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AGGIORNAMENTO AL 29.07.2013 |
ã |
dite
la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
EDILIZIA PRIVATA: M.
Viviani,
Allevamenti intensivi di
pollame o di suini
(27.07.2013).
---------------
Ringraziamo l'amico Avv. Mario Viviani -del foro di
Milano- per l'utile
contributo.
29.07.2013 - LA SEGRETERIA PTPL |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
VARI:
Oggetto: Pubblicazione Regolamento per l'aggiornamento
della competenza professionale (Consiglio Nazionale
degli Ingegneri,
circolare 16.07.2013 n. 255). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 23.07.2013, "Programma
regionale di sviluppo della X^ legislatura" (deliberazione
C.R. 09.07.2013 n. 78).
---------------
Nello specifico, si legga a pag. 198 l'«Aggiornamento
del Piano Territoriale Regionale Anno 2013». |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA: Obbligo
di dotare gli edifici di impianti alimentati da fonti
rinnovabili. Facciamo chiarezza con la tavola sinottica di
BibLus-net.
L’obbligo di dotare gli edifici di impianti alimentati da
fonti rinnovabili non è certamente una novità. Basti pensare
che già nel lontano 1991 la famosa Legge 10, all'art. 26
comma 7, prescriveva “l’obbligo di soddisfare il
fabbisogno energetico degli edifici di proprietà pubblica o
adibiti ad uso pubblico favorendo il ricorso a fonti
rinnovabili di energia, salvo impedimenti di natura tecnica
od economica”.
Il D.Lgs. 192/2005, così come modificato dal D.Lgs.
311/2006, al comma 12 dell’Allegato I recitava: “[…] nel
caso di edifici pubblici e privati è obbligatorio l’utilizzo
di fonti rinnovabili per la produzione di energia termica ed
elettrica. In particolare, nel caso di edifici di nuova
costruzione o in occasione di nuova installazione di
impianti termici o di ristrutturazione degli impianti
termici esistenti, l’impianto di produzione di energia
termica deve essere progettato e realizzato in modo da
coprire almeno il 50% del fabbisogno annuo di energia
primaria richiesta per la produzione di acqua calda
sanitaria con l’utilizzo delle predette fonti di energia.
Tale limite è ridotto al 20% per gli edifici situati nei
centri storici”.
L’obbligo di installare impianti a fonti rinnovabili viene
ripreso anche dal decreto di attuazione, il D.P.R. 59/2009,
che riporta integralmente quanto previsto dal 192/2005,
rimandando a sua volta a un “successivo provvedimento”.
E’ presente, però, una novità, ossia l’obbligo di installare
impianti fotovoltaici per la produzione di energia elettrica
negli edifici di nuova costruzione e in quelli esistenti
soggetti a ristrutturazione, con superficie utile superiore
a 1000 m².
Intanto anche una modifica al Testo unico per l’Edilizia
(D.P.R. 380/2001) introduce l’obbligo di impianti di
produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.
Il 29.03.2011 entra in vigore il cosiddetto “Decreto
Rinnovabili” (D.Lgs. 28/2011) che definisce finalmente
in maniera compiuta i criteri di dotazione degli edifici di
impianti alimentati da fonti rinnovabili.
In particolare, il Decreto introduce nuove definizioni:
►
“edificio di nuova costruzione”, inteso come un
edificio per il quale la richiesta del titolo edilizio
comunque denominato (Permesso di Costruire, Scia, Dia,
etc.), sia stata presentata successivamente alla data di
entrata in vigore del presente decreto”. Quindi, non solo un
semplice nuovo edificio, ma, più in generale, un edificio
per il quale si richieda un nuovo titolo abilitativo
successivamente al 29.03.2011;
►
“edificio sottoposto a ristrutturazione rilevante”,
inteso come edificio esistente avente superficie utile
superiore a 1000 metri quadrati, soggetto a ristrutturazione
integrale degli elementi edilizi costituenti l'involucro
oppure edificio esistente soggetto a demolizione e
ricostruzione anche in manutenzione straordinaria.
In definitiva, il Decreto Rinnovabili trova applicazione
molto più ampia di quanto sembrerebbe, disciplinando la
produzione di energia termica in termini di percentuali di
copertura e tempi di intervento.
Da notare che l'inosservanza degli obblighi seguenti
comporta il diniego del rilascio del titolo edilizio!
In allegato a questo articolo proponiamo ai lettori di
BibLus-net
uno speciale contenente la tavola sinottica, con esempi
applicativi del Decreto Rinnovabili
(25.07.2013 - link a www.acca.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA - INCARICHI PROGETTUALI: Arriva
la Legge di conversione del Decreto del Fare?
La Camera ha votato la fiducia al
disegno di Legge di conversione del “Decreto del fare”.
Assicurazione professionale obbligatoria dal 15.08.2013,
possibilità per i professionisti di accedere al fondo unico
di garanzia e ristrutturazioni con modifica della sagoma
tranne che in alcune zone dei centri storici sono alcune
delle novità contenute nel provvedimento.
Tra le novità più interessanti che riguardano il settore
segnaliamo:
Polizza professionale
L’obbligo di stipulare un’assicurazione professionale, che
copra eventuali danni arrecati a terzi nell’esercizio della
propria attività è confermato al 15.08.2013.
Solo i professionisti del settore sanitario beneficeranno
della proroga di un anno. Quindi, ingegneri, architetti,
geometri dovranno stipulare la polizza; al riguardo,
rinviamo alla precedente notizia di BibLus-net con il
Vademecum del CNI su come scegliere la polizza.
Fondo centrale di garanzia per i
professionisti
Gli interventi del Fondo centrale di garanzia per le piccole
e medie imprese sono estesi ai professionisti iscritti agli
ordini professionali e a quelli aderenti alle associazioni
professionali iscritte nell’elenco tenuto dal Ministero
dello Sviluppo Economico.
I professionisti, quindi, dovrebbero avere un accesso
facilitato al credito.
Cambio di sagoma con Scia
Le demolizioni e ricostruzioni potranno avvenire senza il
rispetto della sagoma originaria e gli interventi potranno
essere realizzati con SCIA (Segnalazione Certificata di
Inizio Attività). I Comuni, comunque, individueranno le zone
dei centri storici da escludere da questa semplificazione.
Fisco
Equitalia non potrà sequestrare il macchinario o il bene
mobile se l’azienda o il professionista dimostra che esso è
“strumentale” alla propria attività.
L’unica casa di abitazione non può essere pignorata.
Previste anche comunicazioni telematiche semplificate per le
Partite Iva.
Disoccupati ed esodati che non hanno più il datore di lavoro
a fare da sostituto di imposta, avranno comunque i crediti
fiscali entro l’anno rivolgendosi al Caf.
Appalti
Per le gare d’appalto bandite dopo l’entrata in vigore della
Legge di conversione e fino al 21.12.2014, l'ente pubblico
potrà anticipare all’appaltatore il 10% dell’importo
contrattuale a patto che ciò sia previsto dal disciplinare
di gara
(25.07.2013 - link a www.acca.it). |
SICUREZZA LAVORO: Tutto
quello che c’è da sapere sul ruolo e le responsabilità del
committente.
Chiunque affidi la progettazione o
l’esecuzione di lavori per la costruzione, la
ristrutturazione o la manutenzione di un’opera edile riveste
la funzione di committente dei lavori e, quindi assume gli
obblighi e le funzioni previste dalla legge, con importanti
responsabilità penali in caso di mancato rispetto di tali
obblighi.
L’Inail e il Coordinamento toscano dei CPT hanno pubblicato
una utile guida destinata ai privati cittadini, agli
amministratori di condominio, ai proprietari di immobili, ai
titolari di aziende che intendono far costruire una nuova
opera edile o intervenire su una esistente con lavori di
riparazione, manutenzione ordinaria e straordinaria ed
installazione impianti.
La pubblicazione elenca tutti i rischi e gli obblighi del
proprietario di un’opera edile, richiamando puntualmente le
norme e le sanzioni in materia di salute e sicurezza sul
lavoro (Decreto Legislativo 81/2008 e s.m.i.) nonché gli
articoli del Codice Penale ai quali può essere soggetto il
committente.
La guida risponde in maniera chiara ed efficace a questi
quesiti:
●
chi è il Committente?
●
quali sono gli obblighi del Committente?
●
quali sono le sanzioni civili e penali?
(25.07.2013 - link a www.acca.it). |
INCARICHI PROGETTAZIONE: Parametri
per le gare di progettazione: l’ultima bozza del Decreto va
al Consiglio di Stato.
Il nuovo regolamento contenente le regole per stabilire i
corrispettivi da porre a base di gare per i servizi di
ingegneria e architettura (c.d. “Decreto Parametri bis”)
ha ottenuto il via libera dal Ministero delle Infrastrutture
ed è stato inviato al Consiglio di Stato.
Il “Decreto Parametri bis” non ha avuto un iter
semplice: ricordiamo, infatti, che la prima bozza era stata
bocciata nel gennaio 2013 sia dal Consiglio Superiore dei
Lavori Pubblici che dall'Autorità per la Vigilanza sui
Contratti Pubblici, poiché in certi casi i parametri
proposti potevano portare alla definizione di corrispettivi
più alti rispetto a quelli previsti dalle vecchie tariffe
professionali del D.M. 04.04.2001, oramai abrogate.
L’articolo 9 della Legge n. 27/2012 prevede, infatti, che i
nuovi parametri non debbano superare i compensi derivanti
dalle vecchie tariffe minime.
A ribadirlo è stato anche il CSLLPP auspicando che la
responsabilità della verifica di non superamento sia
affidata al Responsabile Unico del Procedimento (RUP); il
Ministero della Giustizia, però, non ha condiviso la
proposta del CSLLPP di affidare al RUP tale incombenza.
L’ultima parola sulla
bozza del Decreto passa quindi, al Consiglio di Stato
(25.07.2013 - link a www.acca.it). |
LAVORI PUBBLICI: Variazioni
percentuali dei materiali da costruzioni: in aumento di
oltre il 10% solo il bitume.
Il Codice degli Appalti, all’art. 133, stabilisce che entro
il 30 giugno di ogni anno il Ministero rilevi con proprio
Decreto le variazioni percentuali dei singoli prezzi dei
materiali da costruzione più significativi.
Qualora il prezzo dei singoli materiali da costruzione
subisca variazioni superiori al 10 % rispetto al prezzo
rilevato dal Ministero nell'anno di presentazione di
un'offerta, si applicano compensazioni per la percentuale
eccedente il 10 % e nel limite delle risorse previste tra
imprevisti e le somme relative al ribasso d'asta.
Sulla Gazzetta Ufficiale del 19.07.2013, n. 168 è stato
pubblicato il D.M. 03.07.2013 del Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti, contenente la rilevazione
dei prezzi medi per l’anno 2012 e delle variazioni
percentuali annue (superiori al 10 %) relative all’anno
2011.
L’unico materiale ad aver subito tra il 2012 ed il 2011 una
variazione superiore al 10% è il bitume (+12,87%).
Ricordiamo che l’istanza di compensazione può essere
presentata dall’appaltatore alla stazione appaltante non
oltre i 60 giorni dalla pubblicazione del Decreto.
Per determinare le compensazioni relative ai materiali da
costruzione impiegati nelle lavorazioni contabilizzate
nell'anno 2012 si può utilizzare la tabella allegata a
questo articolo
(25.07.2013 - link a www.acca.it). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Lavoro.
Assimilazione alla controllante.
Spesa di personale, per tutte le in house tetti uguali agli
enti.
L'INDICAZIONE/
Per i giudici contabili anche le società fuori dall'elenco
Istat rientrano nei vincoli previsti per il Comune.
Tutte le partecipate al 100% titolari di un affidamento in
house che gestiscono servizi pubblici devono applicare
procedure e regimi assunzionali delle Pa controllanti,
adeguandosi agli obblighi contenimento degli oneri per
personale e consulenze, a prescindere dal loro inserimento
nel l'elenco Istat.
Lo ha chiarito la Corte dei conti, sezione di controllo del
Lazio (parere
10.07.2013 n. 143); rispondendo a un quesito sulla
disciplina applicabile a una società in house di trasporto
regionale (100% pubblica e con fatturato da prestazione di
servizi verso la Pa sotto il 90%), la Corte dapprima ne ha
chiarito la natura di servizio pubblico di interesse
generale a rilevanza economica, escludendo la qualifica di
soggetto strumentale. La società è quindi esclusa
dall'articolo 4 del Dl 95/2012, ma deve applicare l'articolo
18 del Dl 112/2008 e l'articolo 3-bis del Dl 138/2011, e
deve quindi adottare criteri e modalità per il reclutamento
di personale e per il conferimento di incarichi conformi ai
principi di pubblicità, imparzialità ed economicità
(articolo 35, comma 3, del Dlgs 165/2001).
La parte più rilevante del parere riguarda l'articolo 18,
comma 2-bis, del Dl 112/2008, che prevede l'applicazione di
una serie di vincoli per le società a partecipazione
pubblica locale totale o di controllo titolari di
affidamenti diretti di servizi pubblici locali senza gara, o
che svolgano funzioni di interesse generale non industriali
o commerciali, oppure per quelle dell'elenco Istat che
svolgano attività nei confronti della Pa a supporto di
funzioni amministrative di natura pubblicistica inserite nel
conto economico consolidato della Pa. I vincoli riguardano
divieti o limitazioni alle assunzioni delle Pa controllanti,
e l'adeguamento delle politiche di personale a quanto
previsto per le Pa controllanti in tema di contenimento
degli oneri contrattuali, degli stipendi e delle consulenze.
La Corte ha precisato che l'elenco Istat ha natura
ricognitiva e non costitutiva dei requisiti per l'inclusione
dei soggetti pubblici nel comparto Pa. I regimi assunzionali
e i vincoli ai costi del personale, quindi, valgono a
prescindere dal loro inserimento nominativo nel l'elenco
Istat.
Queste società (fra cui anche la Cotral, a cui era relativo
il quesito) sono quindi sottoposte al vincolo dell'articolo
9, comma 28 del Dl 78/2010 (oggetto della richiesta), che
fissa per il personale a tempo determinato o con convenzioni
o co.co.co il limite di spesa del 50% rispetto a quella del
2009.
Dalla natura ricognitiva del l'elenco Istat, tuttavia,
possono derivare anche effetti più generali in tema di
operatività delle norme di contenimento degli oneri
contrattuali. Ad esempio, alle partecipate dovrebbe
applicarsi, in contrasto con la tesi blandamente sostenuta
dal ministero dello Sviluppo economico (nota 17/01/2013, n.
946), anche l'articolo 9, comma 2-bis, del Dl 78/2010, in
cui si prevede che che, dal 2011 al 2013, l'ammontare delle
risorse destinate al trattamento accessorio delle Pa non
possa superare quello del 2010 e sia ridotto in proporzione
alla diminuzione del personale in servizio. Un intervento
legislativo che armonizzi e chiarisca vincoli di finanza
pubblica e soggetti coinvolti sarebbe comunque opportuno
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.07.2013). |
LAVORI PUBBLICI: Fuori dal Patto l'appalto a costo zero. Corte
dei conti. Via libera all'offerta della gestione di una
struttura in cambio della scuola.
L'appalto di lavori pubblici per la realizzazione di una
nuova scuola primaria che non richiede esborso di poste
finanziarie non ha problemi di compatibilità con il Patto,
né con i limiti al debito. L'acquisto non incappa neppure
nei limiti all'acquisto di beni immobili.
A dare il via
libera all'operazione è la Corte dei conti Lombardia, nel
parere 24.06.2013 n. 248.
Di fronte alla necessità di realizzare una nuova scuola, il
Comune intende affidare l'opera a un privato (scelto con
gara), remunerato attraverso l'esecuzione e la gestione di
un'altra struttura socio-sanitaria e assistenziale da
realizzare sull'area occupata dalla vecchia scuola da
dismettere una volta realizzato il nuovo edificio. Il
privato riconosce all'ente il corrispettivo per il diritto
di superficie sul l'area della scuola e su quella utilizzata
per la nuova struttura, e il Comune non deve erogare somme
di denaro.
L'operazione, secondo i magistrati contabili, non rientra
nella finanza di progetto, la quale richiede che ricada sul
realizzatore, oltre al rischio di costruzione, uno dei due
rischi fra quello di domanda (riferito all'utilizzo del
l'opera da parte degli utenti finali) o di disponibilità
(inteso come il fatto che il realizzatore deve mettere a
disposizione degli utilizzatori l'infrastruttura e il
committente corrisponderà un canone destinato a remunerare
anche il costo dell'opera).
Mancando sia il rischio di domanda che quello di
disponibilità, l'operazione rientra nel contratto di
appalto, remunerato con la cessione di un fondo attrezzato
per la realizzazione di un'impresa. L'appalto rientra nei
vincoli di finanza pubblica, ma in questo caso la mancanza
di esborso di denaro fa sì che non si ponga un problema di
vincoli di finanza pubblica. L'operazione, quindi, non è
elusiva del Patto.
Il parere esamina anche l'impatto dell'articolo 1, comma 138,
della legge 228/2012, che vieta l'acquisto di immobili a
titolo oneroso. Il Comune in questo caso acquista un bene
immobile ma come mera conseguenza, differita nel tempo,
dell'appalto di lavori pubblici, perciò non incappa nel
divieto di acquisto immobili a titolo oneroso che colpisce
le operazioni di compravendita per le quali è necessaria la
presenza di un "corrispettivo" in senso tecnico, ovvero di
un prezzo.
---------------
L'iter
01 | LO SCAMBIO
Il Comune ha bandito una gara in cui chiedeva la
realizzazione di una scuola, a costo zero, dando in cambio
la concessione per una struttura sanitaria
02 | IL PATTO
Questo contratto di appalto secondo la Corte dei conti
è fuori dai vincoli di contabilità del Patto perché manca
l'esborso
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.07.2013). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI SERVIZI:
Servizi socio-educativi-culturali, quali le modalità di
pubblicazione dei bandi?
Domanda
Quali sono le
modalità di pubblicazione dei bandi di gara e degli avvisi
di aggiudicazione inerenti i servizi
socio-educativi-culturali elencati nell'allegato II B del
D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, per importi sia inferiori che
superiori alla soglia comunitaria?
Risposta
L'art. 2 comma 1,
D.Lgs. 12-04-2006, n. 163 stabilisce che "1.
L'affidamento e l'esecuzione di opere e lavori pubblici,
servizi e forniture, ai sensi del presente codice, deve
garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel
rispetto dei principi di economicità, efficacia,
tempestività e correttezza; l'affidamento deve altresì
rispettare i principi di libera concorrenza, parità di
trattamento, non discriminazione, trasparenza,
proporzionalità, nonché quello di pubblicità con le modalità
indicate nel presente codice".
Si ritiene che, sebbene l'art. 20 D.Lgs. cit. stabilisca
l'applicabilità agli appalti nei servizi di cui all'allegato
II B di alcune norme soltanto del codice, debba comunque
trovare applicazione il principio generale di adeguata
pubblicità della gara in relazione al suo valore.
Infatti, l'AVCP con Deliberazione n. 108 del 19.12.2012 ha
stabilito che "I servizi elencati nell'allegato II B
restano soggetti, oltre che all'art. 20 del D.lgs. n.
163/2006, anche all'art. 27 del medesimo decreto in base al
quale l'affidamento di contratti pubblici, sottratti in
tutto o in parte all'applicazione del codice, deve avvenire
nel rispetto di principi di economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità".
Con Deliberazione n. 25 del 08.03.2012 ha stabilito che "La
riconducibilità del servizio appaltato all'All. II B del
Codice non esonera le amministrazioni aggiudicatrici
dall'applicazione dei principi generali in materia di
affidamenti pubblici desumibili dalla normativa comunitaria
e nazionale, con particolare riferimento al principio di
pubblicità, espressione dei principi di imparzialità e buon
andamento dell'azione amministrativa di cui all'art. 97
Cost. (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 03.12.2008, n. 5943;
22.04.2008, n. 1856; 08.10.2007, n. 5217; 22.03.2007, n.
1369; TAR Lazio, Sez. III-ter, 05.02.2008, n. 951).
Nella deliberazione n. 102 del 05.11.2009 l'Autorità ha,
inoltre, sottolineato che sebbene i servizi rientranti
nell'allegato II B siano soggetti, a stretto rigore, solo
alle norme richiamate dall'art. 20 del D.Lgs. 163/2006,
oltre a quelle espressamente indicate negli atti di gara (in
virtù del c.d. principio di autovincolo), quando il valore
dell'appalto è decisamente superiore alla soglia comunitaria
è opportuna anche una pubblicazione a livello comunitario,
in ossequio al principio di trasparenza (cui è correlato il
principio di pubblicità), richiamato dall'art. 27 D.Lgs.
163/2006 a tenore del quale l'affidamento deve essere
preceduto da invito ad almeno cinque concorrenti, se
compatibile con l'oggetto del contratto".
La codificazione di tali principi conferma dunque la
contrarietà per l'affidamento fiduciario. Pertanto, in
ossequio ai principi del Trattato, la stazione appaltante
dovrà opportunamente nell'ambito della propria
discrezionalità scegliere il modulo procedimentale più
consono, favorendo la procedura ristretta quando il criterio
di aggiudicazione è quello dell'offerta economicamente più
vantaggiosa.
Conseguentemente, occorre rispettare le regole di pubblicità
dei bandi relativi alle gare di importo sopra e sotto soglia
anche per le gare inerenti ai servizi di cui all'allegato II
B (26.07.2013 - tratto da www.ipsoa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/
O in giunta o in consiglio.
Decadenza ex lege con l'incarico di assessore.
Non va convocato alla prima seduta chi non fa più
parte dell'assemblea.
I consiglieri eletti al termine dello scrutinio elettorale,
e nominati assessori con decreto sindacale, devono
partecipare alla prima seduta del consiglio comunale
finalizzata, ai sensi dell'art. 41 Tuel, all'esame della
condizione dei consiglieri eletti?
In caso di risposta
affermativa, un consigliere, anch'egli nominato assessore,
può validamente presiedere la seduta consiliare in qualità
di consigliere anziano?
La fattispecie di cui trattasi è regolata dagli artt. 41, 46
e 64 del decreto legislativo n. 267/2000 concernenti,
rispettivamente, gli adempimenti della prima seduta del
consiglio comunale, la nomina della giunta e l'automatica
cessazione dalla carica del consigliere che accetta la
nomina ad assessore. Nella prima seduta del consiglio
comunale, ancor prima di deliberare su qualsiasi altro
oggetto, deve essere esaminata la condizione degli eletti,
ai sensi dell'art. 41 del Tuel. Secondo il disposto
dell'art. 46, il sindaco nomina i componenti della giunta e
ne dà comunicazione al consiglio nella prima seduta
successiva all'elezione.
Qualora un consigliere assuma la carica di assessore, lo
stesso, sulla base di quanto previsto dall'art. 64 Tuel,
cessa dalla carica di consigliere all'atto dell'accettazione
della nomina ed al suo posto subentra il primo dei non
eletti della medesima lista. La cessazione dalla carica di
consigliere, nei comuni con popolazione superiore ai 15.000
abitanti, costituisce un effetto legale automatico, cui
segue sempre ex lege, la sostituzione del consigliere
nominato assessore col primo dei non eletti. Non sono,
pertanto, necessarie le dimissioni del consigliere e il
ricorso all'ordinario procedimento di surroga, di cui
all'art. 38 del Tuel.
La circolare n. 15900/legge
142-bis/1075 del 13.09.2005 del ministero
dell'interno, nel richiamare l'automatismo previsto dal
citato art. 64 Tuel finalizzato a evitare la paralisi
dell'organo assembleare, si ricollega al parere del
Consiglio di stato n. 2775/2005 del 13.07.2005, anche ai
fini della convocazione dei consiglieri subentranti.
In
merito a tale posizione non risulta siano successivamente
intervenute pronunce difformi della giurisprudenza
amministrativa. Ciò posto, tenuto conto della espressa
previsione del citato art. 64 Tuel e delle considerazioni
che precedono, i consiglieri che hanno accettato la carica
assessorile e sono, quindi, cessati dalla carica «ex lege»,
non devono essere convocati a partecipare alla prima seduta
del consiglio comunale del quale non sono più componenti. Ne
consegue che la presidenza del citato consesso non può
essere attribuita ad un soggetto che, avendo accettato la
carica assessorile, non ne fa più parte
(articolo ItaliaOggi del 26.07.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Incompatibilità.
Sussiste una causa di incompatibilità nel caso in cui il
sindaco di un comune ricopra anche la carica di assessore
esterno nella regione nel cui territorio è ricompreso il
comune stesso?
A seguito della modifica del titolo V della Costituzione con
la legge costituzionale n. 3/2001, spetta alle regioni
disciplinare le cause di incompatibilità alle cariche
elettive regionali.
La legge 02.07.2004, n. 165
(disposizioni di attuazione dell'art. 122, primo comma,
della Costituzione) ha poi fissato i principi fondamentali
concernenti il sistema di elezione e i casi di
ineleggibilità e di incompatibilità del presidente e degli
altri componenti della giunta regionale, nonché dei
consiglieri regionali.
Nella fattispecie in esame, la
regione ha in proposito disposto che i componenti della
giunta possano essere nominati anche al di fuori del
consiglio regionale tra i cittadini in possesso dei
requisiti di eleggibilità e di compatibilità alla carica di
consigliere regionale. Dal momento che risulta interdetto il
cumulo di cariche fra la carica di sindaco dei comune
compresi nel territorio della regione con la carica di
consigliere regionale (art. 4 della legge 23/04/1981, n.
152, e art. 274 del dlgs 18.08.2000, n. 267, che fa salve le
disposizioni ivi previste per i consiglieri regionali),
anche la carica di assessore esterno è incompatibile con la
carica di sindaco dei comuni compresi nel territorio della
regione in questione.
Sotto il profilo della ricorrenza dell'incompatibilità
rispetto alla carica locale, si presentano due soluzioni
praticabili per il capo dell'amministrazione che intenda
accettare la carica regionale: può dimettersi dalla carica
locale o essere dichiarato decaduto dal consiglio comunale a
conclusione del procedimento amministrativo previsto
dall'art. 69 decreto legislativo n. 267/2000.
Quanto sopra con salvezza delle prerogative degli organi
regionali, deputati a valutare se l'espressione dell'opzione
dell'interessato a favore della carica sopravvenuta è idonea
a far cessare lo stato d'incompatibilità
(articolo ItaliaOggi del 26.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Rischi
idrogeologici.
Domanda
Si chiede se le Autorità competenti siano tenute ad
individuare ed eliminare i rischi idrogeologici connessi
anche alle opere realizzate in epoca anteriore all'adozione
del piano di bacino distrettuale.
Risposta
Alla luce del disposto dell'articolo 65 del decreto
legislativo numero 152, del 03.04.2006, il piano di
bacino distrettuale, che ha valore di piano territoriale di
settore, è lo strumento conoscitivo, normativo e
tecnico-operativo attraverso il quale vengono pianificate e
programmate le azioni e le norme di uso finalizzate alla
conservazione, alla difesa e alla valorizzazione del suolo
ed alla corretta utilizzazione delle acque sulla base delle
caratteristiche fisiche ed ambientali del territorio
interessato.
Il piano di bacino distrettuale contiene il quadro
conoscitivo, organizzato ed aggiornato del sistema fisico e
delle utilizzazioni del territorio, previsto dagli strumenti
urbanistici comunali ed intercomunali, nonché i vincoli
relativi al distretto. Esso individua e quantifica le
situazioni, in atto e potenziali, del degrado del sistema
fisico, nonché delle relative cause, e dà le direttive alle
quali devono conformarsi la difesa del suolo, la
sistemazione idrogeologica ed idraulica e l'utilizzazione
delle acque e dei suoli.
Pertanto, detto piano di bacino distrettuale ha una triplice
funzione: conoscitiva, precettiva, programmatica.
Il piano stralcio di distretto per l'assetto idrogeologico -Pai-, di cui all'articolo 67 del citato decreto legislativo
03.04.2006, numero 152, ed il predetto piano di bacino
distrettuale introducono vincoli di bacino che assumono la
natura dei vincoli idrogeologici previsti dall'articolo 866,
del codice civile, e dalla normativa speciale portata dal
regio decreto 30.12.1923, numero 3267.
Ora, Il Tribunale Amministrativo Regionale del Molise (Tar),
sezione I, con la sentenza del 09.03.2012, numero 92, ha
affermato che l'efficacia del piano di bacino distrettuale,
in ragione della particolare importanza della sua funzione
programmatica, ha una efficacia non strettamente limitata
dal principio tempus regit actum. Ne consegue, per i
Giudici molisani, che le autorità competenti devono
individuare ed eliminare i rischi idrogeologici connessi
alle opere realizzate anche in epoca anteriore all'adozione
del predetto strumento
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.07.2013). |
PATRIMONIO: Alienazione
immobili.
Domanda
Un comune, in presenza di apposita disposizione
regolamentare, ha provveduto ad alienare un immobile di sua
proprietà ad una fondazione pubblica, senza ricorrere a
procedure di selezione improntate a criteri di evidenza
pubblica.
Si chiede se la procedura seguita e la relativa
clausola regolamentare siano legittime.
Risposta
Alla luce delle disposizioni comunitarie e nazionali, nonché
dei più recenti orientamenti giurisprudenziali in materia,
si ritiene che la procedura seguita dall'ente, seppur
conforme alle disposizioni del regolamento comunale,
presenti forti elementi di criticità.
In primis, si rileva che tale procedura è astrattamente
idonea a pregiudicare la concorrenza in quanto attribuisce
al comune la facoltà di vendere un bene pubblico, senza
garantire un confronto competitivo, attribuendo in tal modo
al diretto aggiudicatario un ingiustificato vantaggio
competitivo.
L'art. 12 della legge n. 127/1997 prevede poi che i comuni e
le province possono procedere alla alienazione del proprio
patrimonio immobiliare anche in deroga alle procedure
previste dalle norme sulla contabilità generale degli enti
locali, fermi restando però i principi generali
dell'ordinamento giuridico contabile. A tal fine sono
assicurati «criteri di trasparenza e adeguate forme di
pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di
acquisto, da definire con regolamento dell'ente
interessato».
La stessa giurisprudenza amministrativa ha più volte
chiarito che i criteri dell'evidenza pubblica debbono essere
rispettati anche nei casi di alienazione di beni da parte di
una pubblica amministrazione (cfr. Cons. stato, 19.05.2008, n. 2280).
Ciò posto, si segnala infine che, pronunciandosi su un caso
analogo, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato,
con proprio parere del 20.03.2013, ha auspicato le
eliminazioni delle disposizioni del regolamento comunale che
prevedono l'esclusione di forme di confronto concorrenziale
qualora l'acquirente interessato agli immobili oggetto di
vendita sia un ente pubblico, una società partecipata da un
ente pubblico locale, una fondazione, un'associazione, una onlus
o un ente ecclesiastico
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.07.2013). |
PATRIMONIO: Il
divieto di acquistare immobili.
Domanda
Il divieto per le pubbliche amministrazioni di procedere
all'acquisto di immobili nell'anno 2013 si estende anche
alle procedure espropriative?
Risposta
La c.d. legge di stabilità 2013 (legge 24.12.2012 n.
228) nell'introdurre –con l'art. 1, comma 138– i commi
1-ter e 1-quater all'art. 12 del dl 06.07.2011, n. 98 ha
apportato una limitazione di carattere assoluto, per l'anno
2013, e condizionata alla verifica dei presupposti di
necessità e urgenza, per l'anno 2014, alla possibilità per
le Amministrazioni pubbliche di acquistare la proprietà di
immobili a titolo oneroso.
La previsione ut supra ha pertanto una portata generale in
un'ottica di contenimento della spesa pubblica, imponendo
pertanto alle P.a. uno stretto vincolo alle spese per
l'acquisto di beni immobili sia per l'anno 2013, sia, anche
se in modo meno stringente, per il 2014.
Venendo al quesito posto, al silenzio del legislatore in
merito, si sono susseguiti, in questo primo semestre, pareri
da parte delle sezioni regionali della Corte dei Conti,
tutti improntati a una interpretazione tendente ad estendere
il divieto di acquisto previsto dalla norma.
Di particolare importanza, ai fini del quesito posto, la
deliberazione n. 9 del 31.01.2013 della Corte dei conti
- sezione regionale di controllo per la Liguria, dove, in
occasione della risposta alla richiesta di parere formulata
da un Comune, la Corte ha espresso le proprie «coordinate
interpretative», rispetto ai vincoli posti dalle norme sopra
citate.
Nello specifico, per quanto attiene l'estensione del divieto
procedere all'acquisto di immobili nell'anno 2013 anche alle
procedure espropriative, ha precisato la Corte che le
condizioni di cui sopra devono riferirsi applicabili anche
all'acquisizione di immobili per la realizzazione di opere
assistite da dichiarazione di pubblica utilità.
Il parere della sezione ligure della Corte dei conti ha
finito per assumere una inevitabile forza di contagio.
Concludendo, auspicando un quanto più repentino intervento
del Legislatore in materia, allo stato attuale, considerando
l'orientamento della magistratura contabile, si può
affermare pertanto che il divieto de quo si estenda anche
all'acquisizione di immobili per la realizzazione di opere
assistite da dichiarazione di pubblica utilità.
È infine doveroso precisare che, in data 05.06.2013, la
Camera ha approvato in via definitiva il disegno di legge di
conversione, con modificazioni, del decreto-legge
08.04.2013, n. 35, recante disposizioni urgenti per il
pagamento dei debiti della pubblica amministrazione. Con
tale disposizione il blocco degli acquisti viene tolto per
tutte le acquisizioni per pubblica utilità di cui al dpr
327/2001, ricomprendendo quindi evidentemente anche
l'articolo 42-bis
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.07.2013). |
PATRIMONIO: Scadenza
della concessione.
Domanda
Alla scadenza della concessione l'immobile realizzato dal
concessionario sull'area demaniale è acquisito al demanio o
resta al concessionario?
Risposta
L'art. 934 C.C. prevede che «qualunque piantagione,
costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo
appartiene al proprietario di questo». È questo il principio
dell'accessione.
In particolare, salvo che sia diversamente stabilito
nell'atto di concessione, quando venga a cessare la
concessione, le opere non amovibili, costruite sulla zona
demaniale, restano acquisite allo Stato, senza alcun
compenso o rimborso, salva la facoltà dell'autorità
concedente di ordinarne la demolizione con la restituzione
del bene demaniale nel pristino stato (Art. 49 Codice
navigazione).
Concludendo si può quindi affermare che in mancanza di
previsioni o clausole dirette a sottrarre il bene realizzato
su suolo demaniale alla regola dell'accessione, il bene a
tale regola non sfugge ed è quindi acquisito al demanio, nel
quale il bene è incorporato
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.07.2013). |
NEWS |
ENTI LOCALI: CONSIGLIO DEI MINISTRI/ Gli effetti delle misure del ddl sul
riassetto degli enti locali.
Riordino p.a., incroci pericolosi.
Difficile calibrare l'assegnazione di risorse e compiti.
Non sono solo le province a essere direttamente interessate
ai contenuti del disegno di legge Delrio, che ieri ha
iniziato il proprio iter con l'approvazione in consiglio dei
ministri. Esso, infatti, tocca in modo diretto anche i
comuni e le regioni, coinvolgendoli nell'articolato (e sotto
diversi profili problematico) percorso di riordino della
p.a. locale, nella quale rappresenteranno gli unici due
livelli di governo ancora direttamente eletti dai cittadini.
I principali stakeholders sono gli attuali enti di area
vasta, destinati a essere, laddove non soppiantati in toto
dalle future città metropolitane, comunque declassati a enti
di secondo livello con funzioni fortemente ridotte (si veda
Italia Oggi di ieri).
In tali casi, i comuni, singoli o associati in unioni,
erediteranno tutte le altre competenze, fatta eccezione per
quelle che le regioni, nelle materie di propria competenza
(cioè in quelle previste dall'art. 117, commi e 4, Cost.)
decideranno di assumere in via diretta.
Ovviamente, il transito delle funzioni dovrà essere
accompagnato dal passaggio ai sindaci delle correlate
risorse finanziarie, umane, strumentali, organizzative e
patrimoniali. A ciò, nelle materie di competenza statale,
dovrà provvedere un apposito dpcm da adottare entro il
prossimo 31 marzo. Nelle altre materie, invece, il
meccanismo dovrà essere regolato da leggi regionali, per la
cui adozione non è previsto alcun termine. In via
transitoria, peraltro, ovvero in attesa di una futura (ma
neppure abbozzata) riforma della finanza locale, le entrate
tributarie continueranno a essere riscosse dalle province,
che dovranno poi riversarle ai comuni e regioni, salvo che
esse non ineriscano a funzioni che questi ultimi avranno nel
frattempo deciso di delegare nuovamente alle prime. Un
meccanismo di incroci fra compiti e risorse tutt'altro che
facile da calibrare.
Altrettanto rilevanti le novità che si prospettano per i
municipi più piccoli (quelli al sotto di 5 mila abitanti, o
di 3 mila se montani) rispetto all'obbligo a essi imposto di
gestire in forma associata il proprio core business, ovvero
le cosiddette funzioni fondamentali. Chi si aspettava una
proroga (a oggi, dopo lo slittamento a fine anno del termine
per l'attivazione delle centrali uniche di committenza, la
scadenza per tutte le funzioni è fissata al 31 dicembre
2013) per ora è rimasto deluso. Le modifiche in cantiere,
infatti, riguardano solo le modalità per adempiere.
In base alla disciplina vigente, i comuni possono scegliere,
in alternativa o contestualmente alla costituzione di una
unione, di stipulare una o più convenzioni. In tal caso,
essi non devono neppure raggiungere una soglia demografica
minima, come invece è previsto per le unioni (che devono
raggruppare almeno 10 mila abitanti), a meno che non lo
preveda la regione di appartenenza. Gli unici limiti sono
rappresentati dalla durata minima della convenzione (almeno
tre anni) e dalla necessità di conseguire significativi
livelli di efficacia ed efficienza nella gestione (in
mancanza, scatta l'obbligo di dare vita a una unione).
Il disegno di legge, invece, indica quest'ultimo come il
modello privilegiato e limita la durata massima delle
eventuali convenzioni a cinque anni dalla data di entrata in
vigore delle nuove regole. Decorso tale termine, le
convenzioni cesseranno di avere efficacia e i comuni che le
avevano stipulate non potranno più utilizzare tale strumento
per esercitare in forma associata le proprie funzioni
fondamentali, ma dovranno costituire un'unione o (si
ritiene) confluire in un'unione già esistente.
Viene confermata la possibilità di costituire unioni
«speciali» cui conferire la totalità delle funzioni comunali
(non solo quelle fondamentali, ma anche le altre, ivi
comprese quelle delegate o conferite), che, anzi, viene
estesa a tutti i comuni con meno di 5 mila abitanti, mentre
ora è consentita solo a quelli sotto i mille.
La disciplina delle diverse tipologie di unione, peraltro,
viene fortemente allineata: in tutti i casi, scompare la
giunta, sostituita da un comitato composto dai tutti i
sindaci dei comuni aderenti, che continueranno a sedere
(insieme a due consiglieri per ogni comune, di cui uno in
rappresentanza della minoranza) anche nel consiglio. Fra i
componenti dei comitato dei sindaci, il presidente
dell'unione potrà nominare un vicepresidente e assegnare
deleghe.
Rispetto alla bozza iniziale, tuttavia, gli incentivi per le
unioni sono fortemente ridotti: non è più prevista, infatti,
alcuna agevolazione diretta ai fini del Patto, ma solo un
indirizzo alle regioni affinché individuino misure volte a
promuoverne la costituzione in sede di regionalizzazione
verticale.
Anche le fusioni fra comuni perdono la maggior parte delle
premialità inizialmente contemplate: in pratica, l'unica
facilitazione riguarda le possibilità di mantenere tributi e
tariffe differenziati per ciascuno dei territori degli enti
preesistenti, con l'obiettivo, però, di arrivare
all'armonizzazione entro la fine del primo mandato
amministrativo del nuovo municipio.
Il disegno di legge, infine, prevede anche di avviare un
percorso di monitoraggio dei circa 5 mila enti statali,
regionali e locali «impropri», le cui funzioni, cioè,
possono trovare un più razionale allocazione, per completare
il percorso di razionalizzazione avviato nella scorsa
legislatura
(articolo ItaliaOggi del 27.07.2013). |
VARI: Riforma del codice stradale, sanzioni modulate su gravità e
frequenza.
Disposizioni per favorire la diffusione e l'installazione di
sistemi telematici per l'accertamento delle violazioni
stradali. Revisione della disciplina sanzionatoria graduando
l'entità degli importi da pagare e semplificando le
procedure. Piena ed espressa applicazione ai conducenti
minorenni delle sanzioni accessorie gravanti sulla licenza
di guida. Riformulazione dei ricorsi amministrativi e
giurisdizionali nell'ottica della semplificazione e
dell'alleggerimento degli oneri a carico dei cittadini.
Sono alcuni dei principi e criteri direttivi definiti dal
disegno di legge delega per la riforma del codice della
strada, varato ieri dal Consiglio dei ministri.
I decreti legislativi delegati dovranno dettare una nuova
disciplina delle norme di comportamento e delle relative
sanzioni nel rispetto di alcuni criteri direttivi, fra i
quali assumono particolare rilevanza quelli relativi alla
revisione della disciplina sanzionatoria. In particolare,
sarà modificata in generale l'entità delle sanzioni,
prevedendo la graduazione in funzione della gravità, della
frequenza e dell'effettiva pericolosità del comportamento e
l'inasprimento in caso di comportamenti particolarmente
pericolosi e lesivi dell'incolumità e della sicurezza degli
utenti della strada, dei bambini e degli utenti deboli.
Per quanto attiene alle procedure sanzionatorie, saranno
snelliti e semplificati i procedimenti per l'applicazione
delle sanzioni amministrative pecuniarie e accessorie e
delle misure cautelari relative ai documenti di circolazione
e di guida.
Il sistema di accertamento degli illeciti amministrativi
sarà revisionato tenendo in considerazione i nuovi strumenti
di controllo a distanza che consentono la contestazione da
remoto e del regime delle spese. Dovrà essere espressamente
prevista l'applicabilità ai conducenti minorenni degli
istituti della decurtazione di punti e del ritiro, della
sospensione e della revoca della patente di guida. I ricorsi
amministrativi e giurisdizionali saranno revisionati con
l'obiettivo di semplificare le procedure e alleggerire gli
oneri amministrativi a carico dei cittadini.
I decreti delegati dovranno poi introdurre disposizioni
finalizzate a favorire la diffusione e l'installazione di
sistemi telematici idonei a rilevare, anche attraverso il
collegamento automatico con l'anagrafe nazionale dei
veicoli, le violazioni in materia di circolazione dei
veicoli, con particolare riferimento alle prescrizioni
relative alla massa complessiva a pieno carico e al
trasporto di merci pericolose.
Oltre ai decreti legislativi, il governo sarà delegato ad
adottare regolamenti per revisionare la segnaletica stradale
in armonia con le norme internazionali e per ridefinire le
caratteristiche e la classificazione di alcuni veicoli
(articolo ItaliaOggi del 27.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Subappalti, aliquota ordinaria.
L'agevolazione al 10% solo per il committente principale.
L'amministrazione finanziaria
ritorna sul problema delle aliquote agevolate negli appalti.
Negli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria
delle abitazioni, l'aliquota Iva agevolata del 10% si
applica solo nei confronti del committente principale,
mentre le prestazioni dei subappaltatori scontano l'aliquota
ordinaria del 21%.
Questa indicazione, fornita
dall'amministrazione finanziaria in ragione della
particolarità dell'agevolazione dall'art. 7 della legge
488/1999, deroga pertanto al principio generale secondo cui il
contratto di subappalto segue l'aliquota del contratto
principale.
Motivo per cui talvolta risulta inconsapevolmente disattesa
dai contribuenti.
L'art. 7, comma 1, lettera b), della legge 488/1999,
assoggetta all'aliquota Iva ridotta del 10% le prestazioni
aventi ad oggetto gli interventi di manutenzione ordinaria e
straordinaria eseguiti su fabbricati a prevalente
destinazione abitativa privata. Al riguardo,
l'amministrazione ha chiarito che, ai fini in esame, si
considerano tali: le singole unità immobiliari classificate
catastalmente nelle categorie da A1 ad A11, esclusa la A10,
indipendentemente dall'utilizzo di fatto (vale pertanto la
classificazione in catasto), gli edifici di edilizia
residenziale pubblica, adibiti a dimora di soggetti privati,
gli edifici destinati a residenza stabile di collettività,
quali orfanotrofi, brefotrofi, ospizi, conventi, le parti
comuni di fabbricati destinati prevalentemente ad abitazione
privata, intendendo tali gli edifici la cui superficie
totale dei piani fuori terra è destinata per oltre il 50% ad
uso abitativo privato, le pertinenze immobiliari
(autorimesse, soffitte, cantine) delle unità abitative,
anche se ubicate in edifici destinati prevalentemente a usi
diversi.
Sono invece escluse dall'agevolazione le unità immobiliari
non abitative (negozi, uffici), anche se situate in edifici
a prevalente destinazione abitativa.
A differenza dell'analoga agevolazione prevista per gli
interventi edilizi di grado superiore (restauro, risanamento
conservativo, ristrutturazione), che riguarda i lavori
eseguiti su qualsiasi fabbricato, nonché le cessioni di beni
finiti destinati alla realizzazione dei lavori stessi,
quella delle manutenzioni ha quindi una portata più
ristretta, in quanto si applica solo ai fabbricati abitativi
e solo alle prestazioni di servizi. Inoltre, se nei lavori
vengono impiegati i beni significativi, scatta un
particolare meccanismo limitativo dell'agevolazione.
Il valore di tali beni, infatti, sconterà l'aliquota del 10%
nei limiti in cui trova capienza nell'ammontare complessivo
dell'intervento al netto del valore dei beni stessi. In
pratica, se il valore del bene significativo non supera il
50% del valore complessivo dell'intervento, l'intero
corrispettivo è agevolato, altrimenti scatta la limitazione.
I beni significativi, elencati nel dm del 29/12/1999, sono i
seguenti: ascensori e montacarichi, infissi esterni ed
interni, caldaie, video citofoni, apparecchiature di
condizionamento e riciclo dell'aria, sanitari e rubinetterie
da bagno, impianti di sicurezza.
In considerazione di questa limitazione, nella circolare
71/2000, l'amministrazione finanziaria ha precisato che
l'aliquota agevolata non è applicabile nei rapporti tra
imprese, per cui ne può beneficiare solo il committente del
contratto principale (il quale non deve essere
necessariamente né un consumatore finale né una persona
fisica: potrebbe anche trattarsi, infatti, della società
immobiliare proprietaria del fabbricato).
Secondo la circolare, quindi, in deroga al principio
interpretativo di carattere generale che omologa, riguardo
all'aliquota Iva, i subappalti all'appalto principale, negli
interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria non è
consentito applicare l'aliquota del 10% alle prestazioni
eseguite in dipendenza di subappalti. In tale ipotesi,
pertanto, l'appaltatore, tenuto ad applicare l'imposta con
il meccanismo dell'inversione contabile, dovrà integrare la
fattura del subappaltatore con l'aliquota ordinaria.
A ben vedere, pur salvaguardando le finalità della
circolare, non vi sarebbe motivo di escludere l'aliquota
agevolata nel caso in cui la prestazione del subappaltatore
sia esclusivamente di mano d'opera, o comunque non preveda
l'impiego di beni significativi
(articolo ItaliaOggi del 26.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: L'80% dei comuni tace sui costi al Suap.
Solo il 21% dei comuni del campione (tra accreditati e
«camerali») ha provveduto a pubblicare informazioni sugli
oneri connessi alla presentazione di una pratica al Suap. E
ciò, nonostante ai sensi dell'art. 5 del Cad (Codice
dell'amministrazione digitale) l'obbligo di pubblicazione
per tutti i procedimenti amministrativi della pubblica
amministrazione decorra dal primo giugno di quest'anno e,
con riferimento specifico al Suap, lo stesso obbligo sia
stato già introdotto dall'art. 2 del dm 10.11.2011.
Inoltre, le modalità prevalenti indicate dai comuni
accreditati per la compilazione della pratica sono il
download della modulistica dal sito web del Suap (45%)
oppure soluzioni miste (38%), molto diffuse anche nel Suap
«camerale» (23%). Insomma, la compilazione online delle
comunicazioni non è ancora diffusa, con la conseguenza che
il procedimento avviene tramite Pec.
Sono questi alcuni dei
risultati dell'indagine svolta dalla Direzione generale per
il mercato, la concorrenza, il consumatore, la vigilanza e
la normativa tecnica, Divisione IV, Promozione della
concorrenza del Ministero dello sviluppo economico che è
disponibile online nel sito del Mise.
A distanza di tre anni
dall'entrata in vigore del Suap telematico (dpr 160/2010)
non si può certo dire, comunque, che i risultati siano stati
negativi anche se elementi di criticità sussistono ancora.
Come il fatto che siano pochissimi i comuni che hanno
attivato funzioni online per il pagamento degli oneri
connessi alle pratiche che transitano attraverso lo
sportello E, in parte, questo è dovuto al fatto che solo una
minoranza dei comuni applica diritti di segreteria a questi
adempimenti.
Circostanza questa che, tuttavia, non va vista
negativamente perché soltanto per le pratiche di natura
edilizia è prevista dalla legge la possibilità di imporre
diritti mentre analoga facoltà non è prevista, ad esempio,
per i procedimenti di natura meramente economica, com'è il
caso dell'apertura di un negozio, di un bar o di un centro
estetico.
In sostanza, ciò che l'indagine ha fatto emergere
è che, a tre anni di distanza dall'entrata in vigore del
nuovo Suap, è stato sostanzialmente raggiunto quello che era
considerato l'obiettivo e funzione principale del Suap e la
sua stessa ragion d'essere. Ovvero nella capacità del comune
di assumere un ruolo di coordinamento nei confronti degli
enti terzi in merito ai procedimenti che vanno oltre la sola
competenza comunale. Non è invece stato raggiunto, osserva
il Ministero, l'altro importante obiettivo che era quello di
prevedere modalità standard nell'organizzazione dei servizi,
attraverso livelli minimi condivisi, e facendo perno sulle
tecnologie dell'informazione.
Con la conseguenza che il
disagio avvertito dalle imprese non riguarda tanto
l'informatizzazione del Suap, ma la standardizzazione dei
servizi
(articolo ItaliaOggi del 26.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Certificazione energetica senza competenze certe.
La presa di posizione della
categoria.
La certificazione energetica sarà pure (purtroppo) alla
portata di tutti, ma continua a restare una prerogativa
propria dei periti industriali. Quella che può sembrare
un'inutile precisazione, diventa invece necessaria
all'indomani della pubblicazione di un provvedimento in
materia che rischia di creare confusione tra gli addetti ai
lavori e tra i cittadini stessi.
Si tratta del dpr che «disciplina i criteri di
accreditamento per assicurare la qualificazione e
l'indipendenza degli esperti e degli organismi a cui
affidare la certificazione energetica degli edifici» in
vigore dallo scorso 12 luglio e contiene al suo interno
diversi paradossi che rischiano di dar seguito a
interpretazioni difformi sul territorio nazionale (e non
sarebbe la prima volta). Poiché ora è ormai impossibile
modificare una norma che non ha fatto altro che trasformare
lo strumento per il risparmio energetico, cioè la
certificazione legata alla diagnosi, in un mero adempimento
formale e burocratico, si possono però limitarne i danni e
evitare che gli addetti ai lavori si trovino in difficoltà.
Per questo il Cnpi ha inviato ai singoli presidenti di
regione, agli assessorati competenti e naturalmente ai
presidenti di collegio di categoria una circolare
esplicativa.
Il primo passaggio da chiarire perché non
esplicitato in questa norma (specificato nei decreti
delegati precedenti, dm 19/02/2007; dm 26/10/2007) è che la
figura del certificatore energetico corrisponde senza dubbio
al profilo del perito industriale iscritto all'albo
professionale nella specializzazione in edilizia,
elettrotecnica, meccanica, termotecnica, e quelle affini,
cioè costruzioni aeronautiche, fisica industriale, energia
nucleare, metallurgia, industria navalmeccanica, industria metalmeccanica e telecomunicazioni. Non solo, perché va
anche chiarito che tali soggetti sono abilitati alla
certificazione senza alcun attestato di frequenza
integrativo. Ma i punti oggetto di confusione non finiscono
qui, perché nonostante i rilievi contenuti nel parere del
consiglio di stato al fine di restringere l'estrema
genericità delle specializzazioni, è evidente una scelta che
appare totalmente casuale nei criteri a cui riferire i
soggetti abilitati alla certificazione.
Il punto è che il
regolamento se da una parte restringe il campo d'azione solo
a quei tecnici abilitati «all'esercizio della professione
relativa alla progettazione di edifici e impianti asserviti
agli edifici stessi», dall'altra la estende a molti altri
professionisti che di progettazione di edifici e impianti
non hanno niente a che vedere. Come, per esempio, i laureati
in fisica, in matematica, oppure in scienze della natura o
in modellistico matematico-fisica per l'ingegneria, posti
senza differenza accanto ai periti industriali. Dunque un
regolamento che ha deciso di togliere e di aggiungere
competenze a suo piacimento, considerando la laurea e non la
professione esercitata condizione necessaria per svolgere
questa attività, scardinando nello stesso tempo, sistema ordinistico
e logica delle classi di laurea.
Insomma sembra quasi che il ministero con questo regolamento
abbia quasi voluto inventarsi una nuova professione. Forse
dimenticandosi che gli esperti in materia già ci sono e
operano sul territorio con professionalità e competenza.
Purtroppo per le numerose sviste ci saranno quindi
certificatori esperti, cioè professionisti, iscritti agli
albi e accanto soggetti improvvisati, abilitati dopo un
semplice corso di formazione.
La cosa ancora più grave è che il principio di fondo nulla
ha a che vedere con l'analisi del comportamento energetico
dell'edificio. A questo punto sarebbe stato più fruttuoso
fare una semplice fotocopia delle bollette degli ultimi
anni. Perché la certificazione energetica imposta in questo
modo non è altro che fumo negli occhi
(articolo ItaliaOggi del 26.07.2013). |
ENTI LOCALI: Province, una scatola vuota.
Enti di secondo livello con funzioni di pianificazione.
Il ddl di riforma approda sul tavolo del
consiglio dei ministri. E fa già discutere.
Province ridotte ad enti territoriali di secondo livello con
funzioni circoscritte a pianificazione territoriale,
ambiente, trasporti e scuola. Città metropolitane operative
dal 01.07.2014 in sostituzione degli attuali enti di
area vasta, salva diversa decisione da parte di almeno un
terzo dei comuni interessati. Individuazione delle unioni
come modalità privilegiata di adempimento dell'obbligo di
gestione associata delle funzioni fondamentali da parte dei
municipi più piccoli.
Sono questi, in estrema sintesi, i contenuti salienti del
disegno di legge sul riassetto della p.a. locale che oggi è
approdato all'esame preliminare del consiglio dei ministri.
Il testo ricalca, pur con qualche modifica, quello
anticipato la scorsa settimana da questo giornale (si veda
ItaliaOggi del 20 luglio).
Province. In proposito, il disegno di legge introduce una
sorta di disciplina transitoria, destinata ad applicarsi in
attesa del varo della riforma costituzionale già avviata.
Come accennato, le province cesseranno di avere organi
eletti in via diretta dai cittadini. Il presidente, infatti,
sarà scelto da e fra i sindaci in carica, una minoranza dei
quali comporrà anche il consiglio provinciale. Tutti i primi
cittadini, inoltre, siederanno nell'assemblea dei sindaci,
chiamata ad approvare lo statuto ed i bilanci. Le elezioni
dei nuovi vertici scatteranno subito dopo l'entrata in
vigore della legge e dovranno svolgersi entro 20 giorni
dalla proclamazione dei sindaci eletti a seguito della prima
tornata di elezioni amministrative.
Come detto, le nuove
province avranno funzioni limitate a pianificazione del
territorio, valorizzazione dell'ambiente, trasporti e strade
provinciali, programmazione della rete scolastica. Gli altri
compiti passeranno ai comuni (singoli o associati in
unioni), salvo quelli che le regioni, nelle materie di
propria competenza, decideranno di trattenere a sé. La
transizione, peraltro, sarà tutt'altro che semplice, al
punto che, in attesa di una futura (e ancora tutta da
definire) riforma della finanza locale, le entrate
tributarie continueranno ad essere riscosse dalle province,
rendendo quindi necessaria la costruzione di un sistema di
trasferimenti da queste a sindaci e governatori.
Città metropolitane. Dal prossimo 1° gennaio, saranno
costituite le città metropolitane di Torino, Milano,
Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio
Calabria. I nuovi enti (anch'essi di secondo livello, ma con
la possibilità di prevedere l'elezione diretta del sindaco e
del consiglio metropolitano, sia pure solo dopo
l'approvazione di una legge elettorale ad hoc e comunque non
prima di un triennio) avranno inizialmente funzioni limitate
all'approvazione dello statuto.
Il battesimo vero e proprio
è previsto per il 01.07.2014, allorché esse
subentreranno alle attuali province, assumendo ampi compiti
che includeranno anche sviluppo economico e sociale,
organizzazione dei servizi pubblici, mobilità e viabilità. A
quel punto, le province saranno soppresse, salvo che, entro
il prossimo 28 febbraio, almeno un terzo dei comuni del
territorio interessato (fra loro confinanti) non chieda di
restare fuori dal nuovo ente: in tal caso, l'attuale
provincia resterà in funzione (con organi eletti secondo le
nuove modalità) sul nuovo e più ristretto ambito.
Anche qui la successione si prospetta complessa, specie
laddove la città metropolitana si affiancherà all'attuale
provincia, al punto che si prevede addirittura la
possibilità per ciascuno dei due enti di ricorrere alla
Corte dei conti avverso gli atti di riparto delle risorse
patrimoniali, strumentali, umane e finanziarie. Le città
metropolitane, inoltre, avranno le stesse entrate delle
province, ma dovranno ritrasferirne una quota se queste
sopravvivranno. Anche la gestione del Patto si annuncia come
un rebus: in caso di coabitazione fra vecchio e nuovo ente,
ciascuno risponderà “in solido” dell'obiettivo.
Unioni di comuni. Esse diventano lo strumento prioritario
per l'adempimento dell'obbligo di gestione associata delle
funzioni da parte dei piccoli comuni. L'alternativa della
convenzione rimane, ma potrà essere adottata al massimo per
un periodo di cinque anni dall'entrata in vigore della
legge, dopo di che i comuni interessati dovranno comunque
unirsi. Rispetto alla bozza iniziale, tuttavia, risultano
fortemente depotenziati gli incentivi per tali forme
associative. Non è più prevista alcuna forma di agevolazione
diretta ai fini del Patto, ma solo un invito alle regioni a
favorire i processi aggregativi attraverso la
regionalizzazione verticale. Saltano anche le premialità ed
i contributi aggiuntivi per le fusioni.
---------------
La transizione è un rebus.
Incognite su trasferimento funzioni e risorse.
Il passaggio sarà più agevole solo nelle dieci città
metropolitane.
Il disegno di legge di riforma delle province presentato dal
ministro Graziano Delrio crea notevoli incertezze non solo
sull'attribuzione delle funzioni e competenze, ma anche in
merito alla finanza locale. Il passaggio delle funzioni
dalle province agli enti subentranti, che possono essere a
seconda dei territori città metropolitane, comuni o unioni
di comuni e, per altro, in modi e dimensioni molto
diversificate, richiede necessariamente il transito verso
gli enti destinatari delle risorse necessarie alla loro
gestione. Occorre, dunque, trasferire sia la titolarità
delle entrate tributarie e patrimoniali connesse alle
funzioni, sia patrimonio, risorse strumentali e personale.
Per le città metropolitane il problema risulterà di minore
difficoltà. Infatti, il disegno di legge prevede che esse
subentrino, assorbano le precedenti province, succedendo
loro «a titolo universale». Sicché patrimonio, personale e
risorse strumentali delle province transiteranno senza
soluzione di continuità verso le città metropolitane, che
continueranno integralmente a gestire le funzioni
provinciali, aggiungendovi quelle ulteriori che il disegno
di legge considera come proprie e tipiche dei nuovi enti.
Per quanto concerne le province del resto del territorio, la
situazione è molto più complessa. Infatti, il disegno di
legge prevede che restino in capo a loro pochissime
funzioni, mentre tutte le altre passeranno non per
successione universale, bensì particolare, ai comuni o alle
unioni dei comuni, fermo restando che alcune regioni
potrebbero decidere di assumere direttamente alcune di esse.
Il disegno di legge non affronta la questione,
intricatissima, e rinvia la sua soluzione a un dpcm che
dovrebbe fissare i criteri generali per l'attribuzione a
comuni, unioni e regioni, delle risorse, nonché a
provvedimenti attuativi delle stesse province. Poiché, però,
regioni e comuni potranno delegare specifiche funzioni alle
province, potrebbe innescarsi anche un moto contrario:
saranno regioni e comuni a dover ritrasferire le risorse
puntualmente necessarie allo svolgimento delle funzioni.
Manca, per regolare tutto questo complessissimo reticolo, un
elemento fondamentale: la riforma della normativa sulla
finanza locale. Il ddl si limita a prenderne atto e prevede
che «fino alla riforma della finanza locale, le entrate
tributarie continuano ad essere riscosse dalla provincia».
Che, in sostanza, dovrebbe fare da riscossore e
redistributore delle risorse.
Il ddl dimentica, tuttavia, che gran parte delle entrate
provinciali discendono dal fondo sperimentale di sviluppo,
trasferito loro dallo stato. E non fornisce indicazioni su
come e chi lo gestirà in futuro. Nebbia anche sulle
conseguenze della riforma sul patto di stabilità. Anche in
questo caso, il ddl si limita a porre il problema, senza
risolverlo. Si prevede solo che fino a quando il patto verrà
rivisto, le città metropolitane e le nuove province sono
tenuti a conseguire gli obiettivi di finanza pubblica propri
delle “vecchie province”. Per le città metropolitane che
subentrano in universum ius può anche andare bene, ma
la previsione manca di prendere in considerazione gli
effetti sul patto e gli altri vincoli (si pensi alla spesa
del personale e alle assunzioni) ricadenti sui comuni o le
unioni di comuni
(articolo ItaliaOggi del 26.07.2013). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA - INCARICHI PROGETTUALI: Dl del Fare, percorso in salita.
Non convince lo stop ai tetti sugli stipendi ai manager.
Il provvedimento ottiene la fiducia della camera
ma è inondato da odg. Oggi seduta fiume.
Subissato di ordini del giorno (oltre 250, che hanno imposto
ieri la seduta notturna) e «lievitato» di oltre il 30%,
passando da 86 a 114 articoli, il cosiddetto decreto del
fare (69/2013) ottiene la fiducia dell'aula di Montecitorio.
Ma i nodi restano: contestati gli emendamenti sulle borse di
studio agli universitari meritevoli per introdurre un doppio
canale di finanziamento («ministeriale» e «regionale»),
sull'eliminazione del tetto di circa 300 mila euro ai
manager delle società pubbliche e sulla nomina di un
commissario per la spending review che, per tagliare la
spesa pubblica, percepirà un compenso di 950 mila euro.
Norme che, probabilmente, vista la contrarietà di parte
della maggioranza (oltre che di M5s, Sel e Lega), saranno
riviste dai senatori, così come, annuncia il viceministro
allo sviluppo economico Antonio Catricalà, i 20 milioni
«scippati» alla dotazione per la banda larga, e posti nel
finanziamento di radio e tv locali, saranno recuperati dal
governo nella prossima legge di stabilità.
Il testo, che a
causa dell'ostruzionismo delle opposizioni si avvia a una
votazione «a oltranza» nelle prossime ore (deputati
allertati in vista di una «seduta fiume»), interviene in
materia fiscale, facendo slittare il versamento della tassa
sulle transazioni finanziarie (Tobin tax) al 16 ottobre, e
rendendo poi lo spesometro facoltativo: dal 1° gennaio 2015,
infatti, i soggetti titolari di partita Iva potranno, per
scelta, inviare telematicamente e giornalmente alle Entrate
i «dati analitici delle fatture di acquisto e cessione di
beni e servizi», comprese le note di accredito ricevute o
emesse, oltre che l'ammontare dei «corrispettivi delle
operazioni effettuate e non soggette a fatturazione».
Novità rilevante per tutti i professionisti (iscritti, o
meno ad un ordine) l'ampliamento delle maglie del Fondo
centrale di garanzia per le piccole e medie imprese, grazie
al quale godranno delle medesime opportunità delle aziende
nell'ottenere i finanziamenti necessari; per le imprese,
inoltre, sì a 2,5 miliardi per il rinnovo dei macchinari
(fino a 2 milioni a società), nonché alla sperimentazione di
«zone a burocrazia zero», mentre in edilizia gli interventi
di ristrutturazione con modifiche della sagoma non saranno
più soggetti a permesso, bensì basterà la procedura
semplificata (Scia, Segnalazione certificata di inizio delle
attività).
Il wi-fi pubblico sarà realmente «free»: gli
esercizi commerciali che lo offrono gratis, non dovranno
identificare il cliente che si connette. Converrà pagare le
multe entro 5 giorni, perché si usufruirà di uno sconto del
30%, mentre il decreto concederà ad alcune regioni, Puglia e
Piemonte, Emilia e Lazio altri 280 milioni per saldare i
propri debiti sanitari. E i sindaci-deputati manterranno
(anche) lo scranno, giacché i primi cittadini di comuni fino
a 15 mila abitanti eletti in Parlamento potranno non essere
ritenuti incompatibili fino alle consultazioni
amministrative del 2015.
Contestazioni anche dal mondo produttivo: Ivan Malavasi,
presidente di Rete Imprese Italia s'aspettava «un
provvedimento che alleggerisse la burocrazia, i risultati
sono purtroppo antitetici. Chiedevamo l'abolizione della
responsabilità solidale negli appalti, e troviamo, invece»
chiude, altri adempimenti come il Durt, «un nuovo mostro»
(articolo ItaliaOggi del 24.07.2013). |
APPALTI: Solidarietà fiscale, ko parziale.
Benefici condizionati dal possesso
del durt.
Responsabilità solidale per le ritenute in fuori gioco, ma
solo con il possesso del Documento unico di regolarità
tributaria (Durt).
Questa è la scomoda novità introdotta nel
ddl di conversione del cosiddetto decreto del fare (dl
69/2013) sulla solidarietà fiscale nell'ambito dei contratti
di appalto.
Il provvedimento, innanzitutto, dispone che, in presenza di
un appalto, l'appaltatore risponde «in solido» per il
sub-appaltatore dell'omesso versamento delle ritenute
fiscali operate sui redditi di lavoro, nei limiti
dell'ammontare del corrispettivo dovuto.
Viene soppressa, invece, la parte della previgente
disciplina attraverso la quale lo stesso appaltatore si
metteva al riparo anche dalle sanzioni (da 5 mila a 200 mila
euro) se si faceva trovare in possesso della documentazione
che confermava l'avvenuto e regolare versamento delle dette
ritenute o, in alternativa, dell'asseverazione rilasciata da
soggetti abilitati (Caf, commercialisti o consulenti del
lavoro), che attestasse l'avvenuto versamento. In luogo di
questa possibilità, con il provvedimento in commento, viene
introdotta una nuova possibilità per liberarsi dalla
solidarietà passiva, consistente nell'ottenimento di un
Documento unico di regolarità tributaria (Durt); il
committente, prima di procedere al pagamento di quanto
dovuto per la prestazione, deve ottenere il detto documento
dall'appaltatore, pena l'applicazione delle sanzioni
indicate.
Il rilascio del documento di regolarità avverrà per via
digitale e certificata a cura dell'Agenzia delle entrate che
provvederà alla creazione di un portale ad hoc, utilizzando
anche i dati reperibili dai modelli Uniemens. Tutti coloro
che esercitano attività d'impresa e che «hanno interesse» a
farlo, potranno registrarsi in detto portale, comunicando
periodicamente i dati contabili e i documenti primari
relativi alle retribuzioni erogate, ai contributi versati e
alle imposte. Per i soggetti registrati nel portale
risulterà impossibile mantenere o optare per la liquidazione
Iva trimestrale, giacché le disposizioni introdotte in
commissione bilancio, con uno specifico emendamento,
dispongono che i soggetti registrati nel portale, a
prescindere dall'applicazione o meno della disciplina,
devono eseguire le liquidazioni Iva e i relativi versamenti
con cadenza mensile, ai sensi del richiamato comma 1, art.
1, dpr 100/1998. Peraltro, si ricorda che la disciplina in
commento non è più applicabile per l'Iva e che questa
richiesta sembra avere, quale unico scopo, quello di
obbligare i contribuenti a tenere in linea la contabilità,
implementando ulteriormente gli adempimenti posti a carico
delle imprese.
Con un provvedimento dell'Agenzia delle entrate, di concerto
con l'istituto previdenziale nazionale (Inps), da adottare
entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della
legge di conversione, saranno fissate le modalità per il
rilascio del documento di regolarità e nei due mesi
successivi il via libera all'applicazione della nuova
procedura
(articolo ItaliaOggi del 24.07.2013). |
APPALTI: Gli appalti vanno suddivisi in lotti.
Possibile l'anticipazione del 10% per gli appalti di lavori.
Più difficile fare grandi appalti e non suddividere in
lotti. Crescita dei fondi per la ristrutturazione delle
scuole. Due miliardi per lo sblocco dei cantieri soltanto
per le opere infrastrutturali strategiche. Più facile la
qualificazione delle imprese di costruzioni.
Sono alcune
delle novità introdotte a seguito degli
emendamenti
approvati al testo del disegno di legge di conversione del
dl n. 69/2013 (il cosiddetto decreto del fare), da oggi
all'esame dell'aula di Montecitorio.
Una prima novità introdotta dalle commissioni riguarda
l'anticipazione del prezzo, argomento sul quale anche il
ministro Maurizio Lupi, durante l'assemblea Ance, si era
impegnato pubblicamente. In realtà la norma approvata
prevede una mera facoltà per le amministrazioni, in deroga
ai vigenti divieti di anticipazione del prezzo. Non solo, ma
la facoltà è ammessa per le gare bandite dopo l'entrata in
vigore della legge di conversione del decreto 69 e fino a
fine dicembre 2014. E ancora: la possibilità di
anticipazione deve essere prevista e pubblicizzata nella
gara di appalto. Con il richiamo alle norme del regolamento
viene poi previsto che l'anticipazione è subordinata alla
costituzione di una garanzia fideiussoria bancaria o
assicurativa gradualmente svincolata nel corso dei lavori.
Un'altra norma introdotta ex novo in commissione è quella
sulla suddivisione in lotti degli appalti, tema di cui si
parla molto anche in sede comunitaria, nell'ambito della
revisione delle direttive europee, vedendo in esso uno
strumento a tutela delle piccole e medie imprese. Oggi la
disposizione del codice dei contratti stabilisce che al fine
di favorire l'accesso delle piccole e medie imprese, le
stazioni appaltanti devono, ove possibile ed economicamente
conveniente, suddividere gli appalti in lotti funzionali. La
norma approvata la scorsa settimana aggiunge l'obbligo per
le stazioni appaltanti di motivare, nella determina a
contrarre, l'eventuale mancata suddivisione in lotti. Della
suddivisione in lotti le stazioni appaltanti dovranno
inoltre tenere informato anche l'Osservatorio presso
l'autorità.
Sul fronte della qualificazione delle imprese di
costruzioni il testo delle commissioni prevede che, fino a
fine 2015, sarà possibile documentare i requisiti sulla
cifra d'affari globale in lavori, sulle attrezzature e
sull'organico con riguardo al decennio e non più al
quinquennio né ai migliori cinque anni del decennio. Per la
messa in sicurezza degli edifici scolastici (Inail stanzia
100 milioni per ognuno degli anni dal 2014 al 2016), è stata
inserita una posta di 3,5 milioni per ognuno dei citati anni
per «l'individuazione di un modello unico di rilevamento e
potenziamento della rete di monitoraggio e di prevenzione
del rischio sismico». Altri 150 milioni per il 2014 sono
destinati alla riqualificazione e messa in sicurezza delle
scuole statali per le quali sia stata rilevata la presenza
di amianto. I fondi dovranno però essere utilizzati entro il
28 febbraio del 2014, pena la revoca totale dei
finanziamenti.
Per il fondo sblocca-cantieri è stato chiarito che i due
miliardi disponibili saranno utilizzati solo per accelerare
la realizzazione di opere inserite nel programma di
infrastrutture strategiche della ex legge obiettivo
(443/2001); introdotto anche l'obbligo, per il ministro
delle infrastrutture, di relazione al parlamento ogni sei
mesi sull'utilizzazione dei fondi. Ammessi interventi per
l'adozione di misure antisismiche e per infrastrutture
annesse o funzionali alle reti telematiche NGN, o wi-fi
(articolo ItaliaOggi del 23.07.2013). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell'art. 15,
comma 2, d.lgs. n. 380 del 2001, la pronunzia di decadenza
del permesso a costruire ha carattere strettamente vincolato
all'accertamento del mancato inizio (e completamento) dei
lavori entro i termini stabiliti dalla norma stessa
(rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo
abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del
venir meno degli effetti del permesso a costruire per
l'inerzia del titolare a darvi attuazione, con la
precisazione che l'inizio dei lavori può ritenersi
sussistente solo allorquando le opere intraprese siano tali
da manifestare un'effettiva volontà da parte del
concessionario di realizzare il manufatto assentito, tale
non potendo considerarsi il semplice sbancamento del terreno
e la collocazione sullo stesso del materiale necessario per
la costruzione.
---------------
La controversia tra proprietari di fondi finitimi non
costituisce idonea causa di forza maggiore, ai fini
dell’utile aspirazione ad una proroga del conseguito
permesso di costruire.
---------------
La natura strettamente vincolata della misura decadenziale,
riconnessa alla sua consistenza puramente dichiarativa,
rende irrilevante la denunziata omissione della previa
partecipazione di avvio del procedimento, giusta il canone
antiformalistico scolpito all’art. 21-octies l. n. 241/1990.
- CONSIDERATO che, alla luce degli atti di causa e delle difese assunte
dalle parti, il ricorso si appalesa senz’altro infondato e
merita di essere, conseguentemente respinto, alla luce del
comune intendimento per cui, ai sensi dell'art. 15, comma 2, d.lgs. n. 380 del 2001, la pronunzia di decadenza del
permesso a costruire ha carattere strettamente vincolato
all'accertamento del mancato inizio (e completamento) dei
lavori entro i termini stabiliti dalla norma stessa
(rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo
abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del
venir meno degli effetti del permesso a costruire per
l'inerzia del titolare a darvi attuazione (Cons. Stato, sez.
III, 04.04.2013, n. 1870), con la precisazione che l'inizio dei lavori può ritenersi sussistente solo allorquando
le opere intraprese siano tali (come non verificatosi nella
specie, in cui se ebbe a dare mera e formale comunicazione)
da manifestare un'effettiva volontà da parte del
concessionario di realizzare il manufatto assentito, tale
non potendo considerarsi il semplice sbancamento del terreno
e la collocazione sullo stesso del materiale necessario per
la costruzione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15.04.2013,
n. 2027);
-
RITENUTO che la controversia tra proprietari di fondi
finitimi non costituisce idonea causa di forza maggiore, ai
fini dell’utile aspirazione ad una proroga del conseguito
permesso;
-
RITENUTO che la natura strettamente vincolata della misura
decadenziale, riconnessa alla sua consistenza puramente
dichiarativa, rende irrilevante la denunziata omissione
della previa partecipazione di avvio del procedimento,
giusta il canone antiformalistico scolpito all’art. 21-octies l. n. 241/1990;
-
CONSIDERATO che, per lo stesso ordine di ragioni, debbono
essere disattese (in disparte la disamina della contestata
ammissibilità in rito) le censure articolate per aggiunzione
avverso il sopravvenuto provvedimento di reiezione
dell’istanza di proroga (oltretutto correttamente motivato
sulla scorta della tardività della formulazione della
relativa istanza);
- CONSIDERATO, infine, che la ritenuta legittimità
dell’azione amministrativa rende carente dei relativi
presupposti la correlata istanza risarcitoria, che deve,
quindi, essere disattesa (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.07.2013 n. 1690 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di una ringhiera protettiva e di
una scala in ferro per consentire l’accesso ad un terrazzo
costituiscono interventi per i quali non è richiesto il
preventivo rilascio del permesso di costruire.
Infatti, tali opere seppure finalizzate a consentire
l’utilizzo del solaio di copertura di un immobile non
determinano una significativa trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio, ma si configurano piuttosto come
mere pertinenze, essendo preordinate ad un’oggettiva
esigenza dell’edificio principale, funzionalmente inserite
al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo valore di
mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non
consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a
servizio dell’immobile al quale accedono e, comunque, tale
da non comportare un aumento del carico urbanistico.
Preliminarmente, il Tribunale ritiene di poter prescindere
dalla richiesta, avanzata da parte resistente, di riunione
del presente giudizio agli altri, originati da ulteriori
ricorsi, avverso provvedimenti resi dal Comune di Ispani, in
relazione all’immobile cui afferisce la scala in
contestazione, e tanto perché il presente gravame può essere
definito autonomamente dagli altri, concernenti la
complessiva situazione dell’immobile di che trattasi.
Esso si presta, infatti, ad essere accolto, in virtù di
aspetti, riguardanti la natura stessa dell’opera di cui è
stata ingiunta, dal Comune, la demolizione (“installazione
di una scala in ferro che si diparte dal piano di campagna
per raggiungere il terrazzo posto al primo piano del
fabbricato di proprietà della sig.ra Sansone”), quale
risalta anche dall’esame della documentazione fotografica
allegata al ricorso e la quale, per giurisprudenza pacifica
(in disparte, quindi, ogni altra considerazione circa
l’eventuale abusività dell’immobile, al cui servizio la
medesima scala è destinata) non necessitava all’epoca, per
il suo carattere pertinenziale, e non necessiterebbe del
resto ancor oggi, di alcuna concessione edilizia (o permesso
di costruire), onde illegittima si palesa l’adozione, da
parte dell’Amministrazione Comunale di Ispani, della
sanzione demolitoria.
E valga il vero: è costante in giurisprudenza la massima,
secondo la quale: “La realizzazione di una ringhiera
protettiva e di una scala in ferro per consentire l’accesso
ad un terrazzo costituiscono interventi per i quali non è
richiesto il preventivo rilascio del permesso di costruire;
infatti, tali opere seppure finalizzate a consentire
l’utilizzo del solaio di copertura di un immobile non
determinano una significativa trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio, ma si configurano piuttosto come
mere pertinenze, essendo preordinate ad un’oggettiva
esigenza dell’edificio principale, funzionalmente inserite
al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo valore di
mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non
consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a
servizio dell’immobile al quale accedono e, comunque, tale
da non comportare un aumento del carico urbanistico”
(TAR Liguria–Genova, Sez. I, 11.07.2011, n. 1088; conformi:
TAR Lazio–Latina, Sez. I, 07.05.2010, n. 740; TAR
Campania–Napoli, Sez. VII, 27.05.2009, n. 2945).
Il ricorso va dunque accolto, in aderenza a tale
orientamento diffuso in giurisprudenza, ed in accoglimento
della corrispondente censura, laddove la richiesta di
risarcimento del danno ingiusto, evidentemente subito, per
asserzione dei ricorrenti, dall’adozione dell’ordinanza
gravata, va respinta anzitutto (al di là d’ogni altra
considerazione) per la sua assoluta genericità, tale da non
consentirne, neppure in astratto, una positiva delibazione (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.07.2013 n. 1680 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZA LAVORO: Appaltatore e subappaltatore obbligati al piano sicurezza.
In caso contrario tutte le imprese
sono responsabili per gli incidenti.
I VINCOLI/
In caso di distacco il lavoratore deve ricevere una
formazione adeguata al rischio tipico che dovrà fronteggiare.
Sia l'appaltatore sia il subappaltatore sono tenuti alla
presentazione del Piano operativo sicurezza. In caso
contrario, tutti gli imprenditori possono essere considerati
responsabili dell'incidente verificatosi.
Lo precisa la
Corte di Cassazione con la
sentenza
22.07.2013 n. 31304 della IV Sez. penale depositata ieri.
La pronuncia chiarisce
innanzitutto che la responsabilità in carico al committente
va valutata con attenzione per evitare che possano venire
richieste forme di controllo eccessivamente pressanti,
continue e capillari sull'organizzazione dei lavori.
Quanto però alla ripartizione dei doveri tra imprese
esecutrici, anche nella forma del subappalto, la Cassazione
ricorda che non possono essere accettate forme di
"scaricamento" della irresponsabilità. Infatti, tra gli
obblighi che l'articolo 9 del decreto legislativo n. 194 del
1996 mette in capo ai datori di lavoro delle imprese
esecutrici, quindi di tutte coloro che eseguono anche una
sola parte dei lavori come le subappaltatrici, c'è la
redazione del piano di sicurezza che corrisponde al piano di
valutazione rischi. Il datore di lavoro deve cioè
individuare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei
lavoratori e individuare le misure di prevenzione e
protezione a tutela dei lavoratori occupati nell'esecuzione.
La presenza poi di più imprese esecutrici non può avere come
conseguenza il trasferimento o l'accentramento di
quest'obbligo a carico di una sola delle aziende. Anzi,
sottolinea la Corte, ciascuna di queste è tenuta a redigere
un proprio Pos. Non può allora non essere sanzionato il
comportamento dell'imprenditore che non ha redatto il piano
e poi si è difeso scaricando la responsabilità sia sul
committente sia sulle altre imprese maggiormente coinvolte
nell'esecuzione dei lavori.
E sempre in materia di sicurezza lavoro, la sentenza della
Cassazione n. 31300, sempre depositata ieri, avverte che il
datore di lavoro, prima di effettuare il distacco di un
proprio dipendente presso un altra azienda, deve procedere
alla verifica. In caso di inadempimento e di incidente
verificatosi al lavoratore sarà chiamato a risponderne
insieme al collocatario per il mancato rispetto della
disciplina antinfortunistica.
Pur non dovendo vigilare nel dettaglio sulle condizioni di
sicurezza nell'esecuzione della prestazione, l'imprenditore
che provvede al distacco deve avere una consapevolezza della
realtà in cui il suo dipendente è chiamato a lavorare e,
semmai, provvedere a una formazione specifica e idonea a
metterlo al riparo da eventi traumatici. Una formazione del
dipendente "in missione" che deve riguardare i rischi più
tipici della lavorazione che sarà chiamato a svolgere
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.07.2013). |
LAVORI PUBBLICI: L'imprenditore agricolo va in gara d'appalto.
Anche l'imprenditore agricolo che opera nella forma della
società semplice può partecipare alle pubbliche gare,
nonostante l'articolo 34 del codice dei contratti limiti la
possibilità alle sole società commerciali.
Lo ha affermato
il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 17.07.2013 n. 3891 che chiude una vicenda
iniziata nel novembre 2004, con la decisione dell'Autorità
per la vigilanza sui lavori pubblici (comunicato n. 42/2004)
di negare in via di principio la possibilità per le Soa di
rilasciare l'attestazione per la partecipazione alle
pubbliche gare in favore delle società semplici.
Ciò in
quanto, a suo dire, il dpr 34 del 2000 (il quale disciplina
i presupposti e le condizioni per conseguire la
qualificazione ai fini della partecipazione alle pubbliche
gare) deve essere interpretato nel senso di riferirsi
soltanto alle imprese che possono essere idonei concorrenti
per le gare d'appalto, e questo non sarebbe stato il caso
delle società semplici, che non possono svolgere attività
commerciali.
La questione era stata sollevata davanti al
giudice amministrativo da una società, imprenditore agricolo
in base all'articolo 2135 del codice civile costituito nella
forma della società semplice, che si era vista revocare
l'attestazione per la partecipazione alle gare. Il Consiglio
di stato, vista la complessità della questione, ha disposto
il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia (art. 267
del Tfue) al fine di ottenere indicazioni circa la corretta
interpretazione delle disposizioni del diritto comunitario.
L'ordinanza di rimessione, in particolare, aveva osservato
che nessuna disposizione del diritto nazionale sembrava
ammettere le società semplici, alla partecipazione alle
pubbliche gare, ma i giudici comunitari hanno invece
ritenuto che, in base alla normativa comunitaria, si debba
pervenire a conclusioni affatto diverse (ordinanza
C-502/2011). Ciò in quanto «Il diritto dell'Unione, art. 6
della direttiva 93/37/Cee del Consiglio, del 14.06.1993,
che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti
pubblici di lavori, come modificata dalla direttiva
2001/78/Ce della Commissione, del 13.09.2001, osta ad
una normativa nazionale, [_] che vieta a una società quale
una società semplice, qualificabile come “imprenditore” ai
sensi della direttiva 93/37, di partecipare alle gare
d'appalto esclusivamente a causa della sua forma giuridica».
La sentenza della Corte di giustizia europea del 04.10.2012 vincola il giudice nazionale a disporre la
disapplicazione della normativa primaria nazionale in quanto
riconosciuta in contrasto con la pertinente normativa
comunitaria. Dal che ne consegue, per un verso,
l'illegittimità del comunicato dell'Autorità n. 42/2004, per
la parte in cui richiama i tradizionali argomenti di diritto
interno ostativi alla richiamata partecipazione e per altro
verso, l'illegittimità del provvedimento di revoca
dell'attestazione Soa a suo tempo rilasciata
all'imprenditore agricolo
(articolo ItaliaOggi del 24.07.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti verdi, gestione rischiosa.
Sfalci triturabili dopo il trasporto. Ma con
l'autorizzazione. Cassazione restrittiva sul trattamento dei
residui provenienti da parchi e giardini.
Triturare sfalci di parchi e giardini in un luogo diverso da
quello di potatura per conferirli più agevolmente in
discarica costituisce attività di gestione di rifiuti.
Attività che, se non autorizzata, può costare in base al
«Codice ambientale» l'arresto fino ad un anno e l'ammenda
fino a 26 mila euro.
A ricordare l'attuale penale rilevanza della condotta
descritta è la Corte di Cassazione, III Sez. penale, che con
sentenza
08.07.2013 n. 28909 ha precisato come la triturazione di
tali residui in vista dello stoccaggio definitivo sia
infatti, in base al dlgs 152/2006, già parte della più
complessa fase di smaltimento di rifiuti.
Rifiuti vegetali da aree verdi. La fattispecie oggetto della
pronuncia verte sulla condotta degli addetti di una
cooperativa di manutenzione del verde comunale coincidente
con la riduzione volumetrica delle potature effettuata in un
luogo di deposito intermedio tra quello della loro
produzione e quello della discarica di destinazione. Nel
confermare, stante l'assenza della prevista autorizzazione,
il reato rilevato dal giudice di merito di gestione illecita
di rifiuti ex articolo 256 del Codice ambientale, la Corte
ha altresì ratificato l'inquadramento dei residui in parola
nell'articolo 184 del dlgs 152/2006, a mente del quale sono
considerati rifiuti urbani «i rifiuti vegetali provenienti
da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali», e
ciò secondo un criterio fondato sull'origine che (come si
vedrà in prosieguo) è già in passato stato messo in
discussione dallo stesso Legislatore e promette di esserlo
di nuovo.
Verde pubblico e infrastrutture. La Cassazione ha inoltre
escluso che la fattispecie potesse essere ricondotta sotto
la disciplina di favore prevista dall'articolo 230 del dlgs
152/2006 per i rifiuti provenienti da manutenzione di
infrastrutture, disciplina che consente di spostare i
residui dal luogo di produzione a quello di primo stoccaggio
«di verifica» senza che ciò costituisca attività di gestione
dei rifiuti.
Per la Corte la «fictio iuris» che considera come «deposito
temporaneo» (ossia un raggruppamento dei residui nel luogo
di produzione prima della loro raccolta, effettuabile senza
autorizzazione) quello che sarebbe giuridicamente già un
«deposito preliminare» (ossia uno stoccaggio effettuato dopo
il trasporto, effettuabile solo con autorizzazione) non è
applicabile al caso, mancando nello stoccaggio effettuato
dalla cooperativa una condizione indefettibile prevista dal
citato articolo 230: quella della finalità di «verifica»
della presenza di eventuali residui riutilizzabili senza
alcun trattamento, come (avverte di giudice) conferma la
circostanza che gli operatori procedevano direttamente alla
loro trasformazione tramite triturazione.
In questa come in
sue precedenti pronunce (si veda la sentenza 33866/2007),
vale la pena sottolinearlo, la Corte ha escluso
l'applicabilità della citata disciplina di favore su un
piano strettamente empirico, senza chiarire se in astratto
il verde comunale sia inquadrabile tra le infrastrutture
cittadine o meno.
Residui vegetali nel Codice ambientale. Sulla gestione dei
residui vegetali il dlgs 152/2006 non reca una disciplina
univoca. Mentre i residui verdi provenienti da giardini e
parchi sono, come accennato, considerati dall'articolo 184
rifiuti urbani (con tutti gli obblighi formali e tecnici che
ne derivano), in base al successivo articolo 185 dello
stesso decreto legislativo sono invece esclusi dalla
disciplina dei rifiuti «paglia, sfalci e potature, nonché
altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso
utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la
produzione di energia da tale biomassa mediante processi o
metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo
la salute umana».
Una disparità di trattamento, questa,
confermata dal ministero dell'ambiente con la (storica) nota
datata 18.03.2011 con la quale si sottolineava come, a
parità di residui, il regime eccezionale valga solo per
quelli che rispondono ai requisiti di provenienza e di
utilizzo sanciti dal dlgs 152/2006. Una disparità di
trattamento, ancora, della quale lo stesso legislatore non
appare però, come ricordato, essere pienamente convinto:
l'originario regime eccezionale riservato agli scarti verdi
da agricoltura era stato dalla legge 129/2010 esteso a
quelli provenienti da aree verdi, per poi essere nuovamente
ristretto ai primi dal successivo dlgs 205/2010.
Un nuovo tentativo di omologazione delle discipline, dopo
quelli andati a vuoto nel corso della precedente
Legislatura, pare essere ora tornato in pista veicolato dal
ddl n. S121 dall'8 maggio all'esame del Senato. Ma, fino ad
ordine contrario, ad oggi le uniche alternative alla
discarica per i residui verdi da giardini e parchi
continuano ad essere l'autoproduzione di compost (permesso
dall'articolo 183, dlgs 152/2006) o la creazione di biomassa
(legittimata dal dlgs 28/2011 sulla promozione di energia da
fonti rinnovabili)
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Impugnazione del permesso più facile per il confinante.
Consiglio
di Stato. Autorizzazioni alla costruzione.
Nella valutazione della legittimità del permesso a
costruire, devono venire in considerazione le proprietà
contermini. Solo il diretto confinante della proprietà
interessata dall'intervento edilizio può contestare il
rilascio del permesso a costruire. Non anche il "confinante
del confinante".
Con questo principio, il Consiglio di Stato
-IV Sez.,
sentenza
01.07.2013 n. 3543- ha affrontato la
delicata questione della cosiddetta vicinitas. A questo
proposito, va detto che anche recentemente –Consiglio di
Stato, quarta sezione, sentenza n. 2974/2013– l'eventuale
contestazione della concessione edilizia o permesso a
costruire può essere fatta valere da chi ha una stabile
situazione di collegamento con il terreno oggetto
dell'intervento. Il che supera ogni esigenza di indagine
diretta a stabilire se i lavori oggetto del permesso
comportino un effettivo pregiudizio alla proprietà vicina.
Il Consiglio di Stato ha ora affermato che il "confinante
del confinante" in quanto tale non è di per sé soggetto
titolare di una posizione sufficiente a giustificare
l'impugnazione. Se così fosse, il proprietario confinante
con edificio a sua volta confinante con quello oggetto di un
intervento edilizio, si verrebbe a trovare nella posizione
di "sostituto" processuale. Ma ciò comporterebbe la
violazione dell'articolo 181 del Codice di procedura civile,
secondo il quale nessuno può far valere in giudizio in nome
proprio un diritto altrui se non nei casi espressamente
previsti dalla legge.
I principi in materia di
legittimazione all'impugnazione di permesso di costruire
(sul punto Consiglio di Stato, quinta sezione, n. 2757/2013;
sesta sezione, n. 3750/2012), portano ad affermare che è
necessaria e sufficiente, come posizione legittimante, la vicinitas. Anche se la cosiddetta
vicinitas, secondo la
giurisprudenza del Consiglio di Stato (quinta sezione, sent.
n. 2234/2012), deve essere intesa in senso ampio. Ciò che
rileva è, infatti, non solo e non tanto la vicinanza
geografica del ricorrente, ma più specificamente la
possibilità di risentire degli effetti sfavorevoli di un
certa situazione.
Deve ritenersi, dunque, sufficiente una
plausibile prospettazione da parte dell'interessato non
potendosi esigere una prova effettiva di un danno attuale.
Tali principi sono poi trasferibili anche nei rapporti di
vicinanza tra gli stessi enti territoriali. Se un Comune è
confinante a quello direttamente interessato dalle possibili
ripercussioni derivanti dalla realizzazione di un impianto
quella situazione rientra nel concetto di vicinitas.
In conclusione, si può dire che, alla luce della
giurisprudenza, le conseguenze della vicinitas, quale
rapporto di vicinanza territoriale, possono essere queste:
- condizione di legittimità per il rilascio del permesso a
costruire;
- idoneità a dare legittimazione alle richieste, mediante
ricorso, di tutela giurisdizionale, per esempio al Tar;
- il rapporto di vicinanza di "secondo grado" ("vicino del
vicino") non legittima in quanto tale il ricorso, contro il
rilasciato permesso a costruire, ma impone l'esigenza di
spiegare quali siano le specifiche situazioni compromesse
dalla realizzanda iniziativa non direttamente confinante
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.07.2013). |
COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALI:
Sì al sindaco Presidente della Commissione
edilizia nei piccoli comuni.
È
consentito per i comuni al di sotto
dei 5.000 abitanti.
Con la decisione in rassegna, la III sezione, conformandosi
a quanto già ritenuto dalla VI sezione, ha concluso
nel senso che il sindaco possa legittimamente presiedere
la Commissione edilizia integrata, ove ricorra specifica
previsione in tal senso posta nel Regolamento edilizio
comunale e che trova il supporto normativo anche
nel nominato articolo 53, comma 23, della legge n.
388/2000, indirizzato proprio ai comuni con popolazione
inferiore a 5.000 abitanti, e nella stessa legge
costituzionale
n. 3/2001, recante la riforma del titolo V della
Costituzione, che attribuisce potestà regolamentare ai
comuni circa la disciplina della organizzazione e delle
funzioni proprie.
È proprio la complessità della normativa, in materia
urbanistica ed edilizia nonché in quella di impianti
radioelettrici,
a consentire a quei comuni, nell’ambito dell’autonomia
statutaria e regolamentare loro attribuita,
l’adozione di disposizioni che deroghino ai principi
generali
della separazione di cui al Tuel (Dlgs n. 267/2000).
L’esercizio di tale facoltà è stata riconosciuta legittima
anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, e in tal
senso si richiama la sentenza della IV sezione n. 1070/2009
(Consiglio di Stato, sez. III,
sentenza
26.06.2013 n. 3490 - commento tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n.
7-8/2013 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Contratti.
Sì a clausole sospensive.
Il compenso del tecnico può essere vincolato.
Per la Cassazione la clausola che condiziona il compenso di
professionisti, ingegneri e architetti, al reperimento di
finanziamenti da destinare alla realizzazione di un'opera
pubblica non è affetta da nullità.
Per la Suprema corte le parti di un rapporto contrattuale
possono prevedere, nell'esercizio dell'autonomia privata,
che l'efficacia di un'obbligazione giuridica resti
condizionata, in senso sospensivo o risolutivo,
all'avverarsi di un evento futuro e incerto (articoli 1322-
1353 del Codice civile).
Con la
sentenza
24.06.2013 n. 15786, la Corte di Cassazione -Sez.
II civile-
interviene a difesa del primato della fonte contrattuale;
pertanto il compenso spettante al professionista, ancorché
elemento naturale del contratto di prestazione d'opera
intellettuale, sarebbe liberamente determinabile dalle
parti, salvi i casi di indisponibilità in base a tariffe.
Sul tema (e giungendo alle stesse conclusioni) si era in
precedenza espressa la stessa Corte, a sezioni unite, con la
sentenza 18450/2005, con cui veniva dichiarata valida la
clausola sospensiva ai sensi della quale il pagamento del
compenso ad un ingegnere da parte di un ente pubblico veniva
condizionato alla concessione di un finanziamento per la
realizzazione del l'opera da progettare.
Nella normativa concernente le professioni di ingegnere ed
architetto manca una disposizione espressa diretta a
sanzionare con la nullità eventuali clausole in deroga ai
minimi tariffari, pertanto la tariffa rappresenta una fonte
sussidiaria e suppletiva, alla quale si può ricorrere ai
sensi dell'articolo 2233 del Codice civile solo in assenza
di pattuizioni al riguardo.
Il principio di inderogabilità della tariffa è infatti
diretto a evitare che il professionista possa essere indotto
a prestare la propria opera a condizioni lesive della
dignità professionale, ma non può tradursi in norma
imperativa idonea a rendere invalida qualunque patto in
deroga, allorché questa sia stata attentamente valutata
dalle parti nell'ambito di una libera ponderazione dei
rispettivi interessi.
In presenza di condizione sospensiva, il contratto non può
pertanto considerarsi a titolo gratuito; il negozio d'opera
professionale resta oneroso ma in esso è introdotto per
volontà dei contraenti un elemento ulteriore, cioè un evento
che condiziona il pagamento del compenso al finanziamento
dell'opera, in assenza del quale la prestazione non può
essere eseguita.
La sentenza conferma anche per il settore pubblico la
validità di formule contrattuali poste a tutela degli
interessi collettivi, purché inserite in contratti
liberamente sottoscritti dalle parti
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.07.2013).
---------------
Il compenso per prestazioni
professionali va determinato in base alla tariffa ed
adeguato all'importanza dell'opera solo nel caso in cui esso
non sia stato liberamente pattuito, in quanto l'art. 2233
cod. civ. pone una garanzia di carattere preferenziale tra i
vari criteri di determinazione del compenso, attribuendo
rilevanza in primo luogo alla convenzione che sia
intervenuta fra le parti e poi, solo in mancanza di
quest'ultima, e in ordine successivo, alle tariffe e agli
usi e, infine, alla determinazione del giudice, mentre non
operano i criteri di cui all'art. 36, primo comma, Cost.,
applicabili solo ai rapporti di lavoro subordinato.
La violazione dei precetti normativi che impongono
l'inderogabilità dei minimi tariffari (quale, per gli
ingegneri ed architetti, quello contenuto nella legge
05.05.1976, n. 340) non importa la nullità, ex art. 1418,
primo comma, cod. civ., del patto in deroga, in quanto
trattasi di precetti non riferibili ad un interesse
generale, cioè dell'intera collettività, ma solo ad un
interesse della categoria professionale
(massima tratta da www.neldiritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il muro di contenimento non è una costruzione.
