè nella vicenda in esame sia stato invaso un ambito di attribuzioni riservato alla giunta provinciale) debba darsi risposta negativa, richiamando quanto già sostenuto da questo stesso Tribunale proprio nella cit. sentenza n. 4468/2009.
All’uopo, va considerato che l’art. 13, quinto comma, della legge regionale n. 12/2005 dispone che: “qualora il comune abbia presentato anche proposta di modifica o integrazione degli atti di pianificazione provinciale, le determinazioni in merito sono assunte con deliberazione di giunta provinciale”. Si desume da ciò che la competenza della giunta provinciale si prospetti nel solo caso in cui occorra delibare se la proposta di modifica sia o meno assentibile ai fini della sospensione ovvero del proseguimento della procedura di approvazione del PGT, secondo una delle opzioni previste dallo stesso comma, ferma restando comunque la competenza del consiglio provinciale per la “definitiva approvazione…. della modifica dell’atto di pianificazione provinciale”.
L’art. 48 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (t.u.e.l.), d’altro canto, demanda alla giunta gli atti che non sono riservati al consiglio e che non rientrano nelle competenze del presidente o nelle attribuzioni dei dirigenti.
A questi ultimi, l’art. 107, secondo comma, del t.u. assegna “tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente” (secondo comma), nonché (terzo comma) “l’attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati” dagli organi di governo.
Ai dirigenti competono, tra l’altro (art. 107, secondo comma, lettera f), “i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie”; nonché (lettera h) “le attestazioni, certificazioni, comunicazioni, diffide, verbali, autenticazioni, legalizzazioni ed ogni altro atto costituente manifestazione di giudizio e di conoscenza”.
Se si considera che la valutazione di compatibilità in questione mira esclusivamente a verificare, attraverso la comparazione del contenuto dei due piani, il rispetto del P.T.C.P. da parte del piano comunale di governo del territorio e non implica profili di discrezionalità, se si eccettuano quelli insiti nella valutazione della idoneità dell’atto al conseguimento degli obiettivi del piano (arg. ex art. 18 co. I cit.), se ne trae la conferma che essa non si configura affatto né come atto di indirizzo, né come espressione di un potere di controllo politico, ma tenda alla mera attuazione degli obiettivi della pianificazione provinciale, e sia, pertanto, riconducibile alle attribuzioni dirigenziali.
In conclusione, quindi, le censure della ricorrente in punto di competenza sono prive di fondamento
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.05.2012 n. 1440 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA: E' illegittimo che la provincia valuti la compatibilità del documento di piano del P.G.T., con il proprio piano territoriale di coordinamento (P.T.C.P.), mediante provvedimento della Giunta/Consiglio anziché con determina dirigenziale.
La lettera b) dell’art. 42, secondo comma, del t.u.e.l. si riferisce “non a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque coinvolga i piani o programmi dallo stesso approvati, ma soltanto ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione di quei piani e programmi (o delle relative varianti e deroghe)”, sicché “restano fuori dalla previsione, ad esempio, i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa la compatibilità con il proprio piano o programma di attività poste in essere da altri soggetti (è il caso del parere di conformità al P.R.G. di un intervento edilizio, che non si dubita non appartenga alla competenza consiliare)”.
Nel caso in esame, la Provincia è chiamata appunto ad una “valutazione di compatibilità” tra due strumenti urbanistici di diverso livello, al fine di verificare, dal riscontro tra le previsioni dell’uno e dell’altro, se quello sottordinato (PGT) rispetti le previsioni del piano sovraordinato (PTCP).
Si tratta di un riscontro al quale sono estranee valutazioni di merito; a maggior ragione esso non implica alcuna di quelle scelte di indirizzo che radicano la competenza del consiglio provinciale ex art. 42, primo comma t.u.e.l., che definisce il consiglio come “organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo”.
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Dall’art. 48 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (t.u.e.l.), si desume che la giunta compie gli atti che non sono riservati al consiglio, e che non rientrano nelle competenze del presidente o nelle attribuzioni dei dirigenti.
A questi ultimi, l’art. 107, secondo comma, del t.u. assegna “tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente” (secondo comma), nonché (terzo comma) “l’attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati” dagli organi di governo.
Ai dirigenti competono tra l’altro (art. 107, secondo comma, lettera f) “i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie”; nonché (lettera h) “le attestazioni, certificazioni, comunicazioni, diffide, verbali, autenticazioni, legalizzazioni ed ogni altro atto costituente manifestazione di giudizio e di conoscenza”.
Se si considera che la valutazione di compatibilità in questione (a) mira esclusivamente a verificare, attraverso la mera comparazione del contenuto dei due piani, il rispetto del PTCP da parte del piano comunale di governo del territorio, e (b) non implica, come osservato, profili di discrezionalità, se ne trae che essa non si configura come atto di indirizzo, ma tende alla mera attuazione degli obiettivi della pianificazione provinciale, ed è pertanto riconducibile alle attribuzioni dirigenziali.

Il Comune di Vertemate con Minoprio ha adottato (delibera consiliare 29.07.2008 n. 27) il piano di governo del territorio (PGT), e lo ha trasmesso alla Provincia di Como -ex art. 13, comma 5, legge regionale lombarda 11.03.2005 n. 12- per la valutazione di compatibilità con il piano territoriale di coordinamento provinciale (PTCP).
Con provvedimento 16.12.2008, assunto dal Dirigente del Settore pianificazione territoriale, la Provincia di Como ha attestato la compatibilità del PGT col PTCP a condizione che venissero recepite determinate prescrizioni e apportate al PGT le conseguenti modifiche.
Il Comune ha controdedotto alle osservazioni dei privati e alle valutazioni della Provincia, approvando il PGT con delibera consiliare 15.01.2009 n. 1.
Per quanto riguarda la valutazione di compatibilità effettuata dalla Provincia, il Comune ha ritenuto il provvedimento dirigenziale viziato da “difetto assoluto di attribuzione”, qualificandolo come tale “inidoneo a produrre gli effetti della valutazione di compatibilità del PGT con il PTCP”. Ha peraltro controdedotto, “ad abundantiam”, con apposito documento, alle valutazioni della Provincia “anche a sostegno delle scelte urbanistiche effettuate dal consiglio comunale”.
Nel contempo, peraltro, il Comune ha impugnato il provvedimento dirigenziale col ricorso n. 460/2009, deducendo i seguenti motivi:
- incompetenza del dirigente, dovendo il parere di compatibilità essere reso dal consiglio provinciale; il provvedimento sarebbe anzi nullo, ex art. 21-septies legge n. 241/1990, per difetto assoluto di attribuzioni, essendosi il dirigente arrogato un potere di indirizzo e di controllo politico-amministrativo riservato all’organo di governo dell’ente;
- violazione dell’art. 13 legge regionale n. 12 del 2005, eccesso di potere per difetto di istruttoria, difetto di motivazione, contraddittorietà e travisamento dei presupposti di fatto e di diritto: anziché limitarsi ad effettuare la valutazione di compatibilità tra PGT e PTCP, lasciando al Comune il potere di individuare le possibili soluzioni per ricomporre il contrasto tra i due strumenti urbanistici, la Provincia avrebbe -con le prescrizioni dettate alle pagg. 19~22 del provvedimento impugnato- imposto modificazioni sostanziali al PGT adottato, individuando le destinazioni funzionali che il Comune sarebbe tenuto a recepire a pena di inefficacia degli atti assunti; le singole prescrizioni sarebbero poi illegittime per i motivi esposti nelle controdeduzioni comunali, riprodotte in ricorso quale parte integrante e sostanziale.
...

La questione di competenza, sollevata dal Comune con il primo motivo del ricorso n. 460/2009, è infondata.
L’art. 13 della legge regionale 11.03.2005 n. 12 (legge per il governo del territorio) disciplina la procedura di approvazione degli atti costituenti il piano di governo del territorio.
Il quinto comma [nel testo modificato dall'art. 1, comma 1, lett. u), della l.r. 14.03.2008, n. 4], stabilisce testualmente: “5. Il documento di piano, il piano dei servizi e il piano delle regole, contemporaneamente al deposito, sono trasmessi alla provincia se dotata di piano territoriale di coordinamento vigente. La provincia, garantendo il confronto con il comune interessato, valuta esclusivamente la compatibilità del documento di piano con il proprio piano territoriale di coordinamento entro centoventi giorni dal ricevimento della relativa documentazione, decorsi inutilmente i quali la valutazione si intende espressa favorevolmente. Qualora il comune abbia presentato anche proposta di modifica o integrazione degli atti di pianificazione provinciale, le determinazioni in merito sono assunte con deliberazione di giunta provinciale. In caso di assenso alla modifica, il comune può sospendere la procedura di approvazione del proprio documento di piano sino alla definitiva approvazione, nelle forme previste dalla vigente legislazione e dalla presente legge, della modifica dell’atto di pianificazione provinciale di cui trattasi, oppure richiedere la conclusione della fase valutativa, nel qual caso le parti del documento di piano connesse alla richiesta modifica della pianificazione provinciale acquistano efficacia alla definitiva approvazione della modifica medesima. In ogni caso, detta proposta comunale si intende respinta qualora la provincia non si pronunci in merito entro centoventi giorni dalla trasmissione della proposta stessa”.
Il Comune sostiene che la competenza ad esprimere la valutazione di compatibilità del PGT con il PTCP spetterebbe al consiglio provinciale, ai sensi dell’art. 42, secondo comma, lett. b), del decreto legislativo 18.08.2000 n. 267 (testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), il quale, nel disciplinare le attribuzioni dei consigli (comunali e provinciali) stabilisce che “il consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali: …. b) programmi, relazioni previsionali e programmatiche, piani finanziari, programmi triennali e elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci annuali e pluriennali e relative variazioni, rendiconto, piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da rendere per dette materie”.
La valutazione di compatibilità di cui trattasi sarebbe appunto oggetto di un parere riservato al consiglio provinciale, cui spetterebbe di valutare la compatibilità del piano comunale con il proprio piano territoriale di coordinamento, quale strumento urbanistico sovraordinato e, per taluni profili, prevalente.
La tesi non può essere, alla stregua della giurisprudenza più recente, condivisa.
Sia pure in una vicenda in cui era stata contestato, per incompetenza, un provvedimento emesso in materia non da un dirigente, ma dalla giunta provinciale, il Consiglio di Stato ha statuito (sentenza 28.05.2009 n. 3333, Sez. IV) che la lettera b) dell’art. 42, secondo comma, del t.u.e.l. si riferisce “non a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque coinvolga i piani o programmi dallo stesso approvati, ma soltanto ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione di quei piani e programmi (o delle relative varianti e deroghe)”, sicché “restano fuori dalla previsione, ad esempio, i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa la compatibilità con il proprio piano o programma di attività poste in essere da altri soggetti (è il caso del parere di conformità al P.R.G. di un intervento edilizio, che non si dubita non appartenga alla competenza consiliare)”.
Nel caso in esame, la Provincia è chiamata appunto ad una “valutazione di compatibilità” tra due strumenti urbanistici di diverso livello, al fine di verificare, dal riscontro tra le previsioni dell’uno e dell’altro, se quello sottordinato (PGT) rispetti le previsioni del piano sovraordinato (PTCP).
Si tratta di un riscontro al quale sono estranee valutazioni di merito; a maggior ragione esso non implica alcuna di quelle scelte di indirizzo che radicano la competenza del consiglio provinciale ex art. 42, primo comma t.u.e.l., che definisce il consiglio come “organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo”.
Tanto basta a disattendere la tesi secondo cui la valutazione di compatibilità in questione sarebbe riservata al consiglio provinciale.
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Sempre a sostegno della censura di incompetenza, il Comune denuncia la violazione dell’art. 107 del t.u.e.l., per avere il dirigente provinciale “invaso le attribuzioni riservate agli organi di governo dell’Ente”: il che comporterebbe -secondo l’assunto comunale- nullità dell’atto (ex art. 21-septies legge n. 241/1990) per difetto assoluto di attribuzioni, o quanto meno annullabilità dello stesso per violazione dell’ordine delle competenze.
Ora, una volta esclusa -per le ragioni esposte al punto che precede- una riserva di competenza al consiglio provinciale, si deve esaminare se la censura del Comune possa avere fondamento sotto un diverso profilo, nel senso cioè che la competenza in materia appartenga alla giunta provinciale, anch’essa “organo di governo dell’ente” (art. 36 t.u.e.l.): tesi sulla quale punta la difesa comunale, dopo avere preso atto -nella memoria depositata il 19.06.2009- della recente statuizione del giudice di appello.
Al riguardo va osservato che la menzionata sentenza n. 3333/2009 del Consiglio di Stato non ha affermato (positivamente e definitivamente) la competenza della giunta provinciale, ma si è limitata ad escludere la riserva di competenza al consiglio in una fattispecie in cui la valutazione di compatibilità -rispetto al sopraordinato PTCP- di un P.I.I. (programma integrato di intervento), adottato da altro comune in variante al PRG, era stata effettuata dalla giunta provinciale con provvedimento impugnato per incompetenza.
Non si può trarre dunque argomento, sic et simpliciter, dalla sentenza citata per desumerne tout court la competenza della giunta e l’incompetenza del dirigente.
Ciò premesso, ritiene il Collegio che al quesito di cui sopra (se cioè nella vicenda in esame sia stato invaso un ambito di attribuzioni riservato alla giunta provinciale) debba darsi risposta negativa, alla luce sia della normativa regionale di settore, sia della disciplina generale delle attribuzioni dirigenziali.
L’art. 13, quinto comma, della legge regionale n. 12/2005 (di cui si è riportato il testo al precedente punto 5.) dispone che “qualora il comune abbia presentato anche proposta di modifica o integrazione degli atti di pianificazione provinciale, le determinazioni in merito sono assunte con deliberazione di giunta provinciale”: il che lascia arguire che la competenza della giunta provinciale insorga nel solo caso in cui occorra delibare se la proposta di modifica sia o meno assentibile ai fini della sospensione ovvero del proseguimento della procedura di approvazione del PGT, secondo una delle opzioni previste dallo stesso comma, ferma restando comunque la competenza del consiglio provinciale per la “definitiva approvazione…. della modifica dell’atto di pianificazione provinciale”.
Dall’art. 48 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (t.u.e.l.), si desume, d’altro canto, che la giunta compie gli atti che non sono riservati al consiglio, e che non rientrano nelle competenze del presidente o nelle attribuzioni dei dirigenti.
A questi ultimi, l’art. 107, secondo comma, del t.u. assegna “tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente” (secondo comma), nonché (terzo comma) “l’attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati” dagli organi di governo.
Ai dirigenti competono tra l’altro (art. 107, secondo comma, lettera f) “i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie”; nonché (lettera h) “le attestazioni, certificazioni, comunicazioni, diffide, verbali, autenticazioni, legalizzazioni ed ogni altro atto costituente manifestazione di giudizio e di conoscenza”.
Se si considera che la valutazione di compatibilità in questione (a) mira esclusivamente a verificare, attraverso la mera comparazione del contenuto dei due piani, il rispetto del PTCP da parte del piano comunale di governo del territorio, e (b) non implica, come osservato, profili di discrezionalità, se ne trae che essa non si configura come atto di indirizzo, ma tende alla mera attuazione degli obiettivi della pianificazione provinciale, ed è pertanto riconducibile alle attribuzioni dirigenziali.
In conclusione, le censure del Comune in punto di competenza sono prive di fondamento; mentre appaiono fondate le (speculari) censure della Provincia circa l’erroneità del presupposto (incompetenza del dirigente) sulla cui base il Comune ha ritenuto di disattendere la valutazione di compatibilità del PGT
(
TAR Lombardia-Milano, Sezione II, sentenza 28.07.2009 n. 4468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).


     Per mera curiosità, abbiamo operato un'indagine on-line dalla quale risulta che le n. 12 province lombarde si sono organizzate, circa il modus operandi della verifica in questione, come di seguito indicato:
1- provincia di Bergamo: deliberazione di Giunta;
2- provincia di Brescia: determinazione dirigenziale (siccome risposto telefonicamente)
3- provincia di Como: determinazione dirigenziale (siccome desumibile dalle sopra citate sentenze)
4- provincia di Cremona: deliberazione di Giunta
5- provincia di Lecco: deliberazione di Giunta
6- provincia di Lodi: deliberazione di Giunta (siccome desumibile da atto pubblicato all'albo pretorio)
7- provincia di Mantova: determinazione dirigenziale (siccome risposto telefonicamente da un comune)
8- provincia di Milano: deliberazione di Giunta
9- provincia di Monza e della Brianza: determinazione dirigenziale (sic!!) previa deliberazione della Giunta (siccome risposto telefonicamente)
10- provincia di Pavia: deliberazione di Giunta
11- provincia di Sondrio: deliberazione di Giunta;
12- provincia di Varese: deliberazione di Giunta.
     Beh, non c'è che dire: "Il mondo è bello perché è vario!!" ... o perché è avariato?? Checché se ne dica, la 1^ Repubblica (1948/marzo 1994) non è mica morta: si è reincarnata nella 2^ (nata con le elezioni politiche del marzo 1994) e presto rivivrà nella 3^ (che già si intravede all'orizzonte ...). E tutto ciò alla faccia della tanto sbandierata semplificazione procedimentale e, soprattutto, della separazione delle competenze politiche da quelle gestionali!!
     Per non pensare, poi, al fatto che in Giunta partecipa pure il Segretario, il quale "deve" -ai sensi dell’art. 97 d.Lgs. n. 267/2000- esercitare compiti di “assistenza giuridico-amministrativa” ed "è tenuto" a segnalare l'eventuale illegittimità di un atto che si va a deliberare, nonostante l'esplicita abrogazione del "parere di legittimità" avvenuta anni or sono: e ciò non lo diciamo noi ma, insistentemente e da parecchi mesi a questa parte, la Corte dei Conti con le sue articolazioni giurisdizionali (e non solo) ... eppure, si delibera ugualmente!!
     Per completezza di esposizione, dobbiamo anche dire che il TAR è intervenuto nel confermare la competenza della Giunta, e non del Consiglio siccome invocato dal ricorrente, semplicemente perché la valutazione di compatibilità è stata resa, appunto, dalla Giunta la quale -dovendo il Giudice scegliere fra i due organini politici- ha qualche chance che l'altro non ha. Certamente, se anche in questi tre ricorsi di seguito riproposti l'Amministrazione provinciale si fosse pronunciata con determinazione dirigenziale l'epilogo sarebbe stato come quelli rappresentati in premessa. Quindi, non fanno testo e giusto solo per averne notizia ...
 

COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICAIl parere di compatibilità di cui all’art. 13 della legge regionale n. 12/2005 non costituisce un atto di pianificazione generale, riservato alla competenza dell’organo consiliare ai sensi del citato D.Lgs. 267/2000, ma una mera valutazione sul rapporto fra gli atti di pianificazione comunale (PGT) e provinciale (PTCP), di natura essenzialmente tecnica e non certo espressione della generale potestà di pianificazione territoriale, riconosciuta dalla legge soltanto al Consiglio.
In ordine al ricorso 2887/2007, occorre dapprima esaminare lo specifico motivo (vale a dire il n. 7, vedesi pag. 19 dell’atto introduttivo), rivolto contro il provvedimento provinciale di compatibilità della pianificazione comunale con il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP).
Secondo l’esponente, la delibera di Giunta sarebbe viziata da incompetenza, in quanto il parere di compatibilità con il PTCP del piano comunale sarebbe riservato al Consiglio Provinciale, quale organo competente ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. b), del D.Lgs. 267/2000 (Testo Unico degli enti locali).
La censura è infondata, visto che il parere di compatibilità di cui all’art. 13 della legge regionale n. 12/2005 non costituisce un atto di pianificazione generale, riservato alla competenza dell’organo consiliare ai sensi del citato D.Lgs. 267/2000, ma una mera valutazione sul rapporto fra gli atti di pianificazione comunale (PGT) e provinciale (PTCP), di natura essenzialmente tecnica e non certo espressione della generale potestà di pianificazione territoriale, riconosciuta dalla legge soltanto al Consiglio.
Alla conclusione sopra indicata, è ormai giunta la giurisprudenza amministrativa ed in tale senso è orientata anche la scrivente Sezione (si vedano le sentenze del TAR Lombardia, sez. II, n. 4303/2009 e n. 1221/2010, costituenti precedenti specifici ai quali si rinvia).
In conclusione, lo specifico mezzo di gravame rivolto contro la deliberazione provinciale deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2010 n. 7512 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA: E' di competenza della giunta provinciale emettere pareri di compatibilità di uno strumento urbanistico comunale, tenuto conto che l'art. 42 T.U. 267/2000 si riferisce solo ai pareri espressi (dal Consiglio) nell’ambito del procedimento di formazione dei suoi piani e dei suoi programmi, mentre esulano dalla previsione i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa la compatibilità con il proprio piano o programma di attività poste in essere da altri soggetti.
L’ultimo motivo, in cui si rileva l’incompetenza della Giunta a rilasciare il parere di compatibilità con il PTCP ai sensi dell’art. 42 T.U. 267/2000, è infondato, alla luce della decisione del 28.05.2009 n. 3333 con cui il Consiglio di Stato (Sez. VI) ha ritenuto di competenza della giunta provinciale emettere pareri di compatibilità di uno strumento urbanistico comunale, sull’assunto che la suddetta norma si riferisca solo ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione dei suoi piani e dei suoi programmi, mentre esulano dalla previsione i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa la compatibilità con il proprio piano o programma di attività poste in essere da altri soggetti (
TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.05.2010 n. 1221 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA: Rientra nella competenza della giunta provinciale emettere pareri di compatibilità di uno strumento urbanistico comunale con il P.T.C.P.
Non può, al riguardo, invocarsi l’art. 42, c. 2, lett. b), d.lgs. n. 267/2000: tale norma -che attribuisce alla competenza consiliare i “programmi, relazioni previsionali e programmatiche, piani finanziari, programmi triennali e elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci annuali e pluriennali e relative variazioni, rendiconto, piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da rendere per dette materie”- si riferisce, difatti, “non a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque coinvolga i piani o programmi dallo stesso approvati, ma soltanto ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione di quei piani e programmi (o delle relative varianti e deroghe)”.

Come ha di recente affermato il Consiglio di Stato con la sentenza 28.05.2009 n. 3333, rientra nella competenza della giunta provinciale emettere pareri di compatibilità di uno strumento urbanistico comunale (si trattava, nel caso esaminato, di un programma integrato di intervento) con il P.T.C.P.
Non può, al riguardo, invocarsi l’art. 42, c. 2, lett. b), d.lgs. n. 267/2000: tale norma -che attribuisce alla competenza consiliare i “programmi, relazioni previsionali e programmatiche, piani finanziari, programmi triennali e elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci annuali e pluriennali e relative variazioni, rendiconto, piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da rendere per dette materie”- si riferisce, difatti, “non a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque coinvolga i piani o programmi dallo stesso approvati, ma soltanto ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione di quei piani e programmi (o delle relative varianti e deroghe)”. (Cons. Stato, sez. IV, 28.05.2009, n. 3333) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.07.2009 n. 4303 - link a www.giustizia-amministrativa.it).


     In conclusione, non ci resta che confidare nel "ravvedimento" operativo di quelle Amministrazioni provinciali che, magari, non conoscevano i suddetti pronunciamenti giurisprudenziali e ciò al fine di evitare il contenzioso giurisdizionale e, perché no, anche l'eventuale e non remoto risarcimento del danno ... poiché, adesso, non possono nascondersi dietro la foglia di fico e dire: "Sorry, ma io non lo sapevo!!".
01.07.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI: Trasmissione obbligatoria di dati e informazioni.
Firmato oggi dal presidente dell’Avcp Sergio Santoro e dal presidente della CIVIT Romilda Rizzo un comunicato per chiarire che la trasmissione alla CIVIT, ai sensi dell'art. 1, c. 27, dei dati sui contratti pubblici di cui all'art. 1, c. 16, lett. b), come specificati dall'art. 1, c. 32, della legge n. 19 del 2012 si intende assolta con la trasmissione di detti dati all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture secondo quanto previsto dalla Delibera dell’Avcp n. 26 del 2013 (comunicato congiunto 25.06.2013 del Presidente della CIVIT (Autorità nazionale Anticorruzione) e del Presidente dell'Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture - link a www.avcp.it).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOEE.LL.: la disciplina dell'indennità di turno (CGIL-FP di Bergamo, nota 27.06.2013).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: ALBO GESTORI AMBIENTALI: trasporto di rifiuti ingombranti prodotti dalle imprese edili (ANCE Bergamo, circolare 28.06.2013 n. 157).

APPALTI: Oggetto: Eliminazione dell’IVA dalla responsabilità solidale (ANCE Bergamo, circolare 28.06.2013 n. 154).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Importanti novità nella gestione delle terre e rocce da scavo (ANCE Bergamo, circolare 27.06.2013 n. 147).

ENTI LOCALI: Sui limiti temporali alla nomina o alla conferma in incarichi amministrativi di vertice e di amministratori di enti pubblici o di enti di diritto privato in controllo pubblico, ai sensi dell’art. 7, d. lgs. n. 39/2013 (CIVIT, delibera 27.06.2013 n. 48).

ENTI  LOCALI: Sul rapporto tra le previsioni dell’art. 4 del d. l. n. 95/2012, convertito, con modificazioni, in l. n. 135/2012, e gli artt. 9 e 12 del d. lgs. n. 39/2013 (CIVIT, delibera 27.06.2013 n. 47).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: In tema di efficacia nel tempo delle norme su inconferibilità e incompatibilità degli incarichi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti privati in controllo pubblico di cui al d.lgs. n. 39/2013 (CIVIT, delibera 27.06.2013 n. 46).

EDILIZIA PRIVATA: Decreto Legge del 21.06.2013 n. 69 (c.d. “Decreto Del Fare”) - Commento alle norme di interesse per il settore privato (ANCE, 27.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Chiarimenti in merito all’applicazione delle disposizioni di cui al decreto legge 04.06.2013, n. 63 in materia di attestazione della prestazione energetica degli edifici (Ministero dello Sviluppo Economico, circolare 25.06.2013 n. 12976 di prot.).
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Dal Ministero i chiarimenti su Attestato di Prestazione Energetica (APE), ACE e modalità di calcolo.
Con l'entrata in vigore del Decreto Legge 63/2013 viene soppresso l’Attestato di Certificazione Energetica (ACE) e introdotto, in suo luogo, l’Attestato di Prestazione Energetica (APE), rispondente ai criteri indicati dalla direttiva 2010/31/UE.
Poiché sono stati sollevati da più parti dubbi sulla normativa tecnica da applicare per la redazione dell’Attestato, Il Ministero dello Sviluppo Economico ha ritenuto opportuno fornire qualche chiarimento.
In particolare, l’articolo 4, comma 1, del D.L. 63/2013 dispone che la metodologia di calcolo della prestazione energetica sarà definita con uno o più decreti del Ministro dello Sviluppo Economico.
Nelle more dell’aggiornamento tecnico, le norme transitorie contenute all’articolo 9 del D.L. 63/2013 per il calcolo delle prestazioni energetiche degli edifici fanno riferimento al D.P.R. 59/2009 e a specifiche norme tecniche (UNI e CTI) già note.
Conseguentemente, il D.L. 63/2013 (art.13) prevede che, solo dall’entrata in vigore dei decreti di aggiornamento della metodologia di cui all’articolo 4, sia abrogato il D.P.R. 59/2009.
Pertanto, fino all’emanazione dei “famosi” decreti, si adempie alle prescrizioni del D.L. 63/2013 redigendo l’APE secondo le modalità di calcolo previste dal D.P.R. 59/2009, fatto salvo nelle Regioni che hanno provveduto ad emanare proprie disposizioni normative in attuazione della direttiva 2002/91/CE.
Quindi APE con le modalità dell’ACE
(27.06.2013 - commento tratto da www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Oggetto: Sanzioni per ritardata presentazione degli accatastamenti fabbricati rurali (Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati, nota 18.06.2013 n. 7092 di prot.).

ENTI LOCALI: Oggetto: D.M. 13.12.2012. Modifiche e integrazioni al D.M. 18.05.2007 recante norme di sicurezza per le attività di spettacolo viaggiante. Chiarimenti e indirizzi applicativi (Ministero dell'Interno, nota 11.06.2013 n. 17082 di prot.)

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: D.L. 21.06.2013, n. 69 “decreto del fare”: novità per l’edilizia e raffronto con la normativa regionale della Lombardia.
Tabella raffronto del T.U. dell'Edilizia e della L.R. 12/2005 alla luce delle modifiche operate con il d.l. 21.06.2013 n. 69 (26.06.2013 - link a www.studiospallino.it).

APPALTI: Contratti pubblici: un "vademecum" per le amministrazioni.
La Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha approvato, nel corso dell’ultima riunione, le linee guida in materia di trasparenza e pubblicità degli appalti pubblici (13.06.2013). Una sorta di vademecum -predisposto da Itaca (Istituto per l’innovazione e trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale) ed elaborato da uno specifico gruppo di lavoro interregionale coordinato dalla Regione Friuli-Venezia Giulia– che fornisce una ricognizione puntuale delle norme vigenti in materia di pubblicità e di trasparenza sui contratti pubblici, anche alla luce della produzione normativa intervenuta di recente.
La normativa sulla trasparenza, pubblicità e monitoraggio delle fasi degli appalti comporta adempimenti che ogni stazione appaltante è chiamata quotidianamente a svolgere e presuppone l’esistenza di strutture capaci di reggere l’impatto delle costanti innovazioni normative e tecnologiche. La complessità e la frammentarietà degli argomenti è però tale da rendere spesso particolarmente difficoltoso l’operato del singolo funzionario.
Proprio per far fronte alle difficoltà operative delle amministrazioni aggiudicatrici è stata predisposta questa guida operativa che costituisce un utile strumento di lavoro per coloro che a vario titolo seguono la disciplina degli appalti (13.06.2013 - tratto da www.regioni.it).
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INTRODUZIONE - Il presente documento si propone lo scopo di effettuare –in considerazione della cospicua produzione normativa recentemente emersa– una ricognizione delle norme vigenti in materia di pubblicità e di trasparenza, con particolare riferimento all’ambito dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, nonché di fornire (anche attraverso l’elaborazione di alcuni schemi sintetici e sinottici) uno strumento operativo che possa essere utile alle stazioni appaltanti tenute ad applicare il D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, recante il “Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE” (testo normativo che d’ora in poi verrà indicato, per brevità, anche semplicemente come Codice).
Più in particolare, alla luce dell’ampia produzione normativa sul tema della trasparenza amministrativa –e considerato il possibile “disorientamento” che tale recente normazione può comportare sulle stazioni appaltanti soggette all’adempimento dei nuovi obblighi– appare importante chiarire in quale modo le nuove norme vadano ad impattare (spesso sovrapponendosi ed aggiungendosi) rispetto agli obblighi di pubblicità già vigenti in materia di affidamento dei contratti pubblici d’appalto.
In via più generale, si può notare come la pubblicità e la trasparenza dell’attività amministrativa siano due principi distinti, benché indissolubilmente legati tra loro anche negli appalti: a riprova di ciò, si noti come già l’art. 2, comma 1 del Codice dispone espressamente che: “L'affidamento e l'esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture, ai sensi del presente codice, deve garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di … trasparenza … nonché quello di pubblicità con le modalità indicate nel presente codice”.
Oltre a ciò, l’art. 11 del D.Lgs. 27.10.2009, n. 150 nonché, più di recente, l’art. 1, comma 15, della Legge 06.11.2012, n. 190, (c.d. legge anticorruzione) hanno definito la trasparenza dell’attività amministrativa come livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili ai sensi dell’art. 117, comma 2, lettera m), della Costituzione, facendola così assurgere a vero e proprio valore di rango costituzionale.
Da ultimo, l’articolo 1, comma 1, del D.lgs. 14.03.2013, n. 33, (Amministrazione trasparente) stabilisce che la trasparenza deve essere intesa come “accessibilità totale delle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, alla scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”.
In tale contesto, appare utile procedere ad una ricognizione degli obblighi attualmente vigenti in materia di trasparenza e di pubblicità, con particolare riferimento ai procedimenti di scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi (che costituiscono diretta attuazione dei principi di legalità, buon andamento e imparzialità), al fine di distinguere gli adempimenti che attengono alla sfera della trasparenza da quelli che concernono l’ambito della pubblicità, con conseguente evidenziazione delle specifiche applicative.
Mentre, infatti, la trasparenza –in conformità a quanto disposto all’art. 1, comma 15, della citata L. n. 190/2012– deve essere assicurata mediante la pubblicazione di una serie di dati all’interno dei siti internet istituzionali delle pubbliche amministrazioni, in formato aperto e facilmente Linee guida ITACA – Trasparenza e pubblicità: analisi dei nuovi obblighi e del loro impatto sull’affidamento dei contratti pubblici d’appalto elaborabile da chiunque vi abbia interesse, gli adempimenti in materia di pubblicità nell’ambito delle procedure ad evidenza pubblica vanno assolti attraverso la pubblicazione di documenti, redatti in formato chiuso, sul profilo di committente della stazione appaltante, ovvero secondo le specifiche modalità di volta in volta individuate dalla norma richiamata (cfr. Gazzetta ufficiale…).
Ed è proprio tale analisi che ITACA si è impegnata ad effettuare attraverso la costituzione di un Gruppo di lavoro a ciò dedicato “Trasparenza e pubblicità nei contratti pubblici” del quale fanno parte:
- step 1. Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia: dott.ssa Cristiana Bobbio, dott.ssa Diana Luddi, dott.ssa Gabriella Pasquale (Coordinatrice);
- step 2. Regione Emilia-Romagna: ing. Massimo Cataldi (NQ);
- step 3. Regione Toscana: dott.ssa Ivana Malvaso, dott. Andrea Bertocchini, dr.ssa Michela Megli;
- step 4. Regione Umbria: avv. Ilenia Filippetti, dott. Guido Maraspin;
- step 5. Regione Veneto: dott.ssa Maria Grazia Bortolin.

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAIl Decreto del Fare è già in vigore! Lo Speciale di BibLus-net con tutte le novità per il settore edile, per il Codice Appalti e non solo.
È in vigore dal 22.06.2013 il Decreto Legge 21.06.2013, n. 69, il cosiddetto “Decreto del Fare”, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 144 del 21.06.2013, Suppl. Ordinario n. 50.
Composto da 86 articoli e un allegato, il provvedimento contiene misure per:
il sostegno alle imprese
il potenziamento dell'agenda digitale italiana
il rilancio delle infrastrutture
la semplificazione amministrativa e fiscale
Tante le novità introdotte nel settore dell’edilizia, con ritocchi sostanziali anche al Testo Unico per l’Edilizia (D.P.R. 388/2001), che riguardano
SCIA e Comunicazione di Inizio Lavori: prevista la possibilità di delegare allo Sportello Unico l’incombenza di acquisire, anche prima della SCIA, i pareri e i nulla osta necessari.
Termine Lavori: il decreto allunga di due anni i termini di inizio e ultimazione dei lavori utilizzati con Permesso di Costruire, DIA o SCIA alla data di entrata in vigore della norma.
Ricostruzione e Ristrutturazione edilizia: gli interventi di demolizione e ricostruzione non dovranno più rispettare il vincolo della sagoma, ma solo quello della volumetria.
Certificato di agibilità: potrà essere richiesto anche per singoli edifici, singole porzioni della costruzione o singole unità immobiliari purché funzionalmente autonomi.
DURC: per i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture il Documento Unico di Regolarità Contributiva potrà essere acquisito in via informatica e avrà validità di 180 giorni.
Previste significative semplificazioni anche per i vincoli ambientali, terre e rocce da scavo (D.M. 161/2012) e la gestione delle acque sotterranee.
Un capitolo a parte meritano le modifiche apportate al Testo Unico della Sicurezza che semplificano sensibilmente gli adempimenti e gli obblighi a carico delle imprese (V. art. “Decreto del Fare, semplificazioni su DUVRI e DVR per le attività a basso rischio. La tavola sinottica del modifiche al TUS”).
Alcune modifiche vengono apportate anche al Codice degli Appalti.
Per i lettori di BibLus-net uno speciale dedicato al Decreto del Fare pubblicato in Gazzetta, una Tavola sinottica con le modifiche apportate al Codice degli Appalti e il Testo del Decreto Legge (27.06.2013 - link a www.acca.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA CANTIERI: Decreto del Fare, semplificazioni su DUVRI e DVR per le attività a basso rischio. La tavola sinottica delle modifiche al TUS.
Con la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del Decreto Legge 21.06.2013, n. 69, dal 23.06.2013, vengono introdotte una serie di semplificazioni in materia di sicurezza sul lavoro.
Il provvedimento apporta, infatti, significative modifiche al Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro (D.Lgs. 09.04. 2008, n. 81).
Rimandando per tutti gli approfondimenti allo speciale di BibLus-net dedicato al “Decreto del Fare” (V. art. “Il Decreto del Fare è già in vigore! Lo Speciale di BibLus-net con tutte le novità per il settore edile, per il Codice Appalti e non solo…”), segnaliamo di seguito le novità più importanti in tema di sicurezza sul lavoro.
DUVRI
Nelle attività a basso rischio infortunistico, stabiliti da un Decreto del Ministro del Lavoro da emanarsi, non sarà più necessario il DUVRI ma sarà invece sufficiente l’individuazione di un incaricato, in possesso di formazione, esperienza e competenza professionali, che sovrintenda alla cooperazione e al coordinamento.
E’ prevista, inoltre, l’esenzione del DUVRI per i servizi di natura intellettuale, le mere forniture di materiali o attrezzature, i lavori o i servizi la cui durata non è superiore ai 10 uomini-giorno.
Attestazione Valutazione dei Rischi
Il Decreto del Ministro del Lavoro da emanarsi dovrà definire, oltre all’elenco di attività a basso rischio, anche un modello con cui i datori di lavoro che operano in tali attività potranno attestare di aver effettuato la valutazione dei rischi. Resta ferma la possibilità di utilizzare le Procedure Standardizzate.
POS, PSC e Fascicolo dell'Opera semplificati per i cantieri temporanei e mobili
Per i cantieri temporanei o mobili, il Ministero del Lavoro individuerà, entro 60 giorni dall’entrata in vigore del Decreto, modelli semplificati per la redazione del Piano Operativo di Sicurezza, Piano di Sicurezza e Coordinamento e Fascicolo dell’Opera.
Semplificazione delle notifiche agli organi di vigilanza
Previste semplificazioni per le notifiche agli organi di vigilanza, come ad esempio la comunicazione telematica.
Nuova tempistica per le verifiche periodiche delle attrezzature
Sarà ridotto da 60 a 45 giorni il termine entro il quale l’INAIL è tenuta ad effettuare la prima verifica. INAlL, ASL o ARPA devono comunicare entro 15 giorni dalla richiesta l’ eventuale impossibilità di effettuare la verifica.
Semplificazioni in materia di formazione
Saranno adottate misure per evitare la duplicazione delle attività formative rivolte a Responsabili, Addetti al servizio di protezione, Dirigenti, Preposti, Lavoratori e Rappresentanti.
Semplificazione della denuncia degli infortuni sul lavoro da parte del datore di lavoro
È abrogato l’obbligo per il datore di lavoro di comunicare entro 2 giorni all’autorità locale di pubblica sicurezza ogni infortunio sul lavoro che abbia per conseguenza la morte o l’inabilità al lavoro per più di tre giorni.
Le autorità di pubblica sicurezza, le aziende sanitarie locali, etc. acquisiranno direttamente dall’INAIL, mediante accesso telematico, i dati relativi alle denunce di infortuni sul lavoro mortali e di quelli con prognosi superiore a trenta giorni.
Ampliamento delle attività a cui non si applicano le misure per la salute e sicurezza nei cantieri temporanei o mobili
Nei cantieri temporanei e mobili i piccoli lavori la cui durata presunta non è superiore ai 10 uomini-giorno finalizzati alla realizzazione o manutenzione delle infrastrutture per servizi non si applicheranno più le disposizioni del TUSL.
Si precisa che l’operatività delle nuove norme su DVR, DUVRI e cantieri temporanei e mobili sono legate all’emanazione di appositi Decreti del Ministero del Lavoro che dovranno individuare le tipologie di attività a basso rischio e i modelli semplificati da adottare.
Insieme allo speciale dedicato al “Decreto del Fare”, mettiamo a disposizione dei lettori la tavola sinottica con le modifiche del Decreto Legge 69/2013 al Testo Unico della Sicurezza (27.06.2013 - link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVOROCosa accade se il coordinatore per la sicurezza non è riuscito ad effettuare il corso di aggiornamento entro il 15.05.2013?
Il D.Lgs. 81/2008 prescrive, per coloro che si sono abilitati a svolgere incarichi di coordinatore per la sicurezza a norma della Legge 494/1996, un aggiornamento obbligatorio di 40 ore entro 5 anni dall’entrata in vigore del Decreto stesso, ossia entro il 15.05.2013.
Cosa accade se il coordinatore per la sicurezza non è riuscito ad effettuare il corso di aggiornamento entro la data del 15.05.2013?
Il quesito, presentato dal CNA (Confederazione Nazionale dell'Artigianato e della Piccola e Media Impresa) in un interpello al Ministero del Lavoro, finora non ha avuto risposta.
Non è dato sapere, quindi, in via ufficiale se l'abilitazione viene resa inefficace e risulta necessario rifrequentare il corso abilitante di 120 ore o se si è semplicemente sospesi finché non ci si aggiorna.
Secondo l'interpretazione del Consiglio nazionale degli ingegneri (CNI), espressa con la circolare 03.05.2013 n. 210, se il professionista non è riuscito ad effettuare il corso di aggiornamento entro la data del 15.05.2013, non è più abilitato a ricoprire il ruolo di Coordinatore per la sicurezza fino a quando non avrà espletato gli aggiornamenti previsti.
Non potrà, quindi, esercitare le proprie funzioni, che saranno “sospese” fino a quando egli non completerà l'aggiornamento per il monte ore mancante.
Ancora più cauto l’orientamento 26.06.2013 dell’Ordine degli Architetti di Roma (in ordine alla risposta 09.04.2013 n. 32/0008112/MA006.A001 di prot. della Direzione Generale divisione III del Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali prot. 32/0008112/MA006.A001 a due quesiti posti dall’Ordine degli ingegneri di Bologna, la quale, pur non avendo valenza di risposta ad interpello, offre un’autorevole chiave interpretativa) che consiglia di attendere i chiarimenti del Ministero e di non frequentare, per il momento, corsi di aggiornamento della cui efficacia non si hanno certezze (27.06.2013 - link a www.acca.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Martelli, Ambiente: entra in vigore la nuova Autorizzazione “unica” (Aua). Più ombre che luci (14.06.2013 - link a www.filodiritto.com).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: F. V. Rinaldi, La legge “anticorruzione” e la riforma dei reati contro la Pubblica Amministrazione - Legge 06.11.2012 n. 190:
Parte II  + Parte I  (30.05.2013 - link a www.filodiritto.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: A. Scarcella, Dalla UE prospettive di eliminazione totale dell’amianto (Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 5/2013 - tratto da www.ispoa.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA- ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 dell'01.07.2013, "Disposizioni in materia di programmazione commerciale. Modifica al titolo II, capo I, della legge regionale 02.02.2010, n. 6 (Testo unico delle leggi regionali in materia di commercio e fiere)" (L.R. 27.06.2013 n. 4).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 27.06.2013, "Adozione dello schema di fideiussione bancaria o assicurativa a carico dei soggetti autorizzati alla realizzazione ed all’esercizio di un impianto di produzione di energia da fonti rinnovabili, ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. 387/2003 e s.m.i. come garanzia della dismissione degli stessi" (decreto D.S. 24.06.2013 n. 5448).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 27.06.2013 n. 149 "Regolamento recante disciplina dei criteri di accreditamento per assicurare la qualificazione e l’indipendenza degli esperti e degli organismi a cui affidare la certificazione energetica degli edifici, a norma dell’articolo 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 19.08.2005, n. 192" (D.P.R. 16.04.2013 n. 75).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 27.06.2013 n. 149 "Regolamento recante definizione dei criteri generali in materia di esercizio, conduzione, controllo, manutenzione e ispezione degli impianti termici per la climatizzazione invernale ed estiva degli edifici e per la preparazione dell’acqua calda per usi igienici sanitari, a norma dell’articolo 4, comma 1, lettere a) e c) , del decreto legislativo 19.08.2005, n. 192" (D.P.R. 16.04.2013 n. 74).
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Si legga una prima disamina del decreto: Nuove regole per l’esercizio, la conduzione, il controllo, e la manutenzione degli impianti termici (28.06.2013 - link a www.ance.it).

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 27.06.2013 n. 149 "Definizione delle modalità di rafforzamento del sistema dei controlli dell’ISEE" (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, decreto 08.03.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 25.06.2013 n. 147 "Testo del decreto-legge 26.04.2013, n. 43, coordinato con la legge di conversione 24.06.2013, n. 71, recante: «Disposizioni urgenti per il rilancio dell’area industriale di Piombino, di contrasto ad emergenze ambientali, in favore delle zone terremotate del maggio 2012 e per accelerare la ricostruzione in Abruzzo e la realizzazione degli interventi per Expo 2015. Trasferimento di funzioni in materia di turismo e disposizioni sulla composizione del CIPE»".
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Si evidenziano i seguenti articoli di interesse:
Art. 5-ter - Acquisizione di lavori, servizi e forniture dei comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti
  
1. Il termine di cui all’articolo 23, comma 5, del decreto-legge 06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214, già prorogato ai sensi dell’articolo 29, comma 11-ter, del decreto-legge 29.12.2011, n. 216, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.02.2012, n. 14, è ulteriormente differito al 31.12.2013. Sono fatti salvi i bandi e gli avvisi di gara pubblicati a far data dal 10.04.2013 fino alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto.
Art. 6-ter - Incrementi di superfici in sede di ricostruzione
  
1. Il comma 13-bis dell’articolo 3 del decreto-legge 06.06.2012, n. 74, convertito, con modificazioni, dalla legge 10.08.2012, n. 122, è sostituito dal seguente: «13 -bis  In sede di ricostruzione degli immobili adibiti ad attività industriale, agricola, zootecnica o artigianale, anche a seguito di delocalizzazione, i comuni possono prevedere un incremento massimo del 20 per cento della superficie utile, nel rispetto della normativa in materia di tutela ambientale, culturale e paesaggistica».
(ATTENZIONE: da applicarsi dal 26.06.2013)
Art. 7-bis - Rifinanziamento della ricostruzione privata nei comuni interessati dal sisma in Abruzzo
  
3. A decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, le misure dell’imposta fissa di bollo attualmente stabilite in euro 1,81 e in euro 14,62, ovunque ricorrano, sono rideterminate, rispettivamente, in euro 2,00 e in euro 16,00.
 (ATTENZIONE: da applicarsi dal 26.06.2013)
Art. 8-bis - Deroga alla disciplina dell’utilizzazione di terre e rocce da scavo
  
1. Al fine di rendere più celere e più agevole la realizzazione degli interventi urgenti previsti dal presente decreto che comportano la necessità di gestire terre e rocce da scavo, adottando nel contempo una disciplina semplificata di tale gestione, proporzionata all’entità degli interventi da eseguire e uniforme per tutto il territorio nazionale, le disposizioni del regolamento di cui al decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare 10.08.2012, n. 161, si applicano solo alle terre e rocce da scavo prodotte nell’esecuzione di opere soggette ad autorizzazione integrata ambientale o a valutazione di impatto ambientale.
   2. Fermo restando quanto previsto dal comma 1, in attesa di una specifica disciplina per la semplificazione amministrativa delle procedure, alla gestione dei materiali da scavo, provenienti dai cantieri di piccole dimensioni la cui produzione non superi i seimila metri cubi di materiale, continuano ad applicarsi su tutto il territorio nazionale le disposizioni stabilite dall’articolo 186 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, in deroga a quanto stabilito dall’articolo 49 del decreto-legge 24.01.2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27. 
(ATTENZIONE: da applicarsi dal 26.06.2013)
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Si legga un primo commento dal titolo: Terre e rocce da scavo (26.06.2013 - link a www.ance.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProroga delle graduatorie dei concorsi.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri emana il decreto 19.06.2013 che dispone la proroga al 31.12.2013 di diversi termini; tra questi anche quello previsto dall'art. articolo 1, comma 4, del decreto-legge 29.12.2011, n. 216 (convertito, con modificazioni, in legge 24.02.2012, n. 14) -già prorogato al 30.06.2013 per effetto dell'articolo 1, comma 388, della legge n. 228/2012- relativo alle graduatorie di concorso.
Conseguentemente è prorogata sino al 31.12.2013 la validità delle graduatorie (approvate successivamente al 30.09.2003) dei concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato, relative alle amministrazioni pubbliche soggette a limitazioni delle assunzioni (tratto da e link a www.publica.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Relazione di fine mandato comunale e provinciale ai sensi dell’articolo 4 del decreto legislativo 06.09.2011, n. 149 (D.M. 26.04.2013).
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Con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze in data 26.04.2013 sono stati approvati, ai sensi dell’art. 4 del decreto legislativo 06.09.2011, n. 149, gli schemi tipo di relazione di fine mandato dei presidenti delle province e dei sindaci dei comuni con popolazione superiore o uguale a 5000 abitanti, nonché lo schema tipo di relazione di fine mandato in forma semplificata per i comuni con popolazione inferiore a 5000 abitanti.

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Il welfare non si sposta. Conta quando è iniziata la prestazione. I criteri per determinare la competenza a sostenere gli oneri assistenziali.
Chi è tenuto al pagamento del contributo in favore della famiglia affidataria di un minore residente presso altro comune?

L'art. 6 della legge 08.11.2000, n. 328, nel disciplinare le funzioni dei comuni in materia di sistema integrato di interventi e servizi sociali, ha articolato gli interventi e le competenze comunali nell'ambito della più ampia programmazione della regione, ente cui spetta dirimere gli specifici aspetti di competenza.
Nondimeno, la disciplina di riferimento per determinare la residenza di un minore è l'art. 45 del codice civile, per il quale «il minore ha il domicilio nel luogo di residenza della famiglia o del tutore».
Per quanto riguarda l'attribuzione degli oneri connessi alla degenza di un soggetto presso strutture residenziali, la legge n. 328/2000 stabilisce, all'art. 6, il principio che essi siano imputabili all'ente presso il quale, prima del ricovero, il soggetto abbia la propria residenza.
La citata norma di riferimento (art. 6, comma 4, della legge n. 328/2000) prevede che «per i soggetti per i quali si renda necessario il ricovero stabile presso strutture residenziali, il comune nel quale essi hanno la residenza prima del ricovero, previamente informato, assume gli obblighi connessi all'eventuale integrazione economica».
Tale disposizione ha inteso introdurre il criterio della residenza, corrispondendo all'esigenza di tutela dei soggetti più deboli della società, ossia quelle persone bisognose di un'assistenza cui non sono in grado di fare fronte economicamente.
Si è cercato di fissare un criterio di imputazione delle spese semplice e univoco, in modo da evitare accertamenti, spesso complessi, in ordine al maturare del biennio già prescritto dall'art. 72 della legge n. 6972/1890 (c.d. legge Crispi) -abrogato dall'art. 30, della citata legge 08.11.2000, n. 328- rendendo, quindi, ininfluenti, ai fini dell'imputazione degli oneri, eventuali trasferimenti di residenza degli interessati e i motivi di tali trasferimenti; inoltre si è inteso sgravare il comune ove ha sede la struttura assistenziale in cui viene ricoverato l'utente dall'onere di accollo economico.
In tal senso il legislatore ha voluto radicare la competenza sempre nel comune nel quale gli interessati o, nel caso di minori, i genitori esercenti la potestà o il tutore hanno la residenza al momento in cui la prestazione ha inizio.
La disposizione in esame tende anche a fornire un criterio per la risoluzione di eventuali contenziosi tra regioni, qualora gli assistiti vengano ospitati in strutture site in regione diversa da quella in cui hanno la residenza, data la non uniforme disciplina che la materia trova nelle varie legislazioni regionali.
La valenza precettiva dell'art. 6 della legge n. 328/2000, correlata all'esigenza della tutela dei soggetti deboli ha, peraltro, ricevuto un rafforzamento ed una più ampia legittimazione a seguito delle modifiche apportate dalla legge costituzionale n. 3/2001 al Titolo V della Parte II della Costituzione; l'art. 117, comma 2, lett. m), del testo novellato, infatti, affida alla legislazione esclusiva dello Stato la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», al cui ambito appare riconducibile la disciplina volta a garantire, comunque, la fruizione delle forme assistenziali a favore dei minori nei casi in cui la loro erogazione possa astrattamente coinvolgere più soggetti istituzionali.
Nel caso di specie, pertanto, l'ente competente a sostenere gli oneri derivanti dal ricovero di persone in stato di disagio e dei figli minori, ospitati in struttura residenziale o affidati a famiglie, è quello nel quale gli interessati o, nel caso di minori, i genitori esercenti la patria potestà o il tutore, hanno la residenza al momento in cui la prestazione assistenziale ha avuto inizio, a nulla rilevando i successivi cambiamenti di residenza dei genitori (articolo ItaliaOggi del 28.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Protezione sostenibile.
Domanda.
In materia di Valutazione di impatto ambientale (Via), cosa deve intendersi per protezione sostenibile?
Risposta.
In tema di Valutazione di impatto ambientale (Via) la pubblica amministrazione competente, nel valutare l'impatto che l'intervento dell'uomo sull'ambiente procura, deve valutarlo non soltanto alla luce del principio dello sviluppo sostenibile, codificato nell'articolo 3-quater del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, ma anche alla luce della cosiddetta «protezione sostenibile», che è una tutela rafforzata che contempera, come afferma il Consiglio di stato, sezione VI, con la sentenza numero 7472, del 16.11.2004, i vantaggi economici che la protezione in sé assicura con gli equilibri che sono essenziali per qualsiasi cittadino, che ha diritto a tutte le informazioni all'uopo necessarie, per una sempre maggiore trasparenza sul procedimento. Trasparenza che deve giustificare le scelte che la pubblica amministrazione ha effettuato, quale garante nella tutela dell'ambiente.
Il Tribunale amministrativo regionale (Tar) del Veneto, sezione III, con la sentenza dell'08.03.2012, numero 333, ha puntualizzato che la normativa portata dall'articolo 21 comma 2, lettera b), del citato decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, per la procedura di Valutazione di impatto ambientale (Via), fissa l'obbligo di identificare e valutare ogni possibile alternativa al progetto, compresa la sua non realizzazione, con l'indicazione delle principali ragioni della scelta effettuata. Infatti, la scelta deve essere resa trasparente sia sotto il profilo dell'impatto ambientale, sia al fine di evitare interventi che possano causare sacrifici ambientali superiori a quelli necessari per soddisfare l'interesse che si sottende con l'iniziativa.
E, il Consiglio di stato, sezione VI, con la sentenza numero 933, del 22.02.2007, ebbe ad affermare, sempre in tema di rilascio della Valutazione di impatto ambientale (Via), che «la natura schiettamente discrezionale della decisione finale (e della preliminare verifica di assoggettabilità) sul versante tecnico e anche amministrativo, rende fisiologico ed obbediente alla ratio su evidenziata che si pervenga ad una soluzione negativa ove l'intervento proposto cagioni un sacrificio ambientale superiore a quello necessario per il soddisfacimento dell'interesse diverso sotteso all'iniziativa: da qui la possibilità di bocciare progetti che arrechino vulnus non giustificato da esigenze produttive, ma suscettibile di venire meno, per il tramite di soluzioni meno impattanti in conformità al criterio di sviluppo sostenibile ed alla logica della proporzionalità tra consumazione delle risorse naturali e benefici per la collettività che deve governare il bilanciamento di istanze antagoniste» (articolo ItaliaOggi Sette del 24.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Opzione zero.
Domanda.
La pubblica amministrazione, in sede di Valutazione di impatto ambientale (Via), deve esaminare anche la cosiddetta «opzione zero»?
Risposta.
La pubblica amministrazione, in sede di Valutazione di impatto ambientale (Via), deve esaminare tutte le opzioni alternative, relative al tipo di intervento richiesto, compresa quella relativa alla non realizzazione dell'opera, cosiddetta «opzione zero». Pertanto, come anche sostenuto dal Tribunale amministrativo regionale (Tar) del Veneto, sezione III, con la sentenza dell'08.03.2012, numero 333, è illegittima una Valutazione di impatto ambientale (Via) che non prende in considerazione o le prende in maniera insufficiente, le opzioni suddette, compresa la cosiddetta «opzione zero».
Peraltro, la Corte di giustizia europea, sezione VI, con la sentenza numero 435, del 16.09.1999, causa C-435/97, ebbe a puntualizzare che: «Gli articoli 4, n. 2, e 2, n. 1, della direttiva del Consiglio 27.06.1985, 85/337/Cee_ vanno intesi nel senso che non conferiscono ad uno Stato membro né il potere di dispensare, a priori e globalmente, dalla procedura di valutazione di impatto ambientale istituita dalla direttiva determinate classi di progetti elencate nell'allegato II di quest'ultima, ivi comprese le modifiche di tali progetti, né il potere di sottrarre a tale procedura uno specifico progetto, a meno che l'insieme di tali classi di progetto o il progetto specifico possa essere ritenuto, sulla base di una valutazione complessiva, inidoneo ad avere un impatto ambientale importante. Spetta al giudice nazionale verificare se le Autorità competenti, sulla base dell'esame in concreto da esse eseguito che le ha condotte ad esonerare il progetto dalla procedura di valutazione istituita dalla direttiva, abbiano concretamente valutato, in conformità alla stessa, l'importanza dell'impatto ambientale dello specifico progetto in questione».
In ogni caso l'Autorità amministrativa competente ha l'obbligo di comunicare, a richiesta, i motivi per i quali la decisione è stata assunta, ovvero le informazioni ed i documenti pertinenti in risposta alle richieste formulate (Corte di giustizia, sezione II, sentenza del 04.05.2006, causa C-508/2003) (articolo ItaliaOggi Sette del 24.06.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI: Obblighi di pubblicazione delle dichiarazioni relative alla situazione patrimoniale dei consiglieri comunali ai sensi dell'art. 14 del d.lgs. 33/2013.
Nelle more dei necessari chiarimenti da parte dei competenti uffici statali, si ritiene opportuno considerare le disposizioni di cui all'articolo 14 del d.lgs. 33/2013 applicabili ai componenti degli organi di indirizzo politico di tutti i comuni, indipendentemente dalla soglia demografica degli stessi.
Con riferimento all'articolo 14, comma 1, lettera f), del d.lgs. 14.03.2013, n. 33, recante 'Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni', il Comune chiede di conoscere se l'obbligo di presentazione della documentazione di cui agli artt. 2, 3 e 4 della legge 05.07.1982, n. 441 riguardi i titolari di incarichi pubblici di carattere elettivo di tutti i comuni o solamente di quelli con popolazione superiore a 15.000 abitanti. Un tanto in considerazione del fatto che, per espressa modifica operata dall'art. 52, comma 1, n. 4 del d.lgs. 33/2013, le disposizioni di cui alla l. 441/1982 si applicano, tra l'altro, 'ai consiglieri di comuni capoluogo di provincia ovvero con popolazione superiore ai 15.000 abitanti.'.
Il d.lgs. 33/2013 ha modificato la disciplina in tema di obblighi di pubblicazione concernenti i componenti degli organi di indirizzo politico, materia che, a decorrere dal 20.04.2013 (data di entrata in vigore del decreto legislativo), risulta normata dall'articolo 14 di detto decreto e dagli articoli 2, 3 e 4 della l. 441/1982, come modificati dall'art. 52 del medesimo decreto. Inoltre, da tale data risulta abrogato l'articolo 41-bis
[1] del d.lgs. 267/2000 (art. 53, comma 1, lett. c).
Si osserva che l'articolo 14 del d.lgs. 33/2013, pur richiamando al comma 1, lettera f) gli articoli 2, 3 e 4 della l. 441/1982 (applicabili, ai sensi del precedente articolo 1 n. 5 della medesima legge, ai Comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti), non differenzia in alcun modo gli enti locali in relazione alla loro popolazione, essendo rivolto, in via generale, alle 'pubbliche amministrazioni'.
Conseguentemente non risulta chiaro se, ai sensi dell'art. 14 del d.lgs. 33/2013, tutti i comuni, a prescindere dalla dimensione demografica, siano tenuti a dar corso agli adempimenti in tema di pubblicazione concernenti i componenti degli organi di indirizzo politico relativi alle dichiarazioni di cui agli artt. 2, 3 e 4 della l. 441/1982, come modificata dall'art. 52 del decreto.
In considerazione dei summenzionati dubbi interpretativi, questo Servizio ha provveduto a trasmettere un quesito al Dipartimento della Funzione Pubblica e provvederà tempestivamente ad informare l'Ente instante circa il contenuto della risposta.
Nelle more dei necessari chiarimenti da parte dei competenti uffici statali, si ritiene opportuno considerare le disposizioni di cui all'articolo 14 del d.lgs. 33/2013 applicabili ai componenti degli organi di indirizzo politico di tutti i comuni, indipendentemente dalla soglia demografica degli stessi.
Si rappresenta, tuttavia, che, ai sensi dell'articolo 49, comma 3, del decreto legislativo in commento, 'Le sanzioni di cui all'articolo 47
[2] si applicano per ciascuna amministrazione, a partire dalla data di adozione del primo aggiornamento annuale del Piano triennale della trasparenza e comunque a partire dal centottantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto.' [3]
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[1] Il testo dell'articolo 41 bis del TUEL disponeva: '1. Gli enti locali con popolazione superiore a 15.000 abitanti sono tenuti a disciplinare, nell'ambito della propria autonomia regolamentare, le modalità di pubblicità e trasparenza dello stato patrimoniale dei titolari di cariche pubbliche elettive e di governo di loro competenza. La dichiarazione, da pubblicare annualmente, nonché all'inizio e alla fine del mandato, sul sito internet dell'ente riguarda: i dati di reddito e di patrimonio con particolare riferimento ai redditi annualmente dichiarati; i beni immobili e mobili registrati posseduti; le partecipazioni in società quotate e non quotate; la consistenza degli investimenti in titoli obbligazionari, titoli di Stato, o in altre utilità finanziarie detenute anche tramite fondi di investimento, sicav o intestazioni fiduciarie.'.
[2] L'art. 47 'Sanzioni per casi specifici' disciplina al comma 1 le sanzioni per la mancata o incompleta comunicazione delle informazioni e dei dati di cui all'articolo 14.
[3] Le sanzioni, pertanto, non saranno applicabili fino al 17.10.2013
(14.06.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

CORTE DEI CONTI

CONSIGLIERI COMUNALI - APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Anche il Segretario comunale è responsabile per l'approvazione illegittima di debiti fuori bilancio.
Osserva il Collegio che i lavori oggetto della presente controversia –determinativi del pagamento– non rientravano tra quelli oggetto di appalto e la loro realizzazione era stata decisa in piena autonomia dall’impresa, senza alcun coinvolgimento istituzionale della stazione appaltante o della direzione dei lavori.
Né sussisteva la presenza di apposite riserve negli atti adottati nelle varie fasi di esecuzione dell’appalto.
In altri termini l’impresa aveva deciso autonomamente e contra legem –vista la normativa di settore-, in assenza di richiesta o autorizzazione dell’Amministrazione comunale committente di effettuare lavori che esulavano dall’opus appaltato.
La normativa in tema di opere pubbliche preclude –in via generale– all’appaltatore la possibilità di operare con tali modalità pur, se in ipotesi, al fine di realizzare interventi caratterizzati da intrinseca utilità.
In siffatto modo l’art. 342, comma primo, della legge sui lavori pubblici (all. F) 20.03.1865 n. 2248, applicabile nella specie, impedisce in via generale all’appaltatore di apportare “variazioni o addizioni di sorta al lavoro assunto senza averne ricevuto l’ordine per iscritto dall’ingegnere direttore”, ed in seguito si aggiunge che “mancando una tale approvazione gli appaltatori non possono pretendere alcun aumento di prezzo od indennità per le variazioni od addizioni avvenute, e sono tenuti ad eseguire senza compenso quelle riforme che in conseguenza l’Amministrazione credesse opportuno di ordinare, oltre il risarcimento dei danni recati”.
Nella stessa direzione l’art. 134 del d.P.R. 21.12.1999 n. 554 dispone che “nessuna variazione o addizione al progetto approvato può essere introdotta dall’appaltatore se non è disposta dal direttore dei lavori e preventivamente approvata dalla stazione appaltante nel rispetto delle condizioni e dei limiti indicati dal’art. 25 della legge. Il mancato rispetto di tale disposizione non dà titolo al pagamento dei lavori non autorizzati e comporta la rimessione in pristino, a carico dell’appaltatore, dei lavori e delle opere nella situazione originaria secondo le disposizioni del direttore dei lavori”.
I regimi derogatori che si sono succeduti nel tempo non hanno mai permesso la possibilità di variazioni unilaterali dell’appaltatore, senza che questi ne avesse fatto riserva (sulla necessità di una tempestiva iscrizione di riserva, pena la decadenza del diritto al pagamento per i maggiori costi delle opere eseguite e preclusione anche dell’azione ai sensi dell’art. 2041 c.c.. cfr. Corte Cassazione 12.09.2003 n. 13440) o prescindendo dal coinvolgimento della direzione dei lavori.
Il Giudice di Legittimità ha, pertanto, più volte ribadito che “in materia di appalti l’onere dell’iscrizione nel registro di contabilità (di cui al RD n. 350 del 1895) condiziona la tutelabilità delle pretese dell’appaltatore non accolte dalla committente PA in ordine alle partite di lavoro eseguite".
Vieppiù il Giudice di Legittimità ha statuito che “non è poi esatto che l’appaltatore abbia l’onere di iscrivere la riserva per maggiori compensi pretesi soltanto al momento della scadenza contrattuale prevista …. In quanto dal combinato disposto degli artt. 53 e 54 r.d. n. 350 del 1895… si ricava la regola assoluta ed inderogabile che l’appaltatore che richieda maggiori compensi, rimborsi o indennizzi, per qualsiasi titolo e in relazione a qualsiasi situazione nel corso dell’esecuzione dell’opera, è tenuto a iscrivere nel registro di contabilità la riserva “immediatamente” e quindi contestualmente all’insorgenza e percezione del fatto dannoso. Solo dal registro di contabilità è rilevabile l’incidenza che le varie vicende potranno avere sui costi dell’appalto e per il committente e per l’appaltatore”.
Ove anche, come prospettato dalle parti convenute in ipotesi fossero da considerare opere extracontrattuali, ai sensi dell’art. 344 della l. 20.03.1865 n. 2248 all. F, era necessario un nuovo impegno di spesa ed un autonomo contratto, ad oggetto tipologie di opere e compensi spettanti all’appaltatore, dovendo ricorrere, a pena di nullità ed improduttività di effetti, un atto adottato dall’organo rappresentativo esterno dell’ente, il solo legittimato a stipulare in nome e per conto di esso.
Sicché vi è improponibilità della domanda ex art. 2041 c.c. rivolta all’ente locale per opere e lavori commissionati senza alcun previo impegno di spesa né copertura finanziaria, come disposto dal previgente art. 23, comma 4, del D.L. 66 del 1989 convertito nella legge n. 144 del 1989 (norme più volte modificate ed infine cristallizzate negli artt. 191 e 194 del d.lgs. n. 267 del 2000, sempre in armonia con il dettato dell’art. 23 D.L. 66/1989). La improponibilità deriva dal fatto che le norme, impositive di sole azioni dirette nei confronti del funzionario deliberante, hanno fatto venir meno la necessaria residualità dell’azione ex art. 2041 c.c. nei riguardi dell’ente locale.
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L’art. 1, comma 1–ter della l. n. 20/1994 dispone che “nel caso di deliberazioni di organi collegiali la responsabilità si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso voto favorevole. Nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l’esecuzione”.
Pertanto, ribadisce il Collegio, che l’atto dannoso, ossia il riconoscimento del debito fuori bilancio, rientra tra le competenze dell’organo politico (art. 194 d.lgs. 267/2000) e non in quella propria dell’organo tecnico (che in ogni caso è responsabile in quanto proponente).
Nella fattispecie, non si è trattato di ratificare o approvare un atto proprio di altro organo (tecnico), ma di adottare un atto di riconoscimento di debito fuori bilancio, rientrante appieno nella propria sfera di competenza e responsabilità.
L’aver autorizzato l’accollo della spesa risulta, pertanto, decisione poco avveduta e assolutamente antigiuridica e, in ordine al profilo psicologico, va sicuramente affermata la colpa grave sia degli amministratori (rectius dell’apparato politico), sia dei funzionari amministrativi che hanno espresso parere favorevole all’adozione del provvedimento, in quanto la normativa di riferimento era assolutamente intellegibile, non sussistendo i presupposti per riconoscere quanto richiesto (non essendo state avanzate riserve o richieste di alcun genere sui lavori extracontratto per i quali non era stata coinvolta la direzione dei lavori o l’Amministrazione comunale).
Pertanto va affermata la colpa grave degli odierni convenuti in forza dei differenti ruoli rivestiti nell’ambito del Comune e della palese erroneità dell’atto nell’ambito delle rispettive competenze.
Il pagamento di lavori esulanti dal contratto, decisi in piena autonomia dall’impresa senza coinvolgimento dell’Amministrazione in mancanza della richiesta di pagamento durante la loro effettuazione o l’apposizione di riserve, determina una anomala richiesta di pagamento (a distanza di cinque anni dall’ultimo pagamento afferenti al lavori), e tale anomalia non poteva trovare “copertura” attraverso il riconoscimento di un debito fuori bilancio.
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Nel novero dei soggetti che hanno avuto un apporto causale più rilevante nella causazione del danno (pari al 70% dello stesso) va anche ritenuto responsabile il segretario comunale che aveva, ai sensi dell’art. 97 d.Lgs. n. 267/2000, il dovere di esercitare compiti di “assistenza giuridico amministrativa” ed era tenuto a segnalare l’illegittimità di un atto palesemente in contrasto con i principi in tema di contrattualistica pubblica, tanto più che non vi era in atti alcuna controversia, giudiziaria o stragiudiziale, che potesse indurre ad indirizzare verso una decisione (il riconoscimento del debito fuori bilancio) costituente un minor danno a fronte di ipotetici esborsi a seguito della soccombenza in giudizio.

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La Procura contesta agli odierni convenuti di aver espresso voto favorevole –o di aver consentito– alla legittimità del pagamento senza rilevare, nonostante le specifiche competenze istituzionali, l’intervenuta decadenza.
Osserva il Collegio che i lavori oggetto della presente controversia –determinativi del pagamento– non rientravano tra quelli oggetto di appalto e la loro realizzazione era stata decisa in piena autonomia dall’impresa, senza alcun coinvolgimento istituzionale della stazione appaltante o della direzione dei lavori.
Né sussisteva la presenza di apposite riserve negli atti adottati nelle varie fasi di esecuzione dell’appalto.
In altri termini l’impresa aveva deciso autonomamente e contra legem –vista la normativa di settore-, in assenza di richiesta o autorizzazione dell’Amministrazione comunale committente di effettuare lavori che esulavano dall’opus appaltato.
La normativa in tema di opere pubbliche preclude –in via generale– all’appaltatore la possibilità di operare con tali modalità pur, se in ipotesi, al fine di realizzare interventi caratterizzati da intrinseca utilità.
In siffatto modo l’art. 342, comma primo, della legge sui lavori pubblici (all. F) 20.03.1865 n. 2248, applicabile nella specie, impedisce in via generale all’appaltatore di apportare “variazioni o addizioni di sorta al lavoro assunto senza averne ricevuto l’ordine per iscritto dall’ingegnere direttore”, ed in seguito si aggiunge che “mancando una tale approvazione gli appaltatori non possono pretendere alcun aumento di prezzo od indennità per le variazioni od addizioni avvenute, e sono tenuti ad eseguire senza compenso quelle riforme che in conseguenza l’Amministrazione credesse opportuno di ordinare, oltre il risarcimento dei danni recati”.
Nella stessa direzione l’art. 134 del d.P.R. 21.12.1999 n. 554 dispone che “nessuna variazione o addizione al progetto approvato può essere introdotta dall’appaltatore se non è disposta dal direttore dei lavori e preventivamente approvata dalla stazione appaltante nel rispetto delle condizioni e dei limiti indicati dal’art. 25 della legge. Il mancato rispetto di tale disposizione non dà titolo al pagamento dei lavori non autorizzati e comporta la rimessione in pristino, a carico dell’appaltatore, dei lavori e delle opere nella situazione originaria secondo le disposizioni del direttore dei lavori”.
I regimi derogatori che si sono succeduti nel tempo non hanno mai permesso la possibilità di variazioni unilaterali dell’appaltatore, senza che questi ne avesse fatto riserva (sulla necessità di una tempestiva iscrizione di riserva, pena la decadenza del diritto al pagamento per i maggiori costi delle opere eseguite e preclusione anche dell’azione ai sensi dell’art. 2041 c.c.. cfr. Corte Cassazione 12.09.2003 n. 13440) o prescindendo dal coinvolgimento della direzione dei lavori.
Il Giudice di Legittimità ha, pertanto, più volte ribadito che “in materia di appalti l’onere dell’iscrizione nel registro di contabilità (di cui al RD n. 350 del 1895) condiziona la tutelabilità delle pretese dell’appaltatore non accolte dalla committente PA in ordine alle partite di lavoro eseguite": in termini C. Cass. Sez. I 4851/1997.
Vieppiù il Giudice di Legittimità ha statuito che “non è poi esatto che l’appaltatore abbia l’onere di iscrivere la riserva per maggiori compensi pretesi soltanto al momento della scadenza contrattuale prevista …. In quanto dal combinato disposto degli artt. 53 e 54 r.d. n. 350 del 1895… si ricava la regola assoluta ed inderogabile che l’appaltatore che richieda maggiori compensi, rimborsi o indennizzi, per qualsiasi titolo e in relazione a qualsiasi situazione nel corso dell’esecuzione dell’opera, è tenuto a iscrivere nel registro di contabilità la riserva “immediatamente” e quindi contestualmente all’insorgenza e percezione del fatto dannoso. Solo dal registro di contabilità è rilevabile l’incidenza che le varie vicende potranno avere sui costi dell’appalto e per il committente e per l’appaltatore”: cfr. Corte Cass., I Sez. Civ. 07.10.2010 n. 20828.
Ove anche, come prospettato dalle parti convenute in ipotesi fossero da considerare opere extracontrattuali, ai sensi dell’art. 344 della l. 20.03.1865 n. 2248 all. F, era necessario un nuovo impegno di spesa ed un autonomo contratto, ad oggetto tipologie di opere e compensi spettanti all’appaltatore, dovendo ricorrere, a pena di nullità ed improduttività di effetti, un atto adottato dall’organo rappresentativo esterno dell’ente, il solo legittimato a stipulare in nome e per conto di esso: in termini Cass. I Sez. 28.02.2013 n. 5020.
Sicché vi è improponibilità della domanda ex art. 2041 c.c. rivolta all’ente locale per opere e lavori commissionati senza alcun previo impegno di spesa né copertura finanziaria, come disposto dal previgente art. 23, comma 4, del D.L. 66 del 1989 convertito nella legge n. 144 del 1989 (norme più volte modificate ed infine cristallizzate negli artt. 191 e 194 del d.lgs. n. 267 del 2000, sempre in armonia con il dettato dell’art. 23 D.L. 66/1989). La improponibilità deriva dal fatto che le norme, impositive di sole azioni dirette nei confronti del funzionario deliberante, hanno fatto venir meno la necessaria residualità dell’azione ex art. 2041 c.c. nei riguardi dell’ente locale: cfr. Cass. 5020/2013 e 4216 del 2012).
Tanto ribadito in ordine al fatto causativo del danno erariale e ritenuta la sussistenza del rapporto di servizio, le parti convenute –apparato politico (i consiglieri comunali, il sindaco e l’assessore comunale)- invocano la cd. esimente politica, ai sensi dell’art. 1, comma 1–ter della l. n. 20/1994, avendo gli stessi fatto affidamento sull’istruttoria svolta dagli uffici tecnici comunali competenti preposti al momento gestorio amministrativo.
Osserva il Collegio che la norma invocata dispone che “nel caso di deliberazioni di organi collegiali la responsabilità si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso voto favorevole. Nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l’esecuzione”.
Pertanto, ribadisce il Collegio, che l’atto dannoso, ossia il riconoscimento del debito fuori bilancio, rientra tra le competenze dell’organo politico (art. 194 d.lgs. 267/2000) e non in quella propria dell’organo tecnico (che in ogni caso è responsabile in quanto proponente).
Non si è trattato, quindi, di ratificare o approvare un atto proprio di altro organo (tecnico), ma di adottare un atto di riconoscimento di debito fuori bilancio, rientrante appieno nella propria sfera di competenza e responsabilità.
L’aver autorizzato l’accollo della spesa risulta, pertanto, decisione poco avveduta e assolutamente antigiuridica e, in ordine al profilo psicologico, va sicuramente affermata la colpa grave sia degli amministratori (rectius dell’apparato politico), sia dei funzionari amministrativi che hanno espresso parere favorevole all’adozione del provvedimento, in quanto la normativa di riferimento era assolutamente intellegibile, non sussistendo i presupposti per riconoscere quanto richiesto (non essendo state avanzate riserve o richieste di alcun genere sui lavori extracontratto per i quali non era stata coinvolta la direzione dei lavori o l’Amministrazione comunale): cfr. Corte conti Sez. III Centr. 12.05.2008 n. 161 e 27.12.2011 n. 888.
Pertanto va affermata la colpa grave degli odierni convenuti in forza dei differenti ruoli rivestiti nell’ambito del Comune e della palese erroneità dell’atto nell’ambito delle rispettive competenze.
Il pagamento di lavori esulanti dal contratto, decisi in piena autonomia dall’impresa senza coinvolgimento dell’Amministrazione in mancanza della richiesta di pagamento durante la loro effettuazione o l’apposizione di riserve, determina una anomala richiesta di pagamento (a distanza di cinque anni dall’ultimo pagamento afferenti al lavori), e tale anomalia non poteva trovare “copertura” attraverso il riconoscimento di un debito fuori bilancio.
L’adozione di un atto avente particolare rilievo finanziario e contabile determina pertanto una più rilevante responsabilità per il maggior rigore che avrebbero dovuto avere i convenuti cui si imputa il 70% del danno finanziario, ed in specie i sigg.ri Michele Bello, Enzo Bianchi, Franco Dringoli, Giuseppe Fanfani e Valter Tirannanzi.
Il sig. Giuseppe Fanfani, sindaco –e come tale organo di sovrintendenza al funzionamento dei servizi e degli uffici-, ha espresso voto favorevole sulla delibera C.C. n. 147 del 26.07.2007 nonostante la palese violazione della stessa per la normativa in tema di contrattualistica pubblica, ed essendo o dovendo essere a conoscenza della non debenza del pagamento dei lavori dell’impresa a fronte dell’assenza di apposizioni di riserve: cfr. questa Sezione 617/2009.
Parimenti responsabile è il sig. Franco Dringoli, assessore competente, per le medesime considerazioni mosse nei confronti del sindaco, cioè per la violazione palese della normativa in tema di contrattualistica pubblica, ma anche per le sue attribuzioni specifiche in materia di lavori pubblici.
Responsabile è anche il sig. Valter Tirinnanzi, direttore dei lavori, che con comportamento gravemente omissivo non ha vigilato adeguatamente sulla legittima esecuzione dei lavori oggetto dell’appalto con specifica responsabilità nell’aver consentito variazioni ed integrazioni al contratto approvato dall’Amministrazione, ma anche per non aver rilevato la tardività delle richieste.
Fondata appare anche la richiesta di condanna del sig. Enzo Bianchi, responsabile dell’Area Servizi Infrastrutture che ha avuto un ruolo rilevante nella formazione del provvedimento contestato, poi sottoposto all’approvazione del Consiglio Comunale.
Infine nel novero dei soggetti che hanno avuto un apporto causale più rilevante nella causazione del danno (pari al 70% dello stesso) va anche ritenuto responsabile il segretario comunale che aveva, ai sensi dell’art. 97 d.Lgs. n. 267/2000, il dovere di esercitare compiti di “assistenza giuridico amministrativa” ed era tenuto a segnalare l’illegittimità di un atto palesemente in contrasto con i principi in tema di contrattualistica pubblica, tanto più che non vi era in atti alcuna controversia, giudiziaria o stragiudiziale, che potesse indurre ad indirizzare verso una decisione (il riconoscimento del debito fuori bilancio) costituente un minor danno a fronte di ipotetici esborsi a seguito della soccombenza in giudizio: in termini Sezione giurisdizionale Regione Calabria n. 208/2006.
Tutti i soggetti con il loro comportamento hanno contribuito, a parere del Collegio in pari misura, all’assunzione di un onere finanziario da parte del Comune in assenza di un obbligazione giuridicamente rilevante, non rilevando (o non facendo rilevare) la incontestabile esistenza della decadenza realizzata dall’impresa, ritenuta l’assenza di riserve da parte dell’appaltatore.
Né rileva, ai fini della individuazione delle responsabilità, l’argomentazione difensiva secondo cui l’inosservanza della prescritte procedure sarebbe dovuta alla “extracontrattualità” dei lavori eseguiti, atteso che non viene contestato che questi non fossero compresi nel contratto, ma che essi, benché connessi e strumentali a quelli appaltati, siano stati pagati con procedura irregolare: cfr. questa Sezione 16.11.2009 n. 617
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana, sentenza 17.06.2013 n. 206).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONei Comuni. Deliberazione della Corte dei conti del Veneto. Senza piano esecutivo di gestione niente premi.
PERCORSO OBBLIGATO/ La mancata adozione del Peg e del piano-performance impedisce di erogare al personale i compensi legati ai risultati.

Senza piano esecutivo di gestione e piano della performance non è possibile erogare la retribuzione di risultato e il salario accessorio ai dipendenti degli enti locali.
Sono queste le conclusioni del parere 17.06.2013 n. 161 della Corte dei conti del Veneto, Sez. di controllo.
Un Comune, a causa del commissariamento e nonostante una forte attività di programmazione, non è riuscito ad approvare definitivamente il Peg del 2012. Nei primi mesi del 2013 è sorto quindi il dubbio se erogare o meno i compensi relativi alla retribuzione di risultato dei dipendenti incaricati di posizione organizzativa. I giudici contabili richiamano innanzitutto le modifiche apportate dalla legge 174/2012 che ha unificato nel Peg anche il piano dettagliato degli obiettivi e il piano della performance. Il pacchetto dei documenti deve quindi contenere tutti gli elementi sia finanziari, sia di indirizzo e operativi, per l'attribuzione della produttività individuale e collettiva, anche con riferimento alla valutazione e incentivazione, legata alle performance generali oltre che individuali. La mancata adozione del Peg comporta di conseguenza un'attività amministrativa carente nel perseguire gli obiettivi, ma anche priva di un sistema in grado di assicurare la legittima distribuzione del salario accessorio. La conclusione è inevitabile: non è possibile arrivare a erogare compensi di risultato e di produttività con strumenti diversi dalle assegnazioni previste nel Peg.
Per quanto riguarda il fondo delle risorse decentrate dei dipendenti, la Corte si spinge ad affermare che senza il piano esecutivo di gestione, appare dubbiosa la possibilità di procedere a un impegno di risorse relative al trattamento accessorio. Non ci sono però considerazioni sulla diversa natura tra fondo di parte stabile (che non presenta elementi di discrezionalità ai fini dello stanziamento) e fondo di parte variabile.
Sulla possibilità/obbligo di erogare comunque almeno il 10% della retribuzione di posizione quale premio di risultato agli incaricati di posizione organizzativa, i magistrati contabili sono particolarmente severi. La somma, anche se prevista contrattualmente, non può essere corrisposta nel caso in cui al dipendente non siano stati assegnati specifici obiettivi e risultati da conseguire in relazione all'incarico e questo deve avvenire preventivamente. È comunque esclusa ogni possibilità di intervento in sanatoria in via successiva. Al di là del caso specifico, sono evidenti le difficoltà operative legate ai continui rinvii del termine ultimo di approvazione del bilancio di previsione, condizione insuperabile per l'adozione del Peg (articolo Il Sole 24 Ore del 24.06.2013).