La CORTE D'APPELLO di Venezia, Sez. II civile, nella
sentenza 23.04.2013 n. 969,
chiarisce che il muro di contenimento e la sua (eventuale)
sopraelevazione non costituiscono una costruzione atteso che
il concetto di costruzione non si identifica con quella di
edificio poiché “si estende a qualsiasi manufatto non
completamente interrato avente i caratteri della solidità,
stabilità ed immobilizzazione al suolo, anche mediante
appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un corpo
di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente, e ciò
indipendentemente dal livello di posa ed elevazione
dell’opera stessa (Cass. Sentenza n. 15972 del 27/07/2011).
In tema di distanze legali, il muro di contenimento di una
scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi
“costruzione” agli effetti della disciplina di cui all’art.
873 cod. civ. per la parte che adempie alla sua specifica
funzione, e, quindi, dalle fondamenta al livello del fondo
superiore, qualunque sia l’altezza della parte naturale o
della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone lo
smottamento (Sentenza n. 14 del 10/01/2006).
La parte del muro che si innalza oltre il piano del fondo
sovrastante, invece, in quanto priva della funzione di
conservazione dello stato dei luoghi, è soggetta alla
disciplina giuridica propria delle sue oggettive
caratteristiche (Sentenza n. 145 del 10/01/2006);
rappresentano, invece, certamente costruzioni nel senso
sopra specificato, il terrapieno ed il relativo muro di
contenimento elevati ad opera dell’uomo per creare un
dislivello artificiale o per accentuare il naturale
dislivello esistente (Cass. Sentenza n. 1345 del 10/01/2006;
Cass. Sentenza n. 1217 del 22/01/2010)”.
Di conseguenza: “ritiene questa Corte che per la parte in
cui il muro costituisce contenimento della parete naturale o
scarpata lo stesso non è qualificabile come costruzione,
mentre la parte in sopraelevazione rappresenta “muro di
cinta” ex art. 878 c.c. che non costituisce costruzione ai
fini delle distanze legali perché di altezza inferiore a tre
metri (la sopraelevazione è di circa 83 cm.)”.
La sentenza in commento, per la parte che ivi interessa,
riforma quanto sancito dal TRIBUNALE di Vicenza, Sez. II
civile, con la
sentenza 21.11.2008 n.
1834, che aveva considerato come costruzione la parte
del muro di contenimento costruita in sopraelevazione: “tale
distanza nella fattispecie non risulta osservata, come con
divisibilmente affermato dal consulente tecnico d’ufficio,
posto che il c.d. muro di contenimento, per le illustrate
caratteristiche costruttive, costituisce, quanto meno per la
parte superiore, una vera e propria costruzione.
Dal punto di vista edilizio e civilistico, per integrare il
concetto normativo di costruzione, come più volte affermato
dalla Cassazione, vengono in rilievo tutti gli elementi
costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione,
aventi i caratteri della stabilità e dell’immobilizzazione,
salvo che non si tratti di sporti ed oggetti di modeste
dimensioni con funzioni meramente decorativa e di
rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabili.
Anche la migliore dottrina include nella nozione di
“costruzione” non solo l’opera che abbia le caratteristiche
di un edificio o di altra fabbrica in muratura, ma anche
qualsiasi altra opera edilizia che presenti carattere di
solidità, stabilità e di immobilizzazione rispetto al suolo,
ancorché manchi di propria individualità ed autonomia in
quanto costituente un semplice accessorio del fabbricato.
Per quanto più specificamente concerne la problematica del
muro c.d. di contenimento, la giurisprudenza di legittimità
afferma che “in tema di distanze legali, il muro di
contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non
può considerarsi “costruzione” agli effetti della disciplina
di cui all’art. 873 c.c. per la parte che adempie alla sua
specifica funzione, e, quindi, dalle fondamenta al livello
del fondo superiore, qualunque sia l’altezza della parete
naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce,
impedendone lo smottamento; la parte di muro che si innalza
oltre il piano del fondo sovrastante, invece, in quanto
priva della funzione di conservazione dello stato dei
luoghi, è soggetta alla disciplina giuridica propria delle
sue oggettive caratteristiche di costruzione in senso
tecnico giuridico, ed alla medesima disciplina devono
ritenersi soggetti, perché costruzioni nel senso sopra
specificato, il terrapieno ed il relativo muro di
contenimento elevati dall’opera dell’uomo per creare un
dislivello artificiale o per accentuare il naturale
dislivello esistente” (Cassazione civ., sez. II, 10.01.2006
n. 145; in senso sostanzialmente conforme Cassazione n.
8144/2005)” (tratto da e link a http://venetoius.it). |
AGGIORNAMENTO AL 25.07.2013 |
ã |
UTILITA' |
APPALTI:
MODIFICHE ALLA RESPONSABILITA’ SOLIDALE FISCALE - NUOVO
FACSIMILE DI DICHIARAZIONE SOSTITUTIVA (link a
www.ancebrescia.it). |
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI:
FAQ AUSA - Pubblicate domande e risposte al nuovo
servizio Anagrafe Unica delle Stazioni Appaltanti (AUSA).
A seguito della messa a disposizione dei nuovi servizi per
il rilascio e la verifica dell'Attestato di iscrizione
all'Anagrafe Unica delle Stazioni Appaltanti e per la
ricerca delle informazioni sulle Stazioni Appaltanti
iscritte, ai sensi del comunicato del 16.05.2013 del
Presidente dell’Autorità, è stato pubblicato un
set di FAQ (aggiornate al 22.07.2013) a supporto
dell’operatività degli Utenti (link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
TRIBUTI:
L. Leombruni,
La TARES e il riordino
dei prelievi sui servizi di smaltimento dei rifiuti
(tratto da www.ipsoa.it - Immobili & proprietà n. 7/2013). |
CONDOMINIO:
A. Celeste,
Alzata irragionevolmente
l’asticella per … il superamento delle barriere
architettoniche (tratto da www.ipsoa.it - Immobili
& proprietà n. 7/2013). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: D.Lgs. n. 33 del 2013 - attuazione della
trasparenza
(circolare
19.07.2013 n. 2/2013).
---------------
Le p.a. di cristallo. Segnalazioni anche dalle imprese.
La circolare del ministro D'Alia sulla trasparenza.
Non solo i cittadini, ma anche le imprese, quali veri e
propri arbitri del buon andamento dell'agire pubblico, sono
legittimate a segnalare eventuali inadempimenti della
pubblica amministrazione in relazione agli obblighi di
trasparenza dell'azione amministrativa imposti dal decreto
legislativo n. 33/2013.
È quanto si può ricavare dalla
lettura della circolare n. 2 diffusa ieri dal ministero
della pubblica amministrazione guidato da Gianpiero D'Alia
in relazione ai primi indirizzi operativi in attuazione
degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle
informazione della p.a., previsti dal dlgs n. 33/2013.
Obiettivo, l'attivazione di un'apposita sezione, denominata
«Amministrazione trasparente», sulla home-page
istituzionale, dove pubblicare tutti i dati e le
informazioni, inclusi i curricula dei componenti degli
organi di indirizzo politico e la loro situazione
patrimoniale. Dati che devono essere aggiornati
periodicamente e mantenuti online per un periodo non
inferiore al quinquennio.
Un tassello fondamentale viene
dato dall'istituto dell'accesso civico, previsto
dall'articolo 5 del citato dlgs. Chiunque, si legge nella
nota in esame, può vigilare attraverso il sito web, non solo
sul corretto adempimento formale della pubblicazione, ma
soprattutto sulle modalità di utilizzo delle risorse
pubbliche. L'esercizio democratico del controllo diretto,
pertanto, determina una maggiore responsabilità di chi siede
nelle «stanze dei bottoni», soprattutto nelle aree a rischio
altamente corruttivo (su tutte l'iter di assegnazione di
appalti di opere pubbliche). Il diritto alla segnalazione di
eventuali inadempimenti, può essere esercitato come detto
sia dai semplici cittadini che dalle imprese, in quanto
queste ultime possono essere interessate ad una serie di
informazioni diverse da quelle del comune cittadino, ma
utili all'esercizio della propria attività. Su tutte, i
tempi medi di pagamento dei fornitori e i procedimenti di
gara.
A differenza del diritto di accesso ex lege n. 241/1990,
l'accesso civico non protegge interessi giuridici
particolari, riguarda tutte le informazioni e i dati resi
obbligatori per la p.a. dal dlgs n. 33/2013 ed è totalmente
gratuito (così escludendo l'evenienza del pagamento di
un'imposta in bollo). In caso di silenzio da parte del
responsabile della trasparenza, la norma prevede che sia la
figura apicale della stessa struttura pubblica che
provvederà a fornire al richiedente la risposta richiesta,
provvedendo, al contempo, all'immediata attivazione del
procedimento disciplinare nei confronti del funzionario «silente».
Inoltre, l'attuazione della trasparenza deve essere
contemperata con il rispetto alla riservatezza: le p.a.
dovranno assicurarsi che siano tutelati i dati personali al
fine di evitarne un'indebita utilizzazione
(articolo ItaliaOggi del 20.07.2013). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
LAVORI PUBBLICI: G.U.
19.07.2013 n. 168 "Avvio del Sistema informatico di
monitoraggio delle opere incompiute (SIMOI). Attuazione del
decreto 13.03.2013, n. 42"
(Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti,
comunicato). |
TRIBUTI: G.U.
19.07.2013 n. 168 "Testo
del decreto-legge 21.05.2013, n. 54, coordinato con la legge
di conversione 18.07.2013, n. 85, recante: «Interventi
urgenti in tema di sospensione dell’imposta municipale
propria, di rifinanziamento di ammortizzatori sociali in
deroga, di proroga in materia di lavoro a tempo determinato
presso le pubbliche amministrazioni e di eliminazione degli
stipendi dei parlamentari membri del Governo»". |
APPALTI: G.U.
17.07.2013 n. 166 "Saggio degli interessi da applicare a
favore del creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle
transazioni commerciali" (Ministero dell'Economia e
delle Finanza,
comunicato).
---------------
Ritardi nei pagamenti nelle transazioni commerciali: tasso
01/07-31/12/2013
Il saggio d'interesse per ritardati pagamenti nelle
transazioni commerciali per il semestre
01.07.2013-31.12.2013 è determinato
all'8,50%.
E' quanto risulta dal comunicato del Ministero dell'Economia
e delle Finanze pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 166
del 17.07.2013 che ha fissato il saggio di cui all'art. 5,
comma 2, del D.lgs. n. 231/2002 (link a www.altalex.com). |
APPALTI - EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 16.07.2013 n. 165 "Rilascio del documento unico di
regolarità contributiva anche in presenza di una
certificazione che attesti la sussistenza e l’importo di
crediti certi, liquidi ed esigibili vantati nei confronti
delle pubbliche amministrazioni di importo almeno pari agli
oneri contributivi accertati e non ancora versati da parte
di un medesimo soggetto" (Ministero dell'Economia e
delle Finanze,
decreto 13.03.2013).
---------------
Il DURC può essere rilasciato anche a imprese non in regola
ma con crediti nei confronti delle PA.
Sulla
Gazzetta Ufficiale n. 165 del 16.07.2013 è stato pubblicato
il Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze
13.03.2013 recante “Rilascio del documento unico di
regolarità contributiva anche in presenza di una
certificazione che attesti la sussistenza e l'importo di
crediti certi, liquidi ed esigibili vantati nei confronti
delle pubbliche amministrazioni di importo almeno pari agli
oneri contributivi accertati e non ancora versati da parte
di un medesimo soggetto”.
Grazie a questo Decreto, diventa possibile compensare i
debiti contributivi delle imprese con i crediti vantati nei
confronti della Pubblica Amministrazione.
In particolare, le imprese in possesso di una certificazione
che attesti la sussistenza e l’importo di crediti certi,
liquidi ed esigibili vantati nei confronti delle pubbliche
amministrazioni di importo almeno pari agli oneri
contributivi accertati e non ancora versati, possono
compensare con il rilascio del DURC.
Gli enti tenuti al rilascio del DURC, su richiesta del
soggetto titolare dei crediti certificati che non abbia
provveduto al versamento dei contributi previdenziali,
assistenziali ed assicurativi nei termini previsti, emettono
il documento con l’indicazione che il rilascio è avvenuto ai
sensi del comma 5 dell’art. 13-bis del D.L. n. 52/2012
(convertito dalla Legge 94/2012), precisando l’importo del
relativo debito contributivo e gli estremi della
certificazione esibita per il rilascio del DURC medesimo.
Tutte le specifiche nel testo pubblicato in Gazzetta
(commento tratto da www.acca.it). |
LAVORI PUBBLICI: G.U.
15.07.2013 n. 164 "Modalità per l’istituzione e
l’aggiornamento degli elenchi dei fornitori, prestatori di
servizi ed esecutori non soggetti a tentativo di
infiltrazione mafiosa, di cui all’articolo 1, comma 52,
della legge 06.11.2012, n. 190" (D.P.C.M.
18.04.2013).
---------------
Arriva la white list degli appalti.
L'iscrizione è volontaria ma semplifica le procedure.
In G.U. il dpcm che istituisce l'elenco in vista dell'Expo e
della ricostruzione in Abruzzo.
Expo 2015 e ricostruzione in Abruzzo al riparo da
infiltrazioni mafiose. Sarà su base volontaria, e non
obbligatoria per le imprese, l'iscrizione alla white list
dei prestatori di servizi ed esecutori di lavori immuni da
contaminazioni criminali. Ma essere iscritti all'elenco
velocizzerà le procedure perché l'impresa che ne fa parte
sarà esonerata per tutto il periodo di efficacia dello
stesso (un anno) dal produrre la documentazione comprovante
lo status di azienda «mafia free».
Il dpcm (datato 18.04.2013) che fa ufficialmente partire l'elenco è stato
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 164 del 15.07.2013. Anche se per la definitiva entrata in vigore bisognerà
attendere Ferragosto (30 giorni dalla pubblicazione in
G.U.). Il provvedimento disegna una procedura molto rapida
per l'iscrizione che potrà essere chiesta dal titolare
dell'impresa o dal suo legale rappresentante anche per via
telematica indicando i settori di attività. Sarà la
prefettura competente per territorio a rilasciare il
nullaosta all'iscrizione dopo aver interrogato la Banca dati
nazionale unica della documentazione antimafia.
In caso di
esito positivo la liberatoria antimafia sarà rilasciata
immediatamente. Qualora invece risulti che l'impresa non è
censita in Banca dati o qualora gli accertamenti antimafia
siano più vecchi di un anno, la prefettura effettuerà le
necessarie verifiche e, se accerta la mancanza dei
requisiti, procederà al diniego dandone comunicazione
all'interessato. In ogni caso la prefettura dovrà esprimersi
entro 90 giorni dalla ricezione dell'istanza. Un mese prima
che scada l'iscrizione, le imprese dovranno comunicare
l'interesse a permanere in elenco anche per settori diversi
da quelli per cui sono iscritte.
Le prefetture potranno
effettuare in qualsiasi momento controlli a campione per
verificare la pulizia delle imprese che fanno parte della white list.
L'elenco delle imprese iscritte sarà pubblicato sul sito
istituzionale di ciascuna prefettura nella sezione
«Amministrazione trasparente». Dovrà inoltre essere
chiaramente indicato l'indirizzo di posta elettronica
certificata a cui possono essere inoltrate le richieste di
iscrizione
(articolo ItaliaOggi del 16.07.2013). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie avvisi e e concorsi n. 28 del 10.07.2013, "Avvio
del percorso di revisione del piano territoriale regionale" (deliberazione
G.R. 04.07.2013 n. 367). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI - EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: INPS – Procedura “regolarità contributiva
on-line” (ANCE Bergamo,
circolare 19.07.2013 n. 179). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
In tema di “Pubblicazione degli atti di concessione di
sovvenzioni, contributi, sussidi e attribuzione di vantaggi
economici a persone fisiche ed enti pubblici e privati
(artt. 26 e 27, d.lgs. n. 33/2013)” (CIVIT,
delibera 15.07.2013 n. 59).
---------------
P.a., trasparenza a 360°.
Esteso l'obbligo di pubblicare i dati sui sussidi. Una
delibera della Civit chiarisce la portata soggettiva del
dlgs 33/2013.
Tutte le pubbliche amministrazioni senza esclusione, nonché
gli enti pubblici e le società partecipate debbono
pubblicare i dati concernenti gli atti di concessione di
sovvenzioni, contributi, sussidi e attribuzione di vantaggi
economici a persone fisiche ed enti pubblici e privati.
La Civit (Commissione indipendente per la valutazione, la
trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche),
con la
delibera 59/2013 di chiarimento della portata delle
disposizioni contenute negli articoli 26 e 27 del dlgs
33/2013, interviene per fornire indicazioni su uno dei punti
più controversi del decreto sulla trasparenza, confermando
l'estensione più ampia possibile dell'ambito soggettivo di
applicazione e chiarendo, d'altro canto, che negli atti
concernenti le sovvenzioni e i contributi non sono da
ricomprendere incarichi e compensi per professionisti e
collaboratori.
Ambito soggettivo. La delibera, risolvendo dubbi mossi da
enti locali in merito all'applicabilità dei citati articoli
26 e 27 a enti come le aziende speciali, ricorda che il dlgs
33/2013 si riferisce a tutte le pubbliche amministrazioni
menzionate dall'articolo 1, comma 2, del dlgs 165/2001.
Dunque, sono tenute agli adempimenti imposti dal decreto non
solo tutte le amministrazioni dello stato, comprese le
scuole, ma anche le aziende e amministrazioni dello stato a
ordinamento autonomo, tutti gli enti locali, le comunità
montane, loro consorzi e associazioni, istituzioni
universitarie, istituti autonomi case popolari, camere di
commercio e loro associazioni. Si aggiungono all'elenco
tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e
locali, amministrazioni, aziende ed enti del Servizio
sanitario nazionale.
Non sfuggono gli enti pubblici nazionali, tra i quali sono
da comprendere le aziende speciali dei comuni, ritenute da
assimilare agli enti pubblici economici.
Agli obblighi di trasparenza su concessioni di sovvenzioni e
contributi debbono anche obbedire le società partecipate
dalle pubbliche amministrazioni, comprese quelle da esse
controllate ai sensi dell'art. 2359 del codice civile,
limitatamente, ai sensi dell'articolo 11, comma 2, del dlgs
33/2013 all'attività di pubblico interesse da esse svolta.
Importo. La Civit chiarisce che gli obblighi di pubblicità
scattano per sovvenzioni di importo superiore ai mille euro
nel corso dell'anno. Tale importo può essere raggiunto anche
mediante più atti ed erogazioni: in questo caso occorrerà
pubblicare tutta la serie degli atti. Lo stesso anche nel
caso di sovvenzioni con atti pluriennali.
Oggetto delle pubblicazioni. Ai sensi dell'articolo 26,
comma 2, del decreto trasparenza, sottolinea la Civit,
occorre pubblicare i provvedimenti finalizzati a un
sostegno, rivolti a soggetti pubblici o privati, dai quali
scaturiscano vantaggi economici diretti o indiretti:
erogazione materiale di risorse finanziarie, oppure
agevolazioni come sgravi o risparmi. Solo questi sono gli
atti da pubblicare nella sezione Amministrazione
trasparente. Non debbono, invece, essere inseriti i dati
concernenti i compensi dovuti dalle amministrazioni, dagli
enti e dalle società a imprese e professionisti privati a
titolo di corrispettivo per lo svolgimento di prestazioni
professionali.
L'articolo 27 del dlgs 33/2013 ha tratto in inganno molti.
Essendo il frutto di una cattiva trasposizione dell'articolo
18 del dl 83/2012, che mischiava la fattispecie dei
contributi con quella degli incarichi a professionisti e
degli appalti, è rimasto un inopportuno riferimento ai
curriculum, certamente inutili per il rilascio di
sovvenzioni e contributi. La Civit conferma che il dlgs
33/2013 ha scisso le modalità di pubblicazione dei
contributi da quelle degli incarichi professionali e,
ancora, dagli appalti
(articolo ItaliaOggi del 18.07.2013). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Oggetto: informativa sull'obbligo di stipula di polizza
professionale (Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 12.07.2013 n. 250). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: In
tema di applicabilità del d. lgs. n. 39/2013 ai Comuni con
popolazione inferiore a 15.000 abitanti o forme associative
tra Comuni della medesima regione aventi la medesima
popolazione (CIVIT,
delibera
11.07.2013 n. 57).
---------------
Incarichi.
Nei Comuni medio-piccoli porte chiuse ai condannati.
Le regole sull'incompatibilità e inconferibilità degli
incarichi fanno capolino anche nei Comuni con meno di 15mila
abitanti, anche se non in formula piena.
A spiegarlo è la Civit, nella delibera 57/2013.
Per individuare il pacchetto di norme chiamate a regolare
gli incarichi nei Comuni medio-piccoli, la commissione segue
un principio semplice: si applica tutto ciò che non è
espressamente limitato dal decreto legislativo 39/2013 alle
amministrazioni che superano i 15mila abitanti. Per questa
ragione, il decreto anticorruzione chiude le porte agli
incarichi dirigenziali a chi abbia subito una condanna,
anche in primo grado, per reati contro la Pubblica
amministrazione (articolo 3, del decreto).
Non solo, poiché nemmeno l'articolo 4 cita espressamente
limiti dimensionali, anche negli enti sotto i 15mila
abitanti diventano incompatibili con incarichi dirigenziali
quanti, negli ultimi due anni, abbiano ricoperto cariche in
enti di diritto privato finanziati dall'ente o anche abbiano
semplicemente svolto attività professionali retribuite
dall'amministrazione: in altre parole, nemmeno nei Comuni
fino a 15mila abitanti il consulente potrà ricevere un
incarico da dirigente.
La regola vale anche in senso contrario (articolo 9 del
decreto), e impedisce a chi ha un ruolo che comporta «poteri
di vigilanza o controllo sulle attività svolte dagli enti di
diritto privato regolati o finanziati dall'amministrazione»
di assumere incarichi in questi enti
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.07.2013). |
URBANISTICA:
Avviato il percorso di revisione del Piano Territoriale
Regionale.
Regione Lombardia ha dato avvio al percorso di revisione del
Piano Territoriale Regionale (PTR) con l'approvazione della
d.g.r. n. 367 del 04.07.2013, pubblicata sul BURL, Serie
Avvisi e Concorsi, n. 28 del 10.07.2013.
Tutti i cittadini e i soggetti interessati possono far
pervenire alla Giunta regionale proposte utili alla
revisione del PTR, entro il termine di novanta giorni a
partire dal 10.07.2013 e secondo le modalità indicate
nell'avviso (allegato B) (10.07.2013 - link a
www.territorio.regione.lombardia.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Linee guida per l’aggiornamento del Programma triennale
per la trasparenza e l’integrità 2014-2016 (CIVIT,
delibera 04.07.2013 n. 50).
Si leggano anche i seguenti allegati:
►
allegato 1 - ►
allegato 1.1 - ►
allegato 2 - ►
allegato 3 - ►
allegato 4 - ►
allegato 5
---------------
P.a., trasparenza in naftalina.
L'approvazione dei piani triennali slitta al 31/01/2014.
La Civit fa slittare l'adempimento in attesa del programma
nazionale anticorruzione.
Slitta al 31.01.2014 il termine entro il quale le
pubbliche amministrazioni dovranno approvare il piano
triennale per la trasparenza.
Lo ha stabilito la Civit, con
la
delibera 04.07.2013 n. 50, «Linee guida per
l'aggiornamento del Programma triennale per la trasparenza e
l'integrità 2014-2016», pubblicata sul sito della
Commissione.
Termini.
L'allegato 5 alla delibera contiene un calendario degli
adempimenti, vincolante per le amministrazioni statali. Il
termine più rilevante è, come rilevato, quello del 31.01.2014. In realtà, il dlgs 33/2013 non fissa un
termine entro il quale adottare il piano triennale per la
trasparenza. Ciò ha fatto ritenere che le amministrazioni
dovessero provvedere al più presto, comunque certamente
entro il 2013.
C'era, però, il problema di coordinare il
piano della trasparenza con quello anti corruzione, del
quale è un elemento accessorio indispensabile. Poiché il
programma nazionale anticorruzione non è stato ancora
varato, la Civit ha ritenuto di evitare alle amministrazioni
di dover fare i due piani in momenti distinti,
costringendoli a complesse opere di aggiornamento e
coordinamento, rinviando tutto al 31.01.2014, così da
consentire anche la redazione dei due documenti in modo da
coordinarli anche con il piano della performance, o, negli
enti locali, il piano esecutivo di gestione.
Controlli. La Civit negli allegati 3 e 4 mette a
disposizione per le amministrazioni statali anche una sorta
di check list per il controllo degli adempimenti. L'allegato
3 riassume alcuni contenuti del Programma triennale per la
trasparenza; la versione finale della scheda sarà rilasciata
successivamente dalla Civit sul Portale della trasparenza a
seguito di sperimentazioni con alcuni enti.
La scheda
allegato 3 andrà compilata entro il 28.02.2014
esclusivamente dai Responsabili della trasparenza delle
amministrazioni statali e degli enti pubblici non economici
nazionali. L'allegato 4 è una scheda simmetrica a quella
dell'allegato 3, con la quale gli organismi indipendenti per
la valutazione verificheranno entro il 31/12/2013 lo stato
di avanzamento del programma triennale.
Contenuti essenziali. Utilissimo è l'indice essenziale del
piano triennale per la trasparenza, suggerito dalla Civit.
Vi deve essere un'introduzione contenente informazioni
riguardanti l'organizzazione e le funzioni
dell'amministrazione. Il primo capitolo dovrà indicare le
principali novità del piano, rispetto a quello precedente.
Il secondo, illustrerà il procedimento di elaborazione e
adozione, indicando gli obiettivi strategici in materia di
trasparenza posti dagli organi di vertice negli atti di
indirizzo e i collegamenti con il piano della performance o
con analoghi strumenti di programmazione previsti da
normative di settore, indicando anche uffici e dirigenti
coinvolti. La terza sezione illustra iniziative e strumenti
di comunicazione per la diffusione dei contenuti del
programma e dei dati pubblicati (comprese le «giornate della
trasparenza»). La quarta indica i dirigenti responsabili del
conferimento dei dati nei portali e lo stato di attuazione
del programma, con le misure organizzative volte ad
assicurare la regolarità e la tempestività dei flussi
informativi ed i sistemi di controllo.
Enti locali immediatamente obbligati. La delibera chiarisce
che nelle more dell'adozione delle intese previste dalla
legge 190/2012, gli enti locali sono comunque tenuti a dare
attuazione alle disposizioni del dlgs 33/2013
(articolo ItaliaOggi del 16.07.2013). |
CORTE DEI CONTI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Scriminante politica pure se l'incarico si dà a interim.
La «scriminante politica» si applica al sindaco che affida
incarichi ad interim, anche qualora il dirigente nominato
agisca in violazione del principio di onnicomprensività
della retribuzione, generando un danno erariale.
Tale
principio è stato recentemente ribadito dalla Corte Conti
Puglia, nella
sentenza 26.06.2013 n. 1014.
I magistrati contabili
hanno esaminato il caso di un dirigente comunale a cui è
stato affidato anche l'incarico ad interim di comandante
della Polizia municipale. La Procura ha rilevato vari atti
ritenuti illegittimi, tra delibere di giunta e decreti
sindacali, volti alla indebita autoliquidazione di compensi
da parte del dirigente.
Non è stata accolta la tesi
difensiva secondo cui il conferimento dell'incarico ad
interim avrebbe comportato un risparmio per l'ente, perché
in contrasto con il principio di onnicomprensività della
retribuzione dei dipendenti pubblici. «La norma è
chiarissima e non ammette dubbi interpretativi», ha scritto
la Corte dei conti in riferimento all'art. 24 del dlgs
165/2001, «e la retribuzione dirigenziale, stabilita
dalla contrattazione collettiva, è solo quella e deve
remunerare tutti gli incarichi eventualmente assegnati al
dirigente».
Diversa, invece, la posizione dei magistrati contabili sulle
contestazioni mosse dalla Procura per le varie ordinanze
sottoscritte dal Sindaco, verso il quale è stata pienamente
riconosciuta la cosiddetta «scriminante politica». Con
l'introduzione della speciale esimente, secondo la Corte dei
conti il legislatore si è preoccupato «di tutelare
l'organo politico da possibili errori della dirigenza che
eventualmente gli sottoponesse l'adozione di decisioni di
“competenza dirigenziale».
La norma introdotta dall'art. 3 della legge 639/1996 prevede
come «nel caso di atti che rientrano nella competenza
degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non
si estende ai titolari degli organi politici che in buona
fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato e
consentito l'esecuzione». Un principio, secondo i
magistrati contabili, da considerarsi il necessario
completamento della distinzione tra atti di direzione
politica e atti di gestione
(articolo ItaliaOggi del 20.07.2013). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incremento orario dei rapporti di lavoro a part-time e
facoltà assunzionali.
La Corte dei Conti,
Sez. controllo regionale Campania, con il
parere 13.06.2013 n. 225, conferma
l'orientamento secondo il quale l'incremento orario dei
rapporti di lavoro instaurati a tempo parziale -non
costituendo trasformazione in rapporto a tempo pieno- non
deve essere considerato quale nuova assunzione ai sensi
dell'art. 76, comma 7, del d.l. 112/2008, convertito in
legge 133/2008 (turn-over al 40% della spesa corrispondente
alle cessazioni intervenute nell'anno precedente).
In ogni
caso, occorre garantire la riduzione della spesa complessiva
di personale e riscontrare l'incidenza massima consentita di
questa sulla spesa corrente, oltre al rispetto ai vincoli
del patto di stabilità (per gli enti soggetti).
Quanto detto vale a condizione che l'operazione non si
configuri come elusiva delle norme vigenti e, quindi, non
concreti deformazioni dei caratteri tipologici del rapporto
di lavoro part-time
(tratto da www.publika.it). |
SEGRETARI COMUNALI: La
figura del Segretario è prevista come obbligatoria
all'interno della Provincia e, pertanto, il divieto di
assunzione non può riguardare detta figura.
Questa Sezione ha già avuto modo di precisare, in merito
all’assunzione di categorie protette, che le dette norme
sono in realtà perfettamente compatibili e vanno
correttamente interpretate considerando che all’interno
della spesa del personale, ai fini del rispetto del limite
debbono essere computate anche quelle relative al segretario
provinciale secondo l’enunciato principio della
onnicomprensività delle Sezioni riunite della Corte dei
Conti.
È allora chiaro che una corretta programmazione del
fabbisogno di personale, così come disposto dall’art. 91 del
TUEL, consente ed anzi impone di adottare tutte le misure
per poter adempiere agli obblighi derivanti anche dall’art.
97 del TUEL.
---------------
Nel merito, si rende necessario al riguardo,
preliminarmente, sottolineare che la figura del segretario
provinciale, come quella del segretario comunale, è
disciplinata dall’art. 97, del TUEL in base al quale “Il
comune e la provincia hanno un segretario titolare
dipendente dall'Agenzia autonoma per la gestione dell'albo
dei segretari comunali e provinciali, di cui all'articolo
102 e iscritto all'albo di cui all'articolo 98”.
Ne risulta che la figura del Segretario è
prevista come obbligatoria all'interno della Provincia.
Pertanto,
come peraltro già affermato dalla Giurisprudenza di questa
Corte dei conti che questa Sezione regionale ritiene di
condividere, il divieto di assunzione non
può riguardare detta figura
(Sez. Puglia n. 75/2013).
D’altra parte la nomina del segretario provinciale non è
costitutiva di un rapporto di lavoro dipendente, che
intercorre invece con lo Stato attraverso il Ministero
dell'Interno, bensì instaura con la Provincia un rapporto di
servizio.
Ciò premesso la Sezione non ritiene di condividere l’assunto
del Presidente della Provincia circa l’antinomia normativa
dell’art. 97, comma 1, del TUEL che sancisce l’obbligo di
nomina e il divieto disposto dal comma 7 dell’art. 76 del
D.L. n. 112/2008 in base al quale è fatto divieto agli enti
nei quali l'incidenza delle spese di personale è pari o
superiore al 50% delle spese correnti di procedere ad
assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con
qualsivoglia tipologia contrattuale.
Questa Sezione ha già avuto modo di
precisare con il
parere n. 136/2012, richiamato dalla Provincia nella
richiesta di parere, in merito all’assunzione di categorie
protette, che si appalesa fuorviante
considerare inconciliabili le norme di cui si chiede in
questa sede di operare un arduo contemperamento atteso che
le stesse sono in realtà perfettamente compatibili e vanno
correttamente interpretate considerando che all’interno
della spesa del personale, ai fini del rispetto del limite
debbono essere computate anche quelle relative al segretario
provinciale secondo l’enunciato principio della
onnicomprensività delle Sezioni riunite della Corte dei
Conti
(deliberazione n. 27/CONTR711).
Non può inoltre esservi dubbio sul fatto che la lamentata
riduzione dei trasferimenti statali non possa essere
ragionevolmente presa in considerazione ai fini del
superamento del limite che, peraltro, nel tempo è stato
incrementato fino al 50% a fronte di uno speculare principio
di riduzione della spesa del personale introdotto fin dal
2006.
È allora chiaro che una corretta
programmazione del fabbisogno di personale, così come
disposto dall’art. 91 del TUEL, consente ed anzi impone di
adottare tutte le misure per poter adempiere agli obblighi
derivanti anche dall’art. 97 del TUEL.
La Sezione pertanto ritiene, come in analoga fattispecie di
cui al parere n. 136/2012, più volte richiamato, “che non
possa essere fatto oggetto di richiesta di parere il
contemperamento di norme astrattamente non incompatibili ma
che, in via di fatto, risultino tali unicamente in
conseguenza della violazione, a monte, dell’obbligo di
programmare correttamente l’andamento delle spese attraverso
gli strumenti sopra richiamati” (Corte dei Conti, Sez.
controllo Molise,
parere 05.06.2013 n.
20). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Modalità di ricorso agli strumenti offerti dal MEPa-Consip -
l’obbligo di ricorrere agli strumenti di approvvigionamento
va mitigato ogni qual volta il ricorso all’esterno persegue
la ratio di contenimento della spesa pubblica.
---------------
Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla
Sezione, con nota prot. n. 5548/1.13.9 del 25.03.2013, una
richiesta di parere formulata dal Sindaco del Comune di
Chiesina Uzzanese contenente una serie di quesiti in
materia di acquisto di prodotti e servizi.
In particolare chiede:
1. se sia possibile per l’ente rientrare nel concetto di
amministrazione dello Stato di cui all’art. 1, comma 6 del
d.l. n. 95/2012, convertito dalla L. n. 135/2012, come
modificato dall’art. 1, comma 153, della L. n. 288/2012, e,
pertanto, stipulare direttamente contratti con fornitori non
inseriti fra quelli presenti su Consip qualora gli stessi
vengano contratti a prezzi più bassi da quelli derivanti dal
rispetto dei parametri di qualità e di prezzo messi a
disposizione da Consip spa;
in caso di risposta negativa:
2. se sia sempre obbligatorio per l’ente utilizzare gli
strumenti offerti da Consip spa o dalle centrali di
committenza ovvero sia possibile per l’ente, nel caso in cui
l’ordinativo minimo richiesto da Consip sia superiore alle
necessità, procedere a procedura fuori da tali canali;
3. se sia possibile per l’ente, dopo aver individuato il
fornitore su Consip o nelle centrali di committenza,
procedere direttamente con lo stesso per l’adattamento
dell’offerta fuori del mercato elettronico;
4. se sia possibile ricorre a fornitore esterno alle
centrali di committenza o a Consip che proponga un prezzo
più basso a parità di caratteristiche quali-quantitative;
5. se sia possibile evitare il ricorso al MEPA e alle
centrali uniche di committenza nel caso di acquisti di beni
o servizi siano di importo inferiore a 40.000 euro.
...
Nel merito, l’art. 1, comma 1, del d.l. n. 95/2012,
convertito dalla L. n. 135/2012, come modificato dall’art.
1, comma 153, della L. 288/2012 (con decorrenza dal
01.01.2013) recita: “i contratti stipulati in violazione
dell'articolo 26, comma 3, della legge 23.12.1999, n. 488 ed
i contratti stipulati in violazione degli obblighi di
approvvigionarsi attraverso gli strumenti di acquisto messi
a disposizione da Consip S.p.A. sono nulli, costituiscono
illecito disciplinare e sono causa di responsabilità
amministrativa. Ai fini della determinazione del danno
erariale si tiene anche conto della differenza tra il
prezzo, ove indicato, dei detti strumenti di acquisto e
quello indicato nel contratto. Le centrali di acquisto
regionali, pur tenendo conto dei parametri di qualità e di
prezzo degli strumenti di acquisto messi a disposizione da
Consip S.p.A., non sono soggette all'applicazione
dell'articolo 26, comma 3, della legge 23.12.1999, n. 488.
La disposizione del primo periodo del presente comma non si
applica alle Amministrazioni dello Stato quando il contratto
sia stato stipulato ad un prezzo più basso di quello
derivante dal rispetto dei parametri di qualità e di prezzo
degli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip
S.p.A., ed a condizione che tra l'amministrazione
interessata e l'impresa non siano insorte contestazioni
sulla esecuzione di eventuali contratti stipulati in
precedenza”.
La norma nella sua prima parte fa rinvio all’art. 26, comma
3, della L. 488/1999, che prescrive la possibilità per le
amministrazioni pubbliche di ricorrere alternativamente alle
convenzioni stipulate dal Ministero dell’Economia e delle
Finanze ovvero di utilizzarne “i parametri di
prezzo-qualità, come limiti massimi, per l'acquisto di beni
e servizi comparabili oggetto delle stesse, anche
utilizzando procedure telematiche”, prescrivendo la
responsabilità amministrativa in caso di stipulazione di un
contratto in violazione della norma suddetta.
Dall’analisi della formulazione dell’art. 1, comma 1, del
d.l. n. 95/2012, che sancisce la responsabilità
amministrativa in caso di alternativa violazione dell’art.
26 (appena citato) o dell’obbligo di rivolgersi a Consip,
vien da sé che non esiste un obbligo generalizzato di
rivolgersi alla Consip per qualunque tipo di acquisto o di
prestazione, ma la prescrizione va letta alla luce delle
altre disposizioni normative sulla materia.
Difatti il comma 1 dell’art. 1 del d.l. 95/2012 citato va
combinato con il comma 7 del medesimo articolo che prescrive
che “Fermo restando quanto previsto all'articolo 1, commi
449 e 450, della legge 27.12.2006, n. 296, e all'articolo 2,
comma 574, della legge 24.12.2007, n. 244, quale misura di
coordinamento della finanza pubblica, le amministrazioni
pubbliche e le società inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione, come individuate
dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi
dell'articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196, a totale
partecipazione pubblica diretta o indiretta, relativamente
alle seguenti categorie merceologiche: energia elettrica,
gas, carburanti rete e carburanti extra-rete, combustibili
per riscaldamento, telefonia fissa e telefonia mobile, sono
tenute ad approvvigionarsi attraverso le convenzioni o gli
accordi quadro messi a disposizione da Consip S.p.A. e dalle
centrali di committenza regionali di riferimento (…)”.
Dal combinato dei due commi si deduce che l’obbligo di
rivolgersi alla Consip spa per l’acquisto di beni e servizi,
da parte delle pubbliche amministrazioni, tra le quali gli
enti locali, sussiste solo in riferimento alle diverse
tipologie merceologiche elencate nel comma 7, di conseguenza
nelle restanti ipotesi vige il residuo sistema di
approvvigionamento dettato dalla legge che, come richiamato
dal comma 7 sopra riportato, trova il suo fondamento, oltre
che nell’art. 26 della l. n. 488/1999, nei commi 449 e 450
dell’articolo 1 della L. 296/2006 (legge finanziaria per il
2007).
In particolare il comma 449 prescrive che “(…) tutte le
amministrazioni statali centrali e periferiche, ivi compresi
gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado, le
istituzioni educative e le istituzioni universitarie, sono
tenute ad approvvigionarsi utilizzando le
convenzioni-quadro. Le restanti amministrazioni pubbliche di
cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.
165, e successive modificazioni, possono ricorrere alle
convenzioni di cui al presente comma e al comma 456 del
presente articolo, ovvero ne utilizzano i parametri di
prezzo-qualità come limiti massimi per la stipulazione dei
contratti.”
Il comma 450 prescrive: “Dal 01.07.2007, le
amministrazioni statali centrali e periferiche, ad
esclusione degli istituti e delle scuole di ogni ordine e
grado, delle istituzioni educative e delle istituzioni
universitarie, per gli acquisti di beni e servizi al di
sotto della soglia di rilievo comunitario, sono tenute a
fare ricorso al mercato elettronico della pubblica
amministrazione di cui all'articolo 328, comma 1, del
regolamento di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 05.10.2010, n. 207. Fermi restando gli obblighi e
le facoltà previsti al comma 449 del presente articolo, le
altre amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del
decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, per gli acquisti di
beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo
comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato
elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri
mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo
328 ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla
centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle
relative procedure.”
Tanto premesso, in risposta al primo quesito, un
comune non può considerarsi rientrante nel novero delle “Amministrazioni
dello Stato” ritenute esenti dall’applicazione del primo
periodo della norma di cui all’art. 1, comma 1, del d.l.
95/2012 nelle ipotesi in cui “il contratto sia stato
stipulato ad un prezzo più basso di quello derivante dal
rispetto dei parametri di qualità e di prezzo degli
strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip S.p.A.”.
A sostegno di tale assunto si pone il significato letterale
della norma che nello stabilire che “La disposizione del
primo periodo del presente comma non si applica alle
Amministrazioni dello Stato” destina la possibilità di
deroga alle amministrazioni rientranti nello Stato, secondo
l’accezione di cui all’art. 114 della Costituzione, laddove
se il legislatore avesse voluto destinare la facoltà
derogatoria a tutte le amministrazioni lo avrebbe
chiaramente indicato con una formulazione differente, come
variamente riportato nelle altre disposizioni normative in
materia.
La risposta ai successivi quesiti (2, 3, 4 e 5),
investe la possibilità di derogare agli obblighi descritti
nei confronti di Consip e MEPA in presenza di fattispecie
specifiche illustrate dall’ente richiedente.
In merito ai quesiti 2 e 3, che per semplicità
vengono trattati cumulativamente, il collegio non può che
sottolineare la cogenza delle norme riportate (nelle ipotesi
e con le modalità in cui si applicano al comune richiedente)
ed evidenziare che le possibili deroghe -dettate da
casistiche specifiche– alle procedure dettate in tema di
approvvigionamento di beni e servizi non possono essere
oggetto di trattazione ed interpretazione nell’ambito
dell’attività consultiva delle Sezioni regionali della Corte
dei conti, ma troverebbero miglior collocazione nelle
sedi a ciò destinate (sede legislativa e, soprattutto,
convenzionale).
In merito al quesito numero 4, il collegio sottolinea
che la questione trova risposta analizzando la ratio
sottesa alle norme sopra riportate in cui i principi di
economicità e di efficienza perseguiti dalle norme sopra
riportate si rinvengono in diversi punti. In particolare
l’art. 1, comma 7 del d.l. n. 95/2012, convertito dalla l.
135/2012, nel fare salvo “quanto previsto all'articolo 1,
commi 449 e 450, della legge 27.12.2006, n. 296” lascia
inalterata la norma di cui al comma 449 ivi citato che
espressamente prevede che “Le restanti amministrazioni
pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, possono
ricorrere alle convenzioni di cui al presente comma e al
comma 456 del presente articolo, ovvero ne utilizzano i
parametri di prezzo-qualità come limiti massimi per la
stipulazione dei contratti”; in tal senso l’obbligo
di ricorrere agli strumenti di approvvigionamento descritti
va mitigato ogni qual volta il ricorso all’esterno persegue
la ratio di contenimento della spesa pubblica
contenuta nella norma.
Del resto la tabella stilata da Consip-MEF “Tabella
Obbligo-Facoltà dal 01.01.2013 - Strumenti del Programma di
razionalizzazione degli acquisti” è chiara nello
stabilire, in riferimento alle amministrazioni territoriali
non regionali, la possibilità di operare “acquisti
autonomi a corrispettivi inferiori a quelli delle
convenzioni Consip e della CAT di riferimento” anche in
riferimento alle tipologie merceologiche di cui al comma 7
più volte citato.
In risposta al quinto quesito in riferimento al
ricorso al sistema MePA, la tabella stilata da Consip-MEF
“Tabella Obbligo-Facoltà dal 01.01.2013 - Strumenti del
Programma di razionalizzazione degli acquisti” è chiara
nello stabilire, in riferimento alle amministrazioni
territoriali non regionali, sancisce l’obbligo, sottosoglia
comunitaria, di “ricorso al MePA o altri mercati
elettronici (proprio o della CAT di riferimento) o sistema
telematico della CAT di riferimento ovvero ricorso alle
convenzioni Consip; in caso di assenza, facoltà di utilizzo
degli AQ Consip e dello SDAPA (con obbligo di rispetto del
benchmark Consip)”, nonché, in riferimento alle
tipologie di cui al comma 7 più volte citato, prescrive la
possibilità di “acquisti autonomi a corrispettivi
inferiori a quelli delle convenzioni Consip e della CAT di
riferimento”.
Nelle sopra esposte considerazioni è il parere della Corte
dei conti –Sezione regionale di controllo per la Toscana- in
relazione alla richiesta formulata dal Consiglio delle
autonomie con nota prot. n. 5548/1.13.9 del 25.03.2013 (Corte
dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 30.05.2013
n. 151). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO
IMPIEGO:
Responsabilità da parte degli amministratori per il
riconoscimento dei debiti fuori bilancio.
Il riconoscimento del debito non può inglobare l’utile
di impresa.
E’ fondata la pretesa di parte attrice, che ha fondatamente
rilevato la sussistenza di un danno erariale da ricollegare
all’illegittimo riconoscimento di un importo da qualificare
come “utile di impresa”, privo di qualsiasi utilità per
l’Ente locale.
Invero in fattispecie relativa a “acquisizione di beni o
servizi a favore di un ente locale -illegittima sotto il
profilo sostanziale (nella fattispecie, perché promanante da
soggetto non legittimato) e sotto il profilo contabile
(nella fattispecie, perché mancante di atto di impegno
contabile)– può essere ipotizzato un “ingiusto” danno
erariale nel caso di riconoscimento del debito oltre i
limiti del consentito (nel caso di specie oltre l’effettivo
arricchimento dell’ente) o in mancanza dei presupposti di
riconoscibilità del debito stesso, atteso che la
ricognizione di debito della pubblica amministrazione non ha
valore di autonoma fonte di obbligazione per l’ente verso il
terzo, e non sana vizi originari del rapporto obbligatorio
(ad esempio: la mancanza di delibera di conferimento
dell’incarico, stipulazione di contratto senza forma
scritta) ma solo la mancanza di atto di impegno, per cui, in
mancanza di regolare contratto, il terzo non ha azione
contrattuale verso l’ente.
---------------
Costituisce
senz’altro danno ingiusto il pagamento -a titolo di debito
fuori bilancio-:
a) delle somme richieste per prestazioni…non collegate
all’esercizio di funzioni o servizi di competenza dell’ente;
b) delle somme cui non corrisponda un “arricchimento”
dell’ente, nel senso precisato dall’art. 2041 cod. civ.,
ovvero di somme rispetto alle quali non vi sia diritto
all’indennizzo del privato, in particolare:
aa) somme cui non corrisponda un beneficio per l’ente stesso, ad
esempio le spese eccedenti il valore della prestazione resa
(ovvero la differenza tra quanto effettivamente pagato e la
somma congrua rispetto al prezzo di mercato, o al prezzo
imposto da atti normativi, della prestazione) o le spese
legali sostenute dal privato per il pagamento delle
prestazioni rese;
bb) somme cui non corrisponde una diminuzione patrimoniale del
privato (danno emergente), ma un mancato utile del privato
stesso (lucro cessante) ad esempio interessi e
rivalutazione, utile di impresa.
---------------
Nel merito,
deve essere innanzitutto valutata la pretesa attorea con
riferimento al danno derivante dal riconoscimento di danno
in violazione di legge (per la quota eccedente gli importi
riconoscibili).
In relazione a tale pretesa, il Giudicante si riporta
integralmente alla propria giurisprudenza (cfr. sent. n.
30/2009): “Nell’ordinamento degli enti locali, le
obbligazioni contratte per acquisto di beni o servizi senza
atto di impegno contabile registrato sul competente capitolo
di bilancio ovvero senza attestazione di copertura
finanziaria non vincolano l’amministrazione, bensì
intercorrono tra il terzo e l’amministratore o funzionario
che le ha stipulate e/o ne ha consentito la esecuzione (art.
23 D.L. n. 66/1989, riprodotto nell’art. 37 D.Lgs. n. 77/95
e nell’art. 191 D.Lgs. n. 267/2000; nell’ordinamento del
Trentino Alto Adige cfr. il combinato disposto dell’art. 2,
comma 1, e dell’art. 19, comma 3, D.P.G.R. - T.A.A.
28.5.1999, n. 4/L come modificato dal D.P.Reg. -T.A.A. n.
4/L 1.2.2005, testo unico che recepisce l’art. 17, commi 27
segg. L.R. T.A.A. n. 10 del 23.10.1998). Nelle ipotesi di
“somma urgenza” (art. 191, cit.) o di “urgenza” “per evento
eccezionale e imprevedibile” (art. 191 e 19, comma 3,
citati), la mancanza dell’atto di impegno può essere
ratificata entro 30 giorni o comunque entro il 31 dicembre
dell’anno in corso qualora non sia scaduto il predetto
termine; ma “in caso di mancata regolarizzazione
dell’ordinazione entro i termini stabiliti, il rapporto
obbligatorio intercorre (…) tra il privato fornitore e
l’amministratore, funzionario o dipendente che hanno
consentito la fornitura o la prestazione” (cfr. articoli 191
e 19 sopra citati, da cui si desume chiaramente la
perentorietà del termine).”
Soggiunge questa medesima Sezione (cfr. sent. cit.) che “con
l’art. 5 D.Lgs. n. 342/1997 (modificativo dell’art. 37
D.Lgs. n. 77/1995) poi recepito nell’art. 193, comma 4, e
nell’art. 194, lett. e) del D.Lgs. n. 267/2000 (cui
corrispondono esattamente, nell’ordinamento locale, gli
artt. 19, comma 3, e 21, lett. f), D.P.G.R. n. 4/L del
28.05.1999 citato e l’art. 17, commi 29 e 35, L.R. T.A.A. n.
10 del 23.10.1998), si è prevista la possibilità per il
Consiglio dell’ente di riconoscere con propria delibera i
debiti fuori bilancio nei confronti dei terzi, dovuti
all’acquisto di beni e servizi senza previo atto di impegno
(o senza ratifica nei casi di somma urgenza), “nei limiti
degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per
l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni
e servizi di competenza” [artt. 194, lett. e) e 21, lett. f)
citati], stabilendosi altresì che il rapporto obbligatorio
intercorre tra terzo ed amministratore, funzionario o
dipendente solo “per la parte non riconoscibile” dall’ente
con la delibera predetta (art. 193 comma 4 e 19 citati);
donde si desume che, per la parte “riconoscibile” (anche se
non ancora “riconosciuta” espressamente dall’ente), il terzo
non ha azione nei confronti del funzionario e, perciò, può
esperire azione di arricchimento nei confronti della
pubblica amministrazione.
In merito a tali disposizioni, la Corte di cassazione -in
sede civile- ha precisato quanto segue:
a) Ai sensi dell’art. 1988 c.c., la ricognizione di debito della
pubblica amministrazione non ha valore di autonoma fonte di
obbligazione per l’ente verso il terzo, e non sana vizi
originari del rapporto obbligatorio (ad esempio: la mancanza
di delibera di conferimento dell’incarico, stipulazione di
contratto senza forma scritta) ma solo la mancanza di atto
di impegno, per cui, in mancanza di regolare contratto, il
terzo non ha azione contrattuale verso l’ente (in tal senso
cfr. Sez. I, sent. n. 7966 del 27.03.2008, Sez. 3, sent. n.
27406 del 18.11.2008).
b) Tale ricognizione di debito, tuttavia, consente al privato di
esperire “un’azione di indebito arricchimento, in precedenza
non consentita, nei limiti del riconoscimento dell’utilità
della prestazione e dell’arricchimento per l’ente che,
quindi, non resta obbligato per la parte di compenso non
riconoscibile, dovendo di questa rispondere direttamente chi
ha consentito la fornitura” (Sez. I, sent. n. 7966 del
27.03.2008).
c) Infatti, premesso che ai sensi dell’art. 4 della legge n. 2248,
all. E del 1865 il giudizio circa l’“arricchimento” della
pubblica amministrazione “è riservato esclusivamente alla
pubblica amministrazione e non può essere effettuato dal
giudice ordinario, che può solo accertare se e in quale
misura l’opera o la prestazione del terzo siano state
effettivamente utilizzate”, ne consegue che “l’azione di
indebito arricchimento nei confronti della pubblica
amministrazione differisce da quella ordinaria, in quanto
presuppone non solo il fatto materiale dell’esecuzione di
un’opera o di una prestazione vantaggiosa per
l’Amministrazione stessa, ma anche il riconoscimento, da
parte di questa, dell’utilità dell’opera o della
prestazione”.
“Tale riconoscimento, che sostituisce il requisito
dell’arricchimento previsto dall’art. 2041 cod. civ. nei
rapporti tra privati, può avvenire in maniera esplicita,
cioè con un atto formale, oppure può risultare in modo
implicito da atti o comportamenti della pubblica
amministrazione” (in specie, l’utilizzo di fatto della
prestazione: Sez. 1, sent. n. 16596 del 18.06.2008) “dai
quali si desuma inequivocabilmente un effettuato giudizio
positivo circa il vantaggio o l’utilità della prestazione,
promanante da organi rappresentativi dell’amministrazione
interessata, mentre non può essere desunta dalla mera
acquisizione e successiva utilizzazione della prestazione
stessa” (in tal senso, Sez. 3, n. 25156 del 14.10.2008, che
conferma Sez. 1, sent. n. 16595 del 18.06.2008, Sez. 2,
sent. n. 2312 del 31.01.2008 Sez. 2, sent. n. 2312 del
31.01.2008; in senso contrario si registra solo Sez. 3,
sent. n. 11597 del 31.05.2005, che afferma la necessità di
un riconoscimento espresso con apposita delibera dell’ente
della utilità della prestazione ex art. 35 D.Lgs. n. 77 del
1995 e succ. modd.).
d) In ogni caso, ai sensi dell’art. 2041 cod. civ., l’indebito
arricchimento va indennizzato nei limiti, da un lato,
dell’effettivo arricchimento del beneficiato, dall’altro
alla “diminuzione patrimoniale” subita dal soggetto
impoverito, e quindi non può comprendere il lucro cessante
che sarebbe spettato a quest’ultimo se fosse stata contratta
una valida obbligazione, ma solo la diminuzione patrimoniale
da lui subita (Sez. Un., sent. n. 1875 del 27.01.2009); onde
in tal caso l’indennizzo può essere liquidato con
riferimento a parametri diversi dal prezzo di mercato della
prestazione (ad esempio, l’arricchimento della p.a., per la
partecipazione di un professionista ad una commissione
comunale per gare, può essere liquidato con riferimento non
alla tariffa professionale ma al gettone di presenza degli
altri componenti: Cass. Civ. Sez. Un. ult. cit.) e non
spettano altre voci di lucro cessante come la revisione
prezzi (Sez. Un, sent. n. 23385 dell’01.09.2008).”
Ritiene di conseguenza il Giudicante, in aderenza ai propri
orientamenti interpretativi, che in fattispecie relativa a “acquisizione
di beni o servizi a favore di un ente locale -illegittima
sotto il profilo sostanziale (nella fattispecie, perché
promanante da soggetto non legittimato) e sotto il profilo
contabile (nella fattispecie, perché mancante di atto di
impegno contabile)- un “ingiusto” danno erariale può essere
ipotizzato….in mancanza dei suddetti presupposti di
riconoscibilità del debito (strumentalità della prestazione
fuori bilancio all’esercizio di funzioni o di servizi di
competenza dell’ente, riconoscimento dell’utilità della
prestazione, nel senso di rispondenza agli obiettivi
dell’amministrazione, arricchimento dell’ente, nel senso di
locupletazione dell’altrui danno ex art. 2041 cod. civ.)”.
“Pertanto, costituisce senz’altro danno ingiusto il
pagamento -a titolo di debito fuori bilancio-:
a) delle somme richieste per prestazioni…non collegate
all’esercizio di funzioni o servizi di competenza dell’ente;
b) delle somme cui non corrisponda un “arricchimento”
dell’ente, nel senso precisato dall’art. 2041 cod. civ.,
ovvero di somme rispetto alle quali non vi sia diritto
all’indennizzo del privato, in particolare:
aa) somme cui non corrisponda un beneficio per l’ente stesso, ad
esempio le spese eccedenti il valore della prestazione resa
(ovvero la differenza tra quanto effettivamente pagato e la
somma congrua rispetto al prezzo di mercato, o al prezzo
imposto da atti normativi, della prestazione: Corte dei
conti, Sez. II, n. 44 del 12.02.2003; Sez. T.A.A., sede di
Trento, n. 12 del 07.02.2006 e n. 24 del 05.04.2006) o le
spese legali sostenute dal privato per il pagamento delle
prestazioni rese;
bb) somme cui non corrisponde una diminuzione patrimoniale del
privato (danno emergente), ma un mancato utile del privato
stesso (lucro cessante) ad esempio interessi e
rivalutazione, utile di impresa”.
Si manifesta quindi munita di giuridico pregio la pretesa di
parte attrice, che ha fondatamente rilevato la sussistenza
di un danno erariale da ricollegare all’illegittimo
riconoscimento di un importo da qualificare come “utile
di impresa”, privo di qualsiasi utilità per l’Ente
locale
(tratto da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 27.05.2013 n. 27).
|
TRIBUTI: Niente Tarsu su garage, cantine e pertinenze.
La corte conti Abruzzo sconfessa un
consolidato orientamento giurisprudenziale.
La tassa smaltimento rifiuti solidi urbani (Tarsu) non è
dovuta sui locali destinati a garage, cantine, solai e altri
locali accessori o pertinenziali di abitazioni.
Questa è la conclusione a cui è recentemente giunta la
sezione regionale di controllo dell'Abruzzo della Corte dei
conti, con il
parere 25.03.2013 n. 24.
Un
comune abruzzese aveva investito la sezione regionale
competente di alcune questioni riguardanti l'applicazione
della Tarsu, chiedendo se fosse possibile non applicare
sanzioni ed interessi in relazione al recupero del tributo
calcolato sulle superfici di locali accessori o
pertinenziali di case di civile abitazione, non dichiarate a
seguito di indicazioni verbali all'epoca fornite
dall'ufficio competente e di provvedere contemporaneamente
al rimborso delle somme già pagate a tale titolo da taluni
contribuenti destinatari di avvisi di accertamento definiti
con adesione.
A parere dei magistrati contabili abruzzesi la richiesta
dell'ente merita accoglimento, poiché non è possibile
irrogare sanzioni e richiedere interessi su di un tributo
non dovuto, in quanto i locali accessori di abitazioni non
sono soggetti alla Tarsu. Per giungere a tale conclusione
vengono invocate alcune sentenze della Ctr Sicilia per le
quali la tassa sui rifiuti non è dovuta per i locali
accessori di abitazioni (es. sentenza, sez. di Catania, n.
483/34/11).
La decisione si basa sul contenuto della
circolare del min. Finanze n. 95/E/1994, secondo la quale
«devono considerarsi esclusi dal calcolo della superficie
rilevante per l'applicazione della tassa sui rifiuti urbani
quei locali il cui uso è del tutto saltuario ed occasionale
e nei quali comunque la presenza dell'uomo è limitata
temporalmente a sporadiche occasioni e a utilizzi marginal».
Da qui i giudici siciliani hanno concluso che il garage
privato è luogo adibito al ricovero di uno o più veicoli e
quand'anche la persona vi si trattenga per tempi non brevi,
non è plausibile ipotizzare che ne derivino rifiuti.
I magistrati della Sezione regionale di controllo
dell'Abruzzo sembrano però non condividere l'ormai
consolidato orientamento contrario sia della prassi che
della giurisprudenza. L'art. 62, comma 1, del dlgs 507/93
stabilisce che sono soggetti al tributo tutti i locali e le
aree scoperte occupati o detenuti, a qualsiasi uso adibiti,
a esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie
di civili abitazioni diverse dalle aree a verde, esistenti
nel territorio comunale. Il successivo comma 2 esonera
dall'applicazione della tassa i locali e le aree che non
possono produrre rifiuti per la loro natura, per il
particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché
risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel
corso dell'anno, qualora tali circostanze siano indicate
nella denuncia originaria o di variazione e siano
debitamente riscontrate in base ad elementi oggettivi
direttamente rilevabili o da idonea documentazione.
La questione è stata affrontata dalla Corte di cassazione la
quale, tuttavia, è giunta a conclusioni opposte a quelle
della Sezione regionale di controllo abruzzese. La sentenza
n. 2202/2011 ritiene infatti tassabili i garage e le
autorimesse proprio sulla scorta del principio per il quale
vi è una presunzione legale di produttività di rifiuti
derivante dall'occupazione o dalla detenzione di locali ed
aree, considerando che l'impossibilità di produrre rifiuti
negli stessi non può essere presunta dal giudice tributario,
ma è onere del contribuente indicare nella denuncia
originaria o di variazione le obiettive condizioni di
inutilizzabilità.
Ad analoga decisione perviene, sulla scorta dei medesimi
principi, la sentenza della Suprema corte, n. 11351 del
06/07/2012, proprio cassando la sentenza n. 483/34/11 della Ctr Sicilia invocata dai magistrati abruzzesi a fondamento
del loro convincimento. Anche la prassi ministeriale
conferma da tempo tale orientamento. La stessa circolare n.
95/1994, a base della decisione della Corte abruzzese, non
intendeva includere tra i locali non tassabili «con
sporadica presenza dell'uomo» i garage, come dimostra quando
evidenzia che «non è previsto alcun abbattimento per i
locali a più bassa potenzialità di produzione di rifiuti
rispetto alle restanti parti del complesso (es. cantina o
garage a servizio di abitazioni)».
Anche le successive rm n. 149/1998 e n. 45/E/1999
ribadiscono l'applicazione del tributo sui locali accessori.
In particolare la seconda evidenzia come il riferimento
all'esclusione dal tributo dei locali con sporadica presenza
dell'uomo, contenuto nella circ. n. 95/1994, deve intendersi
riguardante le superfici caratterizzate da usi meramente
occasionali e nettamente distanziati nel tempo diversi da
quelli domestici e come la tariffa relativa alle abitazioni
è già una tariffa media, che tiene conto della minore
potenziale produzione di rifiuti dei locali accessori. Le
medesime conclusioni valgono oggi per la Tares, data la
sostanziale coincidenza del presupposto impositivo
(articolo ItaliaOggi del 19.07.2013). |
INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi esterni ad alto rischio. Affidamenti con concorso
e se mancano professionalità. Per la
Corte conti della Campania sussistono gli estremi per la
responsabilità erariale.
È fonte di danno erariale la nomina di un funzionario
esterno con contratto stipulato ai sensi dell'art. 110, c. 1, dlgs. n. 267/2000, in assenza dei presupposti che
legittimano la scelta, e delle procedure selettive pubbliche
e trasparenti, in presenza di professionalità interne
confacenti alle esigenze organizzative, ma ritenute «ostili»
alla politica.
Lo ha argomentato la Corte dei conti, sez.
giurisdizionale per la Campania, che con
sentenza 31.01.2013 n.
138 ha condannato il sindaco di un comune al pagamento
del danno erariale in favore del comune amministrato, per
avere conferito un incarico a un professionista esterno a
copertura del posto di responsabile del servizio
finanziario, pur in presenza del responsabile interno della
struttura.
A viziare insanabilmente il provvedimento di
individuazione avrebbero concorso almeno quattro
circostanze:
1. la mancata previsione dell'assunzione ex art. 110 c. 1
Tuel all'interno della programmazione annuale del fabbisogno
di personale, documento autorizzatorio obbligatorio rispetto
a qualsivoglia tipologia di assunzione;
2. la sussistenza di un impedimento di non poco conto
relativo alla persona dell'incaricato esterno e consistente
nella titolarità in capo al medesimo di un rapporto di
lavoro a tempo pieno e indeterminato presso altro comune;
3. la violazione di una norma statutaria che consentiva, in
coerenza con una serie di principi normativi contenuti nel
dlgs n. 165/2001, l'assunzione di professionalità esterne
all'ente unicamente nel caso di mancanza di professionalità
interne equivalenti;
4. il mancato previo esperimento di una procedura selettiva
pubblica.
La procura contabile ha ritenuto le condizioni evidenziate
elementi sintomatici di una volontà dichiaratamente
arbitraria del sindaco, finalizzata alla rimozione di un
funzionario non gradito, in aperto contrasto con un
principio di rilievo costituzionale (separazione tra
politica e amministrazione) posto a presidio
dell'imparzialità e della sana gestione della cosa pubblica.
I rilievi della procura contabile sono stati accolti dal
collegio che ha ritenuto sussistenti in capo al sindaco
tutti gli elementi tipici della responsabilità
amministrativa e lo ha condannato alla refusione del
nocumento erariale procurato all'ente.
Il principio di
separazione tra politica e gestione (oggi sancito nell'art.
4 del dlgs n. 165/01), è proposito risalente nell'operato
del legislatore italiano ed è dogma che ha trovato
affermazione anche in ambito comunitario. Da anni sul tema
si avvicendano una moltitudine di riforme tutte finalizzate
a rendere operativi postulati già normati, ma la prassi
amministrativa italiana ha registrato, nel tempo, costanti
ingerenze della classe politica nell'ambito di decisioni
squisitamente tecniche; consuetudine che persiste nonostante
più volte censurata dalla giurisprudenza amministrativa e
costituzionale.
Nell'ultimo decennio, la riforma della p.a. italiana ha,
infatti, gradualmente ridotto, sin quasi all'eliminazione,
ogni competenza gestionale in capo all'organo politico, nel
convincimento che le decisioni sulla gestione della cosa
pubblica debbano essere adottate in piena autonomia dai
dirigenti. Solo i tecnici possiedono una professionalità
corrispondente alle funzioni disimpegnate e non sono esposti
ai condizionamenti dell'elettorato. Le leggi che via via si
sono occupate di riformare la dirigenza pubblica in Italia
hanno dilatato le distanze tra tecnici e politici, anche
mediante l'introduzione obbligatoria di meccanismi di scelta
selettivi e meritocratici, ecco che la prassi infligge
ancora sonore smentite a quello che a oggi resta, nonostante
i buoni propositi del legislatore, un principio scritto ma
poco praticato.
Anche la legge delega (legge 15/2009) all'art. 6 contempla
principi e criteri in materia di dirigenza pubblica dettati
«al fine di rafforzare il principio di distinzione tra le
funzioni di indirizzo e controllo e le funzioni di gestione
amministrativa spettanti alla dirigenza regolando il
rapporto tra organi di vertice e dirigenti in modo da
garantire la piena e coerente attuazione dell'indirizzo
politico degli organi di governo in ambito amministrativo».
E la circostanza che la legge nel 2009 sia dovuta tornare
sull'argomento a distanza di vent'anni attraverso la
revisione delle disciplina degli incarichi dirigenziali è
sintomatico del fatto che tutto il quadro normativo
esistente si è rivelato, a conti fatti, del tutto inadeguato
(articolo ItaliaOggi del 19.07.2013). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/
Sospensione se c'è reato. Delitto tentato, il sindaco resta
in carica. Cassazione: la misura si
applica solo se l'illecito è consumato.
Per un sindaco di un comune è applicabile la sospensione di
diritto prevista dall'art. 11, comma 1, del dlgs 31.12.2012, n. 235 (che ha sostituito l'abrogato l'art . 59 Tuel)?
La Corte di cassazione, con la sentenza n. 1990 del 2003, ha
escluso l'applicabilità dell'art. 59 Tuel a seguito della
condanna di primo grado pronunciata nei confronti di un
amministratore locale per il reato di tentata concussione,
in quanto reato autonomo, non può essere assimilato al
corrispondente delitto consumato, sola causa di sospensione
dell'eletto prevista dal citato art. 59.
Il giudice di legittimità ha specificato in particolare che
la predetta sospensione automatica dalle cariche elettive,
in ragione della commissione di delitti da parte di pubblici
ufficiali, non può essere disposta dall'autorità competente
quando l'eletto sia risultato autore di un delitto tentato
(nella specie, tentata concussione), atteso che alla luce
del quadro normativo allora vigente che ha svincolato
l'istituto della sospensione dalla carica elettiva dalle
ipotesi delittuose residuali stabilite dall'art. 58, comma
1, lett. c.) del Tuel, tale tipo di illecito penale rileva
solo ai fini della «decadenza» dell'eletto e non già anche
in relazione alla sua sospensione cautelare dalla carica
elettiva.
Considerato che il Testo unico di cui al dlgs 31.12.2012, n. 235, che pure ha ampliato la casistica delle
ipotesi d'incandidabilità rispetto a quanto previsto dagli
artt. 58 e 59 del Tuel, sullo specifico profilo non ha
innovato rispetto alla normativa preesistente, si ritiene
che i principi elaborati dalla giurisprudenza trovino
tuttora applicazione.
Si evidenzia che, quando il legislatore ha voluto prevedere
delle differenze nel regime delle incandidabilità, le ha
espressamente introdotte, sia per gli amministratori degli
enti locali (cfr. art. 10, comma 1, lettera b), sia per le
altre cariche ivi contemplate, a seconda dei livelli di
rappresentatività – per i deputati e i senatori (art. 1),
per i membri del Parlamento europeo (art. 4), per coloro che
ricoprono incarichi di governo (art. 6), e per coloro che
ricoprono cariche elettive regionali (art. 7).
Anche in sede di documentazione della Camera dei deputati –
XVI legislatura, per l'esame dello schema del decreto
legislativo in questione (Atti del governo n. 465 del
18/12/2012), si registra «che nei delitti contro la p.a. non
è stata riprodotta la specificazione sui delitti consumati o
tentati, presente invece nella formulazione che si applica
alle cariche regionali».
Quanto ai profili degli effetti dell'indulto, si può
richiamare una recente sentenza della Corte di cassazione
(Cfr. Cass. civ., sez. I, sent. n. 13831 del 27/05/2008)
secondo la quale, ai fini del venir meno della causa d'incandidabilità,
non assume rilievo il fatto che la condanna si stata
soggetta ad eventuale sospensione condizionale (che l'art.
166 c.p. estende anche alle pene accessorie) – poiché l'incandidabilità
non è un aspetto de trattamento sanzionatorio penale del
reato, ma si traduce nel difetto di un requisito soggettivo
per l'elettorato passivo; né tale assetto risulta in
contrasto con alcun parametro costituzionale, come già
stabilito dalla Corte costituzionale con sentenza n. 132 del
2001
(articolo ItaliaOggi del 19.07.2013). |
TRIBUTI:
Regolamento COSAP sui passi carrabili, quando è facoltativo
il pagamento?
Domanda
Il regolamento COSAP sui passi carrabili distingue i passi
carrabili con opere (quali tagli nei marciapiedi, scivoli,
rampe, copertura di fossi o modifiche per facilitare
l'accesso alla proprietà privata) per i quali è previsto il
pagamento del COSAP e i passi carrabili a raso per i quali
il pagamento del COSAP è facoltativo (Cass. civ. Sez. V,
27.07.2007, n. 16733).
Un cittadino dice che il suo passo carrabile, davanti al
quale vi è un marciapiede ab origine "basso"
non modificato con rampa di accesso, scivolo o altro e che
non ha subito tagli, è a raso.
Il Comune ritiene che il cittadino debba pagare il COSAP
siccome il marciapiede ai sensi del C.d.S. [art. 3, comma 1
p. 33)] è parte della strada, esterna alla carreggiata,
destinata ai pedoni sul quale è vietata la sosta e la
circolazione dei veicoli ed è un'opera visibile che rende
certa la superficie sottratta all'uso pedonale quando viene
attraversato con l'auto anche se non ha subito modifiche o
tagli davanti l'accesso.
L'interpretazione del Comune è corretta?
Risposta
La tesi del Comune
non è condivisibile in quanto la questione non è legata
all'esistenza o meno del marciapiede, secondo la definizione
dell'art. 3, comma 1, del D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, ma alla
circostanza che sussista un manufatto che, di fatto, occupi
il suolo pubblico a vantaggio di un privato. In altre parole
è la modifica (la c.d. "opera visibile") del
marciapiede stesso a creare il presupposto oggettivo della
"tassabilità", non l'accessibilità del privato che dispone
del varco.
Si tenga conto del fatto che è lo stesso Comune ad aver
disciplinato nel proprio Regolamento la definizione di passo
carraio a raso [art. 38, comma 2, lett. b)] e ad aver
previsto (art. 45) la tassabilità solo in presenza di
richiesta di apposizione del cartello.
Peraltro chi scrive ritiene che la disciplina del COSAP,
diversamente da quella della TOSAP, non consenta, in punto
diritto, la tassazione dei passi carrai a raso in quanto
sic et simpliciter segnalati da cartello. Ciò perché
l'art. 63 del D.Lgs. 15.12.1997, n. 446 non prevede nulla a
riguardo, diversamente da quanto stabilito al comma 8
dell'art. 44 del D.Lgs. 15.11.1993, n. 507 che ne legittima
l'imposizione ma che nel contempo è norma che risulta
evidentemente una deroga al principio di tassabilità
soltanto nei casi di effettive occupazioni di suolo
pubblico.
Lo strumento corretto per pretendere una prestazione
patrimoniale nei casi di passi a raso con cartello nei
Comuni che hanno abbandonato la tassa dovrebbe essere, ad
avviso di chi scrive, il canone ex art. 27 del D.Lgs.
30.04.1992, n. 285, in quanto il presupposto non è soltanto
l'occupazione (che qui non c'è), ma anche l'uso (comma 7
dell'art. 27 e art. 22) (17.07.2013 - tratto da
www.ipsoa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Demansionamento.
Domanda
La pubblica amministrazione è tenuta al risarcimento del
danno in caso di totale demansionamento del dipendente?
Risposta
La pubblica amministrazione si rende inadempiente quando non
assegna al dipendente alcuna mansione per un prolungato
periodo di tempo o consente al dipendente, restio a svolgere
mansioni di contenuto inferiore rispetto a quelle svolte in
precedenza, di non svolgere alcuna mansione.
È vero che
l'art. 52, comma 1, dlgs n. 165/2001, che sancisce il
diritto alla adibizione alle mansioni per le quali il
dipendente è stato assunto o ad altre equivalenti, ha
recepito un concetto di equivalenza «formale»,
ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva
(indipendentemente dalla professionalità acquisita); però
ove vi sia stato, con la destinazione ad altre mansioni, il
sostanziale svuotamento dell'attività lavorativa, si
configura la diversa ipotesi della sottrazione pressoché
integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche
nell'ambito del pubblico impiego. In tal caso il dipendente
ha diritto al riconoscimento del danno, da quantificarsi in
via equitativa (articolo ItaliaOggi Sette del 15.07.2013). |
SICUREZZA LAVORO:
Sicurezza sul lavoro.
Domanda
Il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme di
sicurezza, è interamente responsabile dell'infortunio?
Risposta
Le norme dettate in materia di prevenzione degli infortuni
sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni
pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo
dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche
da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza e imprudenza
dello stesso.
Ne consegue che il datore di lavoro è sempre
responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia
quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia
quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto
effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo
attribuirsi alcun effetto esimente, per l'imprenditore che
abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione
delle relative prescrizioni, all'eventuale concorso di colpa
del lavoratore.
L'imprenditore è esonerato da responsabilità
solo quando il comportamento del dipendente presenti i
caratteri dell'abnormità, inopinabilità e esorbitanza
rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive
ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, così da
porsi come causa esclusiva dell'evento.
Pertanto, il datore di lavoro, in caso di violazione delle
norme poste a tutela dell'integrità fisica del lavoratore, è
interamente responsabile dell'infortunio che ne sia
conseguito e non può invocare il concorso di colpa del
danneggiato, avendo egli il dovere di proteggere
l'incolumità di quest'ultimo nonostante la sua imprudenza o
negligenza (articolo ItaliaOggi
Sette del 15.07.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Le terre e rocce da scavo provenienti dai piccoli cantieri
sono disciplinate dal D.M. n. 161/2012? (15.07.2013
- link a www.ambientelegale.it). |
NEWS |
APPALTI: Decreto del fare. L'emendamento approvato in Commissione
introduce l'obbligo di dimostrare di non avere debiti con il
Fisco.
Appalti, prima il Durt poi si paga.
Dal 2014 le imprese dovranno esibire il Documento unico di
regolarità tributaria.
Prima di ricevere il pagamento della prestazione, le imprese
appaltatrici dovranno consegnare dall'anno prossimo il nuovo
Documento unico di regolarità tributaria (Durt).
Lo prevede
un emendamento approvato dalle commissioni Affari
costituzionali e Bilancio della Camera al decreto legge «del
fare» (Dl 69/2013).
Analizzando l'emendamento, viene confermata l'abrogazione di
ogni obbligo per committente e appaltatore in relazione
all'Iva non versata nell'ambito della "catena" dell'appalto,
semplificazione in vigore dal 22 giugno scorso. Tuttavia,
per quanto riguarda le ritenute sui redditi di lavoro
dipendente relative al rapporto di subappalto, in luogo
dell'attuale documentazione (consistente in una
asseverazione rilasciata da professionisti e Caf, ovvero, in
alternativa, in un'autocertificazione del prestatore) è
prevista l'acquisizione da parte dell'appaltatore presso
l'agenzia delle Entrate di un documento (il Durt) attestante
l'inesistenza di debiti tributari per imposte, sanzioni o
interessi, scaduti e non estinti dal subappaltatore alla
data di pagamento del corrispettivo o di parti di esso. Se
il pagamento avviene in assenza della prescritta
documentazione, scatta la responsabilità solidale
dell'appaltatore per le omissioni nei versamenti delle
ritenute di lavoro dovute dal subappaltatore.
Il problema è che l'agenzia delle Entrate non ha mai a
disposizione dati "in tempo reale" sulle violazioni nei
versamenti, per cui viene prevista l'istituzione di un
portale in cui «i soggetti interessati» avranno l'obbligo di
trasmettere, in via digitale, «i dati contabili e i
documenti primari relativi alle retribuzioni erogate, ai
contributi versati e alle imposte dovute». Se si pensa alla
dimensione e alla strutturazione contabile della maggior
parte dei subappaltatori, è facile immaginare che questo
costituirà l'adempimento amministrativo più complesso che
graverà su di loro, destinato (stando al testo normativo) a
interrompersi solo con la piena attuazione delle procedure
di fatturazione elettronica.
Il provvedimento attuativo del rilascio del Durt dovrebbe
vedere la luce entro quattro mesi dalla conversione del Dl
69, e gli obblighi dovrebbero scattare (previo avviso da
pubblicarsi sulla «Gazzetta Ufficiale») entro sei mesi dalla
conversione, per cui, indicativamente, a fine gennaio 2014.
Fino ad allora, si prosegue con asseverazioni e
autocertificazioni, per le quali occorre comprendere se, una
volta operativo il Durt, avranno ancora un ruolo o
diverranno inutili.
Mentre la responsabilità riguarda le sole ritenute (peraltro
relative a quel singolo appalto), il Durt è riferito
indistintamente a tutti i debiti tributari, per cui il
subappaltatore risulterà "non in regola" anche se non ha
versato l'imposta di registro su un contratto di affitto o
(se persona fisica) se ha in sospeso una cartella per oneri
deducibili non documentati.
L'emendamento approvato riscrive anche il comma 28-bis
dell'articolo 35 del Dl 223/2006, che si occupa dei rischi
che si assume il committente per le omissioni di ritenute
tanto da parte dell'appaltatore quanto del subappaltatore.
Il committente paga i corrispettivi senza rischiare la
sanzione (da 5mila a 200mila euro) solamente se prima
ottiene dall'appaltatore il suo Durt e quello di tutti i
subappaltatori di cui egli si è servito (qui la norma
riferisce il Durt solo alla regolarità sulle ritenute).
Rispetto alla norma vigente, questo comma contiene un inciso
piuttosto nebuloso («ferma restando la responsabilità in
solido ai sensi del primo periodo del comma 28») che può
essere letto in due modi, entrambi negativi. Se sta a
significare che la sanzione applicata al committente non
elimina la responsabilità solidale dell'appaltatore,
l'inciso è inutile. Qualora, invece, si intenda con ciò
"trascinare" anche il committente nella solidarietà (cui si
aggiungerebbe la sanzione), il peggioramento rispetto alla
situazione attuale è di tutta evidenza.
Committente e appaltatore hanno diritto di sospendere il
pagamento del corrispettivo fino alla consegna del Durt e
che le norme nulla dispongono nel caso in cui la procedura
segnali delle irregolarità tributarie del subappaltatore; è
prevedibile che sia statuito l'obbligo di dirottare il
pagamento alle casse erariali fino a concorrenza del debito.
Ma che cosa succede se quest'ultimo deriva da un atto
impositivo impugnato dal subappaltatore presso le
Commissioni tributarie? (articolo Il Sole 24 Ore del 21.07.2013). |
APPALTI: DECRETO
DEL FARE/ Alle Entrate i dati su retribuzioni, contributi e
imposte.
Spauracchio Durt sulle pmi. Un'altra bega burocratica. Per
essere pagati prima.
Sei mesi di tempo per la messa in funzione del Durt, il
nuovo documento unico di regolarità tributaria che gli
appaltatori dovranno acquisire per schivare la
responsabilità solidale sulle ritenute.
Alle imprese toccherà anche comunicare periodicamente
all'Agenzia delle entrate i dati contabili e i documenti
primari relativi alle retribuzioni erogate, ai contributi
versati e alle imposte dovute, almeno fin quando le
procedure sulla fatturazione elettronica non saranno messe a
regime. L'adempimento sulla carta è facoltativo, ma per chi
vorrà ottenere le certificazioni in tempo reale (e quindi
essere pagato rapidamente dal committente o appaltatore)
sarà di fatto un obbligo.
Sono questi ulteriori elementi che
emergono dall'emendamento approvato mercoledì notte dalle
commissioni riunite I e V della camera, che riscrivendo
l'articolo 50 del decreto Fare (69/2013) ha rivisto il
regime della responsabilità fiscale negli appalti (si veda ItaliaOggi di ieri).
L'Agenzia delle entrate, di concerto con l'Inps, dovrà
stabilire le modalità attuative per il rilascio del Durt,
che sarà un «gemello» del Durc già previsto ai fini
contributivi. Il provvedimento dovrà essere emanato entro
quattro mesi dall'entrata in vigore della legge di
conversione del dl n. 69/2013. Per il rilascio in via
digitale e certificata del documento sarà creato un apposito
portale web, anche avvalendosi del sistema Uniemens già
utilizzato dall'istituto previdenziale.
Gli operatori «che vi abbiano interesse», prevede
l'emendamento, potranno chiedere la registrazione al
sistema. Per farlo, però, appaltatori e subappaltatori
dovranno impegnarsi a comunicare all'Agenzia i dati sulle
retribuzioni dei dipendenti. Le Entrate, quindi,
certificheranno la regolarità della posizione tributaria del
soggetto: il Durt comproverà l'inesistenza di debiti
tributari per imposte, sanzioni o interessi scaduti e non
ancora pagati dal subappaltatore alla data di pagamento del
corrispettivo contrattuale.
Il Durt sostituirà integralmente le diverse tipologie di
documenti oggi utilizzabili per disapplicare il regime di
responsabilità solidale (documentazione attestante il
versamento delle ritenute dei dipendenti, asseverazione
della regolarità fiscale rilasciata da un professionista o
da Caf, oppure autocertificazione sostitutiva dell'impresa
subappaltatrice). Si ricorda che resta invece confermata
l'esclusione dalla responsabilità solidale negli appalti dei
versamenti Iva, come già previsto nella versione originaria
del dl n. 69/2013 approdata in G.U. e attualmente in vigore.
Rimane invariata pure la sanzione amministrativa da 5 mila a
200 mila euro in capo al committente, laddove questo
provveda a effettuare il pagamento senza che l'appaltatore
e/o subappaltatore abbiano esibito la documentazione di
regolarità tributaria.
Non cambia neppure l'ambito oggettivo della disciplina: le
tipologie di appalto (come definite dall'articolo 1655 del
codice civile) interessate dalla normativa permangono quelle
individuate dall'Agenzia delle entrate con la circolare n.
2/E del 01.03.2013
(articolo ItaliaOggi del 20.07.2013). |
APPALTI:
DECRETO DEL FARE/ Imposta di soggiorno anche ai comuni
dell'hinterland milanese.
Appalti, una mano alle imprese. Qualificazioni Soa meno
ostiche. Anticipi ai costruttori
Esteso da cinque a 10 anni il periodo di tempo al quale le
imprese possono far riferimento per conseguire le
attestazioni Soa, indispensabili per poter partecipare alla
gare pubbliche. Mentre nei contratti di appalto relativi a
lavori, disciplinati dal decreto legislativo 12.04.2006,
n. 163, affidati fino al 31.12.2014, in deroga ai
vigenti divieti di anticipazione del prezzo, sarà possibile
la corresponsione in favore dell'appaltatore di una
anticipazione pari al 10 per cento dell'importo
contrattuale, purché la stessa sia già prevista e
pubblicizzata nella gara di appalto.
Queste alcune delle novità emergenti dal testo del decreto
del fare (69 del 2013) licenziato ieri dalle commissioni
Affari costituzionali e Bilancio della Camera dei deputati e
pronto ad approdare in aula la settimana prossima.
Per
quanto riguarda le attestazioni Soa, Tino Iannuzzi e
Raffaella Mariani, deputati del Partito democratico,
esprimono soddisfazione per l'approvazione del loro
emendamento. «Questa norma -spiegano- era molto attesa dal
mondo delle imprese operanti nel settore degli appalti
pubblici. Infatti, in una fase di crisi economica così
pesante e prolungata e di enorme contrazione del mercato
degli appalti, è sempre più difficile per le imprese,
soprattutto piccole e medie, poter ottenere le
qualificazioni Soa considerando volume di fatturato e lavori
eseguiti solamente negli ultimi cinque anni. Il nuovo
periodo di tempo di 10 anni, introdotto dal nostro
emendamento, consentirà una maggiore e proficua
partecipazione delle pmi alle gare di appalto».
Ma non sono
le uniche novità che hanno trovato spazio nel provvedimento.
Una di rilievo riguarda i professionisti. Non solo i notai
ma anche gli avvocati diventano infatti protagonisti nelle
divisioni ereditarie. Nei casi di divisione a domanda
congiunta, si legge nella norma approvata, quando non
sussiste controversia sul diritto alla divisione né sulle
quote o altre questioni pregiudiziali, gli eredi o condomini
e gli eventuali creditori e aventi causa che hanno
notificato o trascritto l'opposizione alla divisione possono
domandare la nomina di un notaio ovvero di un avvocato con
potere di autentica delle firme avente sede nel circondario
al quale demandare le operazioni di divisione. La versione
originaria del decreto faceva riferimento esclusivamente ai
notai.
Sul piano delle amministrazioni locali legate a Expo 2015,
si prevede che anche i comuni della provincia di Milano, e
successivamente ricompresi nella istituenda Area
metropolitana, possono istituire l'imposta di soggiorno ai
sensi dell'articolo 4 del decreto legislativo 14.03.2011,
n. 23. Mentre nelle zone a burocrazia zero scatterà una
semplificazione dei controlli. Anzi si intenderanno
addirittura non sottoposte a controllo tutte le attività
delle imprese per le quali le competenti pubbliche
amministrazioni non ritengano necessarie l'autorizzazione,
la segnalazione certificata di inizio attività o la mera
comunicazione.
Le p.a. dovranno pubblicare sul proprio sito
istituzionale l'elenco delle attività soggette a controllo.
La disposizione vale per le amministrazioni centrali ma le
regioni e gli enti locali, nell'ambito delle proprie
competenze, adegueranno i propri ordinamenti alle
disposizioni valide per le altre p.a.
(articolo ItaliaOggi del 20.07.2013). |
APPALTI: Appalti,
torna l'anticipazione.
Via il divieto imposto dopo tangentopoli: sarà facoltativa
per gli enti appaltanti.
«SEIMILA CAMPANILI» -
Confermati i 100 milioni al fondo per gli interventi dei
piccoli Comuni, ora si aggiungono risorse dai fondi Ue
2014-2020.
Pioggia di misure per appalti, infrastrutture, edilizia,
urbanistica. Le due novità più importanti, anche
politicamente, del passaggio del «decreto legge del fare»
alla Camera sono l'abolizione del divieto assoluto di
anticipazione negli appalti di lavori e, sul fronte
dell'edilizia privata, la possibilità di utilizzare la Scia
(segnalazione certificata di inizio attività) per interventi
di demolizione e ricostruzione con modifica della sagoma.
Dopo lunghe discussioni, sono uscite dalle commissioni
Bilancio e Affari costituzionali due norme di compromesso,
la cui applicazione sarà controversa. Spazi per ulteriori
correzioni ci sono nell'Aula di Montecitorio, i relatori ci
stanno lavorando. Ma in entrambi i casi il principio imposto
è comunque forte.
Nel caso degli appalti, l'abolizione del divieto assoluto di
concedere un'anticipazione, imposto dalla legge Merloni dopo
la stagione di Tangentopoli, non significa obbligo di farlo
per le amministrazioni appaltanti: il ricorso allo
strumento, nella misura del 10 per cento, sarà facoltativo.
Il compromesso finale sconta un'opposizione molto dura dell'Anci,
l'associazione dei Comuni, per cui la norma avrebbe
esasperato ulteriormente i vincoli del patto di stabilità,
rischiando di bloccare ulteriormente tutto il sistema dei
lavori pubblici. Per la demolizione e ricostruzione con
modifica della sagoma dell'edificio nei centri storici, sarà
ammessa con Scia (quindi senza richiesta del permesso di
costruire) solo nelle aree espressamente individuate dai
Comuni. Anche qui, soluzione di mediazione fra la proposta
del ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, e
l'opposizione espressa soprattutto dal pd Maurizio Morassut.
La terza norma approvata dalla Camera che rafforza i segnali
già presenti nel decreto legge è l'ulteriore stanziamento
per l'edilizia scolastica. Ai 300 milioni di fondi Inail per
un piano di manutenzione straordinaria si sommano ora altri
150 milioni che andranno, però, a un ulteriore piano che
avrà prioritariamente attenzione allo smaltimento
dell'amianto. Un segno politico di grande interesse per la
sicurezza delle aule scolastiche, ma al tempo stesso
un'esasperazione dei limiti dei piani di edilizia
scolastica: ora sono cinque i veicoli, con fondi distinti,
competenze distinte, procedure distinte.
Nel capitolo delle semplificazioni, versante pubblico, non
si può ignorare la nuova disciplina in materia di terre e
rocce da scavo. Viene introdotta una nuova procedura
semplificata che sarà applicabile sia ai piccoli cantieri
sotto i 6mila metri cubi di materiale estratto sia ai
cantieri intermedi, non sottoposti a Via e Aia. Le imprese
appaltatrici potranno utilizzare le procedure dell'articolo
184 bis del codice dell'ambiente (Dlgs 152/2006), emendato
con una serie di semplificazioni che consentono di cambiare
la destinazione di riutilizzo del materiale o di allungare i
tempi della procedura oltre l'anno finora previsto.
Numerose correzioni anche al piano sblocca-cantieri. La più
rilevante riguarda il piano «seimila campanili», il fondo
per i piccoli interventi per i Comuni con meno di 5mila
abitanti: confermato lo stanziamento di 100 milioni, si
aggiunge che bisognerà trovare nei fondi europei 2014-2020
le risorse per continuare il programma fino al 2020. Saranno
ammesse anche infrastrutture annesse o funzionali alle reti
telematiche NGN o wi-fi.
Quanto al piano per la sicurezza stradale, curiosamente la
priorità si dovrà dare alle piste ciclabili e all'asse
viario Terni-Rieti. Per il piano sblocca-cantieri previsto
anche un gruppo di opere di riserva che saranno finanziate
qualora non si riuscirà a sbloccare le opere già citate nel
decreto (si veda Il Sole-24 Ore del 13 luglio per l'intera
mappa delle opere)
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.07.2013). |
APPALTI: Dal
nodo della solidarietà alla strettoia del «Durt»
IMPRESE CONTRARIE/ Il procedimento ipotizzato per ottenere
il «Documento di regolarità tributaria» rischia di tradursi
in un ulteriore vincolo.
Per il momento è ancora sulla carta, ma il documento unico
di regolarità tributaria (Durt), previsto da un emendamento
al Dl 69/2013, viene già bocciato da una parte del mondo
imprenditoriale.
Secondo quanto previsto dall'emendamento a firma del
deputato Girolamo Pisano del M5S, e approvato dalle
commissioni Affari costituzionali e Bilancio della Camera,
viene prevista una nuova procedura per esonerare
l'appaltatore dalla responsabilità solidale.
A oggi, per effetto delle modifiche apportate dall'articolo
50 del decreto legge 69/2013 all'articolo 13-ter del Dl
83/2013, la disciplina sulla responsabilità solidale in
materia di appalti di opere e servizi prevede in primo luogo
la responsabilità dell'appaltatore con il subappaltatore per
il versamento delle ritenute sui redditi di lavoro
dipendente (e non più anche dell'Iva dovuta) in relazione
alle prestazioni effettuate nell'ambito del rapporto di
subappalto. La responsabilità, che è comunque limitata
all'ammontare del corrispettivo dovuto, può essere evitata
ottenendo, anteriormente al pagamento del corrispettivo, la
documentazione che attesta la corretta esecuzione dei
versamenti scaduti da parte del subappaltatore, cioè il Durt.
In sostanza questo documento certifica l'inesistenza di
debiti tributari per imposte, sanzioni e interessi scaduti e
non estinti dal subappaltatore alla data di pagamento del
corrispettivo. Viene inoltre confermata una sanzione
amministrativa da 5.000 a 200.000 euro in capo al
committente nel caso in cui questi paghi l'appaltatore senza
essere in possesso della documentazione prevista.
Tuttavia, la circolare 40/E/2012 dell'agenzia delle Entrate
ha chiarito che la documentazione può essere costituita da
un'autodichiarazione resa in base all'articolo 46 del Dpr
445/2000 che attesti il regolare adempimento degli obblighi
richiesti da parte del subappaltatore. Quindi la
responsabilità solidale dell'appaltatore è esclusa se
quest'ultimo ottiene dal subappaltatore l'autodichiarazione.
Appare ragionevole ritenere che il Durt, se definitivamente
introdotto, debba essere considerato uno strumento
alternativo rispetto all'autocertificazione, perché gli
uffici dell'Agenzia potrebbero essere chiamati a rilasciare
un numero consistente di dichiarazioni con l'ovvio
allungamento dei tempi. In questo senso occorre tenere
presente che l'appaltatore e il committente sono legittimati
a non pagare il corrispettivo della prestazione fino al
rilascio della documentazione.
Una sonora bocciatura della novità è arrivata ieri da Rete
Imprese: «Deve essere cancellato -ha affermato il
presidente Ivan Malavasi- l'emendamento al decreto del fare
che rischia di dare il colpo di grazia a molte imprese già
messe a dura prova da una crisi che sembra non avere fine.
Con un procedimento paradossale si chiede alle imprese di
comunicare periodicamente all'agenzia delle Entrate i dati
delle buste paga al fine di consentire alla stessa Agenzia
di accertare che le imprese sono in regola con il fisco».
Secondo Rete Imprese il provvedimento aumenta gli
adempimenti burocratici a fronte della richiesta delle
aziende di andare nella direzione opposta.
L'emendamento prevede che per il rilascio del Durt in via
digitale le Entrate realizzino un portale dedicato tramite
cui acquisire le informazioni necessarie anche utilizzando
il sistema Uniemens dell'Inps. In attesa della fatturazione
elettronica, però, i soggetti d'imposta devono trasmettere «per
via digitale i dati contabili e i documenti primari relativi
alle retribuzioni erogate, ai contributi versati e alle
imposte dovute»
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.07.2013). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Il decreto appalti esce dal pantano.
I parametri al Consiglio di stato.
Al Consiglio di stato il regolamento sui parametri per la
gare di appalto. Dopo il concerto del ministero delle
infrastrutture, quindi, il decreto predisposto dal ministero
della giustizia che determina «i corrispettivi a base di
gara per gli affidamenti di contratti di servizi attinenti
all'architettura e all'ingegneria» può finalmente riprendere
il suo percorso, finora tormentato, verso l'approvazione
definitiva. Sempre che i giudici di Palazzo Spada, che
potrebbero esaminarlo già entro la fine del mese, non
trovino rilievi sostanziali.
Il nodo scoperto sta infatti
nella figura del Rup, il responsabile unico del procedimento
che, a parere (si tratta del secondo parere espresso
nell'adunanza del 17 maggio) del Consiglio superiore dei
lavori pubblici è tenuto «in fase di predisposizione degli
atti di gara, ad accertare che il corrispettivo da porre a
base di gara non superi quello derivante dall'applicazione
delle vecchie tariffe professionali vigenti prima
dell'entrata in vigore del decreto».
In sostanza, secondo il Cslp, la stazione appaltante deve provvedere a verificare
che le nuove tariffe non determinino importi a base di gara
superiori a quelli derivanti all'applicazione delle
precedenti (dm 04/04/2001), in particolare, affidando al Rup
di controllare che gli importi a base d'asta per i servizi
di architettura e ingegneria siano inferiori appunto alle
vecchie tariffe. Un passaggio inutile secondo le categorie
tecniche che attendono il provvedimento da oltre un anno, ma
anche per l'ufficio legislativo del ministero della
giustizia che ha ritenuto più opportuno «ai fini della buona
procedura amministrativa» non inserire questo passaggio che
si tradurrebbe solo in una complicazione in più anche in
termini di spesa.
La questione di non superare le vecchie tariffe era stato un
passaggio preciso esplicitato dalla legge delega. I nuovi
parametri, diceva il provvedimento governativo, avrebbero
dovuto rispettare un paletto preciso: non determinare un
importo a base di gara superiore a quello che derivava
dall'applicazione delle tariffe professionali vigenti prima
dell'entrata in vigore dello stesso decreto. Ma proprio il
superamento di questo paletto aveva bloccato l'iter del
provvedimento.
Secondo il parere del gennaio 2013 del Consiglio superiore
dei lavori pubblici (sostanzialmente condiviso con quello
dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici), infatti,
il nervo scoperto della prima bozza di provvedimento era
proprio questo: determinare onorari superiori a quelli delle
vecchie tariffe previste dal dm 04.04.2001 e quindi in
contrasto con il vincolo stabilito dalla stessa legge
delega. I valori dei parametri allegati alla bozza di
decreto interministeriale quindi furono rivisti. Il testo
tornò infatti nelle stanze dell'ufficio legislativo del
ministero della giustizia dalle quali era partito, per le
opportune modifiche. Ma solo ieri, tra le resistenze di
qualcuno e il cambio di governo, è arrivato il concerto
anche del ministero. Ora tutti confidano nella rapidità del
Consiglio di stato
(articolo ItaliaOggi del 19.07.2013). |
PATRIMONIO:
DECRETO DEL FARE/ Agli enti locali 150 mln per la messa in
sicurezza delle scuole
Demanio ai comuni, si riparte.