APPALTI SERVIZI: Servizi ict, la consulenza è out. La stabile organizzazione richiede la gara d'appalto. La Corte dei conti Lombardia fornisce indicazioni su come esternalizzare i servizi.
È da qualificare come appalto di servizi e non consulenza l'attività di elaborazione di dati informatici e flussi informativi, finalizzati allo snellimento delle procedure.
La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, col parere 07.06.2013 n. 236 torna sulla delicata questione della distinzione tra appalto e consulenze, fornendo indicazioni preziose rispetto ai presupposti da rispettare per esternalizzare i servizi.
Il parere prende le mosse dal quesito avanzato da un comune, che aveva chiesto se un servizio finalizzato all'elaborazione di dati informatici, bonifica archivi e svolgimento di attività istruttorie finalizzate alla gestione dell'ufficio tributi potesse configurarsi come consulenza e, dunque ricadere nella disciplina dell'articolo 7, comma 6, del dlgs 165/2001, invece che in quella del codice dei contratti.
La sezione in primo luogo evidenzia bene che, a prescindere dalla qualificazione (consulenza o appalto) del rapporto che regola l'esternalizzazione, occorre avere cura di dimostrare la sussistenza di ragioni giustificatrici dell'assegnazione delle attività lavorative all'esterno.
Vi sono, dunque, valutazioni preliminari da svolgere, da porre come base della motivazione della conseguente scelta gestionale.
In primo luogo, occorre evidenziare che l'oggetto della prestazione richiesta a terzi «non rientri nelle funzioni ordinarie e nelle mansioni istituzionali» che devono essere necessariamente svolte dalle strutture amministrative dell'ente, ad opera dei dipendenti preposti.
In secondo luogo, occorre obbligatoriamente accertare la carenza di risorse umane, ma anche strumentali, tale da rendere necessario sopperire ai fabbisogni lavorativi, mediante l'esternalizzazione.
Secondo il parere, proprio in relazione all'obbligo di motivare la necessità dell'amministrazione di rivolgersi all'esterno per acquisire prestazioni non ascritte alle obbligatorie mansioni istituzionali, un servizio come il riordino degli archivi e lo svolgimento di attività istruttorie dell'ufficio tributi non può drasticamente essere affidato a terzi. Infatti, si tratta di mansioni istituzionali, spettanti in via ordinaria agli uffici, sicché l'assegnazione di tali attività all'esterno comporterebbe un'ingiustificata duplicazione delle funzioni ordinarie e, dunque, una spesa che potrebbe costituire danno.
Invece, l'elaborazione e distribuzione nel sistema informativo di dati informatici può configurarsi come una prestazione non necessariamente configurabile come ordinaria.
Per la Corte dei conti, la complessità delle attività svolte ed il risultato da garantire, poiché richiedono un'organizzazione stabile, fanno sì che il contratto non possa configurarsi come consulenza, bensì come appalto di servizi.
Non convince, tuttavia, il percorso cui la Corte dei conti giunge alla corretta conclusione. Il parere, infatti, si rifà ancora alla distinzione tra la prevalenza dell'elemento personalistico della prestazione, che caratterizzerebbe la consulenza o comunque l'incarico di prestazione d'opera professionale, distinguendole dall'appalto, che richiede, invece, una stabile organizzazione imprenditoriale di mezzi e servizi. Tali distinzioni, ricavate dall'ordinamento civile italiano, risultano ormai superate dalla normativa europea di regolazione dei servizi e dallo stesso codice dei contratti, ai sensi del quale è operatore economico anche la persona fisica, se svolge le prestazioni di servizi in via continuativa nel mercato.
La reale differenza tra consulenze e appalti di servizi non va ricavata dalle caratteristiche soggettive del prestatore, ma dal risultato atteso.
Se si tratta di un prodotto finale, che l'ente si limita a utilizzare così com'è, è un appalto. Nel caso di un sistema di data warehousing risultato è appunto l'organizzazione dei dati in un sistema informativo funzionale e solido, assicurata da un appaltatore di servizi.
Laddove, invece, il risultato dell'incaricato esterno sia un risultato intermedio, allora si tratta di consulenza o collaborazione.
Il caso dei «pareri», prodotto tipico delle consulenze, è emblematico: il parere non chiude l'istruttoria, ma viene utilizzato dagli uffici per produrre essi, col provvedimento finale, il prodotto finale (articolo ItaliaOggi del 28.06.2013).

INCARICHI PROFESSIONALIConsulenze p.a., vietato scegliere sempre gli stessi. Corte conti: discrezionalità e trasparenza a braccetto.
Nella scelta di avvalersi di consulenti esterni, appare estremamente incongruo nella fase valutativa delle candidature che la pubblica amministrazione non esprima una specifica preferenza in ordine al titolo di studio posseduto, ma destini specifica preparazione nel settore in cui si richiede detta consulenza. Infatti, operando in tal modo, l'amministrazione pubblica finisce per giovarsi dei medesimi soggetti. Lo scopo cui deve tendere l'agire pubblico è quello di assicurarsi il miglior profilo possibile, attraverso un giudizio complessivo sull'intero curriculum del candidato e non che un singolo aspetto sia sufficiente a sorreggere l'intera valutazione. Anzi, nel settore dei fondi europei, si assiste sempre più a una costante reiterazione di apporti professionali esterni all'organico della p.a., a scapito degli uffici già preposti e che sono in grado di curare i predetti progetti.

È quanto ha affermato la Corte dei conti, sezione centrale di controllo di legittimità sugli atti delle amministrazioni dello stato, nel testo della recente deliberazione 04.06.2013 n. 10, con cui ha ricusato il visto e la conseguente registrazione ad alcuni contratti di consulenza esterna sottoscritti dal dipartimento per le pari opportunità, nell'ambito di programmi operativi co-finanziati con fondi europei.
Nei casi in esame, le doglianze della magistratura contabile si sono soffermate sui requisiti ritenuti necessari per l'espletamento dell'attività lavorativa. Posto che il dipartimento individua i soggetti attraverso l'immissione delle autocandidature in una «long list», è il passo successivo che desta perplessità. In pratica, se da un lato il dipartimento non esprime una specifica preferenza in ordine al titolo di studio (e quindi i collaboratori selezionati sono muniti di diverso diploma di laurea), dall'altro si richiede, invece, una specifica preparazione nel settore delle «pari opportunità». Specializzazione, scrive la Corte, che possiedono solo coloro che abbiano già ricoperto lo stesso tipo di consulenza. Ne consegue che in tal modo l'amministrazione «finisce per giovarsi, in modo più o meno continuo, sempre degli stessi soggetti».
Se tale modus operandi può farsi rientrare nella discrezionalità dell'azione amministrativa, è altresì pacifico che la stessa deve muoversi entro i binari del buon agire, della razionalità e della trasparenza. L'obiettivo, ovvero l'interesse, che l'amministrazione pubblica deve perseguire è quello di pervenire all'individuazione delle migliori risorse disponibili che, non necessariamente, coincidono con chi ha già operato presso la stessa p.a.
Richiedere e attribuire un ulteriore punteggio a una specifica professionalità nella materia oggetto della consulenza, pone, a detta della Corte, in una situazione «deteriore» tutti coloro che, pur muniti di titoli culturali di elevato valore e di adeguate esperienze professionali, non abbiano già svolto tale specifica attività. Lo scopo della p.a. è quello di assicurarsi il miglior profilo professionale, attraverso un giudizio che implichi la valutazione delle complessive qualità dei soggetti, evitando che un singolo aspetto di cui si compone il curriculum, sia sufficiente a sorreggere il giudizio complessivo.
A questo quadro, la Corte aggiunge che, nel caso di fondi europei, «si assiste a una costante reiterazione di apporti professionali esterni, vale a dire una sorta di provvista parallela di personale», a scapito di una struttura stabile dell'ufficio che è in grado di curare direttamente tali progetti (articolo ItaliaOggi del 26.06.2013).
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Massima deliberazione 04.06.2013 n. 10.
In tema di contratto di collaborazione coordinata e continuativa ai sensi dell’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, è consentita –in sede di controllo di legittimità- la verifica circa la rispondenza ai principi di razionalità, trasparenza, non-discriminazione dei criteri adottati dalla Commissione esaminatrice per la selezione dei candidati.
Nel caso di specie, mentre l’Amm.ne non esprimeva alcuna preferenza in ordine al titolo di studio necessario per l’espletamento dell’incarico, attribuiva esclusiva rilevanza all’esperienza maturata nello specifico settore, in modo tale da privilegiare coloro che avessero ricoperto lo stesso tipo di incarico.
La Sezione ha ritenuto che lo scopo cui deve tendere l’Amministrazione è quello di reperire il soggetto dotato del miglior profilo professionale attraverso un giudizio atto a ponderare le complessive qualità degli scrutinandi ed evitando che, un singolo aspetto di cui si compone il curriculum, possa sorreggere il giudizio complessivo.
Inoltre, il corretto utilizzo delle collaborazioni esterne, secondo il modello delineato dall’art. 7, comma 6 citato, postula un ambito temporale limitato, circostanza che non ricorre nel caso esaminato ove, nello specifico settore dei fondi europei, si assiste ad una costante reiterazione di apporti professionali esterni a scapito di una progressiva e adeguata strutturazione dell’Ufficio in grado di curare tale attività.
Per quanto attiene la retribuzione stabilita nei suddetti contratti di collaborazione, la Sezione ha stabilito che deve essere evidenziato l’iter logico seguito dall’Amm.ne per l’attribuzione del massimale di costo, posto che la circolare 2/2009 del Ministero del Lavoro (disciplinante il settore ed in base alla quale si era autovincolata), stabilisce che esso è “soggetto a contrattazione tra le parti in relazione alle specifiche competenze… (omissis) dei soggetti chiamati a svolgere le attività”.

NEWS

ENTI LOCALI - VARISì ai box autovelox.
Box autovelox ammessi purché siano visibili e segnalati. Sono valide, infatti, le multe elevate con i misuratori di velocità installati negli armadietti colorati disseminati anche nei centri abitati.

Lo ha confermato il Ministero dei trasporti con il parere n. 1561/2013.
La questione dei box autovelox, sempre più diffusi con una chiara vocazione dissuasiva, non incontra molti limiti operativi a parere dell'organo centrale.
I dispositivi omologati possono essere installati anche solo saltuariamente nei box, ma per questo gli armadietti non devono essere rimossi a fine servizio, specifica innanzitutto la nota.
In centro abitato i dispositivi possono essere resi operativi solo con la necessaria presenza del vigile nelle immediate vicinanze, prosegue il parere. Ma non serve che l'agente sia visibile a fianco del box. Spiega, infatti, il ministero che l'obbligo di visibilità deve essere soddisfatto dalla postazione e dal relativo segnale di avvertimento sia preventivo che posizionato a ridosso del misuratore (articolo ItaliaOggi del 29.06.2013).

ENTI LOCALI  - VARI: Telecamere intelligenti per i capannoni isolati.
Se l'impianto o il capannone è isolato, si possono installare telecamere intelligenti.

Il garante della privacy, con il provvedimento n. 218/2013, ha accolto le richieste di un gruppo industriale di installare un sistema di videosorveglianza dotato di riconoscimento dei movimenti, per proteggere cinque complessi fotovoltaici posizionati in zona isolate.
I gestori degli impianti hanno chiesto di poter utilizzare telecamere dotate di «motion control» in grado di rilevare automaticamente eventuali movimenti all'interno dell'area ripresa e di allertare immediatamente il personale di controllo. Nei casi di videosorveglianza con motion detection è prescritta la richiesta di verifica preliminare al garante, che nel caso concreto ha dato il via libera con l'obbligo, però, di adottare alcune tutele per la privacy.
Le telecamere devono, in casi come questo, essere segnalate e devono inquadrare solo le aree interne dell'impianto e l'area immediatamente attigua la recinzione. L'accesso via internet alle immagini conservate nei computer degli impianti potrà avvenire solo tramite connessioni protette (con rete VPN) e trasmissioni criptate. Va rispettato anche lo Statuto dei lavoratori e, in particolare, il divieto di controllo a distanza: prima di avviare l'attività di videosorveglianza, ci vuole l'accordo sindacale o in mancanza si deve chiedere il nulla osta alla Direzione provinciale del lavoro.
Con un secondo provvedimento (162/2013) il garante ha stabilito che le agenzie per il lavoro, in occasione di colloqui conoscitivi, non possono acquisire e conservare copia dei documenti di identità, utilizzati per identificare le persone, a meno che non sia previsto da specifiche norme. L'agenzia può procedere alla corretta identificazione degli aspiranti lavoratori chiedendo l'esibizione di un documento di identità ed eventualmente annotandone gli estremi. Mentre deve, invece, ritenersi eccedente acquisire copia del documento stesso.
Le copie dei documenti di identità contengono dati personali, come le fotografie dell'interessato, le caratteristiche fisiche e lo stato civile, non pertinenti alle finalità per le quali venivano raccolti (presentazione del curriculum e colloquio conoscitivo). Tra l'altro occorre evitare che ci siano rischi di furto di identità. Vietato, dunque, alla società di conservare le copie dei documenti di identità dei candidati (articolo ItaliaOggi del 29.06.2013).

PATRIMONIOImmobili p.a., il Demanio stringe i costi.
Agenzia del demanio al lavoro per il contenimento dei costi degli immobili della p.a. Grazie a una norma inserita nel recente ddl semplificazioni, le amministrazioni avranno l'obbligo di comunicare il proprio fabbisogno di spazio (si veda ItaliaOggi del 19.06.2013). Cambierà il parametro di riferimento: dal concetto di metro quadro a persona si andrà verso il costo totale a persona (total occupancy cost), includendo quindi anche gli oneri indiretti, compresi quelli energetici.

A spiegarlo a ItaliaOggi è Stefano Scalera, direttore del Demanio, a margine di un convegno sulle società di investimento immobiliare quotate (Siiq), che si è tenuto giovedì a Milano.
«L'attività si articola in due fasi», afferma Scalera, «la prima è la raccolta dati da parte delle amministrazioni. A oggi, nonostante l'adempimento sia volontario, abbiamo avuto un riscontro da circa il 47% degli enti. La seconda fase sarà invece costituita dal benchmarking tra le diverse amministrazioni, relativamente alle spese collegate agli immobili. Scendere nel dettaglio delle singole voci è indispensabile per una vera spending review».
Un processo senz'altro articolato, ma che finora ha consentito allo stato di risparmiare circa 50 milioni di euro di sole locazioni. Al centro dei lavori c'erano le Siiq e i nuovi veicoli societari introdotti dall'articolo 33-bis del dl n. 98/2011, che possono beneficiare di un trattamento fiscale analogo. Il binomio real estate-finanza è ancora debole: mentre alla borsa di Parigi l'industria immobiliare rappresentata vale il 5% del comparto, in Italia è appena lo 0,2%.
Un fenomeno che rispecchia la scarsa propensione dei soggetti nazionali ad approdare sui mercati, dal momento che «solo il 20% del pil è quotato», evidenzia Massimo Tononi, presidente Borsa Italiana. Secondo il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, «l'immobiliare è il settore che, forse più di altri, deve seguire trasparenza, regole di governance chiare e moralità dei protagonisti. Contemporaneamente a qualche aggiustamento legislativo andrà operata una selezione accurata dei partecipanti al mercato».
Alessandro Balp, partner dello studio Bonelli Erede Pappalardo, ha invece passato in rassegna le campagne di dismissione del mattone pubblico negli altri paesi europei, «dove negli ultimi dieci anni sono stati privatizzati immobili per circa 25 miliardi di euro, soprattutto in Inghilterra, Germania e Olanda. Le operazioni non hanno riguardato solo cessioni, ma sono state strette anche partnership pubblico-privato per la manutenzione straordinaria e la valorizzazione dei fabbricati pubblici non utilizzati» (articolo ItaliaOggi del 29.06.2013).

APPALTIBandi, costi di pubblicità chiari. Gravano sulle imprese, quindi serve un'indagine di mercato. Documento della Conferenza delle regioni conferma l'obbligo di pubblicazione sui giornali.
I costi per la pubblicazione dei bandi di gara sui quotidiani dovranno essere chiaramente specificati negli avvisi, in considerazione del fatto che si tratta di oneri posti a carico dell'impresa che si aggiudica l'appalto. E proprio per garantire il miglior prezzo nei confronti delle aziende, sarà opportuno che le p.a. effettuino preventivamente un'indagine di mercato. Se poi la gara dovesse andare deserta o concludersi senza l'individuazione di un vincitore, gli oneri di pubblicità legale sui quotidiani resteranno a carico delle stazioni appaltanti.
A chiarirlo è la Conferenza delle regioni che ha elaborato le linee guida in materia di trasparenza e pubblicità degli appalti pubblici.
Una sorta di vademecum, predisposto da Itaca (Istituto per l'innovazione e trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale), l'organo tecnico del parlamentino dei presidenti di regione, che fornisce una ricognizione puntuale delle norme vigenti in materia di pubblicità e di trasparenza sui contratti pubblici, anche alla luce della produzione normativa intervenuta di recente.
Il documento conferma quanto da sempre sostenuto da ItaliaOggi: e cioè che le p.a. devono continuare a pubblicare i bandi di gara sui quotidiani per effetto di quanto previsto dal recente decreto legislativo n. 33/2013 in materia di obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni.
L'art. 37, comma 1, del dlgs richiama infatti tutte le disposizioni del Codice dei contratti pubblici (dlgs n. 163/2006) in materia di bandi, avvisi e inviti (articoli 63, 65, 66, 122, 124, 206 e 223) e quindi, a giudizio dei governatori, ne «conferma la piena efficacia». Un ulteriore tassello a favore dell'obbligo di pubblicità è poi rappresentato dalla decisione di porre a carico delle imprese aggiudicatarie gli oneri sostenuti dalle p.a. per la pubblicazione sui quotidiani. Tali oneri dovranno essere rimborsati alle stazioni appaltanti nel termine di 60 giorni dall'aggiudicazione. La novità, introdotta dal cosiddetto «decreto crescita 2.0» (dl 179/2012) e operativa «per tutti i bandi e gli avvisi pubblicati successivamente al 01.01.2013», richiama nuovamente gli obblighi previsti dal Codice dei contratti pubblici (articoli 66 e 122) e dunque ne conferma la vigenza.
Fatta chiarezza sul quadro normativo in vigore, il documento approvato dalla Conferenza delle regioni raccomanda alcune cautele da adottare da parte degli enti pubblici. Nei bandi bisognerà citare la norma che pone gli oneri a carico dell'aggiudicatario e individuare in modo specifico i costi dopo un'attenta analisi di mercato. In caso di gara deserta o senza vincitore gli oneri resteranno in capo alla stazione appaltante.
E qualora la gara preveda la suddivisione dell'affidamento in più lotti, in assenza di uno specifico dettato normativo, la soluzione individuata dalla Conferenza dei governatori prevede che «i costi debbano essere ripartiti tra gli aggiudicatari in proporzione all'importo a base d'asta di ciascun lotto» (articolo ItaliaOggi del 29.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Patentino per certificare. Edifici, attestato energetico da tecnici abilitati. In Gazzetta il dpr sui corsi di formazione obbligatori. Si parte dal 12 luglio.
Definiti i criteri di accreditamento e i requisiti professionali per i tecnici della certificazione energetica degli edifici. Dal 12 luglio prossimo, i tecnici dovranno frequentare specifici corsi di formazione per la certificazione energetica della durata minima di 64 ore, al fine di ottenere un attestato di frequenza.
E solo costoro potranno rilasciare il nuovo attestato di prestazione energetica (Ape), che sostituisce il vecchio Attestato di certificazione energetica (Ace), in base a quanto previsto dal dl 63/2013 (da ultimo si veda ItaliaOggi di ieri). I corsi saranno tenuti, a livello nazionale, da università, enti di ricerca, ordini e collegi professionali, a livello regionale dalle regioni e province autonome e da altri soggetti autorizzati dalle regioni.

Questo è quanto prevede il D.P.R. 16.04.2013 n. 75 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 27.06.2103 n. 149.
Il regolamento è composto di 7 articoli e di un allegato, entrerà in vigore il prossimo 12 luglio. Il regolamento -emanato ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera c), del dlgs 192/2005- consentirà di svolgere l'attività di certificazione energetica ai seguenti soggetti: i tecnici abilitati, sia dipendenti di enti pubblici o di società di servizi pubbliche o private che liberi professionisti, in possesso di almeno uno dei seguenti titoli: laurea in architettura, ingegneria, agraria, scienze forestali, diploma di perito industriale, geometra, perito agrario; gli enti pubblici o gli organismi di diritto pubblico accreditati che svolgono attività di ispezione del settore edile e degli impianti; le società di servizi energetica (ESCo).
I tecnici dovranno partecipare a specifici corsi di formazione, i cui contenuti minimi sono illustrati nell'allegato 1 al dpr n. 75/2013. Non sono tenuti a partecipare ai corsi di formazione i tecnici iscritti al proprio albo o collegio e in possesso di abilitazione professionale relativa alla progettazione di edifici e impianti asserviti agli edifici stessi, nell'ambito delle specifiche competenze a esso attribuite dalla legislazione vigente.
Nel caso in cui il tecnico non abbia le competenze in tutti i campi (progettazione di edifici e impianti) deve operare in collaborazione con un altro tecnico abilitato, in modo tale che il gruppo di lavoro così costituito abbia tutti le professionalità richieste. Per assicurare la loro indipendenza, i certificatori dovranno dichiarare l'assenza di conflitto di interessi con i progettisti, i costruttori e i produttori di materiali coinvolti nella costruzione/ristrutturazione dell'edificio certificato.
Il regolamento si applicherà nelle Regioni e Province autonome che non hanno una propria disciplina in materia di qualificazione dei certificatori energetici, e comunque fino all'entrata in vigore delle norme regionali. Le Regioni e Province autonome che invece hanno già legiferato su questo tema devono adeguare la propria normativa per renderla coerente con quella la legislazione nazionale.
L'emanazione del regolamento è funzionale alla piena attuazione della direttiva 2002/91/Ce, e in particolare dell'articolo 7, e che, in proposito, la Commissione europea già il 18.10.2006 ha avviato la procedura di messa in mora nei confronti dell'Italia, ai sensi dell'articolo 226 del Trattato Ce (procedura di infrazione 2006/2378) (articolo ItaliaOggi del 29.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: FABBRICATI RURALI/ Accatastamento tardivo. Sanzioni, ma non per tutti. Colpiti gli edifici con ruralità al 30/11.
Le sanzioni per il tardivo accatastamento dei fabbricati rurali valgono solo per gli edifici che, al momento della scadenza del termine del 30.11.2012, erano ancora in possesso dei requisiti di ruralità ed erano ancora iscritti nel catasto terreni.
Il chiarimento è arrivato con la nota 18.06.2013 n. 7092 di prot. del Consiglio Nazionale Geometri che riporta il chiarimento della direzione centrale Catasto e cartografie dell'Agenzia del territorio su richiesta del Consiglio nazionale dei geometri.
Ricordiamo che se il proprietario non ha accatasto i fabbricati rurali il 30.11.2012 può richiedere il pagamento della sanzione ridotta per ravvedimento operoso (dal 1 marzo al 31.11.2013 ) ed è tenuto a versare 129,00 euro per ogni unità immobiliare. Al contrario se il proprietario non richiede il pagamento della sanzione ridotta per «ravvedimento operoso», l'Agenzia provvede a emettere «verbale per irrogazione della sanzione per mancato rispetto del termine», e l'importo minimo da pagare ammonta ad euro 344,00 per unità immobiliare.
La sanzione ridotta va richiesta dal professionista e pagata contestualmente alla presentazione del Docfa. I tecnici del Territorio ricordano che in base all'articolo 13, comma 14-ter, e successive modifiche, del decreto legge 06.12.2011 (manovra salva-Italia) il termine per accatastare i fabbricati rurali al catasto edilizio urbano è scaduto il 30.11.2012.
Le pratiche di accatastamento presentate in data successiva devono quindi essere sanzionate. Il comma 14-ter dell'art. 13 del dl n. 201 del 2011, stabilisce infatti che «i fabbricati rurali iscritti nel catasto dei terreni, devono essere dichiarati al catasto edilizio urbano entro il 30.11.2012, con le modalità stabilite dal decreto del ministro delle finanze 19.04.1994, n. 701». Dato che alcuni uffici territoriali catastali hanno applicato le stesse sanzioni anche per gli accatastamenti tardivi dei fabbricati ex rurali o che avevano perso il requisito di ruralità prima del 30.11.2012, il Consiglio nazionale dei geometri ha richiesto un chiarimento ufficiale.
La Direzione centrale Catasto e cartografia ha puntualizzato e chiarito che la scadenza e le conseguenti sanzioni il ritardo della dichiarazione al catasto edilizio urbano, applicate ai fabbricati rurali che al 30.11.2012 risultavano ancora in possesso dei loro requisiti ed iscritti al catasto terreni. Al contrario, spiega la Direzione centrale catasto e cartografia, le sanzioni non valgono per gli edifici ex rurali o che hanno perso i requisiti di ruralità prima del 30.11.2012.
Concludendo, l'agenzia del Territorio ha quindi ribadito che i fabbricati rurali in possesso del requisito di ruralità dovevano essere accatastati entro il 30.11.2012. Al contrario, i fabbricati ex rurali sono sempre accatastabili entro trenta giorni o dopo cinque anni dal momento in cui perdono i requisiti di ruralità (articolo ItaliaOggi del 29.06.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nei contratti locali risorse decentrate e progressioni. L'aran ha individuato i temi oggetto di contrattazione e le procedure da seguire.
Le materie ammesse alla contrattazione decentrata integrativa sono state ristrette dai vincoli introdotti dal dlgs n. 150/2009, c.d. legge Brunetta. In attesa che le trattative avviate a livello nazionale approdino alla firma di un contratto per tutto il pubblico impiego in cui siano individuati in modo preciso i temi su cui gli enti locali ed i soggetti sindacali possono contrattare a livello locale e quelli su cui sono necessarie altre forme di relazione, l'Aran individua in modo preciso i temi oggetto di contrattazione e le procedure che occorre seguire.
Tra le principali materie di cui la contrattazione collettiva decentrata integrativa può occuparsi si segnala in primo luogo la destinazione delle risorse decentrate, tema che si conferma essere quello di maggiore rilievo, unitamente alla disciplina delle indennità rimesse a questo livello dai contratti nazionali, cioè la produttività, le specifiche responsabilità, il maneggio valori, il disagio, la individuazione delle fattispecie che danno luogo alla erogazione del compenso per il rischio.
Mentre la contrattazione decentrata non deve occuparsi né del turno né dei compensi per le attività svolte in giornate festive, né della reperibilità. Altro importante tema rimesso ai contratti di secondo livello è costituito dalla disciplina delle progressioni economiche, a partire dalla spesa. Ed inoltre si devono disciplinare le modalità di ripartizione dei compensi previsti da specifiche disposizioni di legge.
Per l'Aran sono poche le materie «trattabili dal contratto nazionale, ma la cui trattabilità dovrebbe essere venuta meno a seguito di norme di legge sopravvenute (dlgs n. 150/2009; dlgs n. 141/2011; dl n. 95/2012). La individuazione di queste ultime è avvenuta su base interpretativa, tenuto conto degli orientamenti emanati dai competenti ministeri (si richiamano, al riguardo, le circolari esplicative n. 7/2010, n. 1/2011 e n. 7/2011 del dipartimento della funzione pubblica, nonché la circolare n. 25/2012 della Ragioneria generale dello stato d'intesa con il Dipartimento funzione pubblica».
Non si deve più contrattare in materia di orario di lavoro sui criteri generali delle politiche e sulla articolazione delle tipologie: questo tema viene quindi attratto nella competenza esclusiva dell'ente, salva la eventuale concertazione sull'orario di servizio; e sui programmi per la formazione del personale. La individuazione delle materie escluse dalla contrattazione di secondo livello dalla legge Brunetta è assai limitata: in altri termini le indicazioni dell'Aran devono essere definite come assai prudenti. Il che è sicuramente largamente influenzato dalla scelta di non esporre le singole amministrazioni locali ad una limitazione unilaterale delle materie oggetto di contrattazione che potrebbe non essere fatta propria dai giudici del lavoro in presenza di eventuali contenziosi. Una terza componente è costituita dalle materie che, in base alla contrattazione nazionale, non sono oggetto di contrattazione integrativa, ancorché ricomprese nel sistema della partecipazione sindacale.
Tra esse si ricordano soprattutto le scelte per le posizioni organizzative: conferimento, valutazione periodica, graduazione delle funzioni e valutazione. L'Aran non dice se la definizione delle risorse che negli enti con i dirigenti devono essere prelevate dal fondo per il finanziamento delle posizioni organizzative è materia o meno di contrattazione decentrata. L'altro grande tema è costituito dalla metodologia di valutazione delle prestazioni dei dipendenti e dei risultati delle posizioni organizzative, cioè dalla scheda.
L'Aran ricorda infine che tra le materie che non sono oggetto né di contrattazione integrativa né di partecipazione sindacale vanno compresi in primo luogo i buoni pasto, per cui la scelta in questa materia appartiene alla competenza esclusiva dell'ente. Ed ancora, la disciplina delle ferie, dei permessi retribuiti e di quelli a c.d. recupero, nonché la disciplina delle relazioni sindacali e i termini per il preavviso (articolo ItaliaOggi del 28.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - VARI: Marca da bollo, rincari del 10%. Da ieri il costo è salito 2 e 16 euro.
Bollo rincarato del 10% circa per i contratti di locazione di qualsiasi tipo: da quelli per immobili a uso villeggiatura, brevi vacanze o weekend, ai contratti di comodato.

A segnalarlo è la Confedilizia, spiegando che si tratta dell'effetto della pubblicazione, sulla Gazzetta Ufficiale n. 147 del 25 giugno, della legge n. 71/2013, di conversione del decreto legge n. 43/2013 (il cosiddetto decreto Emergenze).
La marca da bollo da 1,81 e quella da 14,62 euro, a prescindere dal contesto di utilizzo, diventeranno quindi rispettivamente di 2 di 16 euro (si veda ItaliaOggi del 13/06/2013).
Gli aumenti, in vigore da ieri, interessano tutti gli atti giuridici sottoposti a imposta di bollo e contribuiranno alla ricostruzione in Abruzzo con una cifra stimata in un miliardo e 200 milioni di euro. Così facendo lo stato potrà assicurare tra il 2014 e il 2019 circa 197 milioni annui per la riparazione di immobili danneggiati o l'acquisto di nuove abitazioni sostitutive.
Nel settore degli immobili, come spiega Confedilizia, per i contratti di comodato l'imposta sarà di 16 euro ogni 4 facciate (100 righe). Mentre sale a 2 euro la marca da bollo da applicarsi sulle ricevute relative al canone di locazione di importo superiore a euro 77,47 se non soggette a Iva. Esenti, invece, dal bollo (ai sensi dell'art. 13 della Tariffa allegata al dpr 26/10/72, n. 642) le ricevute degli oneri condominiali.
Al di là del settore immobiliare poi molteplici sono le attività interessate dall'aumento in quanto soggette a marca da bollo: dagli atti rogati, alle scritture private, le pubblicazioni di matrimonio, gli atti di notorietà, ricevute e quietanze, fino alle fatture e note dei professionisti senza partita Iva (articolo ItaliaOggi del 27.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - VARIE l'imposta fissa di bollo è già cresciuta a 2 e a 16 euro. Il rincaro da ieri. La decisione con la legge 147/2013.
IL MECCANISMO/ L'importo andrà adeguato anche per registri e libri soggetti a bollatura e non utilizzati fino a martedì scorso.

Aumentano le misure fisse dell'imposta di bollo. Da ieri, con la pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 147 del 25.06.2013 della legge 71/2013, di conversione del Dl 43/2013, in particolare, gli importi in precedenza stabiliti in 1,81 e 14,62 euro passano, rispettivamente, a euro 2 e 16 euro. Non sono interessati dalla novità gli atti finalizzati fino al 25 giugno, ancorché presentati in data successiva ad un ufficio pubblico per la registrazione.
L'aumento riguarda una serie di documenti che interessa diversi soggetti. In particolare l'imposta di bollo che oggi è pari a euro 2 riguarda: le fatture che contengono importi non assoggettati ad Iva; gli estratti conti o altri documenti di accreditamento o addebitamento per somme superiori a euro 77,47; ricevute o lettere commerciali presentate per l'incasso presso gli istituti di credito per somme inferiori a 129,11 euro.
L'aumento invece da euro 14,62 a euro 16 riguarda numerosi documenti (così come meglio identificati nei primi tre articoli della tariffa, parte I) nonché i documenti societari (libri sociali e registri contabili di cui all'articolo 16 della tariffa, parte I). A titolo esemplificativo questo aumento dell'imposta fissa riguarda: gli atti rogati o autenticati da un notaio o altro pubblico ufficiale; le scritture private contenenti convenzioni anche unilaterali che disciplinino rapporti giuridici di ogni specie; istanze, memorie, ricorsi, dirette agli organi dell'amministrazione dello Stato e degli enti pubblici territoriali tendenti ad ottenere rilasci di certificati ovvero provvedimenti amministrativi.
La modifica nell'imposta fissa ha anche altre implicazioni quali quelle nei riguardi dei soggetti autorizzati all'assolvimento dell'imposta in modo virtuale. Essi infatti all'atto della presentazione della dichiarazione per l'anno 2013 saranno tenuti ad indicare separatamente gli atti ai quali si applica l'aumento dell'imposta. Inoltre laddove l'agenzia delle Entrate provveda entro il prossimo mese di luglio a notificare la riliquidazione provvisoria delle rimanenti rate 2013, queste ultime dovranno essere modificate.
Per quanto invece riguarda l'adeguamento del bollo da assolvere sui libri e sulle scritture contabili, occorre fare delle distinzioni. Per i registri soggetti a bollatura, anche facoltativa, sui quali è già stata assolta l'imposta all'atto dell'effettuazione della formalità, sarà necessario procedere all'integrazione dell'imposta di bollo nel caso in cui siano completamenti inutilizzati. Ciò significa che gli accadimenti (rectius: verbali) in essi riportati devono essersi verificati prima del 26 giugno scorso. L'operazione potrà essere effettuata con l'annotazione nell'ultima pagina numerata degli estremi della ricevuta di pagamento modello F23, ovvero con l'apposizione delle marche da bollo necessarie per ottenere il nuovo importo, da annullarsi ex articolo 12 del Dpr 642/1972. Nel caso in cui i registri siano già stati utilizzati ancorché parzialmente non occorre integrare il bollo.
Per i registri contabili non soggetti a bollatura, per i quali l'imposta va assolta esclusivamente sulle pagine effettivamente utilizzate, ed è dovuta per blocchi di 100 pagine o frazioni di esse, l'imposta fissa nella nuova misura di 16 euro dovrà essere corrisposta per i blocchi di 100 pagine utilizzati a decorrere da ieri, utilizzando le stesse modalità di integrazione innanzi precisate. Anche in questo caso nulla è dovuto per i blocchi di 100 pagine che risultano ancorché in parte utilizzati.
È possibile continuare ad utilizzare le vecchie marche da bollo da euro 1,81 e da euro 14,62, integrandole qualora l'imposta si renda dovuta nella nuovo misura. Lo stesso discorso vale per la carta da bollo, ma la differenza va integrata con l'applicazione delle marche da bollo (articolo Il Sole 24 Ore del 27.06.2013).

APPALTINegli appalti solidarietà estesa agli autonomi. Il committente risponde con appaltatori e subappaltatori.
La responsabilità solidale negli appalti si estende ai lavoratori autonomi.

Questa la principale novità contenuta nel decreto legge che amplia l'applicazione del regime di solidarietà di cui all'articolo 29 del Dlgs 276/2003 ai lavoratori impiegati con un contratto di lavoro autonomo.
Ma non è questa l'unica modifica, in quanto la nuova norma, oltre a confermare che la solidarietà non si applica negli appalti stipulati dalla pubblica amministrazione, chiarisce che il potere di deroga da parte dei Ccnl in materia di solidarietà si applica solo all'obbligazione di tipo retributivo e non produce effetti nei confronti degli obblighi di natura previdenziale e assicurativa.
Il comma 2 dell'articolo 29 del decreto Biagi prevede che, negli appalti di opere e servizi ex articolo 1655 del codice civile, in caso di inadempimento da parte dell'appaltatore o del subappaltatore, il committente è obbligato in solido a corrispondere ai lavoratori utilizzati i relativi trattamenti retributivi, compreso il Tfr, nonché a versare i corrispondenti contributi previdenziali e i premi assicurativi maturati nel periodo di esecuzione del contratto.
Con la recente modifica, tale vincolo si estende al committente anche quando nell'appalto siano utilizzati lavoratori con contratti «di natura autonoma». Stante la generica espressione utilizzata dalla legge, sono da ricondurre nel più esteso vincolo solidaristico, i contratti di collaborazione a progetto, le vecchie co.co.co , le cosiddette mini co.co.co, ma anche le prestazioni di lavoro autonomo occasionale e le prestazioni d'opera professionale ex articolo 2222 del codice civile.
Nel caso dei collaboratori a progetto e dei co.co.co (comprese le "mini"), la responsabilità solidale è piena in quanto riguarderà non solo il pagamento del compenso, ma anche il versamento dei contributi alla Gestione separata e dei premi all'Inail.Per le prestazioni rese dai professionisti e dai prestatori di lavoro autonomo occasionale (salvo quelli con compenso oltre 5.000 euro), la solidarietà sarà limitata al pagamento del compenso.
Il decreto legge dichiara altresì in modo esplicito che il regime della solidarietà non trova applicazione nei confronti della pubblica amministrazione ex comma 2 dell'articolo 1 del Dlgs 165/2001 in qualità di committente del contratto di appalto. Non si tratta di una novità, posto che in base alle previsioni dell'articolo 1 del Dlgs 276/2003, tutto il decreto, ivi compreso l'articolo 29 non è applicabile nell'ambito della pubblica amministrazione. La necessità di questa conferma da parte del legislatore è probabilmente dipesa da alcune pronunce della magistratura che rifacendosi alla legge delega 30/2003, avevano ritenuto applicabile il regime della solidarietà negli appalti anche nei confronti dello Stato.
Importante e chiarificatrice è la precisazione secondo cui le eventuali diverse previsioni dei Ccnl in materia di responsabilità solidale, ammesse dallo stesso articolo 29 del Dlgs 276/2003, sono efficaci solo ai fini retributivi, ma non per gli obblighi contributivi e assicurativi, dei quali i Ccnl non possono disporre (articolo Il Sole 24 Ore del 27.06.2013).

ENTI LOCALIDAL VIMINALE/ Tre revisori nelle Unioni di Comuni.
Nelle Unioni di Comuni che svolgono tutte le funzioni fondamentali al posto degli enti che le compongono, entra in gioco il collegio di tre revisori dei conti invece del revisore unico. A determinare il rispetto del requisito è l'indicazione delle funzioni svolte nello Statuto dell'Unione: quando la Carta fondamentale riporta tutte le attività ritenute essenziali negli enti locali, il collegio di tre membri (analogo a quello che agisce nei Comuni superiori a 15mila abitanti) può partire subito, per cui il vecchio revisore unico decade.

Con queste indicazioni, contenute nella circolare 24.06.2013 n. 57782 diffusa ieri, il dipartimento per gli Affari interni e territoriali del ministero dell'Interno detta le istruzioni per applicare le nuove regole introdotte nello scorso autunno dal decreto «salva-enti» (articolo 3, comma 1, lettera m-bis, e comma 4-bis del Dl 174/2012).
L'esercizio associato di tutte le funzioni fondamentali è obbligatorio per legge a partire dal 01.01.2014, data dalla quale di conseguenza dovrebbe sparire il revisore unico da tutti i Comuni.
Unica eccezione, spiega il Viminale, sono le Unioni disciplinate dal Dl 138/2011 per gli enti fino a mille abitanti, che però sono una fattispecie residuale e in pratica superata dalle nuove regole sulle Unioni (articolo Il Sole 24 Ore del 27.06.2013).

APPALTIDECRETO DEL FARE/ LA RESPONSABILITÀ SOLIDALE
La solidarietà negli appalti cancellata solo per l'Iva. Restano i vincoli per l'applicazione delle ritenute sul lavoro dipendente.

L'articolo 50 del decreto "del fare" interviene sul comma 28 dell'articolo 35 del Dl 223/2006, eliminando (ma solo per l'Iva) la tanto discussa responsabilità solidale posta "a tutela" dei mancati versamenti fiscali nell'ambito dei contratti di appalto e subappalto. Mentre in una prima versione del decreto si abrogavano integralmente i commi 28, 28-bis e 28-ter dell'articolo 35, cancellando del tutto l'estensione della responsabilità in campo fiscale, l'ultima formulazione lascia, dunque, inalterata la disciplina per quanto attiene alla ritenute di lavoro dipendente.
Queste disposizioni sono state introdotte dal Dl 16/2012, con una prima formulazione che ha subito importanti integrazioni con il Dl 83/2012.
Gli aggiornamenti
Ecco cosa prevede la disciplina aggiornata, in caso di appalti o subappalti di opere e servizi (senza limitazione al solo settore edile):
- da un lato la responsabilità solidale dell'appaltatore con il subappaltatore, con riferimento al versamento delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente (e non più anche dell'Iva dovuta da quest'ultimo) in relazione alle prestazioni effettuate nell'ambito del rapporto di subappalto. Questa responsabilità è limitata all'ammontare del corrispettivo dovuto e può essere evitata ottenendo, anteriormente al pagamento del corrispettivo, la documentazione attestante che i versamenti scaduti sono stati correttamente eseguiti;
- dall'altro, una sanzione amministrativa da 5mila a 200mila euro in capo al committente, nel caso in cui egli paghi l'appaltatore senza essere in possesso della documentazione individuata al punto precedente.
Alcuni dei tanti dubbi applicativi sono stati affrontati dall'agenzia delle Entrate con le circolari 40/E/2012 e 2/E/2013. Il primo documento di prassi, in particolare, ha previsto l'applicazione delle nuove regole ai contratti stipulati (o rinnovati) dal 12.08.2012 e relativamente ai pagamenti intervenuti dall'11 ottobre scorso.
Gli effetti sulle imprese
Gli eccessi di queste disposizioni sono parsi fin da subito evidenti: si finisce con l'arruolare forzosamente le imprese in compiti di vigilanza che non competono loro, peraltro istituendo una procedura che favorisce la circolazione della "carta" senza realmente incrementare la possibilità che vengano meno le omissioni nei versamenti. Questo sistema finisce per causare problemi a chi agisce correttamente, mentre non ne crea a chi opera illecitamente.
Per la semplice dimenticanza di un "pezzo di carta", l'appaltatore (anche in buona fede) finisce per rispondere verso il fisco alla stessa stregua del subappaltatore "infedele", mentre il committente viene pesantemente sanzionato anche nel caso limite in cui è completamente all'oscuro di un eventuale subappalto concluso dall'appaltatore.
Proprio questi effetti deleteri potevano essere alla base di una censura da parte dell'Unione europea, poiché la Corte di Giustizia ha più volte affermato (ad esempio nella sentenza 21.06.2012, cause riunite C-80/11 e C-142/11) che spetta «alle autorità fiscali effettuare i controlli necessari presso i soggetti passivi al fine di rilevare irregolarità e evasioni in materia di Iva nonché infliggere sanzioni al soggetto passivo che ha commesso dette irregolarità o evasioni».
Il timore di venir "bacchettati" in sede comunitaria ha fatto sì che venisse eliminata l'Iva tra i versamenti cui è applicabile la disciplina, con la conseguenza che tutte le perplessità emerse in questi mesi restano invariate per quanto riguarda i versamenti delle ritenute di lavoro dipendente omesse dal subappaltatore e/o dall'appaltatore.
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Il fronte del lavoro. Dopo la riforma Fornero.
Vincolo biennale su contributi e premi.

La riforma Fornero ha rimodulato la materia della solidarietà negli appalti determinando una netta separazione tra il regime della responsabilità solidale sul piano del rapporto di lavoro (articolo 29 del decreto legislativo 276/2003) e su quello fiscale (articolo 35 del Dl 223/2006).
Il decreto ora approvato dal Consiglio dei ministri interviene sulla materia fiscale, mentre non apporta alcun cambiamento alla disciplina della responsabilità solidale "lavoristica" disciplinata all'articolo 29 del decreto 276. Quest'ultima disposizione prevede un'obbligazione solidale tra il committente, l'appaltatore ed eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, con riferimento alla retribuzione, comprese le quote di Tfr, ai contributi previdenziali e ai premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto. Rimangono escluse dalla responsabilità solidale le sanzioni civili, per le quali risponde solo colui al quale viene addebitato l'inadempimento, ed è previsto il meccanismo del beneficium excussionis a favore del committente, che impone al creditore di aggredire in prima battuta il patrimonio del debitore principale (articolo 29, comma 2; circolare del ministero del Lavoro 2/2012).
La riforma Fornero ha introdotto una cosiddetta clausola di riserva, cioè la possibilità per i contratti collettivi nazionali, sottoscritti dalle associazioni dei lavoratori e datori comparativamente più rappresentative, di prevedere una deroga al regime di responsabilità solidale del committente, sia per le retribuzioni che, si deve ritenere, per gli obblighi contributivi e assicurativi.
La clausola di riserva dell'articolo 29 del decreto 276/2003 deve essere coordinata con l'articolo 8 del decreto legislativo 138/2011 (sul cosiddetto contratto di prossimità) che consente di derogare in peius alle disposizioni di legge in materia di solidarietà negli appalti, mediante contratti collettivi aziendali o territoriali (articolo 8, comma 2, lettera c). Ciò potrebbe far pensare che la deroga alla responsabilità solidale sia ormai ammessa solo tramite il contratto collettivo nazionale, con conseguente abrogazione implicita di quella parte dell'articolo 8 del Dl 138/2011 che attribuisce invece tale possibilità ad accordi di livello inferiore.
Tuttavia, nell'articolo 29 il riferimento al contratto collettivo nazionale appare finalizzato semplicemente a escludere che il potere di deroga spetti anche alla contrattazione di livello inferiore, secondo il tipico meccanismo della deregolamentazione contrattata. Viceversa, il sistema previsto dall'articolo 8 consente la deroga contrattuale al regime legale della solidarietà, in materia retributiva, su presupposti del tutto differenti, che si basano sulla vicinanza del contratto collettivo con la realtà produttiva oggetto di regolamentazione e sulla rappresentatività territoriale qualificata dei sindacati stipulanti. Pertanto, è plausibile pensare che se il legislatore avesse voluto modificare la disciplina del contratto di prossimità in materia di solidarietà nell'appalto, lo avrebbe fatto con una previsione espressa e non mediante il rinvio generale al contratto collettivo nazionale operato dall'articolo 29, secondo comma del decreto 276.
Un altro aspetto problematico relativo all'articolo 29 riguarda l'ambito applicativo della disciplina della solidarietà circa i lavoratori coinvolti (subordinati/autonomi) e i settori compresi (appalti pubblici/privati).
Sulla prima questione, la previsione dell'articolo 29, comma 2 utilizza un generico rinvio al termine "lavoratori", lasciando aperta la possibilità che i beneficiari delle tutele poste dal regime della responsabilità solidale siano non solo i lavoratori subordinati, ma anche altri soggetti impiegati nell'appalto con diverse tipologie contrattuali come i collaboratori a progetto e gli associati in partecipazione (lo hanno affermato ministero del Lavoro e Inps, rispettivamente nelle circolari 5/2011 e 106/2012). Tuttavia, si deve considerare che lo stesso articolo 29 fa riferimento alla "retribuzione" e "quote di Tfr", istituti che fanno pensare al lavoro dipendente, e che tradizionalmente il regime della solidarietà -che è istituto eccezionale e non applicabile in modo estensivo- ha sempre riguardato la materia del lavoro subordinato (si pensi all'articolo 1676 Codice civile e alla legge 1369/1960).
Per quanto concerne i settori coinvolti, l'esclusione del settore pubblico dal regime della solidarietà sembra derivare direttamente dal decreto 276 (articolo 1, comma 2) che lascia fuori dal proprio ambito applicativo le pubbliche amministrazioni e il loro personale (tale esclusione con riferimento alla solidarietà fiscale è espressamente sancita dall'articolo 35 del Dl 223/2006) (articolo Il Sole 24 Ore del 26.06.2013).

SICUREZZA LAVORODECRETO DEL FARE/ LA SICUREZZA.
Per la valutazione dei rischi ritorna l'autocertificazione. Per le aziende che operano in ambiti più sicuri e individuati con decreto.

Le semplificazioni in materia di lavoro tendono a rendere meno burocratici i numerosi ed onerosi obblighi che sono imposti ai datori di lavoro in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
Essi riguardano diversi aspetti, alcuni di natura formale ma con risvolti senz'altro sostanziale –quando di parla di valutazione dei rischi– altri di natura documentale.
Il Duvri
Una prima modifica riguarda l'articolo 26 del decreto legislativo 81/2008 (Tu sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro), che ha istituito il Duvri, Documento unico di valutazione dei rischi, cui è obbligato il datore di lavoro committente in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all'impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all'interno della propria azienda.
Il Duvri, ora non sarà l'unica scelta ma è previsto che il datore di lavoro committente, se opera in settori di attività a basso rischio infortunistico, da determinare con decreto ministeriale che sarà emanato entro 90 giorni, potrà, in alternativa, individuare un proprio incaricato, in possesso di formazione, esperienza e competenza professionali, tipiche del preposto, nonché di periodico aggiornamento e di conoscenza diretta dell'ambiente di lavoro, per sovraintendere alla cooperazione e coordinamento.
L'obbligo del Duvri o dell'incaricato non si applica ai servizi di natura intellettuale, alle mere forniture di materiali o attrezzature, ai lavori o servizi la cui durata non è superiore a dieci uomini-giorno (con riferimento all'arco temporale di un anno dall'inizio dei lavori) e sempre che essi non comportino rischi derivanti dalla presenza di agenti cancerogeni, biologici, atmosfere esplosive o dalla presenza di rischi particolari di cui all'allegato XI Tu.
Procedure standardizzate
Le nuove procedure standardizzate obbligatorie per le micro imprese (datori di lavoro che occupano fino a 10 lavoratori) già entrate il 1° giugno scorso (Dm 30.11.2012), ora subiscono una modifica, facendo ritornare la possibilità di ricorrere all'autocertificazione. La novità riguarda le aziende che operano nei settori a basso rischio infortunistico che saranno individuate con lo stesso decreto ministeriale di cui di è detto sopra. Qui sarà riportato un apposito allegato recante il modello con il quale, fermi restando i vari obblighi, i datori di lavoro interessati potranno optare (in luogo delle procedure standardizzate) mediante l'attestazione di aver effettuato la valutazione dei rischi di cui agli articoli 17, 28 e 29 del Tu.
Resta fermo che fino alla emanazione del decreto ministeriale non si applica la deroga ma dovranno essere seguite obbligatoriamente le procedure standardizzate.
Formazione e aggiornamento
Il decreto di semplificazione in esame abolisce i doppioni in materia di formazione e aggiornamento riguardanti i responsabili ed addetti al servizio di prevenzione e protezione (Rspp-Aspp), i dirigenti, preposti, rappresentanti dei lavoratori e lavoratori, previste dagli articoli 32 e 37 Tu. È infatti previsto che in tutti casi di formazione e aggiornamento, in cui i contenuti dei percorsi formativi, in tutto o in parte, si sovrappongono, è riconosciuto il credito formativo per la durata della formazione e aggiornamento corrispondenti erogati.
Notifiche all'organo di vigilanza di nuovi lavori
Le novità riguardano l'articolo 67 del Tu, come ora modificato e si riferiscono all'obbligo di comunicazione all'organo di vigilanza competente per territorio, da parte di chi intenda procedere alla costruzione o realizzazione di edifici o locali da adibire a lavorazioni industriali, nonché nei casi di ampliamenti e di ristrutturazione di quelli esistenti, ove si presume l'impiego di più di tre lavoratori. Resta fermo che i lavori devono essere eseguiti nel rispetto della normativa di settore.
Con un apposito decreto ministeriale, che sarà emanato entro 90 giorni, saranno individuate, secondo criteri di semplicità e di comprensibilità, le informazioni da trasmettere mediante modelli uniformi da utilizzare. Fino alla emanazione del predetto decreto la comunicazione deve contenere:
- la descrizione dell'oggetto delle lavorazioni e delle principali modalità di esecuzione delle stesse;
- la descrizione delle caratteristiche dei locali e degli impianti.
Le comunicazioni suddette avverranno presso lo sportello unico per le attività produttive, con le modalità stabilite con Dpr 160/2010, che provvederà ad informare il competente organo di vigilanza in via telematica.
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Le altre misure. Con durata non superiore a dieci uomini-giorno.
Piccoli interventi, regole semplificate.

Il decreto sulle semplificazioni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, non manca di incidere notevolmente sulle verifiche obbligatorie e sulle varie comunicazioni riguardanti anche gli infortuni sul lavoro.
Le modifiche che sono state apportate ai commi 11 e 12 dell'articolo 71 del Tu, riguardano sostanzialmente l'entrata in campo delle Regioni e quindi dell'Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa). Il nuovo comma 11 stabilisce che la prima verifica delle attrezzature riportate nell'allegato VI al Tu è effettuata dall'Inail che provvede nel termine di 45 giorni dalla richiesta, decorso inutilmente il quale, il datore di lavoro può avvalersi della Asl o, qualora ciò sia previsto dalla legge regionale, dell'Arpa e di soggetti pubblici o privati abilitati secondo le modalità stabilite con l'apposito decreto dell'11.04.2011. Le successive verifiche sono effettuate dalla Asl o, ove ciò sia previsto con legge regionale, dall'Arpa, che vi provvede entro 30 giorni dalla richiesta. Decorso inutilmente tale termine, il datore di lavoro può avvalersi dei soggetti pubblici o privati abilitati.
L'Inail, le Asl e l'Arpa hanno l'obbligo di comunicare al datore di lavoro l'eventuale impossibilità di effettuare le verifiche di propria competenza. Oltre al privato anche l'Inail, l'Asl e Arpa possono avvalersi del supporto dei soggetti pubblici e privati abilitati per le verifiche di loro competenza. Le spese sono poste a carico del datore di lavoro.
In merito alla salute e sicurezza nei cantieri temporanei e mobili le modifiche riguardano il campo di applicazione del Titolo IV del Tu e la semplificazione, dei vari Piani di sicurezza, tra cui il piano operativo di sicurezza (Pos). In merito al campo di applicazione esso si restringe, infatti, modificando l'articolo 88 del Tu, alla lettera g-bis, che esclude alcune attività soggette al Titolo IV, sono inseriti anche i piccoli lavori la cui durata presunta non è superiore a 10 uomini-giorno, finalizzati alla realizzazione o manutenzione delle infrastrutture per servizi.
In merito alla semplificazione del Pos è stato inserito nel Tu il nuovo articolo 104-bis con il quale viene previsto che con decreto ministeriale, da emanare entro 60 giorni, sono individuati modelli semplificati per la sua redazione nei termini ex articolo 89, comma 1, lettera h), del Tu, del piano di sicurezza e coordinamento (Psc), previsto all'articolo 100, comma 1, del Tu e del fascicolo dell'opera disciplinato all'articolo 99, comma 1, lettera b), del Tu. Restano fermi i relativi obblighi a essi connessi.
Le comunicazioni obbligatorie all'organo di vigilanza in caso di situazioni di emergenza durante i lavori con esposizione a particolari e specifici rischi, potranno essere effettuate in via telematica anche tramite gli organismi paritetici o le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro. Le comunicazioni riguardano il superamento dei valori limite nelle lavorazioni con esposizione ad agenti chimici, ad agenti cancerogeni e mutageni, ad agenti biologici, nonché la notifica prima dell'inizio dei lavori con esposizione all'amianto.
Sul fronte delle denunce infortuni l'articolo 54 del Dpr 1124/65, che prevedeva la denuncia all'autorità di pubblica sicurezza, degli infortuni occorsi e per i quali era stata diagnosticata una prognosi per più di tre giorni è stato abrogato. È prevista, invece, la modifica all'articolo 56, Dpr 1124/65, per cui è ora stabilito che le autorità di pubblica sicurezza, le Asl, le Autorità portuali e consolari, le direzioni territoriali del lavoro (Dtl) e i corrispondenti uffici della Regione siciliana e delle Province autonome di Trento e Bolzano, acquisiscano dall'Inail, mediante accesso telematico (secondo le modalità che entreranno in vigore dopo il 180° giorno dalla emanazione del Dm istitutivo del sistema informativo nazionale per la prevenzione-Sinp), i dati relativi alle denunce infortuni sul lavoro mortali e di quelli con prognosi superiore a 30 giorni (articolo Il Sole 24 Ore del 26.06.2013).

APPALTIDECRETO DEL FARE/ APPALTI E SEMPLIFICAZIONE.
Durc acquisito d'ufficio. Il certificato varrà 180 giorni. Nel caso di irregolarità compensazione o «allineamento» in 15 giorni.

Il Dl del "fare", così come viene chiamato il provvedimento approvato dal Consiglio dei Ministri il 15 giugno, modifica le regole previste per la richiesta, il rilascio e la validità del Durc (documento unico di regolarità contributiva).
Le variazioni si inseriscono nel solco del ventilato miglioramento dei rapporti tra la pubblica amministrazione e i vari soggetti che operano imprenditorialmente (e non solo) sul territorio italiano. La maggior parte delle modifiche riguardano il Codice dei contratti pubblici relativi a lavori servizi e forniture.
L'acquisizione del Durc
Le novità introdotte riguardano –tra l'altro– le modalità di acquisizione del Durc nella fase degli accertamenti relativi alle clausole di esclusione dagli appalti pubblici. Fino a oggi, infatti, il documento di regolarità contributiva era posto a corredo della documentazione a cura dell'«affidatario» cioè del soggetto a cui la pubblica amministrazione affidava l'appalto.
Ora la norma innova sensibilmente l'iter in quanto prevede, per le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori, l'obbligo di acquisire d'ufficio il documento unico di regolarità contributiva.
L'incasso
Un passo avanti lo si registra anche nella fase dell'incasso del corrispettivo –sia per gli stati di avanzamento dei lavori (Sal), sia per il saldo finale– da parte di chi ha reso la prestazione nell'ambito dell'appalto o del subappalto. Non è più previsto, infatti, che per ricevere il pagamento, l'affidatario e i subappaltatori (per il suo tramite) trasmettano all'amministrazione o all'ente committente il Durc ma, lo stesso, verrà acquisto automaticamente d'ufficio dalla stazione appaltante.
Può verificarsi, tuttavia, che il soggetto che ha eseguito i lavori non sia in regola con il versamento dei contributi; tale situazione viene evidenziata nel Durc, acquisito d'ufficio, dalle amministrazioni aggiudicatrici, dagli organismi di diritto pubblico, dagli enti e dagli altri soggetti assegnatari. Ricorrendo questa fattispecie, il decreto del fare prevede che si debba procedere comunque al pagamento agli aventi diritto, delle competenze trattenendo l'importo corrispondente all'inadempienza risultante dal Durc. La stessa norma obbliga chi ha trattenuto le somme a versarle a favore degli enti previdenziali e assicurativi, compresa, se presente, la Cassa edile, per l'esecuzione dei lavori nei settori dell'edilizia.
Gli stessi soggetti, elencati sopra, nei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, d'ora in avanti dovranno acquisire telematicamente il Durc, nelle varie fasi in cui si articola l'iter procedurale.
In particolare, è previsto che il documento sia richiesto per verificare la veridicità della dichiarazione rilasciata dal soggetto che partecipa all'aggiudicazione dell'appalto, circa l'assenza di violazioni gravi, definitivamente accertate, di norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali.
Allo stesso modo il Durc, acquisito d'ufficio telematicamente, servirà per la stipula del contratto, nonché per aggiudicare l'appalto; ciò in quanto, tra i requisiti figura sempre e comunque anche la regolarità contributiva. Inoltre, il reperimento d'ufficio della certificazione servirà anche per i vari pagamenti e, per esempio, per i certificati di collaudo, di regolare esecuzione o di verifica di conformità.
Ovviamente una volta che l'ufficio pubblico (amministrazioni aggiudicatrici, organismi di diritto pubblico, ecc.) avrà ottenuto il Durc telematico e verificato che il soggetto è a posto, la regolarità (certificata dal documento telematico) deve essere ritenuta valida per tutte le fasi del procedimento in cui è richiesto il soddisfacimento di tale requisito.
Validità semestrale
Un volta stipulato il contratto di appalto, le stesse amministrazioni, ogni 180 giorni (finora erano 90), dovranno acquisire il Durc in automatico e lo dovranno utilizzare per dare sistematicamente corso ai pagamenti, ai collaudi, al rilascio del certificato di regolare esecuzione o di conformità. Per effetto delle modifiche, il Durc, rilasciato per i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, guadagna un periodo di validità maggiorato che si estende a 180 giorni.
Sempre nei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, le pubbliche amministrazioni acquisiscono d'ufficio il Durc relativo ai subappaltatori. Il documento deve essere utilizzato per il rilascio dell'autorizzazione al subappalto.
In caso di inadempienze
La norma dispone anche una mini regolamentazione per i casi in cui vi siano delle inadempienze e il Durc non possa essere rilasciato.Il soggetto (intestatario del Durc) deve essere invitato a regolarizzare la propria posizione, prima del rilascio del documento o del suo annullamento. La notizia dell'inadempienza e l'invito alla regolarizzazione viaggerà tramite Pec (posta elettronica certificata) e la potrà ricevere il consulente del lavoro che assiste l'azienda, collaborando, così, alla definizione. I termini per provvedere a versare quanto dovuto sono fissati in 15 giorni (articolo Il Sole 24 Ore del 26.06.2013).

ATTI AMMINISTRATIVIDECRETO DEL FARE/ La Pubblica amministrazione.
I RAPPORTI CON I CITTADINI/ Risarciti i ritardi della «Pa» verso imprese e professionisti. Ticket di 30 euro per ogni giorno di attesa Resta l'indennizzo per gli altri danni.

Gli imprenditori aprono la strada a un nuovo modo di amministrare, in cui i tempi sono certi e i ritardi sanzionati. Questo è il contenuto innovativo dell'articolo 28 del decreto legge, in tema di indennizzi nella conclusione del procedimento.
Tutti coloro i quali entrano in contatto con una pubblica amministrazione, attivando un procedimento, possono contare su un indennizzo in caso di ritardo. Si tratta di una sorta di ticket quantificato in modo forfetario (30 euro per ogni giorno di ritardo fino a 2mila euro per procedimento), che non esclude il risarcimento di altri tipi di danni (patrimoniali, biologici e morali).
Gli interessati
A prima lettura sembra che l'indennizzo spetti a tutti coloro i quali colloquiano con uffici pubblici in veste imprenditoriale: quindi spetta anche ai professionisti, che in più campi (come sottolinea l'Antitrust) sono assimilati agli imprenditori. Per tutti gli altri cittadini, dagli studenti alle casalinghe, l'indennizzo è rinviato di almeno 18 mesi. Le amministrazioni cui si può chiedere l'indennizzo da ritardo sono quelle centrali e locali, compresi i soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative (concessionari, società pubbliche), e inclusi gli "organismi di diritto pubblico" e quelli che l'Istat ha codificato come soggetti pubblici.
I casi di esclusione
Nulla spetta nei casi in cui l'inerzia dell'amministrazione ha già di per se un significato, attribuitogli dalla legge. Ad esempio, in materia di accesso ai documenti, il 31° giorno dall'istanza di rilascio di una copia già esprime un diniego all'interessato. Non generano indennizzo i comportamenti taciti qualificati (dalla legge) come “diniego”, cioè quelli che l'interessato può immediatamente percepire come un ostacolo alla propria richiesta. Se, infatti, l'interessato può desumere già dal silenzio la volontà dell'amministrazione a lui sfavorevole, non vi è motivo per accordare un indennizzo.
L'indennizzo infatti spetta per l'incertezza che confonde l'imprenditore interessato, il quale non sa se otterrà il provvedimento. Ad esempio, se l'imprenditore edile chiede un permesso di costruire in area vincolata sotto l'aspetto ambientale (adiacente a un corso d'acqua) già il 30° giorno passato senza notizie mette in grado di capire che l'autorità competente è ostile al progetto (articolo 20, comma 9, Dpr 380/2001, modificato dal decreto del fare del giugno 2013).
Silenzio rigetto e silenzio rifiuto
Il silenzio diniego è simile a un negativo fotografico, perché con un'adeguata lettura se ne può dedurre il contenuto. Il silenzio rifiuto è invece privo di qualsiasi contenuto interpretabile e quindi paralizza l'attività del privato (e perciò genera un indennizzo).
Chi ottiene un silenzio rigetto (che esprime una specifica volontà negativa della Pa) può contestare l'opinione dell'ente pubblico, dimostrando di avere tutti i presupposti per ottenere il provvedimento favorevole. Chi è destinatario di un silenzio rifiuto (privo di significato) ha meno spazi e può solo chiedere al giudice amministrativo (entro un anno) l'accertamento dell'obbligo di provvedere e la verifica della fondatezza della sua pretesa (articoli 31 e 117 Dlgs 104/2010).
Pochi mesi fa, la legge anticorruzione (articolo 38, legge 190/2012) sembrava aver obbligato la Pa ad esprimersi sempre in modo chiaro, non trincerandosi dietro un silenzio, con la minaccia di un potere sostitutivo del superiore gerarchico. Evidentemente, questo passo in avanti è stato ritenuto eccessivo, e con il pagamento di 30 euro al giorno l'amministrazione riconquista il potere di non esprimersi nei tempi di legge. Il paradosso è ancor più evidente in quanto è la stessa amministrazione ad essersi data i tempi del procedimento, attraverso un'analisi delle strutture organizzative (Dpcm 21.03.2013 n. 58).
Ci saranno poche speranze di indennizzo per chi partecipa a concorsi pubblici, in quanto l'operato delle Commissioni giudicatrici non è agevolmente cadenzabile. La procedura per ottenere l'indennizzo è a sua volta articolata e non prevede tempi brevi. L'imprenditore deve rivolgersi (entro sette giorni dalla scadenza del termine) al responsabile del potere sostitutivo (che è individuato sul sito internet della singola Pa, ex articolo 2, comma 9-bis, legge 241/1990).
Quest'ultimo ha un proprio termine per provvedere (la metà di quello che spettava al sostituito inadempiente) e se perdura il silenzio, la somma verrà liquidata dallo stesso soggetto che non ha provveduto in sostituzione (una sorta di suicidio sotto l'aspetto della responsabilità contabile). Se nemmeno il sostituto provvede alla liquidazione nel termine di cinque giorni, l'imprenditore può rivolgersi al Tar entro dieci giorni (con l'assistenza di un avvocato e costi fiscali di oltre 300 euro) (articolo Il Sole 24 Ore del 26.06.2013).

EDILIZIA PRIVATADECRETO DEL FARE/ Edilizia.
LE SEMPLIFICAZIONI/ Per le ristrutturazioni niente vincoli di sagoma. L'innovazione non si applica agli immobili di carattere storico-artistico.
Ristrutturazioni e ricostruzioni libere dalla sagoma preesistente: lungo questa linea l'articolo 20 del decreto legge 69 modifica una serie di norme del Testo unico edilizia 380/2001 e, a cascata, opera sulle Regioni (Corte costituzionale 309/2011).
Per sagoma si intende l'insieme dei punti che definiscono il perimetro esterno dell'edificio, con la conseguenza che le ristrutturazioni che dovevano rispettare l'identità di sagoma lasciavano pochi spazi a innovazioni. Per esempio, non era possibile, dovendo rispettare la sagoma, spostare volumi o concentrare più piani su una diversa superficie. La sagoma, insieme al concetto di volume e a quello di destinazione d'uso, caratterizza ogni intervento edilizio: poiché il volume è traslabile (anche a seguito della legge 70/2011, che ne consente la cessione) e la destinazione d'uso opera per categorie, era rimasta solo la sagoma a limitare le ristrutturazioni di più ampia portata. Ora che si può ristrutturare e ricostruire senza rispettare la sagoma precedente, si è definitivamente elasticizzato il concetto di "fedeltà" che caratterizzava gli interventi di edilizia sostitutiva.
La «Dia»
La dichiarazione di inizio attività (Dia "pesante" o super Dia, articolo 22 del Testo unico 380/2001) può quindi generare edifici diversi, conformi alle previsioni urbanistiche vigenti al momento della ristrutturazione, senza le rigidità conseguenti al formale rispetto della sagoma precedente. Non è più sanzionabile come difformità essenziale lo scostamento dal profilo autorizzato, abuso che poteva determinare anche una riduzione in pristino perché la ristrutturazione era considerata una nuova costruzione.
Questa conseguenza sembra anche applicabile agli abusi antecedenti il decreto del fare: le attuali difformità di sagoma, non essendo più sintomo di variazione essenziale, possono essere oggetto di una ridotta sanzione pecuniaria.
L'innovazione non si applica agli immobili sottoposti a vincoli in base al Codice dei beni culturali (decreto legislativo 42/2004): da una prima lettura sembra che i vincoli che non ammettono ristrutturazioni con diversa sagoma siano quelli su specifici immobili (storico-artistici) e non quelli su edifici posizionati in zone sottoposte a vincolo (e non singolarmente vincolati, come le zone vicine ai corsi d'acqua).
Ciò anche perché, nelle zone vincolate, l'intervento di ristrutturazione, oggi liberato dalla sagoma preesistente, è comunque soggetto a uno specifico titolo abilitativo (permesso di costruire) e quindi deve essere sottoposto al vaglio dell'autorità preposta alla tutela del vincolo (articolo 22, comma 6, del Testo unico 380/2001).
Quindi, chi tentasse di ristrutturare in zona vincolata con una Dia e senza rispettare la sagoma, incorrerebbe in un abuso anche ambientale con l'unica, leggera, tolleranza prevista dal Dpr 139/2010, ad esempio, per le falde del tetto.  
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Zone protette. Le mancate risposte del Comune.
Nelle aree vincolate silenzio con doppio valore.

Nelle zone sottoposte a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali cambia il significato del silenzio. In mancanza di vincolo, il silenzio mantenuto dal dirigente per 30 giorni dalla proposta dello sportello unico è un silenzio assenso (articolo 20, comma 8, del Dpr 380/2001). Se c'è il vincolo ambientale, paesaggistico o culturale, non c'è questa forma di silenzio assenso, ma una procedura più complessa.
In particolare, se l'autorità preposta alla tutela del vincolo si esprime favorevolmente all'intervento, il Comune si deve pronunciare entro i successivi 30 giorni. Il silenzio che perduri oltre il trentesimo giorno è un silenzio rifiuto che esprime unicamente un'inerzia del Comune, ma non una volontà contraria all'intervento edilizio.
Se, invece, l'autorità preposta alla tutela del vincolo si esprime in senso sfavorevole all'intervento edilizio, il silenzio mantenuto dal Comune nei successivi 30 giorni genera un rigetto, cioè un espresso giudizio sfavorevole. Questo perché nel procedimento di competenza del Comune confluiscono pareri di più soggetti, mentre l'autorità che si esprime nei confronti del richiedente è il solo Comune.
È quindi necessario separare i vari contributi all'interno del procedimento, imputando all'autorità che si esprime negativamente la responsabilità del proprio dissenso. I diversi tipi di silenzio (rifiuto o rigetto) hanno conseguenze differenti in sede di contestazione, poiché il primo è un'omissione, il secondo è equiparato a un parere sfavorevole.
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Il Suap. Nuovi ambiti di intervento.
Riviste le competenze dello sportello unico.

All'interno del Comune, il decreto del fare riordina le attività dello sportello unico attività produttive (Suap), cioè dell'ufficio cui il cittadino si rivolge convogliandovi le varie fasi e i vari pareri che conducono al rilascio del permesso di costruire. Con l'articolo 30 del decreto, (che introduce l'articolo 23-bis nel Testo unico 380/2001) il Suap si interessa anche della Scia (Segnalazione certificata di inizio attività) e della "comunicazione dell'inizio dei lavori" (articolo 6, comma 2, Dpr 380/2001).
In particolare, lo Sportello può fare da collettore di tutti gli atti di assenso, pareri, visti e nulla osta che siano necessari e quindi solleva il privato dall'onere di procurarsi questi provvedimenti. Se i pareri non giungono al Suap entro 60 giorni se vi è un dissenso da parte di un'amministrazione interpellata, il Suap convoca una conferenza di servizi nella quale discutere e amalgamare le varie opinioni (articolo 14, legge 241/1990). Se l'interessato si rivolge al Suap e contestualmente presenta una Scia, non può iniziare subito i lavori (come gli sarebbe consentito se non si fosse rivolto al Suap per acquisire i vari pareri), ma deve aspettare l'avvenuta acquisizione dei pareri o l'esito positivo della conferenza dei servizi.
Per i centri storici le procedure hanno tempi più diluiti. Si prevede, infatti, che per gli interventi eseguibili con Scia, che determinino la modifica della sagoma rispetto all'edifico preesistente o già assentito, si debbano attendere 20 giorni dalla presentazione della Scia prima di iniziare i lavori.
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Fabbricati. I certificati. Agibilità per singoli edifici.
Diventa più snella la procedura per ottenere il rilascio del certificato di agibilità. Fino a oggi, interventi complessi, di più piani o di più edifici, potevano ottenere solo un'unica e complessiva agibilità, con il risultato di dover attendere, per commercializzare efficacemente gli immobili, l'ultimazione di tutte le opere del complesso edilizio.
Inoltre, un'eventuale diffomità o eccedenza emersa per una singola unità causava l'interruzione del procedimento di rilascio dell'agibilità complessiva, generando forti contrasti e liti civili. Ora, invece, è consentita la richiesta dell'agibilità anche per singoli edifici o per porzioni di essi. Ciò è possibile se le unità siano funzionalmente autonome, e siano state realizzate e collaudate (o dichiarate funzionali) le opere di urbanizzazione primaria (fogne, servizi, verde pro quota).
Il rilascio del certificato potrà avvenire anche per le singole unità immobiliari, nelle quali siano stati completati gli impianti e le opere strutturali, consentendo al venditore di agevolare la commercializzazione dei beni. Se quindi si realizza un parco, singoli edifici potranno essere dichiarati agibili indipendentemente dall'effettiva ultimazione di tutte le opere previste. All'interno poi del singolo edificio, può essere dichiarata agibile l'unità effettivamente ultimata, anche se un'altra unità, per esempio di difficile collocazione commerciale, rimane al rustico in attesa di migliori momenti. La norma semplifica le vendite ed evita garanzie e fideiussioni che di norma fungevano da paracadute nei casi in cui si doveva attendere l'ultimazione di un intero complesso prima di ottenere l'agibilità.
Infine, una rilevante accelerazione deriva dalla possibilità di autodichiarare l'agibilità da parte dei professionisti del settore, senza quindi attendere l'intervento di tecnici comunali. La dichiarazione ribalta le responsabilità sul professionista, che però oggi ha il vantaggio di verificare solo le singole unità (articolo Il Sole 24 Ore del 26.06.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATADECRETO DEL FARE/ I CANTIERI.
Materiali da scavo e riporti, prove di cambio di regole. Le definizioni restano ambigue: necessario ritoccarle in Parlamento.

Il "decreto del fare" interviene anche sul fronte dei cantieri e delle costruzioni, cercando da un lato di limitare il campo di applicazione del lunare Dm 161/2012 sui materiali di scavo e dall'altro di correggere il tiro sui materiali di riporto, vittime di pregressi fraintendimenti e pasticci normativi, dovuti a una non completa trasposizione del Dm 471/1999 nella nuova disciplina sulle bonifiche del Codice ambientale del 2006.
Il campo di applicazione
Il nuovo decreto con l'articolo 41, comma 2, aggiunge un comma all'articolo 184-bis che il decreto legislativo 152/2006 ("Codice ambientale") dedica ai sottoprodotti e stabilisce che il Dm 161/2012 «si applica solo alle terre e rocce da scavo» che provengono da attività o opere soggette a Via (Valutazione d'impatto ambientale) o ad Aia (Autorizzazione integrata ambientale). Come è evidente, dunque, il raggio di azione del Dm 161/2012 si restringe moltissimo, restando riservato a opere di maggiore entità.
Le imprese e le associazioni di categoria conoscono bene la "querelle" che si era instaurata tra chi voleva limitare l'applicazione delle regole del Dm 161/2012 solo ai cantieri che superavano i 6mila metri cubi di materiale prodotto e chi, invece, la generalizzava a prescindere dai dati dimensionali. Con la modifica si andrebbe ben oltre, poiché ci possono essere cantieri che superano i 6.000 metri cubi di materiale escavato ma le opere o le attività relative non sono soggette ad Aia o Via.
Tuttavia, rimane un problema e anche grande: il nuovo decreto riferisce la sua previsione escludente a "terre e rocce da scavo", mentre il Dm 161/2012 è riferito ai "materiali da scavo", cioè a un universo generalizzato di materiali derivanti dai cantieri all'interno dei quali ci sono anche le terre e le rocce da scavo, ma non solo. Infatti, nei materiali da scavo contemplati dal Dm trovano posto anche calcestruzzo, bentonite, polivinilcloruro (Pvc), vetroresina, miscele cementizie e additivi per scavo meccanizzato, oltre a materiali litoidi e residui di lavorazione di materiali lapidei. È necessario, allora, che in sede di conversione il Parlamento intervenga per correggere il tiro e riallineare il campo di applicazione del Dm 161/2012 con quello del nuovo decreto, altrimenti sarà difficile applicare l'esenzione.
Il nuovo decreto, invece, chiarisce univocamente che il Dm 161/2012 non si applica all'immersione in mare di materiale di escavo e attività di posa in mare di cavi e condotte previste all'articolo 109 del decreto 152/2006.
Materiali di riporto
Su questo fronte, invece, il nuovo decreto modifica l'articolo 3 del Dl 2/2012 (legge 28/2012) e stabilisce che le matrici materiali di riporto sono costituite da una miscela eterogenea di materiale di origine antropica (residui e scarti di produzione e di consumo) e di terreno. La nuova disposizione continua modificando radicalmente i commi 2 e 3 dell'articolo 3 del Dl 2/2012 e il punto dirimente diventa il test di cessione.
Infatti, affinché i riporti che rimangono all'interno del cantiere siano considerati suolo, quindi matrice ambientale (cioè non rifiuti), si dispone che devono essere sottoposti al test di cessione effettuato sui materiali granulari in base all'articolo 9 del Dm 05.02.1998. Il tutto, per escludere rischi di contaminazione delle acque sotterranee e, ove conformi, i riporti devono rispettare la disciplina sulla bonifica. I riporti non conformi o sono rimossi o sono resi conformi al test di cessione o sono sottoposti a messa in sicurezza permanente con l'uso delle migliori tecniche disponibili a costi sostenibili e che consentono di utilizzare l'area senza rischi per la salute.
Sarà necessario che il Parlamento colga la conversione in legge come l'occasione giusta per correggere un errore, esentando i materiali di riporto dall'applicazione del già citato Dm 161/2012. Questo Dm, infatti, prevede, anche se in forme non sempre comprensibili e appropriate, la sua applicazione alle matrici materiali di riporto. Però, se è previsto che questi riporti siano esclusi dalla disciplina sui rifiuti, non si capisce perché debbano entrare in quella dei sottoprodotti cui il Dm 161 è riferito.
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Acqua di bonifica? Non è rifiuto. La definizione. Vengono considerate scarichi.
L'articolo 41, comma 1 del decreto interviene sulle acque di falda emunte durante le bonifiche e modifica radicalmente l'articolo 243 del Codice ambientale (decreto legislativo 152/2006).
Innanzitutto, si dispone che l'eventuale rischio sanitario dovuto ad acque di falda contaminate vada arginato con misure di attenuazione e poi eliminato alla fonte. Inoltre, le barriere fisiche o idrauliche sono ammesse solo se non è altrimenti possibile intervenire sul rischio sanitario associato alla circolazione delle acque emunte. Ora è possibile immetterle nei cicli produttivi del sito. Diversamente, l'immissione di acque emunte in acque superficiali o in fognatura deve avvenire previa idonea depurazione (anche in loco).
Con il comma 4, si modifica il regime giuridico di tali acque che ora, se ne ricorrono i presupposti, diventano "scarichi" cui si applica la parte III del Codice ambientale. Finora non era chiaro se le acque emunte fossero acque o rifiuti allo stato liquido. La distinzione non è di poco conto poiché muta totalmente l'assetto legislativo e amministrativo di riferimento.
Il ministero dell'Ambiente le ha sempre considerate "rifiuti liquidi" (con tutto ciò che ne deriva in termini di autorizzazioni, scritture ambientali e costi) mentre una fiorente giurisprudenza amministrativa era divisa equamente tra le due opzioni. Ne è derivato uno scenario a macchia di leopardo. Questa modifica era già stata inserita nei vari decreti di semplificazione del Governo Monti ma era rimasta senza esito. Nel frattempo il contenzioso continua a tutto danno dei bilanci aziendali e nessun beneficio ambientale.
Ora, l'importante modifica del nuovo decreto richiama gli elementi costitutivi della nozione di "scarico" del decreto 152/2006; sicché le acque emunte non vanno più considerate rifiuti liquidi ma acque reflue industriali, se ricorrono le caratteristiche dello scarico. I valori limite sono determinati in massa. Il nuovo assetto consente alle imprese di realizzare e gestire le opere necessarie con meno difficoltà (articolo Il Sole 24 Ore del 26.06.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: DECRETO DEL FARE/ LA MEDIAZIONE.
Ritorna l'obbligo di cercare la conciliazione. Aumenta lo spazio del giudice per proporre intese fra le parti in secondo grado.