Beni statali trasferiti gratis. Richieste dall'01/09 al 30/11.
Riparte il federalismo demaniale. Dopo
essere stato tenuto tre anni in naftalina (il decreto
legislativo che aveva dato il là alla riforma risale al
2010) la macchina organizzativa per il passaggio a titolo
gratuito degli immobili dello stato a comuni, province e
città metropolitane si rimetterà in moto il 1° settembre.
Da questa data e fino al 30 novembre gli enti locali
interessati a mettere le mani sugli immobili dismessi dallo
stato potranno farne richiesta all'Agenzia del demanio,
indicando l'utilizzo che vorranno farne e le risorse a ciò
destinate. Per gli enti locali sono poi in arrivo 150
milioni per il 2014 da destinare alla riqualificazione e la
messa in sicurezza delle scuole. I fondi saranno ripartiti a
livello regionale per essere poi destinati ai comuni e alle
province sulla base del numero degli edifici scolastici e
della popolazione studentesca. I contributi saranno
ripartiti con decreto del Miur entro il 30 ottobre sulla
base delle graduatorie presentate dalle regioni entro il 15
ottobre.
Sono queste le novità più significative per gli
enti locali contenute negli emendamenti presentati nelle
commissioni affari costituzionali e bilancio della camera
dai due relatori al «decreto del fare» (dl n.69/2013)
Francesco Paolo Sisto (Pdl) e Francesco Boccia (Pd).
Quasi a voler recuperare il tempo perduto, l'emendamento sul
federalismo demaniale prevede tempi stretti per il riscontro
delle richieste degli enti da parte dell'Agenzia del
demanio: 60 giorni dalla ricezione dell'istanza per
comunicare l'esito positivo o negativo. Se le richieste
avranno ad oggetto beni già utilizzati dalla p.a., il
Demanio interpellerà le amministrazioni interessate per
sondare (entro il termine perentorio di 30 giorni) il loro
interesse a continuare a utilizzarli per esigenze
istituzionali.
In caso di mancata risposta da parte degli
enti pubblici, l'Agenzia verificherà che gli immobili non
assolvano ad altre esigenze statali, dopodiché procederà a
trasferire i beni. Qualora sullo stesso immobile giungano
richieste di attribuzione da parte di più livelli di
governo, il bene sarà trasferito in via prioritaria al
comune o alla città metropolitana (e in subordine alle
province e alle regioni) sulla base del principio di
sussidiarietà. Gli immobili trasferiti agli enti locali
torneranno allo stato qualora l'Agenzia accerti che, a
distanza di tre anni dal trasferimento, gli immobili non
vengono utilizzati dalle amministrazioni.
Se gli enti decideranno di alienare i beni demaniali loro
trasferiti, potranno tenere per sé il 75% del ricavato e
destinarlo prioritariamente alla riduzione
dell'indebitamento. In assenza di debito (o per la parte
eventualmente eccedente), le risorse ricavate potranno
essere utilizzate per spese di investimento. Il restante 25%
sarà invece destinato al Fondo per l'ammortamento dei titoli
di Stato
(articolo ItaliaOggi del 19.07.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Mediare è obbligatorio. Ma bisogna correggere le inutili
gratuità. Il
decreto del fare reintroduce l'istituto puntando sui
professionisti.
Il 21 giugno scorso attraverso il decreto legge n. 69 del
2013, detto decreto «del fare», il governo è tornato a
occuparsi nuovamente di mediazione civile, reintroducendo la
condizione di procedibilità nel dlgs 28/2010.
L'esecutivo, riproponendo l'obbligatorietà attraverso uno
strumento formalmente corretto, ha voluto dare un nuovo
impulso all'utilizzo di questa metodologia alternativa di
risoluzione delle controversie (Adr) -che, seppur con
numeri al di sotto delle aspettative, aveva cominciato a
dare degli incoraggianti risultati sul piano della
deflazione del carico di procedimenti giudiziari-
introducendo anche alcune modifiche all'Istituto che possano
renderlo più efficace e meno esposto ad alcune critiche di
cui era stato oggetto il decreto legislativo nella sua
formulazione originaria.
Alcune delle novità introdotte sono:
• durata massima dell'intera procedura ridotta a tre mesi;
• previsione di un incontro informativo e di programmazione
tra le parti ed il mediatore, da svolgersi entro 30 giorni
dal deposito dell'istanza, in cui insieme si verifica
l'esistenza delle condizioni per procedere nella mediazione;
• importo drasticamente ridotto e fino a un massimo di
250,00, anche per gli scaglioni più onerosi, qualora le
parti dovessero decidere di non andare oltre l'incontro di
programmazione;
• ai fini dell'omologa, il verbale di accordo deve essere
firmato dagli avvocati che assistono tutte le parti.
Gli avvocati sono mediatori di diritto.
La Comunità europea ha più volte ribadito che, in alcuni
casi, l'introduzione di procedure meramente facoltative di
Adr potrebbe non raggiungere gli obiettivi preposti di
deflazionare il numero dei processi e di ridurre i tempi e i
costi della giustizia e che le procedure alternative
obbligatorie non sono pregiudizievoli per l'accesso alla
giustizia e possono servire a diffondere la cultura della
mediazione, purché siano a basso costo e di breve durata.
Con le modifiche apportate al decreto si riducono
ulteriormente sia i tempi, sia i costi della mediazione, nei
casi in cui questa sia obbligatoria. Una ripresa e uno
sviluppo delle procedure Adr è necessario al nostro «Sistema
Paese», soprattutto in un momento di grave crisi economica.
La mediazione ha dimostrato di alleggerire il carico delle
controversie nei tribunali e di essere una fonte di
risparmio per cittadini ed imprese, in quanto i costi della
giustizia sono di gran lunga più onerosi.
Del resto non si può più pensare che il processo sia l'unico
strumento adatto a risolvere i conflitti. Qui in Italia è,
forse, quello maggiormente conosciuto ma è anche quello più
dispendioso, sia in termini economici che in termini di pace
sociale.
Il prof. Frank Sander, dell'università di Harvard,
conosciuto come il pioniere della mediazione, nel 1976 a
Minneapolis durante i lavori della Pound Conference, la
«Conferenza nazionale sulle cause dell'insoddisfazione
popolare nei confronti dell'amministrazione della
giustizia», introdusse il concetto ormai divenuto celebre
della multi-door Courthouse. Rispetto a una crescente
domanda di giustizia, la risposta non può essere solo il
processo e soprattutto non è detto che sia sempre quella
adeguata.
Lo sviluppo delle procedure stragiudiziali, la mediazione e
anche altri sistemi permettono al cittadino e all'impresa di
scegliere quale sia lo strumento maggiormente adatto alla
risoluzione del conflitto e anche di comprendere che molti
conflitti possono essere risolti dalle parti, adeguatamente
supportate dal mediatore, in piena autonomia e senza la
necessità di ricorrere a giudizi esterni.
Le procedure conciliative esplicano spesso i loro migliori
effetti quando le parti hanno interesse a salvaguardare la
relazione, continuare la partnership, affrontare e risolvere
i conflitti emotivi, decidere insieme la sorte della
controversia, generando soluzioni creative ed alternative.
Il mediatore è un conflict manager, una persona in grado di
permettere alle parti di vivere il conflitto come un momento
di confronto, durante il quale uscire dal proprio personale
sequestro emotivo e rivivere e ridisegnare il rapporto con
l'altro; una opportunità per esplorare nuove soluzioni alle
quali non si era pensato in precedenza. Il mediatore deve
essere in grado di supportare e aiutare le parti a vivere
questo cambiamento e le sue abilità e competenze proprio in
questa ottica devono valutarsi.
Per svolgere il proprio compito deve formarsi adeguatamente
soprattutto nelle discipline che gli consentano di aiutare
le parti a muoversi nel conflitto, e a comprendere gli
altrui punti di vista: i modelli di tecniche di mediazione,
gli approcci e le diverse teorie negoziali, le tecniche di
accoglimento delle emozioni, le tecniche di riconoscimento
ed eliminazione delle distorsioni cognitive, i modelli di
comunicazione, le teorie comportamentali. Durante i corsi
base e di aggiornamento si incontrano tantissimi
professionisti desiderosi di acquisire e sviluppare queste
specifiche competenze.
Molti sono gli avvocati che frequentano assiduamente questi
corsi perché consapevoli che l'essere stati per tanti anni
legali di parte nei processi ha contribuito a sedimentare
una preparazione e una competenza assolutamente adeguata per
svolgere la propria funzione all'interno delle aule di
tribunale ma, molto spesso, abbastanza distante da quella
richiesta al mediatore.
Pensare a qualcosa di diverso significa continuare a
confondere e a sovrapporre dei metodi di risoluzione delle
controversie, quali il processo e la mediazione, molto
diversi tra loro e per i quali sono necessarie competenze
differenti.
Nonostante la norma ora preveda il titolo di mediatore di
diritto per gli avvocati, siamo sicuri che questi ultimi,
che sempre dimostrano un naturale desiderio a essere
preparati e competenti in quello che fanno, continueranno a
seguire i corsi base e i corsi di aggiornamento, come del
resto stabilisce il loro codice deontologico, proprio perché
la formazione indispensabile al mediatore si identifica solo
in minima parte con la formazione giuridico-legale.
Escludere l'obbligo formativo per qualcuno avrebbe come
effetto quello di creare all'interno della stessa categoria
dei professionisti che si formano e dei professionisti che
scelgono di non farlo, con il rischio di un abbassamento
della qualità dei servizi di mediazione. Le ore di
formazione andrebbero semmai aumentate ed incentivate. Un
corso base di sole 50 ore non è sufficiente. E non lo è per
nessuno.
In tempi brevi il decreto dovrà essere convertito in legge e
diversi emendamenti sono stati discussi e approvati dalle
varie Commissioni preposte (Commissione giustizia,
Commissioni riunite affari costituzionali e Bilancio,
Finanza).
Alcuni, quelli che prevedono la completa gratuità
dell'incontro di programmazione in caso di mancato accordo
non sono condivisibili. In questo incontro iniziale il
mediatore mette in atto in pieno la propria prestazione
professionale, perché è l'unico modo che ha per verificare
l'esistenza di margini di trattativa.
Prevedere la completa gratuità in caso di mancato accordo
vuol dire chiedere di svolgere una prestazione senza
compenso e non tenere conto degli enormi sforzi economici
che gli organismi privati, il personale di questi e i
mediatori, sostengono per assicurare un servizio di
mediazione efficiente e di elevata qualità. Inoltre
significherebbe rischiare di svuotare completamente del suo
contenuto la norma sulla obbligatorietà, che da alcuni
potrebbe essere facilmente aggirata.
Al contrario è opportuno prevedere regimi sanzionatori
ancora più forti per i soggetti che senza giustificato
motivo decidessero di non partecipare all'incontro di
mediazione rendendo più oneroso il proseguimento in
giudizio, così come accade in molti paesi stranieri.
Auspicare e supportare un radicamento di questo istituto
vuol dire avere a cuore gli interessi generali del Paese. I
dottori commercialisti e gli esperti contabili ci credono da
sempre perché la mediazione ha dimostrato di esser uno
strumento in grado di far risparmiare i cittadini e le
imprese ed anche di costituire una affascinante opportunità
di lavoro soprattutto per i più giovani. Proprio questa sua
capacità di ridurre l'onerosità del sistema giustizia da un
lato e creare possibilità di lavoro, soprattutto per i più
giovani, ha spinto i dottori commercialisti a costituire la
Fondazione Adr commercialisti che nasce da una precisa
volontà di coordinare l'impegno della categoria in materia
stragiudiziale e in particolare nella mediazione civile e
che ieri ha tenuto in Roma la sua 2ª convention.
Riteniamo utile, come indicato in alcuni emendamenti,
allargare l'area delle controversie soggette a condizione di
procedibilità a quelle riconducibili alle controversie
commerciali e a quelle interne delle società, associazioni
ed enti associativi in genere.
La mediazione civile è una metodologia stragiudiziale che ha
il suo principio fondamentale nell'autonomia delle parti e
nella capacità delle stesse di individuare, negoziare e
scegliere quali sono le migliori soluzioni per la propria
controversia. Prevedere che solo l'accordo firmato dagli
avvocati possa essere omologato e quindi diventare titolo
esecutivo vuol dire costringere le parti ad avere in ogni
caso una «difesa legale» con il conseguente aggravio di
costi che potrebbe derivarne.
Quindi sarebbe opportuno ritornare alla previgente
formulazione in base alla quale l'accordo poteva essere reso
esecutivo attraverso l'omologa del presidente del tribunale,
lasciando in questo modo le parti libere di farsi assistere
da un legale o meno, e prevedendo eventualmente la
possibilità che l'accordo diventi immediatamente esecutivo
(senza ulteriore omologa) se firmato dai legali di tutte le
parti, e (perché no?) se firmato dai dottori commercialisti,
consulenti di parte per le materie di competenza,
valorizzando in questo modo il ruolo dei professionisti
dell'intero comparto giuridico-economico, senza ledere al
contempo l'autonomia delle parti. L'associazione auspica che
il Parlamento approvi quegli emendamenti che rafforzano
l'istituto a favore del cittadino
(articolo ItaliaOggi del 19.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Con la Scia indennizzi ko.
Senza provvedimento niente ristoro da ritardo.
Per il momento solo le imprese possono chiedere i
danni alla p.a. lumaca.
Niente indennizzo da ritardo per i procedimenti concernenti
le attività produttive soggetti alla Segnalazione
certificata di inizio attività (Scia).
L'articolo 28 del dl 69/2013 (cosiddetto decreto del fare)
ha introdotto, con moltissime limitazioni al proprio campo
applicativo, l'indennizzo per sanzionare il ritardo con il
quale le pubbliche amministrazioni attendono ai propri
doveri.
Nella prima fase di attuazione della norma, dichiaratamente
«sperimentale», essa si applica proprio «ai procedimenti
amministrativi relativi all'avvio e all'esercizio
dell'attività di impresa», quelli, cioè, nei quali la
puntualità dell'azione amministrativa appare particolarmente
determinante, in quanto sono in ballo investimenti
economici.
Una grandissima fetta, tuttavia, dei procedimenti
amministrativi connessi all'avvio di attività
imprenditoriali è regolata dall'articolo 19 della legge
241/1990, a mente del quale «ogni atto di autorizzazione,
licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta
comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni
in albi o ruoli richieste per l'esercizio di attività
imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio
dipenda esclusivamente dall'accertamento di requisiti e
presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a
contenuto generale, e non sia previsto alcun limite o
contingente complessivo o specifici strumenti di
programmazione settoriale per il rilascio degli atti stessi,
è sostituito da una segnalazione dell'interessato, con la
sola esclusione dei casi in cui sussistano vincoli
ambientali, paesaggistici o culturali e degli atti
rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa
nazionale, alla pubblica sicurezza, all'immigrazione,
all'asilo, alla cittadinanza, all'amministrazione della
giustizia, all'amministrazione delle finanze, ivi compresi
gli atti concernenti le reti di acquisizione del gettito,
anche derivante dal gioco, nonché di quelli previsti dalla
normativa per le costruzioni in zone sismiche e di quelli
imposti dalla normativa comunitaria».
In questi casi, l'attività imprenditoriale «può essere
iniziata dalla data della presentazione della segnalazione
all'amministrazione competente».
Dunque, come concorda ormai la giurisprudenza amministrativa
maggioritaria, non si forma alcun provvedimento
amministrativo ad opera dell'amministrazione. La Scia è un
titolo di abilitazione all'esercizio di un'attività
imprenditoriale che viene formato direttamente dal privato,
nell'esercizio della propria autonomia di diritto privato.
La pubblica amministrazione può intervenire solo dopo alla
formazione di tale titolo, mediante poteri inibitori o
prescrittivi.
Quindi, la vastissima gamma di attività produttive che si
avviano con la Scia non ricade nel campo di applicazione
dell'indennizzo da ritardo, per la semplice ragione che non
è materialmente e giuridicamente possibile si formi ritardo
alcuno, da parte dell'amministrazione. Mancano due
fondamentali presupposti: la presentazione di un'istanza e
la formazione di un provvedimento amministrativo (articolo ItaliaOggi del 19.07.2013). |
ENTI LOCALI:
Statali, multe tutte ai comuni.
Il ministero: proventi da non ripartire.
Gli importi delle multe accertate dai vigili con l'autovelox
sulle strade statali non vanno ripartiti ma spettano
integralmente agli enti locali. Trattandosi infatti di
strade in concessione salta in questo caso la regola della
ripartizione a metà dei proventi tra organo accertatore ed
ente proprietario della strada.
Lo ha chiarito il ministero dei trasporti con il parere
n. 2144/2013. La vicenda dei proventi autovelox è
indecifrabile perché dopo una complessa discussione
parlamentare la tanto decantata riforma introdotta con la
legge 120/2010 per contrastare l'abuso dei controlli
municipali si è arenata, sia per la mancanza dei
provvedimenti attuativi sia per alcuni errori di sostanza.
Questo ha scatenato polemiche che alla fine sono confluite
nel comma 16 dell'art. 4-ter del dl 16/2012, inserito in
sede di conversione dalla legge n. 44/2012. Questo
provvedimento ha inciso in maniera grossolana sulla delicata
questione.
In pratica la novella ha introdotto un automatismo
specificando che anche in mancanza del decreto necessario ai
sensi dell'art. 25 della legge 120/2010 per avviare il
complesso meccanismo della ripartizione dei proventi il
meccanismo anti abusi entrerà comunque in vigore.
Formalmente quindi dal 1° gennaio è in vigore la novella che
prevede la ripartizione a metà dei proventi autovelox tra
organo accertatore ed ente proprietario della strada.
Ma alle ragionerie degli enti locali manca ancora di
comprendere come dovranno provvedere allo storno dei
proventi ovvero se al netto delle spese e con quale
tempistica. Resta intanto sul tappeto il nodo delle strade
statali. Per affrancare dal meccanismo della ripartizione le
autostrade il frettoloso legislatore ha specificato che la
ripartizione a metà delle multe tra ente proprietario della
strada ed organo accertatore non riguarda le strade in
concessione. E quindi neanche tutte le strade statali in
concessione all'Anas.
Il ministero specifica quindi che in base alla formulazione
letterale dell'art. 142/12-bis del codice stradale non
scatta nessuna divisione a metà dei proventi delle multe
autovelox accertate su strade statali. Tutto il bottino
resta nelle tasche dell'organo accertatore
(articolo ItaliaOggi del 19.07.2013). |
ENTI LOCALI:
Vigili, veicoli a uso vincolato.
Occorre l'annotazione sul libretto.
Immatricolare un veicolo della polizia municipale per uso
generico può comportare pesanti responsabilità in caso di
incidente. L'uso del mezzo per la consueta attività di
polizia stradale dei vigili richiede infatti una specifica
annotazione sul libretto. Diversamente la compagnia
assicurativa potrà esercitare azione di rivalsa contro il
comune.
Lo ha chiarito il broker Acros con la nota 05.06.2013 inviata a un comune veronese.
La questione
dell'immatricolazione dei mezzi dei vigili, delle targhe
speciali e della patente di servizio non agevola l'attività
dei comuni stante le continue perplessità operative. L'art.
93 del codice prevede già da tempo l'immatricolazione dei
veicoli della pm ad un eventuale uso esclusivo dei servizi
di polizia stradale ma solo con il dm 209/2006 sono state
individuate le caratteristiche delle targhe speciali.
Per
quanto riguarda la patente di servizio dei vigili con il
decreto 246/2004 il Viminale ha recepito l'istituto
introdotto con la riforma della patente a punti. Questa
novella, oltre a specializzare ulteriormente gli operatori
della polizia locale, doveva consentire agli stessi di
usufruire, al pari degli altri organi di vigilanza, di una
duplice idoneità alla guida riconducibile da un lato al
ruolo professionale e dall'altro a quello privato.
Ma le
cose si sono complicate con alcuni recenti pareri
ministeriali secondo cui «i veicoli in dotazione ai corpi o
servizi di polizia locale che risultino adibiti
esclusivamente alle attività di polizia stradale e muniti di
targa speciale di immatricolazione rilasciata ai sensi del
dm 27.04.2006, n. 209, possono essere condotti (solo)
dai soggetti titolari di patente di servizio rilasciata ai
sensi degli articoli 3, comma 1 e 10, comma 2, del decreto
11.08.2004, n. 246».
A gettare ulteriore scompiglio il parere del broker
assicurativo in commento. I mezzi del comune possono essere
usati dai vigili solo se immatricolati ad uso esclusivo
polizia. In pratica se un mezzo della polizia locale è
immatricolato ad uso proprio in caso di incidente a parere
del broker la compagnia assicurativa potrebbe esercitare
diritto di rivalsa per uso diverso del mezzo
(articolo ItaliaOggi del 19.07.2013). |
APPALTI: Appalti,
spunta il «Durt» nella responsabilità solidale.
Fondo di garanzia esteso ai professionisti. Tetto anche agli
stipendi dei dirigenti dei servizi pubblici locali.
INFRASTRUTTURE/ Anticipazioni del 10% alle imprese
appaltatrici. Opere «di riserva» già individuate qualora non
si sblocchino gli investimenti prioritari.
Maratona notturna per il via libera al decreto del fare
nelle commissioni Affari costituzionali e Bilancio della
Camera. Una giornata piena di tensioni, con diversi punti di
divergenza con il Governo, sancisce l'approdo del testo in
Aula in ritardo rispetto alle previsioni. C'è in campo
l'ipotesi fiducia, ma Francesco Boccia, presidente della
Bilancio e relatore insieme a Francesco Paolo Sisto (Pdl),
considera possibile la discussione se ci sarà accordo sul
presentare non più di 100 emendamenti.
È stata una seduta convulsa, come ha dimostrato un
emendamento sul Parco geominerario della Sardegna, non
approvato, sul quale il Governo è stato battuto in una fase
di confusione dei lavori. Caos su un emendamento M5S sulla
responsabilità solidale negli appalti, approvato con parere
positivo del governo, che istituisce il Durt (Documento
unico di regolarità tributaria), da acquisire per via
telematica da un portale dell'Agenzia delle entrate. Secondo
le imprese anziché semplificare la norma potrebbe
rappresentare una complicazione. «La norma sarà comunque
migliorata» rassicura Boccia, probabilmente al Senato.
Tra le novità, arriva con un emendamento dei relatori
concordato con il viceministro all'Economia Stefano Fassina
l'estensione del Fondo di garanzia anche ai professionisti,
nel limite massimo di assorbimento delle risorse del fondo
non superiore al 5%. Quanto alla polizza per i
professionisti, il rinvio dovrebbe riguardare solo i medici.
In arrivo 150 milioni per la «riqualificazione e messa in
sicurezza» degli edifici scolastici. Compromesso sugli
incentivi all'energia rinnovabile da bioliquidi: regime di «phasing
out» per i produttori che accettano di uscire gradualmente
dal regime delle agevolazioni. Arriva una norma che agevola
fiscalmente le emittenti tv locali che hanno ricevuto fondi
a titolo risarcitorio per liberare frequenze.
Sempre con emendamento dei relatori, viene previsto un
comitato interministeriale per la spending review ed è
definito l'incarico del commissario straordinario che dovrà
presentare un piano entro 20 giorni dalla nomina. Il
commissario potrà restare in carica al massimo tre anni e
sarà il suo compito sarà tutt'altro che gratuito: percepirà
150mila euro quest'anno, 300mila euro nel 2014 e 2015 e
200mila nel 2016. Si dispone poi la semplificazione delle
procedure per il trasferimento di immobili dello Stato, a
titolo non oneroso, a Comuni, Province, Città metropolitane
e Regioni.
Per gli appalti pubblici affidati con gare bandite dopo la
conversione in legge del Dl, è prevista in favore
dell'appaltatore una anticipazione pari al 10% dell'importo
contrattuale. Il tetto agli stipendi ai manager, oggi
previsto per le società non quotate controllate dalla Pa,
viene esteso anche alle società dei servizi pubblici locali.
Sulle infrastrutture vengono individuate alcune opere di
riserva, prevalentemente in Piemonte, nel caso in cui quelle
già individuate e finanziate dal decreto per non partano
entro il 2013. Spunta anche una norma che consentirà al
Poligrafico dello Stato di gestire il progetto del documento
unificato. Scatta poi il piano del commissario di governo
Francesco Caio per accelerare l'Agenda digitale con il
«sistema pubblico per la gestione dell'identità digitale».
Stop per due anni allo sversamento di rifiuti speciali e
rifiuti urbani pericolosi da altre Regioni verso la
Campania.
Confermato (si veda Il Sole 24 Ore di ieri) lo stop
all'incompatibilità tra le cariche di parlamentare e di
sindaco di Comune superiore ai 5mila abitanti: la misura
scatterà solo con le prossime amministrative. Tra gli
emendamenti dei gruppi approvati, ci sono l'estensione di un
anno a Regioni e Comuni per recedere dai contratti di
affitto e la stretta sulle spese per le auto blu e i buoni
taxi non si applicherà alle società pubbliche quotate, in
pratica Eni, Enel, Finmeccanica e loro controllate. Viene
"ripescata" Arcus, la spa del Ministero dei Beni culturali
soppressa dalla spending review del Governo Monti. Via
libera a un Programma nazionale per il sostegno degli
studenti capaci e meritevoli a partire dal 2014 con borse di
studio suddiviso per le lauree e i dottorati di ricerca.
Tornando a Caio e all'Agenda digitale, per superare i
clamorosi ritardi finora accumulati nell'attuazione, verrà
semplificata la natura dei regolamenti previsti dal decreto
crescita bis e non ancora emanati. Approvato un Programma
nazionale per il sostegno degli studenti capaci e meritevoli
a partire dal 2014, suddiviso per le lauree, le lauree
magistrali e i dottorati di ricerca. Le borse di studio
verranno versate in una prima rata semestrale al momento
dell'iscrizione all'università e in una seconda rata
semestrale il primo marzo dell'anno successivo
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.07.2013). |
APPALTI: Il Durc? Un diritto.
Decreto in G.U. risponde alle
difficoltà delle imprese.
Il Documento unico di regolarità contributiva va rilasciato
anche a quelle aziende che possono provare, con apposita
certificazione, di essere creditrici nei confronti della
pubblica amministrazione per importi almeno pari agli oneri
contributivi accertati e non ancora versati.
È stato
pubblicato infatti sulla Gazzetta Ufficiale n. 165 di ieri
il decreto del ministero dell'economia (di concerto con
quello del lavoro) del 13.03.2013 con il quale si
stabiliscono le apposite modalità di rilascio del Durc.
Di conseguenza, gli enti tenuti al rilascio del documento,
su richiesta del soggetto titolare dei crediti certificati
che non abbia provveduto al versamento dei contributi
previdenziali, assistenziali ed assicurativi nei termini
previsti, dovranno emettere il Durc precisando l'importo del
relativo debito contributivo e gli estremi della
certificazione esibita per il rilascio del documento
medesimo.
Nell'ipotesi di utilizzo del Durc per ottenere il
pagamento da parte di pubbliche amministrazioni degli stati
di avanzamento lavori o delle prestazioni relative a servizi
e forniture, si applica il dpr 207/2010 che prevede
l'intervento sostitutivo della stazione appaltante in caso
di inadempienza contributiva dell'esecutore. Al fine di
assicurare l'assenza di effetti negativi sui saldi di
finanza pubblica, l'intervento sostitutivo si applica alle
erogazioni a carico di pubbliche amministrazioni.
La
certificazione esibita per il rilascio del Durc può essere
utilizzata per la compensazione di somme iscritte a ruolo,
ai sensi dell'art. 28-quater del decreto del presidente
della repubblica 29.09.1973, n. 602, secondo le modalità
previste dal decreto del 25.06.2012 e successive
modificazioni, ovvero per la cessione o anticipazione del
credito presso banche o intermediari finanziari. Qualora
l'importo riconosciuto da una banca o da un intermediario
finanziario al creditore risulti inferiore al debito
contributivo, la delegazione di pagamento si applica per
l'estinzione parziale del predetto debito contributivo
(articolo ItaliaOggi del 17.07.2013). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Durc, rilascio solo su Pec.
Dal 2 settembre stop all'emissione su carta.
Nota Cnce sul decreto Fare. Imprese obbligate a indicare la
e-mail.
Addio al Durc su carta. Dal 2 settembre casse edili, Inps e
Inail rilasceranno il documento unico di regolarità
contributiva esclusivamente per posta elettronica
certificata (pec) all'indirizzo indicato sulla richiesta.
Professionisti in prima linea; le imprese, infatti, anziché
il proprio, possono indicare l'indirizzo mail del
consulente.
Lo rende noto la Commissione nazionale per le
Casse edili (Cnce) nella
nota
15.07.2013 emessa ieri.
Decreto del Fare. La novità è figlia delle semplificazioni
al Durc introdotte dal dl n. 69/2013 (si veda ItaliaOggi del
18 giugno). Semplificazioni evidenziate dalla stessa Cnce
nella comunicazione n. 521/2013, in cui si precisa che
riguardano proprio il rilascio del documento di regolarità.
È stato confermato prima di tutto, spiega la Cnce, l'obbligo
per stazioni appaltanti ed enti aggiudicatori di acquisire
d'ufficio il Durc, in particolare ai fini del pagamento dei
lavori all'impresa affidataria e alle subappaltatrici.
È
stato confermato, inoltre, l'intervento sostitutivo di
stazioni appaltanti e altri enti aggiudicatori con il
pagamento diretto agli enti di previdenza e alla cassa edile
nei casi di Durc, richiesti per stati di avanzamento lavori,
che segnalino inadempienze contributive. Ancora, nel
ribadire che il Durc va richiesto d'ufficio in tutte le fasi
riguardanti lo svolgimento dell'appalto (verifica
autodichiarazione, aggiudicazione, stipula contratto, sal e
liquidazione finale), il decreto Fare ne ha fissata la
validità di 180 giorni dall'emissione e ne consente
l'utilizzo, nello stesso periodo, anche per finalità
diverse.
Secondo la Cnce la maggiore innovazione riguarda
l'obbligo per le stazioni appaltanti di acquisire il Durc,
dopo la stipula del contratto, ogni 180 giorni e di
utilizzarlo per pagare i sal che ricadono nel periodo di
validità di ciascun documento. La Cnce sottolinea, infine,
che il decreto Fare ha previsto, come modalità di invito
alla regolarizzazione, l'invio di una Pec all'impresa o al
suo consulente con l'indicazione analitica delle cause di
irregolarità.
Durc via Pec. E la Pec è inoltre individuata quale unico
canale per il rilascio del Durc. A tal fine dal 2 settembre
le richieste dovranno obbligatoriamente contenere
l'indirizzo Pec a cui recapitare il documento. La Cnce
precisa che l'obbligo riguarda le richieste non solo
presentate da stazioni appaltanti, enti aggiudicatori o Soa
ma anche quelle delle imprese, con la particolarità che a
queste ultime è data facoltà di indicare il loro indirizzo
Pec oppure quello del consulente. Sempre dal 2 settembre,
spiega ancora la Cnce, le casse edili e le sedi di Inps e
Inail recapiteranno i Durc esclusivamente tramite Pec, agli
indirizzi indicati dai richiedenti.
Infine, la Cnce
evidenzia che l'eventuale necessità di ritrasmettere il Durc,
ricevuto via Pec dall'impresa, a soggetti non tenuti
all'utilizzo di tale strumento (per esempio committenti
privati o amministrazioni di altri Paesi) è superata dalla
possibilità stampare il documento allegato alla mail
certificata. Infatti, l'apposizione sul Durc del cosiddetto
«glifo» (è il contrassegno generato elettronicamente),
consente di assicurare la provenienza e la conformità
all'originale del documento cartaceo
(articolo ItaliaOggi del 16.07.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: «Pa».
Deliberazione della Civit. Enti locali, piano trasparenza a
gennaio 2014.
Tutte le amministrazioni pubbliche, compresi gli enti
locali, sono tenute ad approvare entro il 31.01.2014 il
piano per la trasparenza, termine che è stato spostato
rispetto a quello inizialmente fissato per il prossimo 20
luglio.
È questa la prima indicazione di rilievo contenuta nella
delibera 04.07.2013 n. 50
della Civit «Linee guida per l'aggiornamento del
Programma triennale per la trasparenza e l'integrità
2014/2016».
Il documento è aggiornato alle novità introdotte dal Dlgs
33/2013. Nelle more della adozione del piano, ogni
amministrazione deve comunque dare corso alla pubblicazione
sul proprio sito internet delle informazioni minime imposte
da tale provvedimento. Viene ricordato che l'obbligo di
istituzione della sezione "amministrazione trasparente"
è dettato anche per le società controllate relativamente
alle attività di pubblico interesse.
Il termine di approvazione del piano della trasparenza è
stato spostato in quanto strettamente connesso con il piano
anticorruzione, di cui costituisce di regola una sezione,
nonché con il piano delle performance. Alla base di questo
rinvio la mancanza del piano nazionale anticorruzione
(solamente nei giorni scorsi la Funzione pubblica ha
licenziato la proposta che dovrà essere approvata dalla
Civit) e delle linee guida per la lotta alla corruzione da
parte di regioni ed enti locali (che devono essere adottate
dalla Conferenza unificata). Non viene invece rinviato il
monitoraggio sul rispetto degli obblighi di trasparenza che
sarà comunque effettuato in ogni ente entro la fine del 2013
da parte degli Oiv e i cui esiti dovranno essere comunicati
alla stessa Civit. Regioni ed enti locali, nell'adozione del
piano della trasparenza, dovranno tenere conto delle linee
guida che saranno elaborate dalla Conferenza unificata.
Ogni Pa si deve dare un responsabile della trasparenza, che
di regola coincide con quello per la prevenzione della
corruzione. Il suo compito essenziale è garantire il
rispetto degli obblighi di pubblicità dettati dal
legislatore e dei vincoli dettati dal piano della
trasparenza. Egli deve inoltre garantire il cosiddetto
accesso civico, cioè il diritto dei privati di avere tutte
le informazioni che devono essere pubblicate sul sito.
Il piano della trasparenza deve indicare le misure
attraverso cui dare attuazione a questi nuovi vincoli. Può
prevedere referenti nei singoli uffici delle amministrazioni
complesse e indica le procedure di monitoraggio. Esso deve
inoltre contenere gli obiettivi strategici che si vogliono
conseguire in tema di trasparenza, le modalità di
coinvolgimento delle strutture e dei soggetti esterni
portatori di interessi.
E ancora, vanno disciplinate le iniziative e gli strumenti
di comunicazione per la diffusione dei contenuti del
Programma e dei dati pubblicati, nonché l'organizzazione e i
risultati attesi delle Giornate della trasparenza che ogni
Pa deve realizzare per favorire il controllo diffuso. Nel
piano vanno infine indicati i dati ulteriori rispetto a
quelli minimi fissati dal legislatore che ogni
amministrazione decide di pubblicare (articolo
Il Sole 24 Ore del 16.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Certificatori, partono i corsi.
Dal 12 luglio formazione doc per gli attestati energetici.
In vigore il dpr n. 75/2013 che
definisce requisiti professionali e procedure per
l'abilitazione
Definiti i requisiti professionali e le procedure per
diventare tecnico abilitato alla certificazione energetica
degli edifici e rilasciare il nuovo attestato di prestazione
energetica (Ape). I tecnici dal 12 luglio devono frequentare
specifici corsi di formazione per la certificazione
energetica della durata minima di 64 ore, al fine di
ottenere un attestato di frequenza. I corsi sono tenuti, a
livello nazionale, da università, enti di ricerca, ordini e
collegi professionali, a livello regionale dalle regioni e
province autonome e da altri soggetti autorizzati dalle
regioni.
Questo è quanto prevede il dpr 16.04.2013 n. 75
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 27.06.2103 n.
149 .
Il regolamento è composto di 7 articoli e di un allegato, ed
è entrato in vigore il 12 luglio. L'emanazione del
regolamento è funzionale alla piena attuazione della
direttiva 2002/91/Ce, e in particolare dell'articolo 7,
visto che la Commissione europea già il 18.10.2006 ha
avviato la procedura di messa in mora nei confronti
dell'Italia, ai sensi dell'articolo 226 del Trattato Ce
(procedura di infrazione 2006/2378). Con questo regolamento
si completa il quadro della normativa nazionale in materia
di certificazione energetica degli edifici e si definisce la
figura del certificatore energetico.
Soggetti abilitati. Il regolamento (dpr n. 75/2013) consente
di svolgere l'attività di certificazione energetica ai
tecnici abilitati, che possono operare o da soli (come
liberi professionisti o associati) o alle dipendenze di:
- enti pubblici e gli organismi di diritto pubblico che
operano nel settore dell'energia e dell'edilizia;
- organismi pubblici e privati d'ispezione nel settore delle
costruzioni edili, delle opere di ingegneria civile e di
impiantistica, accreditati presso l'organismo nazionale o un
suo equivalente europeo;
- società di servizi energetici (Esco).
Possono svolgere l'attività di certificatore i tecnici
laureati in ingegneria, architettura, agraria e scienze
forestali oppure quelli con diploma industriale, di
geometra, o di perito agrario.
Corsi di formazione. I tecnici devono partecipare a
specifici corsi di formazione, i cui contenuti minimi sono
illustrati nell'allegato 1 al dpr n. 75/2013. I corsi sono
tenuti, a livello nazionale, da università, enti di ricerca,
ordini e collegi professionali, e sono autorizzati dal MiSe
di intesa con il ministero delle infrastrutture e il
ministero dell'ambiente. A livello regionale i corsi sono
tenuti, dalle regioni e province autonome e da altri
soggetti autorizzati dalle regioni.
Non sono tenuti a partecipare ai corsi di formazione i
tecnici iscritti al proprio albo o collegio e in possesso di
abilitazione professionale relativa alla progettazione di
edifici e impianti asserviti agli edifici stessi,
nell'ambito delle specifiche competenze a esso attribuite
dalla legislazione vigente.
Indipendenza dei certificatori. Per assicurare la loro
indipendenza, i certificatori devono dichiarare nell'Ape
l'assenza di conflitto di interessi con i progettisti, i
costruttori e i produttori di materiali coinvolti nella
costruzione/ristrutturazione dell'edificio certificato. Il
requisito di terzietà deve essere garantito anche rispetto
ai vantaggi che possono derivare dai rapporti col
committente che, in ogni caso, non potrà essere né un
coniuge né un parente fino al quarto grado (articolo ItaliaOggi
Sette del 15.07.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Pneumatici, su l'ecocontributo.
Dal 20 luglio più costose le gomme per auto e moto.
Il ministero dell'ambiente ritocca gli
oneri per i consumatori per la gestione dei futuri rifiuti.
Più caro dal 20.07.2013 l'eco-contributo che gli
acquirenti di auto e moto nuove dovranno pagare ai
rivenditori per la copertura dei costi di gestione degli
pneumatici in dotazione una volta giunti a fine vita. Con il
nuovo decreto direttoriale del 03.07.2013 il Minambiente
ha infatti previsto un aumento (rispettivamente) del 13 e
del 20% circa degli oneri verdi per gli pneumatici di
autoveicoli e ciclomotori rispetto al 2012, lasciando invece
sostanzialmente invariati quelli per macchine agricole ed
industriali e prevedendo altresì una modesta diminuzione
(intorno all'1,5%) per quelli relativi ad autobus e camion.
Il nuovo provvedimento adottato in attuazione del dm 82/2011
(e pubblicato sul sito istituzionale www.minambiente.it)
sancisce così il passaggio (al netto di Iva) del contributo
istituito dal dlgs 152/2006 (c.d. «Codice ambientale») da
5,25 a 5,40 per le auto e da 1,30 ad 1,53 euro per le moto,
laddove per autocarri e bus impone invece il passaggio
dall'attuale «range» 27/49,85 euro (in base al peso del
mezzo) alla nuova gamma 26,97/48,79.
La gestione dei Pfu. Finalità del contributo è, come
accennato, il finanziamento del sistema di gestione degli
pneumatici divenuti rifiuti (tecnicamente «pneumatici fuori
uso», da cui il noto acronimo «Pfu»), sistema disegnato dal
dlgs 152/2006 e volto ad ottimizzarne il recupero. In base
all'articolo 228 del dlgs 152/2006, infatti, produttori e
importatori di pneumatici devono provvedere in forma singola
o associata alla gestione su base annuale di un quantitativo
potenziale di pneumatici fuori uso pari a quello delle nuove
gomme dagli stessi soggetti immesso sul mercato nazionale
nell'analogo arco temporale.
Il finanziamento di tale gestione è poi dallo stesso «Codice
ambientale» posto a carico degli acquirenti finali, sia di
soli pneumatici che di vetture che li hanno in dotazione,
secondo il meccanismo previsto dai decreti ministeriali
82/2011 e 20.01.2012 (emanati in attuazione del dlgs
152/2006).
Mentre la riscossione è unica (e a cura del rivenditore del
bene, che la indica in fattura) diversa è invece la
destinazione del contributo: in caso di acquisto di soli
pneumatici, esso è dal rivenditore direttamente versato al
sistema di gestione dei Pfu al quale aderisce; in caso di
acquisto di nuova vettura (con gomme) esso viene invece
versato allo speciale fondo istituito presso l'Aci
(Automobile Club d'Italia) per poi passare ai gestori che
raccolgono gli pneumatici fuori uso presso gli
autodemolitori. L'ammontare del contributo da pagare è
ufficializzato annualmente dal Minambiente tramite propri
decreti direttoriali, decreti nell'ambito dei quali si
inserisce ora il nuovo ed omonimo provvedimento 03.07.2013 (in vigore dal 20 luglio, ossia 15 giorni dopo la sua
pubblicazione sul citato sito web, avvenuta il 5).
Pneumatici usati e Pfu. Nodale nella catena di gestione
degli pneumatici a fine vita, sia per le responsabilità
degli operatori che per il loro diritto al relativo e citato
compenso, è la corretta individuazione della differenza tra
gomme che costituiscono giuridicamente dei «rifiuti»
(dunque: Pfu) e gomme che, invece, rifiuti non sono.
A chiarire il confine tra le due categorie ha di recente
provveduto la Corte di cassazione. Con due sentenze del
giugno 2012 (la 25207/2012 e la 25385/2012) la Suprema corte
ha infatti indicato i criteri (alternativi) che determinano
l'attribuzione dello status di rifiuto ad uno pneumatico,
ossia: l'essere la gomma tenuta in stato di abbandono
(indifferentemente dalle sue condizioni qualitative);
oppure, sebbene non tenuta in stato di abbandono, l'essere
lo stesso pneumatico in condizioni tali da non poter più
essere riutilizzabile (né tal quale, né tramite
ricostruzione).
Alla base dei principi sanciti dal giudice
di legittimità due norme cardine del dlgs 152/2006, ossia:
la definizione generale di «rifiuto» recata dall'articolo
183, comma 1, lettera a), dello stesso Codice (a mente del
quale è tale «qualsiasi sostanza od oggetto di cui il
detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di
disfarsi», dunque anche uno pneumatico); l'inclusione, in
seguito alla riforma operata dalla legge 179/2002, dei soli
«pneumatici fuori uso» nell'elenco dei rifiuti allegato al
Codice in parola (sotto la voce «16.01.03»), in luogo della
più generale categoria degli «pneumatici usati»
precedentemente presente, fatto indicante, ad avviso della
Corte, la fuoriuscita dal novero dei rifiuti, sempre che non
si versino in stato di abbandono, degli pneumatici
riutilizzabili, tal quali od a seguito di ricostruzione (articolo ItaliaOggi
Sette del 15.07.2013). |
CONDOMINIO:
Nuovi paletti ai condizionatori.
Da rispettare decoro, utilizzo della facciata, immissioni.
Slalom tra i divieti per
l'installazione. Limiti dai regolamenti di condominio e
comunali.
Condominio e condizionatori: un matrimonio difficile ma non
impossibile. Con l'arrivo della stagione calda capita spesso
di dover affrontare problemi legati all'installazione dei
condizionatori nel rispetto della normativa condominiale e
della quiete dei propri vicini.
Vediamo di elencare, in
estrema sintesi, quelli più ricorrenti.
Le problematiche connesse all'installazione dei
condizionatori in facciata.
Il primo genere di difficoltà sorgono in relazione
all'utilizzo della facciata dell'edificio condominiale per
l'installazione del relativo impianto. A questo proposito si
ricorda come la legge di riforma del condominio (n. 220/12),
in vigore dallo scorso 18 giugno, abbia inserito a pieno
titolo la stessa nella più ampia categoria delle parti
comuni di proprietà di tutti i condomini. L'installazione in
facciata del corpo motore del condizionatore in genere non
crea particolari problemi di statica e sicurezza, ma può
creare questioni in tema di estetica dell'edificio.
Si
ripropone, allora, l'annosa questione dell'impatto visivo
che il manufatto può avere sul decoro dello stabile. Tale
problema, però, non riguarda solo la parte esterna
dell'edificio condominiale, ma può interessare anche altre
parti comuni. Così, recentemente, due condomini sono stato
condannati a rimuovere i motori di due condizionatori (e
tutti i manufatti di sostegno) sistemati nell'androne del
fabbricato (Cassazione, sentenza del 13.05.2013, n.
11386). Secondo i giudici supremi, infatti, la destinazione
dell'androne non è solo quella del libero transito
dall'esterno verso il cortile interno del comprensorio, ma
anche quella di conferire e preservare il decoro
all'ingresso medesimo, a prescindere dalle condizioni
estetiche e di manutenzione dell'immobile.
Il concetto di decoro architettonico. Il decoro
architettonico consiste nell'estetica data dall'insieme
delle linee e delle strutture ornamentali che caratterizzano
l'edificio e imprimono al medesimo una determinata
fisionomia: si tratta quindi di un bene comune il cui
mantenimento è tutelato a prescindere dalla validità
estetica delle modifiche che si intendono apportare.
È
necessario sottolineare che si deve parlare di decoro
architettonico non solo in relazione a edifici di
particolare pregio, ma anche in relazione a costruzioni
popolari che, comunque, hanno una loro linea, che può quindi
essere danneggiata da opere che la modifichino, anche quando
le stesse siano state eseguite per assicurare particolari
utilità per l'uso o godimento delle unità immobiliari di
proprietà esclusiva dei singoli condomini. In ogni caso
l'alterazione del decoro ben può correlarsi alla
realizzazione di opere che, pur se minime, vadano a mutare
l'originario aspetto anche soltanto di singoli elementi o
punti del fabbricato.
Quando i condizionatori compromettono il decoro. Alla luce
di quanto sopra risulta evidente che un condomino può
certamente installare in facciata un condizionatore di
piccole dimensioni che, come tale, non vada a stravolgere
l'armonia del caseggiato, soprattutto se, per colore e
posizione, sia destinato a essere poco visibile. Al
contrario, se un condomino installa un motore del
condizionatore di mastodontiche dimensioni, su una parte
esterna dell'edificio e nelle immediate vicinanze di alcune
finestre, si determina un'alterazione del decoro
architettonico e, di conseguenza, un deprezzamento
dell'intero fabbricato che il giudice può liberamente
quantificare senza bisogno di particolare motivazione.
Questo principio vale anche in caso di installazione
effettuata sulla facciata interna dell'edificio e
indipendentemente dal fatto che siano già presenti in
facciata opere e manufatti oppure altri condizionatori, pur
di minori dimensioni, o contatori del gas con relative
tubazioni: tali circostanze, secondo i giudici, quand'anche
arrechino un pregiudizio all'estetica dell'edificio, non per
questo legittimano l'ulteriore aggravio che il
condizionatore di considerevoli dimensioni di per sé provoca
al decoro dell'immobile.
Il problema delle immissioni. Per l'installazione dei
condizionatori non è richiesto il rispetto delle norme di
legge in tema di distanze: il manufatto può occupare parte
del muro perimetrale della proprietà del vicino o essere
sistemato in adiacenza della proprietà del condomino
limitrofo. Tuttavia l'impianto non può comportare immissioni
intollerabili in direzione della proprietà dei vicini (cioè
si deve evitare la fuoriuscita rilevante di vapore o acqua
calda o la produzione di rumori insopportabili).
Per quanto
riguarda il rumore i giudici hanno precisato che eccedono la
normale tollerabilità le immissioni sonore che superino di
tre decibel la c.d. rumorosità di fondo, intesa come il
complesso dei rumori di origine varia (spesso non
esattamente individuabili) presenti nel contesto ambientale
in esame. Accertata l'intollerabilità delle immissioni da
rumore proveniente dalle macchine di condizionamento
dell'aria, ai danneggiati spetta il risarcimento del danno
in relazione al periodo nel quale la situazione di disagio
sia perdurata.
Quando addirittura si può commettere un reato. Non è raro
che scatti anche la condanna penale nei confronti di coloro
che installano condizionatori rumorosi nelle proprie
abitazioni o nei luoghi delle rispettive attività
professionali. Si parla, in questi casi, di disturbo alla
quiete delle persone che abitano alloggi limitrofi, anche
nel caso in cui a lamentarsi dei rumori sia soltanto uno dei
nuclei familiari residenti nel condominio.
A stabilirlo è
stata la Corte di cassazione, che con la recente sentenza n.
28874/2013 ha convalidato la somministrazione di 200 euro di
multa ai danni del gestore di un centro commerciale
responsabile di aver montato dei condizionatori le emissioni
dei quali erano percepite fino al quarto piano del
condominio sovrastante. In questo caso l'imprenditore è
stato condannato anche a risarcire i danni morali subiti dai
condomini del quarto piano che precedentemente lo aveva
denunciato, contattando altresì un tecnico dell'Arpa per
misurare i decibel fastidiosi.
I limiti all'installazione: il regolamento
di condominio e quello comunale.
Se una norma del regolamento di condominio vieta
espressamente l'installazione di condizionatori in facciata
il singolo condomino non può che attenersi a tale
disposizione che, però, è valida solo se è contenuta in un
regolamento predisposto dal costruttore del caseggiato (c.d.
contrattuale) ed è stata accettata dai singoli acquirenti
degli appartamenti negli atti di acquisto oppure deliberata
dalla totalità dei condomini.
Questo significa che in tali casi il singolo condomino non
può installare un condizionatore in facciata nemmeno se è
stato autorizzato dall'assemblea con una delibera approvata
a maggioranza. In ogni caso, prima di installare un impianto
sul muro condominiale, è importante verificare anche che non
siano previste limitazioni nei regolamenti comunali: questi
ultimi, infatti, possono prevedere, ad esempio, il divieto
di installare condizionatori sulle pareti esterne degli
edifici del centro storico (articolo ItaliaOggi
Sette del 15.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Controlli di efficienza energetica meno frequenti.
Le nuove regole in materia di esercizio, conduzione,
controllo, manutenzione e ispezione degli impianti termici
disposte dal dpr n. 74/2013, pubblicato sulla G.U. n. 149
del 27.06.2013 ed entrato in vigore lo scorso 12 luglio,
riguardano anche gli impianti per la climatizzazione estiva
degli edifici.
Tra le principali novità del regolamento si
segnalano la minore frequenza dei controlli di efficienza
energetica sugli impianti, che passa a due o quattro anni a
seconda della tipologia e della potenza dell'impianto.
Sono state quindi stabilite delle temperature minime negli
edifici in caso di climatizzazione estiva. Durante il
funzionamento degli impianti per la climatizzazione estiva
sono stati infatti fissati i valori minimi della
temperatura, espressi in media ponderata, di 26°C–2°C di
tolleranza per tutti gli edifici. In particolari condizioni
o per specifiche categorie di edifici sono però previste
deroghe al rispetto di tali limiti.
Le attività di esercizio, conduzione, controllo,
manutenzione e ispezione degli impianti per la
climatizzazione, nonché il rispetto delle disposizioni di
legge in materia di efficienza energetica, sicurezza e
tutela dell'ambiente, sono affidate al responsabile
dell'impianto, che può delegarle a un terzo (il c.d. terzo
responsabile). Le regioni e le province autonome sono state
chiamate a istituire un catasto territoriale degli impianti
termici e a gestirlo favorendone la connessione con quello
relativo agli attestati di prestazione energetica.
Sono state quindi confermate le sanzioni previste
dall'articolo 15 del dlgs n. 192/2005: una sanzione
pecuniaria compresa tra 500 e 3 mila euro a carico di
proprietario, conduttore, amministratore di condominio o
terzo responsabile che non provvedano alle operazioni di
controllo e di manutenzione e una sanzione compresa tra
mille e sei mila euro a carico dell'operatore incaricato che
non provveda a redigere e sottoscrivere il rapporto di
controllo tecnico dell'impianto (articolo ItaliaOggi Sette
del 15.07.2013). |
VARI:
Bonus mobili, corsa a ostacoli.
I tre momenti più critici: date di acquisto, scelta
dell'arredo e pagamento.
Per il bonus mobili si prospetta un percorso ricco di
insidie. Chi in queste ore sta valutando la convenienza
della detrazione fiscale del 50% per un massimo di 10mila
euro di spese deve prestare molta attenzione a date e
adempimenti per non perdere il diritto allo sconto fiscale.
Non c'è infatti solo la condizione di legare il rinnovo
dell'arredamento a lavori di ristrutturazione che a loro
volta beneficiano della detrazione per ottenere la
restituzione di metà della spesa in dieci anni.
Il primo accorgimento riguarda le date. I dubbi si sono
chiariti solo in questi giorni con il passaggio del decreto
(Dl 63/2013) all'esame del Parlamento. In Senato infatti è
stato inserito un emendamento all'articolo 16 che
chiaramente fissa la partenza del bonus-mobili alle spese
«documentate e sostenute dalla data di entrata in vigore del
presente decreto». Il provvedimento è entrato in vigore il 6
giugno scorso. Non c'è spazio quindi per eventuali
interpretazioni estensive e retroattive.
La data chiave del 6 giugno riguarda le spese sostenute per
l'acquisto dei mobili. Discorso diverso è quello delle date
dei lavori di ristrutturazione edilizia. In questo caso le
certezze sono minori: se infatti non c'è dubbio che la
detrazione per l'arredamento e gli elettrodomestici valga
per lavori ancora in corso alla fatidica data del 6 giugno
scorso, più incerta resta la possibilità di usufruirne per
lavori ultimati, con tanto di comunicazione di fine lavori,
magari lo scorso anno. In questo caso, prima di contare
sullo "sconto" sarebbe meglio attendere le istruzioni
dell'Agenzia delle entrate, visto che su questo aspetto non
ci sono precedenti.
I pagamenti
Dopo il comunicato stampa dell'Agenzia delle entrate del 4
luglio scorso è chiaro che l'unico mezzo di pagamento
accettato è il bonifico bancario o postale, che sul genere
di quelli già richiesti per le ristrutturazioni edilizie
deve essere "parlante" e quindi riportare:
- la causale del versamento attualmente utilizzata dalle
banche e da Poste italiane;
- il codice fiscale del beneficiario della detrazione;
- il numero di partita Iva ovvero il codice fiscale del
soggetto a favore del quale il bonifico è effettuato.
L'esigenza del bonifico rischia di scoraggiare qualche
contribuente. Al momento infatti il pagamento di mobili ed
elettrodomestici avviene in contanti, con assegni o con il
ricorso a finanziamenti agevolati offerti dalle finanziarie.
E se mentre appare possibile cambiare rotta e passare
dall'assegno al bonifico, soprattutto per acquisti rilevanti
non in pronta consegna, diventa molto più impervio servirsi
dell'acquisto tramite finanziaria, con successivo pagamento
a rate. Sia perché occorre cambiare le procedure della
società finanziatrice (oggi basate sopratutto su Rid e
domiciliazione bancaria), sia perché non c'è coincidenza tra
il beneficiario del bonifico (la finanziaria) e l'emittente
della fattura (il rivenditore di mobili). Anche su questo
punto diventano urgenti i chiarimenti del Fisco.
Quali mobili
Il Senato ha già esteso la detrazione ai «grandi
elettrodomestici di classe non inferiore alla A+». Per
individuarli può aiutare (in attesa di specifici
chiarimenti) il dossier del servizio studi della Camera,
secondo cui si considerano tali comunemente: «frigorifero,
lavatrice, congelatore, lavastoviglie, lavasciuga, forno» (articolo Il Sole 24
Ore del 15.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Riqualificazione. Strumento alternativo all'esproprio per
acquisire spazi pubblici senza costi
Milano scambia le aree urbane.
Via alla perequazione con il Registro comunale delle
cessioni.
Milano mette in pratica la perequazione urbanistica. Il
capoluogo lombardo, infatti ha istituito il Registro delle
cessioni (delibera di giunta n. 890 del 10.05.2013). Non
esiste una legge nazionale sulla perequazione, ma l'istituto
ha già modificato i criteri di pianificazione ed è ora
pronto ad entrare nella prassi delle trasformazioni edilizie
delle nostre città.
La perequazione è quella tecnica di pianificazione
(espressamente recepita dall'ordinamento mediante il Dl
70/2011 che ha modificato l'articolo 2643 del codice civile)
che prevede una ripartizione equa dei vantaggi e degli
svantaggi derivanti dalla pianificazione territoriale. In
assenza di una disciplina nazionale, la perequazione viene
declinata dalle singole Regioni attraverso disposizioni tra
loro non del tutto omogenee (si vedano la scheda e
l'articolo in basso).
Le modalità
La città di Milano mediante il Pgt (Piano di governo del
territorio) ha introdotto e si accinge ad attuare una
peculiare forma di perequazione urbanistica su base diffusa.
Il Comune ha assegnato a tutte le aree della città costruita
e consolidata un indice di «Utilizzazione territoriale
unico», pari a 0,35 metro quadrato/metro quadrato e, al
contempo, un indice di utilizzazione territoriale massimo,
pari a un metro quadrato/metro quadrato. La differenza tra i
due valori potrà essere raggiunta sfruttando diverse forme
di premialità, tra le quali, prima tra tutte, la
perequazione urbanistica. Ciò non significa che sia
possibile costruire ovunque. La perequazione milanese è,
infatti, finalizzata all'acquisizione da parte del Comune
delle aree da destinare a servizi e attrezzature pubbliche,
classificate come «pertinenze indirette» e anche definite
come aree di «decollo» dei diritti volumetrici. I diritti
edificatori attribuiti a tali aree non potranno essere
utilizzati in loco e il relativo sfruttamento implica, anzi,
la cessione gratuita delle stesse al Comune (ove occorra
previa bonifica).
I diritti edificatori così "decollati" potranno essere
collocati sull'intero territorio comunale edificabile e, in
particolare, nelle aree di «atterraggio», che non sviluppino
già l'indice massimo pari a 1 metro quadrato/metro quadrato.
E qui sta il limite della previsione del Pgt che nella
sostanza non consente di densificare le zone già edificate
della città, che sviluppano indici ben superiori a questa
soglia.
Per dare concreto avvio alla forme di perequazione, il
Comune di Milano ha dunque approvato i criteri e gli
indirizzi per il Registro delle cessioni.
Il sistema di registrazione deve, tra l'altro, indicare le
aree di decollo, le aree di atterraggio, le quantità di
diritti edificatori generati e il successivo trasferimento e
sfruttamento, con i connessi dati catastali e dati
proprietari. La registrazione avviene d'ufficio o su
richiesta dell'interessato. Il Registro è tenuto dal
responsabile del servizio gestione pianificazione generale
che, al momento dell'annotazione, rilascia al proprietario
un certificato attestante il numero progressivo di
annotazione, l'entità dei diritti edificatori e gli estremi
dell'atto dal quale derivano i diritti.
Del registro è prevista la libera consultazione anche su
Internet.
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A fare la differenza sono indici e spostamenti all'interno
del piano.
Sono tre i modelli sui diritti edificatori.
La perequazione urbanistica include in sé una grande varietà
di modelli di pianificazione. Il modello più diffuso e da
più tempo utilizzato è quello della perequazione interna al
singolo comparto unitario oggetto di trasformazione
urbanistica.
La perequazione di comparto prevede che le trasformazioni
soggette a piano attuativo vengano realizzate sulla base di
un progetto unitario che assicuri un'equa ripartizione dei
diritti e degli oneri tra i proprietari delle singole aree
incluse nel perimetro dell'ambito, indipendentemente dalle
specifiche destinazioni d'uso. In questo modello, la
capacità edificatoria non viene quindi attribuita alle
specifiche aree ma all'intero ambito. Questa tipologia trova
riconoscimento in diverse normative regionali (Lombardia,
Campania, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e
altre). Discende dall'esperienza sui comparti edificatori
della legge urbanistica nazionale e costituisce una modalità
di attuazione ampiamente e positivamente sperimentata
sull'intero territorio nazionale.
Altro modello, simile, è quello della perequazione «punto a
punto». Lo strumento urbanistico generale utilizza questa
tecnica individuando, contestualmente, un'area di origine
dei diritti edificatori (area di "decollo") e un'area
specifica, in altra zona del territorio comunale, in cui i
diritti edificatori devono essere ubicati (area di
"atterraggio"). I diritti edificatori attribuiti all'area di
decollo non possono essere utilizzati in loco e, ai fini del
relativo sfruttamento, occorre anzi la cessione gratuita
dell'area al Comune. Questa tecnica è presente in numerosi
strumenti urbanistici (in particolare in Lombardia e in
Veneto).
Un ulteriore modello è, infine, quello della perequazione
"diffusa", che si fonda sulla attribuzione di un indice di
edificabilità uniforme su tutto il territorio comunale, che
generi volumetrie commerciabili e trasferibili su diverse
aree di atterraggio, non puntualmente identificate, al fine
dell'acquisizione da parte del Comune delle aree da
destinare a servizi pubblici. Questo modello è espressamente
declinato nella Legge urbanistica della Regione Lombardia.
Il sistema richiede l'istituzione di un Registro comunale
delle cessioni e comporta un distacco tra i diritti
edificatori (liberamente trasferibili e commerciabili) e il
bene immobile che li ha generati.
Un simile modello è stato adottato a Milano (si veda
l'articolo in alto). La tecnica perequativa in questione è
astrattamente valida, ma in concreto risulta efficace solo
in presenza di un mercato immobiliare vivace e dinamico,
condizione che certo non è ad oggi presente.
I mercati però sono mutevoli e gli strumenti urbanistici
sono destinati a durare nel tempo.
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La trascrizione. Stesso iter degli immobili.
Per il passaggio serve l'atto scritto.
È stato finalmente risolto il dilemma della qualificazione
dei diritti edificatori e cioè il tema di stabilire se la
potenzialità edificatoria spettante a una data area, in base
agli strumenti urbanistici, fosse possibile oggetto di
contrattazione e se, quindi, la "capacità volumetrica" di un
dato fondo fosse trasferibile ad altro fondo (o,
addirittura, potesse essere distaccata da un fondo e
rimanere "in volo", e cioè in attesa di essere impressa su
un altro fondo, quello sul quale la cubatura assume la
concretezza degli edifici che ne sono il risultato).
Infatti, con l'articolo 5, comma 3, del Dl 70/2011, è stata
introdotta nel codice civile (all'articolo 2643, n. 2-bis)
la previsione della trascrivibilità nei registri immobiliari
dei «contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano
diritti edificatori comunque denominati, previsti da
normative statali o regionali, ovvero da strumenti di
pianificazione territoriale».
Con l'introduzione di questa norma, non c'è più dubbio che:
- i diritti edificatori siano un possibile oggetto di un
contratto traslativo (ad esempio: di una compravendita, ma
anche di una donazione, di una permuta, di un conferimento
in società, eccetera);
- una volta "prelevata" una volumetria da una data area, si
possa dare pubblicità nei registri immobiliari al fatto che
questo fondo "di decollo" è stato privato di una certa
quantità di volumetria; così come, reciprocamente, al fatto
che, una volta che si sia impressa una certa volumetria sul
fondo "di atterraggio", la pubblicità immobiliare possa dar
conto del suo avvenuto incremento volumetrico;
- i diritti edificatori staccati da un fondo possano sia
essere immediatamente aggregati a un altro fondo sia
rimanere "in volo", e cioè immagazzinati nel patrimonio del
soggetto che li abbia acquistati, in attesa di essere da
costui ceduti ad altro acquirente oppure in attesa di essere
impressi sul fondo che sia destinato al materiale
sfruttamento della capacità edificatoria prelevata dal fondo
"di decollo".
Non pare più esservi dubbio anche sulla natura dei diritti
edificatori, dalla cui identificazione discendono una
pluralità di rilevanti conseguenze applicative (ad esempio,
la normativa contrattuale applicabile, il trattamento
tributario, eccetera). In sintesi, rendendo i diritti
edificatori possibile oggetto di contratti con i quali i
diritti si «trasferiscono, costituiscono o modificano» e
disponendo la trascrizione di questi contratti nei registri
immobiliari, è assai difficile, d'ora innanzi, accedere a
tesi che (come talora è avvenuto in passato) sostengano la
loro natura non immobiliare.
Il contratto che dispone il trasferimento dei diritti, al
pari di quello relativo a bene immobile, va redatto per
iscritto, a pena di nullità, e deve contenere tutte le
caratteristiche dei contratti che hanno effetti reali
immobiliari: ad esempio, occorre allegare, sempre a pena di
nullità, il certificato di destinazione urbanistica.
La fiscalità di questi contratti è quella applicabile agli
atti traslativi di aree edificabili: e pertanto, si tratta
di contratti soggetti a Iva (se il cedente è un'impresa)
oppure, se il cedente è un privato, occorre procedere
all'applicazione delle imposte di registro, ipotecaria e
catastale con l'aliquota complessiva dell'11 per cento; ma
anche con la possibilità di avvalersi di norme agevolative,
come quella che dispone l'imposta di registro all'1% per il
trasferimento di aree in piani particolareggiati di edilizia
residenziale (articolo Il Sole 24
Ore del 15.07.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Il tempo per la divisa è nell'orario di lavoro.
Cassazione. Solo il contratto può
derogare.
Il tempo impiegato dai dipendenti per indossare la divisa o
gli indumenti di lavoro deve essere considerato interno
all'orario di lavoro.
Questo principio si applica sia nelle Pubbliche
amministrazioni sia nelle aziende private e può essere
derogato solamente in presenza di specifiche clausole del
contratto nazionale, oppure se il datore di lavoro lascia un
ampio margine di autonomia ai lavoratori.
Possono essere riassunte in questi termini le principali
indicazioni contenute nella sentenza n. 11828/2013 della Corte di
Cassazione, Sez. lavoro.
La pronuncia contiene il seguente principio di diritto: «Il
tempo occorrente per la vestizione e la svestizione degli
indumenti di lavoro rientra nell'orario di lavoro effettivo,
e deve essere retribuito come tale, ove dette operazioni,
con apposita disciplina del momento e del luogo di
esecuzione, siano imposte dal datore di lavoro, mentre non
deve essere retribuito ove la scelta di momento e luogo sia
lasciata al lavoratore».
Ecco la chiave interpretativa per distinguere se questo
tempo debba essere considerato interno o meno all'orario di
lavoro: «Ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il
tempo e il luogo ove indossare la divisa o gli indumenti
(anche eventualmente presso la propria abitazione, prima di
recarsi al lavoro), la relativa operazione fa parte degli
atti di diligenza preparatoria allo svolgimento
dell'attività lavorativa, e come tale il tempo necessario
per il suo compimento non deve essere retribuito. Se,
invece, le modalità esecutive di detta operazione sono
imposte dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed
il luogo di esecuzione, l'operazione stessa rientra nel
lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa
necessario deve essere retribuito».
La sentenza evidenzia infine che queste indicazioni sono
perfettamente coerenti con la definizione di orario di
lavoro dettata dal Dlgs 66/2003 e dalle indicazioni
comunitarie: l'orario di lavoro è «qualsiasi periodo in
cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore
di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue
funzioni» (articolo Il Sole 24
Ore del 15.07.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Per i ritardi della Pa rimborsi con il freno.
Il rispetto del termine per la conclusione dei procedimenti
amministrativi e i ritardi nell'emanazione degli atti è un
problema annoso che negli ultimi tempi è diventato quasi
un'ossessione del legislatore. Anche il recentissimo decreto
del "fare" (n. 69/2013) introduce un nuovo rimedio:
l'indennizzo automatico di 30 euro per ogni giorno di
ritardo fino a un massimo di duemila euro.
Come valutare questa iniziativa?
Anzitutto bisogna ricordare che la prevedibilità dei tempi
delle decisioni delle amministrazioni è un principio di
civiltà e di efficienza. Consente infatti la programmazione
delle attività dei privati che per esempio chiedono il
permesso a costruire o un'autorizzazione necessaria per
avviare un'attività economica. Oltre vent'anni fa la legge
sulla trasparenza amministrativa (n. 241/1990) introdusse un
sistema per stabilire per ciascun tipo di procedimento un
termine certo. Ma subito si pose un problema: che succede se
l'ufficio non lo rispetta?
Le conseguenze inasprite da leggi recenti sono di più tipi:
responsabilità disciplinare del funzionario negligente; nei
casi più gravi responsabilità penale per il reato di rifiuto
o omissione di atti d'ufficio (articolo 428 del Codice
penale); intervento sostitutivo del superiore gerarchico
sollecitato dall'interessato; ricorso al giudice
amministrativo contro il cosiddetto "silenzio" della
Pubblica amministrazione per ottenere il provvedimento
richiesto anche attraverso la nomina da parte del giudice di
un commissario ad acta; risarcimento per il danno da
ritardo.
Anche la legge anticorruzione (n. 190/2012) prevede che il
responsabile della prevenzione della nominato in ciascuna
amministrazione debba monitorare il rispetto dei termini
procedimentali. I ritardi costituiscono infatti uno dei
fattori che promuovono atti corruttivi volti a "oliare" gli
ingranaggi burocratici.
Il decreto del fare aggiunge ora l'indennizzo automatico
(articolo 29), riprendendo una proposta avanzata già negli
anni Novanta del secolo scorso (legge 59/1997).
Anzitutto il nuovo rimedio è introdotto per ora solo in via
sperimentale. Vale infatti solo per i procedimenti che
riguardano le imprese e tra 18 mesi si stabilirà se
confermarlo, rimodularlo o abbandonarlo.
In secondo luogo, il diritto all'indennizzo sorge a due
condizioni: che l'interessato abbia richiesto al superiore
gerarchico entro un termine perentorio di sette giorni un
intervento sostitutivo; che anche il superiore gerarchico
non rispetti il termine previsto per l'esercizio del potere
sostitutivo.
Viene meno così l'automatismo visto che si presuppone
comunque una reazione dell'interessato.
Infine, il decreto del fare prevede alcune norme processuali
per agevolare la liquidazione dell'indennizzo e l'invio
delle sentenze di condanna alla Corte dei conti affinché
questa possa recuperare il danno erariale.
Con queste cautele e limitazioni è probabile che neppure il
sistema dell'indennizzo sia risolutivo. Infatti, quasi mai
l'interessato "osa" sollecitare il potere sostitutivo. In
ogni caso, specie nei casi di iniziative economiche
ritardate dalle lungaggini burocratiche, 30 euro al giorno
rappresentano una magra consolazione
(articolo Il Sole 24 Ore del
15.07.2013). |
ENTI LOCALI:
Partecipate. Per i municipi fino a 30mila abitanti vale la
scadenza del 30 settembre.
Società strumentali, un rinvio solo a metà.
La proroga non ha cambiato i termini per le dismissioni di
tutte le aziende.
Il decreto «del fare» ha rinviato i termini per dismettere
le società strumentali come imposto dalla spending review
dello scorso anno, ma lo slittamento opera in pieno solo nei
Comuni con più di 30mila abitanti. Per la stragrande
maggioranza dei Comuni (7.787 su 8.092) che non raggiungono
questa cifra, il rinvio opera solo a metà, perché entro il
30 settembre scatta l'obbligo di liquidazione delle società
o di dismissione delle partecipazioni previsto dall'articolo
14, comma 32, del Dl 78/2010.
L'ennesimo intreccio normativo sul travagliato mondo delle
partecipate, insomma, fa inciampare ancora una volta i piani
del legislatore, alle prese ormai con un affastellarsi di
regole praticamente ingestibile. Proviamo a fare ordine.
Il Dl 95/2012 ha imposto la privatizzazione entro il 30
giugno scorso o lo scioglimento entro il 31 dicembre
prossimo delle società controllate che nel 2011 hanno
raccolto almeno il 90% del fatturato dalla Pa. Il Dl 69/2013
(articolo 49, comma 1), constatata l'ovvia difficoltà
applicativa (denunciata su questo giornale fin dall'anno
scorso) ha introdotto la consueta soluzione del rinvio,
allineando al 31 dicembre i termini per la privatizzazione e
lo scioglimento, e facendo decorrere dal 01.07.2014
l'assegnazione del servizio alla società privatizzata per 5
anni.
Il solito escamotage non ha però fatto i conti con
l'articolo 14, comma 32, del Dl 78/2010, cioè la norma che
vieta ai Comuni fino a 30mila abitanti di avere società e ne
consente solo una agli enti che contano fra 30.001 e 50mila
abitanti. Nemmeno questa norma ha evitato il consueto tran
tran di rinvii, con il solito corredo di inciampi e
interventi scoordinati. Nella sua formulazione attuale, la
stop alle partecipazioni nei Comuni fino a 30mila abitanti
scatta al 30 settembre prossimo (articolo 29, comma 11-bis,
della legge 14/2012), e dal momento che non effettua
distinzioni di sorta riguarda sia le società di servizi
pubblici locali sia le aziende strumentali. Nei Comuni fino
a 30mila abitanti, dunque, queste ultime si vedono di fatto
prolungare il calendario di soli tre mesi, dal 30 giugno al
30 settembre.
In questa chiave, allora, torna utile ricordare le due
deroghe agli obblighi di dismissione previsti dalla stessa
manovra del 2010: la chiusura in utile dei bilanci degli
ultimi tre anni, il superamento del limite dimensionale
grazie a più Comuni soci.
Diverso, e ancor più intricato, il caso dei Comuni che
contano fra 30.001 e 50mila abitanti. L'articolo 29, comma
11-bis della legge 14/2012, ha spostato di nove mesi solo il
termine riferito alle società dei comuni con meno di 30mila
abitanti, in quanto fa riferimento alla precedente
disposizione di modifica del comma 32 (articolo 16, comma 27,
della legge 148/2011), che riguarda appunto solo la prima
parte della disposizione, e non i Comuni fra 30mila e 50mila
abitanti. Per loro, quindi, sarebbe rimasta inalterata la
scadenza del 31.12.2012 introdotta dall'articolo 2,
comma 43, della legge 10/2011.
Tuttavia su questo punto alcune sezioni regionali della
Corte dei Conti hanno individuato la scadenza sulla base di
un'interpretazione sistemica, che spostando tutti i termini
originari di 9 mesi porta la loro scadenza al 30.09.2014 (sezione regionale Lombardia, delibera 66/2013/PAR).
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Le date
30/9 -
La scadenza generale
Entro questa data i Comuni fino a 30mila abitanti devono
dismettere le loro partecipazioni, sia quelle in società di
servizi pubblici locali sia quelle in aziende strumentali.
Possibile derogare solo nel caso in cui gli ultimi tre
bilanci della società siano stati chiusi in utile
31/12 -
I termini per le strumentali
A questa data è stato rinviato dal Dl del «Fare» (articolo
49, comma 1, del Dl 69/2013) il termine per l'alienazione
delle società strumentali, che era stato fissato al 30
giugno dal Dl 95/2012. Il rinvio a fine dicembre, però, nei
fatti opera solo per i Comuni sopra i 30mila abitanti.
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Razionalizzazione. Negli enti fra 30mila e 50mila abitanti.
La creazione della holding non dribbla gli obblighi.
La costituzione di holding non consente agli enti locali di
dribblare gli obblighi di liquidazione delle società
partecipate e di razionalizzazione degli altri organismi
(fondazioni, aziende speciali, istituzioni).
Le norme sullo scioglimento delle società (articolo 14,
comma 32, del Dl 78/2010 e articolo 4 del DL 95/2012), oltre
a quelle che disciplinano il riordino degli altri organismi
(articolo 9 del Dl 95/2012) sono state oggetto di numerose
richieste di parere ai magistrati contabili.
Per la «salvaguardia della finanza pubblica» è stata
esclusa, per i Comuni fra 30mila e 50mila abitanti, la
possibilità di fare ricorso a una holding per fondere in
un'unica società del Comune tutte le partecipazioni
esistenti.
È stato infatti evidenziato (sezione regionale di controllo
Umbria, delibera 117/2013/PAR) che i profili strutturali
della holding fanno emergere la sua oggettiva inidoneità a
ridurre ad unità le società che funzionalmente si collegano
in essa, con riferimento ad ogni settore del diritto:
tributario (Cassazione, sezioni Unite, n. 472/1964),
giuslavorista (Cassazione, sezione Lavoro, n. 3869/1982) e/o
fallimentare (Cassazione, sezione I, n. 4550/1992). Una
pronunzia che si pone in termini più critici rispetto a
precedenti valutazioni (Corte dei Conti Lombardia, delibera
1/2012/PAR e Piemonte delibera n. 44/2013/PAR), che hanno
focalizzato l'attenzione sulle criticità derivanti dal
possibile utilizzo della holding a fini elusivi del Patto.
La linea di massima afferenza al Codice civile (seppure con
qualche valutazione contraddittoria) si è avuta in numerose
analisi sulla trasformazione di società in aziende speciali,
nelle quali la Corte dei conti del Lazio (delibere n.
2/2013/PAR e n. 84/2013/PAR) ha ammesso questa possibilità,
mentre quella del Veneto l'ha negata (delibera n.
127/2013/PAR), non individuando l'organismo tra quelli
riportati nell'articolo 2500-septies del Codice civile, che
disciplina la trasformazione eterogenea. Le analisi sui
profili applicativi delle norme sullo scioglimento delle
partecipate hanno determinato interpretazioni particolari, a
fronte anche delle criticità insite nelle stesse norme.
In relazione all'articolo 4 del Dl 95/2012, dopo
l'eliminazione nel comma 8 del parametro di valore riferito
agli affidamenti in house di servizi strumentali (200mila
euro, abrogato dall'articolo 34, comma 27, del Dl 179/2012)
gli enti si sono trovati di fronte a una previsione di
deroga alla disciplina dello scioglimento che si è aggiunta
a quelle previste nel comma 3 (che riguarda, ad esempio, le
società che gestiscono banche dati strategiche). Queste
società, anche se evitano gli obblighi di dismissione, non
possono però sottrarsi ai vincoli previsti dalle altre parti
dell'articolo 4, che impongono limiti ai cda (comma 4),
limiti al turn-over e ai contratti a tempo determinato
(commi 9-10) e blocco dei trattamenti economici (comma 11).
A chiarirlo è stata la Corte dei conti, sezione di controllo
Lombardia, nella delibera 233/2013/PAR
(articolo Il Sole 24 Ore del
15.07.2013). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Non
può essere opposto il decorso del termine decadenziale a
colui che non poteva comunque continuare o avviare
l'edificazione per fatti estranei alla sua volontà.
Se ordinariamente la decadenza disciplinata dall'art. 15
D.P.R. n. 380/2001 consegue all'inerzia dell'interessato,
questa deve essere esclusa se venga rappresentata la
sussistenza di fatti impedienti che possano giustificare
l’interruzione dei termini, e questi fatti siano oggetto di
valutazione e verifica in sede amministrativa.
Tale situazione deve poi essere considerata in modo del
tutto peculiare quando si tratti di ragioni di vera e
propria forza maggiore. In tale prospettiva la natura
forzosamente estranea alla sfera del controllo del titolare
del titolo abilitativo a costruire fa ritenere che il
termine per l'ultimazione delle opere non possa decorrere.
In quanto ipotesi di "causa di forza maggiore",
l'interessato non può -e quindi non deve neanche-
preoccuparsi di procedere alla richiesta di proroga. Il
tempo necessario per l'esecuzione delle opere in tali casi è
automaticamente prolungato in misura proporzionale al tempo
necessario a rimuovere l’impedimento.
La giurisprudenza ha concordemente ritenuto che è
illegittimo il provvedimento dell'Amministrazione comunale
di declaratoria di decadenza della concessione edilizia
allorché sussistano impedimenti assoluti all'esecuzione dei
lavori segnalati o comunque conosciuti all'Amministrazione e
l'impedimento non sia riferibile alla condotta del
concessionario, per cui è tale da costituire quella causa di
forza maggiore che sospende il decorso dei termini previsti
dall'art. 4, comma 4, l. 28.01.1977 n. 10.
Posto quindi che la scadenza del termine apposto
all'autorizzazione edilizia per l'avvio dei lavori non
determina, automaticamente, la cessazione di effetti del
provvedimento, ma costituisce soltanto il presupposto per
l'accertamento della eventuale decadenza dall'autorizzazione
edilizia, la Sezione non può che ribadire il proprio
precedente orientamento per cui le ipotesi di sospensione o
proroga connesse a forza maggiore o ad altre cause non
riferibili alla condotta del titolare della concessione,
quando assolutamente ostative dei lavori, producono
l'effetto di prolungare automaticamente il tempo massimo
stabilito per l'esecuzione delle opere.
Peraltro nella fattispecie non può trovare piena
applicazione la disposizione di cui al 2° comma dell’art. 15
del D.P.R. n. 380/2001, la quale contempla una decadenza “di
diritto” del permesso di costruire nell’ipotesi in cui i
termini per l’inizio e la conclusione dei lavori edili siano
decorsi e non ne sia stata chiesta la proroga anteriormente
alla scadenza. La norma opera nel caso di “fatti
sopravvenuti” estranei alla volontà del titolare del
permesso, che ostacolino le attività edificatorie. Nel caso
di specie gli impedimenti non sono stati determinati da
sopravvenienze, ma da circostanze di fatto preesistenti –la
presenza di condutture interrate nel suolo interessato dalle
opere realizzande- e sconosciute all’impresa prima
dell’avvio delle operazioni di scavo.
Vale, perciò, il principio generale dell’interruzione per
cause di forza maggiore dei termini volti ad effetti a
rilevanza giuridica, e non invece la predetta disposizione
restrittiva, la quale in caso di eventi sopravvenuti correla
l’effetto decadenziale sul titolo edilizio sia al decorso
dei termini sia all’assenza di richiesta di proroga
anteriormente ad esso. Norma peculiare che deroga al
generale principio dell’interruzione per forza maggiore e
che, per questa ragione e per le regole dell’interpretazione
legislativa, non può essere applicata oltre i casi
strettamente previsti.
Con permesso di costruire rilasciato il 17.06.2009 la Delta
Parcheggi s.r.l. è stata autorizzata a realizzare in via
Leonardi Cattolica, Roma, un’autorimessa interrata per gli
effetti di cui alla legge n. 122/1989.
Con nota del 24.07.2009 la società ha comunicato
all’Amministrazione di Roma Capitale l’avvio delle attività.
Durante l’esecuzione delle opere di sbancamento è stata
riscontrata dagli operai del cantiere la presenza di
condutture interrate per il passaggio del metano. La Delta
Parcheggi, pertanto, in data 02.08.2009 ha inoltrato
richiesta di spostamento dei condotti alla società
proprietaria, la ITALGAS. Le operazioni hanno richiesto
l’accordo con i proprietari dei suoli e la formalizzazione e
l’accettazione del preventivo di costo per le opere di
spostamento.
Gli interventi sono stati completati il 12.01.2010; ma
ripreso lo scavo è emersa l’esistenza di una conduttura
elettrica. È stato dunque richiesto l’intervento della
società proprietaria, l’ACEA, alla quale è stato sollecitato
lo spostamento dei cavi. I lavori di spostamento del
condotto elettrico sono stati ultimati il 19.07.2010.
Con nota n. prot. 5630 del 01.02.2011 la U.O. Permessi di
Costruire di Roma Capitale ha comunicato l’avvio del
procedimento per la dichiarazione di decadenza del titolo
edilizio, ai sensi dell’art. 15, comma 2, del D.P.R. n.
380/2001, giacché a seguito di verifiche in loco del
26.11.2010 e del 19.01.2011 è stata constatata l’assenza di
attività edilizia utile a definire l’inizio dei lavori quale
dies a quo per la decorrenza del termine annuale,
alla scadenza del quale il titolo edificatorio decade di
diritto in assenza di richiesta di proroga anteriormente
presentata.
Con i provvedimenti impugnati è stata pronunciata la
decadenza del permesso di costruire.
Il Collegio, come per fattispecie simili esaminate dalla
Sezione (cfr. TAR Lazio, II, 07.06.2010 n. 15939), ritiene
che non possa essere opposto il decorso del termine
decadenziale a colui che non poteva comunque continuare o
avviare l'edificazione per fatti estranei alla sua volontà.
Se ordinariamente la decadenza disciplinata dall'art. 15
D.P.R. n. 380/2001 consegue all'inerzia dell'interessato,
questa deve essere esclusa se venga rappresentata la
sussistenza di fatti impedienti che possano giustificare
l’interruzione dei termini, e questi fatti siano oggetto di
valutazione e verifica in sede amministrativa.
Tale situazione deve poi essere considerata in modo del
tutto peculiare quando si tratti di ragioni di vera e
propria forza maggiore. In tale prospettiva la natura
forzosamente estranea alla sfera del controllo del titolare
del titolo abilitativo a costruire fa ritenere che il
termine per l'ultimazione delle opere non possa decorrere.
In quanto ipotesi di "causa di forza maggiore",
l'interessato non può -e quindi non deve neanche-
preoccuparsi di procedere alla richiesta di proroga. Il
tempo necessario per l'esecuzione delle opere in tali casi è
automaticamente prolungato in misura proporzionale al tempo
necessario a rimuovere l’impedimento.
La giurisprudenza ha concordemente ritenuto che è
illegittimo il provvedimento dell'Amministrazione comunale
di declaratoria di decadenza della concessione edilizia
allorché sussistano impedimenti assoluti all'esecuzione dei
lavori segnalati o comunque conosciuti all'Amministrazione e
l'impedimento non sia riferibile alla condotta del
concessionario, per cui è tale da costituire quella causa di
forza maggiore che sospende il decorso dei termini previsti
dall'art. 4, comma 4, l. 28.01.1977 n. 10 (cfr. TAR Lazio
Roma, II, 15.04.2004 n. 3297; Cons. St., V, 29.01.2003 n.
453; TAR Liguria, I, 22.06.2007 n. 1200).
Posto quindi che la scadenza del termine apposto
all'autorizzazione edilizia per l'avvio dei lavori non
determina, automaticamente, la cessazione di effetti del
provvedimento, ma costituisce soltanto il presupposto per
l'accertamento della eventuale decadenza dall'autorizzazione
edilizia (cfr. Consiglio Stato, V, 18.09.2008 n. 4498), la
Sezione non può che ribadire il proprio precedente
orientamento per cui le ipotesi di sospensione o proroga
connesse a forza maggiore o ad altre cause non riferibili
alla condotta del titolare della concessione, quando
assolutamente ostative dei lavori, producono l'effetto di
prolungare automaticamente il tempo massimo stabilito per
l'esecuzione delle opere (cfr. TAR Lazio Roma, II,
24.11.2004 n. 13996; id., 07.06.2010 n. 15939 cit.).
Peraltro nella fattispecie non può trovare piena
applicazione la disposizione di cui al 2° comma dell’art. 15
del D.P.R. n. 380/2001, la quale contempla una decadenza “di
diritto” del permesso di costruire nell’ipotesi in cui i
termini per l’inizio e la conclusione dei lavori edili siano
decorsi e non ne sia stata chiesta la proroga anteriormente
alla scadenza. La norma opera nel caso di “fatti
sopravvenuti” estranei alla volontà del titolare del
permesso, che ostacolino le attività edificatorie. Nel caso
di specie gli impedimenti non sono stati determinati da
sopravvenienze, ma da circostanze di fatto preesistenti –la
presenza di condutture interrate nel suolo interessato dalle
opere realizzande- e sconosciute all’impresa prima
dell’avvio delle operazioni di scavo.
Vale, perciò, il principio generale dell’interruzione per
cause di forza maggiore dei termini volti ad effetti a
rilevanza giuridica, e non invece la predetta disposizione
restrittiva, la quale in caso di eventi sopravvenuti correla
l’effetto decadenziale sul titolo edilizio sia al decorso
dei termini sia all’assenza di richiesta di proroga
anteriormente ad esso. Norma peculiare che deroga al
generale principio dell’interruzione per forza maggiore e
che, per questa ragione e per le regole dell’interpretazione
legislativa, non può essere applicata oltre i casi
strettamente previsti.
Il provvedimento decadenziale del 31.03.2011, che non tiene
conto delle circostanze impeditive di forza maggiore
preesistenti, deve perciò essere annullato. Altresì deve
essere annullato il provvedimento del 31.08.2011, che, sotto
la specie del riesame disposto dal Giudice con l’ordinanza
n. 2497/2011, è invece atto di mera conferma del precedente,
né rinnova l’istruttoria già definita con le verifiche del
novembre 2010 e del gennaio 2011, sulla quale fonda il
provvedimento del 31.03.2011.
Non sussistono pregiudizi che possano essere oggetto di
risarcimento, anche considerato che i provvedimenti
cautelari di sospensione concessi dal TAR hanno consentito
il prosieguo delle attività edilizie
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 18.07.2013 n. 7256 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sussiste
l'inconfigurabilità di vizi di
difetto di motivazione con riferimento alla determinazione
della somma degli oneri di urbanizzazione, in quanto essa
risulta da un mero calcolo materiale da effettuarsi sulla
base di puntuali indicazioni normative, senza che in
proposito residui un margine di discrezionalità.
Non è pertanto configurabile a carico dell’amministrazione,
nella redazione di tali atti aventi natura paritetica, un
onere di specificare le ragioni della decisione adottata,
sicché l'interessato può solo contestare l'erroneità dei
conteggi effettuati dall'ente.
Orbene, sul punto deve richiamarsi la consolidata
giurisprudenza amministrativa in ordine alla
inconfigurabilità di vizi di difetto di motivazione con
riferimento alla determinazione della somma degli oneri di
urbanizzazione, in quanto essa risulta “da un mero
calcolo materiale da effettuarsi sulla base di puntuali
indicazioni normative, senza che in proposito residui un
margine di discrezionalità. Non è pertanto configurabile a
carico dell’amministrazione, nella redazione di tali atti
aventi natura paritetica, un onere di specificare le ragioni
della decisione adottata, sicché l'interessato può solo
contestare l'erroneità dei conteggi effettuati dall'ente”
(in tal senso, Tar Toscana, sez. III, 18.12.2001, n. 2037;
Tar Campania, Salerno, 21.07.2005, n. 1319; TAR Lazio, Sez.
II, 18.02.2005, n. 1410; TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
05.05.2004, n. 1620; TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 29.03.2000
n. 1911; TAR Puglia Bari, sez. III, 03.06.2009, n. 1376; TAR
Campania Napoli, sez. VIII, 17.09.2009, n. 4983)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 18.07.2013 n. 7228 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Disabili.
Va ampliata la possibilità di lasciare temporaneamente il
lavoro per assistere un familiare.
Congedo straordinario esteso ai parenti entro il terzo grado.
Il disabile ha diritto a essere assistito dai familiari, per
questo il congedo straordinario va esteso ai parenti
conviventi entro il terzo grado.
La Corte costituzionale
(sentenza 18.07.2013 n. 203) afferma il contrasto con la Carta
dell'articolo 42, comma 5, del Dlgs 53/2000 (Testo unico delle
disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno
della maternità e paternità, a norma dell'articolo 15 della
legge 53/2000) per la parte in cui, in caso di mancanza o
decesso o malattie invalidanti dei soggetti individuati
dalla disposizione, non include tra i soggetti legittimati a
usufruire del congedo anche i parenti conviventi o gli
affini entro il terzo grado.
Secondo la Corte costituzionale è incomprensibile che
l'apporto di questi ultimi sia circoscritto e riconosciuto
solo per quanto riguarda i permessi previsti dalla legge
104/1992, mentre non è contemplato per ottenere i congedi
straordinari.
Nel ripercorrere la storia della norma impugnata il giudice
redattore Cartabia ricorda che la Corte costituzionale ha
ampliato nel tempo il numero dei soggetti destinatari,
allargando il beneficio ai fratelli, al coniuge e al figlio
convivente. Integrazioni imposte dai cambiamenti demografici
che hanno fatto crescere la richiesta e reso necessario
l'adeguamento di uno strumento che è espressione dello Stato
sociale.
In questo solco si inserisce la pronuncia che bolla come
incostituzionale (articoli 2, 3, 4, 29, 32 e 35) la limitazione
imposta.
La famiglia deve costituire l'ambito privilegiato di
assistenza la disabile, al quale come soggetto debole vanno
garantite, «oltre alle necessarie prestazioni sanitarie e di
riabilitazione, anche la cura, l'inserimento sociale e,
soprattutto la continuità delle relazioni costitutive della
personalità umana». La restrizione imposta mette a rischio
tutto nel caso nessuno dei soggetti legittimati per legge
sia disponibile o in condizioni di prendersi cura del
disabile, ma non solo.
La legge sotto esame lede anche il
divieto di disparità di trattamento, perché in maniera
discriminatoria non include ulteriori ipotesi «di fronte a
una posizione sostanzialmente identica di un congiunto
convivente rispetto a quella di altri soggetti già previsti
dalla norma e a una pari esigenza di tutela della salute
psicofisica della persona affetta da handicap grave e di
promozione della sua integrazione nella famiglia».
Il parente che, malgrado escluso dal beneficio, volesse
comunque garantire la sua assistenza sarebbe costretto a
rinunciare al proprio lavoro, a ridurre il numero di ore o a
cercare un'attività compatibile con le sue esigenze.
Del resto la Corte ha affermato da tempo la necessità di
adottare gli interventi economici integrativi a sostegno
delle famiglie, che rivestono un ruolo fondamentale nella
cura dei disabili la cui gravità sia accertata. Il congedo
rientra tra questi strumenti
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.07.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Handicap,
permessi fino al terzo grado.
Fino al terzo grado di parentela i permessi e congedi per
accudire il parente portatore di handicap. E lo straniero
che ha famiglia non deve essere automaticamente espulso: si
devono valutare i vincoli familiari (anche se non ha chiesto
il ricongiungimento).
Con due sentenze la Corte
costituzionale, seppure in ambiti diversi, dà rilievo ai
collegamenti familiari. Vediamo in che modo.
DISABILI
Il caso è partito dal nipote desideroso di accudire lo zio
disabile (parente di terzo grado). Ma la legge arriva, al
massimo, al secondo grado (fratelli e sorelle).
Con la
sentenza 18.07.2013 n. 203 la
Corte Costituzionale
ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo
42, comma 5, del dlgs 151/2001 (Testo unico sulla tutela e
sostegno della maternità e paternità), nella parte in cui
non include tra i soggetti abilitati a fruire del congedo il
parente o l'affine entro il terzo grado convivente, in caso
di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti
degli altri soggetti individuati dalla norma, idonei a
prendersi cura della persona in situazione di disabilità
grave.
La disciplina prevedeva i permessi per il coniuge
convivente di soggetto con handicap o, in mancanza, per il
padre o la madre anche adottivi; in caso di mancanza dei
genitori, i permessi potevano essere fruiti dai dei figli
conviventi e, in caso di mancanza di figli, da uno dei
fratelli o sorelle conviventi. Con la sentenza si estende la
possibilità di cura anche per i parenti fino al terzo grado.
STRANIERI
Non si può espellere lo straniero condannato senza
considerare i sui vincoli familiari. Anche se non ha fatto
istanza di ricongiungimento.
La Corte costituzionale con la
sentenza 18.07.2013 n. 202 ha esteso
la tutela goduta da chi ha presentato domanda di
ricongiungimento familiare anche a chi si trova nelle
condizioni per chiederlo e non ha presentato l'istanza
formale. Nel caso specifico è stato negato il permesso di
soggiorno per lavoro autonomo a un extracomunitario per
precedenti penali. Nei procedimenti per il rilascio o il
rinnovo del permesso di soggiorno, tuttavia, la legge
prevede che nel caso di straniero, che abbia esercitato il
diritto al ricongiungimento familiare o del familiare
ricongiunto si tiene anche conto della natura e della
effettività dei vincoli familiari dell'interessato.
Grazie a
questa disposizione, gli stranieri, a seguito di un
provvedimento di ricongiungimento familiare, possono godere
di una tutela rafforzata: nei loro confronti non è possibile
applicare automaticamente misure espulsive o provvedimenti
negativi in caso di condanna per i reati indicati dal T.u.
sull'immigrazione. La tutela rafforzata consiste nel fatto
che l'amministrazione deve valutare in concreto la
situazione dell'interessato, tenendo conto anche dei suoi
legami familiari e sociali. La legge non prevedeva questa
tutela rafforzata per chi non ha fatto richiesta del
provvedimento formale di ricongiungimento.
La consulta è
intervenuta proprio su questi casi, dichiarando la
illegittimità dell'articolo 5, comma 5, del dlgs 286/1998,
nella parte in cui non prevede che una valutazione
discrezionale per lo straniero «che abbia legami familiari
nel territorio dello stato»
(articolo ItaliaOggi del 19.07.2013). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Sentenza della corte di giustizia europea.
Tariffe anche in base al decoro professionale.
Al giudice la valutazione dei possibili effetti restrittivi
della concorrenza.
Il tariffario di una categoria che stabilisce il compenso
per una prestazione anche in base al decoro professionale
può avere effetti restrittivi della concorrenza. E quindi è
rimessa al giudice, caso per caso, la valutazione della
legittimità di un compenso che deve tenere conto anche della
tutela degli interessi del consumatore.
Un chiarimento, quello contenuto nella
sentenza
18.07.2013 n. C-136/12
emessa ieri della Corte di giustizia europea, che non
esclude a priori la validità di quei tariffari degli ordini
professionali che le liberalizzazioni del 2006 declassarono
da «inderogabili» a facoltativi. Anzi. Peccato che nel
frattempo il legislatore abbia completamente cancellato
dall'ordinamento giuridico qualsiasi riferimento alle
tariffe e rimesso al libero mercato la definizione di un
onorario professionale. Ma vediamo meglio come la Corte del
Lussemburgo è arrivata ad occuparsi del caso italiano dei
geologi.
Tutto inizia nel luglio del 2006. Con il decreto Bersani (dl
223/2006) sono aboliti, fra le altre cose, i minimi
tariffari inderogabili utilizzati fino a quel momento dagli
iscritti agli albi professionali. Nel giro di qualche mese
tutte le categorie si adeguano, ma qualcuno lo fa ponendo il
paletto del decoro. Il che vuol dire che gli iscritti non
potranno praticare prezzi stracciati in quanto è in
contrasto con il prestigio della professione alla quale si
appartiene. Fra i più convinti di questa tesi ci sono i
geologi.
Questi ultimi, però, finiscono nel mirino
dell'Antitrust che con una delibera del 23/6/2010 multa il
Consiglio nazionale per aver posto in essere un'intesa
restrittiva della concorrenza e ordina di assumere misure
atte a porre termine all'illecito riscontrato.
La battaglia in primo grado. I vertici della professione
tecnica però non ci stanno. E si rivolgono al Tar Lazio, che
respinge il ricorso presentato. I giudici amministrativi con
la sentenza n. 1757 del 25.02.2011 chiariscono che il
provvedimento dell'Antitrust è legittimo.