Ritorna la conciliazione come condizione di procedibilità per le controversie in alcune materie chiave del contenzioso civile. Il decreto legislativo n. 28 del 2010 aveva introdotto nel nostro ordinamento l'istituto della cosiddetta mediazione obbligatoria in attuazione della delega contenuta nella legge 69/2009 che recepiva la direttiva comunitaria 52/2008 del 21.05.2008 «relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale».
L'incostituzionalità
Il decreto legislativo era stato dichiarato incostituzionale dalla Consulta con la sentenza n. 272 del 2012 per eccesso di delega legislativa, sul rilievo che la Legge delega aveva recepito la direttiva comunitaria senza tracciare uno schema di mediazione pregiudiziale obbligatoria e che, dunque, il Governo aveva esorbitato dalle indicazioni del legislatore delegante in violazione dell'articolo 77 della Costituzione.
La Corte costituzionale non aveva invece ravvisato profili di illegittimità della mediazione obbligatoria rispetto al diritto fondamentale di difesa sancito dall'articolo 24 della Carta costituzionale, ritenendo che la Direttiva 2008/52/CE potesse essere recepita dal legislatore nazionale di qualsiasi Stato membro dell'Unione Europea, attraverso la creazione di un modello domestico di mediazione delle liti civili e commerciali formalmente, o sostanzialmente, obbligatoria.
Il nuovo Governo è partito da questo riconoscimento per introdurre nuovamente lo strumento della mediazione obbligatoria attraverso il recente decreto legge contenente sulle «Disposizioni per il rilancio dell'economia». In particolare l'articolo 79 (Capo VIII «Misure in materia di mediazione civile e commerciale») del decreto ha recuperato l'istituto, sanando il vizio censurato dalla Corte costituzionale di eccesso di delega, con lo scopo di alleggerire il carico del contenzioso giudiziario «in entrata», mentre altre disposizioni del decreto sono volte allo smaltimento dell'arretrato.
Le esclusioni
L'istituto della mediazione obbligatoria è stato dunque nuovamente inserito quale requisito di procedibilità per quanto riguarda le cause in materia (i) di condominio, (ii) diritti reali, (iii) divisione, (iv) successioni ereditarie, (v) patti di famiglia, (vi) locazione, (vii) comodato, (viii) affitto di aziende, (ix) risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, (x) contratti assicurativi, bancari e finanziari.
Rispetto al passato sono state escluse le cause relative al risarcimento dei danni da circolazione stradale, così come è stata esclusa la pregiudizialità anche nell'ambito dei procedimenti sommari di accertamento tecnico preventivo. Allo stesso modo restano esclusi dall'ambito di applicazione (a) i procedimenti per ingiunzione, inclusa l'opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione; (b) i procedimenti per convalida di licenza o sfratto, (c) i procedimenti possessori, (d) i procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all'esecuzione forzata; (e) i procedimenti in camera di consiglio, ed infine (f) l'azione civile esercitata nel processo penale.
I mediatori
Oltre alle modifiche sull'ambito di applicazione della normativa, il legislatore d'urgenza ha compiuto altri ritocchi al precedente impianto della mediazione obbligatoria. In particolare, è stata riconosciuta la qualifica di mediatore a tutti gli avvocati regolarmente iscritti all'albo, esonerandoli quindi dal dover acquisire il titolo attraverso la frequentazione di corsi formativi specialistici. Il ruolo poi dell'avvocato viene valorizzato attraverso la necessità voluta dal legislatore della sottoscrizione dei verbali delle procedure anche da parte degli avvocati difensori e non più solo dal soggetto incaricato della mediazione.
Per quanto riguarda invece la durata della procedura di conciliazione si è tentato di dare una stretta in termini di efficacia, prevedendo: da un lato, una prima riunione di carattere esplorativo, volta a verificare concretamente l'esistenza di margini di successo della mediazione con costi ridotti per le parti in caso di accertamento dell'impossibilità di concludere la mediazione; dall'altro lato, la riduzione della durata massima della procedura che passa da quattro a tre mesi.
Il peso del giudice
Infine il nuovo decreto ha riconosciuto a favore del giudice, anche in sede di giudizio di appello, la possibilità –valutati la natura della causa, lo stato dell'istruzione e il comportamento delle parti– di disporre, sino all'udienza di precisazione delle conclusioni ovvero della discussione finale, l'esperimento del procedimento di mediazione, indicando l'organismo di mediazione.
Come detto, il decreto "del fare" (così è stato ribattezzato il decreto legge) ha come obiettivo quello di dare ossigeno al nostro sistema giudiziario civile attraverso una serie di interventi che incidono sull'incremento dei giudici (con ricorso a figure non togate) per lo smaltimento dell'arretrato, nonché attraverso forme deflattive del contenzioso sia già iniziato (estensione della conciliazione obbligatoria tipica del processo del lavoro anche al giudizio civile ordinario) ovvero prima ancora che venga proposto attraverso la mediazione obbligatoria (articolo Il Sole 24 Ore del 26.06.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: DECRETO DEL FARE/ Il dl sviluppo prevede il diritto a un (mini) indennizzo. Corsa a ostacoli per ottenerlo.
Ritardi della p.a., per le imprese oltre al danno anche la beffa.

Piccolo indennizzo dalla p.a. per le imprese vittime di ritardi burocratici nei procedimenti relativi all'avvio e all'esercizio dell'attività. Si comincia a sperimentare (per un anno e mezzo), nel settore delle imprese, il principio per cui basta il superamento del termine massimo per la conclusione del procedimento avviato con una istanza a fare nascere il diritto al risarcimento, che però non può superare i 2 mila euro. Ma niente risarcimento pieno: ci si deve accontentare. E bisogna chiederlo subito, altrimenti si perde tutto. Senza dimenticare che la tecnica usata (tetto massimo insuperabile all'indennizzo) favorisce l'allungamento del ritardo.
Il decreto del «Fare» (dl n. 69 del 21.06.2013 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 144 del 21.06.2013) da un lato introduce un istituto rivoluzionario (risarcimento per il solo ritardo), ma, dall'altro lato, costruisce un procedimento in cui per ottenere il beneficio bisogna fare una corsa ad ostacoli e in cui il vantaggio viene azzerato se l'impresa non ha diritto all'accoglimento dell'istanza.
Meglio di niente, ma il nuovo sistema potrebbe rivelarsi una puntura di zanzara sul corpo di un pachiderma.
Diritto all'indennizzo. Il sistema sembra ben congegnato: l'impresa deve essere da subito informata del diritto all'indennizzo e deve attivarsi per chiederlo; parallelamente si sviluppa anche l'iter del ricorso al Tar per ottenere i provvedimento e quello della responsabilità del funzionario pubblico.
Il governo, innanzi tutto, ha stabilito il principio: l'impresa ha diritto a che l'amministrazione pubblica sia sollecita anche a rispondere, magari bocciando la richiesta, purché senza lungaggini. Ma la p.a. non deve fare aspettare troppo, magari per poi dire di no, oppure dire di sì quando l'assenso non interessa più.
Il diritto di avere una risposta tempestiva a prescindere dall'accoglibilità della richiesta, che pure aveva trovato affermazione in qualche sentenza del Consiglio di stato, diventa regola dell'ordinamento. A ciò corrisponde il vantaggio per le imprese di sapere se un progetto può andare avanti e se un investimento merita di essere proseguito, in attesa del via libera definito dell'amministrazione competente.
La norma ha però il suo limite nella forfettizzazione dell'indennità limitata a una cifra molto bassa. Tra l'altro la norma esclude che possa essere chiesta una cifra superiore, in quanto qualifica il beneficio come «indennizzo» e non come «risarcimento». In sostanza l'indennizzo è garantito, ma se un'impresa ha subito un danno ben superiore dalla cifra massima stabilita dalla legge, se lo deve tenere e non può rivalersi sulla pubblica amministrazione ritardataria. Naturalmente ci si riferisce all'indennizzo da mero ritardo. Se la p.a. ha agito con dolo o colpa spetta anche il risarcimento.
Un percorso (anzi, una corsa) a ostacoli. Tornando all'indennizzo per il solo fatto del ritardo (senza verificare se c'è stata dolo o colpa), attenzione comunque a superare tutti gli ostacoli disseminati dalla disposizione.
Innanzi tutto deve trattarsi di un procedimento a istanza di parte, per cui la legge prevede l'obbligo di pronunciarsi: devono essere procedimenti regolati da una norma che prevede un atto finale da parte dell'ente competente. Sono esclusi i casi di silenzio-assenso o silenzio-rigetto e i concorsi pubblici.
In sostanza un'impresa presenta un'istanza e aspetta che decorra il termine massimo previsto per quel singolo procedimento.
Anche questo è un trabocchetto a sfavore delle imprese: dilatare il termine di conclusione del procedimento significa rinviare l'indennizzo.
L'impresa o il suo consulente deve premurarsi di segnare in agenda quel termine, recuperandolo dalla comunicazione che la p.a. è tenuta a fare all'inizio del procedimento (comunicazione di avvio del procedimento). E se la p.a. è negligente e non fa la comunicazione di avvio, meglio essere prudenti e recuperare il termine massimo dalla legge o dai regolamenti dell'ente, oppure chiedendolo espressamente all'ente procedente.
Anche il decreto legge vuole facilitare il compito alle imprese e prevede che nella comunicazione di avvio del procedimento e nelle informazioni sul procedimento deve essere segnalato il diritto all'indennizzo, le modalità e i termini per conseguirlo e deve anche essere indicato il soggetto cui è attribuito il potere sostitutivo e i termini a questo assegnati per la conclusione del procedimento.
Bisogna, comunque, segnarsi in agenda la data finale a disposizione delle pa, perché entro e non oltre sette giorni dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento bisogna mandare un sollecito formale all'ufficio. Se non lo si fa, l'indennizzo sfuma.
Da notare l'asimmetria: la p.a. può essere lenta, ma per essere indennizzati dalla amministrazione lenta, l'interessato deve correre e, se non lo fa, perde tutto l'indennizzo. In ogni caso così è la norma. Entro sette giorni si scrive una richiesta alla p.a. interessata e si chiede l'intervento sostitutivo e cioè che qualcuno si sostituisca al funzionario inerte e risponda.
Il termine di sette giorni è una tagliola, in quanto la stesso decreto lo definisce termine decadenziale: o lo rispetti o decadi. Chi non è decaduto potrà ottenere, a titolo di indennizzo per il mero ritardo, una somma pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo con decorrenza dalla data di scadenza del termine del procedimento, comunque complessivamente non superiore a 2 mila euro. Questo significa che dal sessantasettesimo giorno di ritardo la p.a. non paga niente. Ma significa anche che l'impresa non può chiedere risarcimenti per perdite patrimoniali eccedenti quella cifra e tanto meno per perdita di chance o lucro cessante (salvo il dolo o la colpa).
Così come tecnicamente elaborata, la norma favorisce i ritardi lunghi. Meglio sarebbe stato individuare una somma crescente con il dilatarsi del ritardo. Come scritta non si disincentivano affatto i ritardi, li si rende solo un po' costosi.
Una volta sollecitato l'intervento sostitutivo, il responsabile potrà, a sua volta, essere rispettoso dei tempi oppure una lumaca.
Nel caso in cui anche il titolare del potere sostitutivo sia lento e non emani il provvedimento nel termine (pari alla metà di quello massimo) o non liquidi l'indennizzo maturato a tale data, l'impresa potrà rivolgersi al Tar per ottenere giustizia. Sia per chiedere l'atto sia per chiedere l'indennizzo, oltre che, in caso di dolo o colpa della p.a., anche per chiedere il risarcimento.
Lo stato comunque ci guadagna le spese di giustizia, anche se il contributo unificato è ridotto alla metà.
Ma attenzione, se l'impresa perde la causa per infondatezza dell'istanza iniziale (se manifesta), il giudice condanna a pagare in favore dell'ente pubblico una somma da due volte a quattro volte il contributo unificato.
Si tratta di una disposizione che vuole disincentivare chi crede di poter sfruttare le norme, facendo raffiche di istanze al solo fine di lucrare sui ritardi: se le istanze sono campate in aria, non solo si rischia di non prendere nulla, ma se il Tar ritiene che l'istanza sia manifestamente infondata, si rischia di sborsare quattrini alla pa.
Novità sperimentale. Attenzione: la novità è sperimentale e non è detto che verrà stabilizzata. Il decreto afferma che le novità si applicheranno, in via sperimentale dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto «Fare», ai procedimenti amministrativi relativi all'avvio e all'esercizio dell'attività di impresa iniziati successivamente alla data di entrata in vigore (articolo ItaliaOggi Sette del 24.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA: DECRETO DEL FARE/ Eliminati i vincoli burocratici per le ristrutturazioni e per richiedere l'agibilità al comune.
Edilizia, meno lacci e lacciuoli.
Meno vincoli burocratici per le ristrutturazioni e per richiedere l'agibilità al comune. Questo significa avere più margine di azione per interventi edilizi sull'esistente e vendite più veloci degli appartamenti finiti.

Il decreto del Fare ritocca il Testo unico per l'edilizia (dpr 380/2001) con novità favorevoli per le imprese. Tra cui anche l'attribuzione alla p.a. del compito di recuperare i pareri necessari per le segnalazioni certificate di inizio attività (Scia) e di comunicazione per l'attività edilizia libera. Vediamo dunque le disposizioni in materia di costruzioni.
Pareri a cura dello sportello unico. Viene attribuito allo Sportello unico per l'edilizia il compito di acquisire i pareri anche prima della presentazione della Scia. La norma cambia nel senso che viene esteso a tutti i titoli edilizi la possibilità di delegare all'amministrazione le incombenze burocratiche di reperimento dei nulla osta.
Il Testo unico per l'edilizia non disciplina l'acquisizione, da parte dello Sportello unico per l'edilizia (Sue), degli atti di assenso presupposti all'inizio dei lavori nel caso in cui l'intervento edilizio sia soggetto alla presentazione della comunicazione di inizio lavori di attività edilizia libera o della Scia edilizia. Il decreto estende la disciplina prevista oggi solo per il permesso di costruire.
Il provvedimento, infatti, dispone che l'interessato possa, prima di presentare la comunicazione o la Scia, richiedere allo Sportello unico l'acquisizione di tutti gli atti di assenso necessari per l'intervento edilizio. Lo Sportello si deve attivare, come nel caso di richiesta di permesso di costruire: se non sono rilasciati gli atti di assenso delle altre amministrazioni pubbliche, o è intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni interpellate, il responsabile dello Sportello unico indice la conferenza di servizi per acquisirli.
Se, poi, l'istanza di acquisizione di tutti gli atti di assenso è contestuale alla segnalazione certificata di inizio attività, l'interessato potrà dare inizio ai lavori solo dopo la comunicazione da parte dello Sportello unico dell'avvenuta acquisizione degli atti di assenso o dell'esito positivo della conferenza di servizi. Le novità si applicano anche alla comunicazione dell'inizio dei lavori per l'attività edilizia libera, qualora siano necessari atti di assenso per la realizzazione dell'intervento edilizio. Peraltro nei centri storici per gli interventi o le varianti a permessi di costruire ai quali è applicabile la segnalazione certificata d'inizio attività con modifiche della sagoma rispetto all'edificio preesistente o già assentito, i lavori non possono in ogni caso avere inizio prima che siano decorsi venti giorni dalla data di presentazione della segnalazione.
La delega alla p.a. di acquisire i pareri alleggerirà gli oneri amministrativi per le imprese.
Termine lavori. Il decreto allunga di due anni i termini di inizio e ultimazione dei lavori autorizzati con permesso di costruire, Dia o Scia alla data di entrata in vigore della norma. Il termine iniziale per l'avvio dei lavori autorizzati con permesso di costruire è di un anno dal rilascio del permesso, mentre, per ultimare l'opera, il termine è fissato a tre anni dall'inizio dei lavori. I lavori avviati dopo la presentazione di Dia o Scia edilizia devono essere anch'essi ultimati entro tre anni. Questi termini si allungano di un biennio, previa comunicazione del soggetto interessato. Poiché la proroga è automatica, il decreto consente di proseguire nei lavori senza necessità di passare dall'ufficio tecnico comunale. Le imprese, quindi, risparmiano il tempo e i costo di una pratica edilizia.
Senza contare che la proroga di legge impedisce di accertare abusi edilizi per gli interventi realizzati dopo la scadenza del termine iniziale.
Ricostruzione e ristrutturazione edilizia. Per il Testo unico dell'edilizia costituiscono «interventi di ristrutturazione edilizia» anche gli interventi che consistono «nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente». Il decreto elimina il requisito della medesima sagoma e, quindi, sono ristrutturazioni edilizie anche gli interventi di ricostruzione di un edificio con il medesimo volume dell'edificio demolito, ma anche con sagoma diversa dal precedente.
Costituiscono, quindi, ristrutturazione gli interventi edilizi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Conseguenza della modifica è che la modifica della sagoma non è rilevante ai fini della individuazione del permesso di costruire come titolo abilitativo necessario (eliminazione del riferimento contenuto nell'articolo 10, comma 1, lettera c) del Testo unico per l'edilizia).
Con una eccezione. Con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente.
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Certificato anche per le singole unità.
Il decreto modifica la disciplina del certificato di agibilità, consentendone la richiesta anche per singoli edifici o singole porzioni di uno stesso stabile. Questo a condizione che le unità siano funzionalmente autonome, e sempre che siano state realizzate e collaudate le opere di urbanizzazione primaria relative all'intero intervento edilizio e siano state completate le parti comuni relative al singolo edificio o singola porzione della costruzione. L'agibilità parziale potrà essere richiesta anche per singole unità immobiliari.
Nei casi di rilascio del certificato di agibilità parziale prima della scadenza del termine entro il quale l'opera deve essere completata, lo stesso è prorogato per una sola volta di tre anni. Viene, inoltre, individuato un procedimento alternativo alla richiesta di agibilità. Se l'interessato non propone domanda deve presentare la dichiarazione del direttore dei lavori o, qualora non nominato, di un professionista abilitato, con la quale si attesta la conformità dell'opera al progetto presentato e la sua agibilità e allegare la richiesta di accatastamento dell'edificio e la dichiarazione dell'impresa installatrice di conformità degli impianti.
Attività edilizia libera. Una dichiarazione in meno per la comunicazione di inizio lavori. Il Testo unico per l'edilizia prevede per l'attività edilizia libera l'invio di una comunicazione dell'inizio dei lavori, a cui deve essere allegata una relazione asseverata firmata da un tecnico abilitato, che dichiari di non avere rapporti di dipendenza con l'impresa né con il committente. Il decreto dispone di eliminare tale dichiarazione da parte del tecnico abilitato.
Vincoli ambientali. Si passa dal silenzio-rifiuto al silenzio-rigetto, immediatamente impugnabile. Secondo il Testo unico per l'edilizia (dpr 380/2001), nel caso in cui manchi un atto di assenso per vincolo ambientale, paesaggistico e culturale, si viene a formare il silenzio rifiuto. Il dl modifica il procedimento in caso di immobili vincolati. Se l'assenso dell'autorità preposta al vincolo è favorevole, il comune sarà tenuto a concludere il procedimento di rilascio del permesso di costruire con un provvedimento espresso e motivato. Se l'atto di assenso viene negato, decorso il termine per il rilascio del permesso di costruire, questo si intenderà respinto (articolo ItaliaOggi Sette del 24.06.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Le regole riformulate dal decreto del Fare sulla gestione dei materiali come sottoprodotti.
Terre da scavo, conta l'attività. Meno adempimenti se il cantiere è a basso impatto.

Sarà il potenziale impatto ambientale dell'attività da cui derivano a determinare le regole cui le terre e rocce da scavo (non contaminate e destinate al riutilizzo in altro sito) dovranno essere sottoposte per poter essere gestite come «sottoprodotti» invece di veri e propri «rifiuti». Infatti, a parità di caratteristiche qualitative, se provenienti da attività ed opere soggette a «Via» e «Aia» (ossia Valutazione di impatto ambientale e Autorizzazione integrata ambientale) i citati residui potranno essere gestiti fuori dal regime dei rifiuti solo se rispetteranno le specifiche disposizioni tecniche e burocratiche sancite dal dm 161/2012, laddove gli stessi materiali, se provenienti da altre imprese, potranno essere gestiti come «sottoprodotti» dietro il semplice rispetto delle condizioni generali stabilite in materia dal «Codice ambientale» (dlgs 152/2006).
Questo il nuovo scenario normativo disegnato dal cosiddetto decreto legge «del fare».
Materiali da scavo e «sottoprodotti». Tecnicamente, l'intervento in materia viene effettuato dal legislatore d'urgenza tramite la semplice delimitazione del campo di applicazione del dm Ambiente 161/2012 alle citate attività, delimitazione però che, innestandosi sulla complessa disciplina del dlgs 152/2006, provoca a valle una completa riformulazione della materia.
Fermo restando il principio in base al quale ogni sostanza o oggetto costituisce un «rifiuto» qualora il suo detentore intende disfarsene, il Codice ambientale prevede infatti diverse categorie di materiali da scavo, disciplinandone differentemente la gestione ossia:
1) il suolo non contaminato e il materiale allo stato naturale riutilizzato nello stesso sito di scavo (escluso ex lege dalla disciplina dei rifiuti in forza dell'articolo 185 del Codice);
2) il suolo escavato e contaminato destinato a utilizzo in altro sito (deve essere obbligatoriamente gestito come rifiuto);
3) il suolo escavato non contaminato e altro materiale allo stato naturale utilizzati in siti diversi da quelli di scavo (gestibili fuori dalla disciplina dei rifiuti solo se rispettano le condizioni per poter essere inquadrati come «sottoprodotti»). Ed è proprio sulle condizioni specifiche per gestire come «sottoprodotti» tali ultimi materiali di scavo che interviene il dl Fare, condizioni che sono però già state oggetto di diversi interventi legislativi. Stabilite inizialmente dall'articolo 186 del dlgs 152/2006, tali regole sono infatti poi state sostituite dalle (più severe) norme sancite dal dm Ambiente 161/2012, decreto che dal 06.10.2012 si è imposto (in virtù della forza conferitagli dal dlgs 152/2006) come unica disciplina di riferimento in materia, provocando l'espressa abrogazione del citato articolo 186 del Codice ambientale.
Stessi residui, regimi diversi. Il dl Fare interviene sul citato assetto limitandosi, come accennato, l'applicabilità del dm 161/2012 ai soli materiali da scavo (non contaminati e destinati a riutilizzo extra situ) derivanti da attività soggette a Via o Aua (ma a esclusione di quelle relative alla posa in mare, disciplinate dall'articolo 109 del Codice).
A seguito di tale previsione, ne deriva che per la gestione come sottoprodotti delle terre e rocce derivanti dalle attività a minor impatto ambientale (dunque, quelle non «Via» o «Aua») sarà dunque sufficiente (stante la perdurante abrogazione dell'originaria disciplina prevista dall'articolo 186 del dlgs 152/2006) il rispetto del (sempre operativo e) articolo 184-bis del Codice ambientale sui sottoprodotti in generale ed a mente del quale (si ricorda) non sono «rifiuti» i residui che:
- sono originati da un processo di produzione di cui costituiscono parte integrante e il cui scopo primario non sia la loro produzione;
- sono destinati a riutilizzo certo ed effettuato nel corso dello stesso o successivo processo di produzione o utilizzazione;
- sono riutilizzabili direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla «normale pratica industriale»;
- sono oggetto di riutilizzo «legale» (ossia tale da soddisfare i requisiti dei prodotti e senza impatti negativi per ambiente e salute umana). E ciò laddove le più grevi regole del dm 161/2012 prevedono invece il rispetto di precisi criteri qualitativi e adempimenti formali per il deposito e trasporto dei sottoprodotti.
Materiali di riporto. Da ultimo, il dl Fare interviene in materia anche in relazione alla disciplina dei «materiali di riporto» eventualmente contenuti nel suolo (ossia i materiali di origine antropica entrati a far parte dello stesso).
E ciò sia specificando la definizione datane dal dl 2/2012 (provvedimento di interpretazione autentica del dlgs 152/2006) sia stabilendo espressamente come la loro gestione al di fuori del regime dei rifiuti (ai sensi dello stesso Codice ambientale) sia possibile solo ove essi materiali di riporto risultino conformi ai limiti massimi previsti dai «test di cessione» (articolo ItaliaOggi Sette del 24.06.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: TEMPI SPRINT E COSTI BASSI: LA MEDIAZIONE TORNA IN GIOCO. Tre mesi per chiudere il procedimento. Conto massimo di 200 euro se salta l'intesa.
Sarà la volta buona? Visti i precedenti della mediazione civile, la domanda è d'obbligo. Dopo le proteste degli avvocati, dopo la bocciatura della Corte costituzionale, il Governo con il decreto "del fare" ha rilanciato in grande stile la mediazione.
L'obiettivo è sempre lo stesso: fare in modo che le parti tentino di mettersi d'accordo, prima di iniziare un processo in piena regola e ammucchiare altri fascicoli sulle scrivanie dei giudici. Nello schema messo a punto dal Governo, però, cambiano alcuni aspetti chiave della procedura: si abbreviano i tempi entro cui bisogna raggiungere un'intesa (da quattro a tre mesi), si introduce un primo incontro «di programmazione» con il mediatore, da convocare entro 30 giorni dalla domanda di conciliazione, e si prevedono costi ridotti a carico delle parti se già nel corso di questo primo contatto si capisce che è impossibile trovare un accordo.
Ad esempio, secondo la versione definitiva del Dl 69/2013 (diversa dalle bozze circolate nei giorni scorsi), in caso di fallimento del tentativo, ogni parte pagherà al massimo 100 euro per una lite che ne vale tra mille e 10mila. E in questo importo sono inclusi anche i 40 euro di spese di avvio del procedimento.
La posizione degli avvocati
Altre due novità previste dal Governo puntano a valorizzare il ruolo dell'avvocato. Da un lato, si prevede che l'accordo finale dev'essere sottoscritto da un legale per poter ottenere l'omologazione da parte del giudice, a sua volta necessaria affinché l'intesa valga come titolo esecutivo. Dall'altro, si dice che tutti gli iscritti all'albo sono mediatori di diritto (con buona pace di quegli avvocati, per lo più giovani, che negli anni scorsi hanno investito tempo e denaro nei corsi per diventare mediatori).
Queste due aperture, però, non sembrano aver placato le proteste della categoria. La prova è nelle reazioni arrivate subito il varo del decreto "del fare": l'Organismo unitario dell'avvocatura (Oua) ha chiesto al presidente Napolitano di non firmare, convocando per domani un'assemblea straordinaria e minacciando l'astensione dalle udienze. Ma c'è anche chi evoca altri ricorsi come quello poi sfociato nella pronuncia 272/2012 della Consulta, che a dicembre dell'anno scorso ha bocciato la conciliazione. Il motivo della bocciatura, infatti, è stato un semplice eccesso di delega, mentre resterebbero da analizzare nel merito le presunte lesioni del diritto di difesa dei cittadini (su cui non si è espressa neppure l'ordinanza di rigetto 156/2013 depositata venerdì scorso dalla Corte).
Le condizioni del debutto
A calmare le acque potrebbe essere l'apertura del ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, che ha accettato di incontrare l'avvocatura e il presidente del Consiglio nazionale forense, Guido Alpa.
D'altra parte, il Dl 69 introduce una sorta di fase di decantazione, in cui cercherà di inserirsi chi pretende una correzione delle regole. Le nuove regole sulla mediazione, infatti, saranno operative solo una volta trascorsi 30 giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione. Quindi, al massimo, entro il 20 settembre.
Nel frattempo, resta la situazione di emergenza della giustizia civile italiana, che affossa la competitività del sistema-Paese. Come rilevato da uno studio dell'Ocse pubblicato venerdì scorso, l'Italia è all'ultimo posto per durata dei processi tra gli Stati aderenti all'organizzazione: 2.866 giorni in media, dal primo grado alla Cassazione. Quasi otto anni, contro i due e mezzo della Francia.
Si spiega anche con questi dati la volontà del Governo di rilanciare la mediazione, anche se i danni derivanti dalla circolazione stradale sono usciti dalla lista delle materie per cui è obbligatoria. Una scelta forse dettata dalla necessità di studiare misure specifiche per un settore in cui –accanto ai privati– nelle liti sono coinvolti anche operatori strutturati come le compagnie assicurative.
La conciliazione nel processo
Accanto al ripristino della mediazione come «condizione di procedibilità» del giudizio, il Governo rafforza anche la conciliazione all'interno del processo.
Il giudice potrà letteralmente mandare le parti davanti a un organismo di mediazione, anziché semplicemente «invitarle a trovare un accordo». Inoltre, viene previsto che il giudice –entro la fine dell'istruttoria– formuli alle parti una proposta transattiva o conciliativa, il cui rifiuto senza giustificato motivo costituirà comportamento valutabile ai fini della sentenza (articolo Il Sole 24 Ore del 24.06.2013).

SEGRETARI COMUNALI: Retribuzione di posizione, scontro segretari-Inps
LA CONTESA/ Ancora numerosi i ricorsi sulla valutazione a fini previdenziali delle maggiorazioni alla voce stipendiale.
Lo scontro fra segretari comunali e provinciali e l'Inps sulla maggiorazione della retribuzione di posizione non ha visto ancora la parola fine. Ora anche la giurisprudenza, un tempo a fianco dei segretari, registra alcune sentenze favorevoli all'istituto di previdenza. Ma oggi, forse, i segretari hanno qualche ragione in più.

Così si può riassumere lo stato attuale dell'annosa vicenda che riguarda la valutazione ai fini pensionistici della maggiorazione della retribuzione di posizione prevista dall'articolo 41, comma 4, del Ccnl del 16.05.2001.
I segretari comunali e provinciali sostengono che la maggiorazione abbia la stessa natura della retribuzione di posizione, forti di un parere Aran che va in questa direzione. Concludono, quindi, con la valutazione di entrambe le voci stipendiali in quota «A» della pensione. L'Inps, invece, afferma che i due emolumenti non possono essere considerati omogenei, perché la retribuzione di posizione è fissa e continuativa e il suo importo è stabilito dal Ccnl, mentre, per la maggiorazione, il Ccdi del 22.12.2003 individua condizioni soggettive e oggettive in presenza delle quali l'ente può (e non deve) riconoscere la maggiorazione.
Ovviamente i segretari, pensionati, ricorrono contro i provvedimenti che considerano la maggiorazione in quota «B»: negli anni passati, molte sentenze hanno accolto questi ricorsi. Nonostante questo orientamento giurisprudenziale, l'ex Inpdap (note operative 11/2006 e 23/2011), persevera sulla propria posizione. Ma il vento sembra cambiare, e la Corte dei conti, in sede di appello, sembra riportarsi in linea con l'istituto di previdenza (Sezione III, sentenze 279/2013 e 293/2013).
L'Unione segretari torna alla carica, forte del fatto che, oggi, i segretari sono dipendenti del ministero dell'Interno. E chiedono all'Inps di mettere nero su bianco il motivo per il quale i loro colleghi, dirigenti ministeriali, si vedono valutata in maniera più pesante sia la retribuzione di posizione di parte fissa, sia quella di parte variabile, come pure i dirigenti e i titolari di posizione organizzativa degli enti locali, mentre per i segretari si persiste in un atteggiamento contrario, con una disparità di trattamento.
Anche a questo, l'Inps risponde richiamando la sentenza della Corte dei conti del Piemonte 124/ 2012, in cui si evidenzia la non sovrapponibilità della struttura retributiva dei segretari e delle altre figure dirigenziali, confermata dalla presenza di un comparto di contrattazione ad hoc. L'Unione ha dunque scritto nuovamente all'Inps e al presidente della Corte dei conti, ribattendo, punto per punto, sulle ragioni di una valutazione in quota «A» della maggiorazione. Non resta che attendere i prossimi sviluppi (articolo Il Sole 24 Ore del 24.06.2013).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Non sussiste l'obbligo della previa comunicazione di avvio del procedimento nel caso di adozione del provvedimento di revoca di in presenza di un'informativa prefettizia antimafia sfavorevole.
Il sistema delle informative essendo ispirato alla logica della massima anticipazione della soglia di difesa sociale non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo, ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari.

L'adozione del provvedimento di revoca di un'aggiudicazione o comunque di un incarico di svolgimento di pubblico servizio, in presenza di un'informativa prefettizia antimafia sfavorevole, configura un provvedimento non soltanto fortemente caratterizzato nel profilo contenutistico, ma anche connotato dall'urgenza del provvedere.
Ad escludere l'obbligo della previa comunicazione di avvio del procedimento concorre, quindi, il carattere spiccatamente cautelare della misura, che fa rilevare quelle esigenze di celerità, che rendono giustificata l'omissione della notizia partecipativa altrimenti prescritta. Pertanto, nel caso di specie, va respinta, in quanto priva di fondamento giuridico, la doglianza svolta con riguardo all'asserita violazione delle garanzie di comunicazione e partecipazione al procedimento.
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Il sistema delle informative essendo ispirato alla logica della massima anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata, la misura interdittiva non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi sull'esistenza della contiguità dell'impresa con organizzazione malavitose, e quindi del condizionamento in atto dell'attività di impresa, ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza nell'attività imprenditoriale della criminalità organizzata.
L'unico limite è rappresentato dalla non spendibilità -a salvaguardia dei principi di legalità e di certezza del diritto- di elementi di semplice sospetto o meramente congetturali, privi di riscontro fattuale (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 27.06.2013 n. 787 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sulla portata dell'art. 12 del D.L. 07.05.2012, n. 52, riguardante l'obbligo di seduta pubblica per la fase di apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche.
L'art. 12 del D.L. 07.05.2012, n. 52, riguardante l'obbligo di seduta pubblica per la fase di apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche non ha portata ricognitiva del principio affermato con la pronuncia n. 13 del 2011 ma ha la specifica funzione transitoria di salvaguardare gli effetti delle procedure concluse o pendenti alla data del 9 maggio 2012, nelle quali si sia proceduto all'apertura dei plichi in seduta riservata, recando in sostanza, per questo aspetto, una sanatoria di tali procedure.
L'orientamento volto a riconoscere la natura sanante dell'art. 12 del D.L. 07.05.2012, n. 52 è diretto a contenere gli oneri amministrativi ed economici che deriverebbero della caducazione, altrimenti inevitabile, di centinaia di gare che, diversamente, sarebbero di fatto travolte per il mero mancato rispetto dei canoni di pubblicità dell'apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche, in assenza di qualsivoglia indizio circa la manomissione o l'occultamento degli stessi da parte dell'amministrazione.
Non può, invero, non riconoscersi a tale tesi un'utilità non trascurabile dal punto di vista della deflazione del contenzioso amministrativo e del rispetto del principio di affidamento e buona fede, da riferire tanto alla stazione appaltante, quanto all'impresa aggiudicataria della gara, che legittimamente può avere confidato sulla vigenza di determinate regole procedimentali (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 27.06.2013 n. 16 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI FORNITURE: E' legittima l'esclusione di un concorrente per tardivo deposito della campionatura oggetto di offerta.
E' legittima l'esclusione di un concorrente per tardivo deposito di una parte della campionatura oggetto di fornitura, in quanto la campionatura era funzionale alla valutazione delle offerte da parte della commissione di gara.
Infatti, la stessa era indicata quale elemento da produrre a corredo della relazione tecnica (quest'ultima da inserire senz'altro nel plico contenente l'offerta tecnica) e che, pertanto, solo per ovvie ragioni di spazio la campionatura non doveva essere inserita nei plichi contenenti le offerte, pur dovendosi rispettare, per il suo deposito, la medesima scansione temporale fissata per la presentazione delle offerte (in particolare, la lex specialis disponeva che la stessa doveva essere prodotta "entro il termine di scadenza per la presentazione delle offerte").
Né, nel casi di specie, ha motivo di porsi, un problema di possibile violazione dell'art. 46, c. 1-bis, del d.lgs. n.163 del 2006, che sancisce la tassatività delle clausole di esclusione; per vero, è lo stesso art. 42, c. 1, lett. l), del Codice dei contratti pubblici a prevedere, negli appalti di forniture, il deposito di campioni quale ordinaria modalità di prova del requisito di capacità tecnica, di tal che la clausola del bando risulta coerente con la richiamata previsione di rango primario, sia con riguardo alla natura dell'incombente posto a carico degli offerenti, sia in relazione alla necessità di fissare un termine perentorio per il deposito dei campioni di fornitura (in quanto funzionale a comprovare il requisito di capacità tecnica dell'offerente).
Va ritenuta immune da vizi, pertanto, la determinazione di esclusione assunta dall'Università in danno della originaria ricorrente che, avendo tardivamente prodotto la campionatura oggetto di offerta, era senz'altro da escludere dalla selezione, anche a garanzia del principio della par condicio competitorum (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.06.2013 n. 3516 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’urbanistica sovrintende al razionale sfruttamento antropico del territorio e trova nella disciplina edilizia la sua attuazione concreta; per questo, l’urbanistica mira ad asservire l’attività edilizia pubblica e privata ad atti di programmazione generale tendenti a tracciare le coordinate fondamentali per un uso razionale e sapiente del territorio, ai fini di preservarlo per il futuro, con un’attenzione verso diversi interessi, tutti inevitabilmente coinvolti nell’attività edilizia, assistiti di volta in volta da legislazioni di settore orientate alla loro specifica salvaguardia (economia, salute, paesaggio, ambiente).
Il paesaggio attiene invece alla preservazione di valori estetici, storici, culturali, i quali sono difesi con la previsione di vincoli conformativi, diretti ed indiretti, che ne limitano in concreto le possibilità di intervento, normalmente ammesse su altri beni non rilevanti per questi profili.
Ciò spiega perché non è possibile estendere automaticamente la disciplina urbanistico-edilizia ai bene paesaggistici, ossia a beni particolari ad “uso controllato".
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Nonostante gli elementi specifici e propri che coinvolgono l’interesse paesaggistico, l’osservanza delle regole ermeneutiche che impongono una rigorosa interpretazione letterale dell’art. 167 d.lgs. 42/2004 non esclude affatto che il volume tecnico, rispetto alla nozione di volume edilizio, possa ricevere, in considerazione della peculiare destinazione funzionale, una valutazione differenziata, caso per caso, suscettibile di concludersi con l’autorizzazione paesaggistica postuma, qualora in concreto il manufatto non presenti elementi incompatibili o comunque di estraneità con il paesaggio nel quale è destinato a collocarsi.
A questa soluzione il Collegio perviene sulla base di un’attenta indagine sul concetto di volume tecnico.
E’ tale l’opera edilizia priva di autonomia funzionale, anche potenziale, perché destinata a contenere impianti al servizio di una costruzione principale, destinati esclusivamente a soddisfare esigenze tecniche e funzionali dell’abitazione e che non possono essere ubicati all’interno di questa.
Tre sono i parametri utili per identificare la nozione di volume tecnico:
- il primo, di tipo funzionale, secondo cui l’opera che costituisce volume tecnico deve assumere un rapporto di strumentalità necessaria rispetto alla costruzione principale perché ne consente un migliore e più efficiente utilizzo;
- il secondo ed il terzo di tipo strutturale, nel senso che, da un lato, la collocazione esterna del volume tecnico appare l’unica soluzione praticabile per impossibilità di ricorrere a soluzioni progettuali diverse e, dall’altro, deve esistere un rapporto di necessaria proporzionalità tra volume tecnico e costruzione principale.
Nella nozione di volume tecnico non rientrano, ad esempio, le soffitte, gli stenditoio chiusi e quelli di sgombero, i piani di copertura qualora, impropriamente considerati sottotetti, costituiscano in realtà mansarde perché dotate di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda. Devono invece considerarsi gli impianti serventi connessi a condotte idrica, termica o all’ascensore.
Il Collegio è dell’avviso che il concetto di volume tecnico sia rilevante non solo per gli aspetti urbanistici ed edilizi ma anche ai fini della valutazione paesaggistica, tanto da sottrarlo, in sede di accertamento postumo in sanatoria, alla preclusione fissata dall’art. 167, comma 4, lett. a), d.lgs. 42/2004. Questo perché l’attributo “tecnico”, finisce per connotare l’opera di un suo contenuto strumentale e funzionale tipico, tale da condizionarne anche la disciplina di riferimento.
Non è un caso che, proprio in tema di autorizzazione paesaggistica in sanatoria, l’ipotesi del volume tecnico riceva dallo stesso ministero resistente una considerazione differenziata rispetto alla disciplina generale relativa ai volumi edilizi. Al riguardo, la circolare del Segretario generale n. 33 del 26.06.2009, nel dettare talune linee interpretative ed operative ai fini dell’autorizzazione paesaggistica postuma, ai sensi del più volte menzionato art. 167 d.lgs. 42/2004, chiarisce che “per volumi s’intende qualsiasi manufatto costituito da parti chiuse emergente dal terreno o dalla sagoma di un fabbricato preesistente indipendentemente dalla destinazione d’uso del manufatto", per poi precisare: “ad esclusione dei volumi tecnici”.
Benché la circolare sia espressione di un potere di mero indirizzo interno, privo di efficacia precettiva autonoma e non vincolante per i giudici, essa è tuttavia un chiaro indizio di come la stessa amministrazione competente abbia sposato una soluzione interpretativa che ragionevolmente tiene conto delle peculiari caratteristiche dei volumi tecnici.
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L’esistenza di un vincolo paesaggistico esclude la formazione del silenzio-assenso sulle domande per il rilascio di titoli edilizi in sanatoria.
Se il parere non è espresso nel termine previsto, si verifica un’ipotesi di silenzio-rifiuto o silenzio-inadempimento, perché sussiste sempre l'obbligo dell'ente locale di provvedere espressamente nel termine fissato dalla normativa sopra menzionata.
Prima di affrontare i diversi motivi di censura, il Collegio ritiene opportuno fornire un chiarimento sull’esatta portata applicativa della normativa di legge dedicata all’autorizzazione paesaggistica in sanatoria.
Appurata la sussistenza di questo elemento di fatto, è necessario a questo punto chiarire se anche i volumi tecnici, al pari delle altre opere, soggiacciono alla regola posta dall’art. 167, comma 4, lett. a), d.lgs. 42/2004, secondo cui l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria è consentita, tra l'altro, "per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati"; ovvero se la particolare destinazione funzionale che caratterizza i predetti volumi tecnici, finisca per sottrarli dal regime restrittivo posto dal menzionato art. 167.
Il tema è complesso, tanto da essere oggetto di pronunce giurisdizionali tra di loro contrastanti.
Secondo un primo orientamento, infatti, la giurisprudenza amministrativa si è espressa nel senso che la nozione di volume tecnico, in virtù della sua specifica destinazione, non è assimilabile a quella di volume, il cui aumento in eccesso rispetto a quanto legittimamente realizzabile impedisce la compatibilità paesaggistica (cfr. TAR Puglia, Bari, sez. III, 13.01.2013, n. 35; TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 04.11.2009, n. 6827; Sez. IV, 21.09.2010, n. 17491; TAR Emilia, Parma, 15.09.2010, n. 435).
Secondo altro orientamento, invece, se è vero che la nozione di volume tecnico assuma in sé una connotazione funzionale e strutturale del manufatto, tuttavia tale nozione non può che essere limitata alla disciplina urbanistica ed edilizia; ne deriva che la stessa non sarebbe in grado di derogare ai principi riduttivi posti in materia di tutela del paesaggio (TAR Campania, Salerno, sez. I, 11.10.2011, n. 1642; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 17.02.2010, n. 963).
Per risolvere la questione, è essenziale, ad avviso del Collegio chiarire quale sia la relazione tra la materia urbanistica e quella del paesaggio.
L’urbanistica sovrintende al razionale sfruttamento antropico del territorio e trova nella disciplina edilizia la sua attuazione concreta; per questo, l’urbanistica mira ad asservire l’attività edilizia pubblica e privata ad atti di programmazione generale tendenti a tracciare le coordinate fondamentali per un uso razionale e sapiente del territorio, ai fini di preservarlo per il futuro, con un’attenzione verso diversi interessi, tutti inevitabilmente coinvolti nell’attività edilizia, assistiti di volta in volta da legislazioni di settore orientate alla loro specifica salvaguardia (economia, salute, paesaggio, ambiente).
Il paesaggio attiene invece alla preservazione di valori estetici, storici, culturali, i quali sono difesi con la previsione di vincoli conformativi, diretti ed indiretti, che ne limitano in concreto le possibilità di intervento, normalmente ammesse su altri beni non rilevanti per questi profili.
Ciò spiega perché non è possibile estendere automaticamente la disciplina urbanistico-edilizia ai bene paesaggistici, ossia a beni particolari ad “uso controllato".
Per la soluzione della questione, ad avviso del Collegio, se è vero che occorre avere ben presente la diversità degli interessi tutelati in ambito urbanistico ed in quella paesaggistico, diversità che induce a distinguere e a non sovrapporre le relative normative, non si può tuttavia ignorare che sia la disciplina in materia urbanistico-edilizio sia quella concernente il paesaggio hanno riguardo alla cura, per profili differenti ma tra loro complementari, di uno stesso elemento che consiste nel territorio. Se così è, si rafforza la prospettiva che vede i due profili interferire e condizionarsi a vicenda.
La saldatura tra i due aspetti è d’altronde confermata da un importante concetto, quello di “governo del territorio”, introdotto dalla legge costituzionale del 18.10.2001, n. 3 che ha modificato il titolo V della Costituzione. Il governo del territorio è nozione inclusiva del complesso delle discipline che individuano e graduano gli interessi in base ai quali possono essere regolati gli interventi ammissibili sul territorio, risorsa per definizione limitata (Corte Cost., 28.06.2004, n. 196). Con questo concetto, la materia urbanistica evolve verso una nozione più ampia che coinvolge tutto ciò che attiene all’uso del territorio ed alla localizzazione di impianti ed attività (Corte Cost. 07.10.2003, n. 307).
E’ sempre più evidente ora che, in pratica, aspetti dapprima relegati in ambito urbanistico ed edilizio, incrocino la tutela del paesaggio e, per questo, finiscano per condizionare la lettura delle relative discipline.
Alla luce delle considerazioni appena svolte, occorre ora analizzare la specifica normativa prevista in tema di autorizzazione paesaggistica in sanatoria.
La strutturale e funzionale separazione degli interessi pubblici coinvolti giustifica, a livello sistematico, la diversità della stessa disciplina ordinaria in tema di autorizzazione paesaggistica che l'art. 146, comma 4, d.lgs. 42/2004 configura come atto "autonomo" e "presupposto" rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio; questi non possono essere rilasciati in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi edilizi effettuati senza titolo, salvi i casi richiamati dall’art. 167, commi 4 e 5, d.lgs. 42/2004.
Riguardo a questi ultimi, l'art. 167, comma 4, lett. a), d.lgs. 42/2004 chiarisce che “l'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5”, tra gli altri, “per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”. Il fondamento della menzionata disposizione è di consentire, in deroga al già indicato divieto generale, l'autorizzazione paesaggistica postuma esclusivamente per i c.d. abusi minori, ossia quelli che non producano aumento di “superfici utili”, “volumi” ovvero “aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Il Collegio, per questo, non condivide la posizione di recente assunta dal Tar Sicilia, Palermo, (Sez. I) che, con ordinanza collegiale n. 802 del 10.04.2013, ha rimesso alla Corte di giustizia dell'Unione europea la questione pregiudiziale relativamente alla circostanza se l’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. ed il principio di proporzionalità come principio generale del diritto dell’U.E., ostino all’applicazione di una normativa nazionale che -come il più volte citato art. 167, comma 4, lett. a), d.lgs. 42/2004- esclude la possibilità dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria per tutti gli interventi edilizi comportanti incremento di superfici e volumi, indipendentemente dall’accertamento in concreto della compatibilità di tali interventi ai valori di tutela paesaggistica dello specifico sito considerato.
L’ordinanza in argomento, per quanto operi un’ardita ed apprezzabile operazione ermeneutica, con l’aggancio del diritto di proprietà e della tutela del paesaggio ai diritti fondamentali dell’Unione europea, trascura tuttavia l’evidente profilo sanzionatorio-punitivo contenuto nella previsione di cui al menzionato art. 167, comma 4, profilo che, ancorché vada a scapito della facoltà edificatorie connesse al diritto di proprietà, non può che costituire una prerogativa intangibile del legislatore nazionale, in ossequio alla salvaguardia del bene paesaggio, peraltro, assistito da previsione di rango costituzionale.
In altri termini, il legislatore italiano, in coerenza con l’accentuato profilo costituzionale dell’interesse pubblico alla preservazione del paesaggio, ha volutamente differenziato la disciplina in materia di accertamento postumo di conformità degli interventi effettuati in assenza o in difformità dal titolo edilizio, a seconda che il bene da tutelare sia l’ordinato assetto del territorio sotto i profili urbanistici ed edilizi ovvero la tutela del paesaggio; la conformità in sanatoria è sempre possibile nel primo caso, anche qualora sia presente un incremento dei volumi o delle superfici (art. 36 d.p.r. 380/2001), mentre risulta inammissibile nel secondo caso, qualora vi sia da presidiare il paesaggio.
Questa scelta del legislatore nazionale non sembra censurabile per contrasto ai principi costituzionali della ragionevolezza e della parità di trattamento è per quelli dell’ordinamento comunitario, perché la necessità di preservare al massimo livello il paesaggio impone una soluzione legislativa che, nei confronti degli interventi edilizi sine titulo, abbia carattere fortemente dissuasivo se non punitivo-sanzionatorio.
Il diverso approccio del legislatore, più pragmatico e disponibile nel caso di attività edilizia senza titolo od in difformità da questo, rispetto ai casi di attività edilizia prive di nulla osta paesaggistico trova, peraltro, una chiara spiegazione anche sotto il profilo logico giuridico. Ed invero, per quanto riguarda l’attività edilizia senza titolo o in difformità da questo, l’amministrazione locale non ha che da svolgere un controllo di conformità tra la singola costruzione abusiva e le previsioni contenute nei piani di programmazione e nella regolamentazione edilizia comunale (regolamento edilizio e norme tecniche di attuazione); simile riscontro postumo è invece inimmaginabile in tema di paesaggio, per il quale l’amministrazione competente deve svolgere un giudizio che non si riduce ad un riscontro deduttivo di conformità ma implica una valutazione di merito, sugli aspetti anche estetici, valutazione che potrebbe essere irrimediabilmente compromessa nel momento in cui il nuovo volume è già venuto ad esistenza.
E’ per questa ragione che –contrariamente a quanto sostenuto anche in giurisprudenza, (in particolare, TAR Umbria, 29.11.2011, n. 388 che pure ha escluso la sanabilità dei volumi tecnici) secondo cui le nozioni di "volume" e di "superficie utile" sono estranee alla tutela paesaggistica, che farebbe perno, piuttosto, sulla "percettibilità visiva"– si è dell’avviso, invece, che tali nozioni siano comunque rilevanti ai fini della tutela paesaggistica; esse tuttavia ricevono, rispetto ad una valutazione di ambito meramente urbanistico-edilizio, una considerazione diversa che prescinde dal concetto di “carico urbanistico” per coinvolgere aspetti eminentemente estetici e percettivi.
Orbene, nonostante gli elementi specifici e propri che coinvolgono l’interesse paesaggistico, l’osservanza delle regole ermeneutiche che impongono una rigorosa interpretazione letterale dell’art. 167 d.lgs. 42/2004 non esclude affatto che il volume tecnico, rispetto alla nozione di volume edilizio, possa ricevere, in considerazione della peculiare destinazione funzionale, una valutazione differenziata, caso per caso, suscettibile di concludersi con l’autorizzazione paesaggistica postuma, qualora in concreto il manufatto non presenti elementi incompatibili o comunque di estraneità con il paesaggio nel quale è destinato a collocarsi.
A questa soluzione il Collegio perviene sulla base di un’attenta indagine sul concetto di volume tecnico.
E’ tale l’opera edilizia priva di autonomia funzionale, anche potenziale, perché destinata a contenere impianti al servizio di una costruzione principale, destinati esclusivamente a soddisfare esigenze tecniche e funzionali dell’abitazione e che non possono essere ubicati all’interno di questa (Corte Cass. Sez. II civ. 03.02.2011, n. 2566; Cons. Stato, sez. IV, 04.05.2010, n. 2565).
Tre sono i parametri utili per identificare la nozione di volume tecnico:
- il primo, di tipo funzionale, secondo cui l’opera che costituisce volume tecnico deve assumere un rapporto di strumentalità necessaria rispetto alla costruzione principale perché ne consente un migliore e più efficiente utilizzo;
- il secondo ed il terzo di tipo strutturale, nel senso che, da un lato, la collocazione esterna del volume tecnico appare l’unica soluzione praticabile per impossibilità di ricorrere a soluzioni progettuali diverse e, dall’altro, deve esistere un rapporto di necessaria proporzionalità tra volume tecnico e costruzione principale (TAR Campania, Napoli, sez. III, 09.11.2010, n. 23699; sez. IV, 10.05.2010, n. 3433).
Nella nozione di volume tecnico non rientrano, ad esempio, le soffitte, gli stenditoio chiusi e quelli di sgombero, i piani di copertura qualora, impropriamente considerati sottotetti, costituiscano in realtà mansarde perché dotate di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda (Cons. Stato, sez. IV, 28.01.2011, n. 687). Devono invece considerarsi gli impianti serventi connessi a condotte idrica, termica o all’ascensore.
Il Collegio è dell’avviso che il concetto di volume tecnico sia rilevante non solo per gli aspetti urbanistici ed edilizi ma anche ai fini della valutazione paesaggistica, tanto da sottrarlo, in sede di accertamento postumo in sanatoria, alla preclusione fissata dall’art. 167, comma 4, lett. a), d.lgs. 42/2004. Questo perché l’attributo “tecnico”, finisce per connotare l’opera di un suo contenuto strumentale e funzionale tipico, tale da condizionarne anche la disciplina di riferimento.
Non è un caso che, proprio in tema di autorizzazione paesaggistica in sanatoria, l’ipotesi del volume tecnico riceva dallo stesso ministero resistente una considerazione differenziata rispetto alla disciplina generale relativa ai volumi edilizi. Al riguardo, la circolare del Segretario generale n. 33 del 26.06.2009, nel dettare talune linee interpretative ed operative ai fini dell’autorizzazione paesaggistica postuma, ai sensi del più volte menzionato art. 167 d.lgs. 42/2004, chiarisce che “per volumi s’intende qualsiasi manufatto costituito da parti chiuse emergente dal terreno o dalla sagoma di un fabbricato preesistente indipendentemente dalla destinazione d’uso del manufatto", per poi precisare: “ad esclusione dei volumi tecnici”.
Benché la circolare sia espressione di un potere di mero indirizzo interno, privo di efficacia precettiva autonoma e non vincolante per i giudici, essa è tuttavia un chiaro indizio di come la stessa amministrazione competente abbia sposato una soluzione interpretativa che ragionevolmente tiene conto delle peculiari caratteristiche dei volumi tecnici.
Su queste premesse di carattere metodologico possono ora essere affrontate le singole censure proposte dalla ricorrente.
Infondato è il primo motivo di ricorso, con il quale parte ricorrente deduce la tardività del provvedimento impugnato perché adottato dopo il termine, pari a novanta giorni, previsto dagli articoli 167, comma 5, e 181, commi 1-ter e 1-quater, d.lgs. 42/2004.
Secondo pacifico orientamento della giurisprudenza, al quale il Collegio aderisce, l’esistenza di un vincolo paesaggistico esclude la formazione del silenzio-assenso sulle domande per il rilascio di titoli edilizi in sanatoria (Cons. Stato, sez. IV, 31.03.2009, n. 2024).
Se il parere non è espresso nel termine previsto, si verifica un’ipotesi di silenzio-rifiuto o silenzio-inadempimento, perché sussiste sempre l'obbligo dell'ente locale di provvedere espressamente nel termine fissato dalla normativa sopra menzionata (TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 14.01.2009, n. 10; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 06.02.2008).
Irrilevante, nel caso in esame, si pone la violazione dell’art. 7 L. n. 241/1990, oggetto del secondo motivo di ricorso, atteso che la Soprintendenza, benché abbia in effetti omesso la comunicazione dell’avvio del procedimento, ha tuttavia garantito nella sostanza il contraddittorio e la partecipazione procedimentale alla ricorrente. Quest’ultima ha infatti ricevuto, in attuazione dell’art. 10-bis L. n. 241/1990, la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda, di cui alla nota prot. n. 29804/2012; ciò ha in definitiva consentito alla ricorrente di produrre ulteriori elementi istruttori prima della fase decisoria.
Fondati, invece, sono il terzo, il quarto ed il quinto motivo di censura che -per ragioni di connessione argomentativa- possono ricevere trattazione congiunta.
Con gli stessi parte ricorrente censura, sotto diversi profili, la violazione degli articoli 167, comma 4, e 181, commi 1-ter e 1-quater, d.lgs. 42/2004, nonché l’eccesso di potere per sviamento, carenza d’istruttoria, dei presupposti ed irragionevolezza. Si duole infine della violazione dell’art. 12, punto 4, NTA del Piano territoriale paesistico “Cilento costiero", con i connessi profili di eccesso di potere per difetto assoluto di motivazione, carenza d’istruttoria, illogicità, irrazionalità.
Parte ricorrente sostiene, in sintesi, che nessuno degli interventi edilizi svolti sia in grado di creare una volumetria aggiuntiva o una superficie utile, calcolabili a fini residenziali, trattandosi di volumi tecnici e quindi estranei al perimetro tracciato dagli artt. 146 e 167 del d.lgs. 42 del 2004, il codice dei beni culturali.
Sebbene la circostanza sia messa in dubbio dalla Soprintendenza, il Collegio è dell’avviso che effettivamente il manufatto contestato realizzi un volume tecnico, di carattere pertinenziale e destinato esclusivamente ad impianti tecnologici. Il dato è, infatti, difficilmente contestabile essendo suffragato sia dall’esito del sopralluogo effettuato dall’Ufficio tecnico comunale (prot. n. 3882 del 07.05.2012) sia dalla documentazione fotografica, allegata agli atti della causa, che ha costituito uno dei supporti istruttori alla richiesta di accertamento di conformità. Il manufatto è destinato al ricovero di due serbatoi di acqua con autoclave ed attrezzi vari da giardino.
Sotto questo profilo non si rinviene la carenza documentale lamentata dalla Soprintendenza, atteso che le integrazioni documentali richieste sono state fornite all’organo di controllo in allegato alla nota di trasmissione degli atti disposta dall’amministrazione comunale.
In linea con la giurisprudenza amministrativa ormai prevalente, ove la documentazione sia incompleta, la Soprintendenza ha il potere/dovere di chiederne l’integrazione, non potendosi limitare ad annullare l’atto sottoposto al suo controllo (ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 03.05.2011, n. 2611).
Nel caso di specie appare rilevante la circostanza che le opere oggetto di sanatoria edilizia e paesaggistica consistono in una volumetria invero modesta, inferiore a 25 metri cubi, per una superficie complessiva di circa 11 metri quadri. Il manufatto, come sopra chiarito, è destinato al ricovero di impianti idrici, include la pavimentazione della relativa parte sovrastante, con conseguente incremento della preesistente area già utilizzata come terrazzo, sulla quale è stata installata un’inferriata di delimitazione del bordo.
In altri termini, gli interventi edilizi sopra indicati non hanno creato volumetria né superficie utili e calcolabili a fini residenziali ed, inoltre, non sono individuabili ad occhio nudo dalla visione del prospetto della collina sulla quale insistono.
Va inoltre considerato che la cubatura del manufatto non supera il 20% del volume del fabbricato principale (come da certificato UTC, acquisito agli atti della causa), del quale costituisce pertinenza, come chiarito dal disposto di cui all’art. 3, comma 5, lett. e.6) d.p.r. n. 380/2001.
Infine, ai sensi dell’art. 12, punto 4, NTA del Piano territoriale Paesistico “Cilento Costiero”, nella zona CIRA (Conservazione integrale e riqualificazione ambientale), sottozona 3, la Soprintendenza medesima, con l’impugnato parere del 27.11.2012, ammette anche interventi di ristrutturazione edilizia integrale con eventuale adeguamento igienico e funzionale una tantum, nel rispetto del limite di incremento di volumetria del 10%, con possibilità di arrotondare a 6 metri quadri i valori inferiori a tale soglia e fino ad un massimo assoluto di 16 metri quadri di superficie utile.
Il volume tecnico realizzato risponde alle dimensioni massime consentite, anche in considerazione della circostanza che la fattispecie in esame non realizza una ristrutturazione edilizia, bensì il meno invasivo intervento di manutenzione straordinaria (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 25.06.2013 n. 1429 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Sulla competenza del Consiglio Comunale alla decisione sull'individuazione delle nuove sedi farmaceutiche, ai sensi dell'art. 11 del d.l. n. 1/2012, conv. con l. n. 27/2012.
La nuova disciplina statale in materia di assistenza farmaceutica, introdotta con l'art. 11 del d.l. n. 1/2012, ha ampliato il numero di farmacie da ubicare sul territorio e, nel contempo, ha attribuito al Comune il potere di identificare le zone in cui collocare le nuove farmacie, secondo criteri ispirati all'equa distribuzione sul territorio, nonché all'accessibilità del servizio farmaceutico anche nelle aree scarsamente abitate.
Come affermato dalla giurisprudenza condivisa dal Collegio, è, pertanto, evidente che, nell'attuale sistema, l'atto mediante cui il Comune approva l'istituzione di nuove sedi farmaceutiche ha riflessi sulla pianificazione e organizzazione del servizio farmaceutico nell'intero territorio comunale ed è atto che esprime scelte fondamentali attinenti alla vita sociale e civile della comunità locale: per l'effetto, la competenza ad adottare la relativa decisione non può che spettare al Consiglio Comunale. Ciò, sotto un duplice profilo: da un lato, ai sensi dell'art. 42, c. 2, lett. b), del d.lgs. n. 267/2000 (T.U.E.L.), che assegna all'organo consiliare i poteri di programmazione e di pianificazione dell'Ente locale; dall'altro, ai sensi della successiva lett. e) dell'art. 42, c. 2, cit., che attribuisce al Consiglio l'organizzazione dei pubblici servizi.
Milita, infine, a favore dell'attribuzione al Consiglio Comunale della competenza ad individuare le nuove sedi farmaceutiche, ex art. 11 cit., il fatto che si tratta di una scelta fondamentale attinente alla vita sociale e civile della comunità locale, sicché il Consiglio Comunale appare la sede naturale ove attuare quella dialettica tra maggioranza ed opposizione funzionale all'individuazione delle aree più corrispondenti alle esigenze della collettività (TAR Lazio-Latina, sentenza 24.06.2013 n. 578 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI: Il rinnovo del servizio di tesoreria nei confronti del medesimo operatore economico già aggiudicatario del servizio non può avvenire, in via diretta, senza previo espletamento di una gara pubblica.
L'affidamento del servizio di tesoreria comunale -inteso ai sensi dell'art. 209 t.u. quale complesso di operazioni legate alla gestione finanziaria dell'ente locale ivi inclusa la riscossione delle entrate, la custodia di titoli e valori e gli adempimenti connessi- rientra nell'ambito di operatività della normativa di cui al d.lgs. n. 163/2006 risultando assoggettato alle disposizioni del Codice ai sensi del comma 2 dell'art. 20 in quanto incluso tra "i servizi finanziari" di cui all'all. II A ed identificato con cpv 66600000-6.
Ai sensi dell'art. 210 del d.lgs. n. 267/2000 -posto a base del provvedimento impugnato- l'ente può procedere al rinnovo del contratto di tesoreria nei confronti del medesimo soggetto per non più di una volta solo "qualora ricorrano le condizioni di legge". Nell'ambito delle "condizioni di legge" in presenza delle quali è ammesso il rinnovo non può prescindersi dal rilievo della normativa di derivazione comunitaria introdotta dall'art. 23 della l. 18.04.2005 n. 62 che, al fine di porre termine ad una procedura di infrazione azionata da parte della Commissione europea (n. 2110/2003), ha esplicitamente soppresso la facoltà, precedentemente riconosciuta alle amministrazioni dall'art. 6, c. 2, della l. 24.12.1993 n. 537, di pervenire al rinnovo di contratti pubblici nei confronti del medesimo contraente in presenza di accertate ragioni di convenienza e di pubblico interesse, consentendo la sola proroga dei contratti per acquisti e forniture di beni e servizi per il tempo necessario alla stipula dei nuovi contratti a seguito di espletamento di gara pubblica.
Ne consegue che, nel caso di specie, il rinnovo del servizio di tesoreria nei confronti del medesimo operatore economico già aggiudicatario del servizio non poteva avvenire, in via diretta, senza previo espletamento di una gara pubblica (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 21.06.2013 n. 3261 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUA E INQUINAMENTO IDRICO – Art. 74 d.lgs. n. 152/2006 – Acque reflue industriali – Acque di prima pioggia - Presenza di residui di materiali ferrosi o composti chimici impiegati nell’attività produttiva – Natura di acque meteoriche di dilavamento – Esclusione.
L’art. 74, primo comma, lett. h), del d.lgs. 03.04.2006, n. 152 reca la seguente definizione di “acque reflue industriali”: qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici od impianti in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento”.
A queste ultime sono da ascriversi le acque pluviali che, nel loro percorso, trascinano unicamente pulviscolo o altro materiale di origine naturale, mentre le acque (specialmente quelle di prima pioggia) che dilavano un’area in cui si posano residui di materiali ferrosi scaturiti da processi di produzione (nella specie, impianto di zincatura), o composti chimici impiegati nell’attività, non costituiscono acque meteoriche di dilavamento e necessitano di essere depurate prima dell’immissione nel terreno (massima tratta da www.ambientediritto.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 21.06.2013 n. 1459 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di provvedimenti relativi ad interventi edilizi, va esclusa in capo al progettista dell’opera la titolarità di un interesse autonomo e differenziato che possa validamente fondare la legittimazione ad impugnare (il diniego all'istanza presentata).
Quest’ultima va riconosciuta, infatti, esclusivamente in capo al committente della attività di progettazione in quanto titolare di un diritto reale o di godimento ovvero di altra situazione giuridica qualificata e differenziata da cui deriva la legittimazione a ricorrere.
Al progettista può essere riconosciuta una mera legittimazione ad intervenire, accessoria e subordinata, per la tutela di un interesse di fatto alla realizzazione dell’opera da lui ideata ma non certo una legittimazione a ricorrere in via principale spettante ad altro soggetto, il committente, che non ha inteso avvalersi del rimedio giurisdizionale.

Con il ricorso in epigrafe specificato, l’ing. Antonio Positano impugna il prefato provvedimento di diniego di accertamento di compatibilità paesaggistica, eccependone numerosi vizi, tutti, a suo dire, derivanti da una discrepanza tra il contenuto della istanza da lui presentata ed il provvedimento adottato dal Comune ed oggetto di impugnazione.
Ritiene il collegio di potere decidere il ricorso con sentenza semplificata ai sensi degli articoli 74 e 35, c. 1, lett. b), del c.p.a, dichiarandolo inammissibile per carenza di legittimazione ad agire in capo al ricorrente, ing. Positano.
Costituisce, infatti, orientamento consolidato quello secondo cui, in materia di provvedimenti relativi ad interventi edilizi, va esclusa in capo al progettista dell’opera la titolarità di un interesse autonomo e differenziato che possa validamente fondare la legittimazione ad impugnare (ex multis, TAR Lombardia, Milano, II; sentenza 28.01.2011, n. 265 e copiosa giurisprudenza ivi richiamata).
Quest’ultima va riconosciuta, infatti, esclusivamente in capo al committente della attività di progettazione in quanto titolare di un diritto reale o di godimento ovvero di altra situazione giuridica qualificata e differenziata da cui deriva la legittimazione a ricorrere (TAR Lombardia Milano, II, sentenza 02.09.2011, n. 2148).
Al progettista può essere riconosciuta una mera legittimazione ad intervenire, accessoria e subordinata, per la tutela di un interesse di fatto alla realizzazione dell’opera da lui ideata ma non certo una legittimazione a ricorrere in via principale spettante ad altro soggetto, il committente, che non ha inteso avvalersi del rimedio giurisdizionale (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 21.06.2013 n. 1391 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di abusivismo edilizio, la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36 del d. P. R. n. 380 del 2001, successivamente all’impugnazione dell’ordine di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse; invero, il riesame dell’abusività dell’opera provocato dall’'istanza di sanatoria determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento di accoglimento o di rigetto che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’originario ricorso.
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La presentazione dell’istanza di sanatoria successivamente all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione produce l’effetto di rendere inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, atteso che a seguito dell’istanza di sanatoria l’ordinanza di demolizione deve essere sostituita o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento sanzionatorio; più precisamente, la presentazione dell’istanza di sanatoria per opere edilizie già oggetto di provvedimenti sanzionatori determina l’improcedibilità del ricorso proposto nei confronti di quest’ultimi e ciò in quanto la ricorrente non può avere alcun interesse a coltivare un gravame concernente misure che –all’esito del procedimento di sanatoria– dovranno essere sostituite con un nuovo provvedimento sanzionatorio ovvero dal titolo edilizio rilasciato in sanatoria; invero, posto che la presentazione dell’istanza di sanatoria dell’abuso edilizio produce in capo all’amministrazione l’obbligo di avviare e concludere il relativo procedimento con provvedimento espresso e motivato, la determinazione amministrativa, in caso di contenuto favorevole al privato, avrà come effetto l’integrale soddisfacimento delle sue pretese con conseguente cessazione della materia del contendere del ricorso giurisdizionale avverso la demolizione dell’opera, mentre, in caso di rigetto della domanda, la lesione della sfera giuridica del richiedente originerà da questo nuovo provvedimento e dalla rinnovata misura sanzionatoria che a tale atto dovrà necessariamente seguire, con conseguente improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse.

Rileva il Tribunale come il ricorso, per effetto della presentazione delle due domande di sanatoria, precisate in narrativa, sia divenuto improcedibile, per sopravvenuta carenza d’interesse, giusta il pacifico indirizzo giurisprudenziale compendiato, ex multis, nelle massime seguenti:
- “In materia di abusivismo edilizio, la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36 del d. P. R. n. 380 del 2001, successivamente all’impugnazione dell’ordine di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse; invero, il riesame dell’abusività dell’opera provocato dall’'istanza di sanatoria determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento di accoglimento o di rigetto che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’originario ricorso” (Consiglio di Stato – Sez. I – 27.12.2012, n. 4921);
- “La presentazione dell’istanza di sanatoria successivamente all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione produce l’effetto di rendere inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, atteso che a seguito dell’istanza di sanatoria l’ordinanza di demolizione deve essere sostituita o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento sanzionatorio; più precisamente, la presentazione dell’istanza di sanatoria per opere edilizie già oggetto di provvedimenti sanzionatori determina l’improcedibilità del ricorso proposto nei confronti di quest’ultimi e ciò in quanto la ricorrente non può avere alcun interesse a coltivare un gravame concernente misure che –all’esito del procedimento di sanatoria– dovranno essere sostituite con un nuovo provvedimento sanzionatorio ovvero dal titolo edilizio rilasciato in sanatoria; invero, posto che la presentazione dell’istanza di sanatoria dell’abuso edilizio produce in capo all’amministrazione l’obbligo di avviare e concludere il relativo procedimento con provvedimento espresso e motivato, la determinazione amministrativa, in caso di contenuto favorevole al privato, avrà come effetto l’integrale soddisfacimento delle sue pretese con conseguente cessazione della materia del contendere del ricorso giurisdizionale avverso la demolizione dell’opera, mentre, in caso di rigetto della domanda, la lesione della sfera giuridica del richiedente originerà da questo nuovo provvedimento e dalla rinnovata misura sanzionatoria che a tale atto dovrà necessariamente seguire, con conseguente improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse” (TAR Campania–Salerno – Sez. II, 19.10.2012, n. 1902) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 21.06.2013 n. 1384 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’articolo 82 del DPR n. 616/1977 (di poi la normativa di cui all’art. 151 del D.Lgs. n. 490/1999 ed oggi quella contenuta nel D.Lgs. n. 42/2004) configura un sistema complesso di tutela del paesaggio, implicante l’intervento sia della Regione che dello Stato, in cui la concorrenza dei poteri è disciplinata dal principio di leale cooperazione.
Con specifico riferimento ai poteri della Regione (o dell’ente subdelegato), va rilevato che la funzione dell’autorizzazione è quella di verifica della compatibilità dell’opera edilizia che si intende realizzare con l’esigenza di conservazione dei valori paesistici protetti dal vincolo.
E’ stato, infatti, evidenziato che quest’ultimo contiene un accertamento circa l’esistenza di valori paesistici oggettivamente non derogabile e che è compito dell’autorizzazione accertare in concreto la compatibilità dell’intervento con il mantenimento e l’integrità dei richiamati valori.
Difatti, il paesaggio è un valore costituzionale primario e, pertanto, l’autorità amministrativa non deve svolgere una ponderazione comparativa tra un interesse primario ed un interesse secondario, ma unicamente operare un giudizio in concreto circa il rispetto da parte dell’intervento progettato delle esigenze connesse alla tutela del paesaggio stesso.
La determinazione dell’ente locale deve, dunque, essere motivata anche quando abbia contenuto positivo, favorevole al richiedente.
Tale principio, già consolidato in giurisprudenza in relazione alla peculiare natura dell’atto ed alla rilevanza degli interessi coinvolti, trova oggi espresso fondamento normativo nell’articolo 3 della legge n. 241/1990, secondo il quale ogni provvedimento amministrativo, di contenuto sia negativo che positivo, deve essere motivato, recando l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione in relazione alle risultanze dell’istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto di tale motivazione, la giurisprudenza è ferma nel ritenere, ai fini della congruità e sufficienza della stessa, che debba esservi l’indicazione della ricostruzione dell’iter logico seguito, in ordine alle ragioni di compatibilità effettive che –in riferimento agli specifici valori paesistici dei luoghi- possano consentire tutti i progettati lavori, considerati nella loro globalità e non esclusivamente in semplici episodi di dettaglio.
E’, dunque, necessario motivare l’autorizzazione in modo tale che emerga l’apprezzamento di tutte le rilevanti circostanze di fatto e la non manifesta irragionevolezza della scelta effettuata sulla prevalenza di un valore in conflitto con quello tutelato in via primaria, non potendo l’autorità amministrativa limitarsi ad affermazioni apodittiche e dovendosi pure riferire non all’entità atomisticamente valutata del singolo intervento, ma al complesso strutturalmente individuato che deriva dalla sovrapposizione con quello preesistente.
Occorre, quindi, esternare adeguatamente l’avvenuto apprezzamento comparativo, da un lato, del contenuto del vincolo e, dall’altro, di tutte le rilevanti circostanze di fatto relative al manufatto ed al suo inserimento nel contesto protetto, in modo da giustificare la scelta di dare prevalenza all’interesse del privato rispetto a quello tutelato in via primaria attraverso l’imposizione del vincolo.
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Le considerazioni sopra svolte valgono anche per il procedimento di condono edilizio di opere realizzate su aree sottoposte a vincolo, per il quale l’articolo 32 della legge n. 47/1985 dispone che “il rilascio della concessione o dell’autorizzazione in sanatoria … è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso”.
Invero, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che il suddetto parere ha natura e funzioni identiche alla autorizzazione paesaggistica, in quanto entrambi gli atti costituiscono il presupposto per l’assentimento del titolo che legittima la trasformazione urbanistico edilizia della zona protetta; con la conseguenza che anche in tale caso è applicabile il potere ministeriale di annullamento del provvedimento.

Orbene, ritiene il Tribunale che legittimamente l’autorità ministeriale ha rilevato, ponendolo a base del disposto annullamento, il difetto di motivazione dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dall’autorità comunale.
L’articolo 82 del DPR n. 616/1977 (di poi la normativa di cui all’art. 151 del D.Lgs. n. 490/1999 ed oggi quella contenuta nel D.Lgs. n. 42/2004) configura un sistema complesso di tutela del paesaggio, implicante l’intervento sia della Regione che dello Stato, in cui la concorrenza dei poteri è disciplinata dal principio di leale cooperazione (Corte Cost., sent. N. 359/1995, n. 151/1986, n. 302/1988).
Con specifico riferimento ai poteri della Regione (o dell’ente subdelegato), va rilevato che la funzione dell’autorizzazione è quella di verifica della compatibilità dell’opera edilizia che si intende realizzare con l’esigenza di conservazione dei valori paesistici protetti dal vincolo.
E’ stato, infatti, evidenziato (cfr. Cons. Stato, VI, 14.11.1991, n. 828; VI, 25.09.1995, n. 963) che quest’ultimo contiene un accertamento circa l’esistenza di valori paesistici oggettivamente non derogabile e che è compito dell’autorizzazione accertare in concreto la compatibilità dell’intervento con il mantenimento e l’integrità dei richiamati valori.
Difatti, il paesaggio è un valore costituzionale primario e, pertanto, l’autorità amministrativa non deve svolgere una ponderazione comparativa tra un interesse primario ed un interesse secondario, ma unicamente operare un giudizio in concreto circa il rispetto da parte dell’intervento progettato delle esigenze connesse alla tutela del paesaggio stesso.
La determinazione dell’ente locale deve, dunque, essere motivata anche quando abbia contenuto positivo, favorevole al richiedente.
Tale principio, già consolidato in giurisprudenza in relazione alla peculiare natura dell’atto ed alla rilevanza degli interessi coinvolti (cfr. Cons. Stato, VI, 15.12.1981, n. 751; 19.05.1981, n. 221; IV, 18.11.1980, n. 1104), trova oggi espresso fondamento normativo nell’articolo 3 della legge n. 241/1990, secondo il quale ogni provvedimento amministrativo, di contenuto sia negativo che positivo, deve essere motivato, recando l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione in relazione alle risultanze dell’istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto di tale motivazione, la giurisprudenza è ferma nel ritenere, ai fini della congruità e sufficienza della stessa, che debba esservi l’indicazione della ricostruzione dell’iter logico seguito, in ordine alle ragioni di compatibilità effettive che –in riferimento agli specifici valori paesistici dei luoghi- possano consentire tutti i progettati lavori, considerati nella loro globalità e non esclusivamente in semplici episodi di dettaglio (cfr. Cons. Stato, VI, 05.07.1990, n. 692; 14.11.1991, n. 828; 25.09.1993, n. 963; 20.06.1995, n. 952).
E’, dunque, necessario motivare l’autorizzazione in modo tale che emerga l’apprezzamento di tutte le rilevanti circostanze di fatto e la non manifesta irragionevolezza della scelta effettuata sulla prevalenza di un valore in conflitto con quello tutelato in via primaria (cfr. Cons. Stato, VI, 04.06.2004, n. 3495), non potendo l’autorità amministrativa limitarsi ad affermazioni apodittiche e dovendosi pure riferire non all’entità atomisticamente valutata del singolo intervento, ma al complesso strutturalmente individuato che deriva dalla sovrapposizione con quello preesistente (cfr. Cons. Stato, VI, 03.03.2004, n. 1060; 14.05.2004, n. 3116).
Occorre, quindi, esternare adeguatamente l’avvenuto apprezzamento comparativo, da un lato, del contenuto del vincolo e, dall’altro, di tutte le rilevanti circostanze di fatto relative al manufatto ed al suo inserimento nel contesto protetto, in modo da giustificare la scelta di dare prevalenza all’interesse del privato rispetto a quello tutelato in via primaria attraverso l’imposizione del vincolo (cfr. Cons. Stato, VI, 21.02.2007, n. 924).
Le considerazioni sopra svolte valgono anche per il procedimento di condono edilizio di opere realizzate su aree sottoposte a vincolo, per il quale l’articolo 32 della legge n. 47/1985 dispone che “il rilascio della concessione o dell’autorizzazione in sanatoria … è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso”.
Invero, la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, VI, 28.01.1998, n. 114) ha avuto modo di chiarire che il suddetto parere ha natura e funzioni identiche alla autorizzazione paesaggistica, in quanto entrambi gli atti costituiscono il presupposto per l’assentimento del titolo che legittima la trasformazione urbanistico edilizia della zona protetta; con la conseguenza che anche in tale caso è applicabile il potere ministeriale di annullamento del provvedimento (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 21.06.2013 n. 1380 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le opere appartenenti alla tipologia de qua (ndr: tenda con struttura metallica ancorata alla parete e al pavimento, e copertura in telo ombreggiante) sono configurabili come interventi di manutenzione straordinaria, ai sensi dell'art. 3, comma primo, D.P.R. n. 380/2001, ciò in quanto "le tende solari, pur essendo destinate ad alterare la facciata dell'edificio cui accedono (per cui non possono definirsi interventi di manutenzione ordinaria), hanno tuttavia semplice funzione (accessoria e pertinenziale) di arredo dello spazio esterno, limitata nel tempo e nello spazio (in quanto si tratta di strutture generalmente utilizzate nella sola stagione estiva e che non determinano alcuna variazione plano-volumetrica dell'immobile principale, per cui non integrano né una nuova costruzione né una ristrutturazione edilizia)".
Consegue, dalla predetta qualificazione dell'intervento de quo, la sua estraneità al regime demolitorio, presupponente la necessità -non riscontrabile nella specie- dell'acquisizione del permesso di costruire ai fini della sua legittima realizzazione.
Come statuito con la sentenza citata, infatti, a seguito delle modifiche apportate all'art. 6 D.P.R. n. 380/2001 dall'art. 5, del D.L. 25.03.2010, n. 40 (convertito con L. 22.05.2010, n. 73), gli interventi di manutenzione straordinaria possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo, previa semplice comunicazione di inizio lavori, con previsione, in caso di mancanza di quest'ultima, di una sanzione pecuniaria pari ad euro 258,00.

Iniziando dall'opera costituita da "tenda con struttura metallica ancorata alla parete e al pavimento, e copertura in telo ombreggiante", deve richiamarsi l'orientamento giurisprudenziale ben rappresentato da TAR per la Campania, Napoli, Sez. IV, 16.12.2011, n. 5919, a mente del quale le opere appartenenti alla tipologia de qua sono configurabili come interventi di manutenzione straordinaria, ai sensi dell'art. 3, comma primo, D.P.R. n. 380/2001, ciò in quanto "le tende solari, pur essendo destinate ad alterare la facciata dell'edificio cui accedono (per cui non possono definirsi interventi di manutenzione ordinaria), hanno tuttavia semplice funzione (accessoria e pertinenziale) di arredo dello spazio esterno, limitata nel tempo e nello spazio (in quanto si tratta di strutture generalmente utilizzate nella sola stagione estiva e che non determinano alcuna variazione plano-volumetrica dell'immobile principale, per cui non integrano né una nuova costruzione né una ristrutturazione edilizia)".
Consegue, dalla predetta qualificazione dell'intervento de quo, la sua estraneità al regime demolitorio, presupponente la necessità -non riscontrabile nella specie- dell'acquisizione del permesso di costruire ai fini della sua legittima realizzazione.
Come statuito con la sentenza citata, infatti, a seguito delle modifiche apportate all'art. 6 D.P.R. n. 380/2001 dall'art. 5, del D.L. 25.03.2010, n. 40 (convertito con L. 22.05.2010, n. 73), gli interventi di manutenzione straordinaria possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo, previa semplice comunicazione di inizio lavori, con previsione, in caso di mancanza di quest'ultima, di una sanzione pecuniaria pari ad euro 258,00 (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 21.06.2013 n. 1377  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di un muretto di recinzione, accompagnata dall'apposizione di ringhiere e cancelli metallici, non rientra nel novero delle opere soggette a concessione edilizia, bensì, per il suo carattere pertinenziale, nell'ambito delle opere assentibili con autorizzazione gratuita, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1 della Legge n. 10/1977 e 7, comma 2, lett. a), del D.L. n. 9/1982, convertito nella Legge n. 94/1982.
Ne discende che il regime sanzionatorio appropriato non consiste nell'irrogazione dell'ingiunzione di demolizione, ma nella comminatoria di una sanzione pecuniaria. (…) Il Collegio osserva che le opere di recinzione in questione ben possono essere ricomprese nell'ambito delle "opere costituenti pertinenze od impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti", di cui all'art. 7 del D.L. n. 9/1982 cit..
Invero, esse sembrano possedere tutte le caratteristiche che la consolidata elaborazione giurisprudenziale connette al concetto di pertinenza edilizia:
a) un nesso oggettivo strumentale e funzionale con la cosa principale;
b) il mancato possesso, per natura e struttura, di una pluralità di destinazioni;
c) un carattere durevole;
d) la non utilizzabilità economica in modo diverso;
e) una ridotta dimensione;
f) una individualità fisica e strutturale propria;
g) l'accessione ad un edificio preesistente edificato legittimamente (…).
Ne deriva che la sanzione irrogabile per le recinzioni aventi natura pertinenziale, effettuate in assenza della prescritta autorizzazione gratuita, si concreta in una misura di carattere pecuniario e non nell'ordine di demolizione.