Il Tar però, allo
stesso tempo, ritiene viziato il provvedimento dell'Autorità
nella parte in cui si sostiene che il riferimento, nel
codice del Consiglio nazionale, al «decoro professionale»
quale criterio di commisurazione del compenso del
professionista costituisca a priori una «restrizione della
concorrenza». Obiezione, quest'ultima, impugnata al
Consiglio di stato dall'Agcm. Per motivi diversi anche il
Cng propone appello.
La battaglia in secondo grado. Nell'atto di appello, in base
all'articolo 267 del Trattato di funzionamento dell'Unione
europea (Tfue), gli avvocati del Consiglio nazionale dei
geologi chiedono (e ottengono) al Consiglio di stato di
sottoporre, in via pregiudiziale, alcune questioni alla
Corte di giustizia europea.
Una di queste è volta a chiarire
se la legislazione europea: vieti e inibisca il riferimento
alle componenti di dignità e decoro del professionista nella
composizione del compenso professionale e se comportino
effetti restrittivi della concorrenza professionale;
stabilisca se i requisiti di dignità e decoro, quali
componenti del compenso del professionista in connessione
con tariffe definite espressamente come derogabili nei
minimi, possano ritenersi finalizzati a comportamenti
restrittivi della concorrenza (si veda anche ItaliaOggi del
22/03/2012)
La sentenza della Corte di giustizia.
Nella sua sentenza di ieri i giudici hanno dichiarato che «le
regole come quelle previste dal codice deontologico relativo
all'esercizio della professione di geologo in Italia,
approvato dal Consiglio nazionale dei geologi il 19.12.2006
e modificato da ultimo il 24.03.2010, che prevedono come
criteri di commisurazione delle parcelle dei geologi, oltre
alla qualità e all'importanza della prestazione del
servizio, la dignità della professione, costituiscono una
decisione di un'associazione di imprese che può avere
effetti restrittivi della concorrenza nel mercato interno».
Quindi si rimanda al giudice del rinvio (il Tar) la
valutazione, alla luce del contesto globale in cui tale
codice deontologico dispiega i suoi effetti, compreso
l'ordinamento giuridico nazionale nonché la prassi
applicativa di detto codice da parte dell'Ordine nazionale
dei geologi, «se i predetti effetti si producano nel caso
di specie. Tale giudice deve anche verificare se, alla luce
di tutti gli elementi rilevanti di cui dispone, le regole
del medesimo codice, in particolare nella parte in cui fanno
riferimento al criterio relativo alla dignità della
professione, possano essere considerate necessarie al
conseguimento dell'obiettivo legittimo collegato a garanzie
accordate ai consumatori dei servizi dei geologi»
(articolo ItaliaOggi del 19.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sui limiti dell’esame da parte della
Soprintendenza dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata
dalla Regione (o da un ente subdelegato), si richiama la
giurisprudenza costante di questo Consiglio di Stato, per la
quale:
a) la Regione (o, nella specie, il Comune subdelegato) deve
esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla
compatibilità con il vincolo paesaggistico dell’opera
specificamente assentita in relazione a tutte le circostanze
rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in caso
contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di
istruttoria;
b) il potere di annullamento della Soprintendenza non
consente il riesame nel merito delle valutazioni compiute
dalla Regione, o dall’ente subdelegato, ma si esprime in un
sindacato di legittimità, esteso a tutte le ipotesi
riconducibili all'eccesso di potere, anche per difetto di
motivazione o di istruttoria e dunque riguardante anche la
compiuta presa in considerazione dei termini concreti del
giudizio di compatibilità;
c) l’autorità statale, con un tale potere di cogestione del
vincolo, dato dalla legge ad estrema difesa del vincolo
stesso, se ravvisa un tale vizio nell’atto oggetto del suo
riesame, nel proprio provvedimento può motivare sulla non
compatibilità degli interventi programmati rispetto ai
valori paesaggistici compendiati nel vincolo.
Sui limiti dell’esame da parte della Soprintendenza
dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione
(o da un ente subdelegato), si richiama la giurisprudenza
costante di questo Consiglio di Stato, per la quale:
a) la Regione (o, nella specie, il Comune subdelegato) deve
esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla
compatibilità con il vincolo paesaggistico dell’opera
specificamente assentita in relazione a tutte le circostanze
rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in caso
contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di
istruttoria;
b) il potere di annullamento della Soprintendenza non
consente il riesame nel merito delle valutazioni compiute
dalla Regione, o dall’ente subdelegato, ma si esprime in un
sindacato di legittimità, esteso a tutte le ipotesi
riconducibili all'eccesso di potere, anche per difetto di
motivazione o di istruttoria e dunque riguardante anche la
compiuta presa in considerazione dei termini concreti del
giudizio di compatibilità;
c) l’autorità statale, con un tale potere di cogestione del
vincolo, dato dalla legge ad estrema difesa del vincolo
stesso (Corte cost., 27.06.1986, n. 151; 18.10.1996, n. 341;
25.10.2000, n. 437), se ravvisa un tale vizio nell’atto
oggetto del suo riesame, nel proprio provvedimento può
motivare sulla non compatibilità degli interventi
programmati rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel
vincolo (Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9; VI,
11.06.2012, n. 3401; 22.06.2011, n. 3767; 26.07.2010, n.
4861; 22.03.2007, n. 1362).
Nei singoli casi è quindi anzitutto necessario verificare se
alla base dell’annullamento dell’autorizzazione esaminata da
parte della Soprintendenza competente si riscontri
l’incompiutezza o l’inadeguatezza della valutazione di
compatibilità paesaggistica resa dalla Regione o dall’ente
locale delegato, essendo l’autorizzazione, in questa
ipotesi, viziata per difetto di istruttoria o di motivazione
e risultando legittimo, perciò, il provvedimento statale di
annullamento.
La valutazione di compatibilità paesaggistica resa in
concreto è a sua volta adeguata se le caratteristiche
dell’intervento –da prendere in considerazione per tutte le
sue caratteristiche esteriori- vi risultano individuate,
raffrontate e giustificate con i valori riconosciuti e
protetti dal vincolo, dovendo essere esposta l’analisi
eseguita sulle ragioni di compatibilità o incompatibilità
effettiva che, in riferimento a tali valori, rendano o meno
compatibile l’opera progettata, non essendo perciò
sufficiente, allo scopo, l’asserzione generica della
compatibilità paesaggistica
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.07.2013 n. 3896 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'autore
di un abuso edilizio, che abbia prestato acquiescenza al
diniego di concessione di costruzione in sanatoria, decade
dalla possibilità di rimettere in discussione l'abuso
accertato in sede di impugnazione dell'ordine di
demolizione, atteso che quest'ultimo rinviene nel diniego di
sanatoria il suo presupposto.
L'autore di un abuso edilizio, che abbia prestato
acquiescenza al diniego di concessione di costruzione in
sanatoria, decade dalla possibilità di rimettere in
discussione l'abuso accertato in sede di impugnazione
dell'ordine di demolizione, atteso che quest'ultimo rinviene
nel diniego di sanatoria il suo presupposto (TAR Piemonte,
Sez. I, 04.09.2009 n. 2253, C.S. Sez. V 17.09.2008 n. 4446,
C.S., Sez. V, 28.12.2007 n. 6715)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 16.07.2013 n. 1874 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sconta
l’esonero del versamento del contributo di costruzione, per
la realizzazione di impianti ed attrezzature di interesse
generale, con riferimento ad alcuni locali realizzati nella
nuova stazione ferroviaria, ex art. 9, c. 1, lett. f), della
L. n. 10/1977.
Invero, trattasi di locali di superfici modeste, e sono
adibiti a deposito biciclette (mq 76,04 e 86,48), a bar (mq
74,48) ed ad officina di riparazione biciclette (mq 21,57) e
poiché tutti i locali in questione hanno una destinazione
che soddisfa l’interesse collettivo dei viaggiatori,
fruitori del servizio pubblico di trasporto, ciò comporta
l’applicazione dell’esenzione di cui al predetto art. 9,
anche agli spazi in questione, in quanto integrati con la
destinazione principale.
La natura commerciale dell’attività posta in essere nei
predetti locali è infatti stemperata dalla sua strumentalità
alle esigenze dei viaggiatori, dovendo considerarsi
congiuntamente alla sua destinazione, unicamente a favore
dell’utenza della stazione, ed al tipo di servizi offerti,
notoriamente limitati alla vendita di bevande e generi di
prima necessità, di cui altrimenti rimarrebbero privi, non
essendovi altre strutture analoghe.
Anche il locale adibito a deposito biciclette è meramente
funzionale all’interesse dei viaggiatori, spesso pendolari,
che si recano alla stazione con tale mezzo e che possono
parcheggiare i propri veicoli in un locale adeguato. La
verificazione ha accertato che tali locali, ceduti al Comune
in comodato e quindi a titolo gratuito, non sono mai stati
utilizzati per attività commerciali.
Con il provvedimento impugnato il Comune
resistente ha sostanzialmente negato l’applicazione
dell’esonero del versamento del contributo di costruzione,
per la realizzazione di impianti ed attrezzature di
interesse generale, con riferimento ad alcuni locali
realizzati nella nuova stazione ferroviaria, ex art. 9, c. 1,
lett. f), della L. n. 10/1977.
Il Comune ha infatti differenziato le vere e proprie
infrastrutture ferroviarie, per le quali opera il detto
esonero, dai “negozi annessi al manufatto”, i quali
andrebbero invece considerati spazi commerciali, sottoposti
ad un regime differente.
La verificazione disposta in corso di causa ha accertato che
i locali in questione hanno superfici modeste, e sono
adibiti a deposito biciclette (mq 76,04 e 86,48), a bar (mq
74,48) ed ad officina di riparazione biciclette (mq 21,57).
Il ricorso è fondato, poiché tutti i locali in questione
hanno una destinazione che soddisfa l’interesse collettivo
dei viaggiatori, fruitori del servizio pubblico di
trasporto, ciò che avrebbe dovuto comportare l’applicazione
dell’esenzione di cui al predetto art. 9, anche agli spazi
in questione, in quanto integrati con la destinazione
principale.
La natura commerciale dell’attività posta in essere nei
predetti locali è infatti stemperata dalla sua strumentalità
alle esigenze dei viaggiatori, dovendo considerarsi
congiuntamente alla sua destinazione, unicamente a favore
dell’utenza della stazione, ed al tipo di servizi offerti,
notoriamente limitati alla vendita di bevande e generi di
prima necessità, di cui altrimenti rimarrebbero privi, non
essendovi altre strutture analoghe.
Anche il locale adibito a deposito biciclette è meramente
funzionale all’interesse dei viaggiatori, spesso pendolari,
che si recano alla stazione con tale mezzo e che possono
parcheggiare i propri veicoli in un locale adeguato. La
verificazione ha accertato che tali locali, ceduti al Comune
in comodato e quindi a titolo gratuito, non sono mai stati
utilizzati per attività commerciali.
I precedenti giurisprudenziali invocati dalla difesa
comunale, in realtà, offrono spunti per confermare
l’illegittimità del provvedimento impugnato. Se infatti è
vero che i negozi non sono strettamente indispensabili per
il servizio di trasporto ferroviario, è tuttavia
indubitabile che il nesso di strumentalità tra detto
servizio e le attività insediate all’interno della stazione,
è certamente più intenso di quello esistente nelle
fattispecie citate, come nel caso della connessione che si
assume esistente tra uno stabilimento di acque termali e le
strutture alberghiere che ospitano gli utenti dello stesso,
stante l’assoluta autonomia e prevalenza dell’attività
commerciale esercitata in queste ultime.
Il ricorso va pertanto accolto, ed il Comune condannato alla
restituzione delle somme versate dalla ricorrente, ed
indebitamente riscosse, sulle quali spettano gli interessi
legali, dalla data della domanda, ma non la rivalutazione
monetaria, trattandosi di pagamento di indebito oggettivo,
il quale genera la sola obbligazione di restituzione con gli
interessi a norma dell'art. 2033 c.c. (TAR Lombardia,
Brescia, Sez. I, 02.11.2010 n. 4519)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 16.07.2013 n. 1872 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Appartiene
alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque
Pubbliche, prevista dall'art. 143 R.D. 11.12.1933 n. 1775,
la controversia relativa al diniego di rilascio di
concessione in sanatoria, opposto dall'autorità comunale in
ragione dell'edificazione dell'immobile da condonare in
violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede
dell'argine, ai sensi dell'art. 96, cit.; detto
provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità
diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle
acque, incide direttamente sul regolare regime delle stesse,
la cui tutela ha carattere inderogabile, in quanto informata
alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di
sfruttamento delle acque demaniali, ed il libero deflusso
delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi
pubblici.
Altresì, qualora sia impugnato un provvedimento incentrato
sul contrasto delle opere di cui viene ordinata la
demolizione, tra l’altro, con il precitato art. 96,
incidendosi immediatamente sulla materia delle acque
pubbliche e sulla relativa tutela, occorre attribuire la
controversia alla giurisdizione del tribunale Superiore
delle Acque pubbliche.
Osserva il Collegio che il diniego
impugnato si fonda unicamente sulla violazione del citato
art. 96 R.D. n. 523/1904, e precisamente su quanto disposto
dalla lettera f) di tale articolo, che prescrive il rispetto
di una distanza minima tra il “piede degli argini” del corso
d’acqua, e le opere menzionate nello stesso.
Per Cass. Civ. Sez. Un. 12.5.2009 n. 10845 appartiene alla
giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche,
prevista dall'art. 143 R.D. 11.12.1933 n. 1775, la
controversia relativa al diniego di rilascio di concessione
in sanatoria, opposto dall'autorità comunale in ragione
dell'edificazione dell'immobile da condonare in violazione
della fascia di rispetto di dieci metri dal piede
dell'argine, ai sensi dell'art. 96, cit.; detto
provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità
diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle
acque, incide direttamente sul regolare regime delle stesse,
la cui tutela ha carattere inderogabile, in quanto informata
alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di
sfruttamento delle acque demaniali, ed il libero deflusso
delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi
pubblici.
Analogamente, per la giurisprudenza amministrativa, qualora
sia impugnato un provvedimento incentrato sul contrasto
delle opere di cui viene ordinata la demolizione, tra
l’altro, con il precitato art. 96, incidendosi
immediatamente sulla materia delle acque pubbliche e sulla
relativa tutela, occorre attribuire la controversia alla
giurisdizione del tribunale Superiore delle Acque pubbliche
(TAR Toscana, Sez. III, 11.11.2011 n. 1676).
Il ricorrente, onde paralizzare la vista eccezione, invoca
C.S. Sez. V 21.02.2012 n. 928, la quale tuttavia si è
pronunciata su una fattispecie diversa da quella per cui è
causa, dichiarando la giurisdizione del g.a. a fronte di un
diniego regionale su una domanda di concessione di una
derivazione da un fiume per uso idroelettrico.
Parimenti, anche le ulteriori citazioni giurisprudenziali
invocate dal ricorrente non sono decisive ai fini del
rigetto della vista eccezione, essendo risalenti e superate
da parte degli stessi organi giurisdizionali, come nel caso
di Cass. Sez. Unite 10.12.1993 n. 12167, sopravanzata da
altra giurisprudenza, ben più recente.
Il Collegio osserva che la valutazione circa la
compatibilità dei manufatti (tettoia e box) con il vincolo
idraulico implica necessariamente un accertamento tecnico
dello stato dei luoghi ed una approfondita verifica
dell'incidenza dell'opera abusiva sui vincoli di rispetto
della risorsa esistenti.
Tale accertamento e tale verifica per evidenti ragioni di
riparto della giurisdizione in materia, devono essere
comunque rimessi al vaglio della specifica competenza
giurisdizionale del Tribunale superiore delle acque
pubbliche, ai sensi del combinato disposto degli artt. 143,
primo comma lett. a) e 197 del R.D. n. 1775 dell'11.12.1933.
Deve pertanto dichiararsi il difetto di giurisdizione del
giudice amministrativo, con conseguente onere del ricorrente
di riproporlo innanzi al T.S.A.P., nei termini e per gli
effetti di cui all’art. 11, comma 2, c.p.a.
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 16.07.2013 n. 1871 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Appalti, «concorso esterno» ampio.
Basta la presentazione di un'offerta guidata per far
scattare il coinvolgimento. Cassazione. Allargati i limiti
dell'attività ausiliaria alle cosche mafiose: non è
necessario dimostrare il vantaggio economico.
Basta anche la sola presentazione di offerte di comodo per
conto del clan a far scattare, contro un imprenditore non
affiliato a Cosa nostra, l'imputazione di concorso esterno
in associazione mafiosa. Alla prova della collusione,
inoltre, non serve la dimostrazione di un effettivo
incremento dei ricavi tra il periodo precedente l'assodata
partecipazione esterna e quello di effettivo coinvolgimento
con il clan: è sufficiente infatti la prova di un mero
«rapporto di cointeressenza tale da produrre vantaggi
(ingiusti) per entrambi i contraenti».
La VI Sez. penale della Corte di Cassazione (sentenza
15.07.2013 n. 30346) torna a delimitare il perimetro
dell'attività "ausiliaria" alla mafia, confermando la
condanna al titolare di una cooperativa coinvolta, alla fine
degli anni '80, in operazioni per conto della cosca di
Bernardo Provenzano.
Il Tribunale di Palermo nel 2004, per quelle stesse
attività, aveva riconosciuto il vincolo di appartenenza
diretta all'associazione, verdetto però attenuato quattro
anni dopo dall'Appello, che le aveva riqualificate come
«concorso esterno».
Nei due gradi di merito, scrive il relatore della sentenza
finale, era emersa l'esistenza di un rapporto di consapevole
e volontaria «collaborazione» della cooperativa con Cosa
nostra «attraverso un'attività di illecita interferenza
nell'aggiudicazione degli appalti pubblici, con reciproco
vantaggio costituito, per l'imputato, dal conseguimento di
commesse e, per il consorzio criminoso, dal rafforzamento
della propria capacità di influenza nello specifico settore
imprenditoriale». Una ricostruzione meramente indiziaria,
contestava la difesa, a cui, tra l'altro, sarebbe mancata la
prova dell'effettiva utilità ottenuta dal consorzio, atteso
che non era stato riscontrato un incremento di lavoro tra il
"prima" e il "dopo" del patto scellerato.
Ma proprio il dato contabile, sottolineano i giudici di
Cassazione, non è tra gli indici necessari di "mafiosità
esterna" cui fare riferimento, perché, ai fini della
contestazione dell'articolo 110 del Codice penale associato
al 416–bis, è sufficiente offrire «la propria disponibilità
al mantenimento di tale sistema». Disponibilità che può ben
manifestarsi attraverso la collaborazione
nell'aggiudicazione di licitazioni private di imprese
"prescelte", ma anche fornendo offerte di comodo, o ancora
concorrendo nella fase della turbativa per arrivare a
controllare le offerte arrivate da imprese «non manovrabili»
e adeguare quindi l'offerta "collusa".
Quindi, argomenta la Sesta penale, per il «concorso
esterno», disegnato dalla Corte già a partire dal 2005
(sentenza 46552/2005, confermata dalla successiva decisione
39042/2013) basta «un rapporto sinallagmatico di
cointeressenza» con la cosca mafiosa, tale da produrre
vantaggi reciproci. In particolare l'imprenditore colluso
avrà «una posizione dominante sul territorio grazie
all'ausilio del sodalizio, il cui apparato intimidatorio si
è reso disponibile a sostenerne l'espansione negli affari,
in cambio della sua disponibilità a fornire risorse, servizi
o comunque utilità al sodalizio medesimo».
E tutto ciò a
condizione che manchi, in capo all'imprenditore servente,
sia l'affectio societatis sia l'inserimento nella struttura
organizzativa della cosca. Condizioni che porterebbero,
ovviamente, a una contestazione più grave rispetto al
semplice concorso esterno
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.07.2013). |
APPALTI:
Accordo tra p.a. non evita la procedura pubblica.
Vietati gli accordi fra Amministrazioni se c'è un
corrispettivo e se le attività possono essere svolte da
operatori privati; obbligatoria la gara pubblica e
illegittimo l'affidamento diretto.
Con la
sentenza 15.07.2013 n. 3849 del Consiglio di
Stato, la V Sez. del Consiglio di stato, nel
confermare la pronuncia del Tar Puglia-Lecce 416/2010, ha
affermato alcuni importanti principi in tema di legittimità
degli accordi fra Amministrazioni.
Nel caso specifico -che
ha visto come parti in causa da un lato l'Azienda Sanitaria
Locale di Lecce e l'Università del Salento e dall'altro lato
l'Oice (con l'Ordine degli ingegneri e degli architetti
della Provincia di Lecce, il Consiglio nazionale degli
ingegneri e il Consiglio nazionale degli architetti)- si è
affermato che la presenza di un corrispettivo e il fatto che
le attività oggetto dell'accordo siano reperibili presso
operatori privati, oltre all'elemento della mancanza di un
interesse comune fra le due amministrazioni, fanno sì che si
debba procedere con appalto pubblico e non si possa
utilizzare lo strumento previsto dall'articolo 15 della
legge 241/1990.
La sentenza del Consiglio di stato -nel riconoscere che il
contratto vede la Asl affidataria appropriarsi dietro
corrispettivo del servizio svolto dall'Università che a sua
volta si pone come operatore economico privato che offre sul
mercato servizi rientranti nel campo di applicazione delle
direttive Ue- recepisce in toto le considerazioni della
Corte di giustizia europea del 19.12.2012 (causa C
159/11), che aveva dichiarato illegittimi gli accordi di
collaborazione stipulati fra amministrazioni e Università
per affidare in via diretta e senza gara, incarichi per
servizi di ingegneria e di consulenza; la sentenza aveva
affermato che gli accordi previsti dalla legge 241/1990 non
possono essere utilizzati per eludere l'obbligo di affidare
a terzi con gara contratti a titolo oneroso e sono legittimi
soltanto se prevedono una effettiva cooperazione fra i due
enti per l'adempimento comune di un servizio pubblico, senza
prevedere un compenso.
Per Luigi Iperti, vicepresidente
vicario Oic, «trionfano il libero mercato e la
concorrenza»
(articolo ItaliaOggi del 17.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’inizio dei lavori idoneo ad impedire la
decadenza della concessione edilizia può ritenersi
sussistente quando le opere intraprese siano tali da
evidenziare l’effettiva volontà di realizzare l’opera, non
essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del
terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali da
costruzione.
In termini più espliciti, l’inizio dei lavori non è
configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori
di sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto
l’organizzazione del cantiere, con la sussistenza di altri
indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i
lavori sino alla loro ultimazione.
Conseguentemente la declaratoria di decadenza della licenza
edilizia per mancato inizio dei lavori entro il termine
fissato, può considerarsi illegittima solo se siano stati
almeno eseguiti “lo scavo ed il riempimento in conglomerato
cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del
piano di campagna entro il termine di legge” o se lo
sbancamento realizzato si estende su un’area di vaste
dimensioni.
Con un primo motivo l’appellante
lamenta la violazione ed errata applicazione dell’art. 4
della legge n. 10/1977, eccesso di potere per difetto di
istruttoria, travisamento dei fatti e dei presupposti di
legge, sviamento della causa tipica dell’atto, illogicità ed
ingiustizia manifeste.
L’appellante sostiene che la sentenza gravata sarebbe
erronea in quanto non avrebbe considerato, in modo
complessivo, l’attività da lui posta in essere come “una
reale e seria intenzione” di dare corso ai lavori di
edificazione, non ritenendo sussistere, nel caso di specie,
il così detto principio dell’animus aedificandi.
Sul punto si deve da subito osservare che, diversamente da
quanto assunto dall’appellante, il TAR nel determinarsi
ha invece tenuto conto di tutte le attività edilizie in
atto, evidenziandone l’inconsistenza e proprio dall’esame
contestuale di esse ha ricavato che il titolare della
concessione non ha dimostrato alcuna volontà di edificare.
La legge n. 10/1977 all’art. 4, commi 3, 4 e 6, dispone che
“nell’atto di concessione sono indicati i termini di inizio
e di ultimazione dei lavori”; “Il termine per l’inizio dei
lavori non può essere superiore ad un anno; il termine di
ultimazione, entro il quale l’opera deve essere abitabile o
agibile non può essere superiore a tre anni e può essere
prorogato, con provvedimento motivato, solo per fatti
estranei alla volontà del concessionario, che siano
sopravvenuti a ritardare i lavori durante la loro
esecuzione”; “Qualora i lavori non siano ultimati nel
termine stabilito, il concessionario deve presentare istanza
diretta ad ottenere una nuova concessione; in tal caso la
nuova concessione concerne la parte non ultimata”.
Invero l’inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza
della concessione edilizia può ritenersi sussistente quando
le opere intraprese siano tali da evidenziare l’effettiva
volontà di realizzare l’opera, non essendo a ciò sufficiente
il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione
degli strumenti e materiali da costruzione (così Cons.
Stato, sez. V, 22.11.1993, n. 1165).
In termini più espliciti, l’inizio dei lavori non è
configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori
di sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto
l’organizzazione del cantiere, con la sussistenza di altri
indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i
lavori sino alla loro ultimazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
03.10.2000, n. 5242).
Conseguentemente la declaratoria di decadenza della licenza
edilizia per mancato inizio dei lavori entro il termine
fissato, può considerarsi illegittima solo se siano stati
almeno eseguiti “lo scavo ed il riempimento in conglomerato
cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del
piano di campagna entro il termine di legge” (Cons. Stato,
sez. V, 15.10.1992, n. 1006) o se lo sbancamento
realizzato si estende su un’area di vaste dimensioni;
circostanze, queste ultime, non comprovate nella specie dal
Boschi (Cons. Stato, sez IV, 18.05.2012, n. 2915)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 15.07.2013 n. 3823 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L'art. 10-bis della legge
n. 241/1990, prevedente la previa comunicazione della c.d.
predecisione di rigetto della domanda del privato, non va
interpretato in senso formalistico ma con riguardo
all'effettivo e oggettivo pregiudizio che l’inosservanza
dell’obbligo di comunicazione è suscettibile di arrecare nel
senso in cui l’inosservanza medesima è inidonea di per sé a
giustificare l'annullamento del provvedimento
amministrativo, non essendo consentito, ai sensi del
successivo art. 21-octies della legge n. 241/1990,
l'annullamento di atti il cui contenuto non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato, conseguendone
che, in assenza di deduzioni nuove (e/o ulteriori) rispetto
a quelle introdotte nel contraddittorio procedimentale ed
esaminate dall’Amministrazione, invano viene invocato
l’obbligo di comunicazione della menzionata predecisione di
rigetto della domanda.
In proposito, infatti, la
giurisprudenza prevalente condivisa da questo Tribunale ha
avuto modo di affermare che l'art. 10-bis della legge n.
241/1990, prevedente la previa comunicazione della c.d. predecisione di rigetto della domanda del privato, non va
interpretato in senso formalistico ma con riguardo
all'effettivo e oggettivo pregiudizio che l’inosservanza
dell’obbligo di comunicazione è suscettibile di arrecare nel
senso in cui l’inosservanza medesima è inidonea di per sé a
giustificare l'annullamento del provvedimento
amministrativo, non essendo consentito, ai sensi del
successivo art. 21-octies della legge n. 241/1990,
l'annullamento di atti il cui contenuto non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato, conseguendone
che, in assenza di deduzioni nuove (e/o ulteriori) rispetto
a quelle introdotte nel contraddittorio procedimentale ed
esaminate dall’Amministrazione, invano viene invocato
l’obbligo di comunicazione della menzionata predecisione di
rigetto della domanda (Cfr. Cons di Stato – Sez. IV –
20/02/2013 n. 1056; id. 16/02/2012 n. 823; Sez. V – 03/05/2012
n. 2548; TAR Campania – SA – Sez. I – 18/10/2010 n. 11832)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 15.07.2013 n. 1583 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione della
domanda di sanatoria dell’abuso successivamente alla
impugnazione dell'ordinanza di demolizione -o alla notifica
del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per
gli abusi edilizi- rende inefficaci i precedenti atti
sanzionatori.
Sul piano procedimentale il comune è tenuto, innanzi tutto,
a esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di
sanatoria dovendo effettuare, comunque, una nuova
valutazione della situazione, mentre dal punto di vista
processuale, la documentata presentazione di detta istanza
comporta la improcedibilità del ricorso per carenza di
interesse avverso i provvedimenti repressivi.
L'istanza di sanatoria, infatti, comporta la necessaria
formazione di un nuovo provvedimento esplicito o implicito
(di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare
il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
L’interesse del responsabile dell’abuso si sposta
dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio già
adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento
(esplicito o implicito) di rigetto.
Il ricorso, con il quale è stata impugnata
l’ordinanza di demolizione del manufatto descritto in
epigrafe, è improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse a seguito della presentazione della istanza di
accertamento di conformità per le opere di cui alla predetta
ordinanza di demolizione, allegata agli atti di altro
ricorso fissato nella medesima udienza.
E’, infatti, orientamento consolidato di questo Tribunale
quello in forza del quale la presentazione della domanda di
sanatoria dell’abuso successivamente alla impugnazione
dell'ordinanza di demolizione -o alla notifica del
provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per gli
abusi edilizi- rende inefficaci i precedenti atti
sanzionatori (v. anche Consiglio di Stato sez. V 31.10.2012 n. 5553 , sez. V,
08.06.2011, n. 3460; sez. V, 29.12.2009, n. 8935; sez. II, 11.07.2007, n. 624/2005,
cui si rinvia in forza del combinato disposto degli artt.
74, co. 1, e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.).
Sul piano procedimentale il comune è tenuto, innanzi tutto,
a esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di
sanatoria, come avvenuto nel caso sub judice, dovendo
effettuare, comunque, una nuova valutazione della
situazione, mentre dal punto di vista processuale, la
documentata presentazione di detta istanza comporta la
improcedibilità del ricorso per carenza di interesse avverso
i provvedimenti repressivi (Così, Consiglio di Stato sez. V,
31.10.2012, n. 5553).
L'istanza di sanatoria, infatti, comporta la necessaria
formazione di un nuovo provvedimento esplicito o implicito
(di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare
il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr.
ex multis TAR Campania Salerno, sez. I, 22.02.2011, n. 350 e TAR Campania Napoli, sez. VII, 10.03.2011,
n. 1401).
L’interesse del responsabile dell’abuso si sposta
dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio già
adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento
(esplicito o implicito) di rigetto (TAR Sicilia, Catania,
Sez. II, 16.03.1991, n. 67, Palermo, Sez. II, 27.03.2002, n. 826; TAR Campania, Sez. IV,
24.09.2002, n. 5559, 22.02.2003, n. 1310)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 15.07.2013 n. 1579 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Manufatto abusivo - Esecuzione dell'ordine di
demolizione - Condono edilizio - Presentazione di domanda -
Presupposti.
In sede di esecuzione dell'ordine di demolizione del
manufatto abusivo, disposto con la sentenza di condanna ai
sensi dell'art. 7 L. n. 47 del 1985, il giudice, al fine di
pronunciarsi sulla sospensione dell’esecuzione per avvenuta
presentazione di domanda di condono edilizio, deve accertare
l'esistenza delle seguenti condizioni:
1) la riferibilità della domanda di condono edilizio
all'immobile di cui in sentenza;
2) la proposizione dell'istanza da parte di soggetto
legittimato;
3) la procedibilità e proponibilità della domanda, con
riferimento alla documentazione richiesta;
4) l'insussistenza di cause di non condonabilità assoluta
dell'opera;
5) l'eventuale avvenuta emissione di una concessione in
sanatoria tacita per congruità dell'obiezione ed assenza di
cause ostative;
6) la attuale pendenza dell'istanza di condono;
7) la non adozione di un provvedimento da parte della P.A.
contrastante con l'ordine di demolizione (Cass. pen. sez. 4
n. 15210 del 05.03.2008).
Ordine di demolizione o di riduzione in
pristino - Rilascio del permesso in sanatoria - Effetti -
Giudice dell'esecuzione - Poteri.
L'ordine di demolizione o di riduzione in pristino debba
intendersi emesso allo stato degli atti, tanto che anche il
giudice dell'esecuzione deve verificare il permanere della
compatibilità degli ordini in questione con atti
amministrativi.
E' altrettanto indubitabile, però, che neppure il rilascio
del permesso in sanatoria determini automaticamente la
revoca dell'ordine di demolizione o di riduzione in
pristino, dovendo il giudice, comunque, accertare la
legittimità sostanziale del titolo sotto il profilo della
sua conformità alla legge ed eventualmente disapplicarlo ove
siano insussistenti i presupposti per la sua emanazione. A
maggior ragione, in caso di mera presentazione di un'istanza
di condono o, comunque, di una richiesta di sanatoria, il
G.E. deve accertare che, secondo una ragionevole previsione,
l'istanza possa essere accolta in tempi brevi.
Ordine di demolizione - Richiesta di
permesso in sanatoria - Pendenza di un procedimento davanti
al TAR - Verifiche per la sospensione - Giudice
amministrativo.
La sospensiva da parte del giudice amministrativo del
silenzio rigetto sull'istanza di concessione in sanatoria
non produce effetti automatici sul potere dovere del giudice
penale di disporre ed attuare l'ordine di demolizione,
atteso che in tal caso occorre accertare, anche con
riferimento alle argomentazioni svolte nel ricorso proposto
al giudice amministrativo se il provvedimento cautelare di
sospensione sia stato emesso per la sussistenza di vizi
formali o sostanziali dell'atto impugnato o se derivi da
carenza di motivazione senza incidenza sulla concedibilità o
meno della richiesta concessione in sanatoria.
Pertanto, la pendenza di un procedimento davanti al TAR o la
mera presentazione del ricorso non determina automaticamente
la sospensione dell'ordine di demolizione, occorrendo
accertare che sussista la ragionevole previsione di un suo
accoglimento (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.07.2013 n. 28955 -
link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Rinnovo espresso del contratto di appalto.
E' legittimo il rinnovo del contratto di appalto pubblico
quando l'amministrazione abbia pubblicizzato tale volontà
negli atti di gara e sia diretto nei confronti del medesimo
contraente, del quale è già stata comprovata l'idoneità
tecnica e la capacità economica.
Questa la decisione del Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 05.07.2013 n. 3580, in
relazione all'affidamento del servizio di brokeraggio
assicurativo.
Nel caso in esame, una società che nel 2009 aveva
partecipato alla gara, nel 2012, avvicinandosi la scadenza
triennale del contratto, aveva manifestato il proprio
interesse a partecipare alla nuova procedura.
L'amministrazione decideva, tuttavia, di esercitare
l'opzione prevista negli atti della gara del 2009 e di
rinnovare il contratto per un ulteriore triennio.
I Giudici di Palazzo Spada, dichiarando legittimo l'agire
amministrativo, prevedono che, "La clausola, conosciuta e
accettata da tutti i partecipanti alla gara, ha formato
oggetto dell'insieme di regole sulle quali si era svolto il
confronto concorrenziale tra le imprese, nel rispetto dei
principi di trasparenza e concorrenza, sicché tutti i
partecipanti hanno potuto formulare le proprie offerte
tenendo conto della possibilità del prolungamento della
durata del contratto.".
Si rileva inoltre l'inesistenza di una specifica norma tesa
ad impedire il rinnovo espresso della gara, in quanto, "Difatti,
l'art. 23 della l. 62/2005, che modifica l'articolo 6, comma
2, della legge 24.12.1993, n. 537, il quale, nella prima
parte, espressamente vieta il rinnovo tacito dei contratti
scaduti per la fornitura di beni e servizi, prevede che il
contratto scaduto può essere prorogato per il tempo
necessario all'indizione di nuova gara, anche in assenza
della previsione espressa di proroga contenuta negli atti di
gara, purché nei detti limiti.
L'art. 57, comma 7, D.lgs. 163/2006 dispone esclusivamente
il divieto di rinnovo tacito di tutti i contratti aventi ad
oggetto forniture, servizi e lavori, e commina la nullità di
quelli rinnovati tacitamente.".
Le argomentazioni proposte dal Consiglio di Stato tengono
altresì conto del dettato dell'art. 29 del Codice dei
contratti, nel quale, a proposito del valore stimato degli
appalti e dei servizi pubblici, si impone di tener conto di
qualsiasi forma di opzione o rinnovo del contratto.
E' scongiurata, pertanto, la violazione dei principi
concorrenziali nel caso in cui la richiesta di partecipare
alla nuova gara sia avanzata da un operatore economico che
ha preso parte alla precedente procedura, permangono dubbi
interpretativi nel caso in cui tale richiesta sia avanzata,
invece, da un soggetto ignaro del contenuto degli atti della
gara bandita in precedenza (tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com -
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Appalti,
Consiglio di Stato sconfessato dalla Corte Ue.
L'INDICAZIONE/
L'Adunanza plenaria favorisce la stabilità delle
aggiudicazioni. I giudici comunitari per un mercato integro.
La Corte di giustizia dell'Unione europea sconfessa il
Consiglio di Stato su un tema che interessa molte imprese e
cioè la tutela giurisdizionale in materia di appalti
pubblici.
Con la
sentenza
04.07.2013 in C-100/12 forse un po' sbrigativa, i giudici europei hanno infatti accolto
un'interpretazione opposta a quella dell'Adunanza plenaria
del Consiglio di Stato (n. 4/2011) su una questione
processuale che ha implicazioni pratiche rilevanti: i
rapporti tra ricorso principale proposto dall'impresa che ha
perso una gara e ricorso incidentale proposto dall'impresa
aggiudicataria contro quest'ultima.
La questione sembra fin troppo tecnica, ma risulta più
chiara se si considera il caso concreto posto all'esame
della Corte di giustizia.
In attuazione di un contratto quadro aggiudicato dal Centro
nazionale per l'informatica nella pubblica amministrazione (Cnipa)
per la fornitura di linee dati e fonia, l'Asl di Alessandria
stipula un contratto con Telecom Italia il cui progetto
tecnico è ritenuto preferibile rispetto a quello di Fastweb.
Quest'ultima impugna l'aggiudicazione davanti al Tar
Piemonte lamentando che l'offerta di Telecom non rispetta le
specifiche tecniche richieste dalla Asl. Telecom a sua volta
propone un ricorso incidentale sostenendo che, in realtà,
anche l'offerta di Fastweb è affetta dallo stesso vizio. Il
Tar ritiene fondate entrambe le censure simmetriche con la
conseguenza che l'intera procedura risulta viziata.
Se non che, secondo gli indirizzi dell'Adunanza plenaria,
l'esito del processo non potrebbe essere l'annullamento
dell'intera procedura. Infatti, in accoglimento del ricorso
incidentale di Telecom, Fastweb, erroneamente ammessa alla
gara, risulta priva di legittimazione a proporre il ricorso
principale, che non va neppure esaminato. Resta dunque
confermata l'aggiudicazione a favore di Telecom.
L'orientamento del Consiglio di Stato, che si basa su
ragionamenti processuali sofisticati, favorisce dunque la
stabilità delle aggiudicazioni e dei contratti, evitando
ritardi dovuti al rinnovo della gara. Esso è stato mal
"digerito" da alcuni Tar.
Alcuni, infatti, pur seguendo il Consiglio di Stato, hanno
ritenuto di poter accertare anche la fondatezza del ricorso
principale rimettendo alla stazione appaltante la decisione
sul se annullare d'ufficio l'intera procedura (Tar Abruzzo-L'Aquila
n. 424/2013). Il Tar del Piemonte invece ha sollevato la
questione pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia.
Muovendo dalla normativa europea sui ricorsi in materia di
appalti volta ad assicurare «mezzi di ricorso efficaci e
rapidi» (direttiva 89/665/Cee), la Corte ha ritenuto errata
la tesi del Consiglio di Stato. I giudici di Lussemburgo
hanno fatto leva su un precedente nel quale avevano già
sostenuto che non si può negare a un'impresa la possibilità
di contestare l'esito di una gara per il fatto che l'impresa
che propone il ricorso avrebbe dovuto essere esclusa già
nella fase antecedente alla comparazione delle offerte
(sentenza 19.06.2003 in C-249/01).
Pertanto, nel caso di specie, secondo la Corte, il giudice
amministrativo è tenuto a esaminare sia il ricorso
principale sia quello incidentale perché in questo modo si
riesce «a constatare l'impossibilità di procedere alla
scelta di un'offerta regolare».
Il diritto europeo ha dunque a cuore la concorrenzialità e
l'integrità del mercato degli appalti, minate da
aggiudicazioni illegittime, più che l'esigenza di non
rallentare la stipula e l'esecuzione dei contratti
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Nell'impugnazione
di un'ordinanza di ripristino non sono configurabili
controinteressati nei confronti dei quali sia necessario
instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia
palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il
terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche
quando il terzo avesse provveduto a segnalare
all'Amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso.
Ne consegue che il titolare di un interesse di mero fatto
volto a contrastare il ricorso principale, se non assume la
veste di controinteressato in senso formale e sostanziale,
può rivestire quella succedanea che legittima l'intervento
ad opponendum.
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Non sussiste alcun dubbio sulla natura solo ordinatoria del
termine di 45 giorni previsto dall'art. 27, comma 3, del
D.P.R. n. 380/2001 e sul dato che "il suo superamento non
impedisce l'emissione del provvedimento di demolizione,
costituente atto vincolato e necessitato" che, per l'appunto
in quanto vincolato e necessitato, anche ove assunto senza
esser stato preceduto dall'ordine di sospensione dei lavori,
che contiene di per sé ed in sé anche l'avviso di avvio del
procedimento sanzionatorio, peraltro qui espressamente dato,
non richiede avvisi di sorta.
---------------
La valutazione circa la possibilità di dar corso alla misura
ripristinatoria e la conseguente scelta tra demolizione
d’ufficio o irrogazione della sanzione pecuniaria di cui
all’art. 34 del D.P.R. n. 380/2001 costituisce
un’eventualità della fase esecutiva, successiva alla
disposta ingiunzione di riduzione in pristino.
Secondo il condivisibile orientamento
della giurisprudenza, nell'impugnazione di un'ordinanza di
ripristino non sono configurabili controinteressati nei
confronti dei quali sia necessario instaurare un
contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la
posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo
dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il
terzo avesse provveduto a segnalare all'Amministrazione
l'illecito edilizio da altri commesso (cfr. Consiglio di
Stato, IV, 06.06.2011, n. 3380).
Ne consegue che il titolare
di un interesse di mero fatto volto a contrastare il ricorso
principale, se non assume la veste di controinteressato in
senso formale e sostanziale, può rivestire quella succedanea
che legittima l'intervento ad opponendum , come è avvenuto
nel caso di specie (cfr. Consiglio di Stato, IV, 06.06.2011,
n. 3380; Cons. giust. amm. Sicilia, 07.09.2012, n. 750).
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Anche il
secondo motivo di ricorso deve essere disatteso poiché
secondo la consolidata giurisprudenza, condivisa dal
Collegio, non sussiste alcun dubbio sulla natura solo
ordinatoria del termine di 45 giorni previsto dall'art. 27,
comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 e sul dato che "il suo
superamento non impedisce l'emissione del provvedimento di
demolizione, costituente atto vincolato e necessitato" (cfr. Tar Lazio, Roma, I, 18.10.2012, n. 8644) che, per
l'appunto in quanto vincolato e necessitato, anche ove
assunto senza esser stato preceduto dall'ordine di
sospensione dei lavori, che contiene di per sé ed in sé
anche l'avviso di avvio del procedimento sanzionatorio,
peraltro qui espressamente dato, non richiede avvisi di
sorta (cfr. Consiglio di Stato, V, 07.04.2011, n. 2159;
Consiglio di Stato, IV, 05.03.2010, n. 1277; Tar Campania,
Napoli, VI, 23.10.2012, n. 4207).
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Va, peraltro,
evidenziato che secondo l’orientamento della giurisprudenza,
condiviso dal Collegio, la valutazione circa la possibilità
di dar corso alla misura ripristinatoria e la conseguente
scelta tra demolizione d’ufficio o irrogazione della
sanzione pecuniaria di cui all’art. 34 del D.P.R. n.
380/2001 costituisce un’eventualità della fase esecutiva,
successiva alla disposta ingiunzione di riduzione in
pristino (cfr. Tar Campania, Napoli, III, 10.05.2010, n.
3418)
(TAR Umbria,
sentenza 02.07.2013 n.
359
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EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 5 del D.P.R. n. 447 del 1998 prevede un'ipotesi
eccezionale di proposta di variante dello strumento
urbanistico e di accelerazione del conseguente procedimento,
finalizzata all'individuazione di aree da destinare
all'insediamento di impianti produttivi: un'individuazione
che presuppone, comunque, la presentazione di un progetto
conforme alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria
e di sicurezza del lavoro e che opera quando lo strumento
urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di
impianti produttivi, ovvero tali aree siano insufficienti in
relazione al progetto presentato.
Invero, secondo la consolidata e condivisibile
giurisprudenza, la previsione normativa in esame non
determina alcuna abdicazione del Comune alla sua
istituzionale potestà pianificatoria; all’organo consiliare,
infatti, compete la definitiva valutazione in merito alla
sussistenza dei presupposti idonei a giustificare la deroga
sul piano urbanistico e tale valutazione deve essere
necessariamente svolta in concreto, in relazione, dunque, al
singolo caso esaminato.
E’ opportuno precisare, a tale riguardo, che con
l’espressione aree “insufficienti rispetto al progetto
presentato”, la disposizione in esame intende riferirsi non
solo ai casi nei quali non sia possibile per un’impresa
insediarsi in un determinato Comune perché mancano del tutto
aree a destinazione produttiva ma anche ai casi nei quali la
disciplina urbanistica ed edilizia comunale non consente
quel determinato tipo di insediamento a causa
dell’insufficiente dimensione dell’area o, comunque, della
presenza di parametri, limitazioni, indici che producono un
effetto impeditivo di carattere equivalente, ben potendo
l’insufficienza delle aree essere correlata ad una
inidoneità di tipo qualitativo.
---------------
L’avviso espresso dalle amministrazioni competenti
nell’ambito della speciale conferenza di servizi ai sensi
dell’art. 5 del D.P.R. n. 447 del 1998 ha carattere
meramente endoprocedimentale.
Il secondo comma dell'articolo in parola stabilisce,
infatti, che qualora l'esito della conferenza di servizi
comporti la variazione dello strumento urbanistico, la
determinazione costituisce proposta di variante sulla quale
il Consiglio Comunale è chiamato a pronunciarsi in via
definitiva, tenuto conto delle osservazioni, proposte ed
opposizioni formulate dagli interessati.
Con il primo motivo di ricorso è stata dedotta
l’illegittimità della variante parziale gravata a motivo
della carenza dei presupposti prescritti per l’applicazione
dell’art. 5 del D.P.R. n. 447 del 1998, avendo
l’amministrazione incentrato la propria attività istruttoria
e valutativa sulle specifiche esigenze della società
richiedente, senza considerare adeguatamente la sussistenza
di una carenza reale ed oggettiva di aree da destinare agli
insediamenti produttivi sulla base della strumentazione
urbanistica comunale.
Orbene, è anzitutto opportuno evidenziare che l’art. 5
del D.P.R. n. 447 del 1998 prevede un'ipotesi eccezionale di
proposta di variante dello strumento urbanistico e di
accelerazione del conseguente procedimento, finalizzata
all'individuazione di aree da destinare all'insediamento di
impianti produttivi: un'individuazione che presuppone,
comunque, la presentazione di un progetto conforme alle
norme vigenti in materia ambientale, sanitaria e di
sicurezza del lavoro e che opera quando lo strumento
urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di
impianti produttivi, ovvero tali aree siano insufficienti in
relazione al progetto presentato.
Invero, secondo la consolidata e condivisibile
giurisprudenza, (ex multis, Cons. St., sez. IV, 16.04.2012, n. 2170), la previsione normativa in esame non
determina alcuna abdicazione del Comune alla sua
istituzionale potestà pianificatoria; all’organo consiliare,
infatti, compete la definitiva valutazione in merito alla
sussistenza dei presupposti idonei a giustificare la deroga
sul piano urbanistico e tale valutazione deve essere
necessariamente svolta in concreto, in relazione, dunque, al
singolo caso esaminato.
E’ opportuno precisare, a tale riguardo, che con
l’espressione aree “insufficienti rispetto al progetto
presentato”, la disposizione in esame intende riferirsi non
solo ai casi nei quali non sia possibile per un’impresa
insediarsi in un determinato Comune perché mancano del tutto
aree a destinazione produttiva ma anche ai casi nei quali la
disciplina urbanistica ed edilizia comunale non consente
quel determinato tipo di insediamento a causa
dell’insufficiente dimensione dell’area o, comunque, della
presenza di parametri, limitazioni, indici che producono un
effetto impeditivo di carattere equivalente, ben potendo
l’insufficienza delle aree essere correlata ad una
inidoneità di tipo qualitativo.
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Come rilevato
dalla consolidata giurisprudenza, l’avviso espresso dalle
amministrazioni competenti nell’ambito della speciale
conferenza di servizi ai sensi dell’art. 5 del D.P.R. n. 447
del 1998 ha carattere meramente endoprocedimentale; il
secondo comma dell'articolo in parola stabilisce, infatti,
che qualora l'esito della conferenza di servizi comporti la
variazione dello strumento urbanistico, la determinazione
costituisce proposta di variante sulla quale il Consiglio
Comunale è chiamato a pronunciarsi in via definitiva, tenuto
conto delle osservazioni, proposte ed opposizioni formulate
dagli interessati (TAR Puglia, Lecce, sez. I, 22.02.2007, n. 609; id.
08.03.2007, n. 965) (TAR Umbria,
sentenza 02.07.2013 n.
356
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ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Accesso agli atti: via libera anche per i
documenti riguardanti l'attività privatistica.
Con la
sentenza 27.05.2013 n. 2894 la III Sez. del
Consiglio di Stato conferma l’indirizzo che riconosce ai
dipendenti delle amministrazioni pubbliche il diritto di
accesso anche nei confronti degli atti inerenti l’attività
privatistica di gestione dei rapporti di lavoro.
La questione oggetto del giudizio
La dirigente di una Azienda USL ha chiesto
all’Amministrazione (ex) datrice di lavoro, la
corresponsione delle somme asseritamente dovutele a titolo
di retribuzione di risultato 2011.
A tal fine, la medesima ha altresì chiesto di “accedere
agli atti concernenti il pagamento della medesima voce
retributiva in favore dei dirigenti della medesima USL,
limitatamente allo stesso periodo temporale”.
La USL ha respinto ambedue le richieste e -con specifico
riferimento all’istanza di accesso che qui interessa- ha
motivato il diniego adducendo unicamente la natura
privatistica degli atti in questione.
La dirigente ha quindi proposto al TAR un ricorso avverso il
diniego di accesso e i giudici di primo grado, pur “non
condividendo” le argomentazioni dell’Amministrazione,
hanno respinto il ricorso sul diverso presupposto secondo il
quale l’istanza della ricorrente “appariva preordinata ad
un controllo generalizzato dell’operato
dell’amministrazione, in assenza di uno specifico interesse
concreto ed attuale della ricorrente”.
La sentenza è stata quindi impugnata avanti al Consiglio di
Stato con un ricorso mediante il quale l’interessata ha
dedotto l’erroneità della sentenza, in ragione del fatto che
il proprio interesse fosse sufficientemente “differenziato”,
essendo stata uno dei dirigenti dell’Usl tra i quali andava
ripartito il fondo unico per la retribuzione di risultato ed
avendo –pertanto– la necessità e l’interesse giuridico
all’acquisizione della richiesta documentazione riguardante
(anche) le posizioni dei suoi colleghi del tempo, per meglio
tutelare i propri interessi.
L’Azienda USL si è costituita in giudizio eccependo:
1) in rito, la tardività dell’appello sul presupposto che ai
sensi dell’art. 116.1 del Codice del Processo Amministrativo
(di seguito, “Codice”), il termine di impugnazione sarebbe
stato di soli 30 giorni dalla notifica e/o dalla
pubblicazione della sentenza di primo grado;
2) nel merito, la sua infondatezza per le ragioni, tutte,
indicate dalla sentenza impugnata di cui si chiedeva la
conferma.
La sentenza n. 2894/2013 della Terza
Sezione del Consiglio di Stato
All’esito dell’esame del ricorso, i Giudici si sono
preliminarmente pronunciati per la tempestività del ricorso,
in virtù del combinato disposto degli artt. 87.3 e 116.1 del
Codice Secondo la Sezione, le norme sopra citato portano a
considerare “ragionevole ricavare che nel rito
dell’accesso i termini di impugnazione sono di 30 giorni, in
caso di notifica, e di 3 mesi in caso di pubblicazione della
sentenza di primo grado”.
Per converso, secondo i Giudici, la tesi di parte appellata
farebbe venir meno qualunque distinzione tra sentenza
notificata e sentenza pubblicata, con conseguente “inutilità”
–in ipotesi- della distinzione normativa tra le due
fattispecie.
Sempre sul punto, il Collegio ha rilevato come la tesi
dell’appellata si fondi sul presupposto che nel procedimento
speciale afferente il diritto d’accesso ai documenti, il
termine di impugnazione sia il medesimo previsto per la
proposizione del ricorso in primo grado.
Tuttavia, posto che in tutti gli altri riti del processo
amministrativo il termine per appellare è disciplinato
autonomamente rispetto al termine per ricorrere in primo
grado, seppure si volesse aderire alla tesi dubitativa sulla
formulazione letterale dell’art. 116.5, è avviso del
Collegio che l’interpretazione sistematica sopra illustrata
sia la più coerente con il “sistema complessivo”.
Passando quindi al merito dell’appello, la Sezione ne ha
rilevato la fondatezza per un duplice ordine di ragioni:
1) l’istanza della ricorrente “è preordinata a tutela di
un interesse puntuale ed attuale”, rappresentato dalla “sottostante”
richiesta di pagamento di spettanze economiche arretrate a
carico del datore di lavoro e l’oggetto della istanza stessa
è, almeno nella sua “prima fase” limitato e
circoscritto “ai criteri e ai metodi applicati
dall’Azienda nella determinazione e nell’applicazione di
tale voce retributiva, nello stesso periodo temporale, in
una vicenda che peraltro ha interessato un numero definito
(circa 20) di dirigenti”;
2) seguendo tale logica ricostruttiva, appare evidente al
Collegio che “la conoscenza dei criteri e dei metodi
appare utile alla ricorrente per comprendere le ragioni del
diniego opposto dall’amministrazione, sulla richiesta di
pagamento”, non foss’altro (aggiungiamo noi) in guisa di
motivazione –altrimenti assente– del provvedimento di
rigetto della richiesta delle somme stesse.
Peraltro, aggiungono i Giudici, se l’USL avesse inteso (come
sembrerebbe emerso in giudizio) operare una “sorta di
compensazione fra reciproche pretese creditorie”, ciò
non potrebbe comunque pregiudicare il diritto della
ricorrente “a conoscere in dettaglio i relativi conteggi
ed i criteri adottati” non foss’altro per poter
verificare la correttezza del saldo finale tra le due poste
contabili di dare ed avere individuato dal proprio presunto
debitore.
In conclusione, la Sezione rammenta come la consolidata
giurisprudenza sulla fattispecie oggetto del giudizio “è
nel senso che in materia di lavoro alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni il dipendente è portatore di un
interesse qualificato alla conoscenza degli atti e documenti
che riguardano la propria posizione lavorativa, atteso che
gli stessi esulano dal diritto alla riservatezza e che
l'art. 22 della l. 241/1990 garantisce l'accesso ai
documenti amministrativi relativi al rapporto di pubblico
impiego "privatizzato", anche se le eventuali controversie
attinenti ad detto rapporto sono devolute alla giurisdizione
del Giudice Ordinario”.
Per tali motivi, la Sezione ha accolto l’appello, ordinando
all’amministrazione di esibire i documenti richiesti, entro
30 giorni dalla comunicazione della presente sentenza, con
il limite che l'accesso dovrà riguardare atti già formati
dall'amministrazione (nei quali potranno essere oscurati i
nominativi dei percettori della retribuzione) e non dati ed
informazioni che per essere forniti richiedano una specifica
attività di indagine e di elaborazione, circostanza
quest'ultima che, dato il tenore dell'istanza di accesso,
allo stato il Collegio non è in grado di valutare in
riferimento alle singole tipologie di atti relativi alla
ricordata istanza.
Brevi note conclusive
La sentenza in questione –non a caso pronunciata quale “sentenza
breve”- si pone lungo l’ampio e consolidato solco della
giurisprudenza amministrativa sulla materia dell’accesso
alla documentazione amministrativa, nella sua declinazione
afferente i diritti dei “cittadini-dipendenti pubblici”
nei confronti dei propri datori di lavoro.
Questa “declinazione” congiunge gli obblighi “esterni”
delle amministrazioni pubbliche con quelli “interni”,
nel senso che la trasparenza dell’azione amministrativa deve
valere tanto nei rapporti tra cittadini e PA che nei
rapporti tra l’amministrazione datrice di lavoro e i
soggetti preposti al concreto svolgimento delle funzioni
amministrative in qualità di dipendenti; con la (a mio
avviso ovvia) conseguenza che i dipendenti pubblici hanno il
diritto (nei limiti e nei termini di un interesse giuridico
tutelabile) di ottenere tutti i documenti rilevanti per la
gestione del rapporto di lavoro, che abbiano un riflesso “pratico,
concreto e diretto” sulla propria posizione lavorativa
(commento tratto da www.ipsoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
sono condonabili le opere edilizie abusivamente realizzate
in aree sottoposte a vincoli idrogeologico, paesaggistico e
ambientale, ed è indifferente che questi ultimi siano stati
apposti prima o dopo la presentazione dell’istanza di
condono, dato che, in sede di rilascio della concessione
edilizia in sanatoria per opere ricadenti in zona sottoposta
a vincolo previsto dall’art. 32 della legge n. 47 del 1985,
l’obbligo di acquisire il parere da parte della autorità
preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione
all’esistenza del vincolo stesso al momento in cui deve
essere valutata la domanda di condono.
Pertanto, il silenzio-assenso, istituto giuridico legato al
condono edilizio previsto dall’art. 35 della legge n. 47 del
1985, non si applica agli abusi non sanabili.
Il silenzio-assenso, istituto giuridico legato al condono
edilizio previsto dall’art. 35 della legge n. 47 del 1985,
non si applica agli abusi non sanabili.
Ai sensi degli articoli 33 della legge 28.02.1985 n.
47 e 32 comma 27 lett. c), del decreto-legge 30.09.2003 n. 269 convertito in legge 24.11.2003 n. 526 non
sono condonabili le opere edilizie abusivamente realizzate
in aree sottoposte a vincoli idrogeologico, paesaggistico e
ambientale, ed è indifferente che i vincoli siano stati
apposti prima o dopo la presentazione dell’istanza di
condono, dato che in sede di rilascio della concessione
edilizia in sanatoria per opere ricadenti in zona sottoposta
a vincolo previsto dall’art. 32, della legge n. 47 del 1985,
l’obbligo di acquisire il parere da parte dell’autorità
preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione
all’esistenza del vincolo stesso al momento in cui deve
essere valutata la domanda di condono; di conseguenza
ricorrendo di tali condizioni vanno applicati l’art. 33
della stessa legge e l’art. 32, comma 27, del decreto-legge
n. 269 del 2003, che non prevedono nessuna possibilità di
sanatoria mediante l’accertamento sulla compatibilità con il
vincolo dell’intervento già effettuato (Consiglio di Stato, IV sez., 21.12.2012 n. 6662).
In proposito la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha
ribadito che non sono condonabili le opere edilizie
abusivamente realizzate in aree sottoposte a vincoli
idrogeologico, paesaggistico e ambientale, ed è indifferente
che questi ultimi siano stati apposti prima o dopo la
presentazione dell’istanza di condono, dato che, in sede di
rilascio della concessione edilizia in sanatoria per opere
ricadenti in zona sottoposta a vincolo previsto dall’art. 32
della legge n. 47 del 1985, l’obbligo di acquisire il parere
da parte della autorità preposta alla tutela del vincolo
sussiste in relazione all’esistenza del vincolo stesso al
momento in cui deve essere valutata la domanda di condono
(tra le tante, Consiglio Stato, sez. IV, 19.03.2009 n.
1646).
Ricorrendo tali condizioni vanno applicati l’art. 33 della
legge n. 47 del 1985 e l’art. 32 comma 27, del decreto-legge
n. 269 del 2003, che non prevedono nessuna possibilità di
sanatoria mediante l’accertamento sulla compatibilità con il
vincolo dell’intervento già effettuato.
Di fronte al chiaro disposto del citato art. 32, comma 27,
che stabilisce l’assoluta insanabilità, alle condizioni ivi
previste, degl’interventi abusivi realizzati su immobili
sottoposti a vincolo paesaggistico, l’Amministrazione non
deve neanche svolgere ulteriori accertamenti sulle
caratteristiche dell’intervento al fine di valutare la sua
eventuale compatibilità con le ragioni del vincolo stesso,
non essendovi ragione di svolgere un’approfondita
istruttoria sulla tipologia dell’abuso quando
l’Amministrazione non può rilasciare il nulla-osta, stante
la preclusione normativa (Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 30.04.2013 n. 2057 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Industria insalubre
L’art. 216
t.u.l.s., nel consentire la permanenza delle industrie
insalubri nei centri abitati a certe condizioni e
accorgimenti tecnici, non ha autorizzato il Comune a
disporre una deroga al disposto della norma, tale da porre
nel nulla il precetto che vuole lontane dagli abitati le
lavorazioni insalubri. Al contrario, ha inserito una
prescrizione che si armonizza con le norme dello strumento
urbanistico e ha proprio il fine di allontanare quelle
lavorazioni a tutela della qualità della vita dei residenti.
Si tratta quindi di un ulteriore strumento di governo del
territorio che conferisce all’ente locale, nell’ambito del
generale potere pianificatorio, un’ampia potestà di
valutazione della tollerabilità o meno di quelle attività,
tanto ampia da comprendere anche l’interdizione
dall’esercizio delle attività stesse.
Del tutto pacificamente, la giurisprudenza evidenzia come
l’art. 216 t.u.l.s., nel consentire la permanenza delle
industrie insalubri nei centri abitati a certe condizioni e
accorgimenti tecnici, non ha autorizzato il Comune a
disporre una deroga al disposto della norma, tale da porre
nel nulla il precetto che vuole lontane dagli abitati le
lavorazioni insalubri. Al contrario, ha inserito una
prescrizione che si armonizza con le norme dello strumento
urbanistico e ha proprio il fine di allontanare quelle
lavorazioni a tutela della qualità della vita dei residenti.
Si tratta quindi di un ulteriore strumento di governo del
territorio che conferisce all’ente locale, nell’ambito del
generale potere pianificatorio, un’ampia potestà di
valutazione della tollerabilità o meno di quelle attività,
tanto ampia da comprendere anche l’interdizione
dall’esercizio delle attività stesse (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 22.01.2013 n. 364 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Rilascio certificato di agibilità.
Clausola convenzionale che
subordina il rilascio del certificato di agibilità
dell'immobile alla presentazione dell'atto di vincolo a
prima casa - Legittimità.
Prima di esaminare
nel dettaglio i singoli motivi d’appello è pertanto
necessario prendere posizione su tale dirimente aspetto
preliminare: la convenzione ed il permesso di costruire
recano, o no, disposizioni contrattuali o amministrative
aggiuntive rispetto a quanto previsto dalle norme tecniche
attuative?
La risposta è affermativa.
In effetti non v’è un’espressa o implicita formulazione
normativa, nel corpo dell’art. 42 delle NTA, che lasci
specificatamente intendere che l’agibilità dei progettati
edifici debba essere condizionata alla trascrizione del
vincolo o, ancor prima, alla verifica dei requisiti in capo
al fruitore (acquirente o locatario) dell’unità immobiliare.
La previsione è per la prima volta introdotta dalla
Convenzione di lottizzazione attraverso l’atto d’obbligo
allegato alla stessa, nonché ulteriormente specificata, sul
versante procedimentale, dal permesso di costruire.
Trattasi di una forma di cautela contrattuale che il Comune
ha inteso adottare, con il consenso del lottizzante, per
prevenire violazioni contrattuali foriere di conseguenze
risolutive e di inevitabile contenzioso. Subordinando
l’agibilità alla verifica dei requisiti ed alla trascrizione
del vincolo non ha dato una nuova conformazione all’istituto
(che com’è noto poggia su ben altre basi) ma ha disciplinato
la sequenza procedimentale in modo che l’agibilità sia
sostanzialmente richiesta proprio dai proprietari o dai
fruitori per i quali l’area è stata urbanisticamente
inquadrata, la lottizzazione inizialmente approvata e
l’immobile concretamente costruito.
Ciò ha potuto fare, anche attraverso l’imposizione di
prescrizioni in sede di rilascio del titolo, in quanto il
permesso di costruire ed il rilascio del certificato di
agibilità si collocano in un ambito di edilizia
convenzionata (basata per l’appunto sulla negoziabilità di
alcuni aspetti e sulla rilevanza della particolare “causa”
della prevista edificazione) costituendone l’appendice
esecutiva. Essi risentono della disciplina negoziale
concordata a monte, in modo da porsi come passaggi
procedimentali finalizzati non solo a garantire le esigenze
di carattere urbanizzativo, ma anche quelle più propriamente
connesse alla particolare funzione sociale della progettata
edificazione. Del resto che gli accordi sostitutivi di
provvedimento, nell’ambito dei quali può ormai pacificamente
sussumersi anche la convenzione di lottizzazione, possano
prevedere anche la disciplina del procedimento e delle sue
fasi non pare revocabile in dubbio.
In questo quadro, il rinvio da parte della NTA alla fonte
convenzionale per la disciplina del vincolo di destinazione
costituisce base sufficiente per un accordo (quale quello
per cui si controverte) in cui si stabiliscono, per il
rilascio dell’agibilità, modalità procedimentali causalmente
e cautelativamente collegate al vincolo di destinazione. Il
valido accordo costituisce, altresì, base consensuale
sufficiente a legittimare l’inserimento di concrete
previsioni procedimentali in tema di rilascio del
certificato di agibilità.
Ciò chiarito può ora passarsi alla disamina dei singoli
motivi d’appello.
Con il primo motivo d'appello la società sostiene che il TAR
non avrebbe considerato che l'amministrazione comunale
-inserendo dapprima nell'atto d'obbligo allegato alla
convenzione di lottizzazione, la clausola che "la
sottoscrizione del vincolo costituisce condizione necessaria
per il rilascio dell'abitabilità delle singole unità
immobiliari”, e poi nel permesso di costruire la
clausola che "il certificato di agibilità sarà rilasciato
per ogni singola unità immobiliare solo dopo che si è
conosciuto l'acquirente un locatario che si è dimostrato il
possesso dei requisiti dello stesso, e sia sottoscritto,
prima del rilascio dell'agibilità, nell'atto di vincolo"-
si sarebbe posta al di fuori delle norme urbanistiche di
riferimento ed in contrasto con esse (artt. 42, lett. c. e
26, comma 7, NTA).
L’affermazione non è corretta. Si è già detto che la
convenzione di lottizzazione reca un quid pluris
rispetto a quanto previsto dalle norme attuative, ma anche
che trattasi di una disposizione liberamente concordata
dalle parti che non è in contrasto con l’art. 42 lett. c.
delle NTA, ed anzi, ne costituisce lo svolgimento,
consentendo all’amministrazione il monitoraggio delle
successive fasi procedimentali sino al rilascio
dell’abitabilità, all’evidente fine di assicurare la
funzione per la quale l’edificazione è stata consentita
(destinazione a prima casa).
A ben vedere la clausola è poi assolutamente il linea con
quanto previsto dall’art. 26 comma 7 NTA, ove è stabilito
che “per la residenza permanente la validità del vincolo
di destinazione stabilita dalla convenzione non può essere
inferiore ad anni 20 dalla data di rilascio del certificato
di abitabilità”. Contrariamente a quanto sembra
sostenere l’appellante, l’aver fissato il dies a quo
del vincolo, alla data di rilascio del certificato di
abitabilità, non significa che l’abitabilità debba
necessariamente essere concessa appena l’immobile è ultimato
ed a prescindere dall’utilizzo conforme alla destinazione,
ma piuttosto che il vincolo per avere una funzione effettiva
deve sortire la sua efficacia solo da quanto l’immobile è
dichiarato abitabile e non quando esso è ancora in fase di
costruzione o è comunque inutilizzato.
Sotto altro profilo, ritiene la società appellante che
sarebbe illogico legare il rilascio del certificato di
agibilità alla presentazione di un atto di vincolo ad
utilizzare l’immobile quale prima casa, alterando
indebitamente lo schema di cui all’art. 24 del DPR 380/2001.
Viceversa, sempre a dire dell’appellante, sarebbe stato più
logico che fosse il costruttore dell’ immobile, una volta
ottenuto il certificato di agibilità, ad imporre, nell’atto
contrattuale, all’acquirente, la trascrizione del vincolo.
L’illogicità non sussiste. In disparte ogni considerazione
circa il chiaro disposto convenzionale, l’avere subordinato
il rilascio dell’abitabilità all’effettiva destinazione a
prima casa è espediente contrattuale che assicura, quanto
meno in prima battuta, il rispetto della funzione sociale
originariamente impressa alla proprietà, prevenendo
possibili inadempimenti.
Con il secondo motivo d'appello la società censura l’iter
argomentativo seguito dal TAR, il quale ricostruisce la
vincolatività ultra partes della clausola
convenzionale sulla base dell’espressa accettazione del
vincolo di destinazione formulata dall’appellante
nell’ambito della compravendita.
Così procedendo, il TAR avrebbe omesso di sciogliere il
dubbio, dirimente ai fini del decidere, sulla natura
dell’obbligazione, atteso che, ove trattasi –come sarebbe
secondo la tesi dell’appellante– di un obbligazione
personale, essa non può che impegnare l’acquirente nei
confronti dell’alienante, ma non nei confronti del Comune.
Il dubbio può essere sciolto in questa sede. La
giurisprudenza è ormai concorde nell’inquadrare la
convenzione di lottizzazione negli accordi sostitutivi di
provvedimento di cui all’art. 11 della legge 241/1990 (Cass.
civ. Sez. Unite, 01.07.2009, n. 15388; Cons. Stato Sez. IV
Sent., 29.02.2008, n. 781; Sez. IV, 02.08.2011, n. 4576).
Tali accordi, inserendosi nell'alveo dell'esercizio di un
potere, ne mutuano le caratteristiche e la natura, salva
l'applicazione dei principi civilistici in materia di
obbligazioni e contratti per aspetti non incompatibili con
la generale disciplina pubblicistica. La lottizzazione
costituisce quindi esercizio consensuale di un potere
pianificatorio che sfocia in un progetto ed in una serie di
disposizioni urbanistiche generanti obbligazioni od oneri,
rese pubbliche attraverso la trascrizione, che si impongono
anche agli aventi causa dal lottizzante in forza della loro
provenienza e funzione sostitutiva.
Nel caso di specie l’amministrazione si è comunque cautelata
imponendo l’obbligo di riferimento, nella stipula dei
contratti di compravendita, ai vincoli scaturenti dalla
lottizzazione, così creando un circuito obbligatorio che
giunge ai medesimi effetti, sebbene con tutti i limiti
derivanti dalla natura relativa delle obbligazioni
contratte. Ciò, ovviamente, non toglie validità all’assunto
di fondo che di per sé solo giustifica l’efficacia anche nei
confronti degli aventi causa delle previsioni pianificatorie
concordate.
Con il terzo motivo d'appello Immobilcommer afferma che la
clausola contenuta nello schema di atto d'obbligo che accede
alla convenzione di lottizzazione, e subordina il rilascio
della certificato di agibilità dell'immobile alla
presentazione dell'atto di vincolo a prima casa, sarebbe
nulla: per mancanza di una base di legge; per contrasto con
gli articoli 24 e seguenti del Testo unico edilizia; per
contrarietà all'ordine pubblico, ed in particolare, per
contrasto con gli articoli 41 e 42 della Costituzione; per
contrasto con l'articolo 1379 in quanto norma imperativa;
per illiceità del contenuto e della causa (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 21.01.2013 n. 324 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La convenzione di lottizzazione va
inquadrata negli accordi sostitutivi di provvedimento di cui
all’art. 11 della legge 241/1990.
Tali accordi, inserendosi nell'alveo dell'esercizio di un
potere, ne mutuano le caratteristiche e la natura, salva
l'applicazione dei principi civilistici in materia di
obbligazioni e contratti per aspetti non incompatibili con
la generale disciplina pubblicistica.
La lottizzazione costituisce quindi esercizio consensuale di
un potere pianificatorio che sfocia in un progetto ed in una
serie di disposizioni urbanistiche generanti obbligazioni od
oneri, rese pubbliche attraverso la trascrizione, che si
impongono anche agli aventi causa dal lottizzante in forza
della loro provenienza e funzione sostitutiva.
La
giurisprudenza è ormai concorde nell’inquadrare la
convenzione di lottizzazione negli accordi sostitutivi di
provvedimento di cui all’art. 11 della legge 241/1990 (Cass.
civ. Sez. Unite, 01.07.2009, n. 15388; Cons. Stato Sez. IV Sent., 29.02.2008, n. 781; Sez. IV,
02.08.2011,
n. 4576).
Tali accordi, inserendosi nell'alveo dell'esercizio di un
potere, ne mutuano le caratteristiche e la natura, salva
l'applicazione dei principi civilistici in materia di
obbligazioni e contratti per aspetti non incompatibili con
la generale disciplina pubblicistica.
La lottizzazione
costituisce quindi esercizio consensuale di un potere pianificatorio
che sfocia in un progetto ed in una serie di disposizioni
urbanistiche generanti obbligazioni od oneri, rese pubbliche
attraverso la trascrizione, che si impongono anche agli
aventi causa dal lottizzante in forza della loro provenienza
e funzione sostitutiva
(Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 21.01.2013 n. 324 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Struttura balneare per uso
temporaneo - Mancata rimozione allo scadere del periodo
concesso - Ordinanza di rimozione - Legittimità.
L’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede che vanno
considerati interventi eseguiti in totale difformità dal
permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione
di un organismo edilizio integralmente diverso «per
caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di
utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso».
Il concetto di “utilizzazione” diversa non
presuppone, come erroneamente assunto dalle appellanti, che
vengano realizzate opere edilizie in sé difformi dal titolo
abilitativo. E’ invece sufficiente, infatti, che venga posta
in essere una attività, anche omissiva dell0’adempimento di
un dovere di controazione, che per sua propria conseguenza
determini un mutamento di fatto nella utilizzazione
assentita per un tempo limitato. Per il tempo che non è
assentito dal titolo, infatti, l’opera diviene, grazie a
questa omissione di rimozione, in tutto e per tutto da
equiparare ad un manufatto sine titulo e come va tale
va in punto di sanzioni considerata.
Nel caso in esame, la concessione rilasciata autorizzava la
realizzazione di una struttura balneare con una “utilizzazione
temporanea”
limitata al periodo estivo.
Costituisce dato non contestato che invece le appellanti,
non provvedendo alla rimozione annuale, abbiamo creato una
struttura con una utilizzazione non più temporanea, ma
permanente: dunque abusiva.
L’ordinanza di demolizione è, pertanto, pienamente
legittima, con conseguente non rilevanza della questione
subordinata, relativa all’avvenuta traslazione della
struttura stessa (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 21.01.2013 n. 313 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'Amministrazione
non può opporsi all'esercizio del diritto di accesso
soltanto sulla base del rifiuto dell'interessato, a meno che
non si tratti di dati personali (dati c.d. "sensibili"),
cioè di quegli atti idonei a rivelare l'origine razziale o
etnica, le convinzioni religiose o politiche, lo stato di
salute o la vita sessuale dei terzi; nel qual caso l’accesso
deve essere comunque consentito ma a condizione che la
posizione giuridica soggettiva, che il richiedente deve far
valere o difendere, sia di rango almeno pari a quello della
persona cui si riferiscono tali dati.
Più specificamente, va ricordato che il d.lgs. 30.06.2003 n.
196, nel riprendere in larga misura le disposizioni che
erano già contenute nel d.lgs. 135 del 1999 ha riordinato i
principi applicabili ai dati sensibili e giudiziari
graduando la tutela della riservatezza e partendo da una
soglia minima per i dati “comuni”, passando per una
posizione intermedia relativamente ai “dati sensibili” fino
ad arrivare ad un assoluto livello di intangibilità per i
“dati sensibilissimi” poiché afferenti la salute o la vita
sessuale dell’interessato.
Ciò ricordato, va in ogni caso specificato che il diritto di
accesso costituisce la regola e, l’impedimento al suo
esercizio, l’eccezione.
Esso costituisce principio generale dell’attività
amministrativa in ragione delle sue rilevanti finalità di
interesse pubblico, tanto da essere ricondotto tra i livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali che, in base all’art. 117, comma 2, lettera m),
della Costituzione spetta alla potestà legislativa esclusiva
dello Stato garantire uniformemente su tutto il territorio
nazionale.
Quindi, il diritto di accesso ai documenti amministrativi
riconosciuto dagli artt. 22 e ss., l. 07.08.1990 n. 241
prevale sulle esigenze di riservatezza dei terzi
ogniqualvolta l'accesso venga in rilievo per la cura o la
difesa di interessi giuridici del richiedente. In tal senso,
il diritto ad accedere ai documenti sussiste anche in
relazione a dati particolarmente sensibili, allorché
preordinato alla tutela giudiziale di interessi di pari
dignità costituzionalmente tutelati.
Va preliminarmente specificato che l'Amministrazione non può
opporsi all'esercizio del diritto di accesso soltanto sulla
base del rifiuto dell'interessato, a meno che non si tratti
di dati personali (dati c.d. "sensibili"), cioè di
quegli atti idonei a rivelare l'origine razziale o etnica,
le convinzioni religiose o politiche, lo stato di salute o
la vita sessuale dei terzi; nel qual caso l’accesso deve
essere comunque consentito ma a condizione che la posizione
giuridica soggettiva, che il richiedente deve far valere o
difendere, sia di rango almeno pari a quello della persona
cui si riferiscono tali dati.
Più specificamente, va ricordato che il d.lgs. 30.06.2003 n.
196, nel riprendere in larga misura le disposizioni che
erano già contenute nel d.lgs. 135 del 1999 ha riordinato i
principi applicabili ai dati sensibili e giudiziari
graduando la tutela della riservatezza e partendo da una
soglia minima per i dati “comuni”, passando per una
posizione intermedia relativamente ai “dati sensibili”
fino ad arrivare ad un assoluto livello di intangibilità per
i “dati sensibilissimi” poiché afferenti la salute o
la vita sessuale dell’interessato.
Ciò ricordato, va in ogni caso specificato che il diritto di
accesso costituisce la regola e, l’impedimento al suo
esercizio, l’eccezione.
Esso costituisce principio generale dell’attività
amministrativa in ragione delle sue rilevanti finalità di
interesse pubblico, tanto da essere ricondotto tra i livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali che, in base all’art. 117, comma 2, lettera m),
della Costituzione spetta alla potestà legislativa esclusiva
dello Stato garantire uniformemente su tutto il territorio
nazionale.
Quindi, il diritto di accesso ai documenti amministrativi
riconosciuto dagli artt. 22 e ss., l. 07.08.1990 n. 241
prevale sulle esigenze di riservatezza dei terzi
ogniqualvolta l'accesso venga in rilievo per la cura o la
difesa di interessi giuridici del richiedente. In tal senso,
il diritto ad accedere ai documenti sussiste anche in
relazione a dati particolarmente sensibili, allorché
preordinato alla tutela giudiziale di interessi di pari
dignità costituzionalmente tutelati.
Nel caso che occupa il Collegio ci si trova di fronte ad una
semplice istanza di accesso agli atti relativi ad una
procedura concorsuale. Non sussistono pertanto motivi per
negare l’accesso agli atti, soprattutto se si ricorda che,
ad opera della l. n. 15 del 2005, nella l. n. 241 del 1990 è
stata codificata la prevalenza del diritto di accesso agli
atti amministrativi, salvo alcuni limiti che devono essere
previsti da disposizioni di carattere derogativo ed
eccezionale.
Solo qualora negli atti oggetto della richiesta, siano
contenuti dati che incidono sulla sfera di riservatezza
dell’interessata (nel significato sopra ampiamente esposto)
e non utili alla tutela della posizione giuridica della
ricorrente, non è precluso all’Amministrazione di procedere
all’esibizione dei medesimi ed al rilascio di copia, previo
ricorso allo strumento dell’occultamento di quei dati
ritenuti coperti da esigenze di riservatezza attraverso
l'apposizione di un “omissis” nelle copie degli
stessi nelle parti eventualmente interessate da tale
esigenza (nel senso della illegittimità del diniego motivato
sull’esigenza di non rendere conoscibile un dato altamente
sensibile per la possibilità di ricorrere all’apposizione di
un “omissis” ha già avuto modo di esprimersi questo
Tribunale Amministrativo Regionale sezione II, con sentenza
18.09.2006, n. 1711).
Ancora un punto il Collegio intende specificare. Il diritto
di accesso non costituisce solo un istituto volto alla
difesa in giudizio di una posizione individuale, ma esso,
quale principio generale dell’attività amministrativa, deve
intendersi quale interesse ad un bene della vita distinto
rispetto alla situazione legittimante all’impugnazione.
L’unico limite che si può porre è il vaglio della
sussistenza dell’interesse meritevole di protezione che,
deve essere limitato alla inerenza alla sfera giuridica del
soggetto richiedente, alla tangibilità ed alla serietà,
requisiti che nel caso di specie sussistono senza dubbio
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza
10.04.2009 n. 517 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
potere di annullamento d'ufficio delle concessioni di
costruzione illegittime, conferito al Sindaco dagli artt. 10
della l. 06.08.1967 n. 765 e 1 della l. 28.01.1977 n. 10,
diverge da quello conferito alla Regione dagli artt. 7 della
legge n. 765 cit. e 1 D.P.R. 15.01.1972 n. 8.
Infatti, mentre il primo deve valutare l'interesse pubblico
alla rimozione dell' atto invalido alla stregua delle altre
possibilità di eliminare, in via alternativa, il vizio
riscontrato (modifica agli strumenti urbanistici, offerta di
integrazione delle opere di urbanizzazione, ecc.), la
seconda -che è titolare solo di poteri di vigilanza e di
controllo ma priva della facoltà di sostituirsi all' Ente
locale nell' adottare determinate scelte- è tenuta a
valutare l'interesse pubblico con riferimento esclusivo all'
interesse alla conservazione della situazione esistente.
L’annullamento regionale si configura, anche per espresso
richiamo normativo, come esercizio particolare del generale
potere di annullamento d’ufficio di cui all’art. 6 del R.D.
03.03.1934 n. 383, caratterizzato nella specifica previsione
normativa dall’attribuzione non ad un autorità che si trova
in posizione di sovraordinazione rispetto al Comune, ma
all’ente che divide con esso (la Regione) le competenze in
materia urbanistica, secondo un modello di ripartizione
concorrente delle funzioni, che si articola su un piano
sostanzialmente paritario, dove la prevalenza della scelta
regionale è limitata a quei momenti nei quali essa si
presenta come inevitabile per la funzionalità stessa del
sistema.
In entrambi i casi si è in presenza di poteri discrezionali,
ciò che è differente è lo spettro degli interessi che
entrano nella valutazione comparativa che l’ente deve
effettuare e la prospettiva –dinamica per il Comune e
statica per la Regione– nella quale devono essere esaminati.
Deve soggiungersi che l'esercizio del potere sostitutivo
previsto dall'art. 27 legge n. 1150 del 1942 e succ. mod., a
differenza dei poteri di autotutela del Comune, non comporta
un riesame del proprio precedente operato, ma è finalizzato
allo scopo di ricondurre le Amministrazioni comunali al
rigoroso rispetto della normativa in materia edilizia.
---------------
Il provvedimento regionale di annullamento ai sensi
dell’art. 27 della l. 17.08.1942 n. 1150 –come s’è detto- si
caratterizza per la natura discrezionale.
Come è noto, là dove esercita una funzione discrezionale, la
P.A. procedente ha l'obbligo di spiegare congruamente le
ragioni per cui ha effettuato una determinata scelta, onde
consentire la valutazione dell'avvenuto rispetto di tutte la
regole che presiedono a detta funzione.
Invero, il difetto di motivazione -in violazione dell'art. 3
della l. 07.08.1990 n. 241, che richiede di indicare i
presupposti di fatto e le ragioni giuridiche in relazione
alle risultanze dell'istruttoria- si configura ove l’atto
amministrativo non consenta di comprendere in base a quali
dati specifici sia stata operata la scelta della pubblica
amministrazione, permettendo quindi al giudice di verificare
il percorso logico seguito nell'applicare i criteri generali
nel caso concreto.
Peraltro, va soggiunto che, secondo il più recente indirizzo
giurisprudenziale, in omaggio ad una visione non meramente
formale dell'obbligo di motivazione (e coerentemente con i
principi di trasparenza e lealtà desumibili dall'art. 97
Cost.), la funzione della motivazione si può dir soddisfatta
anche quando nell'atto impugnato non siano esplicitamente e
compiutamente esplicitate le ragioni sottese alla
statuizione, ma queste possano essere agevolmente colte
dalla lettura degli atti afferenti alle varie fasi in cui si
articola il procedimento.
...
Va ricordato, che parte della giurisprudenza, muovendo dalla
considerazione che l'esercizio del potere sostitutivo
previsto dall'art. 27 della l. n. 1150 del 1942 è
finalizzato allo scopo di ricondurre le Amministrazioni
comunali al rigoroso rispetto della normativa in materia
edilizia, ha ritenuto che non sia necessario motivare in
ordine alla sussistenza di uno specifico ed ulteriore
interesse pubblico all’annullamento, ritenendo che questo
inest in re ipsa.
Il thema decidendum all’esame del Collegio attiene
all’identificazione dei presupposti, nonché alla
determinazione delle modalità procedimentali, del potere
regionale di annullamento di deliberazioni comunali non
conformi agli strumenti urbanistici.
L’art. 27, primo comma, della l. 17.08.1942 n. 1150 (recante
la rubrica “annullamento di autorizzazione comunali”),
così come sostituito dall’art. 7 della legge 06.08.1967, n.
765, prevede che “Entro dieci anni dalla loro adozione le
deliberazioni ed i provvedimenti comunali che autorizzano
opere non conformi a prescrizioni del piano regolatore o del
programma di fabbricazione od a norme del regolamento
edilizio, ovvero in qualsiasi modo costituiscano violazione
delle prescrizioni o delle norme stesse possono essere
annullati, ai sensi dell'articolo 6 del testo unico della
legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto
03.03.1934, n. 383, con decreto del Presidente della
Repubblica su proposta del Ministro per i lavori pubblici di
concerto con quello per l'interno”.
Siffatto potere è stato, quindi, trasferito alle Regioni ai
sensi dell’art. 1, lett. o), del D.P.R. 15.01.1972 n. 8, là
dove si prevede, nell’effettuare il trasferimento alle
Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative
statali in materia di urbanistica la clausola d’ordine
generale “ogni ulteriore funzione amministrativa
esercitata dagli organi centrali e periferici dello Stato …”
(cfr. in tal senso: Cons. Stato sez. V 30.9.1980 n. 801, la
quale evidenzia che l’elencazione di cui all’art. lett. da
a) ad n) ha carattere esemplificativo, stante la
disposizione di chiusura contenuta nella successiva lett.
o).
Il terzo comma dell’art. 27 cit. prevede che il
provvedimento di accertamento …è preceduto dalla
contestazione delle violazioni stesse al titolare della
licenza, al proprietario della costruzione e al progettista,
nonché alla Amministrazione comunale con l'invito a
presentare controdeduzioni entro un termine all'uopo
prefissato.
Sotto il profilo sistematico (cfr. Consiglio Stato, sez. IV,
20.02.1998, n. 315, TAR Brescia 06.05.1988 n. 365 e la
giurisprudenza antecedente ivi richiamata) va rilevato che
il potere di annullamento d'ufficio delle concessioni di
costruzione illegittime, conferito al Sindaco dagli artt. 10
della l. 06.08.1967 n. 765 e 1 della l. 28.01.1977 n. 10,
diverge da quello conferito alla Regione dagli artt. 7 della
legge n. 765 cit. e 1 D.P.R. 15.01.1972 n. 8.
Infatti, mentre il primo deve valutare l'interesse pubblico
alla rimozione dell' atto invalido alla stregua delle altre
possibilità di eliminare, in via alternativa, il vizio
riscontrato (modifica agli strumenti urbanistici, offerta di
integrazione delle opere di urbanizzazione, ecc.), la
seconda -che è titolare solo di poteri di vigilanza e di
controllo ma priva della facoltà di sostituirsi all' Ente
locale nell' adottare determinate scelte- è tenuta a
valutare l'interesse pubblico con riferimento esclusivo all'
interesse alla conservazione della situazione esistente.
L’annullamento regionale si configura, anche per espresso
richiamo normativo, come esercizio particolare del generale
potere di annullamento d’ufficio di cui all’art. 6 del R.D.
03.03.1934 n. 383, caratterizzato nella specifica previsione
normativa dall’attribuzione non ad un autorità che si trova
in posizione di sovraordinazione rispetto al Comune, ma
all’ente che divide con esso (la Regione) le competenze in
materia urbanistica, secondo un modello di ripartizione
concorrente delle funzioni, che si articola su un piano
sostanzialmente paritario, dove la prevalenza della scelta
regionale è limitata a quei momenti nei quali essa si
presenta come inevitabile per la funzionalità stessa del
sistema.
In entrambi i casi si è in presenza di poteri discrezionali,
ciò che è differente è lo spettro degli interessi che
entrano nella valutazione comparativa che l’ente deve
effettuare e la prospettiva –dinamica per il Comune e
statica per la Regione– nella quale devono essere esaminati.
Deve soggiungersi che l'esercizio del potere sostitutivo
previsto dall'art. 27 legge n. 1150 del 1942 e succ. mod., a
differenza dei poteri di autotutela del Comune, non comporta
un riesame del proprio precedente operato, ma è finalizzato
allo scopo di ricondurre le Amministrazioni comunali al
rigoroso rispetto della normativa in materia edilizia.
--------------
Il provvedimento regionale di
annullamento ai sensi dell’art. 27 della l. 17.08.1942 n.
1150 –come s’è detto- si caratterizza per la natura
discrezionale.
Come è noto, là dove esercita una funzione discrezionale, la
P.A. procedente ha l'obbligo di spiegare congruamente le
ragioni per cui ha effettuato una determinata scelta, onde
consentire la valutazione dell'avvenuto rispetto di tutte la
regole che presiedono a detta funzione.
Invero, il difetto di motivazione -in violazione dell'art. 3
della l. 07.08.1990 n. 241, che richiede di indicare i
presupposti di fatto e le ragioni giuridiche in relazione
alle risultanze dell'istruttoria- si configura ove l’atto
amministrativo non consenta di comprendere in base a quali
dati specifici sia stata operata la scelta della pubblica
amministrazione, permettendo quindi al giudice di verificare
il percorso logico seguito nell'applicare i criteri generali
nel caso concreto.
Peraltro, va soggiunto che, secondo il più recente indirizzo
giurisprudenziale, in omaggio ad una visione non meramente
formale dell'obbligo di motivazione (e coerentemente con i
principi di trasparenza e lealtà desumibili dall'art. 97
Cost.), la funzione della motivazione si può dir soddisfatta
anche quando nell'atto impugnato non siano esplicitamente e
compiutamente esplicitate le ragioni sottese alla
statuizione, ma queste possano essere agevolmente colte
dalla lettura degli atti afferenti alle varie fasi in cui si
articola il procedimento (cfr. Consiglio Stato, sez. IV,
27.12.2001 n. 6417, idem 29/04/2002, n. 2281).
...
Va, sotto altro profilo, ricordato, che parte della
giurisprudenza (cfr. Consiglio Stato sez. IV 16.03.1998 n.
443), muovendo dalla considerazione che l'esercizio del
potere sostitutivo previsto dall'art. 27 della l. n. 1150
del 1942 è finalizzato allo scopo di ricondurre le
Amministrazioni comunali al rigoroso rispetto della
normativa in materia edilizia, ha ritenuto che non sia
necessario motivare in ordine alla sussistenza di uno
specifico ed ulteriore interesse pubblico all’annullamento,
ritenendo che questo inest in re ipsa
(TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 23.06.2003 n. 870). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Le
norme in materia di partecipazione al procedimento
amministrativo non vanno applicate necessariamente e
formalmente, ma debbono essere interpretate in base a un
criterio di realistica valutazione sull'effettiva conoscenza
o conoscibilità di una sequenza e dei suoi probabili effetti
lesivi.
In tale prospettiva, si è rilevato che il sistema di
democraticità delle decisioni amministrative, a cui è
preordinato l'art. 7 l. 07.08.1990 n. 241, va presidiato
nella sostanza e non nella mera forma, sicché ogni qual
volta l'interessato sia stato informato dell'esistenza di un
procedimento diretto ad incidere sulla sua sfera giuridica e
sia stato messo in condizione di utilmente rappresentare il
proprio punto di vista, così da integrare la nozione di
partecipazione, non può ritenersi violato alcun canone del
giusto procedimento.
La giurisprudenza (cfr.
Consiglio Stato, sez. V, 30.09.2002, n. 5058) ha, peraltro,
sottolineato che le norme in materia di partecipazione al
procedimento amministrativo non vanno applicate
necessariamente e formalmente, ma debbono essere
interpretate in base a un criterio di realistica valutazione
sull'effettiva conoscenza o conoscibilità di una sequenza e
dei suoi probabili effetti lesivi.
In tale prospettiva, si è rilevato (cfr. Consiglio Stato,
sez. V, 18.11.2002, n. 6389) che il sistema di democraticità
delle decisioni amministrative, a cui è preordinato l'art. 7
l. 07.08.1990 n. 241, va presidiato nella sostanza e non
nella mera forma, sicché ogni qual volta l'interessato sia
stato informato dell'esistenza di un procedimento diretto ad
incidere sulla sua sfera giuridica e sia stato messo in
condizione di utilmente rappresentare il proprio punto di
vista, così da integrare la nozione di partecipazione, non
può ritenersi violato alcun canone del giusto procedimento
(TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 23.06.2003 n. 870). |
EDILIZIA
PRIVATA: Non
può affatto riconoscersi alla cupola piramidale e alla
copertura della galleria (ndr: di un centro commerciale)
natura di volumi tecnici.
Questi ultimi sono, infatti, soltanto quelli destinati ad
ospitare impianti aventi un rapporto di strumentalità
necessaria con l'utilizzazione dell'immobile e che non
possono essere sistemati all'interno della parte abitativa,
quali impianti idrici, termici, macchine degli ascensori,
ecc., mentre non vi possono rientrare quelli che assolvano
ad una funzione diversa, sia pur necessaria al godimento
dell'edificio stesso e delle sue singole porzioni di
proprietà individuale.
In tale seconda categoria rientrano, quindi, la cupola e la
galleria coperta, in quanto elementi che sono posti a
servizio dei singoli esercizi che costituiscono, nel loro
insieme, il centro commerciale, il quale trova la propria
ragion d’essere nella comune utilizzazione degli spazi
(parcheggi, gallerie coperte, ecc.) che consentono agli
utenti di accedere contestualmente e comodamente ad una
pluralità di negozi di variegata tipologia.
Per quanto riguarda il superamento delle altezze massime, va
evidenziato che non può affatto riconoscersi alla cupola
piramidale e alla copertura della galleria natura di volumi
tecnici.
Questi sono, infatti, soltanto quelli destinati ad ospitare
impianti aventi un rapporto di strumentalità necessaria con
l'utilizzazione dell'immobile e che non possono essere
sistemati all'interno della parte abitativa, quali impianti
idrici, termici, macchine degli ascensori, ecc., mentre non
vi possono rientrare quelli che assolvano ad una funzione
diversa, sia pur necessaria al godimento dell'edificio
stesso e delle sue singole porzioni di proprietà
individuale.
In tale seconda categoria rientrano, quindi, la cupola e la
galleria coperta, in quanto elementi che sono posti a
servizio dei singoli esercizi che costituiscono, nel loro
insieme, il centro commerciale, il quale trova la propria
ragion d’essere nella comune utilizzazione degli spazi
(parcheggi, gallerie coperte, ecc.) che consentono agli
utenti di accedere contestualmente e comodamente ad una
pluralità di negozi di variegata tipologia (TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 23.06.2003 n. 870). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA: Gli
spazi di cui al D.M. 02.04.1968 sono aggiuntivi e non
sostitutivi di quelli imposti dall'art. 18 della legge
06.08.1967 n. 675 (la cui misura è stata successivamente
modificata dalla legge n. 112/1989) commisurati a 1 mq. ogni
10 mc. di edificio.
Infatti, mentre i primi sono disciplinati dall'art.
41-quinquies, ottavo comma, i secondi sono previsti
dall'art. 41-sexies della l. 17.08.1942 n. 1150.
Mentre quelli di cui alla prima disposizione sono
qualificati come aree pubbliche da conteggiarsi ai fini
della dotazione di "standard", i parcheggi di cui al
successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree private
pertinenziali alle nuove costruzioni, di guisa che l'art. 3,
comma 2, lett. d), del D.M. 02.04.1968 espressamente li
esclude dal computo nel calcolo della misura degli
"standard".
---------------
In relazione alla c.d. monetizzazione degli standard,
occorre richiamare l'art. 12, lett. a), della legge
regionale 05.12.1977 n. 60, il quale stabilisce che, qualora
l'acquisizione delle aree necessarie per le opere di
urbanizzazione primaria e per le attrezzature pubbliche e di
uso pubblico "non venga ritenuta opportuna dal comune in
relazione alla loro estensione, conformazione o
localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di
intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa
totale o parziale della cessione, che all'atto della stipula
i lottizzanti corrispondano al comune una somma commisurata
all'utilità economica conseguita per effetto della mancata
cessione e comunque non inferiore al costo dell'acquisizione
di altre aree".
La legislazione regionale àncora la monetizzazione a precisi
presupposti, considerato che la monetizzazione presuppone
comunque un'offerta di aree, restando in facoltà del Comune
disporne la commutazione sulla base di un apprezzamento
complesso, che investe: da un lato l'idoneità o meno delle
aree offerte, in funzione dell'uso pubblico cui verrebbero
destinate; dall'altro, la possibilità di acquisire aree
alternative (monetizzazione a carico del lottizzante) per
mantenere invariato il livello di dotazione standard
richiesto dal piano regolatore (livello che non può comunque
scendere al di sotto del minimo legale).
Si tratta, dunque di una facoltà discrezionale del Comune,
non di un diritto del privato, il quale non può ritenersi
esente dall'onere di individuare le aree da computare in
quota standard.
Infine, va disattesa la contestazione relativa agli spazi
per parcheggi.
Il D.M. 02.04.1968, emesso in attuazione dell'art.
41-quinquies, comma ottavo e nono della l. 17.08.1942 n.
1150 (come introdotto dall'art. 17 della l. 06.08.1967 n.
765), disciplina i cosiddetti standard urbanistici ed
edilizi.
In particolare, per quanto in questa sede interessa, l'art.
5 di tale Decreto individua i rapporti massimi tra gli spazi
destinati agli insediamenti produttivi e gli spazi pubblici
destinati alle attività collettive, a verde pubblico o a
parcheggi, prescrivendo che:
1) nei nuovi insediamenti di carattere industriale o ad essi
assimilabili compresi nelle zone D) la superficie da
destinare a spazi pubblici o destinata ad attività
collettive, a verde pubblico o a parcheggi (escluse le sedi
viarie) non può essere inferiore al 10% dell'intera
superficie destinata a tali insediamenti;
2) nei nuovi insediamenti di carattere commerciale e
direzionale, a 100 mq. di superficie lorda di pavimento di
edifici previsti, deve corrispondere la quantità minima di
80 mq. di spazio, escluse le sedi viarie, di cui almeno la
metà destinata a parcheggi (in aggiunta a quelli di cui
all'art. 18 della legge n. 765); tale quantità, per le zone
A) e B) è ridotta alla metà, purché siano previste adeguate
attrezzature integrative.
Va chiarito che gli spazi di cui al cit. D.M. sono
aggiuntivi e non sostitutivi di quelli imposti dall'art. 18
della legge 06.08.1967 n. 675 (la cui misura è stata
successivamente modificata dalla legge n. 112/1989)
commisurati a 1 mq. ogni 10 mc. di edificio.
Infatti, mentre i primi sono disciplinati dall'art.
41-quinquies, ottavo comma, i secondi sono previsti
dall'art. 41-sexies della l. 17.08.1942 n. 1150.
Mentre quelli di cui alla prima disposizione sono
qualificati come aree pubbliche da conteggiarsi ai fini
della dotazione di "standard", i parcheggi di cui al
successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree private
pertinenziali alle nuove costruzioni, di guisa che l'art. 3,
comma 2, lett. d), del D.M. 02.04.1968 espressamente li
esclude dal computo nel calcolo della misura degli "standard".
Nella regione Lombardia, l'art. 22 della legge regionale n.
51 del 15.04.1975 ha previsto che "la dotazione minima di
standard funzionali ai nuovi insediamenti di carattere
commerciale - stabilita dall'art. 5 del D.M. n. 1444 in
misura dell'80% della superficie lorda di pavimento è
elevata al 100%. Di tali aree almeno la metà dovrà essere
destinata a parcheggi di uso pubblico".
È evidente la ratio di tali disposizioni: dato che i
centri commerciali richiamano un elevato numero di
consumatori è necessario -al fine di evitare disfunzioni e
pericoli alla circolazione stradale e turbative alle
proprietà che potrebbero essere causate dall'ingente numero
di veicoli che in tali luoghi affluiscono- predisporre in
loco un congruo numero di spazi destinati al parcheggio.
In relazione alla c.d. monetizzazione degli standard,
occorre richiamare l'art. 12, lett. a), della legge
regionale 05.12.1977 n. 60, il quale stabilisce che, qualora
l'acquisizione delle aree necessarie per le opere di
urbanizzazione primaria e per le attrezzature pubbliche e di
uso pubblico "non venga ritenuta opportuna dal comune in
relazione alla loro estensione, conformazione o
localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di
intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa
totale o parziale della cessione, che all'atto della stipula
i lottizzanti corrispondano al comune una somma commisurata
all'utilità economica conseguita per effetto della mancata
cessione e comunque non inferiore al costo dell'acquisizione
di altre aree".
La legislazione regionale àncora la monetizzazione a precisi
presupposti, considerato che la monetizzazione presuppone
comunque un'offerta di aree, restando in facoltà del Comune
disporne la commutazione sulla base di un apprezzamento
complesso, che investe: da un lato l'idoneità o meno delle
aree offerte, in funzione dell'uso pubblico cui verrebbero
destinate; dall'altro, la possibilità di acquisire aree
alternative (monetizzazione a carico del lottizzante) per
mantenere invariato il livello di dotazione standard
richiesto dal piano regolatore (livello che non può comunque
scendere al di sotto del minimo legale).
Si tratta, dunque di una facoltà discrezionale del Comune,
non di un diritto del privato, il quale non può ritenersi
esente dall'onere di individuare le aree da computare in
quota standard.
Si comprende, quindi, che la Giunta regionale là dove ha
affermato la palese inopportunità della disposta
monetizzazione ha utilizzato detto termine in senso
improprio, avendo inteso, in realtà, censurare sotto il
profilo della legittimità la mancanza dei presupposti nella
specie per addivenirsi alla monetizzazione, derivante dalla
mancata individuazione, da parte del Comune, in altre zone
del proprio territorio, di aree idonee ad integrare le
superfici a standard indotte dall’intervento in questione
(TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 23.06.2003 n. 870). |
AGGIORNAMENTO AL
15.07.2013 |
ã |
Se avete i denti da far sistemare fatelo subito,
domani stesso ... altrimenti, il Vs. dentista di
fiducia Ve la fa pagar cara (... la dentiera
nuova)!! |
Andiamo talmente di fretta che non c'è più tempo per
leggere bene e tutto (almeno, parliamo per noi ...).
E nel caos quotidiano di lavoro, ci è scappato l'okkio
su di un pronunciamento della Cassazione penale
secondo il quale
"Le acque reflue
degli studi odontoiatrici privati rientrano nel
novero delle acque reflue industriali in quanto
provenienti da attività di prestazione di servizi
che ne rendono impossibile l'equiparazione con le
acque reflue domestiche anche in ragione
dell'utilizzazione, nelle attività terapeutiche, di
sostanze, quali anestetici e farmaci, estranee alla
vita domestica". |
AVETE LETTO BENE?? |
Alzi la mano quanti di Voi hanno autorizzato lo
studio odontoiatrico, sito nel proprio comune, a
scaricare quel liquido proveniente dallo sciacquar
la bocca quale "acque reflue industriali"!!
Non solo, visto che lo studio odontoiatrico -spesso e
volentieri- sta all'interno di un condomìnio più o
meno grande, alzi la mano quanti di Voi hanno
autorizzato a scaricare in pubblica fognatura le
"acque reflue industriali" del singolo condòmino
(nella fattispecie, lo studio odontoiatrico) quando
l'autorizzazione -di norma- è rilasciata
all'amministratore di condomìnio ovvero, laddove
inesistente, al "capo-casa"!!
Ebbene, la questione parrebbe stare proprio nei
suddetti termini ... e basta leggere le due sentenze
sotto riportate. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Acque - Reflui derivanti dall’attività odontoiatrica - Acque
reflue industriali - Fattispecie (Art. 74, 101, 137, D.Lgs.
n. 152/2006).
I reflui promananti dagli studi
odontoiatrici privati non sono assimilabili alle acque
reflue domestiche, anche in ragione dell’utilizzazione,
nelle attività terapeutiche, di sostanze, quali anestetici
e farmaci, estranee alla vita domestica, e rientrano perciò
nel novero delle acque reflue industriali (nella specie, un
odontoiatra faceva confluire i propri reflui nel canale di
raccolta delle acque piovane).
Il Tribunale di Catania condannava il titolare di uno studio
odontoiatrico perché senza autorizzazione scaricava i
reflui provenienti dall’attività medico-dentistica sul
marciapiede della pubblica via tramite un tubo in PVC e da
questo, mediante una sottotraccia con copertura cementizia,
raggiungevano la grata delle acque piovane, senza
distinzione tra semplici acque reflue ed acque contenenti
rifiuti tossici e nocivi.
L’imputato, insoddisfatto della decisione, ricorreva per
cassazione eccependo che il decreto assessoriale n. 34487
del 23.04.2001 prevedeva per gli studi odontoiatrici
privati lo smaltimento delle acque reflue mediante scarichi
confluenti nella rete fognaria comunale, senza necessità di
specifici pozzetti di ispezione giacché tali studi non sono
insediamenti produttivi. In secondo luogo, denunciava la
violazione del D.Lgs. n. 152/2006 ritenendo che le acque
scaricate fossero reflui domestici e non industriali.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha prima di tutto
osservato che i motivi del ricorso si fondavano entrambi
sull’asserto che le acque reflue degli studi odontoiatrici
privati non fossero qualificabili come acque reflue
industriali.
In secondo luogo, ha ricordato che, secondo la conforme
giurisprudenza della Suprema Corte, per determinare le acque
che derivano dalle attività produttive (che non necessitano
per essere tali di un vero e proprio stabilimento, ma il cui
insediamento può essere effettuato anche in un edificio che
non abbia complessivamente destinazione industriale
(1)
occorre procedere a contrario, vale a dire escludere le
acque ricollegabili al metabolismo umano e provenienti dalla realtà domestica.
Il che significa che non dalla natura della struttura in
cui sono prodotte (insediamento industriale o meno), bensì
dalla natura delle acque stesse scaturisce l’applicabilità
della tutela penale dall’inquinamento idrico.
A questa stregua, la Corte ha opinato che il giudice di
merito avesse correttamente applicato la normativa di
settore ritenendo che i reflui prodotti dagli studi
odontoiatrici non sono qualificabili domestici perché
provengono da una attività che effettua servizi terapeutici
e che e` anche fornitrice di beni ai clienti (si pensi alle
protesi dentarie); inoltre, le acque in questione, per
l’utilizzazione nelle attività terapeutiche di sostanze
estranee alla vita domestica (quali, per esempio, gli
anestetici e in generale i farmaci), non possono neppure
qualificarsi come dotate di caratteristiche qualitative
equivalenti a quelle domestiche (cfr. art. 101, comma 7,
lett. e) ai fini della disciplina regionale assimilativa
(2).
---------------
(1) Si veda a questo proposito: – Cass. 07.07.2011, Boccia,
in questa Rivista, 2012, pag. 467.
(2) In tema di reflui provenienti da laboratori
odontotecnici, si veda: – Cass. 18.06.2009, Tonelli, in
questa Rivista, 2010, pag. 170
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.01.2013 n. 2340
- commento tratto da Ambiente & Sviluppo n. 7/2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Acque. Reflui provenienti da studio odontoiatrico.
Le acque reflue degli studi odontoiatrici privati rientrano
nel novero delle acque reflue industriali in quanto
provenienti da attività di prestazione di servizi che ne
rendono impossibile l'equiparazione con le acque reflue
domestiche anche in ragione dell'utilizzazione, nelle
attività terapeutiche, di sostanze, quali anestetici e
farmaci, estranee alla vita domestica (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.01.2013 n. 2340
- tratto
da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Acque - Scarico di reflui provenienti da laboratori
odontotecnici - Equiparazione acque reflue domestiche -
Esclusione (Art.
137, comma 1, del D.Lgs. n. 152/2006).
L’equiparazione delle acque derivanti da
attività di produzione di beni o comunque non connesse al
metabolismo umano alle acque reflue domestiche è
subordinata all’esistenza di determinate condizioni (nella
fattispecie si trattava di reflui provenienti da laboratori
odontotecnici).
Quella in
rassegna è l’ennesima sentenza sulla questione dell’assimilabilità
dei reflui derivanti da servizi a quelli domestici.
Nella specie, si tratta dello scarico senza la prescritta
autorizzazione nelle pubbliche fognature delle acque di
lavorazione della squadra modelli ad acqua, nonché di
quelle utilizzate per la rifinitura dei manufatti, nella
vaporiera e nel lavabo presenti nell’impianto per la pulizia
degli attrezzi, provenienti da un laboratorio odontotecnico.
Per i ricorrenti la condanna è ingiusta perché, premesso
che la definizione di acque reflue industriali si
caratterizza, ai sensi dell’art. 74, lett. h), D.Lgs. n.
152/2006, per la sua connotazione negativa, il criterio
generale adottato dal legislatore per individuare le acque
industriali è quello afferente alla qualità del refluo,
sicché, in applicazione del citato criterio sostanziale,
sono individuate dall’art. 101, comma 7, del decreto
legislativo alcune tipologie di acque assimilate a quelle
domestiche, ai fini della disciplina degli scarichi.
Tra tali tipologie di acque, nella lett. e) sono indicate le
acque «aventi caratteristiche equivalenti a quelle
domestiche e indicate nella normativa regionale.»
Si osserva, quindi, in sintesi, che ai sensi dell’art. 5 del
Regolamento della Regione Lombardia
24.03.2006 n. 3, emesso in attuazione dell’art. 52, comma
primo lett. A), della
legge regionale 12.12.2003, n. 26, sono assimilabili a
quelle domestiche, tra le altre,
«Le acque che in relazione al tipo di attività da cui
derivano e per le quali si realizza un
consumo medio giornaliero inferiore a 20 mc. siano ritenute
assimilabili senza necessità di
accertamenti tecnici dell’autorità competente» (art. 5,
comma 4).
Si osserva, poi, che in tale categoria rientrano le acque
provenienti dagli studi odontotecnici
con un consumo medio giornaliero di acqua inferiore a 20 mc.,
i cui titolari, secondo
la modulistica predisposta dal Comune, non devono chiedere
l’autorizzazione all’immissione
in pubblica fognatura, bensì presentare la «Dichiarazione
di scarico di acque reflue
domestiche e/o dichiarazione di assimilabilità degli
scarichi idrici.»
In definitiva, alla luce dei citati riferimenti normativi,
l’immissione in pubblica fognatura
delle acque reflue provenienti dal laboratorio odontotecnico
dei ricorrenti doveva essere
equiparata a quella delle acque domestiche e, pertanto,
eventualmente soggetta a sanzione
amministrativa, ai sensi dell’art. 133 del D.Lgs. n.
152/2006.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, chiarisce che,
mentre «l’immissione», secondo la
definizione di cui all’art. 74, comma primo lett. ff), del
D.Lgs. n. 152/2006, come modificato
dall’art. 2, comma 5, del D.Lgs. n. 4/2008, di acque reflue
domestiche in pubblica
fognatura, senza la prescritta autorizzazione, è punita con
sanzione amministrativa, ai sensi
dell’art. 133, comma secondo, del D.Lgs. n. 152/2006,
l’immissione di acque reflue industriali è prevista come reato dall’art. 137, comma 1, del medesimo
decreto legislativo.
Costituiscono inoltre «acque reflue industriali», ai sensi
dell’art. 74, comma 1 lett. h),
del D.Lgs. n. 152/2006, come sostituito dall’art. 2, comma
1, del D.Lgs. n. 4/2008, «qualsiasi
tipo di acque reflue scaricate da edifici od impianti in cui
si svolgono attività commerciali
o di produzione di beni diverse dalle acque reflue
domestiche e dalle acque
meteoriche di dilavamento».
Tanto premesso, la sentenza osserva che, effettivamente,
come dedotto dai ricorrenti, ai
sensi dell’art. 101, comma 7 lett. e), del D.Lgs. n.
152/2006, sono equiparate alle acque
reflue domestiche le acque «aventi caratteristiche
qualitative equivalenti a quelle domestiche
e indicate dalla normativa regionale», sicché l’immissione
in pubblica fognatura di
tali acque, senza la prescritta autorizzazione, è punita
con sanzione amministrativa.
Passando all’esame della normativa regionale, i giudici
romani rilevano che l’art. 5, comma
1, del Regolamento della Regione Lombardia n. 3 del 24.03.2006, emesso in attuazione
dell’art. 52, comma 1, lett. a), della legge della Regione
Lombardia 12.12.2003 n. 26,
considera acque reflue domestiche, oltre a quelle
provenienti da insediamenti residenziali,
le acque reflue derivanti dalle attività indicate
nell’allegato A.
Ai sensi del citato allegato A sono acque reflue domestiche:
1) le acque reflue derivanti esclusivamente dal metabolismo
umano e dall’attività domestica
ovvero da servizi igienici, cucine e/o mense anche se
scaricate da edifici o installazioni
in cui si svolgono attività commerciali o di produzioni di
beni;
2) in quanto derivanti da attività riconducibili per loro
natura a quelle domestiche e/o al
metabolismo umano, le acque reflue provenienti da:
a) laboratori di parrucchiere, barbiere e istituti di
bellezza;
b) lavanderie a secco a ciclo chiuso e stirerie la cui
attività sia rivolta direttamente ed
esclusivamente all’utenza residenziale;
c) vendita al dettaglio di generi alimentari e altro
commercio al dettaglio, anche con
annesso laboratorio di produzione finalizzato esclusivamente
alla vendita stessa;
d) attività alberghiera e di ristorazione.
Orbene, dall’elencazione che precede, si deduce che le acque
provenienti da laboratori
odontotecnici non sono direttamente equiparate alle acque
reflue domestiche.
Ai sensi dell’art. 5, comma 4, del citato Regolamento
Regionale n. 3 del 24.03.2006
«L‘autorità competente, sulla base dell‘esame delle attività da cui derivano le acque reflue,
può procedere alla valutazione della assimilazione delle
acque stesse, senza necessità di
eseguire accertamenti analitici, se le attività presentano
consumo d’acqua medio giornaliero
inferiore a 20 mc.».
L’equiparazione delle acque derivanti da attività di
produzione di beni o comunque non
connesse al metabolismo umano alle acque reflue domestiche
risulta, pertanto, subordinata
all’esistenza di determinate condizioni.
Tali condizioni, secondo la tabella predisposta dal Comune
di Milano congiuntamente con
l’ARPA e prodotta in giudizio dagli stessi imputati, devono
consistere, con riferimento ai
laboratori odontotecnici, nella attestazione da parte dei
titolari dell’attività che il consumo
medio giornaliero di acque è inferiore ai 20 mc. e che gli
scarichi sono costituiti dalle sole
acque di lavaggio di calchi in gesso previa decantazione.
Orbene, è evidente che, in assenza dell’accertamento, sia
pure mediante attestazione da parte del titolare del laboratorio odontotecnico, che le
acque reflue scaricate rispondano ai
requisiti indicati, non può ritenersi verificata la
condizione che consente di equiparare
dette acque reflue a quelle domestiche.
Correttamente, pertanto la sentenza impugnata ha ravvisato
la sussistenza della fattispecie
contravvenzionale ascritta agli imputati, in assenza delle
condizioni previste dal riportato
quadro normativo, che determina l’equiparazione delle acque
reflue provenienti dai laboratori
odontotecnici a quelle domestiche e, cioè, per l’assenza di
qualsiasi comportamento
positivo, da parte degli interessati, richiesto dalle
disposizioni citate al fine di consentire
detta equiparazione
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.09.2009 n. 35137
- commento tratto da Ambiente & Sviluppo n. 2/2010). |
Sull'argomento affrontato dalla Suprema Corte si
leggano anche alcuni commenti di seguito riportati,
tanto per avere le idee un poco più chiare. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Amendola,
REFLUI DI DENTISTI E DI LABORATORI DI ALIMENTI: SECONDO LA
CASSAZIONE SONO ACQUE REFLUE INDUSTRIALI
(05.04.2013 - link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. Muratori,
Riflettendo su Cass. pen.
n. 2340/2013: la Suprema Corte è mal disposta verso i
dentisti? (Ambiente & sviluppo n. 3/2013). |
QUINDI?? |
Quindi, bisogna metter mano ai provvedimenti
autorizzatori già rilasciati quali scarico di
"acque reflue domestiche" anziché scarico di
"acque reflue industriali" e verificare se tutti
gli studi odontoiatrici siti sul territorio comunale
siano o meno autorizzati -correttamente- e,
laddove necessario, sanzionare a' termini di legge
... ma tutto ciò fatelo solamente dopo aver
sistemato la "propria dentiera" in maniera
tale che per i prossimi 40 anni non avete più
bisogno del dentista, altrimenti vedrete che
fattura da capogiro!!
15.07.2013 - LA SEGRETERIA PTPL |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: “Decreto del Fare” – D.L. n. 69/2013 –
Semplificazione in materia di lavoro e prevenzione incendi
(ANCE Bergamo,
circolare 12.07.2013 n. 171). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
EE.LL.: l'utilizzo di graduatorie di altri enti
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 11.07.2013). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 12.07.2013, "Modifica
dello schema di fideiussione bancaria o assicurativa a
carico dei soggetti autorizzati alla realizzazione ed
all’esercizio di un impianto di produzione di energia da
fonti rinnovabili, ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. 387/2003
e s.m.i. come garanzia della dismissione degli stessi
adottato con decreto del 24.06.2013, n. 5448" (decreto
D.S. 09.07.2013 n. 6440). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
12.06.2013 n. 136 "Contributi per i costi ambientali di
ripristino dei luoghi a valere sul Fondo per la
razionalizzazione della rete di distribuzione dei carburanti
e suo rifinanziamento" (Ministero dello Sviluppo
Economico,
decreto 19.04.2013). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
S. Deliperi,
Capanni e altane di caccia sono disciplinati dalla normativa
di tutela paesaggistica e urbanistica (05.07.2013
- link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
M. Sanna,
Terre da scavo e danno ambientale – D.M. 10.08.2012 n. 161 (01.07.2013
- link a
www.industrieambiente.it). |
APPALTI:
L. Prosperetti,
La quantificazione del
lucro cessante da illegittima esclusione dalla gara: una
prospettiva economica (tratto da www.ipsoa.it -
Urbanistica e appalti n. 7/2013). |
EDILIZIA PRIVATA: S.
Calvetti,
Permesso di costruire: la proroga non può essere negata per
vizi del titolo abilitativo (Urbanistica e appalti n. 7/2013). |
TRIBUTI:
P. Aglietta,
IMU e imposte sui
redditi: le ultime novità e i chiarimenti dell’Agenzia delle
Entrate (tratto da www.ipsoa.it - Immobili &
proprietà n. 7/2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
C. Scardaci,
Ancora sulla differenza
tra inerti e terre e rocce da scavo (nota a Cass. pen. n.
16186/2013)
(Ambiente & sviluppo n. 7/2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Amendola,
Responsabilità per il trasporto dei rifiuti ad impianto non
autorizzato (28.06.2013 - link a
www.industrieambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
IL CONDONO EDILIZIO GIURISPRUDENZIALE - Abusi d’ufficio dei
magistrati amministrativi? (sulla generale inapplicabilità
dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 e ss.mm.ii. alla
materia del governo del territorio) (17.06.2013 -
link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
A. Scialò,
Gli effetti “penali” del nuovo regime delle terre e rocce da
scavo introdotto dal D.M. 161/2012 - La retroattività negata
(nota a Cass. Pen., Sez. III, 15.03.2013 n. 12295) (19.06.2013
- link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: R.
Micalizzi,
Le sanzioni conseguenti all’annullamento del titolo
edilizio, tra interpretazione
letterale e principi generali
(Urbanistica e appalti n. 6/2013). |
URBANISTICA:
Fondazione
De Iure Publico,
GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA E MODELLI PEREQUATIVI
(Geometra Orobico n. 1/2013). |
URBANISTICA:
Fondazione
De Iure Publico,
PEREQUAZIONE E TRASFERIMENTO DEI DIRITTI EDIFICATORI: LA
NECESSITÀ DI UNA NUOVA LEGGE NAZIONALE
(Geometra Orobico n. 1/2013). |
URBANISTICA:
Fondazione
De Iure Publico,
MERCATO DEI DIRITTI EDIFICATORI: DALLA CARTA ALLA REALTÀ
(Geometra Orobico n. 1/2013). |
URBANISTICA:
Fondazione
De Iure Publico,
PIANI REGOLATORI GENERALI, LA FINE PUÒ ATTENDERE
(Geometra Orobico n. 1/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
VIZI DI COSTRUZIONE: CHI È IL RESPONSABILE
(Geometra Orobico n. 1/2013). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Ai fini della riconoscibilità del diritto al
compenso incentivante, assume rilevanza non già il nomen
juris attribuito all’atto di pianificazione, bensì il suo
contenuto specifico, intimamente connesso alla realizzazione
di un’opera pubblica quale, ad esempio, una variante
necessaria per la localizzazione di un’opera, ovvero a quel
quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero
atto di pianificazione generale che costituisce, al
contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale
dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la
retribuzione ordinariamente spettante.
Inoltre, il riconoscimento del diritto ad ottenere il
compenso incentivante è ancorato dalla normativa suindicata
all’ulteriore presupposto che la redazione dell’atto di
pianificazione -comunque riferibile alla realizzazione di
opere pubbliche– avvenga interamente all’interno dell’Ente.
Da ultimo, al personale interno non
può essere corrisposto alcun incentivo per progettare il
rinnovo delle previsioni di piano regolatore scadute, ai
fini della reiterazione delle previsioni in esso contenute.
Viceversa, l’incentivo di cui al comma 6 dell’art. 92 del
D.Lgs. 163/2006 deve essere riconosciuto per la redazione di
varianti al piano regolatore collegate alla realizzazione di
opere pubbliche, sempre che il relativo incarico sia
interamente affidato al personale comunale in possesso delle
specifiche professionalità richieste dalla legge.
---------------
Con la nota indicata in premessa il Comune di Cascia,
dopo aver premesso che in sede di redazione della Variante
Generale del vigente P.R.G., la cui "parte strutturale"
è stata affidata all'esterno, l’Ente valuterà la possibilità
di affidare la progettazione della “parte operativa”
del piano medesimo al personale interno, ha formulato i
seguenti quesiti:
1. Se l'incarico di pianificazione urbanistica da
affidare internamente, fermo restando la disponibilità
tecnica, costituisce deroga rispetto al principio generate
della onnicomprensività dei trattamento economico dei
dipendenti pubblici e pertanto può essere incentivato.
La considerazione scaturisce nell'ottica della complessità
dell'attività svolta, nonché il carattere aggiuntivo
dell'incarico, e in particolare per remunerare i dipendenti
ed i dirigenti che svolgono direttamente l'attività di
progettazione, considerando questa come il maggiore valore
aggiunto;
2. Se l'incarico di redazione della "parte operativa"
del PRG possa essere inquadrata tra gli atti di
pianificazione per i quali il comma 6 dell'art. 92 del D.Lgs
163/2006 riconosce l'incentivazione. Tale atto di
pianificazione, infatti, individua e progetta in maniera
puntuale e non separabile la localizzazione di
infrastrutture e servizi necessari ai bisogni della
collettività locale (in termini di Opere pubbliche e di
pubblica utilità, servizi, pubblici, parcheggi; aree
sportive, parchi pubblici, urbanizzazioni, ecc.);
3. Se il rinnovo delle previsioni di piano regolatore
scadute, ai fini della reiterazione delle previsioni, o la
redazione di varianti puntuali per la realizzazione di opere
pubbliche, affidate internamente agli uffici comunali,
possono essere suscettibili di incentivazione ai sensi del
comma 6 art. 92 del D. Lgs. 163/2006.
...
Quanto al merito, con il primo quesito il Comune di Cascia
intende conoscere l’avviso di questa Corte in merito alla
possibilità di corrispondere, in deroga al principio
normativo di onnicomprensività del trattamento economico dei
dipendenti pubblici, l’incentivo di progettazione al
personale interno al quale venga conferito dall’ente un
incarico di pianificazione urbanistica.
La risposta ai quesiti proposti dall’ente rende necessario
enucleare preliminarmente la normativa che disciplina
l’erogazione del compenso incentivante per gli incarichi di
pianificazione.
Il comma 6 dell’art. 92 del D. Lgs. n. 163/2006 recita: “Il
trenta per cento della tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è
ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel
regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto.”
La norma succitata, nonché quella contenuta nel comma 5,
esprime un preciso favor dl legislatore per l’affidamento di
incarichi concretanti prestazioni d’opera professionale a
dipendenti di ruolo dell’ente locale, disponendo misure
volte a remunerare le specifiche professionalità coinvolte e
rinviando ai regolamenti comunali e alla contrattazione
collettiva decentrata la determinazione di “criteri e
modalità” di riparto del compenso.
Comportando una deroga al principio di onnicomprensività del
trattamento economico dei dipendenti pubblici, tali
disposizioni, secondo un condivisibile orientamento (ex
multis, Sezione controllo Campania, delibera 7/2008),
costituiscono norme di stretta interpretazione, per le quali
opera il divieto di analogia ai sensi dell’art. 12 delle
disposizioni preliminari al codice civile.
Va, quindi ben delimitato l’ambito di applicazione della
succitata normativa derogatoria. In tale ottica appare
necessario precisare, preliminarmente, l’esatto significato
della locuzione “atto di pianificazione”, contenuta
nel comma 6 della norma citata. L’indirizzo affermatosi al
riguardo in seno alle Sezioni di controllo della Corte dei
conti (ex multis, Sez. contr. Lombardia, 30.05.2012,
n. 259; 06.03.2012, n. 57; Sez. contr. Puglia, 16.01.2012,
n. 1; Sez. contr. Toscana, 18.10.2011, n. 213 e n. 293/2012;
Sez. Piemonte, 29.08.2012, n. 290), dal quale questa Sezione
non ha motivo di discostarsi, è nel senso che “l’atto di
pianificazione comunque denominato” indicato nel comma 6
del citato art. 92 si riferisce ad atti che abbiano ad
oggetto la pianificazione del territorio collegata alla
realizzazione di opere pubbliche (ad es. variante necessaria
per la localizzazione di un’opera) e non si estende alla
mera attività di pianificazione del territorio, quale la
redazione del Piano regolatore o una variante generale.
A tale conclusione conduce peraltro, a giudizio di questa
Corte, un’interpretazione sistematica della normativa che
disciplina l’incentivo di progettazione, atteso che la
previsione di cui al comma 6 va coordinata sia con i commi
precedenti del medesimo art. 92 sia con l’art. 90 del codice
dei contratti pubblici. Invero, l’intero impianto dell’art.
92, rubricato “Corrispettivi, incentivi per la
progettazione e fondi a disposizione delle stazioni
appaltanti”, ruota intorno all’attività di progettazione
di un’opera o di un lavoro che l’amministrazione pubblica,
in veste di stazione appaltante, deve aggiudicare. Nel comma
1 del citato art. 92 si parla di “compensi relativi allo
svolgimento della progettazione e delle attività
tecnico-amministrative ad essa connesse all'ottenimento del
finanziamento dell'opera progettata”.
Il successivo comma 2 si occupa delle tabelle dei
corrispettivi che la stazione appaltante può utilizzare
quale criterio per determinare l’importo da porre a base
dell’affidamento. Il comma 3 si occupa a sua volta dei
criteri di calcolo dei corrispettivi dei vari livelli di
progettazione (preliminare, definitiva ed esecutiva). Il
comma 5 dispone che “Una somma non superiore al due per
cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un
lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell'amministrazione, a valere
direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93,
comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con
le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione
decentrata e assunti in un regolamento adottato
dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e
gli incaricati della redazione del progetto, del piano della
sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché
tra i loro collaboratori…”.
L’art. 90 del medesimo D.Lgs. 163/2006 dispone, in relazione
alle “prestazioni relative alla progettazione
preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori, nonché alla
direzione dei lavori e agli incarichi di supporto
tecnico-amministrativo alle attività del responsabile del
procedimento e del dirigente”, che tali attività siano
espletate da risorse interne alla stazione appaltante,
purché in possesso dei requisiti di abilitazione
professionale. In effetti, l’affidamento a soggetti comunque
interni al plesso pubblicistico viene considerato dal codice
dei contratti preferenziale, tanto che il comma 6 dello
stesso articolo 90 stabilisce i casi in cui l’incarico di
progettazione preliminare può essere legittimamente affidato
a professionalità esterne all’Amministrazione.
Le suesposte considerazioni consentono al Collegio di
affermare che, ai fini della
riconoscibilità del diritto al compenso incentivante, assume
rilevanza non già il nomen juris attribuito all’atto
di pianificazione, bensì il suo contenuto specifico,
intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica
quale, ad esempio, una variante necessaria per la
localizzazione di un’opera
(cfr. Corte conti, sez. controllo Toscana 213/2011),
ovvero a quel quid pluris di
progettualità interna, rispetto ad un mero atto di
pianificazione generale che costituisce, al contrario,
diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente
per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione
ordinariamente spettante.
Va ulteriormente precisato che il
riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso
incentivante è ancorato dalla normativa suindicata
all’ulteriore presupposto che la redazione dell’atto di
pianificazione -comunque riferibile alla realizzazione di
opere pubbliche– avvenga interamente all’interno dell’Ente.
Alla luce di quanto sopra esposto, questa
Sezione ritiene, pertanto, che nessun compenso possa essere
corrisposto al personale interno nella fattispecie in esame,
tanto più che l’incarico che l’ente intende conferire a
detto personale riguarda la redazione della “parte
operativa” della variante al piano regolatore generale,
mentre l’incarico di redigere la “parte strutturale”
del piano risulta già conferito dall’ente a professionalità
esterne.
Quanto all’ultimo quesito proposto, la
Sezione ritiene,
in applicazione delle suesposte coordinate interpretative,
che al personale interno non può essere
corrisposto alcun incentivo per progettare il rinnovo delle
previsioni di piano regolatore scadute, ai fini della
reiterazione delle previsioni in esso contenute. Viceversa,
l’incentivo di cui al comma 6 dell’art. 92 del D.Lgs.
163/2006 deve essere riconosciuto per la redazione di
varianti al piano regolatore collegate alla realizzazione di
opere pubbliche, sempre che il relativo incarico sia
interamente affidato al personale comunale in possesso delle
specifiche professionalità richieste dalla legge
(Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria,
parere 09.07.2013 n. 119). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
L’art. 16, commi 4 e 5, del DL 98/2011, convertito in legge
15.07.2011 n. 111 prevede per gli enti locali la possibilità
di "adottare entro il 31 marzo di ogni anno piani triennali
di razionalizzazione e riqualificazione della spesa, di
riordino e ristrutturazione amministrativa, di
semplificazione e digitalizzazione, di riduzione dei costi
della politica e di funzionamento, ivi compresi gli appalti
di servizio, gli affidamenti alle partecipate e il ricorso
alle consulenze attraverso persone giuridiche. Detti piani
indicano la spesa sostenuta a legislazione vigente per
ciascuna delle voci di spesa interessate e i correlati
obiettivi in termini fisici e finanziari".
Ai sensi del comma 5 del medesimo art. 16 del DL. 98/2011,
convertito in legge 15.07.2011 n. 111, "le eventuali
economie aggiuntive effettivamente realizzate" con i sopra
menzionati piani di razionalizzazione delle spese "possono
essere utilizzate annualmente, nell'importo massimo del 50
per cento, per la contrattazione integrativa, di cui il 50
per cento destinato alla erogazione dei premi previsti
dall'art. 19 del decreto legislativo 27.10.2009, n. 150";
tali risorse "sono utilizzabili solo se a consuntivo è
accertato, con riferimento a ciascun esercizio, dalle
amministrazioni interessate, il raggiungimento degli
obiettivi fissati per ciascuna delle singole voci di spesa
previste nei piani di cui al comma 4 e i conseguenti
risparmi", che devono essere "certificati, ai sensi della
normativa vigente, dai competenti organi di controllo".
Il Dipartimento della Funzione Pubblica, con la circolare n.
13/2011, ha precisato che "le economie indicate nei punti b)
e c), all'esito delle procedure di certificazione, sono
immediatamente destinabili dalle amministrazioni al
finanziamento della contrattazione collettiva", apparendo
pacifico l'utilizzo nell'ambito dell'esercizio in cui si
realizzano.
La deliberazione della Corte dei Conti –sezione controllo
Veneto– del 31.08.2012, n. 532 con riferimento alle economie
dei piani di razionalizzazione ne consente l'impiego
immediato a consuntivo nell'ambito della contrattazione
decentrata; analogamente la deliberazione della Corte dei
Conti Piemonte n. 14/2013, in risposta al quesito posto da
un comune, che dovendo approvare il piano triennale di
razionalizzazione (2013-2015) chiedeva se operassero per il
2013 i limiti ai trattamenti accessori fissati dall'art. 9,
commi 1 e 2-bis, del D.L. 78/2010, afferma che rispetto ai
piani di razionalizzazione possono essere superati tali
limiti e consente un impiego immediato delle economie
realizzate nella contrattazione decentrata.
A conclusioni diverse è giunta isolata la pronuncia
dell’11.10.2012, n. 398, della Corte dei Conti Emilia
Romagna, che rinvia i risparmi dei piani di
razionalizzazione ad incremento del fondo integrativo
dell'anno successivo a quello di maturazione, rispondendo
però a un quesito della Provincia di Piacenza riferito non
ai piani di razionalizzazione, ma a un piano di contenimento
delle spese di funzionamento previsto dalla legge 24.12.2007
n. 244.
In ogni caso, pare alla Sezione non potersi che concordare
con gli elementi di specialità ravvisati dal dicastero
veneto laddove evidenzia che “La speciale disciplina
introdotta per le menzionate “economie aggiuntive”
costituisce la risultante della peculiare tecnica utilizzata
dal legislatore al fine di realizzare il contenimento della
spesa di personale (…) riconducibile ad un meccanismo in un
certo qual modo “premiale”, che, attraverso la creazione di
“percorsi virtuosi”, tende a produrre risparmi di spesa
“ulteriori” rispetto a quelli imposti dal patto di stabilità
e dalla normativa vigente in materia” con conseguente
possibilità di attribuzione nell’anno di competenza, in
sintonia con quanto auspicato dal comune istante.
---------------
Il comune richiede chiarimenti sulle norme che (art. 16,
commi 4 e 5, del decreto legge 06.07.2011 n. 98, convertito
in legge 15.07.2011 n. 111) hanno previsto che i risparmi di
spesa realizzati nell'anno di attuazione del piano di
razionalizzazione possano essere inseriti nel fondo
accessorio dello stesso anno, e dunque liquidati nell'anno
successivo, a seguito di accertamento del raggiungimento
degli obiettivi fissati e dei relativi risparmi, come
certificato dagli organi di controllo.
Secondo il comune, la prevista certificazione dei "competenti
organi di controllo", avrebbe lo scopo di rendere
concretamente erogabili le economie di spesa e anch'essa
avverrebbe necessariamente a consuntivo e sempre l'anno
successivo. Tale interpretazione della norma sarebbe
perfettamente in linea con le disposizioni previste per
altri incentivi di natura variabile (quali l'attività di
recupero ICI, i fondi per la progettazione interna, i
proventi delle sponsorizzazioni) le cui risorse, in sede di
costituzione del fondo, vengono previste dalle
amministrazioni come valore presunto, e poi materialmente
quantificate ed erogate a fine anno previo accertamento a
consuntivo delle quantità economiche effettivamente
spettanti.
Peraltro, si rileva che numerosi comuni, e anche importanti
capoluoghi di regione, nonché province, avrebbero adottato
tale criterio nella composizione dei fondi decentrati,
facendo confluire le economie dei piani di razionalizzazione
nel fondo dell'anno di competenza.
Anche il Ministero dello Sviluppo Economico, con il parere
favorevole del Dipartimento della Funzione Pubblica, a
seguito dell'accertamento congiunto effettuato con il
Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato - IGOP ha
sottoscritto con le organizzazioni sindacali abilitate un
accordo sull'utilizzo del Fondo unico di amministrazione per
l'anno 2012 che prevede che le eventuali somme provenienti
dalle riduzioni di spesa ai sensi dell'art. 16 del d.l.
98/2011 andranno ad incrementare la quota per il pagamento
della produttività individuale dello stesso anno.
Tale applicazione della norma consentirebbe di premiare a
consuntivo, previa verifica e certificazione dei risultati
conseguiti e dunque del raggiungimento degli obiettivi
assegnati ai dipendenti coinvolti, i lavoratori che
effettivamente sono stati in servizio nell'anno di
realizzazione di tali economie; essi beneficerebbero di una
quota delle stesse, che, diversamente, andrebbero a
ricompensare soggetti che non hanno partecipato alla loro
formazione, mentre la restante quota andrà ad incremento
della produttività generale.
Sul piano finanziario le economie realizzate in un
determinato anno, se non fatte confluire nel fondo delle
risorse decentrate di competenza dello stesso anno,
andrebbero in avanzo di amministrazione, pertanto in sede di
bilancio dell'anno successivo il fondo dovrebbe essere
finanziato con risorse nuove; qualora dette economie non
fossero imputate al fondo delle risorse decentrate dello
stesso anno, si determinerebbe come ulteriore conseguenza
una riduzione del complesso delle spese di personale
dell'anno in cui si sono realizzate le economie, che
costituirebbe poi il parametro per l'anno successivo e, in
caso di incomprimibilità totale o parziale della spesa di
personale nelle sue varie componenti, determinerebbe
l'impossibilità di alimentare il fondo con i risparmi dei
piani.
Inoltre, le economie provenienti dalla razionalizzazione
delle spese previste e monitorate durante l'anno
permetterebbero una riduzione di alcuni capitoli di spesa e
conseguentemente l'aumento del capitolo del fondo delle
risorse decentrate del medesimo anno, contribuendo a
garantire il pareggio di bilancio;
Il comune di Bollate, dopo aver approvato i Piani dì
razionalizzazione della spesa per il triennio 2012/2014, ha
provveduto ad inserire le economie di spesa previste per il
2012 nel fondo delle risorse decentrate dello stesso anno,
risorse che saranno erogate nell'anno 2013 solo dopo essere
state debitamente rendicontate a consuntivo dal competente
organo di controllo.
Tanto premesso, il comune richiede se il complesso
normativo consenta di inserire le economie generate dai
piani di razionalizzazione approvati ed effettuati nel 2012
nel fondo delle risorse decentrate dello stesso anno (2012),
salva la loro effettiva erogabilità nell'anno 2013 a seguito
dell'accertamento del raggiungimento degli obiettivi e delle
economie a consuntivo da parte del competente organo di
controllo.
...
La norma menzionata prevede per gli enti locali la
possibilità di "adottare entro il 31 marzo di ogni anno
piani triennali di razionalizzazione e riqualificazione
della spesa, di riordino e ristrutturazione amministrativa,
di semplificazione e digitalizzazione, di riduzione dei
costi della politica e di funzionamento, ivi compresi gli
appalti di servizio, gli affidamenti alle partecipate e il
ricorso alle consulenze attraverso persone giuridiche. Detti
piani indicano la spesa sostenuta a legislazione vigente per
ciascuna delle voci di spesa interessate e i correlati
obiettivi in termini fisici e finanziari".
Ai sensi del comma 5 del medesimo art. 16 del decreto legge
06.07.2011 n. 98, convertito in legge 15.07.2011 n. 111, "le
eventuali economie aggiuntive effettivamente realizzate"
con i sopra menzionati piani di razionalizzazione delle
spese "possono essere utilizzate annualmente,
nell'importo massimo del 50 per cento, per la contrattazione
integrativa, di cui il 50 per cento destinato alla
erogazione dei premi previsti dall'art. 19 del decreto
legislativo 27.10.2009, n. 150"; tali risorse "sono
utilizzabili solo se a consuntivo è accertato, con
riferimento a ciascun esercizio, dalle amministrazioni
interessate, il raggiungimento degli obiettivi fissati per
ciascuna delle singole voci di spesa previste nei piani di
cui al comma 4 e i conseguenti risparmi", che devono essere
"certificati, ai sensi della normativa vigente, dai
competenti organi di controllo".
Il Dipartimento della Funzione Pubblica, con la circolare n.
13/2011, ha precisato che "le economie indicate nei punti
b) e c), all'esito delle procedure di certificazione, sono
immediatamente destinabili dalle amministrazioni al
finanziamento della contrattazione collettiva",
apparendo pacifico l'utilizzo nell'ambito dell'esercizio in
cui si realizzano.
La deliberazione della Corte dei Conti –sezione regionale di
controllo per il Veneto– del 31.08.2012, n. 532 con
riferimento alle economie dei piani di razionalizzazione ne
consente l'impiego immediato a consuntivo nell'ambito della
contrattazione decentrata; analogamente la deliberazione
della Corte dei Conti Piemonte n. 14/2013, in risposta al
quesito posto da un comune, che dovendo approvare il piano
triennale di razionalizzazione (2013-2015) chiedeva se
operassero per il 2013 i limiti ai trattamenti accessori
fissati dall'art. 9, commi 1 e 2-bis, del D.L. 78/2010,
afferma che rispetto ai piani di razionalizzazione possono
essere superati tali limiti e consente un impiego immediato
delle economie realizzate nella contrattazione decentrata.
A conclusioni diverse è giunta isolata la pronuncia
dell’11.10.2012, n. n. 398, della Corte dei Conti Emilia
Romagna, che rinvia i risparmi dei piani di
razionalizzazione ad incremento del fondo integrativo
dell'anno successivo a quello di maturazione, rispondendo
però a un quesito della Provincia di Piacenza riferito non
ai piani di razionalizzazione, ma a un piano di contenimento
delle spese di funzionamento previsto dalla legge 24.12.2007
n. 244.
In ogni caso, pare alla Sezione non potersi
che concordare con gli elementi di specialità ravvisati dal
dicastero veneto laddove evidenzia che “La speciale
disciplina introdotta per le menzionate “economie
aggiuntive” costituisce la risultante della peculiare
tecnica utilizzata dal legislatore al fine di realizzare il
contenimento della spesa di personale (…) riconducibile ad
un meccanismo in un certo qual modo “premiale”, che,
attraverso la creazione di “percorsi virtuosi”, tende a
produrre risparmi di spesa “ulteriori” rispetto a quelli
imposti dal patto di stabilità e dalla normativa vigente in
materia” con conseguente possibilità di attribuzione
nell’anno di competenza, in sintonia con quanto auspicato
dal comune istante (Corte
dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 27.06.2013 n.
252). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Deve ribadirsi che gli EELL, nella deliberazione
ed erogazione delle risorse integrative aggiuntive, in
osservanza di un principio di prudenza, corollario alla sana
gestione finanziaria, sono tenuti a rispettare gli obiettivi
posti dal PdS e le norme vigenti di contenimento delle spese
di personale anche con riferimento all'esercizio finanziario
venturo o in corso attraverso il bilancio di previsione e
relativi assestamenti.
In forza dei richiamati principi e in
coerenza con i vincoli normativi, le possibilità di
integrare le risorse finanziarie destinate alla
contrattazione decentrata integrativa andranno subordinate
al rispetto del PdS e dei vincoli finanziari nell'anno
precedente e in quello di destinazione di tali risorse.
Fermo l'obbligo di recupero delle somme eventualmente
versate nella sessione negoziale successiva (e 2013),
l'ente interessato potrà integrare le risorse dopo aver
accertato l'effettivo rispetto dei vincoli finanziari (e
non prima del 2014).
---------------
Il comune, che specifica di non avere rispettato il
patto di stabilità interno per l’anno 2012, richiede:
i) se sia possibile procedere alla corresponsione del
trattamento economico accessorio (parte variabile del fondo
produttività ex art. 15, comma 2, del c.c.n.l. sottoscritto
in data 01.04.1999) relativo all'anno 2012;
ii) se in caso di avvenuto pagamento nello stesso anno dì
dette quote retributive accessorie si debba procedere al
recupero delle stesse nella sessione negoziale
immediatamente successiva;
iii) se per l'anno 2013, lo stesso comune (in caso di
certificazione dell'avvenuto rispetto del Patto di stabilità
2013) possa prevedere lo stanziamento di risorse aggiuntive
(parte variabile del fondo produttività ex art. 15, commi 2
e 5 del cennato c.c.n.l.).
...
Arrivando, in sintesi, agli interrogativi posti dall’Ente,
quindi, ferma restando l’astratta ricomprensione delle
risorse de quibus tra quelle subordinate al rispetto
dei vincoli di finanza pubblica, deve ribadirsi che
gli enti locali, nella deliberazione e successiva
erogazione delle risorse integrative aggiuntive, in
osservanza di un principio di prudenza, corollario di quello
più generale di sana gestione finanziaria, sono comunque
tenuti a rispettare gli obiettivi posti dal Patto di
stabilità interno e le norme vigenti che impongono il
contenimento delle spese di personale anche con rifermento
all’esercizio finanziario venturo o in corso
(nel caso di specie: il 2012) attraverso lo
strumento del bilancio di previsione e i relativi
assestamenti.
In forza dei richiamati principi e in coerenza, altresì, con
i vincoli del quadro normativo, le
possibilità concrete di integrare le risorse finanziarie
destinate alla contrattazione decentrata integrativa
andranno poi subordinate al rispetto del Patto di stabilità
e dei vincoli finanziari sia nell’anno precedente che in
quello di destinazione di tali risorse. Ferma restando,
quindi, l’obbligo di recupero delle somme eventualmente
versate nella sessione negoziale successiva
(nel caso di specie: il 2013), l’ente
interessato potrà integrare le risorse destinate alla
contrattazione decentrata dopo aver accertato l’effettivo
rispetto dei vincoli finanziari
(nel caso di specie: non prima del 2014) (Corte dei Conti,
Sez. controllo Lombardia,
parere
24.06.2013 n. 250). |
LAVORI PUBBLICI:
Le operazioni di partnership tra pubblico e privato, p.p.p.,
sono disciplinate dall'art. 3, c. 15-ter, del codice dei
contratti pubblici. Elemento caratteristico delle operazioni
p.p.p. è la suddivisione del rischio economico tra P.A. e
privato, che giustifica un trattamento contabile
parzialmente diverso dall'ordinario contratto di appalto.
Il
trattamento contabile ai fini dei vincoli di finanza
pubblica delle operazioni p.p.p. è stato affrontato dalle SSRR in sede di controllo, -del.ne di indirizzo 16.09.2011, n. 49. Per non essere considerata rilevante ai fini
del calcolo del disavanzo e del debito pubblico la spesa
inerente la costruzione di opere pubbliche non deve gravare
sul bilancio dell'ente; ciò si verifica se: il c.d. rischio
di costruzione ricada sul soggetto realizzatore nonché
ricada sul realizzatore il rischio di domanda o il rischio
di disponibilità. Tali considerazioni possono essere
riferite all'anelata operazione di finanza di progetto,
definita dalla SRC Veneto, 12.11.2011, n. 228.
Nel caso
di specie il riferimento alla disciplina delle p.p.p. è di
dubbia utilità: la remunerazione dell'operatore dovrebbe
avvenire tramite gestione di struttura diversa e ulteriore
rispetto a quella realizzanda per conto del comune e
seguirebbe la cessione di un diritto di superficie sull'area
su cui insisterebbe l'opificio necessario alla gestione
dell'attività economica. Difettando il rischio d'impresa a
carico del privato sembrerebbe trattarsi di un mero
contratto di appalto, remunerato tramite cessione di un
fondo attrezzato per la realizzazione di un'impresa, in
quanto,come osservato dalle menzionate SSRR, ''La mancata
sussistenza di almeno due parametri indica che l'operazione
non ha realmente natura di partenariato con utilizzo di
risorse private ma che, di fatto, rientra nella piena
disponibilità e rischio per l'ente pubblico''.
Pur in
presenza di un rapporto di appalto, astrattamente soggetto
ai vincoli di finanza pubblica, non essendo previsto
l'esborso di poste finanziarie, non si pone un problema di compatibilità con i vincoli di finanza pubblica o di
indebitamento degli enti locali. In relazione alla astratta
fattibilità potrebbe paventarsi il rischio dell'ente di
incorrere nel divieto comminato dall'art. 1, c. 138, della
L. 228/2012. Dal punto di vista oggettivo la fattispecie
oggetto del divieto e' costituita dagli acquisti ''a titolo
oneroso'' di beni immobili.
A parere della Sezione,
l'operazione descritta dal Comune non trova ostacolo nella
normativa finanziaria che limita l'acquisto di beni
immobili. E' vero che l'Ente locale acquista un'opera
pubblica ''un bene immobile'' ma l'articolo 1, c. 138, L.
228/2012 vieta l'acquisto di immobili a titolo oneroso e non
la diversa ipotesi dell'appalto di lavori pubblici. D'altra
parte, lo stesso articolo 12 della L. 111/2011,modificato
dal citato c. 138, comma 1-ter, prevede che ''a decorrere dal
01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa
ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità
interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio
sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di
immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilità
e l'indilazionabilità attestate dal responsabile del
procedimento.
La congruità del prezzo è attestata
dall'Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle
predette operazioni è data preventiva notizia, con
l'indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito,
nel sito internet istituzionale dell'ente: è chiaro ed
evidente il riferimento giuridico alla fattispecie
civilistica della compravendita,laddove le parti sono
l'alienante e l'acquirente, e non a quella dell'appalto.
---------------
Il comune specifica di essere proprietario di un edificio
scolastico, attualmente insufficiente per la platea
scolastica servita, occorrente di diversi interventi di
ristrutturazione edilizia, anche in adeguamento, per i quali
l'ente ha una disponibilità finanziaria non spendibile per i
vincoli in essere del cd. patto di stabilità interno.
L'amministrazione comunale di Villa Cortese vorrebbe
quindi procedere, tramite l’istituto della finanza di
progetto, alla realizzazione della nuova scuola primaria –su
altro fondo- per un importo definito sulla base di uno
studio di fattibilità.
Con successivo atto di indirizzo del consiglio comunale, a
parziale rettifica di un progetto originario, erano definite
le linee guida dell’operazione, che prevedono:
i) la copertura dei costi dell'intervento (progettazione
definitiva ed esecutiva, realizzazione dell'opera) a totale
carico del soggetto promotore, scelto con gara ad evidenza
pubblica;
ii) la remunerazione dell'operatore attraverso la gestione
di una nuova struttura di tipo sociale, sanitario e
assistenziale da realizzare, ad opera del promotore stesso,
sull'area su cui insiste l'attuale scuola elementare da
dismettere, una volta realizzato il nuovo edificio;
iii) la cessione del diritto di superficie sull’area su cui
insiste il citato edificio scolastico al promotore, per una
durata decorrente dalla data dì ultimazione dei lavori di
realizzazione del nuovo complesso scolastico, da definirsi a
seguito di esame del piano economico-finanziario presentato;
iv) il riconoscimento da parte del promotore all'ente, quale
corrispettivo per l'accennata concessione del diritto di
superficie, e a decorrere dalla data dì entrata in esercizio
della nuova struttura socio-sanitario-assistenziale, un
canone concessorio annuo.
Di conseguenza, si evidenzia che il comune non subirebbe
esborsi di denaro per la realizzazione del nuovo complesso
scolastico, ma un'entrata ulteriore determinata dal canone
riscosso per il diritto di superficie concesso.
Tanto premesso, il comune richiede chiarimenti sulla
esperibilità della finanza di progetto, o di altra formula
di partenariato pubblico–privato, e in particolare sulla
compatibilità di tali operazioni con le vigenti disposizioni
in materia di patto di stabilità interno nonché di
indebitamento degli enti locali.
...
A parere della Sezione, l’operazione descritta dal Comune
non trova alcun ostacolo nella normativa finanziaria che
limita l’acquisto di beni immobili.
E’ vero, infatti, che l’Ente locale acquista un’opera
pubblica –e quindi un bene immobile– ma è altrettanto vero
che l’articolo 1, comma 138, legge n. 228/2012 vieta
l’acquisto di immobili a titolo oneroso e non la diversa
ipotesi (in cui l’acquisto è mera conseguenza, differita nel
tempo, dell’operazione) dell’appalto di lavori pubblici.
D’altra parte, lo stesso articolo 12 della legge n. 111/2011
(modificato dal citato comma 138), comma 1-ter, prevede che
“a decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a
risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal
patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti
del Servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di
acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate
documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento. La congruità
del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo
rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data
preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante
e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale
dell’ente": è chiaro ed evidente il riferimento
giuridico alla fattispecie civilistica della compravendita
(laddove le parti sono l’alienante e l’acquirente) e non a
quella dell’appalto.
Alla luce di quanto esposto dal Comune, può
in astratto ritenersi che l’operazione come strutturata, e
salva ogni considerazione afferente alla sua concreta
realizzazione, non pare presentare elementi ostativi con
riferimento alle vigenti normative in materia di finanza
pubblica (Corte
dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 24.06.2013 n. 248). |
ENTI LOCALI:
La Corte dei conti salva le società strumentali della Pa.
L'INTERPRETAZIONE/ La spending review chiede ai Comuni di
privatizzare le aziende «interne» ma la magistratura
contabile esclude le «in house».
Le società strumentali degli enti locali vanno alienate o
sciolte entro la fine dell'anno, perché lo impone la
spending review targata Mario Monti, ma la chiusura può
essere evitata se l'azienda è in house.
Il principio è stato
fissato dalla Corte dei conti della Liguria (parere
17.06.2013 n.
53 della sezione di controllo), ed è rivoluzionario: le
società strumentali sono praticamente tutte in house, per
cui il dilemma «privatizzazione o chiusura» non
riguarderebbe quasi nessuno. La stessa spending review vieta
alle strumentali di ricevere dall'anno prossimo affidamenti
diretti? Non importa, a quanto pare.
Certo, la vicenda non è inedita, perché di leggi scritte con
intenti "rivoluzionari" e poi svuotate dal lavorio
interpretativo che ne accompagna la (non) applicazione è
piena la Gazzetta Ufficiale: la storia delle società
strumentali, però, è illuminante, perché fa risaltare
l'eterno conflitto fra regole scritte male e la passione
italiana per la deroga, la proroga (i termini delle gare per
la privatizzazione sono appena stati rinviati di sei mesi) e
l'eccezione che, lungi dal confermare la regola, finisce per
ucciderla.
La norma sulle strumentali (articolo 4 del Dl 95/2012) in
teoria sarebbe chiara: le società che sono «controllate» da
una Pubblica amministrazione, e che ricavano dal rapporto
con la Pa almeno il 90% del proprio fatturato, vanno
privatizzate o chiuse e gli enti le devono sostituire
ricercando i servizi sul mercato. Altrettanto chiaro il
presupposto, giusto o sbagliato che fosse: le strumentali
sono mediamente inefficienti, spesso nate per far crescere
l'occupazione o dribblare il Patto di stabilità, per cui la
loro privatizzazione farebbe risparmiare i conti pubblici.
Tutto bene, fin qui, ma basta procedere per qualche riga e
la questione si complica. Al comma 8 spunta infatti un'altra
regola, che in pratica salva fino a fine 2014 gli
affidamenti diretti non in linea con le regole Ue.
Questa
seconda regola guarda ovviamente ai servizi pubblici locali,
travolti dall'uno-due assestato dal referendum e dalla
sentenza della Corte costituzionale che ne hanno azzerato
l'ultima "riforma", ma il testo si guarda bene dallo
specificarlo. Proprio qui si appigliano i magistrati liguri,
rispondendo alla Provincia di Genova: «la norma speciale»,
che salva l'in house, «deroga alla norma generale»,
che chiede l'addio alle strumentali. Con tanti saluti a
un'altra "riforma" (articolo
Il Sole 24 Ore del 10.07.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Raccolta differenziata insufficiente.
I. Il Collegio non ritiene sussistente il danno di €
81.771,00, contestato dalla Procura quale danno all’ambiente
conseguente alla maggiore quantità di rifiuti versati in
discarica. Ciò che rileva ai fini della configurabilità
oggettiva del danno ambientale è, dunque, l’incremento
dell’inquinamento rispetto alle condizioni originarie,
incremento che nel caso in esame non sembra essersi
verificato, atteso che nella discarica, regolarmente
autorizzata, sono stati versati rifiuti in quantità maggiore
rispetto a quelli che si sarebbero prodotti con una raccolta
differenziata effettuata nelle misure previste dalla legge,
ma non maggiormente inquinanti rispetto a quelli che la
stessa discarica, in base alle sue caratteristiche
costruttive e operative, era destinata ad accogliere.
II. Il mancato rispetto delle predette disposizioni, con
realizzazione della raccolta differenziata in misure
significativamente inferiori a quelle previste dal citato
art. 24 del decreto n. 22/97, ha comportato a carico del
Comune il pagamento di oneri aggiuntivi per il conferimento
in discarica del materiale che avrebbe dovuto essere
destinato proficuamente alla raccolta differenziata ed ha,
pertanto, arrecato al Comune di Recco un danno patrimoniale
conseguente.
III. Di tale danno devono essere chiamati a rispondere,
tenuto conto dell’apporto causale di ciascuno di essi, i
sindaci e gli assessori pro tempore nella misura del 40%
ciascuno (link
a www.lexambiente.it - Corte dei Conti, Sez. Giur. Liguria,
sentenza 27.05.2013 n. 83). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER IL
RISPARMIO ENERGETICO (Agenzia delle Entrate,
giugno 2013). |
APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Arriva
il DURC online: il documento di regolarità contributiva
direttamente via Web!
E’ ufficiale, arriva il DURC online!
INPS, INAIL e Casse Edili hanno avviato il progetto che
porterà in breve tempo al rilascio via web del Documento
Unico di Regolarità Contributiva.
Si inizia il 22 luglio, quando sarà attivata una nuova
procedura informatica che permetterà alle aziende di
verificare la propria posizione contributiva, rilevare
eventuali anomalie e procedere alla relativa
regolarizzazione, anche versando online.
L’azienda può usufruire del nuovo servizio direttamente o
attraverso il proprio consulente.
Ricordiamo che ad oggi la richiesta DURC si effettua online
sul sito Sportello Unico Previdenziale, ma il documento
viene poi spedito in forma cartacea all’azienda richiedente.
Una volta attivato il servizio, invece, il DURC sarà
rilasciato immediatamente on-line.
In allegato a questo articolo proponiamo una guida completa
al DURC a cura dell’INPS
(11.07.2013 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Detrazioni
65%, on-line il sito dell’Enea per la richiesta delle
agevolazioni.
La procedura per il riconoscimento delle detrazioni fiscali
per gli interventi di risparmio energetico sugli edifici
esistenti implica precisi obblighi procedurali, tra cui la
comunicazione di opportuna documentazione all’ENEA, che va
inoltrata per via telematica.
L’ENEA ha pubblicato on-line il portale per la trasmissione
della documentazione relativa agli interventi realizzati
dopo l’entrata in vigore del D.L. 63/2013 che innalza la
detrazione dal 55% al 65%.
La documentazione deve essere inoltrata per via telematica
utilizzando, in base alla tempistica degli interventi, i
seguenti portali:
►
http://finanziaria2013.enea.it (per interventi
realizzati nel 2013 anche nell'ambito delle nuove
disposizioni del Decreto Legge 04.06.2013, n. 63)
►
http://finanziaria2012.enea.it (per interventi
realizzati nel 2012)
►
http://finanziaria2011.enea.it (per interventi
realizzati nel 2011)
Al riguardo, ricordiamo ai lettori che il nuovo
Praticus-ENERGIA (il software ACCA per la gestione delle
pratiche di detrazione delle spese per la riqualificazione
energetica) è già aggiornato al Decreto Legge 63/2013 e
consente di gestire anche pratiche miste, con detrazione del
55% e del 65%
(11.07.2013 - link a www.acca.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Dagli architetti i modelli di contratto per le prestazioni
professionali.
Il Decreto Liberalizzazioni (D.L. 1/2012 convertito in Legge
27/2012 e s.m.i.) ha abrogato definitivamente le tariffe
professionali regolamentate nel sistema ordinistico e ha
previsto che il compenso per la prestazione debba essere:
●
pattuito al momento del conferimento dell’incarico
●
adeguato all’importanza dell’opera
●
adeguato alla prestazione da eseguire
Il professionista, quindi, è tenuto ad informare il cliente,
attraverso un preventivo, su misura del compenso, grado di
complessità dell’incarico, oneri e spese ipotizzabili e a
specificare mediante un contratto la natura e la complessità
della prestazione.
Per agevolare i progettisti nella redazione dei contratti,
il Consiglio Nazionale degli Architetti ha pubblicato una
raccolta di Contratti-tipo utili all’attività professionale.
Gli esempi proposti sono i seguenti:
●
contratto architetto collaboratore
●
contratto coworking
●
contratto architetto committente privato
●
contratto architetto committente privato collaudo
●
contratto architetto sola determinazione del compenso
●
contratto architetto domiciliazione
●
contratto RTP
●
contratto avvalimento
●
contratto rete
(11.07.2013 - link a www.acca.it). |
ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI:
RECENTI NOVITA’ IN MATERIA DI PROTEZIONE CIVILE A CARICO
DELLE AMMINISTRAZIONI COMUNALI - VADEMECUM SEMPLIFICATO
(Regione Lombardia, marzo 2013). |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Approvazione P.G.T. e misure di salvaguardia
(Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio,
Urbanistica e Difesa del suolo,
risposta e-mail del 12.07.2013). |
ENTI LOCALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Commissari senza oneri. Non si applicano gli obblighi di
trasparenza. La ragione è che i
funzionari prefettizi non sono organi elettivi.
Gli obblighi di trasparenza previsti dalla legge 07.12.2012, n. 213, valgono anche per i componenti delle
commissioni straordinarie incaricate della gestione degli
enti sciolti per fenomeni di infiltrazione e di
condizionamento di tipo mafioso?
L'art. 3, comma 1, lettera a), della legge n. 213/2012,
dispone che gli enti con popolazione superiore a 15 mila
abitanti sono tenuti a disciplinare, nell'ambito della
propria autonomia regolamentare, le modalità di pubblicità e
trasparenza dello stato patrimoniale dei titolari di cariche
pubbliche elettive e di governo.
Tale normativa sottopone gli enti locali alla disciplina
sugli obblighi di trasparenza al sussistere di due
condizioni: l'appartenenza ad una determinata dimensione
demografica e la titolarità di cariche pubbliche elettive.
In base ai contenuti della circolare della presidenza del
consiglio dei ministri del 30.01.2013 in tema di
pubblicità della situazione patrimoniale dei titolari di
cariche direttive di enti, istituti e società si ritiene, su
conforme parere espresso dal dipartimento per le politiche
del personale dell'amministrazione civile e per le risorse
strumentali e finanziarie, che le disposizioni della più
volte citata legge 213/2012 non trovino applicazione nei
confronti dei componenti della commissione straordinaria
incaricata dalla gestione dell'ente locale, atteso che gli
stessi, in quanto funzionari dello stato, sono soggetti, in
tema di trasparenza e cumulo di incarichi, alle norme
dettate dall'art. 53 del decreto legislativo 30.03.2001, n.
165
(articolo ItaliaOggi del 12.07.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Incandidabilità
del Sindaco.
È incandidabile un sindaco nei confronti del quale è stata
emessa, dal Tribunale, una sentenza per abuso d'ufficio
(art. 323 c.p.), cui ha fatto seguito la sentenza della
Corte d'appello che ha dichiarato «non doversi procedere per
intervenuta prescrizione»?
La normativa sull'incandidabilità alle cariche elettive
negli enti locali e sulle ipotesi di sospensione e decadenza
di diritto da dette cariche, già contenuta negli artt. 58 e
59 del Tuel, è ora confluita nel dlgs 31/12/2012, n. 235
(Testo unico delle disposizioni in materia di
incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e
di governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per
delitti non colposi, a norma dell'art. 1, comma 63, della
legge 06.11.2012, n. 190), in particolare agli artt. 10
e 11, con un ampliamento delle ipotesi delittuose
contemplate rispetto al dettato precedente.
Il delitto di abuso d'ufficio (art. 323 c.p.) è ora elencato
fra i reati di maggior allarme sociale, previsti nell'art.
10, comma 1, lettera b), del dlgs 31/12/2012, n. 235, per il
quale la condanna definitiva comporta l'incandidabilità o la
decadenza di diritto dalla carica ricoperta dalla data del
passaggio in giudicato della sentenza di condanna (comma 7
del successivo art. 11).
Se, al momento dell'entrata in vigore della nuova normativa,
la fattispecie sottoposta ad esame risultava definita con la
citata sentenza della Corte d'appello che ha dichiarato «non
doversi procedere per intervenuta prescrizione», non è dato
rinvenire il presupposto giuridico della condanna definitiva
che configurerebbe l'ipotesi decadenziale prevista dalle
norme sopraccitate
(articolo ItaliaOggi del 12.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Personale degli enti locali. Orario di lavoro.
La definizione dell'orario di lavoro
rientra fra le competenze peculiari dei dirigenti/titolari
di posizione organizzativa, ai sensi del d. lgs. 150/2009,
riguardando l'organizzazione del lavoro.
L'Ente chiede un parere in ordine ad alcune problematiche
concernenti l' orario di lavoro del personale dipendente. In
particolare, pone le seguenti questioni:
- se la disciplina dell'orario di lavoro debba essere
oggetto di un regolamento interno, approvato dalla Giunta;
- se sia corretto che la durata della pausa lavorativa sia
unilateralmente fissata dal datore di lavoro in 75 minuti,
oppure se un apposito regolamento debba stabilirne la
durata, minima e massima, compatibilmente con le esigenze di
servizio.
In via collaborativa, sentito il Servizio organizzazione e
relazioni sindacali, e ferma restando l'autonoma valutazione
dell'Ente in materia, si ritiene utile una disamina del
quadro normativo in materia di orario di lavoro, che possa
essere d'aiuto all'Ente nelle sue determinazioni.
Si premette che, ai sensi dell'art. 17, CCRL del 07.12.2006,
compete all'Ente la determinazione dell'orario di lavoro nel
rispetto dei criteri ivi previsti relativi
all'ottimizzazione delle risorse umane, al miglioramento
della qualità della prestazione, all'ampliamento della
fruibilità dei servizi in favore dell'utenza, al
miglioramento dei rapporti funzionali con altre strutture,
servizi ed altre amministrazioni pubbliche, e tenendo conto
dell'obbligo di accertare l'osservanza dell'orario di lavoro
da parte del dipendente mediante controlli di tipo
automatico.
Inoltre, come rilevato dall'ARAN [1],
che ha riportato un orientamento espresso dal Dipartimento
della funzione pubblica, sulla scorta delle innovazioni
apportate dal d.lgs. 150/2009, le materie concernenti
l'orario di lavoro, allo stato attuale, afferiscono a
prerogative dirigenziali (o delle posizioni organizzative),
rientrando nell'organizzazione del lavoro. Relativamente
alle predette materie non è, infatti, più possibile attivare
la contrattazione e la concertazione con le organizzazioni
sindacali, dovendosi comunque assolvere alle relazioni
sindacali mediante la sola informazione.
Un tanto è avvalorato anche dal contenuto dell'art. 14,
commi 47 e seguenti, della l.r. 22/2010, che ha
profondamente modificato il sistema delle relazioni
sindacali preesistente e disciplinato, nello specifico, dal
CCRL del 01.08.2002.
L'art. 8 del citato contratto regionale identificava,
infatti, l'articolazione dell'orario di lavoro come una
delle materie per le quali i soggetti sindacali potevano,
una volta ricevuta l'informazione preventiva di cui all'art.
7 del medesimo contratto, attivare la concertazione.
Attualmente, alla luce del contenuto delle disposizioni
approvate con la l.r. 22/2010, potendosi ascrivere l'orario
di lavoro alle competenze organizzative
dell'amministrazione, si ritiene che il sistema delle
relazioni sindacali da porre in essere, ai sensi di quanto
previsto dall'art. 14, comma 48, della richiamata L.R.
22/2010, sia meramente quello dell'informazione.
Premesso un tanto, con riferimento ai soggetti e alle
modalità di definizione dell'orario di lavoro, compete ai
rispettivi responsabili, come individuati dal regolamento di
organizzazione dei singoli enti, adottare le opportune
determinazioni in merito, volte per l'appunto a stabilirne
in dettaglio l'articolazione.
Si osserva inoltre che l'art. 8 del d.lgs. n. 66/2003
[2],
prevede che, qualora l'orario di lavoro giornaliero ecceda
il limite di sei ore, il lavoratore deve beneficiare di un
intervallo per pausa, le cui modalità e la cui durata sono
stabilite dai contratti collettivi di lavoro, ai fini del
recupero delle energie psico-fisiche e dell'eventuale
consumazione del pasto, anche al fine di attenuare il lavoro
monotono e ripetitivo.
Il successivo comma 2 prevede che, in difetto di disciplina
collettiva, al riguardo, al lavoratore deve essere comunque
concessa una pausa, anche sul posto di lavoro, tra l'inizio
e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro, di durata
non inferiore a dieci minuti e la cui collocazione deve
tener conto delle esigenza tecniche del processo lavorativo
[3].
Il Ministero del lavoro, nel rilevare che la durata e la
modalità della pausa sono stabilite dalla contrattazione
collettiva, ha precisato che, in mancanza di contrattazione
collettiva che preveda una pausa per una finalità qualsiasi,
anche ulteriore rispetto a quella prevista dal decreto, il
lavoratore ha diritto ad un intervallo non inferiore a 10
minuti.
Nell'ambito del Comparto unico FVG, la contrattazione
collettiva ha disciplinato la pausa per usufruire della
mensa [4]
con la previsione di cui all'art. 17, comma 2, CCRL del
06.05.2008.
La norma contrattuale in parola, nel riscrivere il comma 2
dell'art. 67, CCRL 01.08.2002, ha previsto che 'hanno
diritto alla mensa tutti i dipendenti, ivi compresi quelli
che prestano la propria attività in posizione di comando,
nei giorni di effettiva presenza al lavoro, qualora sia
previsto un rientro in relazione all'articolazione
dell'orario di lavoro. Il pasto va consumato al di fuori
dell'orario di lavoro e la durata della pausa non può essere
superiore a due ore e inferiore a trenta minuti...).
Come si può notare, la riportata clausola contrattuale non
stabilisce, in via generale, per la pausa pranzo una durata
definita e tassativa, ma pone dei limiti (minimi e massimi)
di durata della medesima.
Pertanto, si ritiene che sia lasciata discrezionalità ai
singoli enti nel determinare in via preventiva tale durata,
in relazione alle concrete esigenze organizzative, secondo
principi di efficienza, efficacia, correttezza e
ragionevolezza, nel rispetto comunque dei trenta minuti
minimi obbligatori di intervallo stabiliti per la pausa
pranzo per le giornate in cui è previsto il rientro e tenuto
conto dell'orario giornaliero d'obbligo.
In conclusione, come già evidenziato, compete ai
dirigenti/responsabili determinare la durata dell'orario di
lavoro, nonché della pausa lavorativa, non risultando
necessaria l'adozione di una norma regolamentare da parte
dell'organo politico, anche in relazione al principio di
separazione dei poteri, secondo cui rientrano nell'esercizio
delle funzioni dirigenziali le misure inerenti la gestione
delle risorse umane, come pure la direzione e
l'organizzazione del lavoro nell'ambito degli uffici
[5].
---------------
[1] Cfr. RAL 1220 Orientamenti Applicativi, consultabile
sul sito: www.aranagenzia.it.
[2] D.Lgs. 08.04.2003, n. 66, recante: 'Attuazione delle
direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti
dell'organizzazione dell'orario di lavoro'.
Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha
ribadito che la disciplina dell'orario di lavoro introdotta
dal decreto legislativo si applica a tutti i settori di
attività pubblici e privati, in relazione a rapporti di
lavoro subordinato (si veda la circolare citata nella nota
n. 3) .
[3] Si veda la circolare Ministero del lavoro e delle
politiche sociali n. 8 del 03.03.2005.
[4] Cfr. parere prot. n. 0042756 del 19.12.2011,
all'indirizzo: www.regione.fvg.it/COMPARTO UNICO E
CONTRATTAZIONE/PARERI.
[5] Cfr. art. 5, comma 2, del d.lgs. 165/2001 (11.07.2013
-
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APPALTI:
Determinazione a contrattare e di aggiudicazione
provvisoria, possono essere assorbite in un unico atto?
Domanda
Nel caso di affidamento diretto per lavori di importo
inferiore ad Euro 40.000,00 la determinazione a contrattare
e la determinazione di aggiudicazione provvisoria possono
essere omesse ed assorbite entrambe, dopo aver verificato
preliminarmente i requisiti oggettivi e soggettivi e la
capacità a contrattare dell'affidatario, dalla
determinazione di affidamento?
Risposta
Al fine di rendere più chiaro il quesito di cui si chiede la
risoluzione, è opportuno indicare cosa s'intende per
determinazione a contrarre e cosa s'intende per
determinazione di aggiudicazione provvisoria.
Sommariamente la determinazione a contrarre è l'atto, di
spettanza dirigenziale, con il quale la stazione appaltante,
P.A., manifesta la propria volontà di stipulare un
contratto; invece la determinazione di aggiudicazione
provvisoria è l'atto con il quale una gara di appalto viene
aggiudicata provvisoriamente in capo a colui che risulta
aggiudicatario, essendo però questa un atto necessario ma
non definitivo atteso che l'individuazione definitiva del
concorrente risulta cristallizzata soltanto con
l'aggiudicazione definitiva (cfr. da ultimo Cons. Stato Sez.
V, 13.10.2010, n. 7460).
L'art. 11, comma 2, del Codice degli Appalti espressamente
prevede che "Prima dell'avvio delle procedure di
affidamento dei contratti pubblici, le amministrazioni
aggiudicatrici decretano o determinano di contrarre, in
conformità ai propri ordinamenti, individuando gli elementi
essenziali del contratto e i criteri di selezione degli
operatori economici e delle offerte".
Inoltre, sulla questione occorre evidenziare come l'art.
125, comma 8, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, preveda
espressamente : "... Per i lavori di importo inferiore a
40.000 euro è consentito l'affidamento diretto da parte del
responsabile del procedimento".
Fatte tali doverose premesse, secondo parte della dottrina è
possibile rispondere positivamente al quesito proposto.
E' preferibile ritenere che anche per il ricorso
all'affidamento diretto ad un operatore per importi
inferiori alla suddetta soglia debba comunque esservi la
previa determinazione a contrarre in quanto l'art. 11, comma
2, Codice dei Contratti, è espressione di un principio
generale applicabile anche alle procedure in economia.
Per i lavori in economia, l'art. 174 del Regolamento di
esecuzione ed attuazione rimette in genere tale potere "autorizzatorio"
direttamente al responsabile del procedimento.
Nel caso di specie, pertanto, può ritenersi che le
determinazioni di cui sopra possono essere assorbite
entrambe in un unico atto, in quanto come si evince dal
comma 8 dell'art. 125 D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 responsabile
dell'affidamento, per i lavori di importo inferiore a
40.000,00, sarà il responsabile del procedimento il quale è
investito nella diretta responsabilità della stazione
appaltante che è al medesimo tempo committente e parte del
rapporto contrattuale: ciò emerge chiaramente dalla stessa
lettera della norma dove viene disposto che "Per ogni
acquisizione in economia le stazioni appaltanti operano
attraverso un responsabile del procedimento ai sensi
dell'art. 10".
Ad ulteriore conferma di quanto sopra, al fine di assicurare
la massima semplificazione della procedura, lo stesso
Legislatore ha previsto all'art. 334, comma 2, del
Regolamento che "il contratto affidato mediante cottimo
fiduciario è stipulato attraverso scrittura privata, che può
anche consistere in apposito scambio di lettere con cui la
stazione appaltante dispone l'ordinazione dei beni o dei
servizi, che riporta i medesimi contenuti previsti dalla
lettera di invito".
Resta inteso che, in ogni caso, dovrà procedersi alla
verifica del possesso di requisiti di ordine generale (art.
38) in capo all'affidatario che dovrà dimostrare anche la
sussistenza dei requisiti di capacità tecnica necessari per
l'esecuzione dei lavori in questione (10.07.2013 -
tratto da www.ipsoa.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Monetizzazione festività
soppresse.
Il Dipartimento della funzione pubblica
ha precisato che il divieto di monetizzazione delle ferie e
delle festività soppresse non opera solo in relazione a
quelle vicende estintive del rapporto di lavoro dovute ad
eventi del tutto indipendenti dalla volontà del lavoratore e
dalla capacità organizzativa e di controllo del datore di
lavoro (ad es. decesso, risoluzione per inidoneità
permanente ed assoluta).
L'Ente ha chiesto di conoscere se sia possibile procedere
alla monetizzazione di ferie e festività soppresse, maturate
e non fruite negli anni 2010 e 2011, residue alla cessazione
dal servizio di un dipendente, il cui rapporto è stato
risolto nel 2013 a seguito di dichiarazione di inabilità
permanente ed assoluta a qualsiasi attività lavorativa,
assente peraltro continuativamente dal lavoro per infortunio
(luglio 2010/marzo 2011) e poi per malattia da settembre
2011 a fine servizio.
Nel richiamare integralmente le osservazioni espresse in
merito nel precedente parere reso dallo scrivente
[1] e
citato dall'Amministrazione istante, si ritiene opportuno
evidenziare le argomentazioni addotte in proposito dal
Dipartimento della funzione pubblica [2].
Il predetto Dipartimento ha, infatti, ritenuto che il
divieto di monetizzazione imposto dall'art. 5, comma 8, del
d.l. 95/2012, convertito in l. 135/2012, non operi solo in
relazione a quelle vicende estintive del rapporto di lavoro
dovute ad eventi del tutto indipendenti dalla volontà del
lavoratore e dalla capacità organizzativa e di controllo del
datore di lavoro.
In questi casi -si è precisato- l'impossibilità di fruire
delle ferie non è imputabile o comunque riconducibile al
dipendente. Si tratta, ad esempio, delle ipotesi in cui il
rapporto di lavoro si conclude in modo anomalo e non
prevedibile in alcun modo (decesso, risoluzione per
inidoneità permanente ed assoluta), oppure quelle
caratterizzate dalla circostanza che il dipendente non ha,
comunque, potuto fruire delle ferie maturate a causa di
assenza dal servizio antecedente la cessazione del rapporto
di lavoro (malattia, congedo di maternità, aspettative a
vario titolo). Si tratta, quindi, di situazioni che, proprio
per i loro contenuti specifici, non sono considerate
rispondenti alla previsione di cui all'art. 5, comma 8, del
d.l. 95/2012, convertito in l. 135/2012 e, pertanto, vengono
escluse dal suo ambito di applicazione.
Il citato Dipartimento, nell'esaminare le ipotesi in cui la
mancata fruizione sia determinata in occasione di cessazioni
dal servizio conseguenti a periodi di malattia ovvero a
dispensa dal servizio per inidoneità assoluta e permanente o
a decesso del dipendente, ha osservato che le predette
cessazioni del rapporto di lavoro configurano vicende
estintive 'dovute ad eventi indipendenti dalla volontà
del lavoratore e dalla capacità organizzativa del datore di
lavoro. In base al sopra descritto ragionamento non
sembrerebbe, pertanto, rispondente alla ratio del divieto
previsto dall'articolo 5, comma 8, del D.L. n. 95 del 2012
includervi tali casi di cessazione, poiché ciò comporterebbe
una preclusione ingiustificata e irragionevole per il
lavoratore il cui diritto alle ferie maturate e non godute
per ragioni di salute, ancorché già in precedenza rinviate
per ragioni di servizio, resta integro'.
Si è -in tale sede- richiamata anche giurisprudenza
comunitaria che ha ribadito che le disposizioni nazionali
non possono prevedere che, al momento della cessazione del
rapporto di lavoro, non sia dovuta alcuna indennità
finanziaria sostitutiva delle ferie annuali retribuite non
godute dal lavoratore che sia stato in congedo per malattia
[3]. Anche
la giurisprudenza italiana ha espresso un orientamento
favorevole alla monetizzazione delle ferie in caso di
malattia [4].
Si fa presente che l'ARAN [5]
ha rappresentato inoltre che le indicazioni fornite dal
Dipartimento della funzione pubblica sono applicabili anche
alle quattro giornate di riposo per festività soppresse, di
cui alla l. 937/1977.
Ad ogni buon conto considerato che, in relazione ai periodi
temporali riferiti dall'Amministrazione, risulta che il
dipendente interessato sia stato comunque in servizio da
marzo a settembre del 2011, ai fini della legittima
monetizzazione, deve emergere da atti formali che, in detto
periodo, sia stata inoltrata richiesta di fruizione delle
ferie e festività soppresse, negate dall'Ente per motivi di
servizio.
---------------
[1] Cfr. n. prot. 19548 del 25.06.2013.
[2] Cfr. nota n. 40033 dell'08.10.2012.
[3] Cfr. Corte di giustizia, Grande sez., sent. 20.01.2009,
n. 350/2006, sent. 20.01.2009, n. 520/2006.
[4] Cfr. Cass., 09.07.2012, n. 11462.
[5] Cfr. Il divieto di monetizzazione delle ferie, in:
www.aranagenzia.it/araninforma/index.php/dicembre-2012 (10.07.2013
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PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Compatibilità attività
extralavorativa.
L'art. 1, comma 56, della l. 662/1996
consente, ai pubblici dipendenti, l'esercizio della libera
professione o di attività libero professionali, a condizione
che il lavoratore sia titolare di un rapporto a tempo
parziale non superiore al 50 per cento.
L'Ente ha chiesto un parere in ordine alla compatibilità tra
un rapporto di pubblico dipendente a tempo indeterminato e
pieno e lo svolgimento dell'attività di 'guida turistica',
che si concretizza nell'esercizio di una vera e propria
professione, comportando l'iscrizione all'albo/elenco
disciplinato dall'art. 113 della L.R. 2/2002. Si precisa
inoltre che la suddetta attività consisterebbe
nell'effettuazione di alcune (non quantificate) visite
guidate nei fine settimana o nelle giornate festive, a
fronte di un compenso professionale.
Preliminarmente, si osserva che esula dalle competenze dello
scrivente Servizio fornire valutazioni in concreto su
specifiche questioni sottoposte dagli enti, avendo questa
struttura come finalità la prestazione di attività di
consulenza consistente nell'indicazione del quadro
normativo, giurisprudenziale e dottrinale, in base al quale
l'amministrazione locale possa assumere le determinazioni
rientranti nella propria autonomia decisionale.
Pertanto, si rimettono alla valutazione di codesto Comune le
considerazioni che seguono, come utile contributo da cui, in
base agli elementi di fatto posseduti ed in relazione alla
concreta situazione, l'Ente potrà trarre le debite
conclusioni.
Si ritiene doveroso illustrare preventivamente i principi
generali e le regole specifiche che disciplinano il regime
dell'incompatibilità per i pubblici dipendenti.
Per i pubblici dipendenti con rapporto di lavoro a tempo
pieno o a tempo parziale superiore al 50 % di quello a tempo
pieno, vige il principio dell'incompatibilità con altre
prestazioni lavorative. Il Dipartimento della funzione
pubblica [1]
ha rimarcato come 'il legislatore costituzionale abbia
posto, fra i diversi principi a tutela dell'interesse
pubblico, che deve essere costantemente perseguito dalla
pubblica amministrazione, quello del dovere di esclusività
delle prestazioni dei propri dipendenti, nel senso
dell'inconciliabilità tra l'impiego presso l'amministrazione
pubblica ed il contestuale svolgimento di altre attività
lavorative' [2].
Il principio generale in materia di incompatibilità e di
cumulo di incarichi ed impieghi è espresso dall'art. 60 del
d.p.r. 3/1957, secondo il quale 'l'impiegato non può
esercitare il commercio, l'industria né alcuna professione o
assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare
cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si
tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è
riservata allo Stato [3]
e sia all'uopo intervenuta l'autorizzazione del Ministro
competente'.
Detta norma è richiamata espressamente dall'art. 53, comma
1, del d.lgs. n. 165/2001, che recita testualmente: 'Resta
ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle
incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del
testo unico approvato con decreto del Presidente della
Repubblica 10.01.1957, n. 3'.
A prescindere dalla connotazione delle attività indicate
come incompatibili dall'art. 60 del d.p.r. 3/1957,
l'incompatibilità sussiste quando l'attività collaterale è
caratterizzata da elementi qualificanti di natura
quantitativa quali la protrazione nel tempo, il grado di
complessità, la non episodicità, la stabilità, la
ripetitività e la professionalità richiesta per lo
svolgimento.
In particolare, per quanto concerne l'esercizio della libera
professione o, più generalmente, di attività libero
professionali, si richiama quanto disposto dall'art. 1,
comma 56, della l. 662/1996, che lo consente a condizione
che il pubblico dipendente sia titolare di un rapporto di
lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non
superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno.
La Corte costituzionale ha rimarcato il principio generale
secondo il quale l'esercizio di attività professionali per
le quali è prescritta l'iscrizione all'albo è consentita ai
soli dipendenti pubblici a part-time ridotto entro il 50%
[4].
Anche la circolare del Dipartimento della funzione pubblica
n. 3 del 1997 [5]
precisa che le attività extraistituzionali sono da
considerarsi incompatibili quando: 1) oltrepassano i limiti
della saltuarietà ed occasionalità; 2) si riferiscono allo
svolgimento di libere professioni.
In sostanza, le norme vigenti non consentono al pubblico
dipendente di svolgere la libera professione (anche nel caso
in cui difetti un conflitto di interessi in senso stretto) o
di avere la titolarità di una qualsiasi attività autonoma,
se non in regime di rapporto a part-time, non superiore al
50% [6].
---------------
[1] Si veda il parere 15.12.2005, n. 220.
[2] Cfr. art. 98, comma 1, della Costituzione, secondo cui i
pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione.
[3] La regola è valida in riferimento alle nomine effettuate
dalle singole amministrazioni locali.
[4] Cfr. sentenze n. 390 del 2006 e n. 166 del 2012, in cui
si esamina la particolare questione relativa all'attività
forense.
[5] Cfr. punto 6.
[6] Cfr. pareri ANCI del 24.07.2007, del 09.08.2007 e del
05.10.2008 (09.07.2013 -
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NEWS |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La p.a. diventa una casa di vetro. Manager ruotati. Niente
lavoro nel privato per tre anni. Il
ministro D'Alia ha firmato il piano anticorruzione che ora
dovrà essere varato dalla Civit.
Rotazione dei dirigenti che operano nelle aree a rischio
corruzione. Obbligo di astensione in caso di conflitto di
interessi. Giro di vite sulle incompatibilità. Tutela dei
dipendenti che segnalano illeciti e casi sospetti di
malaffare nella p.a. La strategia anticorruzione degli enti
pubblici e delle amministrazioni locali non farà sconti a
nessuno.
Arrivando persino a vietare ai dipendenti, che hanno
esercitato poteri autoritativi o negoziali, di lavorare
presso i privati (destinatari della loro attività) nei tre
anni successivi alla fine del rapporto di lavoro con la p.a..
L'operazione pulizia nella pubblica amministrazione prevista
dalla legge n. 190/2012 entra nel vivo grazie alla firma da
parte del ministro della funzione pubblica Gianpiero D'Alia
della proposta di Piano nazionale anticorruzione.
Il piano,
come prevede la legge, è stato trasmesso alla Civit (la
Commissione indipendente per la valutazione e l'integrità
delle amministrazioni pubbliche a cui la legge 190/2012
assegna il ruolo di Autorità nazionale anticorruzione) che
ora dovrà approvarlo. Si tratta di precetti immediatamente
operativi salvo che per le regioni, gli enti locali e gli
enti del Servizio sanitario nazionale che dovranno prima
aspettare il via libera della Conferenza unificata.
Il Piano opererà su due livelli. Uno nazionale, di
competenza di palazzo Vidoni a cui spetterà la definizione
degli obiettivi strategici e delle azioni di prevenzione
(seminari, tutela dei whistleblowers, ossia i dipendenti che
segnalano illeciti, sondaggi a campione tra i dipendenti
sulla percezione del rischio corruzione). E l'altro a
livello locale che si tradurrà nella predisposizione da
parte di ciascun ente del Piano triennale di prevenzione
della corruzione (Ptpc). Il Ptpc dovrà essere elaborato dal
responsabile della prevenzione della corruzione che negli
enti locali è individuato nel segretario, salva diversa
decisione da parte del sindaco. La mancata predisposizione
del Ptpc farà scattare la responsabilità dirigenziale a
carico del segretario. Questi risponderà tutte le volte in
cui all'interno dell'amministrazione si verifichi un reato
di corruzione accertato con sentenza definitiva, a meno che
non dimostri di aver osservato tutte le prescrizioni di
legge.
Come detto, la strategia di prevenzione a livello decentrato
sarà molto restrittiva. Il conferimento di incarichi
dirigenziali dovrà essere passato al setaccio per
individuare eventuali cause ostative o incompatibilità con
cariche in enti di diritto privato. E per garantire il più
possibile l'indipendenza e imparzialità dei dirigenti
pubblici, si fa divieto di lavorare per tre anni con
soggetti privati che siano stati destinatari della loro
attività quando lavoravano nella pubblica amministrazione.
Grande importanza andrà data alla trasparenza. I siti web
istituzionali delle amministrazioni dovranno essere uno
specchio fedele della realtà. E si dovrà assicurare una
capillare attuazione al codice di comportamento dei
dipendenti pubblici, recentemente entrato in vigore con la
pubblicazione in Gazzetta (si veda ItaliaOggi del 05/06/2013),
che introduce una sorta di galateo per i dipendenti
pubblici. Gli statali non potranno accettare regali (tranne
quelli di modico valore), non potranno accettare
collaborazioni dai privati e dovranno segnalare la
partecipazione ad associazioni o, per i dirigenti, il
possesso di partecipazioni azionarie.
Spazio anche alla formazione che opererà anche questa su un
duplice livello. Il primo, più generale, rivolto a tutti i
dipendenti sui temi dell'etica e dell'integrità. E il
secondo a livello specifico rivolto ai responsabili della
prevenzione e ai dirigenti e funzionari delle aree a
rischio.
Quanto fatto dagli enti a livello locale sul fronte della
prevenzione della corruzione dovrà essere comunicato alla
Funzione pubblica utilizzando modelli standardizzati secondo
istruzioni che saranno pubblicate sul sito di palazzo Vidoni
(www.funzionepubblica.it). Il ministero elaborerà i dati
ricevuti dalle p.a. e realizzerà un report riepilogativo per
ciascuna tipologia di enti (amministrazioni centrali,
regioni, enti locali, partecipate)
(articolo ItaliaOggi del 13.07.2013). |
ENTI LOCALI - ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso.
Le istruzioni di Palazzo Chigi.
Banche dati gratuite alle strutture della Pa.
IL PARERE/
Le amministrazioni posso fruire senza oneri dei database per
lo svolgimento dei compiti istituzionali.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri con parere 24.06.2013 reso al Comune di Ferrara chiarisce il diritto
di accesso gratuito alle banche dati per lo svolgimento di
compiti istituzionali e di controllo delle dichiarazioni
sostitutive e delle certificazioni.
Il Comune di Ferrara, in particolare, ha chiesto chiarimenti
in merito alla gratuità dell'accesso alle banche
dati/informazioni detenute dal Pra, Camera di Commercio e
Motorizzazione civile e la risposta è stata positiva.
Nel parere si ricorda che la sussistenza del diritto
all'acquisizione, senza oneri, era già esercitabile dal 09.12.2000, in virtù dell'articolo 25 della legge
340/2000, ribadito dall'articolo 43 del Dpr 445/2000 e dagli
articoli 50 e 58 del Codice dell'amministrazione digitale (Dlgs
82/2005). Nello specifico, l'articolo 50 prevede che
qualunque dato trattato da una Pa, nel rispetto della
normativa sulla privacy, è reso accessibile e fruibile alle
amministrazioni richiedenti per lo svolgimento dei propri
compiti istituzionali, mentre l'articolo 58 definisce le
modalità di accesso e fruizione dei dati stabilendo
l'obbligo per tutte le amministrazioni titolari di banche
dati accessibili per via telematica di predisporre apposite
convenzioni volte a disciplinare le modalità di accesso ai
dati da parte delle amministrazioni procedenti, senza oneri
a loro carico.
Il principio della gratuità viene meno solo nel caso in
venga chiesta una qualsiasi elaborazione aggiuntiva, intesa
come attività ulteriore volta all'aggregazione o allo
sviluppo dei dati, la quale è soggetta al pagamento del
relativo costo. Come recentemente precisato nel parere del
31.01.2013 reso dalla Corte dei Conti, sezione
regionale di controllo dell'Emilia Romagna (si veda Il Sole
24 Ore del 25.03.2013) si deve trattare però di costi
eccezionali direttamente collegabili alla peculiare natura
del servizio richiesto dall'amministrazione procedente.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri, in virtù delle
norme richiamate, conferma sussistere in capo alla Polizia
municipale, la possibilità di accedere e consultare
immediatamente e senza oneri le banche dati del Pubblico
registro automobilistico e/o della Motorizzazione civile,
"non risultando norme speciali che prevedono l'accesso a
titolo oneroso alle predette banche dati da parte delle
pubbliche amministrazioni richiedenti".
Infine, se l'amministrazione titolare della banca dati non
ha ancora predisposto la convenzione per l'accesso gratuito,
la Presidenza del Consiglio dei Ministri precisa che l'unico
rimedio che, allo stato, appare percorribile è quello in
base al quale l'amministrazione che intende effettuare
l'acquisizione dei dati segnali la questione al Presidente
del Consiglio dei Ministri affinché quest'ultimo fissi un
termine entro il quale l'amministrazione titolare della
banca dati provveda a predisporre la convenzione, e, in caso
di inutile decorrenza del termine, nomini un commissario ad acta
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.07.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Da oggi incentivi ambientali ai distributori di carburanti.
Da oggi i titolari dei distributori di carburante che
cessano la propria attività possono presentare domanda per
ricevere un contributo pari al 60% delle spese sostenute per
il ripristino ambientale (per un massimo di 70.000 euro a
impianto). Le attività oggetto di contributo vanno dalla
bonifica dei serbatoi e delle linee interrate, allo
smaltimento e recupero dei rifiuti prodotti, dallo
smaltimento dei rifiuti liquidi alla messa in sicurezza
operativa.
Questo è quanto prevede il
decreto
19.04.2013 del ministero
dello sviluppo economico pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale del 12.06.2013 n. 136.
La domanda di contributo, redatta secondo il modello di cui
all'allegato I del dm 19.04.2013 può essere presentata dal
12 luglio al ministero dello sviluppo economico,
dipartimento per l'energia, direzione generale per la
sicurezza dell'approvvigionamento e le infrastrutture
energetiche, unitamente a: copia del decreto di
autorizzazione o concessione relative all'impianto per il
quale viene richiesto il contributo, copia del prospetto
riepilogativo della movimentazione dei prodotti petroliferi
del registro di carico e scarico relativo all'impianto
medesimo relativa all'ultimo anno di attività fino alla data
di chiusura alle vendite o, qualora non disponibile,
documentazione fiscale relativa all'ultimo rifornimento
effettuato all'impianto, in attesa dell'acquisizione da
parte del ministero del suddetto prospetto e ordinativo
lavori di ripristino dei luoghi con relativo preventivo e
indicazione della data inizio lavori.
L'ordine di presentazione delle domande è determinato in
base al timbro dell'ufficio postale di partenza nel caso di
invio a mezzo posta e in base alla protocollazione in arrivo
nel caso di consegna a mano. Le domande sono esaminate
secondo l'ordine di presentazione e ove complete di tutta la
documentazione prevista. Nel caso di consegna a mano, si
invita a corredare la domanda con una fotocopia della
domanda stessa, che sarà restituita all'interessato, con
apposto il timbro con la data di ricevimento.
L'obiettivo di questo decreto è ridurre sensibilmente il
numero di distributori in Italia, dove la rete conta 23.100
punti vendita attività superando di gran lunga la media di
tutti gli altri paesi europei
(articolo ItaliaOggi del 12.07.2013). |
APPALTI:
Appalti unificati. Centrale unica per i piccoli comuni.
La Consulta ammette l'errore. La
norma resta.
I piccoli comuni non sfuggono all'obbligo di costituire le
centrali uniche di committenza per gli appalti. Entro fine
anno gli enti fino a 5.000 abitanti dovranno individuare una
stazione unica appaltante per l'acquisizione di lavori,
servizi e forniture nell'ambito delle unioni di comuni
esistenti o stipulando tra loro appositi accordi di tipo
consortile.
È giunto a soluzione il piccolo giallo, scoperto
da ItaliaOggi (si veda il giornale di ieri) sulla presunta
abrogazione dell'art. 23, comma 4, del decreto Salva Italia
(dl n. 201/2011) a opera della sentenza della Corte
costituzionale che ha bocciato la riforma delle province.