A non diverse conclusioni deve poi pervenirsi in relazione all'ulteriore opera interessata dall'impugnato ordine di demolizione, rappresentata da un "muretto divisorio posto circa a metà del terrazzo composto da muro di altezza m. 0,90 e inferriata di altezza m. 1,10, di lunghezza circa m. 9,00, con cancelletto metallico m. 1,10".
Invero, è stato affermato dalla giurisprudenza, in relazione a siffatta tipologia di opere (cfr. TAR per la Calabria, Catanzaro, Sez. II, 10.06.2008, n. 647), che "la realizzazione di un muretto di recinzione, accompagnata dall'apposizione di ringhiere e cancelli metallici, non rientra nel novero delle opere soggette a concessione edilizia, bensì, per il suo carattere pertinenziale, nell'ambito delle opere assentibili con autorizzazione gratuita, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1 della Legge n. 10/1977 e 7, comma 2, lett. a), del D.L. n. 9/1982, convertito nella Legge n. 94/1982.
Ne discende che il regime sanzionatorio appropriato non consiste nell'irrogazione dell'ingiunzione di demolizione, ma nella comminatoria di una sanzione pecuniaria. (…) Il Collegio osserva che le opere di recinzione in questione ben possono essere ricomprese nell'ambito delle "opere costituenti pertinenze od impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti", di cui all'art. 7 del D.L. n. 9/1982 cit..
Invero, esse sembrano possedere tutte le caratteristiche che la consolidata elaborazione giurisprudenziale connette al concetto di pertinenza edilizia:
a) un nesso oggettivo strumentale e funzionale con la cosa principale;
b) il mancato possesso, per natura e struttura, di una pluralità di destinazioni;
c) un carattere durevole;
d) la non utilizzabilità economica in modo diverso;
e) una ridotta dimensione;
f) una individualità fisica e strutturale propria;
g) l'accessione ad un edificio preesistente edificato legittimamente (…).
Ne deriva che la sanzione irrogabile per le recinzioni aventi natura pertinenziale, effettuate in assenza della prescritta autorizzazione gratuita, si concreta in una misura di carattere pecuniario e non nell'ordine di demolizione
" (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 21.06.2013 n. 1377  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Nelle gare indette per la concessione di servizi la scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici (fattispecie relativa al complesso del Vittoriano).
Ai sensi dell'art. 30, c. 3, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici), nelle gare indette per la concessione di servizi la scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi.
Sebbene in tale quadro normativo, ai fini della verifica dell'effettiva capacità tecnica, l'elenco esemplificativo di cui agli artt. 41 e 42 del Codice dei contratti pubblici non costituisce, per la stazione appaltante un vincolo diretto, tuttavia in relazione al richiamo ai principi del Trattato UE, le determinazioni in materia di requisiti soggettivi di partecipazione alle gare non devono essere illogiche, arbitrarie, inutili o superflue e devono essere rispettose del "principio di proporzionalità", il quale esige che ogni requisito individuato sia al tempo stesso necessario ed adeguato rispetto agli scopi perseguiti.
Pertanto, il concreto esercizio del potere discrezionale deve essere funzionalmente coerente con il complesso degli interessi pubblici e privati coinvolti dal pubblico incanto e deve rispettare i principi del Codice dei contratti pubblici, con la conseguenza che, nella scelta dei requisiti di partecipazione il ricordato principio di non discriminazione impone che la stazione appaltante deve ricorrere a quelli che comportino le minori turbative per l'esercizio dell'attività economica e l'intero impianto delle prescrizioni di gara non deve costituire dunque una violazione sostanziale dei principi di libera concorrenza, par condicio, non discriminazione trasparenza di cui all'art. 2, c. 1, del più volte citato Codice (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 18.06.2013 n. 6094 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Del tutto pacificamente, la giurisprudenza interpreta la nozione di manutenzione nel senso di imporre la necessaria esistenza di un duplice ordine di limiti, uno di carattere funzionale, costituito dalla necessità che i lavori siano diretti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti dell'edificio, e l'altro di carattere strutturale, consistente nella proibizione di alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari o di mutare la loro destinazione.
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Non è possibile legare il concetto di manutenzione straordinaria alla funzione svolta e quindi ritenere che, nel caso di impianti industriali come quello per cui è causa, questo possa essere riferito all’impianto nel suo complesso, atteso che la legge fa riferimento ai singoli interventi, escludendo questa tipologia di valutazione complessive.

In via preliminare, la Sezione ritiene necessario rimarcare come la sussunzione di un determinato intervento edilizio in una delle categorie di opere di cui all’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 non sia evento dipendente dalla scelta soggettiva dell’ente pubblico autorizzante, ma discenda dalla qualificazione legislativa e quindi dalla loro corrispondenza allo schema normativo. Tale affermazione risulta valida addirittura per la legislazione regionale (vedi Corte costituzionale, 23.11.2011 n. 309) e a maggior ragione per l’amministrazione, per cui la valutazione della natura delle opere prescinde integralmente dalle eventuali considerazioni favorevoli precedentemente svolte, evento peraltro qui non riscontrabile.
Nel caso in specie, le opere realizzate non sono assolutamente inquadrabili nel concetto di interventi di manutenzione, anche straordinaria. Tale nozione, già data dall’art. 31, comma 1, lettera b), della l. 05.08.1978 n. 457, è ora espressa dall’art. 3, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2011 e comprende “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso”.
Del tutto pacificamente, la giurisprudenza interpreta tale nozione nel senso di imporre la necessaria esistenza di un duplice ordine di limiti, uno di carattere funzionale, costituito dalla necessità che i lavori siano diretti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti dell'edificio, e l'altro di carattere strutturale, consistente nella proibizione di alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari o di mutare la loro destinazione (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 22.03.2007 n. 1388).
Ne deriva che, contrariamente a quanto dedotto in appello (pag. 5 “non è dato capire perché l'aggiunta di una vasca completamente interrata per lo stoccaggio degli inerti, di un nastro trasportatore per l'alimentazione dell'impianto e di una vasca per il lavaggio degli automezzi in posizione differente dalla precedente, debbano stravolgere la natura dell'intervento e non siano passibili di sanatoria”) le opere realizzate si collocano concettualmente al di fuori del concetto di manutenzione straordinaria.
Infatti, non è possibile legare il concetto di manutenzione straordinaria alla funzione svolta e quindi ritenere che, nel caso di impianti industriali come quello per cui è causa, questo possa essere riferito all’impianto nel suo complesso, atteso che la legge fa riferimento ai singoli interventi, escludendo questa tipologia di valutazione complessive (per la loro incongruenza, si veda la già citata Corte costituzionale, 23.11.2011 n. 309).
Al contrario, le opere in esame integrano interventi diversi, non di mera sostituzione o rinnovo delle parti già esistenti, per cui esulano dal concetto evocato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.06.2013 n. 3270 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’accesso documentale è rivolto a ottenere documenti esistenti e in possesso della pubblica amministrazione, sicché è inammissibile l'istanza con la quale si chiede all'Amministrazione non l'ostensione di atti già esistenti in rerum natura, ma un'attività di elaborazione e formazione di nuovi documenti, che non può essere pretesa in sede di accesso.
Ne deriva che tale pretesa non può essere invocata allorché lo stesso interessato non chieda l'esibizione di documenti di cui sia certa l'esistenza, ma intende provare l'esistenza di documenti che egli afferma essere stati a suo tempo formati, atteso che, agendo diversamente ed ammettendo una richiesta di esibizione di documenti non corredata con la prova dell'esistenza delle notizie riferibili all'interesse di cui l'istante è titolare, in essi contenute, essa si trasformerebbe in un inammissibile strumento di controllo sull'attività stessa.
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La reiterazione in sé di una istanza di accesso, ove non acquisti un contenuto pretestuoso o contrario alla legge stessa, non è illegittima qualora rientri nello schema normativo individuato dalla giurisprudenza consolidata in tema (la quale chiarisce come salvo ammette la salvezza del diritto dell'interessato a reiterare l'istanza di accesso ed a pretendere riscontro alla stessa in presenza di fatti nuovi sopravvenuti, non rappresentati nell'originaria istanza o anche a fronte di una diversa prospettazione dell'interesse giuridicamente rilevante).

In primo luogo, va rimarcato come l’accesso documentale sia rivolto a ottenere documenti esistenti e in possesso della pubblica amministrazione (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 12.02.2013 n. 846; Consiglio di Stato, sez. IV, 30.07.2012 n. 4316, dove si dichiara inammissibile l'istanza con la quale si chiede all'Amministrazione non l'ostensione di atti già esistenti in rerum natura, ma un'attività di elaborazione e formazione di nuovi documenti, che non può essere pretesa in sede di accesso).
Ne deriva che tale pretesa non può essere invocata allorché lo stesso interessato non chieda l'esibizione di documenti di cui sia certa l'esistenza, ma intende provare l'esistenza di documenti che egli afferma essere stati a suo tempo formati, atteso che, agendo diversamente ed ammettendo una richiesta di esibizione di documenti non corredata con la prova dell'esistenza delle notizie riferibili all'interesse di cui l'istante è titolare, in essi contenute, essa si trasformerebbe in un inammissibile strumento di controllo sull'attività stessa (Consiglio di Stato, sez. IV, 10.12.2009 n. 7725).
In secondo luogo, va sottolineato come la scienza dell’amministrazione, e quindi i documenti che la rappresentano, non siano detenuti ad uso proprio, ma rappresentino un bene fruibile dalla collettività, secondo la disciplina del diritto d’accesso stesso. Per cui, la reiterazione in sé di una istanza di accesso, ove non acquisti un contenuto pretestuoso o contrario alla legge stessa (come nel caso esaminato da Consiglio di Stato, sez. IV, 12.02.2013 n. 846), non è illegittima, qualora rientri nello schema normativo individuato dalla giurisprudenza consolidata in tema (la quale chiarisce come salvo ammette la salvezza del diritto dell'interessato a reiterare l'istanza di accesso ed a pretendere riscontro alla stessa in presenza di fatti nuovi sopravvenuti, non rappresentati nell'originaria istanza o anche a fronte di una diversa prospettazione dell'interesse giuridicamente rilevante; cfr., Consiglio di Stato, sez. V, 12.03.2009 n. 1429; Consiglio di Stato, sez. V, 02.02.2010 n. 442; Consiglio di Stato, sez. V, 02.02.2010 n. 442; Consiglio di Stato, sez. IV, 06.06.2011 n. 3403) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.06.2013 n. 3267 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La pretesa delle parti appellanti, ossia il riconoscimento di un danno risarcibile come conseguenza dell’azione amministrativa illegittima, non è qualificabile come evento direttamente conseguente alla declaratoria giurisdizionale dell’illegittimità di un atto amministrativo, ma deve essere fondata su una pluralità di presupposti, desumibili dalla normativa civilistica in tema di danno extracontrattuale, che contemplano, accanto all’accertata non conformità a legge del provvedimento lesivo, anche la sussistenza del danno de quo, la puntuale e ragionevole dimostrazione del rapporto di causa ed effetto che si instaura tra atto illegittimo e danno e l’imputabilità all’amministrazione stessa del fatto.
Non vi è quindi un meccanismo di automatica equivalenza tra l’intervenuto annullamento dell’atto amministrativo, l’evidenziato comportamento illegittimo della pubblica amministrazione e la risarcibilità del danno ingiusto eventualmente patito dal soggetto destinatario degli effetti lesivi dell’atto annullato. Ed è alla parte istante, secondo la normale ripartizione dell’onere probatorio nell’ambito dei diritti soggettivi, che spetta dare contezza dei fatti sui quali si fonda la propria pretesa.

In via preliminare, la Sezione evidenzia come la pretesa delle parti appellanti, ossia il riconoscimento di un danno risarcibile come conseguenza dell’azione amministrativa illegittima, non sia qualificabile come evento direttamente conseguente alla declaratoria giurisdizionale dell’illegittimità di un atto amministrativo, ma deve essere fondata su una pluralità di presupposti, desumibili dalla normativa civilistica in tema di danno extracontrattuale, che contemplano, accanto all’accertata non conformità a legge del provvedimento lesivo, anche la sussistenza del danno de quo, la puntuale e ragionevole dimostrazione del rapporto di causa ed effetto che si instaura tra atto illegittimo e danno e l’imputabilità all’amministrazione stessa del fatto.
Non vi è quindi un meccanismo di automatica equivalenza tra l’intervenuto annullamento dell’atto amministrativo, l’evidenziato comportamento illegittimo della pubblica amministrazione e la risarcibilità del danno ingiusto eventualmente patito dal soggetto destinatario degli effetti lesivi dell’atto annullato. Ed è alla parte istante, secondo la normale ripartizione dell’onere probatorio nell’ambito dei diritti soggettivi, che spetta dare contezza dei fatti sui quali si fonda la propria pretesa.
Sulla base di queste premesse incontestabili e del tutto pacifiche, ed in disparte ogni valutazione sull’effettiva spettanza del bene della vita, la cui lesione viene fondata come fatto a sostegno del danno subito dagli appellanti (va infatti rammentato che il TAR in sede di cognizione ha evidenziato come l’amministrazione avrebbe prima dovuto annullare la concessione edilizia rilasciata per poi procedere alla fase sanzionatoria, evidenziando ad ogni modo il contrasto tra il manufatto realizzato e la pianificazione vigente), va effettivamente rimarcato come alcun valido elemento probatorio sia stato portato a sostegno della pretesa risarcitoria.
A tal fine, appare necessario evidenziare come correttamente il TAR abbia respinto la pretesa degli originari ricorrenti, reiterata in appello, fondata su due diverse voci di danno, entrambe miranti a ottenere un danno ipotetico.
In merito alla prima voce vantata, ossia al subito incremento dei prezzi necessari per la realizzazione dell’opera de qua, ha ben evidenziato il giudice di prime cure come non si trattasse di danno effettivo, ma di mera ipotesi, atteso che gli stessi erano fondati su meri preventivi e quindi non si trattava di spese effettivamente sostenute. Tale dato appare incontestabile, atteso che, anche in sede di appello, la parte ha evidenziato che non si trattava di preventivi, ma di “richieste di nuovi maggiori prezzi e corrispettivi” (pag. 7), ossia di fatti futuri, che confermano pienamente la ricostruzione del TAR come danno meramente ipotetico.
In merito alla seconda voce, ossia al danno subito per la forzata protrazione del contratto di locazione dell’abitazione, l’ipoteticità appare ancora più marcata, atteso che il danno si basa su una serie di elementi del tutto incerti e teorici (realizzazione dell’opera, destinazione dell’opera ad abitazione, ecc.), sui quali non vi è stato alcun riscontro, nemmeno al momento di questa decisione, intervenuta a congrua distanza temporale dai fatti.
Infine, per quanto attiene la decisione di compensare le spese di giudizio, occorre evidenziare come la scelta appartenga alla piena valutazione del giudice, che qui si dimostra del tutto condivisibile, visto come la sentenza abbia rimarcato la differenza tra procedimento adottato e effettiva legittimità dell’opera realizzata e parzialmente respinto la pretesa dei ricorrenti (si veda Consiglio di Stato, sez. IV, 28.02.2013 n. 1232, dove si afferma che nel processo amministrativo di primo grado è sufficiente a giustificare la compensazione fra le parti in causa delle spese e degli onorari del giudizio la circostanza che il giudice di prime cure, dopo l'accoglimento della domanda di annullamento, abbia respinto quella di risarcimento, con conseguente reciproca soccombenza dei litiganti) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.06.2013 n. 3266 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il problema del contenuto e dei limiti della pianificazione urbanistica, del significato stesso del concetto di “urbanistica” in senso giuridico e, di conseguenza, del contenuto della potestà pianificatoria, è già stato affrontato da questo Consiglio di Stato con considerazioni che devono essere riconfermate ai fini della presente decisione.
Si è affermato che il potere di pianificazione urbanistica del territorio –la cui attribuzione e conformazione normativa è costituzionalmente conferita alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art. 117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune– non è limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse.
Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non è limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico–sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati.
Proprio per tali ragioni, lo stesso legislatore costituzionale, nel novellare l’art. 117 della Costituzione per il tramite della legge cost. n. 3/2001, ha sostituito –al fine di individuare le materie rientranti nella potestà legislativa concorrente Stato-Regioni- il termine “urbanistica” con la più onnicomprensiva espressione di “governo del territorio”, certamente più aderente, contenutisticamente, alle finalità di pianificazione che oggi devono ricomprendersi nel citato termine di “urbanistica”.
D’altra parte, già il legislatore ordinario (sia pure ai fini della attribuzione di giurisdizione sulle relative controversie), con l’art. 34, comma 2, d.lgs. 31.03.1998 n. 80, aveva affermato che “la materia urbanistica concerne tutti gli aspetti dell’uso del territorio”.
Tali finalità, per così dire “più complessive” dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla legge 17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi” (art. 1), non solo nell’”assetto ed incremento edilizio” dell’abitato, ma anche nello “sviluppo urbanistico in genere nel territorio della Repubblica”.
In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo. Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli -non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi–, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico–sociali della comunità radicata sul territorio (tra le quali certamente rientra l’aspirazione, anche in proprietà, alla casa di abitazione), sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de futuro” sulla propria stessa essenza, svolta -per autorappresentazione ed autodeterminazione- dalla comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio.
In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti.
Ne consegue che, diversamente opinando, e cioè nel senso di ritenere il potere di pianificazione urbanistica limitato alla sola prima ipotesi, si priverebbe la pubblica amministrazione di un essenziale strumento di realizzazione di valori costituzionali, quali sono almeno quelli espressi dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma secondo, Cost..
A quanto sin qui esposto, occorre aggiungere che l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le scelte effettuate incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata”, così come, nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello strumento urbanistico, non occorre controdedurre singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e opposizione.
Occorre, infatti, ribadire che le scelte urbanistiche (in particolare, in sede di variante) richiedono puntuale motivazione esclusivamente ove incidano su zone territorialmente circoscritte, ledendo legittime aspettative (specie edificatorie) dei privati proprietari, in conseguenza non soltanto di statuizioni di pronunce giurisdizionali passate in giudicato, ma anche di accordi con l'ente locale ed in particolare di convenzioni di lottizzazione divenute operative. A fronte di aspettative di mero fatto, le scelte di natura tanto ambientale quanto urbanistica rimesse all'Amministrazione nell'interesse generale, infatti, sono di regola sufficientemente motivate con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che hanno sorretto la previsione, senza necessità di una motivazione puntuale e "mirata".
Le scelte urbanistiche, dunque, richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale, ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, pregiudicando, si ripete, legittime aspettative; così come, mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del PRG., per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale.

Il Collegio non può che condividere l’esposizione dei principi che regolano il contenuto ed i limiti della potestà pianificatoria, esposti nella sentenza appellata e come da questa ricavati dalla giurisprudenza.
Il problema del contenuto e dei limiti della pianificazione urbanistica, del significato stesso del concetto di “urbanistica” in senso giuridico e, di conseguenza, del contenuto della potestà pianificatoria, è stato affrontato da questo Consiglio di Stato, sez. IV, con la sentenza 10.05.2012 n. 2710, medio tempore pubblicata, con considerazioni che devono essere riconfermate ai fini della presente decisione.
Si è affermato che il potere di pianificazione urbanistica del territorio –la cui attribuzione e conformazione normativa è costituzionalmente conferita alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art. 117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune– non è limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse.
Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non è limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico–sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati.
Proprio per tali ragioni, lo stesso legislatore costituzionale, nel novellare l’art. 117 della Costituzione per il tramite della legge cost. n. 3/2001, ha sostituito –al fine di individuare le materie rientranti nella potestà legislativa concorrente Stato-Regioni- il termine “urbanistica” con la più onnicomprensiva espressione di “governo del territorio”, certamente più aderente, contenutisticamente, alle finalità di pianificazione che oggi devono ricomprendersi nel citato termine di “urbanistica”.
D’altra parte, già il legislatore ordinario (sia pure ai fini della attribuzione di giurisdizione sulle relative controversie), con l’art. 34, comma 2, d.lgs. 31.03.1998 n. 80, aveva affermato che “la materia urbanistica concerne tutti gli aspetti dell’uso del territorio”.
Tali finalità, per così dire “più complessive” dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla legge 17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi” (art. 1), non solo nell’”assetto ed incremento edilizio” dell’abitato, ma anche nello “sviluppo urbanistico in genere nel territorio della Repubblica”.
In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo. Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli -non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi–, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico–sociali della comunità radicata sul territorio (tra le quali certamente rientra l’aspirazione, anche in proprietà, alla casa di abitazione), sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de futuro” sulla propria stessa essenza, svolta -per autorappresentazione ed autodeterminazione- dalla comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio.
In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti.
Ne consegue che, diversamente opinando, e cioè nel senso di ritenere il potere di pianificazione urbanistica limitato alla sola prima ipotesi, si priverebbe la pubblica amministrazione di un essenziale strumento di realizzazione di valori costituzionali, quali sono almeno quelli espressi dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma secondo, Cost..
A quanto sin qui esposto, occorre aggiungere che l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le scelte effettuate incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata” (Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008 n. 5478), così come, nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello strumento urbanistico, non occorre controdedurre singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e opposizione.
Occorre, infatti, ribadire che le scelte urbanistiche (in particolare, in sede di variante) richiedono puntuale motivazione esclusivamente ove incidano su zone territorialmente circoscritte, ledendo legittime aspettative (specie edificatorie) dei privati proprietari, in conseguenza non soltanto di statuizioni di pronunce giurisdizionali passate in giudicato, ma anche di accordi con l'ente locale ed in particolare di convenzioni di lottizzazione divenute operative. A fronte di aspettative di mero fatto, le scelte di natura tanto ambientale quanto urbanistica rimesse all'Amministrazione nell'interesse generale, infatti, sono di regola sufficientemente motivate con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che hanno sorretto la previsione, senza necessità di una motivazione puntuale e "mirata" (Cons. Stato, sez. IV. n. 5478/2008 cit.).
Le scelte urbanistiche, dunque, richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale, ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, pregiudicando, si ripete, legittime aspettative; così come, mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del PRG., per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale.
In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento urbanistico.
Né, d’altra parte, una destinazione di zona precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.06.2013 n. 3262 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Rispondono di abuso di ufficio il Sindaco e il Consigliere comunale che procedono alla nomina di parenti privi dei requisiti prescritti dalla normativa, violando il perseguimento dell’interesse pubblico in considerazione della prevalenza di aspetti legati alla comune militanza politica, ovvero alla prossimità parentale dei nominati con esponenti della medesima coalizione politica.
La VI Sez. penale si pronuncia in tema di abuso di ufficio.
Un sindaco e un consigliere comunale venivano condannati per avere nominato illegalmente nel proprio staff familiari privi dei requisiti soggettivi richiesti dalla legge. Nel condividere il significato complessivo del quadro probatorio posto in risalto dai giudici di prime e seconde cure, la Corte Suprema concorda sulla obiettiva e macroscopica violazione del regolamento comunale del nucleo di valutazione, approvato con la delibera di Giunta, che stabiliva, in ossequio al D.Lgs. 30.07.1999, n. 286, che la nomina dei componenti della relativa struttura di supporto tecnico del Sindaco doveva essere effettuata "tra esperti qualificati in materie economiche e/o in materie di organizzazione aziendale e del lavoro e/o in materie giuridiche", da scegliere sulla base di un adeguato curriculum professionale.
Al nucleo di valutazione, composto da tre membri nominati dal Sindaco, spettava, tra l'altro, il controllo interno della regolarità amministrativa, della gestione delle risorse pubbliche e della realizzazione degli obiettivi, unitamente alla valutazione della dirigenza o del personale incaricato di posizioni organizzative, con funzioni rilevanti in tema di valutazione delle prestazioni dei responsabili delle aree e, soprattutto, delle scelte compiute in sede di attuazione dei piani, programmi ed altri strumenti di determinazione dell'indirizzo politico, in termini di congruenza tra risultati conseguiti ed obiettivi predefiniti.
Sebbene l'istituzione del nucleo di valutazione rispondesse all'esigenza di costituire una struttura di supporto tecnico consultivo e propositivo del Sindaco, sì da individuare gli strumenti tecnici più idonei per la verifica del conseguimento dei correlativi obiettivi di indirizzo politico, il provvedimento di nomina è stato adottato in favore di persone palesemente prive, all'atto della scelta, dei requisiti necessari, o perché neppure laureate, ovvero perché laureate in discipline diverse da quelle menzionate nel regolamento, o, infine, perché laureate, ma del tutto prove di esperienza nei su indicati settori di riferimento.
A tale riguardo, inoltre, l'assenza di un'adeguata istruttoria, così come l'assoluta carenza di motivazione dei provvedimenti di nomina, in ordine alla verifica del possesso dei requisiti soggettivi richiesti dalle norme regolamentari, hanno coerentemente indotto i Giudici di merito a concludere nel senso che le relative determinazioni, anziché dettate dalla volontà di garantire il perseguimento del pubblico interesse, furono viziate da un criterio selettivo diverso da quello stabilito nella norma regolamentare, e segnatamente dalla prevalente considerazione di aspetti legati alla comune militanza politica, ovvero alla prossimità parentale dei nominati con esponenti della medesima coalizione politica che sosteneva il Sindaco.
La norma regolamentare, così come formulata, richiede, infatti, il possesso congiunto di una qualifica professionale e di una comprovata esperienza negli specifici settori delle competenze di riferimento, senza rendere necessario, peraltro, il raggiungimento della soglia del possesso di un eccellente livello di specializzazione, anche di tipo universitario, richiesto invece per il conferimento di incarichi individuali a consulenti esterni delle amministrazioni pubbliche (arg. ex art. 7, comma 6, del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165).
Muovendo da tali preliminari considerazioni, dunque, la sesta sezione penale ascrive la vicenda in esame nel reato di abuso di ufficio, in considerazione della prevalenza di aspetti legati alla comune militanza politica ovvero di interessi privati (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 12.06.2013 n. 25859 - link a www.neldiritto.it).

APPALTI: a) nelle gare pubbliche, la formula da utilizzare per la valutazione dell’offerta economica può essere scelta dall’amministrazione con ampia discrezionalità e di conseguenza la stazione appaltante dispone di ampi margini nella determinazione dei criteri da porre quale riferimento per l’individuazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa nonché nella individuazione delle formule matematiche;
b) nella scelta dei criteri di valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa sono connaturati i seguenti limiti:
   I) i criteri devono essere coerenti, con le prestazioni che formano oggetto specifico dell’appalto e essere pertinenti alla natura, all’oggetto e al contenuto del contratto;
   II) in base all’art. 83, co. 1, d.lgs. 163/2006, il criterio selettivo dell’offerta economicamente più vantaggiosa impone alla stazione appaltante di determinare nella legge di gara i criteri di valutazione dell’offerta «pertinenti alla natura, all’oggetto e alle caratteristiche del contratto»;
   III) una volta optato per un determinato sistema (quale l’offerta economicamente più vantaggiosa) il quale riconosce adeguato rilievo alla componente-prezzo nell’ambito della dinamica complessiva dell’offerta, è poi illegittimo l’operato dell’amministrazione la quale fissi regole di gara tali da annullare il rilievo dell’offerta economica nell’economia complessiva dei fattori idonei a determinare l’aggiudicazione;
c) le posizioni soggettive delle imprese coinvolte nella procedura sono pacificamente qualificabili in termini di interesse legittimo ed è altrettanto assodato che le relative controversie non rientrano nel novero delle tassative ed eccezionali ipotesi di giurisdizione di merito sancite oggi dall’art. 134 c.p.a.;
d) il sindacato giurisdizionale nei confronti di tali scelte, tipica espressione di discrezionalità tecnico-amministrativa, è consentito unicamente in casi di abnormità, sviamento e manifesta illogicità; premesso che a seguito della storica decisione di questo Consiglio, è pacifico che il controllo sugli apprezzamenti tecnici dell’amministrazione possa svolgersi attraverso la verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni compiute da quest’ultima, sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo, è necessario precisare che tale riscontro esigibile dal giudice amministrativo sulle valutazioni discrezionali deve essere svolto extrinsecus, nei limiti della rilevabilità ictu oculi dei vizi di legittimità dedotti, essendo diretto ad accertare il ricorrere di seri indici di invalidità e non alla sostituzione dell’amministrazione; la sostituzione, da parte del giudice amministrativo, della propria valutazione a quella riservata alla discrezionalità dell’amministrazione costituisce ipotesi di sconfinamento vietato della giurisdizione di legittimità nella sfera riservata alla p.a., quand’anche l’eccesso in questione sia compiuto da una pronuncia il cui contenuto dispositivo si mantenga nell’area dell’annullamento dell’atto; in base al principio di separazione dei poteri sotteso al nostro ordinamento costituzionale, solo l’amministrazione è in grado di apprezzare, in via immediata e diretta, l’interesse pubblico affidato dalla legge alle sue cure, conseguentemente, il sindacato sulla motivazione delle valutazioni discrezionali:
   I) deve essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto acquisiti;
   II) non può avvalersi di criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa;
   III) deve tenere distinti i profili meramente accertativi da quelli valutativi (a più alto tasso di opinabilità) rimessi all’organo amministrativo, potendo esercitare più penetranti controlli, anche mediante c.t.u. o verificazione, solo avuto riguardo ai primi.

Ritenuto, circa l’ambito della discrezionalità esercitabile dalla stazione appaltante nell’individuare i criteri e sub criteri (con i relativi punteggi) indispensabili per selezionare l’offerta economicamente più vantaggiosa, la natura delle posizioni soggettive coinvolte e il sindacato esercitabile dal giudice amministrativo su tali scelte nell’ambito del quadro ordinamentale e processuale nazionale, che il collegio non intende decampare dai consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza (cfr. Cons. St., sez. V, 18.02.2013, n. 978; sez. V, 10.01.2013, n. 88; sez. V, 27.06.2012, n. 3781, cui si rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 74, co. 1, 88, co. 2, lett. d), e 120, co. 10, c.p.a.), in forza dei quali:
a) nelle gare pubbliche, la formula da utilizzare per la valutazione dell’offerta economica può essere scelta dall’amministrazione con ampia discrezionalità e di conseguenza la stazione appaltante dispone di ampi margini nella determinazione dei criteri da porre quale riferimento per l’individuazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa nonché nella individuazione delle formule matematiche;
b) nella scelta dei criteri di valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa sono connaturati i seguenti limiti:
   I) i criteri devono essere coerenti, con le prestazioni che formano oggetto specifico dell’appalto e essere pertinenti alla natura, all’oggetto e al contenuto del contratto;
   II) in base all’art. 83, co. 1, d.lgs. 163/2006, il criterio selettivo dell’offerta economicamente più vantaggiosa impone alla stazione appaltante di determinare nella legge di gara i criteri di valutazione dell’offerta «pertinenti alla natura, all’oggetto e alle caratteristiche del contratto»;
   III) una volta optato per un determinato sistema (quale l’offerta economicamente più vantaggiosa) il quale riconosce adeguato rilievo alla componente-prezzo nell’ambito della dinamica complessiva dell’offerta, è poi illegittimo l’operato dell’amministrazione la quale fissi regole di gara tali da annullare il rilievo dell’offerta economica nell’economia complessiva dei fattori idonei a determinare l’aggiudicazione;
c) le posizioni soggettive delle imprese coinvolte nella procedura sono pacificamente qualificabili in termini di interesse legittimo ed è altrettanto assodato che le relative controversie non rientrano nel novero delle tassative ed eccezionali ipotesi di giurisdizione di merito sancite oggi dall’art. 134 c.p.a. (cfr., sotto l’egida della precedente normativa, identica in parte qua, Cons. St., ad. plen., 09.01.2002, n. 1);
d) il sindacato giurisdizionale nei confronti di tali scelte, tipica espressione di discrezionalità tecnico-amministrativa, è consentito unicamente in casi di abnormità, sviamento e manifesta illogicità; premesso che a seguito della storica decisione di questo Consiglio (cfr. sez. IV, 09.04.1999, n. 601), è pacifico che il controllo sugli apprezzamenti tecnici dell’amministrazione possa svolgersi attraverso la verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni compiute da quest’ultima, sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo, è necessario precisare che tale riscontro esigibile dal giudice amministrativo sulle valutazioni discrezionali deve essere svolto extrinsecus, nei limiti della rilevabilità ictu oculi dei vizi di legittimità dedotti, essendo diretto ad accertare il ricorrere di seri indici di invalidità e non alla sostituzione dell’amministrazione; la sostituzione, da parte del giudice amministrativo, della propria valutazione a quella riservata alla discrezionalità dell’amministrazione costituisce ipotesi di sconfinamento vietato della giurisdizione di legittimità nella sfera riservata alla p.a., quand’anche l’eccesso in questione sia compiuto da una pronuncia il cui contenuto dispositivo si mantenga nell’area dell’annullamento dell’atto; in base al principio di separazione dei poteri sotteso al nostro ordinamento costituzionale, solo l’amministrazione è in grado di apprezzare, in via immediata e diretta, l’interesse pubblico affidato dalla legge alle sue cure, conseguentemente, il sindacato sulla motivazione delle valutazioni discrezionali:
   I) deve essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto acquisiti;
   II) non può avvalersi di criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa;
   III) deve tenere distinti i profili meramente accertativi da quelli valutativi (a più alto tasso di opinabilità) rimessi all’organo amministrativo, potendo esercitare più penetranti controlli, anche mediante c.t.u. o verificazione, solo avuto riguardo ai primi (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.06.2013 n. 3239 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIABar rumoroso? No penale.
Nel caso di un pubblico esercizio che impedisce il riposo delle persone il superamento dei limiti massimi di rumore stabiliti dalla normativa comporta solo la sanzione amministrativa fissata dalla legge sull'inquinamento acustico. Non scatta quindi più automaticamente la denuncia penale quando l'esercente impedisce il sonno ai vicini impedendo la propagazione del rumore degli avventori.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. I pen., con la sentenza 11.06.2013 n. 25601.
I gestori di un bar rumoroso sono stati denunciati dai vigili per disturbo della quiete pubblica e il tribunale di Milano ha confermato la loro responsabilità penale ai sensi dell'art. 659 cp (articolo ItaliaOggi del 25.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICICondensa e infiltrazioni in casa? Il costruttore è tenuto a risarcire il danno derivante da difetti e carenze!
L’impresa è responsabile di tutti i difetti di costruzione, anche di quelli più piccoli.

È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 11.06.2013 n. 14650, precisando che la responsabilità del costruttore vale anche per i difetti di piccola portata e non solo per quelli in grado di incidere sulla staticità dell’edificio.
Nel caso in esame un condominio aveva citato in giudizio il costruttore per alcuni difetti nell’immobile acquistato tra cui infiltrazioni in corrispondenza degli infissi, distacco dell’intonaco circostante, condensa dovuta a ponti termici dovuti alla composizione non omogenea della parete esterna in cemento e laterizio.
Il Tribunale ordinario aveva accolto la richiesta, condannando il costruttore al pagamento di 71.000 euro a titolo di risarcimento.
La Corte d’Appello aveva ribaltato la sentenza sostenendo che il risarcimento sarebbe stato possibile solo per difetti costruttivi così gravi da incidere sulle componenti essenziali dell’opera in modo da pregiudicarne la normale utilità.
A detta della Cassazione, invece, per agire contro il costruttore è sufficiente qualsiasi alterazione incidente sulla struttura e sulla funzionalità dell’edificio che ne pregiudichi il godimento in misura apprezzabile e l’impiego duraturo cui è destinato.
Tra i gravi difetti di cui il costruttore è chiamato a rispondere, sostengono i giudici di legittimità, rientrano anche le infiltrazioni di acqua dovute a carenze dell’impermeabilizzazione che possono essere eliminate con interventi di manutenzione ordinaria (27.06.2013 - link a www.acca.it).

PUBBLICO IMPIEGO: L’art. 52 d.lgs. n. 165/2001 sancisce il diritto alla adibizione alle mansioni per le quali il dipendente è stato assunto o ad altre equivalenti, e recepisce -attese le perduranti peculiarità relative alla natura pubblica del datore di lavoro, tuttora condizionato, nell'organizzazione del lavoro, da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria delle risorse- un concetto di equivalenza "formale", ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva (indipendentemente dalla professionalità acquisita) e non sindacabile dal giudice, con la conseguenza che condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita.
Pertanto, nel caso di ampliamento della pianta organica con creazione di una posizione dirigenziale non si registra un demansionamento nei confronti del dipendente già in servizio sino ad allora titolare della posizione apicale all’interno del Corpo di Polizia municipale, ma inquadrato in una posizione inferiore. Semplicemente, si registra un riallineamento automatico delle posizioni lavorative imposto dalla stessa l. n. 65/1986, dalla cui disciplina si evince che il Comandante del Corpo di Polizia municipale deve avere la qualifica di vigile urbano, ha la responsabilità del Corpo e ne risponde direttamente al Sindaco.
Del resto appare utile rammentare come per giurisprudenza consolidata la nomina a Comandante del Corpo non deve essere necessariamente accompagnata dall’assegnazione di una qualifica dirigenziale.
Inoltre in questa sede non può che ribadirsi l’avviso già espresso dalla Suprema Corte in ordine ai limiti che incontra il sindacato di legittimità del giudice: “Nel regime di impiego contrattualizzato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni successivo al d.lgs. n. 80 del 1998, ove le mansioni attribuite ad un dipendente pubblico siano modificate come conseguenza di un atto amministrativo che incide sulle linee fondamentali e di organizzazione dell'ente, compete al giudice di merito, risolvendosi nell'accertamento della volontà della P.A., la interpretazione dell'atto amministrativo, e la relativa valutazione è incensurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata ed immune dalla violazione delle norme che, dettate per la interpretazione dei contratti, sono applicabili anche agli atti amministrativi”.

Resta, quindi, all’attenzione del Consiglio l’esame di quelle doglianze che si rivolgono avverso l’atto di macrorganizzazione con il quale l’amministrazione appellata ha provveduto a rivedere la pianta organica del Corpo di Polizia municipale e quelle rivolte contro il bando con le quali si contesta la possibilità stessa di avviare la procedura concorsuale. Mentre per le ragioni sopra descritte non possono essere valutate le censure contenute nell’atto di appello e riassunte nel punto 3 della parte in fatto dell’odierna motivazione dalla lett. f) alla lett. i).
L’appellante si duole della circostanza che in violazione di quanto dispone l’art. 52 d.lgs. n. 165/2001, non sarebbe possibile sottrarre le mansioni affidate ad un pubblico dipendente, né varrebbe quale giustificazione la presunta riorganizzazione del Corpo di Polizia municipale, poiché tale non potrebbe essere valutata la mera assunzione di un nuovo dipendente.
La censura è priva di pregio e va disattesa.
L’art. 52 d.lgs. n. 165/2001, infatti, sancisce il diritto alla adibizione alle mansioni per le quali il dipendente è stato assunto o ad altre equivalenti, e recepisce -attese le perduranti peculiarità relative alla natura pubblica del datore di lavoro, tuttora condizionato, nell'organizzazione del lavoro, da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria delle risorse- un concetto di equivalenza "formale", ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva (indipendentemente dalla professionalità acquisita) e non sindacabile dal giudice, con la conseguenza che condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita (Cass., sez. lav., 11.05.2010, n. 11405).
Pertanto, nel caso di ampliamento della pianta organica con creazione di una posizione dirigenziale non si registra un demansionamento nei confronti del dipendente già in servizio sino ad allora titolare della posizione apicale all’interno del Corpo di Polizia municipale, ma inquadrato in una posizione inferiore. Semplicemente, si registra un riallineamento automatico delle posizioni lavorative imposto dalla stessa l. n. 65/1986, dalla cui disciplina si evince che il Comandante del Corpo di Polizia municipale deve avere la qualifica di vigile urbano, ha la responsabilità del Corpo e ne risponde direttamente al Sindaco (Cons. St., Sez. V, 14.05.2013, n. 2607).
Del resto appare utile rammentare come per giurisprudenza consolidata la nomina a Comandante del Corpo non deve essere necessariamente accompagnata dall’assegnazione di una qualifica dirigenziale (Cons. St., sez. V, 14.11.1997, n. 1303).
Inoltre in questa sede non può che ribadirsi l’avviso già espresso dalla Suprema Corte in ordine ai limiti che incontra il sindacato di legittimità del giudice: “Nel regime di impiego contrattualizzato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni successivo al d.lgs. n. 80 del 1998, ove le mansioni attribuite ad un dipendente pubblico siano modificate come conseguenza di un atto amministrativo che incide sulle linee fondamentali e di organizzazione dell'ente, compete al giudice di merito, risolvendosi nell'accertamento della volontà della P.A., la interpretazione dell'atto amministrativo, e la relativa valutazione è incensurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata ed immune dalla violazione delle norme che, dettate per la interpretazione dei contratti, sono applicabili anche agli atti amministrativi” (Cass., Sez. Lav., 11.09.2007, n. 19025).
Appare, ancora, del tutto infondato il profilo di illegittimità inerente l’assenza di una vera riorganizzazione del Corpo di Polizia municipale, non potendo la stessa ridursi nell’ampliamento di organico di una sola unità come lamentato dall’appellante. Sotto questo profilo, infatti, il varo della L.R. Lombardia, n. 3/2004, con attribuzione di nuove funzioni al Corpo di Polizia municipale ben giustifica l’esigenza di rafforzarne l’organico, mentre rientra nel merito della valutazione discrezionale dell’amministrazione comunale la decisione in ordine all’aumento di una sola unità, come quella relativa all’individuazione della qualifica professionale da inserire in pianta organica (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.06.2013 n. 3236 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: I pareri da allegare alle delibere di Giunta/Consiglio rilevano solo sul piano interno; pertanto, la loro assenza si traduce in una mera irregolarità e non ridonda in un vizio di legittimità.
Del pari infondata è la censura imperniata sull’assenza del parere del responsabile del servizio.
Invero, secondo un consolidato orientamento di questo Consiglio, da cui non si ravvisano ragioni per decampare (cfr. Cons. St., sez. IV, 26.01.2012, n. 351; sez. IV, 22.06.2006, n. 3888; n. 1567 del 2001; 23.04.1998, n. 670), i pareri in questione rilevano solo sul piano interno, pertanto, la loro assenza si traduce in una mera irregolarità e non ridonda in un vizio di legittimità
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.06.2013 n. 3236 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIDurc tardivo? Impresa in gara. La p.a. non chieda documenti in possesso di altri uffici. Per il Consiglio di stato è ora che nel pubblico le varie realtà comunichino di più.
Il Durc non arriva in tempo? L'impresa è fuori dalla procedura a evidenza pubblica. E invece no: se l'azienda risulta in regola con i contributi e il documento si trova presso lo sportello unico Inps-Inail, la Regione che ha promosso la gara non deve far altro che acquisirlo d'ufficio: l'amministrazione, infatti, non può pretendere dal privato atti o certificati che risultano già in possesso di un altro ente pubblico. È ora, insomma, che all'interno del settore pubblico le varie realtà si parlino e interagiscano.
È quanto emerge dalla sentenza 11.06.2013 n. 3231, pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di Stato.
Buon andamento. Bocciato il ricorso della Regione in una controversia che nasce da un bando per ottenere incentivi a valere sui fondi europei (ma il principio affermato da palazzo Spada ben vale per altre procedure pubbliche, come le gare d'appalto). Annullata la clausola che prevede l'esclusione automatica per l'azienda se il Durc non arriva nel termine prescritto nonostante la richiesta regolarità contributiva sussista davvero.
L'impresa partecipante fa richiesta allo sportello unico e ne allega una copia alla domanda di partecipazione: poi ottiene il documento vero e proprio e lo invia alla Regione, ma il plico non arriva in tempo utile. Non per questo l'operatore economico deve essere condannato a rinunciare al progetto finanziato da fondi Ue: l'ente territoriale, in virtù del canone costituzionale del buon andamento dell'amministrazione, avrebbe dovuto acquisire d'ufficio il cartaceo, dal momento che disponeva anche dei dati utili.
Nessuna acquiescenza. Né può ritenersi che l'impresa partecipando alla gara con la presentazione della richiesta di Durc si sia preclusa la successiva facoltà di impugnazione. La presentazione della domanda di partecipazione ad una procedura concorsuale, infatti, non implica certamente di per sé l'acquiescenza alle clausole del bando: l'impugnazione può tuttavia scattare unicamente dopo avere concretamente dimostrato, non solo la volontà di partecipare alla procedura selettiva, ma anche la lesione attuale e concreta dell'interesse legittimo azionato considerato, d'altro canto, che la presentazione della domanda è un atto normalmente necessario proprio per radicare l'interesse al ricorso. La Regione paga le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 27.06.2013).