Non c'è stata nessuna dichiarazione di illegittimità della
norma, ma si è trattato semplicemente di un errore materiale
di redazione del comunicato che mercoledì scorso ha dato
notizia del dispositivo (non ancora depositata) emanato
dalla Corte. La certezza sul fatto che si sia trattato di un
errore si avrà all'inizio della prossima settimana quando è
atteso il deposito delle motivazioni della sentenza che,
stando ad alcune indiscrezioni, potrebbe arrivare già
lunedì.
La precisazione è arrivata a ItaliaOggi direttamente da
palazzo della Consulta e restituisce certezza agli operatori
dei piccoli comuni che in questi giorni non sapevano più che
pesci prendere. Le centrali uniche di committenza, quindi,
andranno costituite. E sul territorio gli enti iniziano già
ad organizzarsi.
A Treviso, per esempio, Anci e Upi Veneto hanno sottoscritto
una convenzione per la promozione di centrali uniche di
committenza. Peccato però che i soggetti deputati a svolgere
i nuovi compiti siano stati individuati proprio nelle
province che dovrebbero invece essere cancellate. «Si tratta
di un servizio gratuito per assicurare anche in tempi
economici difficili trasparenza, regolarità ed economicità
nella gestione dei contratti pubblici. Mettiamo a
disposizione dei piccoli comuni le professionalità e le
competenze delle province, perché possano far fronte alle
necessità del territorio e per ottimizzare le risorse
economiche e umane interessate», ha dichiarato il presidente
dell'Upi Veneto e della provincia di Treviso, Leonardo
Muraro
(articolo ItaliaOggi del 12.07.2013). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Il
ministro. «Gli ecobonus saranno strutturali».
Lupi: una vergogna l'Imu sull'invenduto. Appalti, torna
l'anticipo.
ANTONIO TAJANI/ «La direttiva che impone alle Pa pagamenti
in 30 giorni va applicata senza indugi altrimenti proporrò
una procedura d'infrazione».
Una «bad practice» da insegnare nelle università delle
vessazioni fiscali. Di più: una «vergogna». Di fronte alla
platea di imprenditori infiammata dalle parole piuttosto
dirette del presidente dell'Ance, che aveva parlato poco
prima, il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi,
sceglie di non usare giri di parole, affrontando l'argomento
più caldo per un costruttore: la cancellazione dell'Imu
sull'invenduto. Il ministro sa che non è più tempo di
annunci a vuoto e che il «fattore tempo è fondamentale» per
rispondere alle attese di un settore «che ha pagato il conto
più salato alla crisi economica».
Sull'Imu arrivano allora tre precisazioni. Entro il 30
agosto «quella sulla prima casa va cambiata e superata senza
pregiudizi ideologici». Stessa posizione sull'imposta che
grava sulle case invendute: il “magazzino” dei costruttori,
che secondo gli ultimi calcoli effettuati dal Cresme
includerebbe perlomeno 400mila abitazioni in tutta Italia.
«Il nostro Paese -dice Lupi- è l'unico al mondo in cui
esiste un'imposta su un prodotto che non ha trovato sbocco
sul mercato», aprendo la strada anche al riutilizzo degli
immobili in un piano di housing sociale. Apertura anche
sull'Imu pagata per i beni strumentali delle imprese:
all'orizzonte non c'è la cancellazione. Ma, chiarisce Lupi,
«non è pensabile che un imprenditore paghi 12 volte le
tasse: l'Imu sui capannoni va inserita in bilancio e
considerata come un costo».
Suonano come balsamo sulle piaghe aperte dalla crisi nei
cantieri italiani anche le altre promesse del ministro ai
costruttori che affollano il Palazzo dei Congressi di Roma.
La prima riguarda la stabilizzazione degli incentivi fiscali
per la riqualificazione degli immobili. «Ecobonus del 65% e
sconti del 50% sulle ristrutturazioni dal primo gennaio 2014
dovranno diventare strutturali -annuncia il ministro-. Ci
metto la faccia: e mi giudicherete dai fatti». Quanto agli
investimenti in infrastrutture Lupi ricorda i 2 miliardi di
«pronta cassa» sbloccati con il «decreto del fare». Risorse
«capaci di assicurare una spesa reale di 50 milioni al
mese».
Non lontana, è la sottolineatura, «dai 78 milioni di
“tiraggio” garantita dalla spesa in opere pubbliche nel
2004», periodo pre-crisi. E per ovviare al credit crunch che
strangola il settore arriva la proposta-choc: il ritorno
della vecchia anticipazione sui lavori pubblici, abolita
dalla riforma della legislazione sugli appalti varata in
epoca post-Tangentopoli. «C'è un problema di liquidità delle
imprese che va risolto già nella fase di conversione del
decreto del fare». Chi vince un appalto, è la soluzione
proposta, «deve ottenere un anticipo» sui lavori. Quanto?
«Per me l'ottimo sarebbe il 20% -dice Lupi- ma se fosse
anche il 15% o il 10% andrebbe comunque bene: in questa fase
la cosa più importante è ribadire il principio, l'attenzione
alla soluzione dei problemi».
Il tema dei pagamenti alle imprese è anche al centro
dell'intervento di Antonio Tajani, vice presidente della
Commissione europea.
«La direttiva che impone pagamenti in
30 giorni per lavori e forniture della Pa -dice Tajani- va
applicata senza compromessi. Prima della pausa estiva
convocherò i rappresentanti dell'Ance e della
Confartigianato e se, come pare, si scoprirà che il
recepimento non è confacente alle attese, sarò costretto a
proporre una procedura di infrazione con costi notevoli per
lo Stato»
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.07.2013). |
APPALTI: Decreto
del fare. Possibile l'allargamento a tutti gli obblighi
fiscali.
Appalti e responsabilità solidale: rispunta la cancellazione
piena.
La solidarietà fiscale nell'ambito degli appalti potrebbe
essere integralmente abrogata.
Questo è quanto prevede
l'emendamento alla legge di conversione del decreto del fare
presentato da Enrico Zanetti, deputato di Scelta Civica, e
incluso tra le proposte di modifica accolte dalla
Commissione Finanze della Camera e inviata ora alle
Commissioni referenti (Bilancio e Affari costituzionali).
Inizialmente il decreto del fare, in effetti, prevedeva
l'abolizione delle responsabilità solidali per Iva e
ritenute alla fonte che obbligano le imprese a controlli
onerosi e complicano le procedure di pagamento dei
corrispettivi. Successivamente, però, nella versione finale
del provvedimento, è stata cancellata solo la responsabilità
solidale per l'Iva.
Alla riunione di ieri era presente anche
il viceministro dell'Economia, Luigi Casero, che si è
impegnato su questo punto a tenere conto del parere votato
dalla Commissione Finanze. «È una bella notizia per tutte le
imprese e per tutte le persone di buon senso –ha
sottolineato, Zanetti-. Il decreto del fare aveva fatto un
primo passo nella giusta direzione, ma era insufficiente
perché abrogava solo per l'Iva e manteneva in piedi la
disciplina per le ritenute alla fonte. Ora speriamo che
questa disciplina, già abrogata una prima volta nel 2007,
non risorga mai più e si smetta di intralciare chi cerca di
lavorare e produrre con disposizioni figlie di una mentalità
burocratica completamente slegata dalla realtà».
In commissione sono stati presentati anche altri emendamenti
di semplificazione da Zanetti, su cui si conoscerà nei
prossimi giorni il parere favorevole o meno di Commissione e
Governo prima dell'approdo in Aula, dalla semplificazione
dei modelli Intrastat alla trasformazione in adempimento
annuale della comunicazione telematica delle dichiarazioni
d'intento ricevute dai fornitori degli esportatori abituali,
dalla semplificazione della comunicazione telematica delle
operazioni con paesi black list all'abrogazione della
comunicazione telematica dei beni di impresa concessi in uso
a soci e familiari
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.07.2013). |
APPALTI:
Appalti, la p.a. non è solidale. Il lavoratore senza salario
non può agire contro l'ente. Nel decreto legge sul lavoro l'interpretazione autentica del dlgs n. 276 del 2003.
La solidarietà per il pagamento degli stipendi ai dipendenti
dell'appaltatore non si applica alle pubbliche
amministrazioni. Il lavoratore, rimasto senza salario, non
può invocare la legge Biagi (dlgs 276/2003) per agire contro
la p.a., chiedendone la condanna, insieme al suo datore di
lavoro, al pagamento delle retribuzioni.
Il decreto legge sul lavoro, 76/2013, all'articolo 9, con
una disposizione di interpretazione autentica prevede,
infatti, che le disposizioni di cui all'articolo 29, comma
2, del dlgs 276/2003 (legge Biagi) non trovano applicazione
in relazione ai contratti di appalto stipulati dalle
pubbliche amministrazioni. La norma si applica anche ai
processi in corso.
L'articolo 2 citato dispone che in caso di appalto di opere
o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro
è obbligato in solido con l'appaltatore, e anche con
ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di
due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai
lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di
trattamento di fine rapporto, nonché i contributi
previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al
periodo di esecuzione del contratto di appalto.
Stando all'ultima versione della norma il committente
imprenditore o datore di lavoro deve essere citato in
giudizio per il pagamento unitamente all'appaltatore e con
gli eventuali ulteriori subappaltatori. Il committente
imprenditore o datore di lavoro può chiedere di pagare solo
dopo che il lavoratore ha tentato l'esecuzione contro il suo
datore di lavoro (beneficio della preventiva escussione).
In tal caso il giudice accerta la responsabilità solidale di
tutti gli obbligati, ma l'azione esecutiva può essere
intentata nei confronti del committente imprenditore o
datore di lavoro solo dopo l'infruttuosa escussione del
patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali
subappaltatori. Il committente che ha eseguito il pagamento
potrà rivalersi sul coobligato.
Nei tribunali si discute se questa disposizione si applica
anche agli appalti pubblici e, cioè, quando il committente è
una pubblica amministrazione: ci si chiede, quindi, se il
dipendente dell'appaltatore può chiedere un decreto
ingiuntivo contro la stazione appaltante pubblica o,
comunque, fare causa all'ente pubblico per ottenere gli
stipendi e i tfr non pagati.
A favore della tesi favorevole sta un ragionamento, che fa
perno sulla finalità di tutela del lavoratore, finalità da
perseguire anche quando il committente è un ente pubblico
(altrimenti ci sarebbe discriminazione tra i lavoratori).
Va detto che la tesi favorevole prevale nelle sentenze di
primo grado, mente ci sono pronunce di appello di diversa
opinione.
A favore della tesi contraria, che esclude le p.a.
dall'articolo 29 della legge Biagi, ci sono considerazioni
che riguardano la portata letterale della norma: l'articolo
29 non fa riferimento agli appalti pubblici; l'articolo 29
fa riferimento a committenti-imprese e tali non sono le
pubbliche amministrazioni; poi l'articolo 2 della legge
Biagi sembra escludere le p.a. dall'ambito di applicazione.
Si sostiene ancora che una spia dell'inapplicabilità alle
p.a. è lo stesso articolo 29 nella parte in cui prevede
l'assunzione dei lavoratori danneggiati presso il
committente, norma, questa, incompatibile con le modalità di
reclutamento dei dipendenti pubblici.
Inoltre bisogna considerare che nel momento attuale di
crisi, in caso di inadempimento contributivo
dell'imprenditore, molto spesso la stazione appaltante
pubblica non può pagare l'imprenditore, dovendo invece, in
caso di Durc negativo, corrispondere le somme dovute
direttamente all'ente previdenziale: si trova esposta,
magari senza avere avuto la realizzazione dell'opera
pubblica, sia con i lavoratori, sia con gli enti
previdenziali e assicurativi.
Infine il regolamento del codice dei contratti pubblici (dpr
207/2010) contiene norme specifiche per l'ipotesi di mancato
pagamento dei salari: l'ente pubblico può pagare
direttamente i lavoratori, ma solo nel limite di quanto
eventualmente dovuto all'impresa appaltatrice. Si tratta di
una norma speciale, che esclude già oggi, secondo alcuni,
l'applicazione della legge Biagi negli appalti pubblici.
Non a caso il decreto legge 76/2013 si autodefinisce, nella
relazione di accompagnamento, quale norma di interpretazione
autentica: questo significa, quindi, che si applica anche
alle controversie in corso
(articolo ItaliaOggi dell'11.07.2013). |
APPALTI SERVIZI:
CONTRATTI PUBBLICI/ L'ok dell'Authority.
Bandi tipo al via. Si parte con pulizie e polizze.
L'Autorità avvia i lavori per i bandi-tipo dando priorità ai
servizi di pulizia e manutenzione degli immobili, ai servizi
assicurativi e a quelli di ingegneria e architettura, da
luglio a gennaio 2014; esclusi dai bandi-tipo i servizi di
gestione dei rifiuti e quelli sanitari.
È quanto ha deciso
l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici con il
documento pubblicato l'08.07.2013 che conclude la
consultazione avviata il 19.03.2013 sui bandi tipo per
l'affidamento dei contratti pubblici di servizi e forniture.
L'indagine era stata utilizzata per comprendere in quali
ambiti merceologici vi fossero maggiori criticità e per
capire l'impatto economico sul mercato dei contratti di ogni
settore. Inizialmente erano stati individuati i settore
delle forniture in ambito sanitario (prodotti farmaceutici,
apparecchiature medicali, dispositivi medici e materiale di
consumo specialistico), i servizi di gestione degli immobili
(servizi di pulizia e di manutenzione, i servizi energetici,
i servizi integrati del facility management e del global
service), i servizi di illuminazione pubblica, la gestione
del ciclo dei rifiuti, i servizi assicurativi e i servizi di
ingegneria ed architettura.
A seguito della consultazione l'Autorità ha però rilevato
profonde differenze fra i diversi settori e quindi ha
ritenuto efficace l'intervento di regolazione attraverso
bandi-tipo soltanto in alcuni ambiti. In particolare sono
stati esclusi i settori della gestione del ciclo dei rifiuti
e dell'illuminazione pubblica, data «la complessità degli
stessi, legata, soprattutto, al mutevole quadro normativo,
alle competenze legislative di livello locale e alle varie
articolazioni dei servizi, e la natura delle criticità
riscontrate (talune delle quali non risolvibili attraverso
la predisposizione di documentazione di gara standard)».
L'Autorità ha anche ritenuto non opportuno intervenire nei
servizi del settore sanitario in quanto l'elaborazione di
documentazione di gara standard è resa complessa
dall'eterogeneità delle forniture, dai diversi schemi
contrattuali utilizzati (semplice fornitura, noleggio,
gestione dei servizi in modalità «full risk» ecc.),
dall'esistenza di forme di centralizzazione degli acquisti.
Per questi ambiti l'Autorità si è riservata di valutare
altre «forme di intervento regolatorio più opportune»
(articolo ItaliaOggi dell'11.07.2013). |
APPALTI:
Mini-enti, caos appalti. Giallo sulla centrale unica di
committenza. L'obbligo sembrerebbe
essere stato cancellato dalla Consulta.
A rischio l'obbligo di costituire, entro fine anno, centrali
uniche di committenza per gli appalti nei piccoli comuni. La
norma del decreto «salva Italia» (art. 23, comma 4 del dl
201/2011) potrebbe infatti essere stata spazzata via dalla
Consulta nella sentenza che ha bocciato la riforma delle
province.
Il condizionale è d'obbligo perché finora si conosce solo il
dispositivo della decisione e non le motivazioni che
verranno probabilmente depositate tra il 16 e il 17 luglio.
Nel comunicato diffuso dalla Corte costituzionale per
anticipare i contenuti della sentenza, in effetti, si legge
che, fra le disposizioni censurate da tale pronuncia,
rientra anche l'art. 23, comma 4, del decreto «salva Italia»
(dl 201/2011).
Ma secondo alcuni potrebbe trattarsi di un errore materiale,
giacché tale previsione sembra essere piuttosto avulsa dalle
altre esaminate dalla Corte. Peraltro, la norma incriminata
ha poi subito una successiva modifica da parte dell'art. 1,
comma 4, della «spending review» (dl 95/2012), che ha
previsto, come alternativa all'incardinamento della centrale
unica di committenza nell'ambito delle unioni di comuni
esistenti, ovvero alla stipula di appositi accordi di tipo
consortile fra i municipi interessati, la possibilità per
gli stessi di rivolgersi alle centrali di committenza già
esistenti, ovvero di passare attraverso il mercato
elettronico della p.a. Tale successiva disposizione non
risulta in alcun modo censurata, così come pare ancora in
vigore il comma 5 del citato art. 23, laddove è stabilito il
termine per l'adempimento. Il comunicato non cita neppure
l'art. 1, comma 1, del dl 95, che prevede le sanzioni a
carico degli enti inadempienti.
Tuttavia nel testo della norma la parola «provincia» compare
eccome. Si legge infatti che «i comuni con popolazione non
superiore a 5.000 abitanti ricadenti nel territorio di
ciascuna provincia affidano obbligatoriamente ad un'unica
centrale di committenza l'acquisizione di lavori, servizi e
forniture nell'ambito delle unioni dei comuni, di cui
all'articolo 32 del Tuel, ove esistenti, ovvero costituendo
un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e
avvalendosi dei competenti uffici». Quindi, gli ambiti di
organizzazione delle nuove centrali di committenza saranno o
le unioni di comuni, se costituite, o in mancanza un accordo
consortile tra gli enti.
Tra le nove regioni che con i loro ricorsi hanno contribuito
a «picconare» la riforma delle province, solo una, il Friuli
Venezia Giulia ha impugnato anche il comma 4 dell'art. 23
per violazione di svariate norme costituzionali, ma anche
dello Statuto che, come per tutte le regioni autonome, ha
rango pari a quello della Carta.
Ricordiamo che l'obbligo, che in origine avrebbe dovuto
applicarsi e gare bandite dopo il 31.03.2012, è stato poi
prorogato due volte, prima (dal dl 216/2011) al 31.03.2013 e poi (dal recente dl 43/2013) al 31.12.2013.
In ogni caso, la centrale unica di committenza ricade
comunque nell'ambito delle funzioni fondamentali che i
piccoli comuni devono mettere in forma associata entro la
fine di quest'anno. La relativa «mappa» è contenuta
nell'art. 19 del dl 95, che impone, fra l'altro, la gestione
mediante unione o convenzione della funzione «organizzazione
generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e
contabile e controllo». Una dizione, questa, che pare
includere anche gli appalti
(articolo ItaliaOggi dell'11.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Immobili.
Da domani in vigore i Dpr 74 e 75 del 2013.
Sugli impianti termici il certificatore è «doc».
I REQUISITI/ Laurea o diploma e attestato di
specializzazione per il professionista che rischia grosso se
rilascia un «Ape» non conforme.
Da domani nuove regole per i proprietari immobiliari: entra
in vigore il Dpr 75/2013, che stabilisce i requisiti dei
professionisti e delle società che potranno sottoscrivere
l'Ape, acronimo di Attestato di prestazione energetica, che
sostituisce l'Ace, ovvero l'Attestato di certificazione
energetica. E sempre domani entra in vigore anche il Dpr
74/2013, che fissa invece le regole su controllo e
manutenzione degli impianti termici (entrambe le norme sono
state pubblicate sulla «Gazzetta Ufficiale» del 27 giugno).
L'Ape –entrato in vigore il 6 giugno e regolato dal Dl
63/2013, si veda anche il focus uscito con il Sole 24 Ore
del 19 giugno scorso– risponde all'esigenza introdotta
dalla Direttiva Ue 2002/91 di offrire all'acquirente o a chi
prende in locazione un immobile un documento sul rendimento
energetico e di conoscere gli eventuali miglioramenti da
fare ai fini di un risparmio energetico. Ma senza i due Dpr
attuativi restava di fatto poco utilizzabile.
L'Ape deve
essere rilasciato, nel caso di edifici di nuova costruzione
o in caso di ristrutturazioni importanti, al termine dei
lavori da chi li ha effettuati, e anche dal proprietario
dell'immobile in caso di vendita o locazione; deve essere
sottoscritto da un professionista abilitato o da una
società, come le Esco (società specializzate nei servizi per
il risparmio energetico), gli enti pubblici, le società di
ingegneria e tutte quelle che hanno al proprio interno un
tecnico abilitato.
Per essere considerato tecnico qualificato, il
professionista deve essere in possesso di una laurea tecnica
o di un diploma sempre di natura tecnica. Deve, inoltre,
disporre di un certificato che attesti l'esperienza nella
progettazione di edifici e di impianti. Non ci potranno
essere conflitti d'interesse: l'incarico non potrà essere
conferito al coniuge o ai parenti sino al quarto grado
oppure ai tecnici coinvolti nella progettazione e
realizzazione dell'edificio da certificare o che hanno o
hanno avuto un coinvolgimento diretto o indiretto con i
produttori dei materiali utilizzati.
Non sarà facile far adottare queste nuove regole alle
Regioni che, stante il vuoto normativo nazionale, avevano
nel frattempo elaborato delle modalità diverse per la
qualifica di certificatore.
Da non sottovalutare sono le sanzioni: il certificatore che
rilascia un Ape non conforme rischia da 700 a 4.200 euro di
multa, oltre alla segnalazione all'Ordine di appartenenza
affinché provveda disciplinarmente. Al direttore lavori che
al termine degli stessi non presenta al Comune l'Ape può
essere applicata una sanzione che va dai 1.000 ai 6.000
euro. Lo stesso vale per il costruttore (3.000-18.000 euro)
e per il proprietario (300-1.800 euro). Se, infine, i
parametri e la classe energetica non compaiono nell'annuncio
di vendita o affitto dell'immobile la multa va da 500 a
3.000 euro.
L'Ape dura dieci anni, sempre che nel frattempo l'immobile
non venga sottoposto a una riqualificazione tale che ne
modifichi le caratteristiche di consumo come, ad esempio, la
sostituzione degli infissi o non vengano rispettate le norme
sui controlli di efficienza energetica degli impianti.
Ed è qui che entra in gioco il secondo Dpr (74/2013), sempre
in vigore dal 12 luglio, che detta criteri molto precisi
proprio sull'esercizio, il controllo e la manutenzione degli
impianti termici e sui soggetti responsabili (si veda anche
Il Sole 24 Ore del 2 luglio scorso).
In particolare l'esercizio, la manutenzione e il controllo
dell'impianto termico per la climatizzazione sia estiva che
invernale e il rispetto delle disposizioni di legge in
materia di efficienza energetica sono affidati al
responsabile dell'impianto, che in condominio è
l'amministratore ma che può delegarle a un terzo. Questi
risponderà del mancato rispetto delle norme relative
all'impianto termico, sempre che l'atto di assunzione di
responsabilità sia stato redatto in forma scritta e
sottoscritto dal terzo contestualmente all'atto di delega
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.07.2013). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Indennità
di posizione. La Ragioneria.
Niente tagli lineari agli integrativi.
LE INDICAZIONI/
Le riduzioni agli stipendi collegati alla «gerarchia» vanno
pesate caso per caso e devono confluire nel fondo dell'anno
dopo.
I Comuni non possono effettuare un taglio lineare delle
indennità di posizione dei dirigenti e del personale con
incarico di «posizione organizzativa», e gli eventuali
risparmi ottenuti con una revisione dei compensi non possono
essere destinati ad altre funzioni, ma devono confluire nel
fondo della contrattazione decentrata per l'anno successivo.
Queste risorse, inoltre, potranno essere integrate con i
risparmi di spesa ottenuti tagliando le indennità di sindaci
e assessori.
Con queste tre indicazioni di cui alla
nota 24.06.2013 n. 54138 di prot. la Ragioneria generale dello
Stato, rispondendo ai quesiti posti da un Comune, guida
l'azione degli enti locali nella gestione delle indennità
aggiuntive allo stipendio tabellare. Il punto più
interessante è il primo, costituito dallo «stop» alle
ipotesi di taglio lineare delle indennità riconosciute a
dirigenti e dipendenti in funzione delle responsabilità loro
attribuite nella scala gerarchica dell'ente. Dopo l'epoca
dei «premi a pioggia», illegittimi anch'essi in base alle
regole fissate dal decreto legislativo 165/2001 e aggiornate
dalla riforma Brunetta (decreto legislativo 150/2009), i
crescenti vincoli finanziari e i tetti alla spesa di
personale hanno spinto molte amministrazioni a percorrere la
strada in senso opposto.
Non si può, dice però la Ragioneria generale, dal momento
che le indennità di posizione devono essere misurate caso
per caso, sulla base di tre parametri: la caratteristica
della struttura, la sua complessità organizzativa e le
responsabilità interne ed esterne che discendono dal
gestirla. Queste decisioni attengono all'«organizzazione
degli uffici», per cui sono di competenza esclusiva
dell'amministrazione (i sindacati vanno solo informati), che
però non può agire in modo lineare tagliando la stessa quota
a tutti.
Una volta misurato il sacrificio caso per caso, inoltre, va
considerato il fatto che i risparmi non possono uscire dalle
voci di spesa dedicate al personale, perché i contratti
prevedono l'utilizzo integrale dei fondi integrativi. Queste
risorse, quindi, devono confluire nel fondo dell'anno
successivo, insieme ai risparmi ottenuti tagliando le
indennità di sindaco e assessori una volta ottenuta la
certificazione a consuntivo da parte dei revisori dei conti
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.07.2013). |
APPALTI:
Gare pubbliche, carte al bando. Certificati di esecuzione
lavori al casellario informatico. In G.U. la delibera
dell'Authority che sta destando preoccupazioni tra gli
operatori.
Tutti i certificati di esecuzione dei lavori devono essere
trasmessi al Casellario informatico dell'Autorità per la
vigilanza ai fini del rilascio dell'attestato Soa di
qualificazione; non più utilizzabili i certificati
rilasciati in forma cartacea.
È questo l'effetto derivante
dall'entrata in vigore della
deliberazione
23.05.2013 n. 24 dell'Autorità
per la vigilanza sui contratti pubblici,
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 159 del 09.07.2013,
che fornisce indicazioni alle stazioni appaltanti, alle Soa
e alle imprese in materia di emissione dei certificati di
esecuzione lavori (i cosiddetti Cel).
Si tratta della
delibera di cui in questi giorni le Associazioni che
riuniscono le Soa hanno chiesto il differimento (vedi
ItaliaOggi di ieri). Le indicazioni hanno lo scopo di
chiarire gli adempimenti per tutti i soggetti della filiera
in relazione anche al fatto che, in base al dpr 207/2010
(regolamento del Codice), le Soa nell'attività di
attestazione devono rilevare l'esistenza di Cel non presenti
nel casellario informatico e darne comunicazione alle
stazioni appaltanti e all'Autorità per gli eventuali
provvedimenti sanzionatori.
In sostanza già oggi i Cel
dovrebbero essere stati inseriti nel Casellario in forma
digitale e non dovrebbero più essere utilizzabili i Cel
cartacei; ciononostante l'Autorità rileva un «notevole
rallentamento nell'attività di attestazione delle imprese
provocato dal mancato rilascio dei Cel per via telematica
con le conseguenti gravi ripercussioni sul regolare
andamento del mercato dei contratti pubblici». Da ciò
l'invito, in primis alle imprese di costruzioni, a chiedere
formalmente l'emissione del Cel alla stazione appaltante. In
secondo luogo la delibera chiede alle stazioni appaltanti di
emettere i Cel secondo le modalità telematiche indicate
dall'Autorità entro trenta giorni, previo rilascio di copia
del Cel all'impresa o indicazione del numero di inserimento
nella procedura informatica.
La procedura telematica è
consultabile nel «Manuale Utente» presente sul sito
dell'Autorità all'indirizzo www.avcp.it. L'organismo di
attestazione (Soa) a sua volta, qualora nell'attività di
attestazione della qualificazione dell'impresa dovesse
riscontrare che il Cel non risulta presente nel casellario
informatico, ha l'onere di darne diretta comunicazione alla
stazione appaltante e all'Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici per l'eventuale adozione del
provvedimento sanzionatorio.
In questa fase di segnalazione
la Soa deve anche allegare la documentazione di comprova
dell'avvenuta ricezione da parte della stazione appaltante
della richiesta avanzata dall'impresa esecutrice dalla quale
sono computati i prescritti 30 giorni per l'emissione del
Cel. Queste indicazioni, si legge nella delibera, devono
riguardare
«tutti i Cel utili ai fini della qualificazione
dell'impresa, indipendentemente dalla loro data di
emissione».
Ed è proprio questo il punto più delicato della
delibera che Unionsoa e Usi hanno nei giorni scorso
contestato (si veda ItaliaOggi di ieri); infatti in molti
casi le stazioni appaltanti non si sono adeguate finora e
molti sono i certificati rilasciati in forma cartacea che
ancora vengono utilizzati (articolo
ItaliaOggi del 10.07.2013). |
GIURISPRUDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti,
il produttore deve verificare i titoli del «gestore».
LE CONSEGUENZE/ Se manca il controllo il detentore concorre
nel reato di gestione non autorizzata.
Il produttore/detentore dei rifiuti ha il dovere di
verificare che il destinatario sia effettivamente
autorizzato a ricevere quella specifica tipologia di
rifiuti, a nulla rilevando la mera convenienza economica
della transazione. In difetto, il produttore dei rifiuti
viene meno al dovere di informazione puntuale che gli
compete per la sua attività professionale. Se
l'autorizzazione è relativa a rifiuti diversi da quelli
oggetto di conferimento, quelli consegnati sono gestiti in
modo abusivo.
È questo il principio di diritto della
sentenza
11.07.2013 n. 29727 della Sez. III Penale della Corte di
Cassazione
che, confermando integralmente la decisione di merito del
tribunale di Venezia (Sezione distaccata di San Donà di
Piave), ha rigettato i ricorsi degli imputati che, in
concorso tra loro, sono stati condannati definitivamente per
gestione non autorizzata di rifiuti.
I produttori/detentori dei rifiuti sostenevano che la
responsabilità fosse del trasportatore che sul titolo
abilitativo in capo al destinatario, li aveva tratti in
inganno, esibendo l'autorizzazione con i codici Cer dei
rifiuti conferiti, titolo abilitativo per il trasporto e non
per il destino. La difesa ha quindi cercato di far valere la
causa di non punibilità (errore determinato dall'altrui
inganno) ma invano. La Corte, infatti, ha ripercorso
l'articolo 188, comma 3 del decreto legislativo 152/2006
(Codice ambientale) e le esenzioni previste per la
responsabilità del produttore. Tra queste, figura la
consegna dei rifiuti a soggetti autorizzati alla loro
gestione, purché il detentore riceva la quarta copia del
formulario controfirmato e datato in arrivo dal destinatario
entro i tre mesi successivi al conferimento al
trasportatore.
Tuttavia, la Cassazione ha ricordato che il
detentore dei rifiuti, quando ne affida la raccolta, il
trasporto e lo smaltimento a terzi soggetti privati affinché
svolgano per suo conto tali attività, ha il preciso obbligo
di controllare che questi terzi siano autorizzati. Si tratta
di una verifica «doverosa» che, conformemente ad arresti
precedenti, la Corte eleva a rango di «regola di cautela
imprenditoriale». Se omessa comporta la responsabilità
colposa del detentore dei rifiuti per il reato di gestione
illecita (articolo 256, comma 1, Codice ambientale).
La Corte continua affermando che la responsabilità non è
esclusa dal fatto che il terzo sia in possesso di
autorizzazione relativa a rifiuti diversi da quelli oggetto
di conferimento. Infatti, questo equivale al mancato
possesso dell'autorizzazione per i rifiuti conferiti. Quindi
non serve avere un'autorizzazione quale che sia, occorre che
il titolo di assenso preventivo riguardi lo specifico
rifiuto e la specifica attività.
Nel caso di specie, la Corte rileva che gli imputati erano
perfettamente in grado di sviluppare le verifiche e le
cautele necessarie se solo avessero usato «una pur minima
diligenza» e non avessero ceduto alla tentazione di
risparmiare sui costi di smaltimento.
Quindi, il produttore/detentore che conferisce i propri
rifiuti a terzi affinché questi siano smaltiti o recuperati
«ha il dovere di accertare» che i terzi siano debitamente
autorizzati a tal fine. È questa regola "elementare"
di cautela imprenditoriale che induce a configurare per i
produttori/detentori dei rifiuti conferiti la «responsabilità
per il reato di illecita gestione dei rifiuti in concorso
con coloro che li hanno ricevuti in assenza del prescritto
titolo abilitativo»
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 15 D.P.R. 380/2001 i termini per l'inizio
dei lavori e per la loro ultimazione, da indicare
obbligatoriamente nell'atto di concessione, sono configurati
come termini di validità ed efficacia della concessione
stessa, per cui operano automaticamente, indipendentemente
da un’apposita dichiarazione amministrativa, con la
conseguenza che, dopo l'inutile scadenza di tale termine la
concessione è tamquam non esset, sicché i lavori edilizi
iniziati o ultimati dopo la relativa scadenza restano privi
di titolo abilitativo, indipendentemente da una
dichiarazione amministrativa di decadenza.
Sul punto, deve infatti osservarsi che anche in assenza di
un provvedimento di “decadenza” espresso (cfr. Cass.
Penale, Sez. III, Sent. n. 12316 del 21.02.2007), non
possono sussistere dubbi sulla insussistenza in specie di
alcuna validità od efficacia del pregresso titolo
concessorio invocato dalla ricorrente avendo riguardo:
a) all’art. 15 D.P.R. 380/2001, con particolare riferimento
anche al comma 4 dello stesso articolo;
b) allo stato dei luoghi e allo stadio dei lavori al momento
dell’apposizione del vincolo, come accertati in atti;
c) alla incompatibilità dell’opera rispetto alla nuova
previsione urbanistica, alla mancata conclusione dei lavori
nel termini previsti e alla mancanza di alcuna richiesta di
proroga.
Infatti, ai sensi dell’art. 15 D.P.R. 380/2001 i termini per
l'inizio dei lavori e per la loro ultimazione, da indicare
obbligatoriamente nell'atto di concessione, sono configurati
come termini di validità ed efficacia della concessione
stessa, per cui operano automaticamente, indipendentemente
da un’apposita dichiarazione amministrativa, con la
conseguenza che, dopo l'inutile scadenza di tale termine la
concessione è tamquam non esset, sicché i lavori
edilizi iniziati o ultimati dopo la relativa scadenza
restano privi di titolo abilitativo, indipendentemente da
una dichiarazione amministrativa di decadenza (nel caso di
specie la struttura alberghiera non è mai stata completata
consistendo oggi, in una struttura di cemento armato grezza,
in stato di abbandono e disfacimento, costituita da pilastri
di cemento armato a vista, senza tompagni, i cui lavori sono
stati realizzati dal 1989 al 1990 senza che da allora siano
più proseguiti) (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 10.07.2013 n. 1481 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Silenzio-assenso escluso se la tutela del vincolo
non spetta al Comune.
Nel caso in cui esista un vincolo alla cui tutela è preposto
un soggetto diverso dal Comune, soggetto che ha espresso
parere negativo all’intervento edilizio, non può in alcun
modo reputarsi formato il silenzio assenso.
È questo il
principio che emerge dalla
sentenza 28.06.2013 n. 1669 del TAR Lombardia-Milano,
Sez. II.
Nel caso in esame il Tar lombardo ha fornito il suo parere
in merito ad un vincolo c.d. autostradale su cui il soggetto
concessionario aveva espresso un parere negativo circa
l’attestazione di compatibilità tecnica riguardo la
realizzazione delle opere oggetto della domanda di titolo
edilizio.
I giudici ricordano che l’art. 20 del D.P.R. 06/06/2001, n.
380, come modificato per effetto del D.L. 13/05/2011, n. 70
convertito con L. 12/07/2011, n. 106, prevede che in
presenza di determinati presupposti la domanda di permesso
di costruire possa reputarsi accolta attraverso il
meccanismo del c.d. silenzio assenso. Tuttavia, il comma 10
dell'art. 20 citato esclude l’operatività del silenzio
assenso qualora l’immobile oggetto dell’intervento sia
sottoposto ad un vincolo la cui tutela non spetta
all’amministrazione comunale.
Si legge nella sentenza «Qualora l'immobile oggetto
dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela
non compete all'amministrazione comunale, il competente
ufficio comunale acquisisce il relativo assenso nell'ambito
della conferenza di servizi di cui al comma 5-bis. In caso
di esito non favorevole, sulla domanda di permesso di
costruire si intende formato il silenzio-rifiuto»
(commento tratto da www.legislazionetecnica.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Offerte aperte in pubblico. Sono salve le vecchie gare.
Nelle gare l'obbligo di apertura delle offerte tecniche in
seduta pubblica vale solo dopo il 09.05.2012; salve le
gare emesse da luglio 2011 all'08.05.2012 per le quali si
è proceduto in via riservata.
È quanto afferma la
sentenza 27.06.2013 n. 16 dell'Adunanza plenaria del Consiglio di stato, attivata su richiesta del
Consiglio di stato per affrontare alcune questioni relative
all'applicazione dell'art. 12, del decreto legge 07.05.2012, n. 52, convertito con modificazioni dalla legge
06.07.2012, n. 94, che prevede l'obbligo di apertura in
seduta pubblica dei plichi contenenti le offerte tecniche.
Sul tema più generale, della portata dell'articolo 12, la
stessa decisione è nel senso di riconoscere la natura
sanante della disposizione per le gare emesse da luglio 2011
a maggio 2012. Le argomentazioni fanno riferimento
all'esigenza di «contenere gli oneri amministrativi ed
economici che deriverebbero della caducazione, altrimenti
inevitabile, di centinaia di gare che, diversamente,
sarebbero di fatto travolte per il mero mancato rispetto dei
canoni di pubblicità dell'apertura dei plichi contenenti le
offerte tecniche, in assenza di qualsivoglia indizio circa
la manomissione o l'occultamento degli stessi da parte
dell'amministrazione».
Rilevante è anche il fatto che va
tutelato anche «l'affidamento incolpevole da parte
dell'aggiudicataria che abbia confidato sulla vigenza di
determinate regole procedimentali che, nella specie, nella
maggior parte dei casi, prevedevano l'apertura dei plichi in
seduta riservata».
Infine il Consiglio di stato ritiene che
non sarebbe logico, si deve concludere, attribuire alla
norma altra ratio; non vi sarebbe ragione infatti per
un intervento normativo che obbliga all'apertura pubblica
dei plichi soltanto a partire da una certa data «anche
per le gare in corso»
(articolo ItaliaOggi dell'11.07.2013). |
APPALTI FORNITURE:
Legittima esclusione del concorrente per tardivo deposito
della campionatura.
E' legittima l'esclusione di un concorrente per tardivo
deposito della campionatura oggetto di offerta. Lo
stabilisce, nella sentenza in commento, la sesta sezione del
Consiglio di Stato. In dettaglio, secondo i giudici del
Consiglio di Stato è legittima l'esclusione di un
concorrente per tardivo deposito di una parte della
campionatura oggetto di fornitura, in quanto la campionatura
era funzionale alla valutazione delle offerte da parte della
commissione di gara.
Infatti, la stessa era indicata quale
elemento da produrre a corredo della relazione tecnica
(quest'ultima da inserire senz'altro nel plico contenente
l'offerta tecnica) e che, pertanto, solo per ovvie ragioni
di spazio la campionatura non doveva essere inserita nei
plichi contenenti le offerte, pur dovendosi rispettare, per
il suo deposito, la medesima scansione temporale fissata per
la presentazione delle offerte (in particolare, la lex
specialis disponeva che la stessa doveva essere prodotta
"entro il termine di scadenza per la presentazione delle
offerte").
Né, in questa situazione, ha motivo di porsi, un
problema di possibile violazione dell'art. 46, c. 1-bis, del
d.lgs. n.163 del 2006, che sancisce la tassatività delle
clausole di esclusione; per vero, è lo stesso art. 42, c. 1,
lett. l), del Codice dei contratti pubblici a prevedere,
negli appalti di forniture, il deposito di campioni quale
ordinaria modalità di prova del requisito di capacità
tecnica, di tal che la clausola del bando risulta coerente
con la richiamata previsione di rango primario, sia con
riguardo alla natura dell'incombente posto a carico degli
offerenti, sia in relazione alla necessità di fissare un
termine perentorio per il deposito dei campioni di fornitura
(in quanto funzionale a comprovare il requisito di capacità
tecnica dell'offerente).
Va ritenuta immune da vizi,
pertanto, la determinazione di esclusione assunta
dall'Università in danno della originaria ricorrente che,
avendo tardivamente prodotto la campionatura oggetto di
offerta, era senz'altro da escludere dalla selezione, anche
a garanzia del principio della par condicio competitorum (commento
tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 26.06.2013 n. 3516 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il candidato a un concorso pubblico ha accesso a tutti gli
elaborati.
E’ pacifico in giurisprudenza che il soggetto che ha
partecipato alla procedura concorsuale, è titolare di un
interesse qualificato e differenziato alla regolarità della
procedura che, come tale, concretizza quell'interesse
personale e concreto per la tutela di situazioni
giuridicamente rilevanti che in puntuale applicazione
dell'art. 22 della L. n. 241/1990, è richiesto quale
presupposto necessario per il riconoscimento del diritto di
accesso.
Tale questione di diritto risulta ormai
definitivamente chiarito, e per una piana comprensione
dell’evoluzione giurisprudenziale i giudici del Tribunale
amministrativo di Salerno richiamano il Tar Sardegna Sez. I
10.04.2009 n. 517. Gli stessi giudici tengono a
chiarire, in primis, che non ha nessuna rilevanza la previa
comunicazione della istanza di accesso agli altri candidati
la cui produzione documentale è oggetto della stessa, al
fine di consentire a questi ultimi di opporsi motivatamente
al suo accoglimento (ex multis Tar Marche 16.09.2011
n. 729).
Ciò perché le domande ed i documenti prodotti dai
candidati, i verbali, le schede di valutazione e gli stessi
elaborati costituiscono documenti rispetto ai quali, salvo
casi eccezionali, deve essere esclusa l'esigenza di
riservatezza a tutela dei terzi, posto che i concorrenti,
prendendo parte alla selezione, hanno acconsentito a
misurarsi in una competizione di cui la comparazione dei
valori di ciascuno costituisce l'essenza. Tali atti, quindi,
una volta acquisiti alla procedura, escono dalla sfera
personale dei partecipanti che, pertanto, a stretto rigore,
neppure assumono la veste di controinteressati in senso
tecnico nel giudizio volto all’accesso agli atti della
procedura concorsuale da parte di altro soggetto
partecipante alla medesima (cfr. Tar Lazio, Roma, sez.
III, 08.07.2008 n. 6450), fatta eccezione per effettive
esigenze di tutela del titolare della sfera riservata
vulnerabile, da valutarsi in concreto.
Sempre in linea di
principio, ad avviso dei giudici campani, l'omessa integrale
intimazione in giudizio dei concorrenti cui si riferiscono
gli atti della procedura concorsuale, non arreca loro alcun
significativo pregiudizio non potendo gli stessi, in ragione
dei principi sinora esposti, opporsi all'ostensione dei
documenti richiesti dalla partecipante ad un concorso.
Aggiungono, inoltre, gli stessi giudici che
l'Amministrazione non può opporsi all'esercizio del diritto
di accesso soltanto sulla base del rifiuto dell'interessato,
a meno che non si tratti di dati personali (dati c.d. "sensibili"),
cioè di quegli atti idonei a rivelare l'origine razziale o
etnica, le convinzioni religiose o politiche, lo stato di
salute o la vita sessuale dei terzi; nel qual caso l’accesso
deve essere comunque consentito ma a condizione che la
posizione giuridica soggettiva, che il richiedente deve far
valere o difendere, sia di rango almeno pari a quello della
persona cui si riferiscono tali dati.
Più specificamente, va
ricordato che il d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, nel
riprendere in larga misura le disposizioni che erano già
contenute nel d.lgs. 135 del 1999 ha riordinato i principi
applicabili ai dati sensibili e giudiziari graduando la
tutela della riservatezza e partendo da una soglia minima
per i dati “comuni”, passando per una posizione
intermedia relativamente ai “dati sensibili” fino ad
arrivare ad un assoluto livello di intangibilità per i “dati
sensibilissimi” poiché afferenti la salute o la vita
sessuale dell’interessato.
In questa occasione era stata, illegittimamente, negata al
ricorrente copia degli elaborati di prima e seconda prova e
relative schede di valutazione nonché dei titoli presentati
dai soggetti che lo precedevano in graduatoria della
documentazione di cui al punto, “facultato”
dall’Amministrazione comunale soltanto a prenderne visione,
senza, peraltro opporre alcuna plausibile giustificazione,
con la sola precisazione che l’istanza inoltrata
dall’interessato “viene inviata ai concorrenti
relativamente ai quali è stata fatta richiesta di presa
visione degli elaborati, invitandoli a far pervenire
eventuali osservazioni o eccezioni in merito…” (commento
tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Campania-Salerno,
Sez. II,
sentenza
24.06.2013 n. 1408 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Illecita gestione e culpa in vigilando.
Il reato di attività di gestione di rifiuti non autorizzata
è ascrivibile al titolare dell'impresa anche sotto il
profilo della omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti
che hanno posto in essere la condotta vietata.
La responsabilità per l'attività di gestione non autorizzata
di rifiuti non attiene necessariamente al profilo della
consapevolezza e volontarietà della condotta, potendo
scaturire da comportamenti che violino i doveri di diligenza
per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per
evitare illeciti nella predetta gestione e che
legittimamente si richiedono ai soggetti preposti alla
direzione dell'azienda.
In tema di gestione dei rifiuti, Il reato di abbandono
incontrollato di rifiuti è ascrivibile ai titolari dl enti
ed imprese ed ai responsabili di enti anche sotto il profilo
della omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno
posto in essere la condotta di abbandono (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.06.2013 n. 26406 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Materiali derivati dallo sfruttamento delle cave ed
esclusione dal novero dei rifiuti.
Sono esclusi dalla normativa sui rifiuti solo i materiali
derivati dallo sfruttamento delle cave quando restino entro
il ciclo produttivo dell’estrazione e connessa pulitura,
cosicché l’attività di sfruttamento della cava non può
confondersi con la lavorazione successiva dei materiali e,
se si esula dal ciclo estrattivo, gli inerti provenienti
dalla cava sono da considerarsi rifiuti ed il loro
smaltimento, ammasso, deposito e discarica è regolato dalla
disciplina generale.
I fanghi sono soggetti alla disciplina
sui rifiuti soltanto quando non derivano dalla attività
estrattiva e dalle connesse attività di cernita e di
pulizia, bensì derivano da una successiva e differente
attività di lavorazione dei materiali (estratti, selezionati
e puliti) e, cioè, quando può affermarsi che tale successiva
attività è ontologicamente estranea al ciclo produttivo
dello sfruttamento della cava.
In altre parole, solo quando
si dia luogo ad una successiva, nuova e diversa attività di
lavorazione sui prodotti della cava, i residui e gli inerti
di questa nuova attività, sganciata da quella di cava,
devono considerarsi rifiuti, sottoposti alla disciplina
generale circa il loro smaltimento, ammasso, deposito e
discarica (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.06.2013 n. 26405 - tratto da
www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva morte del reo e posizione
erede.
Anche per l'erede deve essere consentito, a fronte di una
decisione di proscioglimento per morte del reo nel caso in
ci sia stata disposta la confisca per la lottizzazione
abusiva, la possibilità di agire in sede di esecuzione, sia
pure con i limiti già individuati dalla giurisprudenza per
la posizione di colui il quale è rimasto estraneo al
giudizio di responsabilità (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.06.2013 n. 25883 -
tratto da www.lexambiente.it). |
TRIBUTI:
Terreni, legata al luogo la natura pertinenziale.
Sentenza della Commissione
tributaria regionale di Roma.
La natura pertinenziale di un terreno deve rilevarsi
attraverso l'analisi della conformazione dello stato dei
luoghi per cui l'iscrizione autonoma in catasto della
pertinenza e del fabbricato non può escludere la natura di
pertinenza del terreno.
Il principio è contenuto nella
sentenza
07.06.2013 n. 163/35, della Ctr di Roma da cui emerge che la diversa
iscrizione in Catasto della pertinenza non è di ostacolo
alla considerazione unitaria di essa con l'abitazione
principale, non escludendo l'applicazione dell'art. 2 del
dlgs 504/1992.
L'Ici, sostituita ora dall'Imu, è un'imposta
reale sul patrimonio immobiliare che colpisce il valore
oggettivo dei beni immobili e che, per quanto attiene i
fabbricati censiti, il valore è dato dalla rendita catastale
mentre per le aeree fabbricabili in base al valore venale in
commercio. In particolare, il citato art. 2, il quale
prevede che le aeree pertinenze dei fabbricati devono
considerarsi ai fini Ici come parte integrante dei
fabbricati stessi, esclude l'autonoma tassabilità delle
aeree pertinenziali.
Tale norma fonda l'attribuzione della
qualità di pertinenza su un criterio «fattuale», ovvero
sull'effettiva destinazione di una cosa al servizio di
un'altra e la prova di ciò ricade sul contribuente il quale
deve dimostrare la sussistenza di elementi dell'effettiva
destinazione in modo durevole dell'area a pertinenza del
cespite. Nel caso in esame due coniugi in comunione dei beni
hanno impugnato alcuni avvisi di accertamento emessi dal
comune il quale contestava, tra l'altro, l'assenza del
vincolo di pertinenzialità di un terreno di loro proprietà
con l'annesso fabbricato. La Ctp in primo grado ha accolto
parzialmente il ricorso ritenendo legittimo il motivo
relativo al rapporto di pertinenzialità del terreno.
I giudici della Ctr hanno ritenuto che la natura
pertinenziale di un terreno deve essere rilevata attraverso
«l'analisi della conformazione dello stato dei luoghi, che
permette di verificare se una cosa sia concretamente
destinata a servizio od ornamento di altra secondo l'art.
817 c.c.».
Ai fini dell'esclusione della tassabilità di un'area
iscritta in catasto e distinta da quella del fabbricato, non
rileva l'intervenuto frazionamento catastale dell'area e la
mera iscrizione in catasto della pertinenza e del fabbricato
non può escludere la qualifica di pertinenza di un'area
posta a servizio esclusivo di un fabbricato. Da qui la
diversa iscrizione in catasto della pertinenza non fa venire
meno la considerazione unitaria di questa con l'abitazione
principale e non impedisce l'applicazione dell'art. 2 dlgs
n. 504/1992.
Affinché un'area fabbricabile perda la sua natura
di edificabilità è necessario che vi sia una «modificazione
oggettiva e funzionale dei luoghi» tale da far venir meno lo
ius edificandi sull'area stessa; quindi devono concorrere
due elementi, un elemento oggettivo (collegamento funzionale
tra pertinenza e cosa principale) e un elemento soggettivo
(volontà del soggetto di destinare in modo durevole la
pertinenza alla cosa principale). In difetto di uno solo di
tali elementi viene a mancare quel vincolo di
subordinazione-strumentalità-complementarietà perché una
cosa sia a servizio od ornamento di altro bene.
Sulla base
di quanto precede la Ctr ha accolto il ricorso dei
contribuenti, non irrogando le sanzioni in quanto, non
essendo stata notificata l'attribuzione della nuova rendita,
il comune può riscuotere solo l'imposta senza interessi e
sanzioni, non vertendosi in materia di omessa o infedele
dichiarazione (art. 74 legge n. 342/2000)
(articolo ItaliaOggi del 12.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sequestro preventivo di opera ultimata e
criteri di valutazione.
Il sequestro preventivo di cose pertinenti a reato edilizio
può essere adottato anche su un'opera ultimata, se la libera
disponibilità di essa possa concretamente pregiudicare gli
interessi attinenti alla gestione del territorio ed incidere
sui carico urbanistico, il pregiudizio del quale va valutato
avendo riguardo agli indici di consistenza dell'insediamento
edilizio, del numero dei nuclei familiari, della dotazione
minima degli spazi pubblici per abitare, nonché della
domanda di strutture e di opere collettive.
Spetta dunque al
giudice stabilire in particolare la reale compromissione
degli interessi attinenti al territorio ed ogni altro dato
utile a stabilire in che misura, sulla base degli indici
menzionati, il godimento e la disponibilità attuale della
cosa da parte dell‘indagato o di terzi possa implicare una
effettiva ulteriore lesione del bene giuridico protetto,
ovvero se l'attuale disponibilità del manufatto costituisca
un elemento neutro sotto il profilo della offensività (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.06.2013 n. 24852 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Trasporto occasionale.
Il reato di trasporto non autorizzato di rifiuti si
configura anche in presenza di una condotta occasionale, in
ciò differenziandosi dall’art. 260 del D.L.vo 152/2006 che
sanziona la continuità dell’attività illecita (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.06.2013 n. 24787 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Reati paesaggistici e sequestro preventivo.
Per i reati paesaggistici, ai fini della legittimità del
provvedimento di sequestro preventivo, la sola esistenza di
una struttura abusiva, realizzata senza autorizzazione in
area sottoposta a vincolo paesaggistico, integra il
requisito dell'attualità del pericolo, indipendentemente
all'essere l'edificazione criminosa ultimata o meno, in
quanto il rischio di al territorio ed all’equilibrio
ambientale (a prescindere dall’effettivo danno al paesaggio)
perdura in stretta connessione all'utilizzazione della
costruzione ultimata (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.06.2013 n. 24539 -
tratto da www.lexambiente.it). |
TRIBUTI: Pubblicità sui rimorchi, la tariffa è ordinaria.
Sentenza della corte di cassazione:
imposta assimilata a quella degli impianti fissi.
I rimorchi con messaggi pubblicitari devono pagare l'imposta
sulla pubblicità con la tariffa della pubblicità ordinaria e
non la tariffa relativa alla pubblicità effettuata con i
veicoli.
Lo ha deciso la Corte di Cassazione che, con la sentenza
05.06.2013 n.
14143, ha assimilato tali rimorchi agli
impianti pubblicitari fissi.
Il problema non è certo indifferente poiché a seconda di
come tale fattispecie viene inquadrata, la regolamentazione
fiscale è assai diversa, in quanto:
• se si considera come una forma di pubblicità effettuata
con veicoli trova applicazione l'art. 13 del dlgs 15.11.1993, n. 507 e l'imposta è dovuta nel comune ove ha
sede l'impresa proprietaria dei veicoli stessi;
• se, invece, si ritiene che detti mezzi non siano dei
veicoli, trova applicazione la tariffa per pubblicità
ordinaria stabilita dall'art. 12 del dlgs n. 507 del 1993,
che si applica in via generale anche in tutti i casi in cui
la legge non abbia previsto una tariffa specifica, e, deve
essere pagata nel comune dove viene effettuata la
pubblicità.
La Corte, ripercorrendo l'iter argomentativo svolto nella
precedente sentenza n. 5858 del 2012, occupandosi dei
camion-vela, ha optato la seconda soluzione, stabilendo che
«ai veicoli costruiti o strutturalmente trasformati per
l'esclusivo o prevalente esercizio dell'attività
pubblicitaria, e concretamente utilizzati a tal fine, è
applicabile la disciplina di cui al dlgs 15.11.1993,
n. 507, art. 12, relativa alla pubblicità ordinaria, e non
quella di cui all'art. 13, del medesimo decreto legislativo,
riguardante la pubblicità effettuata con veicoli, poiché
questa, a differenza dell'altra, costituisce una modalità
eccezionale, insuscettibile di interpretazione estensiva, e
che, per il suo tenore letterale, si riferisce ad attività
svolta mediante veicoli che mantengano le caratteristiche
strutturali e la destinazione d'uso loro propria».
Oggetto della controversia sono stati, infatti, alcuni
rimorchi, immatricolati come «veicolo uso speciale auto
pubblicitario», di notevoli dimensioni, tali da non poter
essere trasportati come comuni rimorchi, che erano stati
rinvenuti privi di autoveicolo di traino, ancorati al suolo
mediante paletti.
Tali condizioni hanno indotto i giudici ad affermare che non
possono «essere considerati per la loro motilità veicoli
intesi come mezzo di trasporto idonei alla circolazione»; e
a ritenere che per le loro caratteristiche strutturali da un
lato, e dall'altro, per il fine a cui venivano in concreto
impiegati, e cioè all'esclusivo esercizio dell'attività
pubblicitaria, non possono che assumere, ai fini
dell'applicazione dell'imposta, la natura di «impianto
fisso».
La soluzione cui è addivenuta la Corte potrebbe sembrare un
po' forzata, visto che, anche ai sensi delle disposizioni
del Codice della strada e del relativo regolamento di
esecuzione, i mezzi in questione sarebbero comunque
definibili come veicoli, seppure adibiti a uso
pubblicitario.
Forse ciò che è prevalso è che il ricorso a tali strumenti
diventa sempre più frequente e dà luogo, di fatto, a
un'elusione delle disposizioni sia di carattere fiscale sia
amministrativo da parte di coloro che, anziché ricorrere a
un'impiantistica fissa che deve rispettare tutte le
prescrizioni del regolamento comunale e le disposizioni
stabilite dal codice della strada, preferiscono
pubblicizzare i propri prodotti attraverso veicoli che però,
sostando a lungo in determinate zone del comune, finiscono
per trasformarsi nel tempo in impianti fissi.
C'è da dire che l'ente locale potrebbe intervenire vietando
ogni forma pubblicitaria effettuata con veicoli in sosta,
magari anche prevedendo la rimozione o la copertura degli
impianti pubblicitari, per coloro che non osservano una
simile disposizione regolamentare adottata ai sensi
dell'art. 3, comma 2, del dlgs n. 507 del 1993.
Invece la Corte ha rotto ogni indugio e ha degradato (o
nobilitato) tali veicoli in veri e propri impianti
pubblicitari
(articolo ItaliaOggi del 12.07.2013). |
APPALTI:
Stazione appaltante deve segnalare all'Autorità di Vigilanza
false dichiarazioni.
I giudici del Consiglio di Stato si soffermano, nella
pronuncia in rassegna, sul dovere per la stazione appaltante
di segnalare all'Autorità di Vigilanza le ipotesi di false
dichiarazioni relative ai requisiti di ordine generale.
In
forza degli artt. 6, c. 11, e 38, c. 1, lett. h), del d.lgs.
n. 163 del 2006, secondo i giudici di Palazzo Spada, la
stazione appaltante è tenuta a segnalare all'Autorità di
Vigilanza le ipotesi di false dichiarazioni relative ai
requisiti di ordine generale; che trattasi di segnalazione
doverosa per la stazione appaltante, la cui omissione è
sanzionata con l'irrogazione di sanzione amministrativa
pecuniaria; l'obbligo si esaurisce nella segnalazione,
essendo rimessa all'Autorità l'eventuale iscrizione nel
casellario informatico, a seguito di procedimento della
stessa Autorità, del quale la parte deve essere notiziata;
che questa fattispecie differisce da quella di cui all'art.
48 del d.lgs. n. 163 del 2006, la cui disciplina e le
relative sanzioni sono rigidamente prefissate dalla legge.
Ad oggi, comunque, ogni questione deve ritenersi superata
alla luce delle modifiche apportate all'art. 38 del codice
dal d.l. 13.05.2011, n. 70 (decreto sviluppo),
convertito, con modificazioni, dalla l. 12.07.2011, n.
106. Il decreto sviluppo del 2011 ha, infatti, introdotto
all'art. 38 del codice il c. 1-ter in virtù del quale, in
caso di presentazione di falsa dichiarazione o falsa
documentazione, nelle procedure di gara e negli affidamenti
in subappalto, la stazione appaltante "ne dà segnalazione
all'Autorità" che, laddove ritenga che siano state rese con
dolo o colpa grave, dispone l'iscrizione nel casellario
informatico ai fini dell'esclusione dalle procedure di gara
e dagli affidamenti in subappalto.
Pertanto, in base alla
normativa vigente ratione temporis, era doverosa la
segnalazione all'Autorità dell'accertamento negativo dei
requisiti generali in testa alle imprese partecipanti ad una
procedura ad evidenza pubblica (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 03.06.2013 n. 3045 -
Link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Opere idrauliche solo a ingegneri.
Il Tar Puglia esclude gli architetti.
Le opere idrauliche sono di esclusiva competenza degli
ingegneri e non degli architetti. Gli impianti della rete
urbana di condotta e distribuzione dell'acqua «non sono
riconducibili all'ambito dell'edilizia civile, ma piuttosto
rientrano nell'ingegneria idraulica che, ai sensi
dell'art.51 del regolamento (regio decreto 23.10.1925
n. 2537), è riservata alla professione di ingegnere».
Questo
è quanto emerge dalla
sentenza 31.05.2013 n. 1270 del Tar Puglia-Lecce,
Sez. II.
Il fatto: veniva presentato
ricorso dagli ordini territoriali di Brindisi e Lecce contro
la decisione di un ente locale di affidare la direzione dei
lavori a un architetto. Dopo aver evidenziato che non
sussiste una completa equiparazione delle competenze di
architetti e ingegneri, i giudici amministrativi ricordano
che l'art. 51 del regolamento per le professioni d'ingegnere
e di architetto (regio decreto 23.10.1925 n. 2537),
dedicato alla professione di ingegnere, prevede una
competenza di carattere generale, comprendente interventi di
vario tipo, riconoscendo in senso lato un'abilitazione che
racchiude «ogni forma di applicazione delle tecniche
relative alla fisica, alla rilevazione geometrica ed alle
operazioni di estimo».
L'art. 52 del rd 2537/1925, relativo agli architetti,
delimita invece la loro competenza alle sole «opere di
edilizia civile». Inoltre i giudici chiariscono come «i
principi suddetti, oltre che per la progettazione, non
possono non valere anche per la direzione lavori», dato
che le disposizioni del codice dei contratti pubblici non
incidono sul riparto di competenze tra le diverse figure
professionali.
I giudici amministrativi concludono affermando che rimane
riservata alla competenza generale degli ingegneri (con
conseguente esclusione degli architetti) «la
progettazione di costruzioni stradali, opere
igienicosanitarie, impianti elettrici, opere idrauliche,
operazioni di estimo, estrazione di materiali, opere
industriali»
(articolo ItaliaOggi del 12.07.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Trasporti rottami ferrosi.
Sussiste il
reato di cui all’art. 256 d.lgs. n. 152/2006, e va disposta
la confisca obbligatoria del veicolo ai sensi dell’art. 259
del medesimo decreto, nel caso di trasporto di rottami
ferrosi destinati allo smaltimento. L’autorizzazione per
l'esercizio del commercio su aree pubbliche in forma
itinerante, per la vendita di prodotti appartenenti al
settore non alimentare, disciplinata dall’art. 28 d.lgs. n.
114/1998, consente al titolare di raccogliere e trasportare
rifiuti che formano oggetto del suo commercio (es. beni
usati o robivecchi), ma non può essere confusa con quella
prevista, a fini ambientali, dal d.lgs. n. 152/2006 (link a www.lexambiente.it -
TRIBUNALE di Chieti,
ordinanza 30.05.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Diritto di accesso dei dipendenti pubblici privatizzati -
Dirigenti pubblici - Conoscenza dei criteri e metodi
applicati da una Asl per il pagamento della retribuzione di
risultato - Sussiste.
Nel campo del lavoro alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni, il dipendente è portatore di un interesse
qualificato alla conoscenza degli atti e documenti che
riguardano la propria posizione lavorativa, atteso che gli
stessi esulano dal diritto alla riservatezza e che l'art. 22
della legge n. 241/1990 garantisce l'accesso ai documenti
amministrativi relativi al rapporto di pubblico impiego
"privatizzato", anche se le eventuali controversie attinenti
a detto rapporto sono devolute alla giurisdizione del
giudice ordinario.
In particolare, l'istanza di accesso di
un dirigente volto a conoscere i metodi applicati dalla
pubblica amministrazione datrice di lavoro (nel caso di
specie, una Asl) nella determinazione e nell'applicazione
del pagamento della retribuzione di risultato è preordinata
alla tutela di un interesse puntuale ed attuale.
... l’appello è anche fondato nel merito, sul fondamentale e
duplice rilievo che:
(a) l’istanza dell’avv. Possi è preordinata a tutela di un
interesse puntuale ed attuale (il pagamento della
retribuzione di risultato per il 2011) e l’oggetto della
domanda di accesso può intendersi circoscritto (almeno in
una prima fase) ai criteri e ai metodi applicati
dall’Azienda nella determinazione e nell’applicazione di
tale voce retributiva, nello stesso periodo temporale, in
una vicenda che peraltro ha interessato un numero definito
(circa 20) di dirigenti;
(b) la conoscenza dei criteri e dei metodi appare utile alla
ricorrente per comprendere le ragioni del diniego opposto
dall’amministrazione, sulla richiesta di pagamento; d’altra
parte, se l’Aziende intende (a quanto pare) operare una
sorta di compensazione fra reciproche pretese creditorie,
ciò non toglie che la ricorrente abbia ragione ed interesse
a conoscere in dettaglio i relativi conteggi ed i criteri
adottati;
(c) l'insegnamento giurisprudenziale, consolidato e
condivisibile, è nel senso che in materia di lavoro alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni il dipendente è
portatore di un interesse qualificato alla conoscenza degli
atti e documenti che riguardano la propria posizione
lavorativa, atteso che gli stessi esulano dal diritto alla
riservatezza e che l'art. 22 della l. 241/1990 garantisce
l'accesso ai documenti amministrativi relativi al rapporto
di pubblico impiego "privatizzato", anche se le
eventuali controversie attinenti ad detto rapporto sono
devolute alla giurisdizione del Giudice Ordinario (cfr., per
tutti, TAR Campania Napoli, VI Sezione, 03.02.2011 n. 645) (massima tratta da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com
- Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 27.05.2013 n.
2894 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Soggetto destinatario dell'ordinanza di
demolizione e acquisizione di opere abusive.
E' legittima l’ordinanza di demolizione e di acquisizione di
opere edilizie abusive effettuata nei soli confronti del
responsabile dell’abuso e non del comproprietario
dell'immobile, poiché anche sul piano letterale la norma si
riferisce esclusivamente all’uno, e non all’altro, per
l’evidente ragione di ancorare l’attività riparatoria in
primo luogo all’effettivo autore dell'illecito (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.05.2013 n. 21926 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Posizionamento telo ombreggiante.
La sentenza affronta il tema della rilevanza penale degli
interventi edilizi “minimi” (con nota dell'Avv. Alessandro Brustia) (link a www.lexambiente.it -
TRIBUNALE di Novara,
sentenza 14.05.2013 n. 656). |
LAVORI PUBBLICI:
Protezione civile. Responsabilità del sindaco.
In tema di responsabilità del sindaco quale organo della
protezione civile (fattispecie relativa ad evento
catastrofico verificatosi in Sarno il 05.05.1998 con
conseguente decesso di 137 persone) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.05.2013 n. 19507 -
tratto da www.lexambiente.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Responsabilità
del committente
e del coordinatore
per l’esecuzione dei lavori.
Ecco una nuova, preziosa sentenza in tema di
responsabilità penale sia del coordinatore per
l’esecuzione dei lavori, sia dello stesso committente
per omessa vigilanza sull’operato dei
coordinatori (in merito v. Guariniello, Il T.U.
Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza,
V edizione, Ipsoa, Milano, 2013,
sub art. 92, quanto al coordinatore, e sub art.
93 quanto al committente).
Per un infortunio occorso in un cantiere edile,
furono condannati il coordinatore per l’esecuzione
dei lavori (oltre che direttore di lavori
per la parte strutturale e impiantistica) e il legale
responsabile della società: il primo per «non
aver verificato, con opportune azioni di coordinamento
e di controllo l’applicazione, da parte
delle imprese esecutrici, delle disposizioni loro
pertinenti contenute nel piano di sicurezza e
coordinamento (PSC) e dei piani operativi di sicurezza
(POS) predisposti dalle imprese esecutrici, non effettuando,
nella duplice qualita` richiamata,
le necessarie riunioni e i sopralluoghi,
e omettendo di vigilare sulla corretta gestione
del cantiere, consentendo in particolare
l’esecuzione dei lavori nel vano ascensore all’interno
del quale si era verificato l’infortunio
de quo, in occasione del quale l’infortunato
era precipitato, da un’altezza superiore a due
metri, da un precario piano di calpestio allestito
sul montante orizzontale della struttura in ferro
del ridetto vano ascensore»; il secondo «per
non aver verificato l’applicazione, da parte delle
imprese esecutrici, delle disposizioni loro impartite
e contenute nel piano di sicurezza e
coordinamento.»
A) La Sez. IV respinge il ricorso degli imputati.
Quanto al coordinatore, rileva «come la circostanza
che l’imputato fosse a conoscenza della
realizzazione degli impalcati nel vano ascensore
avrebbe dovuto in ogni caso indurlo a verificare
la corretta esecuzione dei piani di lavoro,
da parte del lavoratore infortunato, senza delegare
a quest’ultimo ogni incombente riferibile
al controllo della verifica della loro realizzazione
in conformità alle norme antinfortunistiche.»
Ascrive «alla posizione funzionale assunta dal
coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione
la concreta sussistenza di precisi doveri
d’iniziativa e di responsabilità, sul piano della
conoscenza effettiva dei processi lavorativi in
corso e dei necessari accorgimenti funzionali
alla preservazione della tutela delle condizioni
di salute e di sicurezza dei lavoratori impegnati
nelle lavorazioni riguardanti l’appalto.»
Osserva che, «secondo il consolidato insegnamento
della giurisprudenza di legittimità, diversamente
da quanto sostenuto dall’imputato, in
tema di prevenzione antinfortunistica, al coordinatore
per l’esecuzione dei lavori non è assegnato
esclusivamente il compito di organizzare
il lavoro tra le diverse imprese operanti nello
stesso cantiere, bensì anche quello di vigilare
sulla corretta osservanza da parte delle stesse
delle prescrizioni del piano di sicurezza e sulla
scrupolosa applicazione delle procedure di lavoro
a garanzia dell’incolumità dei lavoratori,
spettando al coordinatore per l’esecuzione dei
lavori la titolarità di un’autonoma posizione di
garanzia che, nei limiti degli obblighi specificamente
individuati dalla legge, si affianca a quelle
degli altri soggetti destinatari delle norme
antinfortunistiche,
e comprende, non solo l’istruzione
dei lavoratori sui rischi connessi alle attività
lavorative svolte e la necessità di adottare
tutte le opportune misure di sicurezza, ma anche
la loro effettiva predisposizione, nonché il
controllo continuo ed effettivo sulla concreta
osservanza delle misure predisposte al fine di
evitare che esse siano trascurate o disapplicate,
nonché, infine, il controllo sul corretto utilizzo,
in termini di sicurezza, degli strumenti di lavoro
e sul processo stesso di lavorazione.»
Insegna che «il coordinatore per l’esecuzione
dei lavori è tenuto a verificare, attraverso un’attenta
e costante opera di vigilanza, l’eventuale
sussistenza di obiettive situazioni di pericolo
nel cantiere, e tanto, in relazione a ciascuna fase
dello sviluppo dei lavori in corso di esecuzione.»
Prende atto che, «nel caso di specie, logicamente
si è tratto, dall’accertata avvenuta acquisizione
della conoscenza, da parte dell’imputato,
della necessità di procedere all’esecuzione di
lavorazioni all’interno del vano ascensore aperto
all’interno del fabbricato in corso di costruzione,
l’insorgenza dello specifico dovere, riferibile
alla sua posizione funzionale, di provvedere
all’immediata adozione di tutte le cautele
concretamente necessarie a impedire che l’esecuzione
di attività lavorative all’interno di tale
vano potesse costituire un potenziale pericolo
per l’incolumità dei lavoratori ivi coinvolti.»
B) Per quanto concerne il committente, la Sez.
IV premette che, «in tema di prevenzione degli
infortuni sul lavoro, mentre in capo al datore di
lavoro incombe l’obbligo di predisporre le idonee
misure di sicurezza, nonché quelli di impartire
le direttive da seguire a tale scopo e di controllarne
costantemente il rispetto da parte dei
lavoratori, nel caso di prestazioni lavorative
eseguite in attuazione di un contratto d’appalto,
al committente è ascritta la piena corresponsabilità
con l’appaltatore per le violazioni delle
misure prevenzionali e protettive sulla base degli
obblighi sullo stesso incombenti ai sensi di
legge, con la conseguenza che la responsabilità
dell’appaltatore non esclude quella del committente,
da ritenersi corresponsabile unitamente al
primo, qualora l’evento si ricolleghi causalmente
ad una sua omissione colposa.»
Precisa che «il committente (unitamente al responsabile
dei lavori) è chiamato a verificare
l’adempimento da parte dei coordinatori degli
obblighi di assicurare e di verificare il rispetto,
da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori
autonomi, delle disposizioni contenute nel piano
di sicurezza e di coordinamento, nonché la
corretta applicazione delle procedure di lavoro.»
Ne desume che «al committente (così come al
responsabile dei lavori) è attribuito dalla legge
un compito di verifica non meramente formale,
bensì una posizione di garanzia particolarmente
ampia, comprendente l’esecuzione di controlli
sostanziali e incisivi su tutto quel che concerne
i temi della prevenzione, della sicurezza del
luogo di lavoro e della tutela della salute del lavoratore,
accertando, inoltre, che i coordinatori
adempiano agli obblighi sugli stessi incombenti
in detta materia.»
Constata che, nel caso di specie, si è «correttamente
ascritta alla posizione del committente
l’inosservanza dell’obbligo di vigilare sul corretto
adempimento degli obblighi cautelari da
parte dell’impresa esecutrice, il cui rispetto
avrebbe consentito di rilevare la situazione di
pericolo creata attraverso la realizzazione, da
parte del lavoratore infortunato, dei piani di lavoro
all’interno del vano ascensore, eventualmente
scongiurandola, in tal senso indiscutibilmente
ponendosi in termini di immediata e diretta relazione
causale con l’infortunio verificatosi» (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 06.05.2013 n. 19382
- tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 6/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
CONDIZIONI PER L’EQUIPARAZIONE DELLA RESPONSABILITA'
DEL NUDO PROPRIETARIO A QUELLA DELL’USUFRUTTUARIO.
Al fine di configurare la responsabilità del ‘‘nudo’’
proprietario
di un appartamento per la realizzazione d’interventi
abusivi è necessaria la sussistenza di elementi in
base ai quali possa ragionevolmente presumersi che
questi abbia concorso, anche solo moralmente, con
l’usufruttuario
dell’immobile, tenendo conto della piena disponibilità
giuridica e, di fatto, del suolo e dell’interesse
specifico a effettuare la nuova costruzione, così come
dei rapporti di parentela o affinità tra terzo e
proprietario,
della sua eventuale presenza ‘‘in loco’’, dello svolgimento
di attività di vigilanza dell’esecuzione dei lavori,
della richiesta di provvedimenti abilitativi in sanatoria,
del regime patrimoniale dei coniugi, ovvero di tutte
quelle situazioni e comportamenti positivi o negativi dai
quali possano trarsi elementi integrativi della colpa.
Sostanzialmente nuova, anche se risolta con la coerente
applicazione
di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato,
è la questione oggetto di attenzione da parte della
Cassazione nella vicenda in esame, in cui i Supremi Giudici
sono stati chiamati a pronunciarsi sull’ammissibilità di
una responsabilità concorsuale del nudo, proprietario
formalmente
non committente, in presenza di attività edilizie abusive
poste in essere sull’immobile di sua proprietà.
La vicenda
processuale segue alla conferma, da parte dei giudici
d’appello,
di una sentenza di condanna del GIP presso il Tribunale,
che aveva dichiarato responsabili del reato di costruzione
abusiva edilizia i nudi proprietari di due appartamenti e
gli
usufruttuari dei medesimi, per aver eseguito opere edilizie
in difformità dei titoli rilasciati. Contro la sentenza di
condanna
proponevano ricorso per Cassazione, per quanto qui di
interesse,
i difensori dei nudi proprietari delle unità immobiliare,
censurandola per aver la corte di merito parificato
erroneamente
la posizione dei proprietari e dei nudi proprietari, senza
distinguere gli obblighi che gravano su ciascuno in funzione
del loro titolo.
La tesi è stata accolta dai giudici di legittimità che,
pur ritenendo
fondate le argomentazioni difensive, hanno annullato
senza rinvio la sentenza per intervenuta prescrizione del
reato.
In particolare, nell’affermare il principio di cui in
massima,
i giudici di Piazza Cavour hanno chiarito come la sentenza
impugnata non avesse indicato gli elementi che hanno
condotto
a ritenere che la responsabilità del nudo proprietario
dovesse essere equiparata a quella degli usufruttuari,
essendo
diversamente richiesti dalla giurisprudenza alcuni elementi
per sostenere una responsabilità concorsuale (v., tra le
tante, sulla responsabilità del proprietario non
committente:
Cass. pen., sez. III, 15.07.2005, n. 26121, in CED
Cass.,
n. 231954) (Corte
di
Cassazione, Sez. III, sentenza 16.04.2013 n. 17336
- tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2013). |
EDILIZIA PRIVATA: INAPPLICABILITA' DELLA SANATORIA GIURISPRUDENZIALE
O IMPROPRIA AI REATI EDILIZI.
La sanatoria giurisprudenziale o impropria attiene ad un
provvedimento giustificabile in relazione ai principi
generali
inerenti al buon andamento e all’economia dell’azione
amministrativa; il tutto in riferimento ad opere
che, benché non conformi alle norme urbanistiche/edilizie
ed alle previsioni degli strumenti di pianificazione al
momento in cui le stesse vennero eseguite, lo siano
diventate
successivamente per effetto di normative/o disposizioni
sopravvenute.
Detto permesso in sanatoria
non determina, tuttavia, l’estinzione del reato urbanistico,
non essendo applicabile il D.P.R. n. 380 del 2001, art.
45, per carenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 380 del
2001, art. 36.
Il tema oggetto di esame da parte della Suprema Corte
attiene,
all’applicabilità dell’istituto della cd. sanatoria
giurisprudenziale
(o impropria) alle opere abusive edilizie, con particolare
riferimento all’effetto estintivo che la stessa può o meno
esplicare sui reati edilizi.
La vicenda processuale vedeva
imputati gli attuali ricorrenti dei reati di cui al D.P.R.
n. 380
del 2001, artt. 44, 64, 71, 65, 72, 93, 95 e 94 (ossia
costruzione
di manufatti abusivi con violazione delle prescrizioni in
materia di opere in conglomerato cementizio e della
normativa
antisismica); all’esito del doppio giudizio di merito gli
stessi
venivano condannati con demolizione delle opere abusive.
Contro la sentenza di condanna gli interessati proponevano
ricorso per Cassazione, deducendo violazione di legge e
vizio
di motivazione, in particolare esponendo che non sussisteva
la responsabilità penale degli stessi essendo intervenuto
il rilascio di valida concessione in sanatoria.
La tesi è stata però respinta dai giudici di legittimità
che, nell’affermare
il principio di cui in massima, hanno fatto coerente
applicazione di un orientamento giurisprudenziale ormai
consolidato, formatosi ormai da tempo nella giurisprudenza
secondo cui non è applicabile la disciplina del condono
edilizio
né è invocabile la cosiddetta sanatoria
‘‘giurisprudenziale’’
o ‘‘impropria’’ in presenza di una conformità postuma
dell’opera, originariamente abusiva, alle norme
urbanisticoedilizie
ovvero alle previsioni degli strumenti pianificatori, atteso
che da ciò non seguirebbe comunque alcun effetto
estintivo del reato urbanistico per l’inapplicabilità
dell’art. 45
D.P.R. n. 380 del 2001 (v., sul punto: Cass. pen., sez. III,
21.06.2007, n. 24451, in CED Cass., n. 236912) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.04.2013 n. 16769
- tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2013). |
EDILIZIA PRIVATA: REALIZZAZIONE DI AUTORIMESSA E NECESSITA' DEL PDC.
A seguito della modifica legislativa della norma di cui alla
L. n. 122 del 1989, art. 9, comma 5, introdotto dal D.L.
n. 5 del 2012, art. 10, è consentito esclusivamente
trasferire
-in epoca successiva alla realizzazione dell’autorimessa- la proprietà del parcheggio con contestuale
destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra
unità immobiliare sita nello stesso Comune; non è ,
invece, consentita sin dall’inizio la realizzazione del
parcheggio
senza preventiva individuazione nel titolo edilizio
del fabbricato cui l’autorimessa è asservita.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza
in esame verte sull’eventuale incidenza penale della
modifica
legislativa operata dal D.L. n. 5/2012 in tema di parcheggi.
La vicenda processuale segue all’impugnazione dell’ordinanza
con cui il tribunale del riesame, nell’esaminare una
richiesta
di revoca di un sequestro preventivo avente ad oggetto
un’autorimessa, dichiarava inammissibile l’appello per la
sussistenza del giudicato cautelare ovvero, in via
subordinata,
respingeva il gravame.
In sede di ricorso per Cassazione,
la difesa dell’indagato sosteneva che, a seguito della
modifica
legislativa della norma di cui alla L. n. 122 del 1989, art.
9, comma 5, introdotto dal D.L. n. 5 del 2012, art. 10, la
nozione
di pertinenzialità del parcheggio era stata estesa a
qualunque
immobile ubicato nel Comune interessato, anche se
l’individuazione di detto immobile veniva effettuato dopo la
realizzazione a mezzo di semplice DIA.
La tesi è stata però respinta dagli Ermellini che, sul
punto,
hanno ritenuto che la predetta disciplina legislativa
consente
esclusivamente di trasferire -in epoca successiva alla
realizzazione
dell’autorimessa- la proprietà del parcheggio con
contestuale destinazione del parcheggio trasferito a
pertinenza
di altra unità immobiliare sita nello stesso Comune; il
tutto in deroga alla originaria destinazione del parcheggio
ad
unità immobiliare già individuata nel titolo edilizio che
aveva
legittimato la costruzione. Detta norma, tuttavia, non
consente
sin dall’inizio la realizzazione del parcheggio senza
preventiva
individuazione nel titolo edilizio del fabbricato cui
l’autorimessa è asservita.
Consegue che -mancando,
all’epoca
della presentazione della DIA attinente al cosiddetto
primo livello delle autorimesse, la individuazione delle
abitazioni
servite- detta DIA non costituiva valido titolo per la
realizzazione
delle autorimesse, essendo necessario il preventivo
rilascio del permesso di costruire.
La Corte ha, quindi,
riconfermato
la tradizionale giurisprudenza di legittimità secondo
cui i parcheggi realizzati nelle aree urbane fuori dal
perimetro
dell’edificio e quelli, sotterranei o meno, costruiti
fuori del centro urbano richiedono il permesso di costruire
(v., da ultimo: Cass. pen., sez. III, 19.01.2012, n.
2191,
in CED Cass., n. 251891) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.04.2013 n. 16495
- tratto da Urbanistica e appalti n. 6/2013). |
EDILIZIA PRIVATA: RAPPORTI TRA L’ACCERTAMENTO DI COMPATIBILITA'
PAESAGGISTICA ED IL REATO DI CUI ALL’ART. 734 C.P..
In presenza dell’esito positivo dell’accertamento di
compatibilità
paesaggistica, il giudice ha l’obbligo di indicare
concretamente le ragioni per le quali -in relazione alla
natura delle bellezze naturali e caratteristiche del
paesaggio, nonché di quelle del manufatto realizzato-, dev’essere
ritenuta sussistente la distruzione o l’alterazione
di tali bellezze a fronte della diversa valutazione
espressa dall’amministrazione preposta alla tutela del
vincolo.
La questione esaminata dalla Cassazione nella sentenza in
commento riguarda l’individuazione di un ambito di rilevanza
espressa che la procedura cd. di compatibilità
paesaggistica
può esplicare rispetto a reati diversi da quelli
paesaggistici
propriamente detti (art. 181, D.Lgs. n. 42/2004) e,
segnatamente,
dell’illecito contravvenzionale previsto dall’art. 734
c.p. La vicenda processuale vedeva imputati due titolari di
un’officina meccanica del reato di cui all’art. 734 c.p.,
loro
ascritto per avere alterato le bellezze naturali di un’area
sottoposta
a vincolo paesaggistico, realizzando una tettoia per il
ricovero di un impianto tecnologico in aderenza all’officina
meccanica dagli stessi gestita.
La sentenza aveva, invece,
assolto i due imputati dal reato paesaggistico loro ascritto
(D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181), per effetto del rilascio
del
certificato di compatibilità paesaggistica della predetta
tettoia:
sul punto, la sentenza aveva affermato che la valutazione
di compatibilità paesaggistica della tettoia da parte dell’autorità
amministrativa non scrimina la configurabilità della
fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 734 c.p., che
punisce
chi deturpa o abbruttisce il paesaggio.
Contro la sentenza
di condanna hanno proposto ricorso per cassazione gli
imputati
sostenendo, per quanto qui di interesse, che la fattispecie
di cui all’art. 734 c.p. costituisce reato di danno, che
deve essere accertato in concreto dal giudice di merito; in
particolare, la sentenza impugnata non conterrebbe una
motivazione
riferibile all’accertamento dell’esistenza di un danno
per il paesaggio derivante dalla realizzazione della
tettoia,
né, del resto, il giudice penale può ignorare le
valutazioni della
pubblica amministrazione in ordine alla compatibilità
paesaggistica
dell’intervento, ma ne deve tenerne conto con
adeguata motivazione.
La tettoia è stata, infatti,
realizzata in
aderenza ad un manufatto destinato ad officina, ubicato in
zona destinata dal Comune ad area artigianale ed era stata
ritenuta,
pertanto, compatibile con gli strumenti urbanistici di
destinazione della zona.
Tesi, questa, che è stata accolta dalla Cassazione che,
nell’affermare
il principio di cui in massima, ha ben evidenziato
come la sentenza si fosse limitata ad affermare l’autonomia
della valutazione dell’autorità giudiziaria ordinaria
rispetto a
quella della pubblica amministrazione, senza concretamente
indicare le ragioni per le quali, in relazione alla natura
delle
bellezze naturali e caratteristiche del paesaggio, nonché
di
quelle del manufatto realizzato, dovesse essere ritenuta
sussistente
la distruzione o alterazione di tali bellezze, peraltro
in difformità della diversa valutazione espressa
dall’amministrazione
preposta alla tutela del vincolo.
Si tratta di
argomentazione
condivisibile che, si noti, si pone in linea di continuità
con quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui il
reato di cui all’art. 734 c.p. (distruzione o deturpamento
di
bellezze naturali), si configura in presenza di un effettivo
e
grave danno ambientale, che risulta anche da impatti
negativi
di tipo percettivo-visivo, storico-culturale in dimensione
locale,
di quartiere e urbana, come da impatti negativi
sull’ecosistema,
sul paesaggio e sulla fauna (Cass. pen., sez. III, 26.03.2001, n. 11716, in CED Cass., n. 221203)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.04.2013 n. 16479
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 7/2013). |
EDILIZIA PRIVATA: NECESSITA' DI DISTINGUERE LA RESPONSABILITA'
DEL PROGETTISTA E QUELLA DEL DIRETTORE DEI LAVORI.
Le diverse figure professionali del progettista e del
direttore
dei lavori, pur potendo coincidere nella medesima
persona, devono di regola essere tenute distinte, dovendosi
quindi escludere la responsabilità del progettista,
anche a titolo di concorso, considerando che la fase di
redazione di un progetto, anche se difforme dalla normativa
vigente, va tenuta distinta da quella di direzione
dei lavori, non potendosi configurare un nesso di causalità
tra la redazione del progetto e l’attività di attuazione
dello stesso, per la quale soltanto sussiste rilevanza
penale.
Il tema, di estremo interesse, oggetto di attenzione da
parte
della Corte Suprema nella decisione in esame verte
sull’esatta
delimitazione del perimetro applicativo della disciplina
edilizia quanto agli obblighi (e correlative responsabilità) gravanti
sul progettista e sul direttore dei lavori.
La vicenda
processuale
trae origine dalla sentenza di condanna che aveva
riconosciuto responsabile dei reati edilizi e paesaggistici
il direttore
dei lavori, in concorso con il proprietario committente,
per aver eseguito in zona soggetta a vincolo paesaggistico,
lavori di costruzione di una villetta ad un’elevazione fuori
terra di circa 100 mq in totale difformità dalla
concessione edilizia rilasciata, che prevedeva la
realizzazione di un fabbricato
rurale di 67 mq.
Avverso tale pronuncia il direttore dei
lavori proponeva ricorso per cassazione, deducendo la
violazione
di legge in relazione alla valutazione delle emergenze
processuali che assume erronea, in considerazione del fatto
che sarebbe stata documentalmente dimostrata la sua
estraneità
agli interventi realizzati, confermata anche dai testimoni
escussi, non avendo egli rivestito la qualifica
attribuitagli
di direttore dei lavori, avendo curato esclusivamente i
lavori
interni, mentre la progettazione della struttura in cemento
armato,
che esulava dalle sue competenze di geometra, era
stata effettuata da altro soggetto.
La tesi difensiva è stata ritenuta priva di giuridico
fondamento
da parte degli Ermellini che, nell’affermare il principio di
cui in massima, hanno chiarito come occorre sempre
distinguere
il diverso ruolo del progettista delle strutture in cemento
armato da quello del direttore dei lavori, rilevando
che la prestazione professionale del primo non esonera
comunque
il secondo dall’adempimento dei doveri connessi alla
qualifica di direttore dei lavori (in precedenza, sulla
distinzione
dei ruoli, v. Cass. pen., sez. III, 20.02.2003, n.
8420 R, in CED Cass., n. 224166) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.04.2013 n. 16204
- tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
LIVELLAMENTO DI TERRENI CON ESTIRPAZIONE
DI VEGETAZIONE E CONFIGURABILITA'
DEL REATO PAESAGGISTICO.
L’attività di livellamento di un terreno con estirpazione
della vegetazione in area sottoposta a vincolo paesaggistico
è idonea a configurare il reato di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181, stante la concreta incidenza
sull’aspetto esteriore dell’area medesima.
La questione su cui la Suprema Corte è stata chiamata a
pronunciarsi nel caso in esame riguarda le conseguenze
derivanti
dall’esecuzione delle attività di livellamento di terreni,
accompagnate dall’estirpazione della vegetazione. I fatti
contestati
all’imputata concernevano l’esecuzione di opere, su
un’area di circa 15.000 mq, consistenti nello spianamento
del terreno per circa 60/70 cm di altezza, lo spiegamento
dello stesso con estirpazione, mediante mezzi meccanici, di
essenze di macchia mediterranea al fine di renderlo
coltivabile,
con conseguente danneggiamento delle specie vegetali
spontanee e trasformazione morfologica del terreno medesimo.
All’esito del giudizio di merito, la stessa veniva
condannata
per il reato paesaggistico. Contro la sentenza di condanna
proponeva ricorso per cassazione la difesa, censurando la
ritenuta sussistenza della violazione paesaggistica, stante
la
concreta inoffensività della condotta, la quale sarebbe
desumibile
dalla circostanza che la macchia mediterranea rimossa
è stata comunque sostituita da piante di ulivo, pure
oggetto
di particolare tutela, sebbene riferita alle piante secolari
e dalla circostanza che l’intervento eseguito sarebbe stato
oggetto di autorizzazione postuma, attestante la compatibilità
paesaggistica delle opere realizzate.
La tesi difensiva non ha però convinto gli Ermellini che,
nel
respingere il ricorso, hanno affermato il principio di cui
in
massima, sottolineando come le opere descritte erano state
realizzate senza la preventiva autorizzazione dell’ente
preposto
alla tutela del vincolo, ed era pertanto evidente che non
potesse assumere alcun rilievo la circostanza che
l’intervento
fosse finalizzato alla realizzazione di un uliveto e che le
piante di ulivo sarebbero state pure oggetto di specifica
protezione,
non soltanto perché mancava comunque un titolo
abilitativo per l’esecuzione delle opere, ma anche perché
l’attenzione rivolta dal legislatore regionale riguarda le
piante
secolari (in precedenza, sulla necessità
dell’autorizzazione da
parte dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo in
consimili
ipotesi, v. Cass. pen., sez. II, 12.03.2012, n. 9395, in
CED Cass., n. 252174) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.04.2013 n. 16184
- tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Impianti fotovoltaici: illegittimo il
frazionamento della potenza di un unico impianto.
La
Corte di Cassazione,
Sez. III penale, con la
sentenza 08.04.2013 n. 15988
ha confermato il provvedimento di sequestro preventivo
adottato per un impianto fotovoltaico di potenza superiore a
20 kw realizzato in assenza di autorizzazione unica
regionale.
In particolare il provvedimento aveva ad oggetto 10 impianti
fotovoltaici ciascuno con potenza inferiore ad 1 megawatt
ubicati su terreni limitrofi con destinazione agricola,
originariamente appartenenti ad un unico proprietario e
ceduti, previo frazionamento, a società diverse.
Il sequestro era stato disposto poiché, ad avviso del
Tribunale di Brindisi, tutti gli impianti dovevano essere
considerati un unico complesso unitario per la produzione di
energia elettrica, della potenza di circa 10 megawatt,
riconducibile al medesimo centro economico giuridico di
interessi, cui facevano capo tutte le società che avevano
presentato la DIA.
Inoltre era stato altresì ravvisato il reato di
lottizzazione abusiva (ex art. 44 d.p.r. 380/2001) sia
negoziale che materiale a seguito del frazionamento dei
terreni e della trasformazione di un'area da agricola in
industriale.
Avverso questo provvedimento veniva proposto ricorso per
cassazione nel quale veniva sostenuta la legittimità
dell'intervento sia in applicazione della l.r. Puglia (art.
27 l.r. 1/2008 - applicabile ratione temporis) che
consentiva l'utilizzo della DIA per impianti di potenza
elettrica nominale fino ad 1 megawatt sia in relazione al
fatto che il concetto, alla base del provvedimento di
sequestro, di "unico centro di interessi giuridico
economico" non trovasse riscontro nella normativa
civilistica delle società.
La cassazione ha ritenuto infondato il ricorso.
Il giudice adito, dopo aver richiamato la normativa
nazionale e regionale in merito alla costruzione di impianti
rinnovabili ha precisato che "…ai sensi del D.P.R. n. 380
del 2001, art. 3, comma 3, lett. e3), gli impianti per la
produzione di energie alternative, tra cui i fotovoltaici,
rientrano tra gii interventi di nuova costruzione e che, in
applicazione della normativa specifica del settore, quelli
di potenza inferiore ai 20 Kw possono essere realizzati a
seguito di presentazione della DIA, mentre quelli di potenza
superiore devono essere assentiti mediante il rilascio del
permesso di costruire, che è compreso nell'autorizzazione
unica regionale di cui al D.Lgs. n. 387 del 2003, art. 12,
comma 3".
Sulla base di queste considerazioni è stato precisato come
la realizzazione di impianti fotovoltaici di potenza
superiore a 20 kw in assenza dell'autorizzazione unica
regionale integra il reato di cui al d.p.r. 380/2001
articolo 44, lett. b.
Inoltre è stato ritenuto inconferente il richiamo alla
normativa regionale della regione puglia che consentiva la
costruzione di impianti fotovoltaici con potenza inferiore a
1 megawatt poiché tale limite era stato ampiamente superato
considerata l'unicità dell'impianto; e questo sia
nell'ipotesi in cui l'intero intervento fosse riconducibile
ad una fittizia creazione di una pluralità di soggetti
societari finalizzata ad aggirare la normativa in materia di
autorizzazione unica, sia nel caso di sostanziale
realizzazione da parte di più società di un unico impianto
di energia elettrica di origine fotovoltaica, fittiziamente
frazionato.
Per quanto riguarda il reato di lottizzazione abusiva, la
Cassazione, pur sottolineando come gli impianti fotovoltaici
possono essere ubicati anche in zone classificate agricole
dai vigenti piani urbanistici, purché risulti salvaguardata
l'utilizzazione agricola del territorio ha precisato che "…
anche con riferimento agli impianti fotovoltaici, realizzati
in assenza della prescritta autorizzazione, è ipotizzabile
il reato di lottizzazione abusiva allorché per le dimensioni
dell'impianto, in relazione alla superficie residua del
territorio, non risulti salvaguardata la sua utilizzazione
agricola e si determini, quindi, lo stravolgimento
dell'assetto ad esso attribuito dagli strumenti urbanistici".
In conclusione, il frazionamento di un unico impianto
fotovoltaico finalizzato alla sola elusione della normativa
in materia di autorizzazione unica integra il reato di cui
all'articolo 44, comma 1, lett. b), del d.p.r. 380/2001, e
legittima l'adozione del provvedimento di sequestro
preventivo (commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Certificato di prevenzione
incendi e autorizzazione
all’apertura di un esercizio
alberghiero.
Condannato per il reato di abuso di ufficio di
cui all’art. 323 c.p. «perché rilasciava una licenza
per l’esercizio di una struttura alberghiera
in assenza del certificato di prevenzione antincendio,
in violazione dell’art. 4 della legge
n. 966/1965 e dell’art. 3, commi 1 e 5,
D.P.R. n. 37/1998, e inoltre per la capienza
di 19 camere in contrasto con il parere del dipartimento
di prevenzione della ASL che segnalava
un’altezza dei locali inferiore a quella
minima prevista», il segretario generale e dirigente
delle attività produttive di un comune lamenta
che «nessuna norma prevede il rilascio
della certificazione antincendio come condizione
legittimante l’autorizzazione amministrativa
all’apertura di un esercizio, costituendo
tale certificato solo un presupposto dell’esercizio
concreto dell’attività», «tanto che, a
seguito della comunicazione del Comando
dei VV.FF. del mancato rilascio del nulla osta
era stata immediatamente disposta la sospensione
dell’attività.»
Pur dichiarando la prescrizione del reato, la
Sez. III ne trae spunto per precisare che, «contrariamente
a quanto dedotto, il rilascio del certificato
di prevenzione incendi è requisito legittimante
l’autorizzazione amministrativa all’apertura
di un esercizio alberghiero, come si ricava
inequivocabilmente dal tenore dell’art. 2
D.P.R. 12.01.1998, n. 37 (disciplina poi
rielaborata prima con il D.Lgs. n. 139/2006 e
poi con il D.P.R. n. 151/2011), che si riferisce
agli ‘‘enti’’, oltre che ai ‘‘privati’’ responsabili
delle attività per le quali è richiesto una simile
certificazione.» (Per alcune indicazioni giurisprudenziali
in argomento, nonché per un inquadramento
del D.P.R. n. 151/2011, v. Guariniello,
Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato
con la giurisprudenza, IV edizione, Ipsoa, Milano,
2012, 392 ss.) (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 27.03.2013 n. 14450
- tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 6/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
DELIBERA DI CONSIGLIO COMUNALE E ORDINE
DI DEMOLIZIONE.
Per arrestare l’ordine di demolizione non
è sufficiente,
sulla base del dettato del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31,
comma 5, una delibera di consiglio comunale che dichiari
l’esistenza di prevalenti interessi pubblici e che l’opera
non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o
ambientali,
essendo invece necessari tutti i dettagli tecnici,
economici e normativi che dovranno formare oggetto di
ulteriori, conseguenti, atti.
Oggetto della decisione esaminata dalla Cassazione è il
tema
dei rapporti intercorrenti tra le iniziative dell’Autorità
amministrativa
in presenza di un immobile abusivo edilizio di
cui sia stata ordinata la demolizione e l’ordine medesimo
impartito
dall’Autorità giudiziaria.