APPALTI: Il Consiglio di Stato illustra le fasi di gara nel caso di selezione delle offerte da svolgersi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (artt. 83 e segg. del Codice dei contratti pubblici), il cui procedimento di gara si svolge, normalmente, in tre fasi: in due fasi sono necessarie prevalenti competenze amministrative ed in una fase sono necessarie prevalenti competenze tecniche. (... leggere più sotto).
Per esaminare le censure sollevate che, tenuto conto della posizione occupata dall’appellante nella graduatoria di merito, riguardano (anche in appello) il procedimento seguito dall’amministrazione per l’aggiudicazione della gara, occorre ricordare che, nel caso di selezione delle offerte da svolgersi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (artt. 83 e segg. del Codice dei contratti pubblici), il procedimento di gara si svolge, normalmente, in tre fasi: in due fasi sono necessarie prevalenti competenze amministrative ed in una fase sono necessarie prevalenti competenze tecniche.
Dopo aver ricevuto le offerte, nel termine indicato dal bando, l’amministrazione in una prima fase svolge diverse operazioni preliminari alla valutazione delle offerte: verifica la regolarità dell’invio dell’offerta e il rispetto delle disposizioni generali e di quelle speciali contenute nel bando (o nella lettera di invito) e nel disciplinare di gara (e l’osservanza delle regole sulla produzione dei documenti).
La stazione appaltante provvede quindi, in seduta pubblica, all’apertura dei plichi delle diverse offerte che (di norma) contengono tre buste: la busta A (documentazione amministrativa), la busta B (documentazione tecnica) e la busta C (offerta economica).
La stazione appaltante, disposta l’idonea conservazione delle buste (C) contenenti le offerte economiche, procede quindi all’apertura delle buste (A) contenenti la documentazione amministrativa per verificarne il contenuto e per consentire la successiva verifica dei requisiti generali previsti dalla normativa sugli appalti pubblici (artt. 38 e 39 del codice degli appalti) e dei requisiti speciali, dettati dagli atti di gara (artt. 41 e 42 del codice), nonché di tutte le altre condizioni dettate per la partecipazione alla gara.
L’amministrazione procede poi, sempre in seduta pubblica (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 28.07.2011, n. 13 e poi art. 12 del d.l. 07.05.2012, n. 52, convertito, con modificazioni, dalla legge 06.07.2012, n. 94) all’apertura delle buste (B), contenenti la documentazione tecnica, per prendere atto del relativo contenuto e per verificare l’effettiva presenza dei documenti richiesti nel bando (o nella lettera di invito) e nel disciplinare di gara (schede tecniche, relazioni tecniche illustrative, certificazioni tecniche etc.). Anche tale documentazione è poi conservata in plico sigillato.
Tali attività, preliminari alla valutazione delle offerte, sono eseguite dal seggio di gara o direttamente dal responsabile del procedimento unico (RUP), di norma il dirigente preposto alla competente struttura organizzativa della stazione appaltante (che si avvale anche dei funzionari del suo ufficio), che, ai sensi dell’art. 10, comma 2 del Codice, «svolge tutti i compiti relativi alle procedure di affidamento previste dal presente codice, ivi compresi gli affidamenti in economia, e alla vigilanza sulla corretta esecuzione dei contratti, che non siano specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti» e, ai sensi del comma 3, lettera c) «cura il corretto e razionale svolgimento delle procedure».
Dopo la preliminare fase di verifica dei contenuti dell’offerta, si passa alla seconda fase di valutazione delle offerte tecniche.
A tale seconda fase provvede l’apposita Commissione tecnica che è nominata ai sensi dell’art. 84 del Codice dei contratti e dell’art. 283, comma 2, del Regolamento di cui al D.P.R. n. 207 del 2010.
In una o più sedute riservate, la Commissione verifica quindi la conformità tecnica delle offerte e valuta le stesse, assegnando i relativi punteggi sulla base di quanto previsto dal disciplinare di gara (e delle altre regole che la stessa Commissione si è data).
Completato l’esame dell’offerta tecnica, l’amministrazione procede, nuovamente in seduta pubblica, ad informare i partecipanti delle valutazioni compiute, a dare notizia di eventuali esclusioni e a dare lettura dei punteggi assegnati dalla Commissione sulle offerte tecniche dei concorrenti non esclusi.
Quindi, verificata l’integrità del plico contenenti le buste con le offerte economiche (e l’integrità delle singole buste), l’amministrazione procede all’apertura delle stesse con la lettura delle singole offerte, con l’indicazione dei ribassi offerti e dei conseguenti prezzi netti e la determinazione (matematica) dei punteggi connessi ai prezzi.
Il seggio di gara formula quindi la graduatoria finale sulla base della somma dei punteggi assegnati per l’offerta tecnica e per l’offerta economica e procede all’aggiudicazione provvisoria in favore dell’offerta che ha raggiunto il maggiore punteggio complessivo.
Come si è esposto, nella prima fase della procedura, ai relativi atti (apertura dei plichi, verifica della documentazione amministrativa e presa d’atto della documentazione tecnica) provvede, in seduta pubblica, il seggio di gara.
Le operazioni di valutazione e di graduazione nel merito delle offerte tecniche, come si è ricordato, vengono espletate, in uno o più sedute riservate, dalla commissione giudicatrice.
Le operazioni della (terza) fase conclusiva dell’iter di gara (comunicazione dell’esito della valutazioni tecniche, lettura dei prezzi offerti, formulazione della graduatoria finale ed aggiudicazione provvisoria) sono infine espletate, in seduta pubblica, dal seggio di gara.
In proposito ogni questione che era stata prima sollevata circa l’esatta individuazione dell’organo tenuto agli adempimenti di tale fase deve ritenersi risolta a seguito dell’approvazione del regolamento di esecuzione del Codice dei Contratti pubblici (D.P.R. n. 207 del 2010) che, all’art. 283, comma 3, ha previsto che «in seduta pubblica, il soggetto che presiede la gara dà lettura dei punteggi attribuiti alle offerte tecniche, procede all’apertura delle buste contenenti le offerte economiche, dà lettura dei ribassi espressi in lettere e delle riduzioni di ciascuna di esse e procede secondo quanto previsto dall’articolo 284» alla verifica di anomalia di cui all’art. 86 del codice, avvalendosi anche di apposita Commissione (o della stessa Commissione tecnica) e dichiarando l’aggiudicazione provvisoria in favore della migliore offerta risultata congrua.
Per quanto riguarda, in particolare, il procedimento per la verifica dell’anomalia, l’art. 284 del D.P.R. n. 207 del 2010, nel dare attuazione all’art. 88 del Codice in relazione agli appalti di servizi, rinvia all’art. 121 del D.P.R. n. 207 che, al comma 10, per le gare da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, prevede espressamente che, qualora vi siano offerte da sottoporre alla verifica di congruità, ai sensi dell’art. 86, comma 2, del Codice «… qualora il punteggio relativo al prezzo e la somma dei punteggi relativi agli altri elementi di valutazione delle offerte siano entrambi pari o superiori ai limiti indicati dall'articolo 86, comma 2, del codice, il soggetto che presiede la gara chiude la seduta pubblica e ne dà comunicazione al responsabile del procedimento, che procede alla verifica delle giustificazioni presentate dai concorrenti ai sensi dell'articolo 87, comma 1, del codice avvalendosi degli uffici o organismi tecnici della stazione appaltante ovvero della commissione di gara, ove costituita».
Da tali disposizioni si evince che è il responsabile del procedimento ad essere investito anche della funzione di svolgere la verifica dell’anomalia, potendosi avvalere, ove costituita, della apposita Commissione (o della stessa Commissione tecnica)
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 11.06.2013 n. 3228 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' irrilevante il fatto che il nome del RUP sia già conosciuto prima del termine di presentazione delle offerte trattandosi di circostanza ordinaria.
Al contrario, è la commissione giudicatrice che, a garanzia della regolarità della gara, deve essere nominata solo dopo lo scadere del termine ultimo di presentazione delle offerte (art. 84, comma 10, del Codice).

Con il secondo motivo la Società E.P. ha sostenuto che la sentenza appellata è erronea anche nella parte in cui ha respinto il motivo (primo nel ricorso di primo grado) con il quale aveva lamentato la violazione dell’art. 84 del codice dei contratti perché la Commissione di gara, prevista nel caso di aggiudicazione di gara con l’offerta economicamente più vantaggiosa, non aveva svolto le attività di valutazione ed ammissione dei concorrenti e di graduazione dei punteggi ma aveva lasciato tali attività al RUP, il cui nome era peraltro già conosciuto prima del termine di presentazione delle offerte, o addirittura ad un suo delegato.
La censura non è fondata.
Nella fattispecie, come ha affermato anche il TAR, correttamente il Seggio di gara ha svolto tutte le attività che, come si è ricordato, possono ritenersi facenti parte della prima fase della procedura. Mentre all’attività di valutazione delle offerte ha regolarmente provveduto l’apposita Commissione giudicatrice.
Non ha quindi rilievo la circostanza che tali atti non siano stati compiuti dalla commissione in composizione plenaria, né ha rilievo la circostanza che il RUP si è fatto assistere da diversi soggetti posto che, nelle operazioni che procedono la valutazione tecnica delle offerte, il RUP è assistito da testimoni, uno dei quali con il ruolo di segretario verbalizzante. Ma, in ogni caso, né i testimoni né il segretario partecipano alla formazione delle decisioni adottate dal presidente di seggio in ordine alle modalità di gestione delle sedute di gara.
Contrariamente a quanto affermato dall’appellante, il seggio di gara ha svolto quindi compiti che potevano essere svolti dal seggio, riguardanti la verifica della regolarità dei plichi e dei requisiti per la partecipazione alla gara, nonché della documentazioni presentata.
Né può avere alcun rilievo la circostanza che il nome del RUP fosse già conosciuto prima del termine di presentazione delle offerte trattandosi di circostanza ordinaria. Mentre è la commissione giudicatrice che, a garanzia della regolarità della gara, deve essere nominata solo dopo lo scadere del termine ultimo di presentazione delle offerte (art. 84, comma 10, del Codice). E nella fattispecie, come ricordato anche dal TAR, la Commissione tecnica è stata nominata il 05.07.2012 dopo la scadenza del termine di presentazione delle offerte (16.04.2012).
Non risultano pertanto violati, come pure affermato dal TAR, data la natura meramente istruttoria dell’attività svolta, con esclusione di ogni attività valutativa, i principi di par condicio, imparzialità e trasparenza.
Le argomentazioni esposte consentono di respingere anche il terzo motivo (secondo motivo del ricorso di primo grado) con il quale l’appellante ha sostenuto che il seggio di gara, nella seduta del 24.04.2012, nella quale si ammettevano le ditte alla fase successiva, non era composto secondo il disciplinare e in ottemperanza alla delega conferita dal Dirigente
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 11.06.2013 n. 3228 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: L’art. 40, d.P.R. 25.06.1983, n. 347, dispone l’inquadramento del personale degli enti locali nei diversi livelli dell’articolazione ivi prevista sulla base del raffronto fra la declaratoria del profilo professionale formalmente attribuito a ciascuno e la declaratoria dei profili inseriti nei vari livelli istituiti dallo stesso d.P.R., senza che possa darsi alcun rilievo alle eventuali mansioni superiori svolte.
Deve essere premesso che l’art. 40, d.P.R. 25.06.1983, n. 347, dispone l’inquadramento del personale degli enti locali nei diversi livelli dell’articolazione ivi prevista sulla base del raffronto fra la declaratoria del profilo professionale formalmente attribuito a ciascuno e la declaratoria dei profili inseriti nei vari livelli istituiti dallo stesso d.P.R., senza che possa darsi alcun rilievo alle eventuali mansioni superiori svolte.
L’assunto è da tempo pacifico, essendo stati da tempo superati i dubbi emersi nella fase di applicazione nella giurisprudenza dei tribunali amministrativi (da ultimo C. di S., V, n. 1924 del 2013 cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.).
E’ vero che il Comune di Firenze ha posto in essere una complessa procedura preordinata, appunto, a dare rilievo alle mansioni superiori a quelle proprie della qualifica svolte dai dipendenti al fine dell’inquadramento nei livelli previsti dal d.P.R. richiamato, e che tali deliberazioni non sono impugnate.
Peraltro, appare evidente che le relative deliberazioni –anche superando ogni problema di disapplicazione– hanno un contenuto marcatamente eccezionale, per cui sono suscettibili solo di stretta interpretazione.
Alla luce di tali osservazioni, deve essere rilevato come l’originario ricorrente abbia preteso di essere inquadrato in un profilo professionale inesistente.
L’originario ricorrente, ed ora le appellanti, sminuiscono il significato di tale fatto, attribuendogli una valenza solo formale, ma la tesi non può essere condivisa.
Invero, i casi eccezionali nei quali la normativa regolante lo stato giuridico dei dipendenti pubblici ammette la rilevanza dell’esercizio di mansioni superiori si basano sul presupposto che l’Amministrazione abbia di fatto ricevuto un vantaggio dalla preposizione del dipendente a compiti di maggiore impegno di quelli di sua spettanza; nel caso in cui le mansioni di cui si tratta non sono riconducibili ad un preciso profilo professionale è dimostrato che tale presupposto non ricorre, in quanto l’Amministrazione non ha riconosciuto l’utilità delle mansioni di cui si tratta inquadrandole in un preciso profilo professionale.
L’applicabilità del principio appena riassunto al caso che ora occupa è ulteriormente sottolineata dal fatto che, come rilevato anche dal primo giudice, le deliberazioni con le quale il Comune intimato ha disciplinato le operazioni di reinquadramento del proprio personale hanno previsto, fra i criteri per l’attribuzione del beneficio, il fatto che le mansioni siano state svolte su posto vacante.
E’ evidente, infatti, che se non può essere attribuito rilievo a mansioni svolte su posto non vacante, a maggior ragione non può essere dato rilievo a mansioni svolte su posto inesistente e di cui, quindi, l’Amministrazione non ha ravvisato la necessità.
Occorre inoltre osservare, per mero completamento d’indagine, che l’ascrivibilità delle mansioni svolte dall’originario ricorrente alla declaratoria della prima qualifica dirigenziale, per la quale egli non disponeva del titolo di studio necessario per l’accesso dall’esterno, è affermata in termini sostanzialmente assiomatici (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.06.2013 n. 3225 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nell'ambito delle opere edilizie, la semplice ristrutturazione si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano (e, all'esito degli stessi, rimangano inalterate) le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la ricostruzione allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro.
In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione, da considerare tale, ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui come previste dagli strumenti urbanistici locali, nel suo complesso, ove lo strumento urbanistico rechi una norma espressa con la quale le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le nuove costruzioni siano estese anche alle ricostruzioni, ovvero, ove una siffatta norma non esista, solo nelle parti eccedenti le dimensioni dell'edificio originario.
Deriva da quanto precede, pertanto -anche con riguardo alla legge n. 457 del 1978 e all'art. 31 di questa- che la semplice constatazione dell'aumento di superficie e di volumetria è sufficiente a rendere l'intervento edilizio non riconducibile al paradigma normativo della ristrutturazione e all'esonero dall'osservanza delle distanze legali previsto per detto tipo di interventi.

Nel merito, in primo luogo, il Collegio rileva che, nell'ambito delle opere edilizie, la semplice ristrutturazione si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano (e, all'esito degli stessi, rimangano inalterate) le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la ricostruzione allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro.
In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione, da considerare tale, ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui come previste dagli strumenti urbanistici locali, nel suo complesso, ove lo strumento urbanistico rechi una norma espressa con la quale le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le nuove costruzioni siano estese anche alle ricostruzioni, ovvero, ove una siffatta norma non esista, solo nelle parti eccedenti le dimensioni dell'edificio originario.
Deriva da quanto precede, pertanto -anche con riguardo alla legge n. 457 del 1978 e all'art. 31 di questa- che la semplice constatazione dell'aumento di superficie e di volumetria è sufficiente a rendere l'intervento edilizio non riconducibile al paradigma normativo della ristrutturazione e all'esonero dall'osservanza delle distanze legali previsto per detto tipo di interventi (Cassazione civile, sez. un., 19.10.2011, n. 21578).
Nella fattispecie, dunque, i lavori abusivi eseguiti dai ricorrenti sono da classificare come opere ex novo, e non ristrutturazione, in quanto parte del fabbricato preesistente è stato conglobato nel nuovo manufatto, che si configura quindi come un organismo edilizio diverso, con dimensioni maggiori sia in pianta che in altezza e con conseguente incremento della volumetria
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.06.2013 n. 3221 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I beni che hanno civilisticamente natura pertinenziale non sono necessariamente tali ai fini dell'applicazione delle regole proprie dell'attività edilizia.
La nozione di pertinenza in ambito edilizio ha infatti un significato più circoscritto e si fonda sulla mancanza di autonoma destinazione e autonomo valore del manufatto pertinenziale, sul suo non incidere sul carico urbanistico, sulle ridotte dimensioni, tali da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio, caratteristiche queste la cui sussistenza deve essere dimostrata dall'interessato e che non ricorrono palesemente nel manufatto oggetto del provvedimento di demolizione.

Inoltre, il Collegio osserva, sulla scorta di un’ormai consolidata giurisprudenza, che i beni che hanno civilisticamente natura pertinenziale non sono necessariamente tali ai fini dell'applicazione delle regole proprie dell'attività edilizia; la nozione di pertinenza in ambito edilizio ha infatti un significato più circoscritto e si fonda sulla mancanza di autonoma destinazione e autonomo valore del manufatto pertinenziale, sul suo non incidere sul carico urbanistico, sulle ridotte dimensioni, tali da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio, caratteristiche queste la cui sussistenza deve essere dimostrata dall'interessato e che non ricorrono palesemente nel manufatto oggetto del provvedimento di demolizione (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, n. 4573 del 2010).
Pertanto, la sentenza penale prodotta in giudizio dall’appellante, relativa alla diversa qualificazione giuridica del bene quale pertinenza, sulla base della nozione civilistica, è irrilevante nel giudizio amministrativo, ove rileva, come detto, il diverso concetto di pertinenza urbanistica (ex multis: Consiglio di Stato, sez. VI, 28.01.2013, n. 496)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.06.2013 n. 3221 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime concessorio, non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico.
Anche il terzo motivo d’appello deve essere respinto, poiché, per nota e consolidata giurisprudenza, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime concessorio, non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico (cfr., anche Consiglio di Stato, sez. V, 11.01.2011, n. 79 e Consiglio di Stato, sez. VI, 24.09.2010, n. 7129) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.06.2013 n. 3221 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Capitolato di gara, i requisiti tecnico-finanziari e quelli di qualità viaggiano separati.
E’ da ritenersi sostanzialmente corretta la procedura della stazione appaltante che nel capitolato richiede, alle ditte partecipanti, solo i requisiti di capacità economico finanziaria e tecnica, mentre rimanda ad un apposito allegato la richiesta di dichiarazione circa il possesso di specifici requisiti di qualità.

il Consiglio di Stato ha legittimato la discrezionalità delle stazioni appaltanti che godono di un certo margine sia nella scelta dei criteri di aggiudicazione sia nel punteggio da attribuire a ciascun elemento.
Il contenzioso amministrativo
Nel caso specifico una azienda sanitaria aveva indetto una procedura aperta per l’affidamento del servizio di assistenza domiciliare, da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per la durata di tre anni (l’importo della gara era piuttosto elevato: 15 milioni di euro).
Alla base del contenzioso amministrativo vi era che le cooperative sociali, che in passato per molti anni erano state affidatarie del servizio, avevano impugnato il bando ed il capitolato della nuova gara censurandone i requisiti di partecipazione, sul presupposto che non fosse richiesto il possesso dei requisiti occorrenti per conseguire l’accreditamento; contestavano, inoltre, le modalità di aggiudicazione, con particolare riferimento alla previsione di un punteggio assai elevato, per chi avesse “esperienze pregresse in reparti di terapia intensiva”.
L’Azienda sanitaria aveva concluso la procedura di affidamento in favore di una SPA mentre il costituendo RTI di cooperative sociali si era classificato al secondo posto; il ricorso al TAR prevedeva, inoltre, la contestazione che l’impresa aggiudicataria non avesse i requisiti necessari per essere accreditata e che la composizione della Commissione giudicatrice non sarebbe stata legittima, con particolare riferimento al suo Presidente; che infine la valutazione delle offerte tecniche sarebbe stata errata in più punti.
Il TAR ha respinto il ricorso e avverso la sentenza le cooperative sociali del costituendo R.T.I. hanno proposto appello.
La legittimità dell’operato della stazione appaltante
Osserva il Consiglio di Stato che in riferimento ai requisiti di partecipazione richiesti, le cooperative ricorrenti ritengono errato il comportamento della stazione appaltante che avrebbe in questo caso preteso solamente il possesso di requisiti attinenti alla capacità economica finanziaria e tecnica delle imprese partecipanti, ai sensi degli artt. 41 e 42 del D.Lgs. 163/2003, cd. Codice dei Contratti Pubblici, trascurando del tutto dalle loro effettive dotazioni umane, strumentali ed organizzative.
I giudici amministrativi del Consiglio di Stato ritengono che simile presupposto sia, tuttavia, infondato poiché, come correttamente già sottolineato dal TAR, sebbene il capitolato d’oneri prevedesse all’apparenza i soli requisiti di capacità economica finanziaria e tecnica, il suo allegato obbligava pur sempre di dichiarare di essere in possesso anche dei requisiti di cui “all’art. 2 della legge regionale n. 6/2011 ed in particolare dei requisiti (sia quelli minimi per l’esercizio delle attività sanitarie e socio sanitarie che quelli ulteriori per l’accreditamento) previsti dal richiamato decreto del Commissario ad acta n. 90/2010 e successive modifiche”.
Per il Consiglio di Stato è sicuramente discutibile sul piano formale la scelta della stazione appaltante di non evidenziare già nel corpo del capitolato la necessità di tali requisiti “specifici”, ma non si può ragionevolmente dubitare che quegli stessi requisiti fossero richiesti, se non immaginando una procedura del tutto contra legem; tra l’altro, evidenziano i giudici di Palazzo Spada, la ditta aggiudicataria aveva autocertificato di possedere tutti i requisiti indicati dall’allegato.
Per il Consiglio di Stato, quindi, poiché la procedura di gara in questione richiedeva il possesso di determinati e specifici requisiti di qualità, connaturati all’assistenza domiciliare, e la SPA aggiudicataria ne ha autocertificato il possesso (spettando alla stazione appaltante procedere con attenzione ai necessari controlli) su questo punto il ricorso va respinto.
Con riferimento alla critica che le cooperative ricorrenti hanno rivolto all’entità dell’importo programmato dalla stazione appaltante, il Consiglio di Stato ritiene che non vi deve essere una critica al metodo di gara (l’opzione per il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa dove, però, la competizione è stranamente limitata alla sola offerta tecnica, non potendo i concorrenti confrontarsi anche sul terreno dell’offerta economica), ma solo all’entità del corrispettivo presunto, che non sarebbe “in linea” con i principi della spending review e che impedirebbe persino l’approvazione della procedura da parte degli organi regionali.
Ma su questo punto, per il Consiglio di Stato, non vi è traccia nel motivo dedotto dalle cooperative ricorrenti; ne consegue che detta censura non è ammissibile nel presente giudizio, per carenza di interesse; lo stesso Consiglio di Stato ritiene che di tale questione ne debba essere investita la Procura della Corte dei Conti, per le valutazioni riservate alla sua competenza.
Il criterio del punteggio
Le cooperative ricorrenti contestano, inoltre, le modalità di attribuzione del punteggio; il Consiglio di Stato ricorda che il margine di discrezionalità di cui godono in generale le stazioni appaltanti nella determinazione dei criteri di aggiudicazione e del diverso peso da attribuire loro, come già indicato dal TAR, è una scelta compiuta immune da vizi logici, non potendosi dubitare della rilevanza riconoscibile alla pregressa esperienza maturata in entrambi gli ambiti sopra indicati, nell’ottica di un innalzamento generale della qualità del servizio. A ciò si può aggiungere che le differenze di punteggio registratesi su tali voci non si sono dimostrate neppure decisive ai fini della gara.
Le conclusioni
Per il Consiglio di Stato il ricorso è del tutto infondato e deve essere, quindi , respinto. Non è , pertanto, da censurare la scelta operata dalla stazione appaltante di assegnare un punteggio elevato alle esperienze pregresse maturate in specifici ambiti connessi al servizio richiesto (commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 24.05.2013 n. 2846 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: La Corte di Cassazione su effetti e limiti dei lavori di sopraelevazione dell'immobile.
Edifici, il decoro prima di tutto. L'intervento conforme all'aspetto può essere lesivo.
Le nozioni di decoro e aspetto architettonico sono diverse, ma la prima ha un contenuto più restrittivo della seconda, con la conseguenza che un intervento giudicato lesivo del decoro di un edificio non può al tempo stesso essere valutato conforme all'aspetto architettonico del medesimo.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 24.04.2013 n. 10048.
Nel caso in questione i giudici di legittimità hanno infatti cassato la sentenza di merito che, pur avendo accertato la lesione del decoro architettonico dell'edificio conseguente alla sopraelevazione realizzata da un condomino, aveva però ritenuto che la stessa non avesse violato anche l'aspetto architettonico del fabbricato, rilevante ai sensi dell'art. 1127 c.c., essendosi mantenuta all'interno dello stile proprio dell'immobile.
Sopraelevazione e aspetto architettonico dell'edificio. La sopraelevazione consiste in un'aggiunta quantitativa in senso verticale alla volumetria dell'edificio. In particolare si può parlare di sopraelevazione nel caso di opere che comportino lo spostamento in alto della copertura del fabbricato, in modo da occupare lo spazio sovrastante e superare l'originaria altezza dell'edificio. La nozione di sopraelevazione non va pertanto limitata alla costruzione di nuovi piani dell'edificio, ma si estende a ogni intervento che comporti l'innalzamento della copertura del fabbricato.
Così, per esempio, la trasformazione della soffitta o del sottotetto non abitabili in un piano abitabile, mediante la modifica della pendenza del tetto della vecchia soffitta, con una migliore utilizzazione dello spazio ricavato, configura una mera modifica interna. Al contrario, l'opera riguardante una soffitta inabitabile trasformata in appartamento, con l'aumento dell'altezza media da uno a tre metri e la realizzazione di un nuovo tetto con unico spiovente in sostituzione di quello preesistente a doppia falda, è da considerare come costruzione di un nuovo piano. Se nel realizzare detta parte aggiuntiva del fabbricato viene adottato uno stile diverso da quello della parte preesistente dell'edificio, normalmente si determina anche un mutamento peggiorativo dell'aspetto architettonico complessivo, percepibile da qualunque osservatore.
Di conseguenza, il condomino che sopraeleva non può mutare l'aspetto architettonico del fabbricato, costruendo per esempio un piano in stile moderno (con materiali di recente introduzione sul mercato) su un edificio di stile classico o neoclassico. Il pregiudizio dell'aspetto architettonico quindi può consistere in una diminuzione del valore dell'immobile per la diversità della linea architettonica o dei materiali utilizzati, così come per l'altezza dei nuovi piani, che sia completamente diversa rispetto a quelli preesistenti, oppure ancora per il tipo di infissi (colore, forma ecc.).
Aspetto architettonico e decoro architettonico: le differenze. Come detto, l'art. 1127 c.c., dettato in materia di sopraelevazione, obbliga il condomino a seguire l'aspetto architettonico dell'edificio. Diversamente, in tema di limiti alle innovazioni, l'art. 1120 c.c. parla di decoro architettonico. Si tratta dello stesso concetto o di due nozioni differenti? La giurisprudenza, con particolare riferimento alla predetta recente pronuncia della Suprema corte, risponde negativamente.
Per decoro architettonico del fabbricato, infatti, deve intendersi l'estetica data dall'insieme delle linee e delle strutture dell'edificio. L'alterazione di tale decoro può verificarsi alla realizzazione di opere che mutino l'originario aspetto anche soltanto di singoli elementi o punti del fabbricato tutte le volte che il cambiamento sia tale da riflettersi sull'insieme dell'estetica dello stabile. Dal decoro architettonico deve essere quindi tenuto distinto l'aspetto architettonico: mentre, infatti, il primo è una qualità positiva dell'edificio, derivante dal complesso delle caratteristiche architettoniche principali e secondarie, con il secondo l'accento viene posto sulla conservazione dello stile complessivo dell'immobile.
La distinzione non è priva di rilievo pratico: la modifica strutturale di una parte anche di modesta consistenza dell'edificio, infatti, pur non incidendo normalmente sull'aspetto architettonico, può comportare il venir meno di altre caratteristiche influenti sull'estetica dell'immobile e, dunque, sul decoro architettonico del medesimo. La lesione del decoro architettonico, poi, è denunziabile anche ove incida su caratteristiche dei beni comuni (mentre la sopraelevazione e l'aspetto architettonico riguardano opere realizzate nelle parti esclusive). È vero, però, che per essere legittimamente portata a termine l'opera di sopraelevazione deve rispettare entrambe gli aspetti sopra citati: in questi casi non basta quindi che siano osservati soltanto i canoni inerenti all'aspetto architettonico, ma anche quelli attinenti al decoro dell'edificio.
In quali casi non può essere contestata la violazione dell'aspetto architettonico dell'edificio. La violazione dell'aspetto architettonico consiste in un'incidenza di particolare rilievo della nuova opera sullo stile architettonico dell'edificio che, essendo immediatamente apprezzabile da parte di persone di media preparazione culturale, si traduce in una diminuzione del pregio estetico ed economico del fabbricato. Quindi, il giudizio relativo all'impatto della sopraelevazione sull'aspetto architettonico dell'edificio va condotto avendo esclusivo riguardo alle caratteristiche stilistiche facilmente percepibili: in altre parole, se le la nuova opera è assolutamente invisibile ai terzi o visibile solo da notevole distanza dal caseggiato, la stessa non è contestabile.
In ogni caso i condomini possono opporsi alla sopraelevazione eseguita dal condomino dell'ultimo piano sul suo terrazzo a livello, o lastrico solare, che pregiudichi le caratteristiche architettoniche dell'edificio e, se eseguita, ne possono chiedere l'abbattimento e il risarcimento del danno. Ma la relativa azione, posta a tutela dei proprietari esclusivi del piano sottostante, comproprietari delle parti comuni, si prescrive per il mancato esercizio ventennale (articolo ItaliaOggi Sette del 24.06.2013).

PUBBLICO IMPIEGOIl Tar Lazio ha ribaltato l'orientamento della Funzione pubblica sulla legge Fornero.
P.a., la pensione può attendere. Gli statali possono restare in servizio fino a 70 anni.
I dipendenti pubblici, a domanda, possono restare in servizio fino ai 70 anni d'età per migliorare la pensione. L'amministrazione, infatti, non deve e non può collocare a riposo i lavoratori che abbiano raggiunti i limiti d'età per la permanenza in servizio fissato a 65 anni (c.d. limite ordinamentale).

Lo ha stabilito il TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, nella sentenza 07.03.2013 n. 2446, ribaltando l'indirizzo interpretativo della riforma Fornero della pensioni per il settore pubblico e annullando la circolare n. 2/2012 dell'allora ministro per la p.a. Filippo Patroni Griffi, condivisa con ministero del lavoro, ministero dell'economia e Inps (su ItaliaOggi del 09.03.2012).
La pronuncia decide il ricorso di un direttore generale dell'amministrazione penitenziaria, collocato a riposo dal 01.01.2013 per raggiunti limiti d'età, avendo compiuto 65 anni a dicembre 2012. Il dirigente invece avrebbe preferito restare a lavoro un altro anno, fino ai 66 anni d'età fissati quale requisito (età) per la pensione di vecchiaia.
La questione è decisa con una diversa interpretazione della deroga prevista dalla riforma Fornero, la quale stabilisce che la vecchia disciplina continua a valere per i soggetti che maturano i requisiti di pensione entro il 31.12.2011 (comma 14, dell'art. 24, del dl n. 201/2011). Da tale deroga la circolare n. 2/2012 aveva tratto un vincolo per le p.a.: l'obbligo di collocare a riposo a partire dal 2012, al compimento di 65 anni (limite ordinamentale), i dipendenti che nel 2011 erano in possesso della massima anzianità contributiva (40 anni) o della «quota» (era 96) o comunque dei requisiti per una pensione; ciò in quanto la riforma Fornero non ha modificato il regime della permanenza in servizio, con la conseguenza di continuare a costituire il tetto massimo di servizio fino a garantire la decorrenza della pensione, ma mai oltre.
Ma per il Tar quella deroga non dice esattamente questo; anzi, afferma il contrario. Per arrivare alle proprie conclusioni, il tribunale prende in esame e confronta la predetta deroga (comma 14 dell'art. 24 del dl n. 201/2011) con un'altra deroga, cioè quella che consente al lavoratore che maturi entro il 31.12.2011 i requisiti di età e anzianità previsti dalla normativa previgente la riforma Fornero di avere la pensione sulla base della vecchie norme potendone richiedere anche la certificazione del diritto (comma 3, dell'art. 24, del dl n. 201/2011).
Secondo il Tar, mentre quest'ultima deroga (comma 3) configura un diritto soggettivo dei lavoratori, l'altra deroga (comma 14) stabilisce gli effetti temporali della riforma, a prescindere dalla volontà del lavoratore. La prima (comma 3) è una salvaguardia che rende, a domanda, inopponibile al lavoratore tutta la riforma della pensioni; la seconda (comma 14) si presta a due letture.
La prima lettura, seguita dalla circolare n. 2/2012, è quella per cui il legislatore ha voluto stabilire che, l'aver maturato al 31.12.2011 il diritto a una pensione (nel caso della sentenza: la pensione di anzianità), rende inapplicabili i nuovi requisiti per l'altra pensione previsti dalla riforma Fornero (nel caso della sentenza: la pensione di vecchiaia, quindi la permanenza in servizio fino a 66 anni di età). La seconda lettura, seguita dal Tar, vuole invece l'inapplicabilità dei nuovi requisiti di pensione introdotti dalla riforma Fornero nei confronti dei lavoratori che, al 31.12.2011, hanno maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia «e» quelli per la pensione di vecchiaia (articolo ItaliaOggi del 25.06.2013).

PUBBLICO IMPIEGOWelfare. Il Tar Lazio annulla la circolare 2/2012 della Funzione pubblica sul recesso d'ufficio per chi ha raggiunto i requisiti per l'assegno.
Al lavoro nella Pa anche gli over 65. Per i giudici la riforma favorisce il prolungamento del rapporto di impiego.
GLI EFFETTI/ Amministrazioni indotte a revocare in autotutela i provvedimenti di messa a riposo per chi ha maturato il diritto nel 2011.

La riforma previdenziale nella pubblica amministrazione non può essere utilizzata per mandare in pensione di vecchiaia tutti coloro che hanno raggiunto i 65 anni.
Il TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 07.03.2013 n. 2446, ha annullato uno stralcio della circolare 2 del dipartimento della Funzione pubblica nella parte in cui prevede il collocamento a riposo d'ufficio al compimento del 65esimo anno di età nei confronti di quei dipendenti che entro il 2011 erano già in possesso della massima anzianità contributiva, o comunque dei requisiti prescritti per l'accesso a un trattamento pensionistico diverso dalla pensione di vecchiaia. Il contenuto della circolare era stato condiviso con i ministeri del Lavoro, dell'Economia e con lo stesso Inps.
Per meglio comprendere la portata della sentenza 2446/2012 è necessario riepilogare cosa è accaduto con l'entrata in vigore della riforma Monti-Fornero. L'articolo 24 del Dl 201/2011 ha innalzato i requisiti anagrafici per l'accesso alla pensione di vecchiaia nonché quelli contributivi per l'accesso alla pensione anticipata (ex anzianità) superando il sistema delle quote, delle finestre mobili e prevedendo elevate anzianità contributive (per il 2013, 41 anni e 5 mesi per le donne, +1 anno per gli uomini). Il comma 14 precisa che i requisiti di accesso e di regime delle decorrenze vigenti prima della data di entrata in vigore continuano ad applicarsi ai soggetti che maturano i requisiti entro il 2011.
Nel caso in sentenza, il ministero della Giustizia aveva collocato a riposo, per raggiunti limiti di età, un proprio dipendente che già nel 2011 aveva oltre 40 anni di contributi, dando seguito a quanto previsto dalla circolare citata. Il ricorrente sosteneva di poter permanere in servizio fino al raggiungimento del nuovo limite anagrafico per l'accesso alla pensione di vecchiaia (66 anni oltre gli incrementi legati alla speranza di vita).
I giudici amministrativi hanno ritenuto convincenti gli elementi, aderendo all'interpretazione, secondo cui, a domanda, i nuovi requisiti anagrafici per la pensione di vecchiaia trovano applicazione a coloro che alla data del 31.12.2011 avevano maturato i requisiti per la pensione di anzianità, ma non quelli per la pensione di vecchiaia.
La sentenza prosegue affermando che va preferita l'interpretazione normativa che favorisce il prolungamento del rapporto di impiego anziché quella opposta (sostenuta dall'Amministrazione resistente) che invece "anticipa" la risoluzione. La sentenza ammette, altresì, che il comma 14 dell'articolo 24 si presta a essere interpretato in entrambi i sensi, e che argomenti decisivi non sono traibili neppure dal comma 3 del citato articolo che prevede la certificazione del diritto acquisito su istanza del lavoratore. Gli effetti della sentenza, di fatto, inducono le Pubbliche amministrazioni a revocare in autotutela tutti quegli atti di collocamento a riposo per raggiunti limiti di età (di norma 65 anni) nei confronti di quei lavoratori che entro il 2011 hanno comunque maturato un diritto a pensione a qualsiasi titolo.
È da segnalare però che nel dispositivo non viene menzionato il comma 4 che prevede, per gli iscritti alle forme esclusive e sostitutive della medesima, la "incentivazione" del proseguimento dell'attività lavorativa –fermi restando i limiti ordinamentali– che nel pubblico impiego sono fissati al compimento del 65esimo anno di età (articolo 4 del Dpr 1092/1973).
Inoltre, l'effetto della sentenza che in prima battuta potrebbe far pensare a una minore spesa pensionistica, tradurrà i propri effetti con un maggior assegno. Infatti, grazie al comma 2, dal 2012, con riferimento alle anzianità contributive maturate a decorrere da tale data, il calcolo della quota di pensione corrispondente a tali anzianità avverrà secondo il metodo di calcolo contributivo.
Motivo per cui, poiché il ricorrente alla fine del 2011 aveva un'anzianità contributiva superiore a 40 anni, maturerà ulteriori quote di pensione relativamente alle anzianità riferite al periodo gennaio 2012-marzo 2014, data di cessazione per raggiungimento dei nuovi limiti anagrafici (articolo Il Sole 24 Ore del 25.06.2013).

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