La vicenda processuale segue
all’emanazione da parte del giudice dell’esecuzione di
rigetto
di una richiesta di revoca o sospensione dell’ordine di
demolizione
di manufatto abusivo, impartito con sentenza di condanna
passata in giudicato, per intervenuta acquisizione da
parte del consiglio comunale dell’immobile in oggetto,
insieme
ad altri, al fine di trasformarlo in alloggio di edilizia
residenziale
sovvenzionata. Il GE motivava il rigetto considerando
la delibera comunale predetta, in ogni caso illegittima
giacché mancante di indicazione di impegno di spesa e di
istruttoria svolta per singolo immobile inerente l’effettiva
praticabilità dell’intervento, un mero atto di indirizzo
non contenente
alcuna indicazione specifica.
Ricorrevano in cassazione
i condannati, sostenendo, per quanto di interesse in
questa sede, che per arrestare l’ordine di demolizione
sarebbe
sufficiente, sulla base del dettato del D.P.R. n. 380 del
2001, art. 31, comma 5, una delibera di consiglio comunale
che dichiari l’esistenza di prevalenti interessi pubblici e
che
l’opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o
ambientali
senza che siano necessari tutti i dettagli tecnici,
economici
e normativi che dovranno formare oggetto di ulteriori,
conseguenti, atti.
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che,
nell’affermare
il principio di cui in massima, hanno respinto il ricorso
concordando
con le argomentazioni del giudice di merito che,
qualificando, sotto tale profilo, come ‘‘atto di indirizzo’’
la delibera
in oggetto e reputando in definitiva come solo eventuale
e futura la valutazione dei presupposti di legge cui l’art.
31 D.P.R. n. 380/2001 condiziona la non operatività della
demolizione,
ha, conformandosi ai principi sopra enunciati,
legittimamente
escluso nella specie l’effetto ostativo della demolizione,
propriamente derivante solo da una valutazione in
termini di attualità degli interessi pubblici alla
conservazione
dell’opera e della mancanza di contrasto con rilevanti
interessi
urbanistici (di recente, nel senso che rientra tra i poteri
del giudice dell’esecuzione il sindacato sulla
compatibilità
dell’ordine di demolizione contenuto nella sentenza di
condanna
con la delibera di acquisizione gratuita dell’opera abusiva
al patrimonio comunale, v. Cass. pen., sez. III, 11.03.2013, n. 11419 inedita)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.03.2013 n. 13746
- tratto da Urbanistica e appalti n. 6/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
LA SPONTANEA DEMOLIZIONE DEL MANUFATTO ABUSIVO
NON ELIMINA IL DANNO URBANISTICO.
Ha rilevanza penale l’elusione del controllo che l’autorità
amministrativa è chiamata ad esercitare, in via preventiva
e generale, sull’attività edilizia assoggettata al regime concessorio e, quando un’attività siffatta venga iniziata
senza il preventivo assenso dell’amministrazione
comunale, si ha inesistenza di un danno urbanistico soltanto
nell’ipotesi di cui al D.P.R. 06.06.2001, n. 380,
art. 36 (già L. n. 47 del 1985, art. 13: conformità delle
opere agli strumenti urbanistici fin dal momento della
loro realizzazione), mentre, al di fuori di tale ipotesi,
l’eliminazione
spontanea del manufatto abusivo non vale
ad eliminare l’antigiuridicità sostanziale del fatto reato:
il territorio, infatti, ha comunque subito un vulnus, pur
se vi è stata una successiva attività spontanea rivolta ad
elidere le conseguenze dannose del reato.
La questione giuridica sottoposta al vaglio della Cassazione
nel caso in esame attiene alla incidenza in sede penale
della
eventuale spontanea demolizione di un manufatto abusivo,
valutabile in senso da escludere il cd. danno urbanistico.
La vicenda processuale vedeva imputati due soggetti
cui era stato addebitata la violazione del D.P.R. n. 380 del
2001, art. 44, lett. b), per avere realizzato opere edilizie
(lo
spianamento di un’area di circa 900 mq, l’ampliamento di
un preesistente stradone interpoderale, la creazione di una
rampa di circa 50 mq, un muretto di delimitazione di una
strada) in assenza del prescritto permesso di costruire.
Contro la sentenza di condanna proponevano ricorso per
Cassazione gli stessi sostenendo, per quanto d’interesse
in questa sede, l’esclusione della loro responsabilità
penale
attesa l’intervenuta eliminazione delle opere oggetto di
addebito.
La tesi non è stata però accolta dalla Cassazione che, nel
respingere
il ricorso, ha ribadito il principio secondo cui la
demolizione
delle opere abusive non comporta l’estinzione del
reato commesso con la loro costruzione (v., tra le tante, di
recente: Cass. pen., sez. III, 05.03.2013, n. 10245, in
CED
Cass., n. 254430, che ha aggiunto inoltre che la demolizione
spontanea delle opere abusive -al di fuori della tassativa
ipotesi
prevista dall’art. 8-quater della L. 21.06.1985, n.
298, di conversione del D.L. 23.04.1985, n. 146,
riferita
alle operazioni eseguite entro la data di entrata in vigore
della
disposizione normativa (07.07.1985)- pur non producendo
l’estinzione del reato urbanistico, può essere comunque
valutata ai fini della determinazione della pena, della
mancanza
di un danno penalmente rilevante e della buona fede
dell’imputato) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.03.2013 n. 13738
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 6/2013). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
REATO DI ABUSO D’UFFICIO DEL PUBBLICO UFFICIALE
NEL RILASCIO DI TITOLI EDILIZI E COMPRESENZA DI FINALITA'
PUBBLICISTICA.
Il dolo intenzionale del delitto di abuso d’ufficio non
è
escluso dalla mera compresenza di una finalità
pubblicistica
nella condotta del pubblico ufficiale, essendo necessario,
per ritenere insussistente l’elemento soggettivo,
che il perseguimento del pubblico interesse costituisca
il fine primario dell’agente.
Interessante la questione giuridica oggetto di esame da
parte
della Suprema Corte nella vicenda in esame, in cui la
Cassazione
si sofferma ad esaminare un profilo rilevante sotto il
profilo della sussistenza dell’elemento psicologico del
reato
di abuso d’ufficio in caso di rilascio di titoli edilizi.
La
vicenda
processuale vedeva imputati, da un lato, il geometra
responsabile
dell’ufficio tecnico comunale, cui era stato addebitato
di aver intenzionalmente procurato un ingiusto vantaggio
patrimoniale
al legale rappresentante di una s.r.l., rilasciandogli
illegittimamente n. 3 permessi di costruzione in variante
della
originaria concessione edilizia, in area assoggettata a
vincolo
paesaggistico, senza l’autorizzazione preventiva della
Soprintendenza per i beni e le attività culturali ed in
difformità
dalle previsioni del PRG del Comune, consentendo una
volumetria complessiva ed un numero di piani superiori ai
limiti
consentiti.
In sede di merito, però, entrambi gli imputati
venivano assolti dal reato di abuso d’ufficio (art. 323
c.p.) loro
contestato, evidenziando la mancanza di prova in ordine a
qualsivoglia ‘‘relazione o accordo stretto’’ intercorsi tra
il funzionario
comunale ed il legale rappresentante della s.r.l. ed
aderendo all’orientamento interpretativo secondo il quale -quando
è pacifica la coincidenza del fine realizzato nel
procedimento
amministrativo con l’interesse pubblico- non è
ipotizzabile
il reato di abuso di ufficio, atteso che l’eventuale
vantaggio verrebbe a profilarsi come effetto indiretto
derivante
dal perseguimento del pubblico interesse.
Contro la
sentenza assolutoria proponeva ricorso per cassazione la
difesa
della parte civile, lamentando violazione di legge in ordine
alla individuazione dell’elemento soggettivo del reato,
prospettando la configurabilità evidente del dolo
intenzionale,
«attesi l’enormità, l’aberrazione, la volontaria travisazione
della realtà e la volontaria reiterazione cosciente dei
comportamenti
palesemente illeciti posti in essere dagli imputati
nella considerazione altresì influente e quindi del tutto
inesorabile
dell’esperienza del geometra».
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che,
nell’affermare
il principio di cui in massima, hanno fatto coerente
applicazione
della giurisprudenza di legittimità secondo cui l’intenzionalità
del dolo non è esclusa dalla compresenza di una finalità
pubblicistica nella condotta del pubblico ufficiale,
dovendosi
ritenere necessario, per escludere la configurabilità
dell’elemento soggettivo, che il perseguimento del pubblico
interesse costituisca l’obiettivo principale dell’agente,
con
conseguente degradazione del dolo di danno o di vantaggio
da dolo di tipo intenzionale a mero dolo diretto od
eventuale
(v., ex multis: Cass. pen., sez. VI, 24.02.2012, n.
7384, in CED Cass., n. 252498; Id., sez. III, 13.05.2011, n. 18895, in CED Cass., n. 250374).
Orbene, poiché
nel caso in esame la parte civile ricorrente non aveva
escluso
la presenza di una finalità pubblica nell’azione
amministrativa
del geometra ed aveva omesso di specificare quali
fossero gli elementi sintomatici da cui potesse desumersi
l’effettiva e prevalente intenzione del funzionario comunale
di favorire se stesso e/o recare vantaggi patrimoniali al
privato,
con particolare riguardo alla entità concreta delle
accertate
violazioni di legge e di piano ed ai rapporti intercorrenti
ed intercorsi tra soggetto agente e soggetto avvantaggiato,
il ricorso è stato correttamente respinto dalla Cassazione (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.03.2013 n. 13735
- tratto da Urbanistica e appalti n. 6/2013). |
URBANISTICA:
LE POSSIBILI FORME DI MANIFESTAZIONE
DELLA LOTTIZZAZIONE MATERIALE DI TERRENI EDILIZI.
L’attività lottizzatoria illegittima si configura non
soltanto
nel caso in cui l’intervento edilizio non potrebbe essere
in nessun caso realizzato per essere le sue connotazioni
oggettive in contrasto con previsioni di zonizzazione
e/o localizzazione dello strumento generale di
pianificazione,
non suscettibili di essere modificati da piani urbanistici
attuativi, ma anche attraverso qualsiasi utilizzazione
del suolo che, indipendentemente dalla entità
del frazionamento fondiario e dal numero dei proprietari,
preveda la realizzazione contemporanea o successiva
di una pluralità di edifici a scopo residenziale, turistico
o
industriale, che postulino l’attuazione di opere di
urbanizzazione
primaria o secondaria, occorrenti per le necessità
dell’insediamento, oppure in presenza di un intervento
sul territorio tale da comportare una nuova definizione
dell’assetto preesistente in zona non urbanizzata
o non sufficientemente urbanizzata, per cui esiste
la necessità di attuare le previsioni dello strumento
urbanistico
generale attraverso la redazione e la stipula di
una convenzione lottizzatoria adeguata alle caratteristiche
dell’intervento di nuova realizzazione.
Particolarmente interessante la questione oggetto di
attenzione
da parte della Cassazione nella vicenda in esame, in
cui la Corte affronta ancora una volta il tema della
configurabilità
dell’illecito lottizzatorio, soffermandosi in particolare
sulla figura della lottizzazione abusiva cd. materiale.
La
vicenda
processuale trae origine dall’ordinanza con cui il tribunale
del riesame ha rigettato il ricorso avverso il decreto di
sequestro
preventivo emesso dal Giudice per le indagini preliminari
e concernente alcuni terreni e fabbricati nel procedimento
a carico di alcuni soggetti indagati, tra l’altro per il
reato
di lottizzazione abusiva.
Le condotte loro ascritte
concernono
la realizzazione di una lottizzazione abusiva posta in
essere
mediante la costruzione di un complesso immobiliare
composto da più corpi di fabbrica per complessivi 8 edifici
e
178 appartamenti, con modifica della destinazione di zona e
superamento degli indici di densità edilizia, la esecuzione
di
opere difformi rispetto all’atto concessorio ritenuto
illegittimo,
la costruzione in assenza di permesso di costruire di
muri destinati a contenere i terrapieni artificiali
realizzati anche
in contrasto con la prevista viabilità di collegamento ed
il
rilascio di un permesso di costruire in variante illegittimo
che, in assenza di un preventivo piano di lottizzazione,
consentiva
la costruzione di nuovi fabbricati con altezze e numero
di piani superiori a quelli consentiti dalle nuove norme
tecniche intervenute.
Contro l’ordinanza di rigetto
proponeva ricorso
per Cassazione sia il PM che la difesa degli indagati,
in particolare sostenendo il primo, per quanto qui di
interesse,
che la totale assenza di urbanizzazione o la parziale
urbanizzazione,
tale da rendere necessario un raccordo con il
preesistente aggregato abitativo ed il potenziamento delle
opere d’urbanizzazione, sono elementi determinanti per la configurabilità della lottizzazione abusiva che avrebbero
dovuto
essere oggetto di adeguata considerazione da parte dei
giudici del riesame, specie in presenza di significativi
dati fattuali
in tal senso, quale quello per cui l’assenza totale di opere
di urbanizzazione sarebbe documentalmente dimostrata.
La prospettazione accusatoria ha fatto breccia nelle
valutazioni
della cassazione che ha, infatti, ritenuto fondato il
ricorso
del PM disponendo l’annullamento con rinvio dell’ordinanza
impugnata. In particolare, richiamando giurisprudenza
consolidata, la Corte ha riaffermato il principio secondo
cui
si ritiene configurabile la lottizzazione abusiva anche in
mancanza
di pianificazione attuativa, per le zone non urbanizzate
o per quelle ove preesistono opere di urbanizzazione
proporzionalmente
insufficienti, sia qualitativamente sia quantitativamente,
a soddisfare i bisogni abitativi dei residenti, presenti
e futuri (v., ex multis: Cass. pen., sez. III, 13.06.2011, n. 23646, in CED Cass., n. 250521)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.03.2013 n. 13038
- tratto da Urbanistica e appalti n. 6/2013). |
EDILIZIA PRIVATA: INTERVENTI EDILIZI IN ZONE SIC NON PRECEDUTI
DA VALUTAZIONE DI INCIDENZA E REATO EDILIZIO.
Integra il reato previsto dall’art. 44, comma 1, lett. b),
del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 l’esecuzione di interventi
edilizi in zone individuate come SIC (siti di importanza
comunitaria), se non preceduta dalla valutazione di
incidenza
prevista dall’art. 5, comma 8, del D.P.R. 08.09.1997, n. 357 da parte della Regione territorialmente
competente.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte
verte, nel caso in esame, sulla configurabilità o meno del
reato edilizio in caso di interventi eseguiti in zona
individuate
come siti di importanza comunitaria, in difetto della cd.
valutazione di incidenza prevista dalla vigente normativa.
La
vicenda processuale segue al rigetto da parte del tribunale
dell’istanza di riesame proposta dall’indagato insieme ad
altri
interessati avverso il decreto con cui il GIP aveva disposto
il sequestro preventivo di un fabbricato, da destinare a
residenza agricola, composto da piano terra e seminterrato
con relativa recinzione. Per tale fabbricato era stato
rilasciato
permesso di costruire, che, a giudizio del tribunale adito
deve considerarsi illegittimo in quanto non ha tenuto conto
del vincolo SIC/ZPS (sito di interesse comunitario e zona di
protezione speciale) istituito con la legge regionale per
l’area
nella quale risulta ubicato il terreno di insediamento del
manufatto (si tratta di un’area ad alta concentrazione di
insediamenti
rupestri, necropoli e siti archeologici, caratterizzata
da fenomeni carsici e ricca di risorse naturalistiche).
La
mancata rilevazione di detto vincolo, in base
all’impostazione
accusatoria, ha comportato l’illegittimità del titolo
abilitativo
edilizio per l’omessa acquisizione della valutazione
d’incidenza
del progetto sull’area, la cui necessità è prescritta
dal D.P.R. 08.09.1997, n. 357, come modificato dal
D.P.R. 12 marzo 2003, n. 120. E' stato configurato,
pertanto,
in ragione dell’omissione, il reato di cui al D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. b). Contro l’ordinanza
proponeva
ricorso per Cassazione la difesa dell’indagato deducendo la
propria estraneità al fatto illecito contestato, sostenendo
di
essere solo l’attuale proprietario del fabbricato
assoggettato
a sequestro, mentre il permesso di costruire risulta
rilasciato
a suo padre.
La tesi non ha però convinto i giudici di legittimità che,
sul
punto, hanno respinto il ricorso, affermando il principio di
diritto
di cui in massima. La Corte, più nello specifico, ha
rilevato
che il D.P.R. 08.09.1997, n. 357 (Regolamento
recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla
conservazione
degli habitat naturali e seminaturali, nonché della
flora e della fauna selvatiche), all’art. 5, comma 8, in
relazione
agli interventi da eseguirsi nelle zone individuate come
SIC (siti di interesse comunitario) stabilisce che «l’autorità
competente al rilascio dell’approvazione definitiva del
piano
o dell’intervento acquisisce preventivamente la valutatone
di
incidenza, eventualmente individuando modalità di
consultazione
del pubblico interessato dalla realizzazione degli stessi». Viene dunque chiaramente specificato che la valutazione
d’incidenza deve precedere il rilascio del titolo
abilitativo
edilizio.
La prevista procedura ha, infatti, lo scopo di
analizzare
e valutare gli effetti di una particolare attività
all’interno
dei siti d’importanza comunitaria, individuando anche
eventuali
misure per contenerne l’impatto e favorire la conservazione
dell’ambiente. Si tratta, quindi, di un procedimento
preventivo il cui scopo è, evidentemente, quello di
assicurare
un adeguato equilibrio tra la conservazione del sito ed un
uso sostenibile del territorio anche in ossequio ai principi
comunitari
di precauzione e prevenzione dell’azione ambientale.
Da qui, dunque, la necessità della previa valutazione
d’incidenza
che, in difetto, rende configurabile la violazione edilizia
ipotizzata (v., in senso conforme: Cass. pen., sez. III, 27.02.2012, n. 7613, in CED Cass., n. 252106)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.03.2013 n. 13037
- tratto da Urbanistica e appalti n. 6/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
SANATORIA EDILIZIA, DOPPIA CONFORMITA' E ATTIVITA'
VINCOLATA DELLA P.A..
Al fine del rilascio del provvedimento di sanatoria, ex
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36, è necessario che
l’intervento
edilizio sia conforme alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente, sia al momento della realizzazione dello
stesso, sia al momento della presentazione della domanda; ciò si riconnette ad una attività vincolata della
p.a., consistente nell’applicazione alla fattispecie
concreta
di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione
compiuta e non elastica, che non lasciano
all’Amministrazione
medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale.
La Corte di Cassazione si sofferma, con la sentenza in
esame,
ad analizzare il tema della sanatoria edilizia, focalizzando
in particolare l’attenzione sulla natura giuridica dell’attività
amministrativa sottesa all’esercizio del potere valutativo
dell’istanza
di sanatoria.
La vicenda processuale segue al rigetto
da parte del GIP di un’istanza di dissequestro avanzata
nell’interesse dell’indagato per i reati di abuso d’ufficio
e costruzione
edilizia abusiva; la misura cautelare aveva per oggetto
un immobile in fase di edificazione in proprietà
all’indagato
medesimo. Il tribunale del riesame, chiamato a pronunciarsi
sull’appello interposto dall’indagato, con ordinanza
rigettava
il gravame. La difesa proponeva ricorso per cassazione,
sostenendo la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001,
art. 44, lett. b), e art. 36, per la ritenuta non
conformità del
permesso di costruire in sanatoria al modello ex art. 36
citato
decreto.
La tesi è stata ritenuta infondata dagli Ermellini che,
nell’affermare
il principio di cui in massima, hanno richiamato una
consolidata giurisprudenza (v., tra le tante: Cass. pen.,
sez.
III, 24.03.2011, n. 11960, in CED Cass., n. 249747),
peraltro
osservando, in relazione al caso in esame, che il
provvedimento,
lungi dall’asseverare la doppia conformità di
un’opera ultimata, e già conforme alle regole urbanistiche
ed edilizie, presentava il contenuto tipico di un nuovo
titolo
abilitativo e si riferiva ad un mutamento della destinazione
d’uso, autorizzata con il precedente permesso, mutamento
che, tuttavia, risultava già realizzato mediante la
edificazione
della casa colonica al posto del mero deposito di attrezzi
agricoli.
Stante la natura ibrida dell’atto, non
inquadrabile in
una sanatoria, che presupporrebbe l’assenza di prescrizioni
e condizioni (v., sul punto: Cass. pen., sez. III, 12.11.2007, n. 41567, in CED Cass., n. 238020), né un permesso
in variante, che dovrebbe precedere e non seguire la
realizzazione
dell’opera difforme, il giudice di merito ha concluso,
correttamente secondo la Cassazione, col ritenere che il
provvedimento de quo rappresentasse delle nette dissonanze
rispetto all’istituto della sanatoria, sicché lo stesso
non poteva essere produttivo di alcun effetto estintivo
dell’abuso
edilizio (Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.03.2013 n. 13020
- tratto da Urbanistica e appalti n. 6/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
CONDIZIONI PER L’AFFERMAZIONE DELLA RESPONSABILITA'
DEL COMPROPRIETARIO.
Il comproprietario ha il potere di porre il veto
all’esecuzione
di opere non assentite sull’area in comunione e,
se questi è il coniuge del comproprietario committente
dell’opera, non può non tenersi conto della stretta
comunanza
di interessi, che rendono il coniuge, di norma,
naturalmente partecipe di tutte le deliberazioni di
rilevanza
familiare, a meno che l’interessato non provi, al
contrario, che tali presupposti non ricorrano nel caso
concreto, per una qualsiasi ragione.
La Corte Suprema torna a pronunciarsi, con la sentenza in
esame sul tema della responsabilità del (compro)prietario
dell’opera edilizia sulla quale siano eseguiti interventi
edilizi.
La vicenda processuale vedeva imputati due coniugi di alcuni
reati urbanistici ed edilizi per avere realizzato nella
qualità
di proprietari, in assenza del permesso di costruire, una
tettoia
in legno di mq 30,50, un corpo di fabbrica da destinare a
civile abitazione, della superficie di mq 139, con struttura
portante in cemento armato e conci di tufo, con annesse
verande,
una piattaforma di cemento armato di mq 65, con 10
pilastri in 6 dei quali già si evidenziava la gittata
cementizia.
Contro la sentenza di condanna proponevano ricorso per
Cassazione i due imputati, sostenendo, per quanto qui di
interesse,
l’insussistenza sia dell’elemento soggettivo del reato
contestato, che dei presupposti per affermare il concorso
degli imputati con la committente dei lavori; in
particolare, la
qualifica di comproprietario del terreno costituirebbe un
mero
indizio ai fini dell’affermazione della responsabilità
penale,
che nel caso avrebbe dovuto essere esclusa, stante l’assenza
di qualsiasi contributo, seppure morale alla realizzazione
del fatto.
La tesi è stata però respinta dalla Cassazione che, nel
dichiarare
inammissibile il ricorso, ha affermato il principio di cui
in
massima, precisando che la responsabilità del proprietario
o
comproprietario, non formalmente committente delle opere
abusive, può dedursi da indizi quali la piena
disponibilità della
superficie edificata, l’interesse alla trasformazione del
territorio,
i rapporti di parentela o affinità con l’esecutore del
manufatto,
la presenza e la vigilanza durante lo svolgimento dei
lavori,
il deposito di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria,
la fruizione dell’immobile secondo le norme civilistiche
sull’accessione nonché tutti quei comportamenti (positivi o
negativi) da cui possano trarsi elementi integrativi della
colpa
e prove circa la compartecipazione anche morale alla
realizzazione
del fabbricato (v., da ultimo: Cass. pen., sez. III, 03.07.2012, n. 25669, in CED Cass., n. 253065; in precedenza,
v. Cass. pen., sez. III, 22.06.2000, n. 7314, in CED
Cass., n. 216971) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.03.2013 n. 11820
- tratto da Urbanistica e appalti n. 6/2013). |
LAVORI PUBBLICI:
Opere superspecialistiche. Associazioni obbligate ko.
Il parere del Consiglio di stato sul
decreto sugli appalti.
Pollice verso dal Consiglio di stato contro alcune norme in
tema di appalti contenute nel regolamento di attuazione del
codice dei contratti pubblici.
Il
parere
11.01.2013 n. 38 reso
nell'adunanza della commissione speciale di Palazzo Spada
boccia le disposizioni contenute nel dpr 207/2010 laddove
penalizza le imprese generali: il provvedimento, infatti,
individua ben ventiquattro categorie «superspecialistiche»
che impongono la necessaria costituzione dell'associazione
temporanea di imprese verticale per poter partecipare alla
gara.
Contraddizione in termini
Le censure arrivano da un gruppo di grandi gruppi, attivi
soprattutto nel campo delle grandi opere.
Gli effetti del sistema sarebbero penalizzanti per le
imprese generali, le quali, pur se in possesso della
qualificazione nella categoria generale prevalente, non
sarebbero più in grado di eseguire alcuna opera da sole, ma
sarebbero costrette, praticamente per tutti gli appalti, a
subaffidare opere non ricomprese nelle proprie
qualificazioni «generali» e, per moltissime categorie, anche
ad associare altre imprese.
In effetti, riconosce Palazzo
Spada, le norme sembrano contraddittorie: da una parte c'è
la regola generale secondo cui l'affidatario dei lavori in
possesso della qualificazione nella categoria prevalente può
eseguire direttamente tutte le lavorazioni si cui si compone
l'opera, anche qualora sia privo delle relative
qualificazioni; dall'altra c'è la tabella sintetica delle
categorie: ben 46 delle 52 categorie complessivamente
indicate risultano a qualificazione obbligatoria e quindi
non realizzabili direttamente dall'affidatario ma
necessariamente da subappaltare.
Nell'ambito di queste 46
categorie esiste un ulteriore elenco di 24 categorie, per le
quali il subappalto è consentito solo nei limiti del 30 per
cento: ne consegue che, in presenza delle opere «speciali»,
l'impresa munita della qualificazione nella categoria
prevalente, già solo per partecipare alla gara, deve
necessariamente costituire un'Ati verticale con un'impresa
qualificata nella categoria «speciale». «Il dato
quantitativo», concludono i giudici, «è già
sintomatico di un'evidente contraddittorietà». Il
ministero delle Infrastrutture è avvisato
(articolo ItaliaOggi del 12.07.2013). |
AGGIORNAMENTO AL
10.07.2013 |
ã |
ANNO 2013: E' ARRIVATO LO SBLOCCO DEI LAVORI PUBBLICI E DEGLI
ESPROPRI PER PUBBLICA UTILITA'?? |
Con l'AGGIORNAMENTO
AL 25.03.2013 davamo conto che il "divieto
di acquistare immobili, sancito per il 2013, si
estende ad ogni tipo di immobile (e non solo ai
fabbricati): cioè, si estende anche ai terreni e
alle aree agricole. Non solo: tali condizioni devono
riferirsi applicabili anche all’acquisizione di
immobili per la realizzazione di opere assistite da
dichiarazione di pubblica utilità (esproprio)".
Ora, la recente L. 06.06.2013 n. 64
di conversione, con modificazioni, del decreto-legge
08.04.2013 n. 35, con l'art. 10-bis ha introdotto
una norma di interpretazione autentica dell'articolo
12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n.
98 il quale così recita:
"Art.
10-bis. Norma di interpretazione autentica
dell'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge
06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni,
dalla legge 15.07.2011, n. 111
1. Nel rispetto del patto di stabilità interno,
il divieto di acquistare immobili a titolo oneroso,
di cui all'articolo 12, comma 1-quater, del
decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con
modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111,
non si applica alle procedure relative all'acquisto
a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate
per pubblica utilità ai sensi del testo unico di cui
al d.P.R. 08.06.2001, n. 327, nonché alle permute a
parità di prezzo e alle operazioni di acquisto
programmate da delibere assunte prima del 31.12.2012
dai competenti organi degli enti locali e che
individuano con esattezza i compendi immobiliari
oggetto delle operazioni e alle procedure relative a
convenzioni urbanistiche previste dalle normative
regionali e provinciali.".
Ebbene, capitano proprio a fagiuolo -in questi giorni-
alcuni pareri della Corte dei Conti che interpretano
la novità legislativa de qua, la quale consente agli
Enti Locali di respirare una boccata di ossigeno ...
a Voi il piacere di leggere tali pareri di seguito
riportati.
10.07.2013 - LA SEGRETERIA PTPL |
PATRIMONIO: La
Sezione si pronuncia in merito alla richiesta di
parere del Sindaco del Comune di Bene Lario (CO), in
materia di permuta immobiliare.
Per effetto della recente norma
di interpretazione autentica (legge 06.06.2013, n.
64), si deve ritenere che il divieto di acquisto di
immobili di cui all’art. 12 del D.L. n. 98/2011 non
sia ostativo alle acquisizioni effettuate a seguito
di permute a parità di prezzo.
---------------
Il Sindaco del Comune di Bene Lario (CO) ha
formulato alla Sezione una richiesta di parere in
materia di permuta immobiliare, del seguente tenore.
Il bene oggetto della permuta è un immobile dato in
uso perpetuo alla parrocchia di SS. Vito e Modesto
che la utilizza come casa parrocchiale, ma la nuda
proprietà è rimasta in capo al Comune di Bene Lario.
La Curia ha chiesto di acquistare la nuda proprietà
della casa parrocchiale e offre in permuta terreni
di proprietà che si trovano sul territorio di Bene
Lario.
Il Comune sarebbe disponibile alla permuta, in
considerazione del fatto che il bene non è
utilizzabile a fini istituzionali.
Alla luce dell’art. 1, comma 138, della legge n.
228/2012, che ha disposto il divieto alle pubbliche
amministrazioni e tra queste gli enti locali, di
acquistare a qualsiasi titolo beni immobili,
l’organo rappresentativo dell’ente chiede se sia
possibile concludere l’operazione di permuta con la
Curia in considerazione del fatto che l’operazione
di per sé si caratterizza per lo scambio di
immobili, senza pagamento di prezzo in denaro.
...
La Sezione si è già espressa in numerosi precedenti
sul tema del divieto di acquisto di immobili sancito
dall’art. 1, comma 138, della Legge 24.12.2012 n.
228. Tali pronunce, rese in sede consultiva, devono
intendersi integralmente richiamate (SRC Lombardia,
deliberazione nn .73/2013/PAR; 162/2013/PAR;
163/2013/PAR, 164/2013/PAR, 173/2013/PAR,
181/2013/PAR, 193/2013/PAR).
Segnatamente, l’art. 12 del decreto-legge
06.07.2011, n. 98 (convertito, con modificazioni,
dalla legge 15.07.2011, n. 111), novellato dalla
richiamata norma del 2012 dispone: «1-quater. Per
l’anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite
nel conto economico consolidato della pubblica
amministrazione, come individuate dall’ISTAT ai
sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge
31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni,
nonché le autorità indipendenti, ivi inclusa la
Commissione nazionale per le società e la borsa
(CONSOB), non possono acquistare immobili a titolo
oneroso né stipulare contratti di locazione passiva
salvo che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero
la locazione sia stipulata per acquisire, a
condizioni più vantaggiose, la disponibilità di
locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero
per continuare ad avere la disponibilità di immobili
venduti. Sono esclusi gli enti previdenziali
pubblici e privati, per i quali restano ferme le
disposizioni di cui ai commi 4 e 15 dell’articolo 8
del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con
modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122. Sono
fatte salve, altresì, le operazioni di acquisto di
immobili già autorizzate con il decreto previsto dal
comma 1, in data antecedente a quella di entrata in
vigore del presente decreto».
Inoltre, decorso il periodo di sospensione di cui
alla prefata norma, ai sensi del comma 1-ter: «1-ter.
A decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a
risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli
previsti dal patto di stabilità interno, gli enti
territoriali e gli enti del Servizio sanitario
nazionale effettuano operazioni di acquisto di
immobili solo ove ne siano comprovate
documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento. La
congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del
demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette
operazioni è data preventiva notizia, con
l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo
pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente».
Il principio della inapplicabilità del divieto in
oggetto alle procedure di permuta “pura” è
stato affermato nella deliberazione n. 162/2013.
Successivamente è intervenuta la legge 06.06.2013,
n. 64, la quale ha proceduto alla conversione, con
modificazioni, del decreto-legge 08.04.2013, n. 35
(recante “Disposizioni urgenti per il pagamento
dei debiti scaduti della pubblica amministrazione,
per il riequilibrio finanziario degli enti
territoriali, nonché in materia di versamento di
tributi degli enti locali. Disposizioni per il
rinnovo del Consiglio di presidenza della giustizia
tributaria”).
Tale fonte contiene al suo interno una “Norma di
interpretazione autentica dell'articolo 12, comma
1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98,
convertito, con modificazioni, dalla legge
15.07.2011, n. 111” (art. 10-bis) il quale, in
modo risolutivo esclude dalla portata applicativa
della disposizione alcune ipotesi, e segnatamente: «1.
Nel rispetto del patto di stabilità interno, il
divieto di acquistare immobili a titolo oneroso, di
cui all'articolo 12, comma 1-quater, del
decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con
modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, non
si applica alle procedure relative all'acquisto a
titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per
pubblica utilità ai sensi del testo unico di cui al
D.P.R. 08.06.2001, n. 327, nonché alle permute a
parità di prezzo e alle operazioni di acquisto
programmate da delibere assunte prima del 31.12.2012
dai competenti organi degli enti locali e che
individuano con esattezza i compendi immobiliari
oggetto delle operazioni e alle procedure relative a
convenzioni urbanistiche previste dalle normative
regionali e provinciali».
In definitiva, in relazione all’oggetto del quesito,
per effetto della recente norma di
interpretazione autentica, si deve concludere che il
divieto di acquisto di immobili di cui all’art. 12
del D.L. n. 98/2011 non sia ostativo alle
acquisizioni effettuate a seguito di permute a
parità di prezzo
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 28.06.2013 n. 268). |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO:
La Sezione si pronuncia in merito alla richiesta di parere
del Presidente della Regione Lombardia, relativamente
all’interpretazione 12, comma 1-quater, della legge n.
111/2011 (comma inserito dall’art. 1, comma 138, della legge
n. 228/2012).
In relazione
all’oggetto del primo quesito, per
effetto della recente norma di interpretazione autentica, si
deve concludere che il divieto di acquisto di immobili di
cui all’art. 12 del D.L. n. 98/2011 non sia ostativo alle
acquisizioni effettuate all’interno delle procedure di cui
al T.U. n. 327/2001 (testo unico espropriazione).
Per quanto riguarda il secondo quesito, resta
impregiudicato il precedente quadro ermeneutico della
giurisprudenza della Sezione. Ne consegue che,
ferme le eccezioni legali (ivi compresa la normativa
sugli espropri, laddove applicabile), in linea di principio
il divieto di acquisto a titolo oneroso riguarda non solo le
procedure ascrivibili al patrimonio disponibile, ma anche
quelle finalizzate al perseguimento di obiettivi previsti da
legge regionale e statale riconducibili al demanio o al
patrimonio indisponibile dell’ente. E’, comunque, fatta
salva la salvaguardia del principio di necessità.
---------------
Il Presidente della Regione Lombardia ha formulato alla
Sezione una richiesta di parere del seguente tenore.
L’articolo 12, comma 1-quater, della legge n. 111/2011
(comma inserito dall’articolo 1, comma 138, della legge n.
228/2012) prevede quanto segue: “per l'anno 2013 le
amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione, come individuate
dall'ISTAT ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge
31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, (…), non
possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare
contratti di locazione passiva salvo che si tratti di
rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata per
acquisire, a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di
locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero per
continuare ad avere la disponibilità di immobili venduti.
Sono esclusi gli enti previdenziali pubblici e privati, per
i quali restano ferme le disposizioni di cui ai commi 4 e 15
dell'articolo 8 del decreto-legge 31.05.2010, n. 78,
convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n.
122. Sono fatte salve, altresì, le operazioni di acquisto di
immobili già autorizzate con il decreto previsto dal comma
1, in data antecedente a quella di entrata in vigore del
presente decreto".
Il Presidente della Regione chiede se il divieto posto
dall’articolo 12, comma 1-quater, della legge n. 111/2011
riguardi:
a) l’acquisizione tramite il procedimento espropriativo;
b) l’acquisizione al patrimonio indisponibile di aree ad
elevata valenza naturalistica e forestale ai sensi dell’art.
5, comma 1, della l.r. 86/1983.
a. Acquisizione tramite procedimento
espropriativo
La norma, ponendo in via generale il divieto di acquisizione
di immobili a titolo oneroso, sembra non lasciare spazio ad
alcuna eccezione così da ritenere incluso nel divieto anche
l’acquisizione dell’immobile a seguito dell’espropriazione
per pubblica utilità, dal momento che anche l’espropriazione
comporta l’acquisizione di immobili a titolo oneroso.
Tuttavia l’applicazione della norma con riguardo alle
espropriazioni si tradurrebbe nel divieto, per l’anno 2013,
di realizzare anche le opere di pubblica utilità, quali le
opere idrauliche, le opere di difesa del suolo, o comunque
opere infrastrutturali in relazione alle quali gli immobili
da espropriare sono da intestare al demanio pubblico o al
patrimonio indisponibile.
In tali casi, si ritiene che la sospensione del procedimento
espropriativo comporterebbe un sacrificio dell’interesse
pubblico di rilievo superiore o comunque sicuramente
comparabile all’interesse di riduzione della spesa pubblica.
Si chiede, pertanto, se il divieto di acquisto a
titolo oneroso comporti l’indiscriminata sospensione per il
2013 di tutte le procedure espropriative, indipendentemente
dalla finalità e dalla natura dell’opera da realizzare, o se
occorra distinguere tra procedure volte all’acquisizione di
immobili ascrivibili al demanio o al patrimonio
indisponibile (ad esempio procedure di esproprio volte alla
realizzazione di opere idrauliche, opere di difesa del
suolo, opere infrastrutturali) e procedure relative ad
immobili, pur riconosciuti di pubblica utilità, ascrivibili
al patrimonio disponibile.
b) Acquisizione al patrimonio
indisponibile di aree ad elevata valenza naturalistica e
forestale ai sensi dell’art. 5, comma 1, della l.r. 86/1983
L’art. 5, comma 1, della L.r. n. 86/1983 dispone che “I
piani dei parchi e delle riserve prevedono l'acquisizione in
proprietà pubblica delle aree per le quali i piani medesimi
prevedano un uso pubblico nonché delle aree per le quali i
limiti alle attività antropiche comportino la totale
inutilizzazione”.
La regione Lombardia, a decorrere dall’anno 2000, in
attuazione dell’art. 5, comma 1, della l.r. 86/1983, ha
attivato un processo di acquisizione al patrimonio
indisponibile di aree ad elevata valenza naturalistica e
forestale, localizzate all’interno del Sistema regionale
delle aree protette (Parchi Regionali e Naturali, Riserve e
Monumenti Naturali) e strumentali all’attività degli Enti
gestori.
Nel corso degli anni, tale attività ha consentito
l’acquisizione al patrimonio regionale di aree di rilevanza
naturalistica, per una superficie catastale complessiva pari
a circa 775 ettari. Questa superficie è ripartita in 24 Aree
Protette Regionali, tra cui otto Riserve e Monumenti
Naturali, quattordici Parchi Regionali e due PLIS.
Una volta acquisite, le aree entrano a far parte del
patrimonio forestale regionale indisponibile e,
successivamente, vengono assegnate in concessione agli enti
gestori delle aree protette.
Le modalità di acquisizione al patrimonio regionale di aree,
di proprietà privata, ad alta valenza naturale, sono state,
da ultimo, definite con deliberazione di Giunta Regionale n.
IX/2109 del 04.08.2011.
Le risorse disponibili per l’acquisizione delle aree sono
allocate annualmente in un capitolo di bilancio
appositamente dedicato.
Anche in questo caso l’estensione del divieto a questa
tipologia di acquisto comporterebbe un sacrificio
dell’interesse pubblico di rilievo superiore o comunque
comparabile all’interesse di riduzione della spesa: ciò in
quanto l’acquisizione di che trattasi è strumentale al
perseguimento di obiettivi di tutele e salvaguardia
riconducibili a Rete Natura 2000 (d.P.R. 357/1997), anche
con presenza di habitat e specie prioritarie (Direttiva
92/43 CEE “Habitat”) o ad emergenza naturalistica
(faunistiche/floristiche) a rischio di compromissione (legge
regionale 10/2008 e d.g.r. 7736/2008).
Il Presidente della Regione chiede, pertanto, se
il divieto di acquisto a titolo oneroso riguardi le sole
procedure ascrivibili al patrimonio disponibile con
esclusione di quelle, finalizzate al perseguimento di
obiettivi previsti da legge regionale e statale e, in quanto
tali, riconducibili al demanio o al patrimonio indisponibile
dell’ente.
...
La Sezione si è già espressa in numerosi
precedenti sul tema del divieto di acquisto di immobili
sancito dall’art. 1, comma 138 della Legge 24.12.2012 n.
228. Tali pronunce, rese in sede consultiva, devono
intendersi integralmente richiamate
(SRC Lombardia, deliberazione nn. 73/2013/PAR; 162/2013/PAR;
163/2013/PAR, 164/2013/PAR, 173/2013/PAR, 181/2013/PAR,
193/2013/PAR).
Segnatamente, l’art. 12 del decreto-legge 06.07.2011, n. 98
(convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n.
111), novellato dalla richiamata norma del 2012 dispone: «1-quater.
Per l’anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite nel
conto economico consolidato della pubblica amministrazione,
come individuate dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma
3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive
modificazioni, nonché le autorità indipendenti, ivi inclusa
la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB),
non possono acquistare immobili a titolo oneroso né
stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti
di rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata
per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la
disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi
ovvero per continuare ad avere la disponibilità di immobili
venduti. Sono esclusi gli enti previdenziali pubblici e
privati, per i quali restano ferme le disposizioni di cui ai
commi 4 e 15 dell’articolo 8 del decreto-legge 31.05.2010,
n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge
30.07.2010, n. 122. Sono fatte salve, altresì, le operazioni
di acquisto di immobili già autorizzate con il decreto
previsto dal comma 1, in data antecedente a quella di
entrata in vigore del presente decreto».
Inoltre, decorso il periodo di sospensione di cui alla
prefata norma, ai sensi del comma 1-ter: «1-ter. A
decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di
spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di
stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del
Servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di
acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate
documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento. La congruità
del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo
rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data
preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante
e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale
dell’ente».
Il tema della estensibilità del divieto in oggetto alle
procedure di esproprio è stato ampiamente affrontato nelle
deliberazioni nn. 162 e 163/2013/PAR, nonché nn. 169 e
193/2013/PAR e nelle pronunce di altre Sezioni ivi
richiamate.
In tali deliberazioni la Sezione riteneva che il ridetto
divieto si applicasse alle procedure di esproprio, salve le
procedure collegate ad opere di urgenza, anche a
salvaguardia del principio di necessità (in questo senso
anche SRC Liguria
parere 31.01.2013 n. 9).
Successivamente a tali pronunce rese dalla Magistratura
contabile in sede consultiva, è intervenuta la legge
06.06.2013, n. 64, la quale ha proceduto alla conversione,
con modificazioni, del decreto-legge 08.04.2013, n. 35
(recante “Disposizioni urgenti per il pagamento dei
debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il
riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonché in
materia di versamento di tributi degli enti locali.
Disposizioni per il rinnovo del Consiglio di presidenza
della giustizia tributaria”).
Tale fonte contiene al suo interno una “Norma di
interpretazione autentica dell'articolo 12, comma 1-quater,
del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con
modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111” (art.
10-bis) che, in modo risolutivo esclude dalla portata
applicativa della disposizione alcune ipotesi, tra cui
quelle relative alle procedure per acquisti di pubblica
utilità di cui al T.U. espropriazioni (D.P.R 327/2001), e
segnatamente: «1. Nel rispetto del patto di stabilità
interno, il divieto di acquistare immobili a titolo oneroso,
di cui all'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge
06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla
legge 15.07.2011, n. 111, non si applica alle procedure
relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni
effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di
cui al D.P.R. 08.06.2001, n. 327, nonché alle permute a
parità di prezzo e alle operazioni di acquisto programmate
da delibere assunte prima del 31.12.2012 dai competenti
organi degli enti locali e che individuano con esattezza i
compendi immobiliari oggetto delle operazioni e alle
procedure relative a convenzioni urbanistiche previste dalle
normative regionali e provinciali».
In definitiva, in relazione all’oggetto del primo quesito,
per effetto della recente norma di interpretazione
autentica, si deve concludere che il divieto di acquisto di
immobili di cui all’art. 12 del D.L. n. 98/2011 non sia
ostativo alle acquisizioni effettuate all’interno delle
procedure di cui al T.U. n. 327/2001 (testo unico
espropriazione).
Per quanto riguarda il secondo quesito, resta
impregiudicato il precedente quadro ermeneutico della
giurisprudenza della Sezione. Ne consegue che,
ferme le eccezioni legali (ivi compresa la normativa
sugli espropri, laddove applicabile), in linea di principio
il divieto di acquisto a titolo oneroso riguarda non solo le
procedure ascrivibili al patrimonio disponibile, ma anche
quelle finalizzate al perseguimento di obiettivi previsti da
legge regionale e statale riconducibili al demanio o al
patrimonio indisponibile dell’ente. E’, comunque, fatta
salva la salvaguardia del principio di necessità
(Corte dei Conti, Sez. contr. Lombardia, n. 162/2013)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 28.06.2013 n. 267). |
LAVORI PUBBLICI: Questa
Sezione ritiene che se per “accordo bonario” si fa
riferimento all’atto di cessione volontaria cui fa
espresso riferimento l'art. 20, comma 9, DPR
327/2001, l’ipotesi rientra senz’altro tra quelle
escluse dal divieto di acquisire beni immobili.
Infatti, la cessione volontaria è atto conclusivo
del procedimento di espropriazione, comportando
l'effetto traslativo della proprietà interessata
dalla realizzazione dell'opera pubblica.
Come ha ricordato la Cassazione (sent. 11.03.2006,
n. 5390), la cessione volontaria è contratto c.d. ad
oggetto pubblico che si inserisce necessariamente
nell’ambito di un procedimento di espropriazione;
produce l’effetto di concludere il procedimento
espropriativo senza emettere decreto di esproprio.
Il proprietario, in seguito ad un sub procedimento,
ha diritto di stipulare l’atto di cessione
volontaria e il prezzo è determinato secondo criteri
inderogabili stabiliti dalla legge.
In maggior dettaglio, si differenzia dalla
compravendita di diritto comune per i seguenti
elementi: a) si inserisce necessariamente in un
procedimento espropriativo e consente di raggiungere
il medesimo risultato (acquisizione della proprietà)
con uno strumento di natura privatistica,
alternativo al decreto di esproprio; b) il prezzo
per il trasferimento volontario del fondo è
correlato in modo vincolante a parametri di legge
previsti per il calcolo dell’indennità di esproprio
(la pa espropriante offre un’indennità
all’espropriando il quale può solo rifiutarla o
accettarla puramente e semplicemente).
---------------
Il Commissario Straordinario della Provincia di
Varese ha posto alla Sezione un quesito
sull’interpretazione dell’art. 12, comma 1-quater,
del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con
modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111.
In particolare, l’ente provinciale chiede se nel
divieto legislativo in parola rientri anche
l’ipotesi di “accordo bonario” per
l’acquisizione di diritti immobiliari su aree di
proprietà privata, nell’ambito di un progetto
finanziato in parte dalla provincia (nella veste di
capofila beneficiario coordinatore di un progetto
presentato alla Ce all’interno del quarto bando
LIFE+ dell’anno 2010).
Nell’istanza di parere si precisa che la Provincia
aveva già fatto la variazione di bilancio nell’anno
2011 per realizzare l’opera e che gli acquisiti sono
finanziati da fondi provenienti da una fonazione
bancaria che assunto la veste di “soggetto
esterno non pubblico” che partecipa alla
realizzazione del progetto.
...
Venendo al merito della richiesta, il quesito posto
dall’ente provinciale va ricondotto alla portata
della norma introdotta dall’art. 12, comma 1-quater,
del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con
modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111,
laddove recita che “le Amministrazioni pubbliche
inserite nel conto economico consolidato della
Pubblica Amministrazione di acquisire immobili a
titolo oneroso e di stipulare contratti di locazione
passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti
ovvero la locazione sia stipulata per acquisire, a
condizioni più vantaggiose, la disponibilità di
locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero
per continuare ad avere la disponibilità di immobili
venduti”.
Nelle more dell’adunanza è intervenuta la L.
06.06.2013, n. 64 di conversione, con modificazioni,
del decreto-legge 08.04.2013, n. 35 che all’art.
art. 10-bis ha introdotto una norma di
interpretazione autentica dell'articolo 12 testé
richiamato.
In particolare, il comma 1 ha stabilito che <<nel
rispetto del patto di stabilità interno, il divieto
di acquistare immobili a titolo oneroso, di cui
all'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge
06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni,
dalla legge 15.07.2011, n. 111, non si applica alle
procedure relative all'acquisto a titolo oneroso di
immobili o terreni effettuate per pubblica utilità
ai sensi del testo unico di cui al d.P.R.
08.06.2001, n. 327, nonché alle permute a parità di
prezzo e alle operazioni di acquisto programmate da
delibere assunte prima del 31.12.2012 dai competenti
organi degli enti locali e che individuano con
esattezza i compendi immobiliari oggetto delle
operazioni e alle procedure relative a convenzioni
urbanistiche previste dalle normative regionali e
provinciali>>.
Chiarito il quadro normativo, occorre affrontare la
questione se nel divieto legislativo in parola
rientri anche l’ipotesi di “accordo bonario”
per l’acquisizione di diritti immobiliari su aree di
proprietà privata, nell’ambito di un progetto
finanziato in parte dalla provincia (nella veste di
capofila beneficiario coordinatore di un progetto
presentato alla Ce all’interno del quarto bando
LIFE+ dell’anno 2010).
Prima dell’intervento della norma di interpretazione
autentica, la magistratura contabile in sede
consultiva ha reso numerose pronunce (investe
questioni che sono state oggetto di trattazione in
analoghe pronunce, ex plurimis SRC Lombardia
deliberazioni n. 3/2013/PAR e n. 102/2013/PAR; SRC
Liguria
parere 31.01.2013 n. 9
e SRC Marche, deliberazione n. 7/2013/PAR).
Tuttavia, alla stregua della norma di
interpretazione autentica successivamente
intervenuta, occorre affrontare la
questione se la fattispecie rappresentata rientri in
una delle ipotesi in cui il divieto di acquisto non
opera e, più in particolare, nell’ipotesi di
“acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni
effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo
unico di cui al d.P.R. 08.06.2001, n. 327”.
L’ente provinciale istante si limita a riferire che
la procedura di acquisizione avverrà con “accordo
bonario” e che gli acquisiti sono finanziati da
fondi provenienti da una fonazione bancaria che
assunto la veste di “soggetto esterno non
pubblico” che partecipa alla realizzazione del
progetto.
Questa Sezione ritiene che se per
“accordo bonario” si fa riferimento all’atto
di cessione volontaria cui fa espresso riferimento
l'art. 20, comma 9, DPR 327/2001, l’ipotesi rientra
senz’altro tra quelle escluse dal divieto di
acquisire beni immobili.
Infatti, la cessione volontaria è atto conclusivo
del procedimento di espropriazione, comportando
l'effetto traslativo della proprietà interessata
dalla realizzazione dell'opera pubblica. Come ha
ricordato la Cassazione (sent. 11.03.2006, n. 5390),
la cessione volontaria è contratto c.d. ad oggetto
pubblico che si inserisce necessariamente
nell’ambito di un procedimento di espropriazione;
produce l’effetto di concludere il procedimento
espropriativo senza emettere decreto di esproprio.
Il proprietario, in seguito ad un sub-procedimento,
ha diritto di stipulare l’atto di cessione
volontaria e il prezzo è determinato secondo criteri
inderogabili stabiliti dalla legge.
In maggior dettaglio, si differenzia dalla
compravendita di diritto comune per i seguenti
elementi:
a) si inserisce necessariamente in un procedimento
espropriativo e consente di raggiungere il medesimo
risultato (acquisizione della proprietà) con uno
strumento di natura privatistica, alternativo al
decreto di esproprio;
b) il prezzo per il trasferimento volontario del
fondo è correlato in modo vincolante a parametri di
legge previsti per il calcolo dell’indennità di
esproprio (la pa espropriante offre un’indennità
all’espropriando il quale può solo rifiutarla o
accettarla puramente e semplicemente)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 27.06.2013 n. 262). |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: La
novella dell'art. 12 del DL 98/2011 (convertito
dalla L. 111/2011), operata dal c. 138 dell'art. 1
della L. 228/2012, prevede “Per l’anno 2013 le
amministrazioni pubbliche (…) non possono acquistare
immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di
locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di
contratti (…)”.
La stessa disposizione eccettua dal proprio
perimetro applicativo una serie di norme. In linea
di principio la Sezione ha (del.ne 200/2013)
precisato che l’inderogabilità della norma, e la
tassatività delle eccezioni indicate, escludono
categoricamente ulteriori casi di inapplicabilità
della previsioni in relazione alla vantaggiosità
dell’operazione, nel senso auspicato dal comune.
Circa l’applicabilità del divieto alle fattispecie
di espropriazione per pubblica utilità, la questione
è stata, tra l’altro, esaminata e confermata dalla
SRC Liguria (del.ne 31.03.2013, n. 9).
Non si può concordare con la tesi per cui
l’applicazione della norma proibitiva ai casi di
espropriazione per pubblica utilità risulterebbe
preclusa dalla natura originaria, e non derivativa,
dell’acquisto compiuto dall’ente. Il testo della
norma, riferito agli “acquisti”, non sembra
eccettuare dal proprio perimetro applicativo gli
acquisti a titolo originario, in quanto l’esigenza
di contenimento delle spese pubbliche sussiste anche
per le fattispecie in cui in capo all’ente
l’acquisto si determini a titolo originario: la
differenza tra le due modalità acquisitive pare
irrilevante con riguardo al diverso tema delle
ragioni di carattere finanziario. Elemento
discretivo potrebbe essere la sussistenza a carico
dell’acquirente di un obbligazione pecuniaria, solo
requisito sussistente ai fini dell’applicabilità del
divieto.
In secondo luogo, il codice civile conosce una serie
di ipotesi, a titolo originario, che non prescindono
da un’attività dell’acquirente, che può essere in
condizione di determinare la propria condotta. Ma,
soprattutto, ad abundatiam, il carattere originario
dell’acquisto a titolo espropriativo risulta
affermazione controversa in dottrina e
giurisprudenza. La tesi dell’acquisto a titolo
originario si basa su una serie di disposizioni
(oggi contenute nel d.p.r. 08.06.2001, 327, t.u.
espr.) quali l’art. 2; l’art. 25; più in generale,
la circostanza che l’intero procedimento
espropriativo prescinda dalla volontà negoziale
dell’interessato.
Altra parte della dottrina e della giurisprudenza
ritiene che la qualificazione giuridica
dell’acquisto sia condizionata dalle peculiarità
della fattispecie e dall’interferenza di un
procedimento pubblicistico, che spiegherebbero le
norme sopra descritte. Altri elementi sintomatici
(l’art. 23 del d.p.r. 327/2001, che prevede la
trascrizione dell’acquisto; l’istituto della c.d.
retrocessione del bene, che presuppone
l’individuazione di un precedente proprietario; più
in generale, la potenziale interferenza di momenti
di carattere negoziale e volontaristico)
indurrebbero a ritenere che l’espropriazione
disciplini e incida l’an del trasferimento e non
anche il quomodo.
La diatriba risulta superata dal dato normativo: con
la L. 64/2013, conversione, con modificazioni, del
DL 35/2013, il legislatore ha ritenuto di dettare
una disciplina espressa che (art. 10-bis) prevede
“Nel rispetto del PdS interno, il divieto di
acquistare immobili a titolo oneroso, di cui
all'art. 12, c. 1-quater, del DL 06.07.2011, n. 98,
convertito, con modificazioni, dalla legge
15.07.2011, n. 111, non si applica alle procedure
relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o
terreni effettuate per pubblica utilità ai sensi del
testo unico”.
La sopravvenienza normativa determina la completa
rivisitazione del quadro fattuale e normativo e
rende superflua l’interpretazione della Sezione.
Nulla osta a che l’ente interessato proceda ad
acquisizioni espropriative ai sensi del d.p.r.
08.06.2001, n. 327.
---------------
Il comune richiede chiarimenti sull'art. 12, comma
1-quater, della legge 15.07.2011, n. 111, inserito
dall'art.1, comma 138, della legge 24.12.2012 n. 228
(legge di stabilità 2013).
In particolare, il comune di Varese, ai fini della
realizzazione di opere pubbliche, ha, nel corso
degli ultimi anni, acquisito la disponibilità di
aree di proprietà di terzi e, ciò, sia in forza di
procedure espropriative avviate ai sensi della
vigente normativa di cui al d.p.r. 08.06.2001, n.
327, previa occupazione anticipata ex art. 22-bis,
concordando in seguito la cessione volontaria dei
beni (art. 45) in superamento del procedimento
ablatorio; che, in assenza di quest' ultimo, in
forza di accordi sin dall'origine raggiunti con la
proprietà per la bonaria acquisizione -a titolo
oneroso- di dette aree.
Anche nella maggior parte dei casi di accordo
bonario, l'ente, per ragioni di qualificata urgenza,
ha infatti convenuto con i proprietari di poter
occupare le aree necessarie per la realizzazione
dell'intervento anteriormente alla stipula del
formale atto di compravendita.
Il corrispettivo dell'acquisizione in parola è stato
quindi determinato tenendo conto anche
dell'indennità dovuta per la suddetta occupazione
Il perfezionamento degli atti di trasferimento
immobiliare delle aree già nella disponibilità
dell'Amministrazione ed irreversibilmente
trasformate per effetto dell'avvenuta realizzazione
delle previste opere pubbliche risulterebbe, oggi,
inibito, nonostante l'obbligazione in tal senso
antecedentemente assunta dall'Amministrazione e
l'avvenuto accantonamento delle necessarie risorse
finanziarie, dalle disposizioni di cui all'art. 1,
comma 138, l. 228/2012.
Non risulterebbe infatti oggettivamente possibile
procedere alla retrocessione di dette aree che,
pertanto, l'Amministrazione continuerebbe a
detenere, mantenendo a proprio diretto carico, pur
non avendone la titolarità giuridica, ogni
conseguente responsabilità ed onere manutentivo.
Al protrarsi del possesso conseguirebbe,
necessariamente, anche un progressivo incremento
dell'entità dell'indennità di occupazione dovuta
alla proprietà. L'indennità, infatti, non è
riferibile all'acquisto del diritto di proprietà o
di altro diritto reale, ma, avendo sostanzialmente
funzione sostitutiva della mancata percezione dei
frutti ritraibili dai beni occupati, è direttamente
proporzionale al periodo di occupazione.
Sarebbe quindi, prevedibile, come peraltro già
paventato da taluni, che l'alterazione
dell'equilibrio economico sotteso all'accordo
raggiunto con la proprietà, conseguenza diretta
dell'impossibilità per l'Amministrazione di
perfezionare l'acquisto, si traduca nella necessità
di una rinegoziazione del corrispettivo con la
proprietà, con aggravio di costi per
l'Amministrazione stessa.
Tanto premesso, il comune richiede se il divieto
di procedere ad acquisizioni a titolo oneroso debba
ritenersi operante anche in relazione a fattispecie,
quali quelle sopra descritte, ove, al contrario, il
perfezionamento dell'acquisizione, già nel 2013, si
tradurrebbe in un concreto risparmio di spesa per
l'Amministrazione.
...
La novella dell'art. 12 del decreto-legge
06.07.2011, n. 98 (convertito, con modificazioni,
dalla legge 15.07.2011, n. 111), operata dal comma
138 dell'art. 1 della legge 24.12.2012, n. 228
prevede che “Per l’anno 2013 le amministrazioni
pubbliche inserite nel conto economico consolidato
della pubblica amministrazione, come individuate
dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della
legge 31.12.2009, n. 196, e successive
modificazioni, nonché le autorità indipendenti, ivi
inclusa la Commissione nazionale per le società e la
borsa (CONSOB), non possono acquistare immobili a
titolo oneroso né stipulare contratti di locazione
passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti,
ovvero la locazione sia stipulata per acquisire, a
condizioni più vantaggiose, la disponibilità di
locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero
per continuare ad avere la disponibilità di immobili
venduti”.
La stessa disposizione eccettua poi dal proprio
perimetro applicativo una serie di norme, e in
particolare:
i. gli acquisti compiuti dagli enti previdenziali
pubblici e privati (sic);
ii. le operazioni di acquisto di immobili già
autorizzate in data antecedente a quella di entrata
in vigore del decreto;
iii. le operazioni di acquisto destinate a
soddisfare le esigenze allocative in materia di
edilizia residenziale pubblica;
iv. le operazioni di acquisto previste in attuazione
di programmi e piani concernenti interventi di
perequazione socio-territoriale.
In linea di principio la Sezione ha (anche di
recente:
parere 08.05.2013 n. 200) avuto modo di
precisare che l’inderogabilità della norma, e la
tassatività delle eccezioni indicate, escludono in
modo categorico che ulteriori casi di
inapplicabilità della previsioni siano ravvisabili
in relazione alla vantaggiosità dell’operazione, e
quindi nel senso auspicato dal comune.
Passando al diverso problema relativo
all’applicabilità del divieto alle fattispecie di
espropriazione per pubblica utilità, tale questione
è stata, tra l’altro, esaminata e confermata dalla
sezione regionale di controllo per la Liguria della
Corte dei Conti (parere
31.01.2013 n. 9).
Non si può in nessun modo concordare con la tesi per
cui l’applicazione della norma proibitiva ai casi di
espropriazione per pubblica utilità risulterebbe
preclusa dalla natura originaria, e non derivativa,
dell’acquisto compiuto dall’ente.
In primis, occorre precisare che il testo
della norma, laconicamente riferito agli
“acquisti”, non sembra affatto eccettuare dal
proprio perimetro applicativo gli acquisti a titolo
originario, in quanto l’esigenza di contenimento
delle spese pubbliche sussiste, con tutta evidenza,
anche per le fattispecie in cui in capo all’ente
l’acquisto si determini a titolo originario: la
differenza tra le due modalità acquisitive, infatti,
se assume un certo pregio al fine della risoluzione
dei conflitti tra terzi, pare del tutto irrilevante
con riguardo al diverso tema delle ragioni di
carattere finanziario.
Elemento discretivo potrebbe, al massimo, essere la
sussistenza a carico dell’acquirente di un
obbligazione pecuniaria, solo requisito sussistente
ai fini dell’applicabilità del divieto (cfr ultra).
In secondo luogo, occorre rammentare che il codice
civile conosce una serie di ipotesi (si pensi, a
puro titolo di esempio, alla costruzione operata dal
fondo con materiali propri o all’usucapione) che,
pur essendo a titolo originario, non prescindono
certo da un’attività dell’acquirente, che quindi può
essere in condizione di determinare la propria
condotta.
Ma, soprattutto, ad abundatiam, va precisato che il
carattere originario dell’acquisto a titolo
espropriativo risulta affermazione ancora
controversa in dottrina e giurisprudenza.
La tesi dell’acquisto a titolo originario si basa
infatti su una serie di disposizioni (oggi contenute
nel d.p.r. 08.06.2001, 327, t.u. espr.) quali l’art.
2, che prevede l’irrilevanza della difettosa
individuazione del proprietario; l’art. 25, che
indica quale effetto del procedimento l’estinzione
dei diritti gravanti sul bene; più in generale, la
circostanza che l’intero procedimento espropriativo
prescinda dalla volontà negoziale dell’interessato.
Tuttavia, altra parte della dottrina e della
giurisprudenza ritiene che la qualificazione
giuridica dell’acquisto sia condizionata dalle
peculiarità della fattispecie e dall’interferenza di
un procedimento pubblicistico, che spiegherebbero le
norme sopra descritte.
Per contro, altri elementi sintomatici (l’art. 23
del d.p.r. 327/2001, che prevede la trascrizione
dell’acquisto; l’istituto della c.d. retrocessione
del bene, che presuppone l’individuazione di un
precedente proprietario; più in generale, la
potenziale interferenza di momenti di carattere
negoziale e volontaristico – cfr ultra) indurrebbero
invece a ritenere che l’espropriazione disciplini e
incida l’an del trasferimento e non anche il
quomodo.
La diatriba risulta per vero ormai superata dal dato
normativo, in quanto, con la legge 06.06.2013, n.
64, di conversione, con modificazioni, del
decreto-legge 08.04.2013, n. 35, il legislatore ha
ritenuto di dettare una disciplina espressa che, tra
l’altro (art. 10-bis) tra l’altro prevede che
“Nel rispetto del patto di stabilità interno, il
divieto di acquistare immobili a titolo oneroso, di
cui all'articolo 12, comma 1-quater, del
decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con
modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, non
si applica alle procedure relative all'acquisto a
titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per
pubblica utilità ai sensi del testo unico di cui al
d.P.R. 08.06.2001, n. 327 (…)”.
La sopravvenienza normativa determina, ovviamente,
la completa rivisitazione del quadro fattuale e
normativo e, di conseguenza, rende superflua
l’interpretazione della Sezione.
Pertanto, nulla osta a che l’ente interessato
proceda ad acquisizioni espropriative ai sensi del
d.p.r. 08.06.2001, n. 327
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 27.06.2013 n. 251). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: ALBO GESTORI AMBIENTALI: elenco imprese iscritte
(ANCE Bergamo,
circolare 05.07.2013 n. 166). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Legislazione nazionale: nuove regole per
l’esercizio, la conduzione, il controllo e la manutenzione
degli impianti termici (ANCE Bergamo,
circolare 05.07.2013 n. 165). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Legislazione nazionale: stabiliti i requisiti
professionali degli esperti cui affidare la certificazione
energetica (ANCE Bergamo,
circolare 05.07.2013 n. 164). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA: Impianti
termici: dal 12.07.2013 nuove regole per l’esercizio, il
controllo e la manutenzione.
Sulla Gazzetta Ufficiale n. 149 del 27.06.2013 è stato
pubblicato il D.P.R. 16.04.2013, n. 74.
Il provvedimento, che entra in vigore il 12 luglio,
definisce le nuove regole in materia di esercizio,
conduzione, controllo, manutenzione e ispezione degli
impianti termici per la climatizzazione invernale ed estiva
degli edifici e per la preparazione dell’acqua calda per usi
igienici sanitari.
Di seguito segnaliamo i punti più interessanti previsti dal
Decreto. ... (04.07.2013 - link a www.acca.it). |
LAVORI PUBBLICI: Polizze
assicurative per i cantieri: ecco una guida utile per il
direttore dei lavori e per le imprese.
In base alla norme vigenti, le imprese edili sono spesso
chiamate a stipulare polizze assicurative a copertura o
fidejussione dei loro impegni assunti in qualità di
esecutori di opere.
E la maggior parte di esse sono obbligatorie: ad esempio, in
caso di lavori pubblici, l’impresa deve stipulare le
seguenti polizze assicurative:
►
fidejussione provvisoria;
►
fidejussione definitiva;
►
fidejussione per svincolo ritenute di garanzia sugli Stati
Avanzamento Lavori;
►
Responsabilità Civile verso Terzi ed Operai (RCT-RCO);
►
polizza CAR (Constructor’s All Risks).
Altri tipi di polizze sono inoltre previste dalla Legge
210/2004, come ad esempio quelle a tutela di chi acquista un
immobile, ossia la fidejussione a garanzia
dell’anticipazione degli acconti versati dall’acquirente
all’impresa esecutrice per l’acquisto dell’immobile ancora
da costruire e la polizza postuma decennale.
Al fine di aiutare il direttore dei lavori a valutare
l’esistenza, l’adeguatezza e la correttezza delle polizze
sottoscritte dalle imprese con cui lavora, l'Associazione
dei geometri fiscalisti (Agefis) ha pubblicato la guida “Le
polizze assicurative obbligatorie per l’esecutore dell’opera
- cenni utili per il direttore dei lavori”, nella quale
sono evidenziate le caratteristiche principali delle stesse.
Nella guida proposta in allegato sono presenti definizioni,
casistiche e riferimenti normativi, utili quindi sia alle
imprese che ai tecnici chiamati a dirigere i lavori ed a
gestire le contabilità di cantiere di lavori pubblici e
privati
(04.07.2013 - link a www.acca.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIEN TE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 28 dell'08.07.2013, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 30.06.2013, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935"
(comunicato
regionale 01.07.2013 n. 85). |
SINDACATI & ARAN |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Possibili contenuti di un contratto decentrato integrativo -
Indice ragionato (Comparto Regioni e Autonomie locali -
Personale non dirigente) (ARAN, marzo 2013). |
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
LAVORI PUBBLICI: Qualificazione
per le gare. Imprese a rischio paralisi.
Limitare l'obbligo per le stazioni appaltanti di emettere
digitalmente i certificati di esecuzione ai soli lavori
seguiti dopo il 2006 e comunque rinviare il divieto di
utilizzo dei certificati cartacei alla fine dell'anno, pena
l'impossibilità per molte imprese di ottenere la
qualificazione per le gare.
È la richiesta formulata all'Autorità per la vigilanza da
Unionsoa e Usi, Unione Soa italiane, con una lettera
congiunta a firma di Antonio Bargone e Marta Ciummo,
rispetto al problema delle certificazioni di esecuzione dei
lavori rilasciate dalle amministrazioni alle imprese di
costruzioni.
La
deliberazione 23.05.2013 n. 24 dell'organismo di
vigilanza ha infatti ribadito che è escluso l'utilizzo dei
Certificati di esecuzione lavori (Cel) cartacei ai fini
dell'ottenimento dell'attestazione di qualificazione che le
Soa (Società organismi di attestazione) rilasciano alle
imprese per qualificarsi alle gare di importo superiore a
150.000 euro.
In realtà fin dal 2006 le stazioni appaltanti sono obbligate
a emettere i Cel esclusivamente in formato digitale ma, come
si legge nella lettera inviata al Consiglio dell'Autorità di
controllo, ancora oggi molte di esse dichiarano di non avere
ancora l'accesso al portale Avcp, utile per la pubblicazione
dei Cel digitali, preferendo invece la trasmissione dei
certificati in maniera tradizionale cartacea.
Per Unionsoa e Usi, soltanto un numero esiguo di stazioni
appaltanti avrebbe utilizzato la procedura telematica. Le
due associazioni evidenziano quindi che «la cogenza
immediata e letterale dei contenuti della citata
Deliberazione n. 24/2013 determinerebbe gravi e
incontrollabili problemi operativi in capo a tutti gli
attori del sistema».
Da un lato, le «molteplici difficoltà operative lamentate
nel corso degli anni dalle stazioni appaltanti
nell'inserimento dei Cel» e, dall'altro, la proroga fino
al dicembre 2015 dell'utilizzo dei certificati lavori
relativi agli ultimi dieci anni (di cui al decreto del
fare), unita al perdurare degli effetti dell'art. 357 - dpr
207/2010 riguardo le attestazioni nelle categorie variate,
sono elementi negativi tali da determinare «l'impossibilità
per moltissime imprese di dimostrare la capacità tecnica per
la qualificazione con la conseguente alterazione del
principio della libera concorrenza e gravi ripercussioni sul
regolare andamento del mercato dei contratti pubblici».
Da ciò la richiesta di un rinvio al primo gennaio 2014 e
della limitazione ai soli lavori post 2006 (articolo
ItaliaOggi del 09.07.2013). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
La natura ed il contenuto della pianificazione
urbanistica, e in particolare dei piani regolatori,
consentono l’erogazione dell’incentivo, ex art. 92, comma 6,
del Codice dei Contratti pubblici, a favore dei dipendenti
che abbiano redatto tali strumenti urbanistici, se e nella
misura in cui, sulla base dell’accertamento condotto
dall’amministrazione procedente, tali atti afferiscono alla
progettazione di opere o impianti pubblici o di uso
pubblico.
---------------
Il Sindaco del Comune di Cremona, con nota del
28.05.2013, ha formulato alla Sezione una richiesta di
parere inerente la corretta applicazione dell’art. 92, comma
6, del d.lgs n. 163/2006.
Il quesito è posto anche al fine di chiarire la portata
applicativa del precedente parere n. 72/2013, reso dalla
scrivente Sezione regionale, in particolare laddove afferma
che “ciò che rileva ai fini della riconoscibilità del
diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen juris
attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo
contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione
di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di
progettualità interna, rispetto ad un mero atto di
pianificazione generale (piano regolatore o variante
generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione
dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al
dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente
spettante”.
Ciò premesso, il caso specifico del Comune di Cremona
afferisce ad atti di pianificazione, redatti dagli uffici
interni all’Ente, realizzati, nel corso del 2012, per
addivenire alla variante al Piano regolatore generale. Gli
atti di pianificazione sono stati realizzati dagli Uffici
interni (scelta fatta in un contesto di valorizzazione
delle professionalità dell’ente, garantendo, in tal modo,
anche il contenimento della spesa). Alla luce della
deliberazione della Sezione, sopra richiamata, il Comune ha
ritenuto di sospendere, in attesa di chiarimenti,
l’erogazione delle somme da ripartire tra il personale
interno.
Il quesito sottoposto in questa sede, infatti,
attiene all’ammissibilità dell’erogazione dei compensi di
cui all’art. 92, comma 6, del D.Lgs n. 163/2006, nel caso di
una serie di opere già sviluppate a livello progettuale e
pronte per la loro realizzazione, ma non conformi al Piano
regolatore previgente, ragion per cui si è reso necessario
approntare una variante generale al fine di accompagnare e
porre in relazione le trasformazioni sottese alla città ed
al suo territorio.
Il Comune precisa che i contenuti della variante al Piano
regolatore non sono intimamente connessi alla realizzazione
di un’opera pubblica, ma a diverse e molteplici opere
pubbliche, presenti nell’atto di pianificazione, con diversi
gradi di maturazione progettuale (come da apposito
prospetto allegato all’istanza di parere).
Chiede, pertanto, se la fattispecie della
redazione della variante urbanistica, con l'introduzione di
molteplici opere pubbliche, rende ammissibile l'erogazione
dell'incentivo di cui all'art. 92, comma 6, del d.lgs
163/2006, tenendo anche conto del recente parere normativo
rilasciato dall'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici n. 22 del 21.11.2012, in base al quale "l'atto
di pianificazione comunque denominato di cui al comma 6
dell'art. 92 del D.Lgs 163/2006…, anche in forma mediata,
inerisce a opere o impianti pubblici. La natura stessa e il
contenuto della pianificazione urbanistica e, in
particolare, dei piani regolatori consente, pertanto,
l’erogazione dell’incentivo ex art. 92, comma 6 del Codice
dei contratti pubblici a favore dei dipendenti che abbiano
partecipato alla redazione di tali strumenti urbanistici, in
quanto tali atti afferiscono, sia pure mediatamente, alla
progettazione di opere o impianti pubblici o di uso
pubblico, dei quali definiscono l’ubicazione nel tessuto
urbano".
...
Ai sensi dell’articolo 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2003,
c.d. codice dei contratti pubblici, “il trenta per cento
della tariffa professionale relativa alla redazione di un
atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con
le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al
comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice
che lo abbiano redatto”.
Su tale disposto normativo la Sezione si è più volte
pronunciata. Non solo con la Deliberazione n. 73/2013,
richiamata dal Comune istante, ma anche, per esempio, con le
precedenti nn. 57, 259 e 440 del 2012, cui si fa rinvio.
La norma, alla pari di quella contenuta nel precedente comma
5, disciplinante il c.d. “incentivo alla progettazione”,
va letta nel complessivo contesto delle modalità
d’affidamento degli incarichi tecnico professionali,
previsti dalla legislazione in materia di contratti
pubblici. Quest’ultima (si rinvia agli artt. 10, 84, 90,
112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006) è informata da un
principio generale, già codificato dall’art. 7, comma 6, del
d.lgs. n. 165/2001, in base al quale possono essere
conferiti incarichi a soggetti esterni al plesso
amministrativo solo se non si disponga di professionalità
adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia
altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di gestione
delle risorse umane. Il presupposto mira a preservare le
finanze pubbliche oltre che a valorizzare il personale
interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi ordinarie, in cui gli incarichi
tecnici siano espletati da dipendenti in organico, ai fini
della loro remunerazione, occorre far riferimento alle
regole generali previste per il pubblico impiego, il cui
sistema retributivo è conformato da due principi cardine,
quello di definizione contrattuale delle componenti
economiche e quello di onnicomprensività della retribuzione
(cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché
Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Puglia,
sentenze nn. 464, 475 e 487 del 2010).
Il c.d. “incentivo alla progettazione” (art. 92,
comma 5) e l’analogo compenso per la redazione di atti di
pianificazione (art. 92 comma 6), previsti dal Codice dei
contratti pubblici, costituiscono uno dei casi nei quali il
legislatore, derogando al principio per cui il trattamento
economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce
direttamente un compenso ulteriore.
Alla luce di tali considerazioni di carattere generale,
inerenti il carattere eccezionale della previsione
normativa, la Sezione aveva già concluso, nei pareri sopra
richiamati, nel senso che l’art. 92, comma 6, del d.lgs. n.
163/2006 abilita a riconoscere uno speciale compenso, al di
là del trattamento economico contrattualmente spettante,
solo in presenza di due elementi: a) sul piano dell’oggetto,
che la prestazione consista nella diretta “redazione di
un atto di pianificazione”, non in attività variamente
sussidiarie nel contesto dell’attività di governo del
territorio, che rientrano nei doveri d’ufficio dei
dipendenti; b) che la redazione dello stesso non sia stata
esternalizzata ad un professionista esterno (cfr.
parere 06.03.2013 n.
72,
nonché in precedenza deliberazione n. 9/2009).
Quanto al corretto significato da attribuire alla locuzione
“atto di pianificazione”, era stato richiamato
l’orientamento espresso dalla Sezione regionale di controllo
per il Piemonte (cfr.
parere 30.08.2012 n. 290),
a tenore del quale, l’atto di pianificazione, comunque
denominato, deve necessariamente riferirsi ed essere
collegato alla progettazione di opere pubbliche e non essere
un mero atto di pianificazione territoriale (cfr., altresì,
la Sezione nel
parere 30.05.2012 n. 259
e
parere 06.03.2012 n. 57,
oltre che le deliberazioni della Sezione contr. Puglia,
parere 16.01.2012 n. 1,
e Sezione contr. Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213).
A conclusioni non differenti sembra giungere il
parere sulla normativa 21.11.2011 - rif. AG-22/12
rilasciato dall'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici, citato dal Comune istante, che, nel percorso
motivazionale, richiama in modo ricorrente i precedenti
pronunciamenti delle Sezioni regionali di controllo in sede
consultiva.
Secondo l’Autorità di vigilanza, la pianificazione
urbanistica, anche se in forma mediata, inerisce anche a
opere o impianti pubblici. Infatti, i piani regolatori,
strumento urbanistico di base per garantire un ordinato e
corretto assetto del territorio, contengono, tra le altre,
sia previsioni c.d. di zonizzazione, che suddividono il
territorio comunale in zone omogenee (specificando quelle
con vocazione edificatoria ed i vincoli da osservare in
ciascuna di esse), sia norme di localizzazione di aree
destinate a formare spazi di uso pubblico, ovvero riservate
a edifici pubblici o di uso pubblico, a opere e impianti
pubblici o di pubblico interesse (tanto che tali previsioni
sono considerate dalla giurisprudenza ad effetto
sostanzialmente espropriativo, se riguardanti beni di
proprietà privata).
Pertanto la natura ed il contenuto della pianificazione
urbanistica e, in particolare, dei piani regolatori
consentono l’erogazione dell’incentivo, ex art. 92, comma 6,
del Codice dei contratti pubblici, a favore dei dipendenti
che abbiano redatto tali strumenti urbanistici, se e nella
misura in cui, sulla base dell’accertamento condotto
dall’amministrazione procedente, tali atti afferiscono alla
progettazione di opere o impianti pubblici o di uso pubblico
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 03.07.2013 n. 279). |
APPALTI:
E’ funzione propria della Stazione Unica Appaltante
(S.U.A.), come prevista dal DPCM che ha dato attuazione alla
previsione dell’art. 13 della legge n. 136/2010, collaborare
con l'ente aderente alla corretta individuazione dei
contenuti dello schema del contratto, tenendo conto che lo
stesso deve garantire la piena rispondenza del lavoro, del
servizio e della fornitura alle effettive esigenze degli
enti interessati.
La circostanza che alcune delle funzioni sopra indicate
facciano riferimento a una procedura di “gara” non vale,
secondo questa Sezione, a circoscriverne l’attività alle
sole procedure nelle quali la gara è obbligatoria e,
pertanto, non vale a escluderne la ricorrenza allorquando,
nelle procedure per l’affidamento di lavori di importo
inferiore a 1 milione di euro, l’art. 122, comma 7, del
“Codice” ammette la procedura negoziata senza pubblicazione
di un bando di gara, ex art. 57, comma 6 dello stesso
“Codice”.
La disposizione sopra ricordata (art. 13, L. n. 136/2010),
che ha previsto l’istituzione, in ambito regionale, di una o
più stazioni uniche appaltanti (S.U.A.), ha, infatti, come
ulteriore finalità quella di assicurare la trasparenza, la
regolarità e l’economicità della gestione dei contratti
pubblici e di prevenire il rischio di infiltrazioni mafiose.
Ovviamente, stante la natura volontaria dell’adesione
dell’Ente alla S.U.A., occorrerà verificare, nel caso di
specie, come la convenzione ha regolato i rapporti tra SUA e
l’ente aderente, dal momento che è la convenzione che,
appunto, determina l’ambito di operatività della S.U.A..
---------------
L’art. 23, c. 4, del D.L. 06.12.2011 n. 201 [recante “Disposizioni
urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei
conti pubblici” (conv. con modificazioni dalla L.
22.12.2011, n. 214)] dispone che all’articolo 33 del
d.lgs.vo n. 163/2006 sia aggiunto il comma 3-bis.
Il comma così aggiunto stabilisce che “I Comuni con
popolazione non superiore a 5.000 abitanti ricadenti nel
territorio di ciascuna Provincia affidano obbligatoriamente
ad un’unica centrale di committenza l’acquisizione di
lavori, servizi e forniture nell'ambito delle unioni dei
comuni, di cui all'articolo 32 del testo unico di cui al
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, ove esistenti,
ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i
comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici. In
alternativa, gli stessi Comuni possono effettuare i propri
acquisti attraverso gli strumenti elettronici di acquisto
gestiti da altre centrali di committenza di riferimento, ivi
comprese le convenzioni di cui all'articolo 26 della legge
23.12.1999, n. 488, e il mercato elettronico della pubblica
amministrazione di cui all'articolo 328 del decreto del
Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207”.
Il Sindaco del Comune istante espone che l’Ente, con atto
consiliare (non indicato), è stato individuato quale
Stazione Unica Appaltante in forma associata (S.U.A.). Tale
organismo, secondo quanto previsto dall’art. 13 della legge
n. 136/2010 e secondo il DPCM 30.06.2011 che lo regola, ha
natura giuridica di centrale di committenza (art. 3, comma
34, D.Lgs.vo 12.04.2006, n. 163), e cura, per conto degli
aderenti, l’aggiudicazione di contratti pubblici per la
realizzazione di lavori, la prestazione di servizi e
l’acquisizione di forniture, ai sensi dell'articolo 33 del
citato D.Lgs.vo n. 163/2006, svolgendo tale attività in
ambito regionale, provinciale ed interprovinciale.
Tanto esposto, il quesito sottoposto all’esame di questa
Sezione regionale di controllo mira a conoscere se la
procedura negoziata senza bando, di cui all’art. 122, comma
7, del D.Lgs.vo n. 163/2006, è funzione assorbita dalla
Centrale di committenza o resta in capo al singolo ente,
attesa l’assenza di pubblicità del bando, ovvero dell’invito
a presentare l’offerta, e per essere il RUP a procedere
all’affidamento previa individuazione diretta, da parte
dello stesso RUP, degli operatori economici nel rispetto del
medesimo art. 122, comma 7, citato.
...
Ciò posto, in attesa che trovi attuazione il precetto di cui
al citato art. 33-bis a far data dal termine del 31.12.2013, secondo la proroga da ultimo concessa, il quesito
sottoposto all’esame di questa Sezione regionale di
controllo acquista un più circoscritto rilievo, mirando a
conoscere se la procedura negoziata senza bando, di cui
all’art. 122, comma 7, del D.Lgs.vo n. 163/2006, è funzione
assorbita dalla Centrale di committenza o resta in capo al
singolo ente, attesa l’assenza di pubblicità del bando,
ovvero dell’invito a presentare l’offerta, e per essere il
RUP a procedere all’affidamento previa individuazione
diretta, da parte dello stesso RUP, degli operatori
economici nel rispetto del medesimo art. 122, comma 7,
citato.
In altre parole, il quesito mira a sapere se anche per i
contratti pubblici aventi per oggetto lavori, servizi e
forniture di importo sotto la soglia di rilevanza
comunitaria, in particolare per i lavori di importo
complessivo inferiore a 1 milione di euro (art. 122, comma 7,
del “Codice”), la procedure negoziata senza la previa
pubblicazione del bando (art. 57, comma 6 del “Codice”)
resti ascritta all’attività della S.U.A. (centrale di
committenza), ovvero resti nella disponibilità dell’Ente,
attesa l’assenza di pubblicità del bando e atteso che è il RUP a procedere all’affidamento, previa individuazione
dell’operatore economico.
Il quesito non concerne l’ambito di applicazione
dell’art. 33-bis del “Codice”, se cioè esso si estende anche
ai contratti sotto soglia o sia da applicarsi esclusivamente
ai contratti sopra la soglia di rilevanza comunitaria (sul
punto ci si limita a segnalare l’esistenza di pronunciamenti
in sede consultiva della Sezione di controllo Piemonte,
delibera n. 271/2012 e della Sezione di controllo per la
Lombardia, delibera n. 165/2013).
La questione riguarda se in capo all’Ente che abbia aderito
a una Stazione Unica Appaltante residui la possibilità, in
caso di contratti sotto soglia, di svolgere attività e
funzioni per l’affidamento del contratto senza dover fare
ricorso alla centrale di committenza (S.U.A.).
Orbene, è funzione propria della S.U.A., come prevista dal
DPCM che ha dato attuazione alla previsione dell’art. 13
della legge n. 136/2010, collaborare con l'ente aderente
alla corretta individuazione dei contenuti dello schema del
contratto, tenendo conto che lo stesso deve garantire la
piena rispondenza del lavoro, del servizio e della fornitura
alle effettive esigenze degli enti interessati. In questa
funzione la S.U.A. non solo concorda con l’ente aderente la
procedura di gara per la scelta del contraente, ma
definisce, sempre in collaborazione con l'ente aderente, il
criterio di aggiudicazione ed eventuali atti aggiuntivi e
definisce in caso di criterio dell'offerta economicamente
più vantaggiosa, i criteri di valutazione delle offerte e le
loro specificazioni. Infine cura gli adempimenti relativi
allo svolgimento della procedura di gara in tutte le sue
fasi, ivi compresi gli obblighi di pubblicità e di
comunicazione previsti in materia di affidamento dei
contratti pubblici e la verifica del possesso dei requisiti
di ordine generale e di capacità economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa.
La circostanza che alcune delle funzioni sopra indicate
facciano riferimento a una procedura di “gara” non vale,
secondo questa Sezione, a circoscriverne l’attività alle
sole procedure nelle quali la gara è obbligatoria e,
pertanto, non vale a escluderne la ricorrenza allorquando,
nelle procedure per l’affidamento di lavori di importo
inferiore a 1 milione di euro, l’art. 122, comma 7, del “Codice”
ammette la procedura negoziata senza pubblicazione di un
bando di gara, ex art. 57, comma 6, dello stesso “Codice”.
Ritenere che l’attività della S.U.A. si risolva soltanto
nell’ambito delle prescrizioni che il legislatore nazionale
ha dettato per adeguarsi alle prescrizioni comunitarie in
materia di concorrenza nell’affidamento dei contratti
pubblici, non tiene conto, a parere di questa Sezione, del
fatto che la disposizione sopra ricordata (art. 13, L. n.
136/2010), che ha previsto l’istituzione, in ambito
regionale, di una o più stazioni uniche appaltanti (SUA), ha
come ulteriore finalità quella di assicurare la trasparenza,
la regolarità e l’economicità della gestione dei contratti
pubblici e di prevenire il rischio di infiltrazioni mafiose.
Ovviamente, stante la natura volontaria dell’adesione
dell’Ente alla S.U.A., occorrerà verificare, nel caso di
specie, come la convenzione ha regolato i rapporti tra SUA e
l’ente aderente, dal momento che è la convenzione che,
appunto, determina l’ambito di operatività della SUA, con
riferimento ai contratti pubblici di lavori, di forniture e
servizi, “sulla base degli importi di gara o di altri
criteri in relazione ai quali se ne chiede il coinvolgimento
nonché i rapporti e le modalità di comunicazioni tra il
responsabile del procedimento ai sensi dell'articolo 10 del
decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, ed il responsabile
del procedimento della SUA ai sensi della legge 07.08.1990,
n. 241” (art. 4, comma 1, lett. a), DPCM 30.06.2011)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata,
deliberazione
01.07.2013 n. 98). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Circa la corretta interpretazione dell'art. 92, comma 6, d.lgs.
163/2006, disciplinante gli incentivi alla progettazione
interna quest'ultimi possono essere erogati solo in
presenza di atti che abbiano ad oggetto la pianificazione
collegata alla realizzazione di opere pubbliche e non anche
a fronte di atti di pianificazione generale.
---------------
Conseguentemente all'abrogazione delle tariffe
professionali, il parametro sulla base del quale calcolare
il trenta per cento delle tariffe da corrispondere si
evincerà dai criteri di determinazione dei corrispettivi da
porre a base di gara, che saranno stabiliti con regolamento
ministeriale. Nelle more dell'approvazione del regolamento,
gli enti locali individueranno i parametri provvisori,
eventualmente riproponendo le tariffe professionali, o
utilizzando i criteri già elaborati dal Ministero della
giustizia.
---------------
Il Sindaco di Rimini ha inoltrato a questa sezione, ai sensi
dell’art. 7, comma 8, della legge 131/2003, una richiesta di
parere avente ad oggetto l’ambito oggettivo di applicazione
della normativa sugli incentivi alla progettazione interna,
di cui all’art. 92, comma 6, d.lgs. 12.04.2006, n. 163,
nonché le modalità di quantificazione del compenso.
Il Sindaco domanda, in particolare, se per riconoscere
gli incentivi de quibus occorra, quale presupposto
necessario, che l’atto di pianificazione risulti finalizzato
alla realizzazione di opere pubbliche, oppure se l’incentivo
possa essere ripartito anche a fronte di un mero atto di
pianificazione generale.
Viene chiesto, inoltre, l’avviso di questa sezione in
merito alle corrette modalità di quantificazione del
compenso finalizzato ad incentivare l’attività di
progettazione interna, conseguentemente all’abrogazione
delle tariffe professionali. Il Sindaco di Rimini, alla luce
di tale abrogazione, prospetta anche la questione relativa
alla vigenza della previsione in forza della quale il trenta
per cento della tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione è ripartito tra i
dipendenti pubblici che lo abbiano redatto.
...
Mediante la prima richiesta di parere viene chiesto se gli
incentivi alla progettazione interna siano riconoscibili
solo ove l’atto di pianificazione risulti finalizzato alla
realizzazione di opere pubbliche, oppure se possa essere
legittimamente corrisposto anche in presenza di un atto di
pianificazione generale.
Preliminarmente, è necessario analizzare l’art. 92, comma 6,
del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, rubricato “Codice dei
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE” , che
disciplina gli incentivi alla progettazione interna
prevedendo che “il trenta per cento della tariffa
professionale relativa alla redazione di un atto di
pianificazione comunque denominato è ripartito, con le
modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al
comma 5 tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice
che lo abbiano redatto”.
Gli incentivi de quibus, secondo la consolidata
giurisprudenza di questa Corte, hanno la finalità di
incoraggiare i dipendenti delle amministrazioni pubbliche ad
eseguire attività di progettazione internamente agli uffici,
allo scopo di diminuire i costi delle attività collegate
alla progettazione delle opere pubbliche. La previsione pone
una deroga al principio generale della onnicomprensività del
trattamento economico dei dipendenti pubblici e, pertanto, dev’essere interpretata restrittivamente.
Sulla questione non si ravvisano motivi per discostarsi
dall’orientamento in materia, ormai consolidato, che emerge
da pareri resi da diverse Sezioni regionali di controllo di
questa Corte, nel senso che il riferimento ad un “atto di
pianificazione”, operato del richiamato art. 92, comma 6,
d.lgs. 163/2006, è da intendersi come limitato ai soli atti
che abbiano ad oggetto la pianificazione collegata alla
realizzazione di opere pubbliche, e non anche ad atti di
pianificazione generale, quali possono essere la redazione
del piano regolatore o di una variante generale (ex multis,
Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la
Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213,
Sezione regionale di controllo per il Piemonte,
parere 30.08.2012 n. 290
e Sezione regionale di controllo Campania,
parere 10.04.2013 n. 141).
Gli atti di pianificazione generale, infatti, costituiscono
diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente e
non giustificano la deroga al principio di onnicomprensibilità della retribuzione. Per una disamina più
approfondita delle ragioni di diritto sottostanti a tale
interpretazione, si rimanda alle deliberazioni citate.
La seconda richiesta di parere riguarda la quantificazione
del compenso incentivante, alla luce dell’abrogazione delle
tariffe professionali.
Il Sindaco di Rimini, nel formulare
il quesito, domanda preliminarmente se sia da considerarsi
vigente la previsione per la quale il trenta per cento della
tariffa professionale, relativa alla redazione di un atto di
pianificazione, è ripartito tra i dipendenti pubblici che lo
abbiano redatto.
L’art. 9, comma 1 del decreto legge 24.01.2012, n. 1,
rubricato “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo
sviluppo delle infrastrutture e la competitività” (c.d.
“decreto sviluppo 2012”), convertito, con modificazioni,
dalla legge 24.03.2012, n. 27, ha stabilito che “Sono
abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel
sistema ordinistico”.
Il successivo comma 2, tuttavia, ha
previsto che, ”ferma restando l’abrogazione di cui al comma
1, nel caso di liquidazione da parte di un organo
giurisdizionale, il compenso del professionista è
determinato con riferimento a parametri stabiliti con
decreto del Ministro vigilante, da adottare nel termine di
120 giorni successivi alla data di entrata in vigore della
legge di conversione del presente decreto (…) Ai fini della
determinazione dei corrispettivi da porre a base di gara
nelle procedure di affidamento di contratti pubblici dei
servizi relativi all’architettura e all’ingegneria di cui
alla parte II, titolo I, capo IV del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, si applicano i parametri individuati
con il decreto di cui al primo periodo, da emanarsi, per gli
aspetti relativi alle disposizioni di cui al presente
periodo, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e
dei trasporti; con il medesimo decreto sono altresì definite
le classificazioni delle prestazioni professionali relative
ai predetti servizi. I parametri individuati non possono
condurre alla determinazione di un importo a base di gara
superiore a quello derivante dall’applicazione delle tariffe
professionali vigenti prima dell’entrata in vigore del
presente decreto”.
Il comma 3 stabilisce che “Le tariffe
vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto
continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione
delle spese giudiziali, fino alla data di entrata in vigore
dei decreti ministeriali di cui al comma 2…”; infine, ai
sensi del comma 5 “sono abrogate le disposizioni vigenti
che, per la determinazione del compenso del professionista,
rinviano alle tariffe di cui al comma 1”.
L’abrogazione delle tariffe professionali non ha eliminato
la necessità di una normativa che disciplini sia la
liquidazione del compenso di un professionista da parte di
un organo giurisdizionale, sia la determinazione degli
importi da porre a base di gara, nell’affidamento dei
servizi di progettazione. A quest’ultima questione è
connessa quella del corrispettivo da riconoscere al
dipendente pubblico, nel caso di progettazione interna.
La liquidazione dei compensi riconosciuti dagli organi
giurisdizionali ai progettisti è stata regolamentata dal
Ministro della giustizia, in esecuzione di quanto previsto
dall’art. 9, comma 2, mediante decreto 20.07.2012, n.
140 (c.d. “decreto parametri”).
Per quanto concerne, invece, gli importi da porre a base di
gara nell’affidamento dei contratti pubblici di servizi
attinenti all’architettura e all’ingegneria, alla quale è
connessa la questione del compenso conseguente all’attività
di progettazione interna, l’atteso regolamento (“decreto
parametri-bis”) non è stato ancora approvato.
Questa sezione preliminarmente evidenzia che
l’avvenuta
soppressione delle tariffe professionali, ad opera
dell’art. 9, del citato d.l. 1/2012 non ha implicitamente
abrogato la previsione di cui all’art,. 92, comma 6, del
d.lgs. 163/2006, disciplinante gli incentivi per la
progettazione interna per i quali, pertanto, si pone solo un
problema di quantificazione.
L’art. 9 spiega che “sono abrogate le disposizioni vigenti
che, per la determinazione del compenso del professionista,
rinviano alle tariffe di cui al comma 1” e limita la
possibilità di continuare ad applicare le tariffe vigenti,
fino all’entrata in vigore dei decreti ministeriali, alla
sola liquidazione delle spese giudiziali. Ne consegue che
le
tariffe professionali non sono direttamente applicabili per
determinare l’ammontare degli incentivi oggetto del presente
parere.
Il regolamento ministeriale che verrà emanato in
applicazione dell’art. 9, comma 2, del citato decreto legge,
allo scopo di stabilire i criteri di corretta determinazione
dei corrispettivi da porre a base di gara nelle procedure di
affidamento dei servizi di architettura ed ingegneria, potrà
costituire lo strumento utile per individuare il parametro
sulla base del quale calcolare il trenta per cento da
corrispondere ai dipendenti pubblici in presenza di una
progettazione interna.
Peraltro, a supporto di questa ricostruzione è possibile
ricordare che, se è vero che si tratta di individuazione dei
corrispettivi da porre a base di gara, è altresì da
considerare che, comunque, come previsto
dall’art. 9, i parametri individuati dal decreto non
potranno condurre alla determinazione di un importo
superiore a quello che sarebbe derivato dall’applicazione
delle tariffe professionali.
Nelle more dell’approvazione del
regolamento ministeriale, invece, gli enti locali,
nell’esercizio della propria discrezionalità,
individueranno, in via regolamentare, i parametri provvisori
da utilizzare come base per calcolare il trenta per cento,
da riconoscere ai dipendenti quale incentivo alla
progettazione interna. A tal fine, potrebbero essere
riproposte provvisoriamente le abrogate tariffe
professionali o, in alternativa, essere utilizzati i criteri
già elaborati dal Ministero della Giustizia
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 25.06.2013 n. 243). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
L'avvocato del comune diventa dirigente.
Per la corte conti non c'è responsabilità amministrativa.
Il reinquadramento automatico di un avvocato (dipendente di
ente locale) a dirigente non determina la maturazione di
responsabilità amministrativa in quanto vi sono numerosi
dubbi sulla illegittimità di tale scelta.
Possono essere
così sintetizzati gli elementi essenziali contenuti nella
sentenza 11.06.2013 n. 366 con cui la I Sez. di
appello della Corte dei conti ha assolto gli amministratori
di un comune.
La sentenza ribalta la condanna che in primo
grado era stata irrogata dai giudici contabili della
Campania. Le indicazioni della pronuncia risultano
convincenti sulla mancanza di colpa grave, anche alla luce
del carattere non consolidato della giurisprudenza, mentre
non sono attente alle ragioni per cui i reinquadramenti
cozzano con i principi di carattere generale che presiedono
alla organizzazione dell'ente locale e possono stimolare il
contenzioso perché tutti gli avvocati dipendenti degli enti
locali si sentono legittimati nella richiesta di diventare
dirigenti, anche in comuni in cui non esiste la dirigenza.
Il caso concreto nasce dalla accettazione da parte di un
comune della conciliazione intervenuta con un proprio
dipendente procuratore legale che, a seguito del superamento
della distinzione tra questa figura e quella di avvocato,
aveva chiesto il reinquadramento come dirigente.
Il punto di base della sentenza è che vi sono numerose
pronunce tanto del giudice civile del lavoro (Trib. Napoli,
sent. 04.03.2003, n. 1392) che del giudice amministrativo
(Consiglio di stato, 02.02.2009, n. 561) che affermano
il diritto degli avvocati di ente pubblico, di qualifica
direttiva, ad essere inquadrati nella dirigenza, proprio (e
solamente) in virtù dell'entrata in vigore della legge n.
27/1997, che aveva unificato le figure professionali di
avvocato e di procuratore legale.
Sulla base di questa
constatazione viene ricostruito il possibile percorso logico
da porre a base della decisione: «non è del tutto
irragionevole che il sindaco e gli assessori competenti del
comune abbiano ritenuto opportuno aderire al tentativo di
conciliazione al fine di evitare gli ulteriori aggravi
economici di una soccombenza in giudizio, ritenuta probabile
(a ragione o a torto, ma non infondatamente), per di più in
presenza di una norma di legge che consente anche alle
pubbliche amministrazioni la transazione giudiziale, anzi
incentiva tale strumento». Ricordiamo che in materia di
conciliazione la normativa in vigore alla data in cui l'ente
ha effettuato tale scelta escludeva il maturare di
responsabilità amministrativa in caso di conciliazione. La
normativa attualmente in vigore, contenuta nell'art. 31
della legge 04.11.2010, n. 183, stabilisce che la
conciliazione «non può dar luogo a responsabilità, salvi i
casi di dolo e colpa grave».
Si deve aggiungere che comunque la soluzione della
conciliazione giudiziale non è strumento idoneo a superare
una prescrizione di legge. Ed infatti, nel caso non è
sostenibile che il limite delle norme imperative sia stato
superato.
La sentenza prosegue affermando che «la sentenza della
Cassazione civile, sezione lavoro n. 5869 del 17.03.2005,
chiarisce che in realtà la Suprema corte enuncia il
principio che la riforma introdotta nella legge n. 27 del
1997 non imponeva, né impone, all'amministrazione comunale
di avere un unico ruolo di avvocati municipali, tutti
inquadrati come dirigenti: ebbene, il non imporre indica una
situazione nettamente differenziata e non riconducibile al
vietare, presupponendo più opzioni, parimenti legittime, di
natura latamente discrezionale afferenti l'esercizio di
potestà organizzatoria, in ordine alla determinazione delle
più efficienti ed adeguate modalità di organizzazione degli
uffici legali».
Ed ancora «non vi è un indirizzo univoco,
vincolante in un senso anziché nell'altro le scelte
organizzative dell'ente locale, bensì un'ampia sfera di
autonoma e discrezionale valutazione». Nella stessa
direzione va la decisione n. 6336/2009 del Consiglio di
stato, sezione V; essa, infatti, si limita a rilevare che
l'art. 3 del rdl n. 1578 del 1933 non impone al datore di
lavoro pubblico di adottare una organizzazione degli uffici
tale da individuare nell'ufficio legale una struttura
necessariamente apicale, del tutto autonoma.
La lettura proposta nella sentenza della prima sezione di
appello della magistratura contabile appare francamente
assai poco convincente, anche alla luce dei principi più
volte affermati dalla giurisprudenza della stessa Corte dei
conti in materia di scelte organizzative, con particolare
riferimento alla considerazione che i costi aggiuntivi
determinati dalle scelte autonome devono essere
adeguatamente motivati e spiegati in termini di interesse
generale (articolo ItaliaOggi del
05.07.2013). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI:
Accesso agli atti.
Domanda
Vorrei sapere se nell'ambito di una gara per i servizi di
assistenza domiciliare anziani la ditta arrivata seconda ha
diritto di avere copia del progetto di chi l'ha preceduta.
Naturalmente la prima classificata ha già risposto di
opporsi a quest'evenutalità in quanto il progetto presentato
è frutto del proprio lavoro, anche tramite dei consulenti
pagati appositamente, e del proprio know-how.
Risposta
L'esigenza di permettere l'accesso agli atti in una
procedura di gara è contemperato dalla corrispondente
esigenza di tutela del c.d. know-how e della tutela
giudiziaria. Come noto, l'art. 3 del Dpr 184/2006 prevede
espressamente la notifica ai controinteressati, i quali
devono essere messi nella condizione di poter esercitare la
propria opposizione alla richiesta di accesso formulata da
un altro concorrente.
Ovviamente tale opposizione deve essere motivata e, in
relazione alla contrattualistica pubblica, ai sensi
dell'art. 13, comma 5, D.lgs. 163/2006, potrebbe essere
basata su una delle ragioni che permettono la sottrazione
all'accesso:
a) informazioni fornite dagli offerenti nell'ambito delle
offerte ovvero a giustificazione delle medesime, che
costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione
dell'offerente, segreti tecnici o commerciali;
b) eventuali ulteriori aspetti riservati delle offerte, da
individuarsi in sede di regolamento;
c) pareri legali acquisiti dai soggetti tenuti
all'applicazione del presente codice, per la soluzione di
liti, potenziali o in atto, relative ai contratti pubblici;
d) relazioni riservate del direttore dei lavori e
dell'organo di collaudo sulle domande e sulle riserve del
soggetto esecutore del contratto.
Nel caso di specie, viene in considerazione soprattutto la
lettera a) prima citata che, tuttavia, cede all'esigenza di
avere una adeguata tutela giudiziaria, in base alle
prescrizioni di cui all'art. 13, comma 6, del codice dei
contratti. Per rafforzare la protezione della tutela dei
dati progettuali, in alcuni casi il bando o il disciplinare
prevedono specifiche indicazioni a tal proposito, ma, anche
in questo caso, la tutela è comunque cedevole nel caso in
cui il documento sia presupposto dall'indagine giudiziaria.
In questo senso, recentemente si è espressa la
giurisprudenza, la quale ha chiarito che "La normativa
sull'accesso è funzionale a garantire altri interessi e in
questi limiti consente la visione e l'estrazione di copia.
Pertanto, poiché né il diritto di autore né la proprietà
industriale precludono la riproduzione sic et simpliciter,
ma solo la riproduzione che consenta uno sfruttamento
economico e non essendo l'accesso lesivo di tale diritto
all'uso economico esclusivo del progetto, l'ostensione va
consentita, fermo restando che l'uso appropriato delle
informazioni così ottenute, rappresentato esclusivamente
dalla strumentalità alla tutela dell'interesse fatto valere,
costituisce non solo la funzione per cui è consentito
l'accesso stesso, ma anche il limite di utilizzo dei dati
appresi" (TAR, Bari, Puglia, sez. II, 13.02.2013, n.
217) (09.07.2013 - tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
I titoli abilitativi per presentare domanda di AUA indicati
dal regolamento sono esaustivi? Il gestore può decidere di
non presentare la domanda? (08.07.2013 - link a
www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Autorizzazione
integrata (Aia).
Domanda
L'Autorizzazione
integrata ambientale (Aia), già avviata, preclude la
possibilità, per la pubblica amministrazione, di chiedere
una valutazione di impatto ambientale (Via)?
Risposta
L'Autorizzazione
integrata ambientale (Aia), anche se già avviata, non
preclude la possibilità, per la pubblica amministrazione, di
chiedere una Valutazione di impatto ambientale (Via).
Infatti, come affermato dal Consiglio di stato, sezione VI,
con la sentenza del 19.03.2012, numero 1541, è legittima la
richiesta della pubblica amministrazione di avviare una
nuova procedure di Valutazione di impatto ambientale (Via),
anche nel caso di procedura di Autorizzazione integrata
ambientale (Aia), già avviata, dovendosi tutelare da ogni
pericolo il fondamentale e primario diritto alla salute che,
in quanto tale, prevale nella ponderazione degli altri
interessi.
Peraltro, per i supremi giudici, detto fondamentale e
primario diritto alla salute non può essere affievolito per
il solo trascorrere del tempo dall'adozione di inadeguati
provvedimenti iniziali, rapportati a un diverso quadro di
rischi. E la Valutazione di impatto ambientale (Via) ha lo
scopo di proteggere, come afferma il legislatore
all'articolo 4, comma 4, lettera b), del decreto legislativo
03.04.2006, numero 152, la salute umana, di contribuire, con
un migliore ambiente, alla qualità della vita, di provvedere
al mantenimento della specie e di conservare la capacità di
riproduzione dell'ecosistema in quanto risorsa essenziale
per la vita.
Al riguardo, il Consiglio di stato, sezione V, con la
sentenza del 22.03.2012, numero 1640, ha puntualizzato che
la valutazione di impatto ambientale (Via) è un istituto
finalizzato alla tutela preventiva dell'ambiente in senso
ampio. Pertanto, la pubblica amministrazione, in tema di
valutazione di impatto ambientale (Via), deve esercitare «un'amplissima
discrezionalità», che non si esaurisce in un mero
giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di
verificazione tout court sulla base di oggettivi
criteri di misurazione, ma presenta al contempo, profili
particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa e
istituzionale in relazione all'apprezzamento degli interessi
pubblici e privati coinvolti.
Per inciso, si sottolinea che la normativa portata
dall'articolo 10 e dall'articolo 4, comma 4, lettera b), del
decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, succitato, così
come novellato dal decreto legislativo 29.06.2010, numero
128,: «Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo
03.04.2006, numero 152, recante norme in materia ambientale,
a norma dell'articolo 12 della legge 18.06.2009, numero 69»,
ci fa comprendere come sussista una diversità di funzione
tra Autorizzazione integrata ambientale (Aia) e Valutazione
di impatto ambientale (Via)
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.07.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Organi, decide il consiglio. Spetta all'assemblea modificare
lo Statuto. Gli istituti di partecipazione possono essere
tagliati per ridurre i costi.
Le disposizioni statutarie che prevedono l'istituzione di
organismi di partecipazione dei cittadini aventi funzioni
consultive sono tuttora compatibili con le numerose
previsioni normative volte alla riduzione della spesa?
Il legislatore statale, nell'ambito di un più generale e
complesso intervento volto alla riduzione della spesa
pubblica, è più volte intervenuto, nel corso degli ultimi
anni, con successive disposizioni finalizzate a ridurre gli
organi degli enti locali al fine di contenerne i costi di
funzionamento.
A tale proposito, giova richiamare l'art. 2, comma 186,
della legge 191 del 2009 che ha modificato la disciplina
delle circoscrizioni comunali nonché le leggi n. 42 del 2010
e 148 del 2011 che hanno previsto la riduzione dei
componenti degli organi collegiali degli enti locali. Va
fatto rilevare, quale ulteriore elemento di valutazione, che
la grave congiuntura economica, che perdura da un ampio arco
temporale, imporrebbe ai vari enti costitutivi della
repubblica un dovere di comportamento, coerente con le
esigenze superiori della Comunità nazionale; un dovere di
concorso al pubblico bene ed interesse, che trova fondamento
nei principi della stessa Costituzione.
In linea generale, gli istituti di partecipazione popolare
rientrano, ai sensi dell'art. 6, comma 2, del dlgs. n.
267/2000, nell'ambito del contenuto obbligatorio dello
statuto dei comuni e delle province.
Generalmente essi vengono declinati dai vari ordinamenti
locali nella forma di proposte di iniziativa popolare,
interrogazioni e petizioni popolari, iniziativa referendaria
ecc.
Nel caso di specie, l'organismo di cui trattasi -il
comitato di frazione, istituito con delibera consiliare, i
cui membri sono eletti dal consiglio comunale su
designazione dei gruppi consiliari- risulta configurato,
secondo il regolamento comunale, più che come un istituto di
partecipazione popolare, quale un ulteriore organo
istituzionale promanante dallo stesso consiglio comunale.
Spetta, comunque, al consiglio comunale, nella sua sovranità
ed in quanto titolare della competenza a dettare le norme
cui uniformarsi, fornire un'interpretazione autentica delle
norme statutarie e regolamentari, procedendo, ove ritenuto
necessario, alle relative modifiche ritenute opportune (articolo ItaliaOggi del
05.07.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Decadenza
dl sindaco.
Quali sono gli adempimenti conseguenti all'eventuale
deliberazione di decadenza dalla carica di sindaco, in caso
di sopravvenuta causa d'incompatibilità conseguente alla
nomina ad assessore della giunta regionale?
A seguito della modifica del titolo V della Costituzione con
la legge costituzionale n. 3/2001, spetta alle regioni
disciplinare le cause di incompatibilità alle cariche
elettive regionali; fino all'entrata in vigore delle
discipline regionali, continuano ad applicarsi le
disposizioni statali in materia, in forza del principio di
cui all'art. 1, comma 2, della legge n. 131/2003.
Nel caso di specie, il cumulo di cariche fra quella di
sindaco e quella di assessore regionale è interdetto dalle
disposizioni di cui all'art. 4 della legge n. 154/1981 e
dallo statuto regionale.
Restano, pertanto, salve le prerogative degli organi
regionali, deputati a valutare se l'espressione dell'opzione
dell'interessato a favore della carica sopravvenuta sia
idonea a far cessare lo stato d'incompatibilità.
Sotto il profilo della ricorrenza dell'incompatibilità
rispetto alla carica locale, si presentano due soluzioni
praticabili per il capo dell'amministrazione che intenda
accettare la carica regionale: può dimettersi dalla carica
locale o essere dichiarato decaduto dal consiglio comunale a
conclusione del procedimento amministrativo previsto
dall'art 69 del decreto legislativo n. 267/2000.
La decadenza del sindaco, dichiarata dal consiglio comunale,
concretizza una delle cause di scioglimento prevista
dall'art. 141, comma 1, lett. b), n. 1 del dlgs n. 267/2000,
per la quale andrà avviata la relativa procedura (articolo ItaliaOggi del
05.07.2013). |
NEWS |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Enti, redditi online. Trasparenza anche per i
sindaci. D'Alia: in arrivo una
circolare per le p.a. locali.
Dopo i ministri sarà la volta degli enti
locali. Anche i sindaci, i presidenti di provincia e i
governatori regionali dovranno mettere online i propri
redditi esattamente come stanno facendo in questi giorni i
componenti del governo Letta.
A richiamare ministri, viceministri e tutti i sottosegretari
alla corretta applicazione delle norme di trasparenza (art.
14, dlgs n. 33/2013) che impongono di pubblicare sui siti
internet istituzionali entro tre mesi dall'elezione (e
quindi entro il 28 luglio) i dati relativi a redditi,
patrimonio e cariche ricoperte, è stato il sottosegretario
alla presidenza del consiglio, ed ex ministro della Funzione
pubblica, Filippo Patroni Griffi con una circolare.
E subito è arrivato l'annuncio di Gianpiero D'Alia, suo
successore alla guida di palazzo Vidoni, che anche gli enti
locali non faranno eccezione alla regola di trasparenza.
«La settimana prossima il ministero diramerà una
circolare, una sorta di vademecum, dove saranno indicati gli
obblighi di trasparenza per gli amministratori degli enti
locali», ha dichiarato il ministro a margine di un
convegno sull'ammodernamento della p.a. Ma prima di
richiamare gli amministratori locali all'ordine ha voluto
dare il buon esempio, pubblicando sul sito del dicastero la
dichiarazione patrimoniale (propria e dei prossimi
congiunti) e gli importi delle spese di missione. Manca
ancora la dichiarazione dei redditi (seppur già trasmessa
alla camera dei deputati prima di diventare ministro) che,
fanno sapere dall'entourage del ministro, è in fase di
aggiornamento.
Riuscirà l'appello del ministro a realizzare una massiccia
disclosure nelle pubbliche amministrazioni locali? I
sindaci, si sa, sono stati storicamente i soggetti più
restii ad applicare le norme in materia di anagrafe degli
eletti, previste da una legge vecchia più di 30 anni (n.
441/1982). Ma ora il dlgs 33/2013 ha rilanciato gli obblighi
di pubblicità e trasparenza a carico della p.a. prevenendo
pesanti sanzioni in caso di inadempimento (danno
all'immagine e valutazione ai fini della corresponsione
della retribuzione di risultato e del trattamento accessorio
collegato alla performance individuale).
D'Alia ha parlato anche di esuberi nella p.a. precisando che
i 7 mila lavoratori individuati come in sovrannumero in base
ai tagli lineari «non saranno licenziati ma dovranno
essere ricollocati» secondo procedure da concordare con
i sindacati
(articolo ItaliaOggi del 09.07.2013). |
APPALTI FORNITURE:
Porte e finestre, mercato unico.
Per i prodotti edili stesse norme ambientali e di sicurezza.
Il 1° luglio è entrato in
vigore il regolamento della Ue che armonizza i requisiti.
Via libera al mercato unico europeo dei prodotti da
costruzione. A partire dal primo di luglio i costruttori di
porte, cemento, mattoni, cancelli, camini e finestre possono
infatti contare su un alleato in più nel processo di
espansione all'interno dell'Unione europea: il regolamento
sui prodotti di costruzione (Cpr).
Adottato nel 2011 dal Parlamento Ue ma entrato in vigore
solamente all'inizio di questo mese, il regolamento 305/2011
sostituisce la direttiva sui prodotti da costruzione
(89/106/Cee) fornendo un linguaggio tecnico comune
costituito da norme armonizzate che i costruttori potranno
utilizzare per descrivere le prestazioni e le
caratteristiche dei prodotti commercializzati in Europa.
Niente più ostacoli giuridici e tecnici alla libera
circolazione dei prodotti all'interno del Vecchio
continente, soggetti fino a pochi giorni fa a requisiti
occupazionali, ambientali e di sicurezza diversi da Paese a
Paese. «Il Cpr aiuterà i fabbricanti a commercializzare i
prodotti da costruzione all'interno di un comune quadro
normativo europeo semplificato, nel quale l'affidabilità
della prestazione dichiarata di un prodotto da costruzione
viene dimostrata dall'impiego della marcatura CE», hanno
assicurato dalla Commissione europea secondo cui, aumentando
la trasparenza del mercato, il nuovo regolamento garantirà
una serie di vantaggi per progettisti, costruttori e
appaltatori. «Gli architetti otterranno facilmente
informazioni affidabili sulle prestazioni dei prodotti che
intendono utilizzare, contribuendo così a garantire la
sicurezza delle costruzioni, come previsto dalle rispettive
norme nazionali».
Per armonizzare le condizioni di utilizzo dei prodotti
all'interno dei Paesi membri, il regolamento ha semplificato
le procedure utilizzate dai fabbricanti per ottenere la
marcatura CE da apporre soltanto sui prodotti per i quali il
fabbricante ha redatto una dichiarazione di prestazione.
Elemento che si tradurrà in una significativa riduzione dei
costi sostenuti dalle microimprese (quelle con meno di 10
dipendenti e un bilancio annuo non superiore a 2 milioni di
euro) nel caso in cui non sussistano criticità in materia di
sicurezza.
«Tutti i fabbricanti, in particolare i piccoli
produttori, possono usare adesso i risultati di prova
esistenti per suffragare una dichiarazione di prestazione,
senza che i loro prodotti debbano essere sottoposti a
un'inutile ripetizione delle prove», si legge nel documento.
«Per ottenere la marcatura CE sono state introdotte
procedure semplificate più snelle per i prodotti che non
sono oggetto di norme armonizzate». In particolare, secondo
l'articolo 8 del regolamento, uno Stato membro non potrà
proibire né ostacolare, nel suo territorio o sotto la sua
responsabilità, la messa a disposizione sul mercato o l'uso
di prodotti da costruzione recanti la marcatura CE se la
prestazione dichiarata corrisponde ai requisiti per l'uso in
questione in tale Stato membro. Allo stesso tempo, dovrà
garantire che l'uso dei prodotti da costruzione recanti la
marcatura CE non sia ostacolato da norme o condizioni
imposte da organismi pubblici o privati che agiscono come
imprese pubbliche.
Ma è il successivo articolo 9 a indicare regole e condizioni
per l'apposizione della marcatura che dovrà essere visibile,
leggibile e indelebile sul prodotto da costruzione o su
un'etichetta a esso applicata.
Nello specifico, la marcatura CE dovrà essere seguita dalle
ultime due cifre dell'anno in cui è stata apposta per la
prima volta, dal nome e dall'indirizzo della sede legale del
fabbricante o dal marchio di identificazione che consente,
in modo semplice e non ambiguo, l'identificazione del nome e
dell'indirizzo del fabbricante. Non solo. La marcatura CE
dovrà contenere anche il numero di riferimento della
dichiarazione di prestazione, il livello o classe della
prestazione dichiarata e il riferimento alla specifica
tecnica armonizzata applicata. Oltre che il numero di
identificazione dell'organismo notificato
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.07.2013). |
APPALTI: Contributi.
Il decreto del fare consente la possibilità di rimediare a
dimenticanze o a mancati versamenti
Durc, l'errore si sana in 15 giorni.
La Pa avvisa il datore prima di emettere il documento
negativo.
Niente più brutte sorprese o esclusioni inattese dalle gare
pubbliche per problemi legati alla regolarità contributiva:
l'articolo 31 del decreto legge 69/2013, ha infatti
razionalizzato la disciplina del documento unico di
regolarità contributiva, apportando alcune correzioni -meramente funzionali ma di notevole impatto per le aziende-
nel Codice degli appalti pubblici, il decreto legislativo
163 del 12.04.2006.
La nuova disciplina ha infatti modificato -introducendo
alcune semplificazioni- l'articolo 118 del Codice, con un
opportuno allentamento di alcune "tagliole" previste dalla
norma.
Possibile tornare in regola
In primo luogo -ed è questa la novità di maggior rilievo-
è stato espressamente previsto all'articolo 31, comma 8 del
Dl 69/2013, che ai fini della verifica del rilascio del Durc,
in caso di mancanza di requisiti per il rilascio, prima di
emettere il documento negativo (che segnala pertanto la
presenza di debiti del datore di lavoro nei confronti degli
enti previdenziali o assicurativi) o prima dell'annullamento
del documento già rilasciato, l'ente competente a rilasciare
il documento ha l'obbligo di informare l'interessato o il
suo consulente del lavoro, con l'uso della posta elettronica
certificata, del motivo della irregolarità riscontrata,
indicandone analiticamente le ragioni e invitando il
soggetto interessato a regolarizzare la sua posizione entro
il termine massimo di quindici giorni dalla segnalazione.
Questa disposizione è sicuramente da accogliere con grande
favore, poiché da un lato non attenua minimamente i
controlli e i meccanismi di esclusione dalle gare o dalla
sottoscrizione di contratti, di coloro che risultano non
essere in regola con il versamento dei contributi
previdenziali e assicurativi, dall'altro lato, però,
consente ai datori di lavoro di rimediare immediatamente a
errori formali, dimenticanze, o a versamenti non eseguiti
per momentanea carenza di liquidità.
Il termine di quindici giorni concesso dall'Amministrazione
all'interessato per adeguare la propria posizione a quanto
stabilito dalla legge, appare infatti assolutamente congruo
e tale da non rallentare in modo sensibile i già farraginosi
meccanismi delle gare pubbliche. Peraltro, assicura al
datore di lavoro che sia incorso in violazioni minime o
comunque sanabili, di rimanere in corsa negli appalti
pubblici o di ottenere il pagamento del dovuto dalla
pubblica amministrazione.
I pagamenti della Pa
Un'altra novità introdotta dal cosiddetto decreto del fare
riguarda i pagamenti della pubblica amministrazione (Dl
69/2013, articolo 31, comma 3): nel caso in cui sia
riscontrata una inadempienza contributiva (non sanata nei
quindici giorni), il soggetto pubblico tenuto al pagamento
tratterrà ora solamente l'importo corrispondente
all'inadempimento, provvedendo direttamente al versamento di
questa somma agli enti previdenziali e assicurativi a
credito ed emettendo regolarmente il certificato di
pagamento in favore dell'imprenditore per il residuo.
In precedenza era invece previsto -sostanzialmente- il
blocco dell'intero pagamento, con la conseguenza che anche
per piccoli debiti contributivi o assicurativi
l'imprenditore si vedeva sospesa l'erogazione di tutto il
dovuto, spesso con sproporzioni assolutamente evidenti, con
la conseguenza di privare l'azienda di liquidità importanti.
Anche questo provvedimento è certamente da ritenere
positivo, poiché assicura comunque l'adempimento degli
obblighi da parte dell'imprenditore -poiché la pubblica
amministrazione trattiene il dovuto- ma,
corrispondentemente, consente il pagamento di somme
pacificamente dovute per lavori o servizi già prestati.
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Le novità introdotte dal Dl 69/2012 sulla regolarità
contributiva e gli effetti rispetto al regime precedente
IL RILASCIO
01 | DURC POSITIVO O NEGATIVO
Finora, il Durc era rilasciato positivo (se non si
registravano pendenze con la Pa), o negativo (se si
segnalavano debiti con Inps o Inail)
02 | LA POSSIBILITÀ DI METTERSI IN REGOLA
Prima di rilasciare il Durc negativo o di revocare il Durc
positivo già rilasciato, l'amministrazione invita
l'interessato, tramite Pec (anche attraverso il consulente
del lavoro), a regolarizzare la sua posizione entro 15
giorni. L'interessato può sanare le inadempienze e ottenere
il Durc positivo
I DEBITI VERSO LA PA
01 | BLOCCO TOTALE
Il pagamento dei crediti dell'imprenditore era bloccato per
intero se venivano segnalate inadempienze dell'imprenditore
verso la Pa
02 | IL REGIME ATTUALE
Ora è trattenuta solo la parte di credito sufficiente a
saldare i debiti verso gli enti, che sono pagati
direttamente dal soggetto erogante le somme (in genere la
stazione appaltante)
L'ACQUISIZIONE
01 | L'UFFICIO SI MUOVE IN AUTONOMIA
Mentre il passato il Durc doveva essere acquisito
dall'interessato, oggi il documento è acquisito d'ufficio in
via telematica, anche ai fini della verifica della
dichiarazione sostitutiva, per l'aggiudicazione del
contratto, per la stipula del contratto, per il pagamento
dei saldi. Deve essere nuovamente acquisito per il saldo
finale
LA VALIDITÀ
01 | TRE MESI DI DURATA
Prima delle modifiche introdotte dal Dl 69/2013, il Durc
aveva una validità massima di tre mesi
02 | L'ESTENSIONE
Nei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, la
validità del Durc è estesa a 180 giorni, e il documento deve
essere acquisito dalla stazione appaltante con strumenti
informatici (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.07.2013). |
SICUREZZA LAVORO: Formazione
sulla sicurezza più semplice con i crediti.
Formazione con lo sconto nel decreto del fare. Il Dl 69/2013
è intervenuto, infatti, sul sistema di formazione disegnato
dal Testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e
completato dagli accordi della Conferenza Stato-Regioni del
26.01.2006 per i responsabili del servizio di
prevenzione e protezione, e poi dagli accordi del 21.12.2011 per datori di lavoro, dirigenti, preposti e
lavoratori.
Le disposizioni di carattere generale non prevedevano la
possibilità di riconoscere crediti formativi a coloro che,
nell'ambito del lavoro, svolgessero più funzioni soggette a
obbligo formativo: in pratica, ad esempio, il responsabile
del servizio di prevenzione e protezione interno, essendo
anche un lavoratore, doveva conseguire la formazione
obbligatoria, sia come Rspp, sia come lavoratore,
affrontando spesso lo stesso argomento, con dispersione di
tempo e di risorse economiche a carico del datore di lavoro,
che si vedeva costretto a dover assicurare al proprio
dipendente una formazione sostanzialmente doppia su vari
argomenti.
La modifica
Con un provvedimento che può consentire notevoli risparmi ai
datori di lavoro, e senza allentare la tensione sugli
obblighi di formazione (fondamentali per ridurre il rischio
di infortuni sul lavoro), il legislatore ha sanato una
situazione che appariva paradossale: in tutti i casi di
formazione e aggiornamento previsti nel Testo unico
sicurezza, in cui i contenuti si sovrappongano in tutto o in
parte a quelli previsti per il responsabile del servizio di
prevenzione e protezione, è riconosciuto un credito
formativo per la durata e i contenuti della formazione e
dell'aggiornamento erogati (è quanto dispone il nuovo comma
5-bis dell'articolo 32 del Dlgs 81/2008, introdotto
dall'articolo 32 del Dl 69/2013).
Il provvedimento interessa una platea di addetti piuttosto
estesa: in primo luogo coloro che per acquisire i titoli per
poter esercitare la funzione di Rspp devono frequentare i
corsi di formazione, perché non hanno una delle lauree
elencate nel comma 5 dell'articolo 32 del Testo unico (ad
esempio, laurea in ingegneria civile, ambientale,
industriale o dell'informazione, scienze dell'architettura,
scienze e tecniche dell'edilizia), e in generale gli Rspp
che, indipendentemente dal tipo di laurea conseguita, sono
tenuti a frequentare i corsi di aggiornamento per mantenere
l'abilitazione.
Il Dl 69/2013 ha poi aggiunto il comma 14-bis all'articolo
37 del Testo unico, ampliando la platea degli interessati
sostanzialmente a tutti i datori di lavoro, dirigenti,
preposti e lavoratori, che si vedranno riconosciuti crediti
per i corrispondenti argomenti affrontati, in tutti i casi
in cui due o più percorsi formativi vadano a sovrapporsi. Il
lavoratore che ricopre anche la carica di rappresentante dei
lavoratori per la sicurezza, dunque, dovrà frequentare una
sola volta i corsi di formazione per gli argomenti previsti
nei due percorsi, come ad esempio il modulo giuridico,
sostanzialmente comune per i due ambiti formativi. Resta da
vedere se le disposizioni sulla formazione saranno
modificate nell'iter di conversione del Dl, iniziato dalla
Camera. Questa settimana arriverà il parere della
commissione Lavoro, che dovrebbe sollecitare emendamenti
proprio su questi temi.
È bene ricordare, infine, che, salvo proroghe, scade l'11
luglio il termine per completare la formazione di dirigenti
e preposti in base all'accordo della Conferenza
Stato-Regioni pubblicato a gennaio 2012.
Sanzioni inasprite
Il Dl 76/2013 sul lavoro ha previsto, dal primo luglio 2013,
l'adeguamento del 9,6% delle sanzioni pecuniarie per le
contravvenzioni relative all'igiene e alla sicurezza sul
lavoro, per la violazione delle norme sulle visite
preassuntive, sul Durc e per il mancato rilascio (o mancato
uso) del tesserino di riconoscimento ai lavoratori. Le
sanzioni saranno aggiornate ogni 5 anni in base all'indice
Istat
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.07.2013). |
APPALTI: Appalti.
Gli schemi dell'Autorità.
Pronti i bandi tipo per gestire i contratti pubblici.
IN CONSULTAZIONE/
I modelli contengono già le clausole derogabili e adattabili
alle necessità specifiche dei singoli enti pubblici.
Le stazioni appaltanti dovranno impostare le gare per
appalti pubblici di lavori tenendo conto dei bandi-tipo
elaborati dall'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici,
potendo intervenire solo su alcuni aspetti delle regole
delle procedure selettive.
L'Autorità ha infatti avviato la consultazione relativa ai
modelli di bandi per i lavori di valore superiore ai 150mila
euro, dando una prima attuazione sotto il profilo operativo
all'articolo 64 del Codice dei contratti pubblici e
sviluppando in schemi dettagliati molte delle indicazioni
già fornite con la determinazione n. 4/2012.
I modelli proposti (che non hanno ancora assunto una veste
definitiva) non si limitano a specificare le clausole a pena
di esclusione, ma configurano una compiuta disciplina della
gara, evidenziando le parti obbligatorie e quelle rispetto
alle quali le stazioni appaltanti hanno margine di
intervenire (quali, in particolare, la definizione concreta
dei requisiti di partecipazione e i criteri di valutazione).
Gli schemi sono accompagnati da una nota illustrativa che
indica le linee interpretative fondamentali per la
partecipazione alle gare di lavori pubblici e le
caratteristiche e le modalità di compilazione dei modelli,
con particolare riguardo alle parti non derogabili da parte
delle stazioni appaltanti, relative alle cause tassative di
esclusione di cui all'articolo. 46, comma 1-bis, del Codice.
Un punto-chiave dei bandi-tipo è la sezione dedicata alla
specificazione delle categorie delle lavorazioni oggetto
dell'appalto e delle relative classifiche per
dimensionamento economico. Qui l'Avcp fa rilevare la piena
responsabilità del progettista nell'individuazione esatta
delle categorie, precisando le caratterizzazioni di quelle
generali e di quelle specialistiche e specificando la
valenza della codificazione come non obbligatorie o come
obbligatorie.
I bandi-tipo presentano anche un quadro di dettaglio per la
regolamentazione della partecipazione alla gara dei
raggruppamenti temporanei di imprese e dei consorzi, nonché
indicano in modo preciso le condizioni per l'avvalimento.
I modelli evidenziano anche una particolare attenzione per
il subappalto, anche quando questo debba essere utilizzato
dal concorrente per supplire alla mancanza della
qualificazione obbligatoria per le lavorazioni scorporabili.
Negli schemi proposti l'Avcp chiarisce finalmente che anche
negli appalti di lavori pubblici in sede di offerta devono
essere indicati i costi della sicurezza aziendali, come
richiesto dall'articolo 87, comma 4, del Codice.
Proprio in ordine alla presentazione delle offerte (e dei
documenti per la partecipazione alla gara) l'Avcp ha dettato
regole molto dettagliate, evidenziando in particolare le
clausole a pena di esclusione, nonché fornendo elementi
descrittivi di alcuni passaggi importanti (come la
sigillatura dei plichi).
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L'identikit
01 | LE CATEGORIE
Nei bandi tipo l'Autorità chiarisce che il progettista deve
individuare
le categorie di lavori
di cui si compone l'appalto distinguendo le categorie
generali dalle specialistiche
02 | LA SICUREZZA
In sede di offerta devono essere indicati i costi
della sicurezza aziendali
03 | LE OFFERTE
Nei bandi tipo l'Avcp spiega come presentare le offerte ed
evidenzia in particolare
le clausole a pena
di esclusione, o come devono essere sigillate
le buste per essere accettate
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.07.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
La trasparenza non fa sconti. La pubblicazione online dei
redditi non esclude i mini enti. Gli
obblighi di pubblicità valgono anche per i comuni con meno
di 15.000 abitanti.
Gli amministratori dei comuni con popolazione inferiore ai
15.000 abitanti sono tenuti agli obblighi di pubblicità e
trasparenza previsti dal dlgs 33/2013.
L'articolo 14 del decreto sulla trasparenza si sta
dimostrando particolarmente «indigesto» per gli organi di
governo, chiamati a rendere pubblica sostanzialmente la
propria intera situazione finanziaria e patrimoniale.
Detta disposizione, infatti, obbliga a pubblicare sul sito
istituzionale di ogni ente una dichiarazione concernente i
diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in
pubblici registri; le azioni di società; le quote di
partecipazione a società; l'esercizio di funzioni di
amministratore o di sindaco di società; copia dell'ultima
dichiarazione dei redditi soggetti all'imposta sui redditi
delle persone fisiche; una dichiarazione concernente le
spese sostenute e le obbligazioni assunte per la propaganda
elettorale ovvero l'attestazione di essersi avvalsi
esclusivamente di materiali e di mezzi propagandistici
predisposti e messi a disposizione dal partito. Tali
dichiarazioni vanno estese anche alle posizioni, al coniuge
non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli
stessi vi consentano.
La refrattarietà a pubblicare queste informazioni è
particolarmente forte nei comuni di piccole dimensioni. È
molto forte, infatti, in questi enti la convinzione che gli
obblighi di pubblicità previsti dal decreto trasparenza
valgano solo per i comuni con popolazione superiore ai
15.000 abitanti.
Una prima argomentazione a favore di tale tesi è certamente
priva di fondamento. Essa si basa sul dato testuale
dell'articolo 41-bis del dlgs 267/2000, come introdotto
dall'articolo 3, comma 1, lettera a), della legge 213/2012,
che assegna all'autonomia regolamentare degli enti la
disciplina della trasparenza della posizione patrimoniale
degli amministratori, escludendo i comuni con popolazione
fino a 15.000 abitanti. Ma, tale norma risulta espressamente
abolita dall'articolo 52, comma 1, lettera c), del dlgs
33/2013.
Una seconda e più forte argomentazione a favore
dell'esclusione dall'obbligo di trasparenza per i comuni con
meno di 15.000 abitanti discende dall'articolo 52 sempre del
dlgs 33/2013. Esso ha modificato l'articolo 1, comma 1,
numero 5), della legge 441/1982, il quale stabilisce che le
disposizioni di questa legge si applichino «ai consiglieri
di comuni capoluogo di provincia ovvero con popolazione
superiore ai 15.000 abitanti». Si sostiene, allora, che se
la legge 441/1982 limita espressamente il suo campo di
applicazione, essa induce ad escludere dagli obblighi di
trasparenza gli enti con popolazione fino a 15.000 abitanti.
Di certo, l'estensore del dlgs 33/2013 ha compiuto una
cattiva opera di coordinamento tra le sue disposizioni.
Infatti vi è un evidente contrasto tra la limitazione
contenuta nell'articolo 1 della legge 331/1982 e quanto
prevede l'articolo 14, comma 1, del dlgs 33/2013, a mente
del quale «con riferimento ai titolari di incarichi
politici, di carattere elettivo o comunque di esercizio di
poteri di indirizzo politico, di livello statale regionale e
locale, le pubbliche amministrazioni pubblicano con
riferimento a tutti i propri componenti, i seguenti
documenti e informazioni», tra i quali quelli enumerati
proprio dagli articoli 2, 3 e 4 della legge 441/1982.
Mentre l'articolo 1 novellato di tale legge, dunque, limita
la sua portata escludendo i comuni con meno di 15.000
abitanti, l'articolo 14, come visto, impone a tutte le
amministrazioni la pubblicazione dei dati previsti dalla
legge 441/1982 «con riferimento a tutti i propri
componenti», senza eccezione alcuna, né riguardante la
popolazione degli enti, né la tipologia della carica
pubblica.
Osservando bene l'articolo 1, comma 1, numero 5), della
legge 441/1982, si nota che esso pone gli obblighi di
trasparenza solo in capo ai «consiglieri» comunali. Così
scritta, allora, la disposizione coinvolgerebbe il sindaco,
che è sempre componente dei consigli, ma potrebbe non
estendersi a tutti o parte degli assessori, considerando che
negli enti con popolazione superiore ai 15.000 abitanti essi
non possono far parte del consigli (lo stesso accadrebbe
negli enti con popolazione fino a 15.000 abitanti che
statutariamente prevedano la nomina di un assessore esterno
ai consiglieri).
È evidentemente inammissibile leggere la combinazione tra
articolo 14 del dlgs 33/2013 e articolo 1 della legge
441/1982 così da escludere una categoria di amministratori
locali, gli assessori esterni, dal campo di applicazione
delle regole di trasparenza.
La novellazione dell'articolo 1 della legge 441/1982 non può
che considerarsi frutto di cattivo drafting normativo e va
considerata recessiva e disapplicata dall'articolo 14, che
estendendo gli obblighi di pubblicità a tutti gli
amministratori, senza alcuna eccezione e limitazione di
popolazione, risponde maggiormente alla ratio
legislativa, che è quella della massima trasparenza
possibile delle informazioni, la quale mal si concilia,
ovviamente, con limitazioni di sorta (articolo ItaliaOggi
del 05.07.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Incarichi pubblici, incompatibilità senza rinvii.
La civit: le situazioni illegittime vanno sanate subito per
evitare sanzioni.
Le norme sulle incompatibilità di incarichi pubblici sono
immediatamente applicabili e quindi vanno immediatamente
sanate le situazioni illegittime relative a incarichi già
affidati.
È questo uno dei principi affermati dalla
Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza
e l'integrità delle amministrazioni pubbliche (Civit) che,
in tre delibere del 27.06.2013, ha riposto ad alcuni
quesiti di natura interpretativa inerenti il conferimento di
incarichi nelle pubbliche amministrazioni.
Nella prima delibera (la n. 46/2013) è stato affrontato il
tema dell'efficacia nel tempo delle norme sulla
inconferibilità e incompatibilità degli incarichi nelle
pubbliche amministrazioni e negli enti privati in controllo
pubblico di cui al dlgs n. 39/2013 e si precisa in primo
luogo che gli articoli da 4 a 8 del decreto «non incidono
sulla validità del preesistente atto di conferimento degli
incarichi, mentre ben può la legge sopravvenuta disciplinare
ipotesi di incompatibilità tra incarichi e cariche con il
conseguente obbligo di eliminare la situazione divenuta
contra legem attraverso apposita procedura».
Il principio di fondo è infatti che la nuova disciplina è di
immediata applicazione e quindi non è tanto questione che si
debba applicare retroattivamente la nuova disciplina, quanto
di verificare se vi sia possibilità per sostenere la tesi di
un differimento dell'efficacia delle norme sulla
incompatibilità. Ciò sarebbe stato possibile laddove
l'avesse espressamente previsto la legge ma, non essendo
avvenuto, occorre provvedere nel senso di rimuovere le
situazioni in conflitto con le nuove norme.
Per la Commissione, infatti, «il protrarsi di situazioni di
incompatibilità oggettivamente in contrasto con la nuova
disciplina, finirebbe col differire nel tempo la sua
efficacia e, quindi, il perseguimento della finalità di
prevenzione della corruzione che il legislatore ha
attribuito alla disciplina».
In sostanza si creerebbe una disparità di trattamento tra i
dirigenti nominati prima del decreto n. 39 e dirigenti
nominati successivamente. Per quel che riguarda la delibera
n. 47, è stato invece affrontato il problema dei rapporti
fra l'articolo 4 del decreto 95/2012, convertito, con
modificazioni, in l. n. 135/2012, e gli artt. 9 e 12 del
decreto n. 39/2013: il primo impone all'amministrazione
titolare della partecipazione, o di poteri di indirizzo e
vigilanza, di nominare propri dipendenti nei cda delle
società partecipate, i secondi prevedono ipotesi di
incompatibilità tra incarichi e cariche in enti di diritto
regolati o finanziati (art. 9), e tra incarichi dirigenziali
interni e esterni e cariche di componenti degli organi di
indirizzo nelle amministrazioni statali, regionali e locali
(art. 12).
Al riguardo la Commissione non ravvisa un «diretto e
integrale contrasto» perché il decreto 95/2012 «prevede in
generale l'obbligatorietà della nomina nei consigli di
amministrazione di dipendenti senza specificarne qualifica o
funzione, mentre il decreto 39/2013, con riferimento alle
amministrazioni centrali, si occupa esclusivamente di
dirigenti, salvo il caso di incarichi di funzione
dirigenziale nell'ambito degli uffici di diretta
collaborazione».
Residuerebbe quindi un parziale contrasto per quanto
riguarda la possibilità di nominare dirigenti in enti di
diritto privato in controllo pubblico.
L'ultima delibera (n. 48) infine affronta il tema dei limiti
temporali alla nomina o alla conferma in incarichi
amministrativi di vertice e di amministratori di enti
pubblici o di enti di diritto privato in controllo pubblico,
ai sensi dell'art. 7, dlgs n. 39/2013 che vieterebbe, non
soltanto il conferimento degli incarichi di amministratore
di ente pubblico, o di ente di diritto privato in controllo
pubblico, presso un ente diverso, ma anche la conferma nella
carica presso il medesimo ente, prima ancora che siano
trascorsi due anni dalla cessazione del precedente incarico.
Su questa norma la Commissione chiarisce che il divieto
opera soltanto per quanto riguarda l'incarico di
amministratore presso un diverso ente e che non impedisce
invece la conferma dell'incarico già ricoperto (articolo ItaliaOggi
del 05.07.2013). |
ENTI
LOCALI: L'in house in una botte di ferro. Gli enti non devono
alienare le partecipazioni societarie.
Il decreto del fare ha prorogato il termine. Ma gli
affidamenti possono essere rinnovati.
Il recente dl 69/2013 (c.d. «decreto Fare») ha prorogato al
31/12/2013 il termine entro cui le amministrazioni pubbliche
devono alienare le proprie partecipazioni societarie,
assegnando contestualmente il servizio per cinque anni, non
rinnovabili, a decorrere dall'01/07/2014.
Tuttavia, un'accorta
interpretazione delle disposizioni della «spending review»,
così come sostenuto dalla sezione regionale di controllo
della Campania della Corte dei conti nella deliberazione n.
188/2013, può portare a ritenere che tale obbligo non
sussista nei confronti delle società «in house» che
rispettano appieno i requisiti richiesti dalla
giurisprudenza comunitaria.
Negli ultimi mesi è andata
affermandosi l'erronea tendenza ad assimilare le società «in
house» a quelle indicate all'art. 4 comma 1 del dl 95/2012,
tendenza che, oltre ad essere contraria ai princìpi in
materia di in house providing, rischia di portare gli enti
ad assumere decisioni sbagliate, con un effetto negativo
immediato sul patrimonio di assets, competenze e
professionalità accumulato nel corso degli anni.
È innanzitutto necessario rilevare che le società indicate
al comma 1 dell'art. 4 sono testualmente quelle «controllate
direttamente o indirettamente» dalle pubbliche
amministrazioni; si tratta quindi di realtà nelle quali
possono essere presenti anche soci privati. Questo aspetto,
non secondario, consente di affermare che le società
indicate al comma 1 dell'art. 4 non coincidono
necessariamente con quelle «in house», in quanto per queste
ultime è necessario, fra l'altro, che il loro capitale sia
tutto in mano pubblica.
È quindi evidente che il legislatore
con tale norma non si è voluto riferire alle categoria delle
società «in house», ma, più genericamente, a società che
operano prevalentemente con le amministrazioni pubbliche e
che possono essere totalmente pubbliche o miste. Non
dimentichiamo, inoltre, che l'art. 13 del dl 223/2006 (il
c.d. decreto Bersani), tuttora vigente, prevede diversi
vincoli per le società strumentali di province e comuni, fra
cui quello di operare solo con l'amministrazione pubblica
che le partecipa. Come sostenuto dalla sez. reg. di
controllo della Campania della Corte dei conti nel parere n.
188 del 09/05/2013, tale disposizione ha come effetto
immediato quello di portare ex lege le società strumentali a
superare il limite del 90% del fatturato previsto al comma 1
dell'art. 4.
Il rischio è quindi che si arrivi al paradosso
che le società strumentali «in house» che hanno rispettato
in passato il vincolo imposto dall'art. 13 del Bersani
ricadano nelle limitazioni della «spending review», mentre
quelle che tale vincolo non lo hanno rispettato si vedano
addirittura premiate per il loro comportamento illegittimo,
non rientrando nell'obbligo di dismissione. Essendo
inammissibile che si arrivi ad una simile situazione, è
lecito pensare che le società strumentali «in house»
soggette all'art. 13 del decreto Bersani non rientrino
nell'ambito applicativo dell'art. 1 comma 4 del dl 95/2012,
anche in considerazione del fatto che la ratio sottostante a
tale norma, consistente nella salvaguardia della concorrenza
e del mercato, sarebbe di fatto già preservata dal rapporto
di esclusività che esiste fra la società «in house» e
l'amministrazione pubblica socia della stessa.
Inoltre, il
comma 3-sexies dell'art. 4, stabilisce che le
amministrazioni pubbliche avrebbero potuto predisporre
appositi piani di ristrutturazione e razionalizzazione delle
società controllate per individuare attività connesse
esclusivamente all'esercizio di funzioni amministrative di
cui all'art. 118 della Costituzione, che potevano essere
riorganizzate e accorpate attraverso società che
rispondessero ai requisiti della legislazione comunitaria in
materia di «in house providing».
Quindi, se le società «in
house» esistenti alla data di entrata in vigore del dl n.
95/2012 sono già organizzate per l'espletamento di attività
connesse a funzioni amministrative, non si vede perché non
possano continuare ad essere destinatarie di affidamenti
diretti, visto che possiedono già i requisiti indicati al
comma 3-sexies. Tali interpretazioni sono rafforzate anche
dalla norma speciale per le società «in house» contenuta al
primo periodo del comma 8 dello stesso art. 4 che prevede
che «a decorrere dal 01.01.2014 l'affidamento diretto
può avvenire solo a favore di società a capitale interamente
pubblico, nel rispetto dei requisiti richiesti dalla
normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione
in house».
Il riferimento all'importo di 200 mila euro che
era stato inizialmente previsto quale limite l'importo
all'affidamento diretto è stato rimosso dall'art. 34, comma
27, del dl 179/2012 all'indomani della sentenza della Corte
costituzionale n. 199 del 17/07/2012, con la quale è stata
dichiarata l'incostituzionalità dell'art. 4 del dlgs
138/2012 relativo l'affidamento dei Servizi pubblici locali
di rilevanza economica; ciò, forse anche in vista della
prossima decisione della Corte costituzionale sui ricorsi
ancora pendenti presentati da alcune regioni italiane sulla
legittimità costituzionale dell'art. 4.
In conclusione, nei prossimi mesi le amministrazioni
pubbliche dovrebbero evitare interpretazioni inutilmente
restrittive della loro autonomia organizzativa, che le
porterebbero a non rinnovare gli affidamenti diretti alle
proprie società «in house», finendo così per mettere
in crisi un intero sistema, per distruggere centinaia di
posti di lavoro (articolo ItaliaOggi del
05.07.2013). |
TRIBUTI:
Ruralità acclarata, stop al recupero Ici.
Se dalle visure catastali risulta chiaramente l'annotazione
della dichiarata sussistenza di ruralità, i comuni non
possono recuperare l'imposta comunale sugli immobili
pregressa.
Così i giudici aditi della Commissione tributaria
regionale di Firenze che, con la sentenza 10.06.2013 n. 58/25/13,
pronunciata il 04/04/2013, sono
intervenuti sull'eterna diatriba del riconoscimento della
ruralità dei fabbricati, di cui ai commi 3 e 3-bis,
dell'art. 9, dl n. 557/1993.
La sentenza accoglie totalmente
l'appello della ricorrente che era stata raggiunta da un
avviso di accertamento ai fini Ici, notificato dall'ente
comunale ove erano collocati gli immobili, per gli anni dal
2004 al 2008. I giudici di prime cure (Ctp di Pistoia, sent.
5/10/2010 n. 211/02/2010) avevano respinto il ricorso
principale affermando che erano da esentare dal tributo
locale soltanto gli immobili che in catasto erano censiti
nelle specifiche categorie (A/6 per gli abitativi e D/10 per
gli strumentali), in linea con quanto affermato dalla
Suprema corte (Cassazione s.u., sent. 21/08/2009 n. 18565),
procedendo nella tassazione per tutti gli altri diversamente
censiti.
I giudici della commissione tributaria regionale di
Firenze, pur tenendo in considerazione la sentenza appena
citata, hanno preso atto delle modifiche introdotte dal
legislatore, con particolare riferimento a quelle inserite
nel dm 26/7/2012 che ha «chiaramente disposto che la
presentazione delle domande e l'inserimento negli atti
catastali dell'annotazione producono gli effetti previsti
per il riconoscimento della ruralità», a decorrere dal
quinto anno antecedente quello di presentazione della
domanda. Peraltro, i giudici aditi hanno affermato che la
giurisprudenza di merito sostiene da tempo che debba
riconoscersi il carattere di ruralità agli immobili
strumentali necessari allo svolgimento dell'attività
agricola, ribadendo con forza il solo rispetto del requisito
«oggettivo» dell'immobile.
Pertanto, detta giurisprudenza di
merito sta consolidando il principio, codificato dal recente
decreto del 26/7/2012, di attuazione del comma 14-bis,
dell'art. 13, dl 201/2011 (ItaliaOggi 5/2/2013), che il
requisito di ruralità, posto il rispetto delle condizioni
indicate dal comma 3 (abitativi) e 3-bis (strumentali),
dell'art. 9, dl n. 557/1993, non si acquisisce con
l'iscrizione in una categoria specifica dell'immobile, ma
soltanto con l'annotazione in catasto della dichiarata
sussistenza dei detti requisiti.
D'altra parte, il comma 2,
dell'art. 7, dm 26/7/2012 ha disposto che «la presentazione
delle domande e l'inserimento negli atti catastali
dell'annotazione producono gli effetti previsti per il
riconoscimento del requisito di ruralità» e che, di
conseguenza, non si rende necessario il cambio di categoria
catastale (Agenzia territorio, circolare 2/T/2012) potendo
l'immobile mantenere la categoria originaria e rispondente
alla legge catastale.
Infine, la sentenza in commento, con
l'accoglimento totale dell'appello del contribuente,
sostiene la «retroattività» (quinquennio) della ruralità ai
fini Ici con la sola annotazione, chiudendo a qualsiasi e
ulteriore interpretazione delle recenti disposizioni, e
conferma che la ruralità deve essere riconosciuta,
naturalmente ai fini del tributo comunale (Ici), oggi
sostituito dall'imposta municipale (Imu), solo in presenza
dei requisiti di natura soggettiva e oggettiva, con
l'annotazione in calce alla visura catastale e con il
mantenimento nella categoria ordinaria dell'immobile (articolo ItaliaOggi
del 05.07.2013). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di vincolo cimiteriale, la salvaguardia del rispetto
dei 200 metri prevista dall'art. 338 del T.U. del 1934 si
pone alla stregua di un vincolo assoluto di inedificabilità,
valevole per qualsiasi manufatto edilizio anche ad uso
diverso da quello di abitazione, che non consente in alcun
modo l'allocazione sia di edifici, che di opere
incompatibili col vincolo medesimo, e tanto in ragione dei
molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto
intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di
natura igienico-sanitarie, nella salvaguardia della
peculiare sacralità dei luoghi destinati alla sepoltura e
nel mantenimento di un’area di possibile espansione della
cinta cimiteriale.
---------------
Appare evidente che l’impianto di autolavaggio in questione,
composto da tettoie, casotti prefabbricati, macchinari, vada
a costituire un manufatto edilizio dotato di una certa
importanza e stabilità, e che una volta autorizzato non
potrebbe più essere rimosso a discrezione
dell’amministrazione; e ciò andrebbe in pregiudizio degli
interessi sottesi al vincolo cimiteriale, ed in particolare
dell'esigenza di consentire l'espansione della cinta
cimiteriale (dovendo sorgere, peraltro, proprio a ridosso
delle mura perimetrali del cimitero).
La realizzazione dell’impianto contrasterebbe inoltre con
l’esigenza di limitare la frequentazione di tale zona da
parte del pubblico per motivi igienico-sanitari. Non meno
evidente è il contrasto della natura dell’opera con la
sacralità del luogo soggetto a tutela.
Conseguentemente, non sembra dubbio che l’impianto di
autolavaggio in questione rientri tra le costruzioni
edilizie del tutto vietate dalla disposizione di cui
all’art. 338 citato e tale circostanza, puntualmente
rilevata dall’Amministrazione, costituisce valido motivo
giustificativo dell’opposto diniego.
Il ricorso è infondato.
L’art. 338 del Testo unico delle leggi sanitarie di cui al
r.d. n. 1265 del 27.07.1934 nonché l’art. 57 del Dpr 10.09.1990 n. 285 vietano l’edificazione nelle aree
ricadenti in fascia di rispetto cimiteriale dei manufatti
che, per durata, inamovibiltà ed incorporazione al suolo
possano qualificarsi come costruzioni edilizie, come tali,
incompatibili con la natura dei luoghi e con l’eventuale
espansione del cimitero.
Ora, la giurisprudenza ha affermato che in materia di
vincolo cimiteriale, la salvaguardia del rispetto dei 200
metri prevista dal citato art. 338 del T.U. del 1934 si pone
alla stregua di un vincolo assoluto di inedificabilità,
valevole per qualsiasi manufatto edilizio anche ad uso
diverso da quello di abitazione, che non consente in alcun
modo l'allocazione sia di edifici, che di opere
incompatibili col vincolo medesimo, e tanto in ragione dei
molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto
intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di
natura igienico-sanitarie, nella salvaguardia della
peculiare sacralità dei luoghi destinati alla sepoltura e
nel mantenimento di un’area di possibile espansione della
cinta cimiteriale (Cons. Stato Sezione IV, 20.07.2011,
n. 4403, Cons. Stato Sez. V 03.05.2007 n.1933; TAR
Toscana, Sez. III, 02.07.2008 n. 1712).
Ora, appare evidente che l’impianto di autolavaggio in
questione, composto da tettoie, casotti prefabbricati,
macchinari, vada a costituire un manufatto edilizio dotato
di una certa importanza e stabilità, e che una volta
autorizzato non potrebbe più essere rimosso a discrezione
dell’amministrazione; e ciò andrebbe in pregiudizio degli
interessi sottesi al vincolo cimiteriale, ed in particolare
dell'esigenza di consentire l'espansione della cinta
cimiteriale (dovendo sorgere, peraltro, proprio a ridosso
delle mura perimetrali del cimitero). La realizzazione
dell’impianto contrasterebbe inoltre con l’esigenza di
limitare la frequentazione di tale zona da parte del
pubblico per motivi igienico-sanitari. Non meno evidente è
il contrasto della natura dell’opera con la sacralità del
luogo soggetto a tutela.
Conseguentemente, non sembra dubbio che l’impianto di
autolavaggio in questione rientri tra le costruzioni
edilizie del tutto vietate dalla disposizione di cui
all’art. 338 citato e tale circostanza, puntualmente rilevata
dall’Amministrazione, costituisce valido motivo
giustificativo dell’opposto diniego.
Per le suesposte considerazioni, il ricorso si appalesa
infondato e va, perciò, respinto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 08.07.2013 n. 932 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Chi vince l'appalto può perderlo. Gara a rischio anche se il
concorrente non ha i requisiti. La
Corte di giustizia Ue: il fatto che il ricorrente non sia in
regola non salva l'aggiudicatario.
L'aggiudicatario, non in regola, rischia di perdere
l'appalto, anche se chi ha impugnato la gara doveva essere
escluso dal procedimento. Il giudice deve valutare tutte le
offerte, sia dell'aggiudicatario sia di chi ha impugnato
l'aggiudicazione, ed eventualmente annullare la procedura di
aggiudicazione dell'appalto, che a quel punto è da rifare.
Cambiando radicalmente la tesi prevalente dei giudici
amministrativi italiani, su sollecitazione del Tar Piemonte,
la Corte di giustizia europea del Lussemburgo, con la
sentenza
04.07.20123 causa C-100/12, ha
stabilito che «se l'aggiudicatario, che ha proposto ricorso
incidentale in un giudizio amministrativo, solleva
un'eccezione di inammissibilità fondata sul difetto di
legittimazione a ricorrere dell'offerente/ricorrente, con la
motivazione che l'offerta di quest'ultimo avrebbe dovuto
essere esclusa dall'autorità aggiudicatrice per non
conformità alle specifiche tecniche, la direttiva europea
89/665 non ammette che il ricorso sia dichiarato
inammissibile senza verifica della compatibilità con le
suddette specifiche tecniche dell'offerta sia
dell'aggiudicatario, sia dell'offerente/ricorrente
principale».
Cerchiamo di capire gli effetti della sentenza, partendo
dalla giurisprudenza tradizionale dei Tar e del Consiglio di
stato.
Il caso è quello del ricorso principale presentato da una
ditta, che non ha vinto l'appalto, contro l'aggiudicazione
assegnata a un'altra ditta. In corso di causa, la ditta, che
ha vinto l'appalto, a sua volta, con un ricorso, chiamato
incidentale, chiede al giudice amministrativo di dichiarare
inammissibile il ricorso principale.
L'orientamento attuale della giurisprudenza amministrativa
dice che l'esame di un ricorso incidentale, diretto a
contestare la legittimazione del ricorrente principale, deve
precedere l'esame del ricorso principale. Quindi, bisogna
prima bisogna esaminare la domanda della ditta vincitrice,
che contesta l'ammissibilità del ricorso della ditta
perdente. Il Consiglio di stato ritiene, infatti, che la
legittimazione a ricorrere contro la decisione di
aggiudicazione di un appalto pubblico spetti soltanto al
soggetto che abbia legittimamente partecipato alla procedura
di aggiudicazione. Se la ditta perdente non ha i requisiti
per partecipare all'appalto, allora non può nemmeno
impugnare gli esiti dello stesso.
Il Tar Piemonte, davanti al quale pendeva un ricorso che
proponeva il quesito di diritto, ha rinviato la questione
alla corte di giustizia. Che ha ritenuto fondato il dubbio
del Tribunale amministrativo piemontese e ha stabilito che
devono essere verificate sia l'offerta del ricorrente
principale (ditta perdente) sia l'offerta del ricorrente
incidentale (ditta vincente). Nella sua sentenza, la Corte
ricorda che la direttiva 89/665 obbliga gli stati europei a
rendere accessibili le procedure di ricorso, a chiunque
abbia o abbia avuto interesse a ottenere l'aggiudicazione di
un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a
causa di una presunta violazione.
Nel procedimento italiano, il giudice ha constatato che sia
offerta della ditta perdente sia l'offerta della ditte
aggiudicataria non erano conformi alle specifiche tecniche.
In sostanza è solo per errore che l'offerta prescelta non
sia stata esclusa al momento della verifica delle offerte,
nonostante essa non rispettasse le specifiche tecniche della
singola gara. Da qui la conclusione per cui la legislazione
Ue non permette che un ricorso contro l'aggiudicazione di un
appalto sia dichiarato inammissibile senza verifica della
compatibilità con le specifiche tecniche dell'offerta sia
dell'aggiudicatario, sia dell'offerente/ricorrente
principale. Se in esito alla verificazione delle offerte
presentate, il giudice constati che nessuna è conforme alle
specifiche imposte dal piano, si apre la strada
all'annullamento dell'aggiudicazione dell'appalto (articolo ItaliaOggi
del 05.07.2013). |
COMPETENZE GESTIONALI - INCARICHI PROFESSIONALI:
Affidamento di incarichi di difesa legale.
Alla Giunta (artt. 48 e 107 del T.U.
18.08.2000, n. 267), in quanto organo di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo, non spettano funzioni di
gestione quale è da annoverare quella di attribuzione di un
incarico professionale.
Invero, la scelta del contraente per l’affidamento di un
incarico per lo svolgimento di una prestazione d’opera
intellettuale (art. 2230 cod. civ.), a seguito di una gara
formale o informale, o anche per trattativa privata, è atto
di gestione, privo di qualsiasi contenuto di indirizzo per
gli uffici, risolvendosi nella individuazione del soggetto o
dei soggetti che appaiono più quotati, secondo regole
obbiettive e prefissate, per il conseguimento dei fini della
P.A..
... per
l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia, della
nota prot. 371/2013 recante la comunicazione della delibera
n. 58/2013 avente ad oggetto la scelta del vincitore della
selezione per l’affidamento di incarico di difesa dell’ente
dinanzi alle giurisdizioni superiori e non.
...
- Considerato che alla Giunta (artt. 48 e 107 del T.U.
18.08.2000, n. 267), al pari della Commissione Straordinaria
con i poteri della Giunta Comunale, in quanto organo di
indirizzo e di controllo politico-amministrativo, non
spettano funzioni di gestione quale è da annoverare quella
di attribuzione di un incarico professionale;
- Ritenuto, infatti, che, come ha affermato la
giurisprudenza condivisa dal Collegio, la scelta del
contraente per l’affidamento di un incarico per lo
svolgimento di una prestazione d’opera intellettuale (art.
2230 cod. civ.), a seguito di una gara formale o informale,
o anche per trattativa privata, è atto di gestione, privo di
qualsiasi contenuto di indirizzo per gli uffici,
risolvendosi nella individuazione del soggetto o dei
soggetti che appaiono più quotati, secondo regole obbiettive
e prefissate, per il conseguimento dei fini della P.A. (CdS
V 4654/2005, che conferma TAR Lazio–Sez. staccata di Latina
n. 00604/2011, cfr. per una analoga procedura TAR Napoli
Campania sez. II, 26.05.2011, n. 2854);
- Considerato che nel caso di specie l’individuazione del
professionista al quale affidare l’incarico e la sua nomina
è avvenuta ad opera della Commissione Straordinaria con i
poteri della Giunta comunale, come si legge nella delibera
impugnata, e non ad opera dei dirigenti, ai quali spetta per
esplicito disposto dell’art. 107 dlgs 267/2001;
- Ritenuto che l’art. 22 dello Statuto, ove conferisce alla
Giunta il potere di autorizzare l’introduzione o la
resistenza in giudizio non abbia riguardo alla ben diversa
ipotesi di conferimento di incarico di attività di difesa
dell’ente in una serie indeterminata di controversie e per
un determinato periodo di tempo (cfr. CdS V 2730/2012);
- Considerato altresì che il profilo di illegittimità
evidenziato supera le eccezioni di inammissibilità del
ricorso, in quanto comporta la rinnovazione della procedura
in conformità al bando ad opera del dirigente, come peraltro
previsto dall’art. 3 del bando medesimo ove si legge che
“la valutazione dei candidati sarà effettuata dal
Responsabile del Settore A.A.”
(TAR Campania-Salerno,
Sez. II,
sentenza 24.06.2013 n. 1405 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - ESPROPRIAZIONE:
Competenze del consiglio comunale.
L’atto adottato ex art. 43, d.P.R. n.
327 del 2001 di acquisizione al patrimonio indisponibile
comunale di beni utilizzati per scopi di interesse pubblico
deve essere assunto dal Consiglio comunale, trattandosi
dell’acquisto di un diritto immobiliare che richiede
l’espressione formale di una specifica autonoma volontà.
L’art. 42, comma 2, lett. l), T.U. enti locali, stabilisce
che rientrano nelle competenze consiliari gli “acquisti e
alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e
concessioni che non siano previsti espressamente in atti
fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera
esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria
amministrazione di funzioni e servizi di competenza della
giunta, del segretario o di altri funzionari”. Tra questi
rientra sicuramente anche l’acquisto di un bene tramite
l’istituto della c.d. acquisizione sanante.
L’atto di acquisizione sanante ex art. 43 d.P.R. n. 327 del
2001, per i profili di discrezionalità che lo
caratterizzano, esorbita dall'ambito della competenza
dell’ufficio per le espropriazioni e, comunque, degli uffici
comunali per rientrare nelle attribuzioni del Consiglio
comunale in materia di acquisti ed alienazioni immobiliari,
di cui all'art. 42 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267.
---------------
La giurisprudenza ha precisato che “l’istituto della
“acquisizione sanante” ex art. 43 T.U. n. 327/2001 è di
competenza del Consiglio comunale, stante anche la
particolare natura di tale acquisizione di cui l’A.P. di
questo Consiglio ha fornito una puntuale illustrazione,
chiarendo che non risulta possibile qualificare la scelta di
farvi ricorso come meramente esecutiva di atti presupposti o
rientrante tra le ordinarie funzioni della giunta, del
segretario o di altri funzionari, onde tale scelta deve
essere ricondotta all’esclusiva competenza dell’organo
elettivo consiliare, ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett.
l, del T.U.E.L.”.
La natura discrezionale dell’atto di acquisizione sanante
esclude, poi, che lo stesso possa qualificarsi come previsto
in atti fondamentali del consiglio o mera esecuzione degli
stessi, sicché si deve escludere anche per tal verso la
riconduzione dell’atto alla competenza dei dirigenti.
Il ricorso è
fondato.
In particolare, è fondata la dedotta incompetenza del
dirigente comunale ad adottare un provvedimento di
acquisizione sanante.
L’atto adottato ex art. 43, d.P.R. n. 327 del 2001 di
acquisizione al patrimonio indisponibile comunale di beni
utilizzati per scopi di interesse pubblico deve essere
assunto dal Consiglio comunale, trattandosi dell’acquisto di
un diritto immobiliare che richiede l’espressione formale di
una specifica autonoma volontà.
L’art. 42, comma 2, lett. l), T.U. enti locali, stabilisce
che rientrano nelle competenze consiliari gli “acquisti e
alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e
concessioni che non siano previsti espressamente in atti
fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera
esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria
amministrazione di funzioni e servizi di competenza della
giunta, del segretario o di altri funzionari”. Tra
questi rientra sicuramente anche l’acquisto di un bene
tramite l’istituto della c.d. acquisizione sanante. (Cons.
St., sez. V, 13.10.2010, n. 7472).
L’atto di acquisizione sanante ex art. 43 d.P.R. n. 327 del
2001, per i profili di discrezionalità che lo
caratterizzano, esorbita dall'ambito della competenza
dell’ufficio per le espropriazioni e, comunque, degli uffici
comunali per rientrare nelle attribuzioni del Consiglio
comunale in materia di acquisti ed alienazioni immobiliari,
di cui all'art. 42 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (Cons. St.,
sez. III, 31.08.2010, n. 775).
Non può poi ritenersi, come sostiene la difesa del Comune,
che il Dirigente ha semplicemente dato attuazione alla
volontà comunale espressa in precedenti atti deliberativi,
in particolare nella delibera che iniziava la procedura
espropriativa.
A tale proposito, la giurisprudenza ha precisato che “l’istituto
della “acquisizione sanante” ex art. 43 T.U. n. 327/2001 è
di competenza del Consiglio comunale, stante anche la
particolare natura di tale acquisizione di cui l’A.P. di
questo Consiglio ha fornito una puntuale illustrazione,
chiarendo che non risulta possibile qualificare la scelta di
farvi ricorso come meramente esecutiva di atti presupposti o
rientrante tra le ordinarie funzioni della giunta, del
segretario o di altri funzionari, onde tale scelta deve
essere ricondotta all’esclusiva competenza dell’organo
elettivo consiliare, ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett.
l, del T.U.E.L.” (Cons. St., sez. III, 31.08.2010, n.
775).
La natura discrezionale dell’atto di acquisizione sanante
esclude, poi, che lo stesso possa qualificarsi come previsto
in atti fondamentali del consiglio o mera esecuzione degli
stessi, sicché si deve escludere anche per tal verso la
riconduzione dell’atto alla competenza dei dirigenti
(TAR Puglia-Lecce,
Sez. I,
sentenza 21.06.2013 n. 1500
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO DEL SUOLO - Art. 244, c. 2 d.lgs. n.
152/2006 – Attività successive all'accertamento
dell'inquinamento di un sito – Competenza provinciale –
Sindaco – Ordinanza contingibile e urgente – Limiti.
Il d.lgs. 152/2006 delinea il procedimento volto
all’accertamento dell’inquinamento: in particolare l’art.
244, comma 2, accertato il superamento dei valori di
concentrazione soglia in ordine al livello di contaminazione
di un sito, impone alla provincia, dopo aver svolto le
opportune indagini volte ad identificare il responsabile
dell'evento e sentito il Comune seguito dell'accertamento
del superamento, di diffidare con ordinanza motivata il
responsabile della potenziale contaminazione a provvedere
agli interventi di bonifica e ripristino ambientale del sito
inquinato. La previsione normativa sopra indicata esclude
ordinariamente il concorso di altri enti nell’attività
successiva all’accertamento dell’inquinamento di un sito,
comportando, di conseguenza, l’incompetenza del Sindaco ad
emanare provvedimenti contingibili e urgenti ex art. 50
T.U.E.L..
Tuttavia la competenza in materia della Provincia può essere
considerata come esclusiva soltanto in relazione ai
procedimenti ordinari, visto che la norma attributiva del
potere non fa uno specifico riferimento alle situazioni in
cui si ravvisi l'indifferibilità e l'urgenza di provvedere
(per una fattispecie opposta, ossia in cui è prevista
esplicitamente l'emanazione di ordinanze contingibili e
urgenti, si veda l'art. 191 del D. Lgs. n. 152 del 2006).
Di conseguenza, pur a fronte di una normativa speciale che
si occupa, di regola, dell'attività amministrativa in ordine
ai siti inquinati, si deve ritenere applicabile la normativa
generale, espressione di un potere atipico e residuale, in
materia di ordinanze contingibili e urgenti previste
dall'art. 50, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000 (T.U.E.L.),
allorquando se ne configurino i relativi presupposti (Cons.
St., V, 12.06.2009, n. 3765; Cons. St., sez. II, 24.10.2007,
n. 2210; Tar Milano, IV, 16.07.2009, n. 4379).
Ammettendo la competenza del Sindaco a utilizzare lo
strumento dell’ordinanza contingibile e urgente, i
presupposti di un tale intervento straordinario devono
comunque essere individuati e verificati nella loro
esistenza in modo rigoroso, rischiandosi altrimenti di
derogare all'ordine legale delle competenze, in chiara
violazione di legge (nella specie, l'ordinanza, emanata a
oltre 6 anni dall'avvenuta conoscenza del superamento delle
CSR, è stata ritenuta carente dei presupposti ex artt. 50 e
54, potendo peraltro la situazione di inquinamento essere
fronteggiata con gli ordinari rimedi previsti dall’art. 244
d.lgs.152/2006) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 21.06.2013 n. 1465 - link a
www.ambientediritto.it). |
APPALTI FORNITURE: Tra
amministrazioni per le forniture serve la gara pubblica.
LE INDICAZIONI/
Qualificata la fattispecie come appalto e considerata
inapplicabile l'eccezione dell'affidamento in house.
Il principio della gara pubblica per la fornitura di beni e
servizi vale anche per i contratti tra pubbliche
amministrazioni.
Lo ha ribadito la Corte di Giustizia
dell'Unione europea in relazione a un caso pendente davanti
a una corte tedesca riguardante un appalto di servizi tra
enti territoriali (sentenza 13.06.2013 n. C-386/11).
Il
distretto di Düren, che raggruppa una pluralità di comuni,
decide di affidare senza gara alla città di Düren la pulizia
dei propri uffici ubicati nel territorio di quest'ultima per
un periodo di due anni. Il contratto prevede un
corrispettivo per le spese sostenute da quest'ultimo
commisurato a un'aliquota di tariffa oraria. Inoltre, il
distretto si riserva una facoltà di controllo sull'attività
commissionata e il diritto di recesso.
Una società privata operante nel settore delle pulizie
propone un ricorso per vietare la stipula di un siffatto
contratto per due ragioni: l'oggetto dell'appalto si
riferisce in realtà ad attività che possono essere offerte
sul mercato da operatori privati; non si tratta di un
affidamento in house sottratto alla normativa sugli appalti
pubblici. Risultata soccombente in primo grado, la società
propone appello e il giudice investe la Corte di giustizia
in via pregiudiziale per ottenere un chiarimento
sull'applicabilità della Direttiva 2004/18.
La Corte di giustizia conclude per l'applicazione del
principio della gara, pur trattandosi di un contratto tra
pubbliche amministrazioni, con una pluralità di argomenti.
In primo luogo, il contratto in questione va qualificato
come un appalto pubblico di servizi (articolo 1, paragrafo
2, lett. d), della direttiva 2004/18). Infatti i servizi di
pulizia rientrano nell'elenco dei servizi inclusi nella
direttiva (All. II A). Non si tratta cioè di una
cooperazione tra enti pubblici finalizzata a garantire
l'adempimento di una funzione di pubblico servizio sottratta
alla normativa europea.
In secondo luogo, non opera neppure l'eccezione
dell'affidamento in house, sul quale si è formata ormai
un'ampia giurisprudenza europea (a partire dalla sentenza
Teckal della Corte di Giustizia 18.11.1999 in
C-107/98) e nazionale. Infatti, per assolvere al requisito
del «controllo analogo», cioè dell'influenza penetrante
dell'ente affidante rispetto all'affidatario tale da
considerare quest'ultimo come un'articolazione organizzativa
del primo, non basta una semplice clausola contrattuale che
riserva al distretto un controllo sull'esecuzione del
contratto.
In definitiva, in una fase nella quale si sollecitano le
amministrazioni a cooperare e a razionalizzare la politica
degli acquisti di beni e servizi, l'affidamento diretto non
è lo strumento più idoneo. Ma, volendo, il Codice dei
contratti pubblici prevede altri mezzi per farlo, come le
centrali di committenza che consentono alle stazioni
appaltanti anche di associarsi e di consorziarsi
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.07.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - INCARICHI PROFESSIONALI:
Sindaco in tribunale solo con l'ok della giunta.
La Cassazione interviene sulla
legittimazione a stare in giudizio.
Il sindaco di un comune può legittimamente stare in un
giudizio (civile, amministrativo e anche tributario) solo in
presenza di una delibera della giunta comunale che ne
autorizzi la rappresentanza processuale, laddove tale
delibera sia prevista nel regolamento o nello statuto del
comune.
Il sindaco del comune (o il presidente della provincia), ove
non sia prevista dal regolamento o dallo statuto alcuna
autorizzazione della giunta dell'ente locale, può comunque
stare in giudizio personalmente in quanto ha piena
legittimità processuale attiva.
La riflessione su tale
argomento ci viene suggerita dalla recentissima sentenza
07.06.2013 n. 14389 della Corte di Cassazione, emessa
ai fini di un contenzioso relativo ad un rimborso Ici
promosso da un contribuente, che aveva eccepito che la norma
dell'art. 50 Tuel, non consentisse al dirigente o al sindaco
di impugnare la sentenza di una commissione tributaria
provinciale in assenza di una delibera della giunta, in
quanto nel caso in esame, lo statuto comunale attribuiva
invece in via esclusiva alla giunta comunale la competenza
ad autorizzare il sindaco a stare in giudizio anche dinanzi
agli organi tributari.
In via generale, i giudici della
Cassazione hanno ritenuto che nel nuovo quadro delle
autonomie locali, ai fini della rappresentanza in giudizio
del comune, l'autorizzazione a essere parte della
controversia da parte della giunta comunale non costituisce
più, in linea generale, atto necessario ai fini della
proposizione o della resistenza all'azione. Occorre, però,
ad avviso della Cassazione, verificare se lo statuto
comunale - competente a stabilire i modi di esercizio della
rappresentanza legale dell'ente, anche in giudizio («ex»
art. 6, comma 2, del Testo unico delle leggi
sull'ordinamento delle autonomie locali, approvato con il dlgs 18.08.2000, n. 267) - preveda l'autorizzazione
della giunta, ovvero una preventiva determinazione del
competente dirigente. Se così fosse, per costituire
validamente la legittimazione a stare in giudizio in capo al
sindaco o al dirigente amministrativo, occorre una delibera
della giunta in tal senso.
Invece, in mancanza di una disposizione statutaria che la
preveda espressamente, l'autorizzazione alla lite da parte
della giunta municipale, non costituisce atto necessario ai
fini della promozione di azioni o della resistenza in
giudizio da parte del sindaco. Nel silenzio quindi del
regolamento o dello statuto dell'ente a tale riguardo, il
sindaco, infatti, sempre secondo la sentenza in commento,
trae la propria investitura direttamente dal corpo
elettorale e costituisce, esso stesso, fonte di
legittimazione dei componenti della giunta municipale, nel
quadro di un sistema costituzionale e normativo di
riferimento profondamente influenzato dalle modifiche
apportate al Titolo V della Costituzione dalla legge
costituzionale n. 3 del 2001, nonché di quelle introdotte
dalla legge n. 131 del 2003 con ripercussioni anche
sull'impianto del Testo unico sugli enti locali.
Quest'ultimo, all'art. 50, infatti indica il sindaco quale
organo responsabile dell'amministrazione comunale e gli
attribuisce la rappresentanza, in via generale, dell'ente
locale. Nel caso in esame, invece lo statuto del comune
indicava chiaramente che la giunta «autorizza il sindaco a
stare in giudizio come attore o come convenuto, dinanzi alla
magistratura ordinaria, amministrativa, agli organi
amministrativi o tributari, approva transazioni o rinuncia
alle liti».
Tale organo, quindi, effettua un processo di
valutazione sull'opportunità di costituirsi in giudizio
sulla base della tutela degli interessi pubblici alla
proposizione dell'azione (o alla resistenza alla lite) e la
sua delibera costituisce un atto necessario, secondo
l'espressa previsione statutaria, ai fini della
legittimazione processuale dell'organo investito della
rappresentanza. Al di fuori di tale autorizzazione, la parte
(ente locale) non può costituirsi in giudizio, né può
proseguire il contenzioso, in quanto appare priva del potere
di rappresentanza dello stesso ente locale, con tutte gli
effetti processuali che conseguono a questa carenza.
Per completezza si consideri che dal punto di vista
tributario, l'art. 11 del dlgs 546/1992, è relativo alla
capacità di stare in giudizio (legitimatio ad processum).
La disposizione, infatti, prevede al comma 3 dello stesso
art. 11, che «l'ente locale nei cui confronti è proposto il
ricorso sta in giudizio mediante l'organo di rappresentanza
previsto dal proprio ordinamento», con ciò rinviando alle
leggi speciali in materia di enti locali, appena rammentate.
Conseguentemente i giudici, in questo, come negli altri casi
citati nella giurisprudenza della Suprema corte, precedenti
che ormai rappresentano un andamento consolidato, hanno
accolto le ragioni del contribuente, condannando alle spese
di lite il comune resistente (articolo ItaliaOggi del
05.07.2013). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Rete
idrica, lavori diretti da ingegneri, no architetti.
Non può essere aggiudicata a un architetto la direzione dei
lavori per l'adeguamento della rete idrica del Comune:
l'attività rientra nelle opere idrauliche, e va dunque
riservata a un ingegnere, perché esula dal concetto di
«edilizia civile», laddove quest'ultima prevede invece anche
la partecipazione dell'architetto.
È quanto emerge dalla
sentenza 31.05.2013 n. 1270 emessa dal TAR
Puglia-Lecce, Sez, II..
Fonte sovraordinata
- Accolto il ricorso dell'Ordine degli ingegneri, rimasti
esclusi dall'appalto. I lavori sugli impianti della rete
urbana di condotta e distribuzione dell'acqua costituiscono
un'opera idraulica vera e propria. Nella nozione di «edilizia
civile» sono invece comprese tutte le opere anche
connesse e accessorie, purché ovviamente si tratti di
pertinenze al servizio di singoli fabbricati o complessi
edilizi. Ma non vi rientrano anche i lavori di ingegneria
idraulica.
Il regolamento dell'ente locale, poi, non può derogare alla
disciplina portata da fonti sovraordinate come, fra l'altro,
il dlgs 129/92, che agli art. 1 e 2 ha attribuito una
specifica riserva a favore degli ingegneri per quanto
concerne la progettazione di opere viarie non connesse con
opere di edilizia civile. È in particolare riservata agli
ingegneri la progettazione di costruzioni stradali, opere
igienico-sanitarie, impianti elettrici, opere idrauliche,
operazioni di estimo, estrazione di materiali, opere
industriali.
Legittimazione attiva
- Nessun dubbio che l'organismo professionale sia
legittimato a far annullare l'attribuzione dell'incarico.
Gli Ordini degli ingegneri, degli architetti, dei geologi,
devono ritenersi, infatti, legittimati a impugnare avvisi o
bandi di gara o, più in generale, atti di procedure
selettive poste in essere da pubbliche amministrazioni per
la scelta dei professionisti cui affidare incarichi di
progettazione, ogni qual volta le regole di scelta del
contraente e gli atti della procedura siano idonei a
determinare la lesione di profili della professionalità dei
professionisti partecipanti.
La legittimazione sussiste se le regole della procedura
incidono direttamente sulle regole professionali. Spese di
giudizio compensate
(articolo ItaliaOggi del 09.07.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - COMPETENZE PROGETTUALI: La
giurisprudenza amministrativa <<ha da tempo riconosciuto
ampia legittimazione al ricorso giurisdizionale in capo agli
Ordini e Collegi professionali a tutela sia di interessi
propri dell’ente che di interessi propri ed esponenziali del
gruppo professionale nel suo complesso. Gli Ordini degli
ingegneri, degli architetti, dei geologi, devono ritenersi,
infatti, legittimati ad impugnare avvisi o bandi di gara o,
più in generale, atti di procedure selettive poste in essere
da pubbliche amministrazioni per la scelta dei
professionisti cui affidare incarichi di progettazione, ogni
qual volta le regole di scelta del contraente e gli atti
della procedura siano idonei a determinare la lesione di
profili della professionalità dei professionisti
partecipanti. Detta legittimazione sussiste […] qualora le
regole della procedura siano direttamente incidenti sulle
regole professionali (ad es. ammissione di altre
professionalità allo svolgimento di attività riservate alla
categoria ricorrente>>.
---------------
Non vi è dubbio che nella nozione di “edilizia civile” siano
da comprendere tutte le opere anche connesse ed accessorie,
purché ovviamente si tratti di pertinenze al servizio di
singoli fabbricati o complessi edilizi.
Sennonché, nella specie, la delibera impugnata riguarda
incarichi relativi all’ammodernamento ed all’ampliamento
della rete idrica comunale.
In proposito, tali lavori, concernenti gli impianti della
rete urbana di condotta e distribuzione dell’acqua, non sono
riconducibili all’ambito dell’“edilizia civile”, ma
piuttosto rientrano nell’ingegneria idraulica che, ai sensi
dell’art. 51 del citato regolamento, forma bensì oggetto
riservato alla professione di ingegnere.
Ciò risulta confermato dal successivo art. 54 che, pur
estendendo, in via eccezionale, la competenza ordinaria
degli architetti diplomati entro una certa data, fa
esplicita eccezione per una serie di applicazioni, di
carattere più marcatamente tecnico-scientifico, tra le quali
appunto le “opere idrauliche”.
In definitiva è, quindi, da escludere che gli incarichi in
questione possano essere conferiti ad architetti.
---------------
Quanto all’applicabilità dei principi appena richiamati al
caso in esame, gli stessi non possono non rilevare anche con
riferimento all’attività di direzione lavori.
Invero, gli articoli 51 e 52 del r.d. n. 2537/1925,
confermato nella sua piena vigenza e nel suo contenuto
dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. 129/1992 (di attuazione,
tra l’altro, della direttiva Cee n. 384/85), riservano alla
comune competenza di architetti e ingegneri le sole opere di
edilizia civile, mentre rimane riservata alla competenza
generale degli ingegneri la progettazione di costruzioni
stradali, opere igienico-sanitarie, impianti elettrici,
opere idrauliche, operazioni di estimo, estrazione di
materiali, opere industriali.
Né può valere l’obiezione per cui, per la direzione dei
lavori […], varrebbe una diversa regola rispetto a quella
valevole per la progettazione, in quanto ormai la sede della
disciplina della direzione dei lavori si trova nel “Codice
dei contratti pubblici” (art. 130), atteso che l’art. 130
del d.lgs. 163/2011 manifesta solo una opzione per quanto
concerne la direzione dei lavori, da svolgersi
preferibilmente all’interno della stazione appaltante, ma
non è norma che riguarda il riparto di competenze tra
diverse figure professionali, che rimane invece, regolato
dal r.d. n. 2537/1925.
Inoltre, l’art. 148 del d.p.r. 207/2010 (regolamento di
esecuzione del d.lgs. 163/2011), sancisce che il direttore
dei lavori cura che i lavori cui è preposto siano eseguiti a
regola d’arte e in conformità del progetto; sembra pertanto
logico che se la progettazione dei lavori è rimessa, secondo
l’ordine delle competenze professionali di cui si è detto,
alla categoria degli ingegneri anche la direzione dei lavori
deve essere affidata per quelle opere alla stessa categoria.
Né può essere accolta la tesi comunale, in base alla quale
la distinzione delle competenze tra architetti e ingegneri,
in quanto disciplinata da una norma regolamentare (r.d. n.
2357/1925), sarebbe modificabile da regolamenti successivi
dei singoli enti locali, e ciò per due ordini di motivi:
in primo luogo, in ragione della circostanza per cui il
citato r.d., pur non essendo una norma di rango legislativo
primario, è fonte sovraordinata rispetto ai regolamenti
degli enti locali e, in secondo luogo, in quanto il
riparto delle competenze tra le due figure professionali ivi
fissato è stato cristallizzato, come detto, dal d.lgs.
129/1992, che agli articoli 1 e 2 ha attribuito una
specifica riserva a favore degli ingegneri per quanto
concerne la progettazione di opere viarie non connesse con
opere di edilizia civile, qual è all’evidenza l’opera
pubblica in parola.
1.- Premesso che gli Ordini professionali ricorrenti
censurano il provvedimento con il quale l’Amministrazione
Comunale intimata aggiudicava, relativamente ai disposti <<lavori
di adeguamento dei recapiti finali di reti di fognatura
pluviale che scaricano nel sottosuolo attraverso pozzi
assorbenti>>, i servizi di <<direzione lavori, misura
e contabilità, nonché coordinamento in materia di sicurezza
nella fase esecutiva>>.
2.- Rilevato che, in particolare, essi contestano la
riconducibilità dei servizi in parola alle competenze degli
iscritti all’Albo degli Architetti (tale è l’aggiudicataria)
piuttosto che a quelle degli iscritti all’Albo degli
Ingegneri.
3.- Osservato in via preliminare, quanto al tema della
legittimazione al gravame, che la giurisprudenza
amministrativa <<ha da tempo riconosciuto ampia
legittimazione al ricorso giurisdizionale in capo agli
Ordini e Collegi professionali a tutela sia di interessi
propri dell’ente che di interessi propri ed esponenziali del
gruppo professionale nel suo complesso. Gli Ordini degli
ingegneri, degli architetti, dei geologi, devono ritenersi,
infatti, legittimati ad impugnare avvisi o bandi di gara o,
più in generale, atti di procedure selettive poste in essere
da pubbliche amministrazioni per la scelta dei
professionisti cui affidare incarichi di progettazione, ogni
qual volta le regole di scelta del contraente e gli atti
della procedura siano idonei a determinare la lesione di
profili della professionalità dei professionisti
partecipanti. Detta legittimazione sussiste […] qualora le
regole della procedura siano direttamente incidenti sulle
regole professionali (ad es. ammissione di altre
professionalità allo svolgimento di attività riservate alla
categoria ricorrente […])>> (Tar Basilicata, I,
08.06.2011, n. 352; v. anche Tar Veneto, I, 25.11.2003, n.
5909; Tar Campania Napoli, I, 22.02.2000, n. 500).
3.1 Osservato ancora, quanto alla pure dedotta
inammissibilità del gravame per mancata censura degli atti
inditivi della selezione, che gli atti stessi non
esplicitavano, a ben vedere, l’apertura della medesima
-anche- a categorie professionali diverse da quella degli
ingegneri (<<Soggetti che possono presentare
manifestazioni d’interesse per il conferimento
dell’incarico: Liberi professionisti in forma singola o
associata […]>>), sicché di per sé non risultavano
concretamente lesivi dell’interesse oggi azionato.
4.- Ritenuto, quanto al ‘merito’ delle questioni in
esame, che secondo l’indirizzo della giurisprudenza
amministrativa <<il capo IV del regolamento per le
professioni d’ingegnere e di architetto, approvato con regio
decreto n. 2537 del 1925, disciplina l’oggetto ed i limiti
delle competenze spettanti alle due figure professionali.
Al riguardo, non è invero riscontrabile una completa
equiparazione tra tali categorie di professionisti. L’art.
51, concernente la professione di ingegnere, prevede una
competenza di carattere generale comprendente interventi di
vario tipo, relativi alla progettazione, conduzione e stima
relativi alle “costruzioni di ogni specie” ed
all’impiantistica civile ed industriale, alle infrastrutture
ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione,
riconoscendo in senso lato una abilitazione comprendente
ogni forma di applicazione delle tecniche relative alla
fisica, alla rilevazione geometrica ed alle operazioni di
estimo.
L’art. 52 delimita, invece, la competenza professionale
degli architetti alle sole “opere di edilizia civile”, che
rientrano pure nelle competenze degli ingegneri, eccetto per
quanto riguarda la parte non “tecnica” degli interventi su
edifici di rilevante interesse artistico.
Orbene non vi è dubbio che nella nozione di “edilizia
civile” siano da comprendere tutte le opere anche connesse
ed accessorie, purché ovviamente si tratti di pertinenze al
servizio di singoli fabbricati o complessi edilizi.
Sennonché, nella specie, la delibera impugnata riguarda
incarichi relativi all’ammodernamento ed all’ampliamento
della rete idrica comunale.
In proposito, tali lavori, concernenti gli impianti della
rete urbana di condotta e distribuzione dell’acqua, non sono
riconducibili all’ambito dell’“edilizia civile”, ma
piuttosto rientrano nell’ingegneria idraulica che, ai sensi
dell’art. 51 del citato regolamento, forma bensì oggetto
riservato alla professione di ingegnere.
Ciò risulta confermato dal successivo art. 54 che, pur
estendendo, in via eccezionale, la competenza ordinaria
degli architetti diplomati entro una certa data, fa
esplicita eccezione per una serie di applicazioni, di
carattere più marcatamente tecnico-scientifico, tra le quali
appunto le “opere idrauliche” (cfr. Cons. St., IV,
19.02.1990, n. 92).
In definitiva è, quindi, da escludere che gli incarichi in
questione possano essere conferiti ad architetti>> (Tar
Campania Napoli, I, 14.08.1998, n. 2751; più di recente, v.
Tar Calabria Catanzaro, II, 09.04.2008, n. 354; Consiglio di
Stato, IV, 09.05.2001, n. 2600).
4.1 Ritenuto inoltre, quanto all’applicabilità dei principi
appena richiamati al caso in esame, che gli stessi non
possono non rilevare anche con riferimento all’attività di
direzione lavori, secondo quanto correttamente precisato dal
Tar Emilia Romagna Parma nella sentenza n. 389 del
09.11.2011: <<gli articoli 51 e 52 del r.d. n. 2537/1925,
confermato nella sua piena vigenza e nel suo contenuto
dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. 129/1992 (di attuazione,
tra l’altro, della direttiva Cee n. 384/85), riservano alla
comune competenza di architetti e ingegneri le sole opere di
edilizia civile, mentre rimane riservata alla competenza
generale degli ingegneri la progettazione di costruzioni
stradali, opere igienico-sanitarie, impianti elettrici,
opere idrauliche, operazioni di estimo, estrazione di
materiali, opere industriali.
Né può valere l’obiezione per cui, per la direzione dei
lavori […], varrebbe una diversa regola rispetto a quella
valevole per la progettazione, in quanto ormai la sede della
disciplina della direzione dei lavori si trova nel “Codice
dei contratti pubblici” (art. 130), atteso che l’art. 130
del d.lgs. 163/2011 manifesta solo una opzione per quanto
concerne la direzione dei lavori, da svolgersi
preferibilmente all’interno della stazione appaltante, ma
non è norma che riguarda il riparto di competenze tra
diverse figure professionali, che rimane invece, regolato
dal r.d. n. 2537/1925.
Inoltre, l’art. 148 del d.p.r. 207/2010 (regolamento di
esecuzione del d.lgs. 163/2011), sancisce che il direttore
dei lavori cura che i lavori cui è preposto siano eseguiti a
regola d’arte e in conformità del progetto; sembra pertanto
logico che se la progettazione dei lavori è rimessa, secondo
l’ordine delle competenze professionali di cui si è detto,
alla categoria degli ingegneri anche la direzione dei lavori
deve essere affidata per quelle opere alla stessa categoria.
Né può essere accolta la tesi comunale, in base alla quale
la distinzione delle competenze tra architetti e ingegneri,
in quanto disciplinata da una norma regolamentare (r.d. n.
2357/1925), sarebbe modificabile da regolamenti successivi
dei singoli enti locali, e ciò per due ordini di motivi:
in primo luogo, in ragione della circostanza per cui il
citato r.d., pur non essendo una norma di rango legislativo
primario, è fonte sovraordinata rispetto ai regolamenti
degli enti locali e, in secondo luogo, in quanto il
riparto delle competenze tra le due figure professionali ivi
fissato è stato cristallizzato, come detto, dal d.lgs.
129/1992, che agli articoli 1 e 2 ha attribuito una
specifica riserva a favore degli ingegneri per quanto
concerne la progettazione di opere viarie non connesse con
opere di edilizia civile, qual è all’evidenza l’opera
pubblica in parola>>).
4.2 Ritenuto, infine, che la presenza di un ingegnere
all’interno dell’ufficio di direzione dei lavori (l’ing.
Martina, ispettore di cantiere) non incide, giuridicamente,
sulla questione della legittimazione -in questo caso
insussistente- degli architetti a ricoprire l’incarico di
cui oggi si discute
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 31.05.2013 n. 1270
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Accesso carrabile e pedonale da un’area privata su strada ad
uso pubblico senza il consenso del proprietario.
L’amministrazione comunale non può, in
sede di rilascio di un permesso di costruire, consentire
l’accesso carrabile e pedonale, da un’area privata su una
strada ad uso pubblico, qualora tale strada sia di proprietà
di un altro soggetto privato e qualora manchi il consenso da
parte del proprietario.
La compressione delle prerogative del proprietario
conseguenti all’assoggettamento del bene al pubblico
passaggio non può spingersi (per evidente eterogeneità di
ratio) sino ad ammettere l’adozione di atti abilitativi (nel
caso di specie: il permesso di costruire) i quali comportino
un’ulteriore forma di compressione volta al soddisfacimento
di un interesse squisitamente privato ed individuale, quale
l’accesso alla strada di uso pubblico.
Se si ammettesse che in sede di rilascio del permesso di
costruire all’autorità amministrativa sia consentito
costituire sull’area di un terzo un peso (nel caso si
specie: l’obbligo di consentire il passaggio)
indipendentemente dal consenso del proprietario, si
giungerebbe ad ammettere un modo surrettizio di costituzione
di una servitù sostanziale (quale quella che consente il
passaggio attraverso e sul fondo del vicino) al di fuori dei
tassativi modi di costituzione espressamente richiamati
dall’articolo 1032 del Codice civile e in assenza della
corresponsione dell’indennità dovuta ai sensi degli articoli
1032 e 1053 del medesimo Codice.
Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello
proposto da una società cooperativa edilizia avverso la
sentenza del Tribunale amministrativo regionale dell’Abruzzo
con cui è stato accolto il ricorso proposto da una società
cooperativa controinteressata e, per l’effetto, è stato
disposto l’annullamento del titolo edilizio rilasciato in
suo favore nel dicembre del 2004 per la parte in cui le ha
consentito di realizzare un accesso carrabile su una strada
privata (ma ad uso pubblico) di proprietà della ricorrente
in primo grado.
Il thema decidendum consiste nello stabilire se
legittimamente l’amministrazione comunale possa, in sede di
rilascio di un permesso di costruire, consentire l’accesso
–carrabile e pedonale– da un’area privata su una strada ad
uso pubblico, qualora tale strada sia di proprietà di un
altro soggetto privato e qualora manchi il consenso (anzi:
vi sia l’espresso dissenso) da parte del proprietario
Ad avviso del Collegio, la sentenza è meritevole di conferma
laddove ha ritenuto che al quesito debba essere fornita
risposta in senso negativo.
Al riguardo si osserva in primo luogo:
- che è pacifico in atti che la via Ateleta è un’arteria
viaria in parte di proprietà comunale e in parte di
proprietà della cooperativa edilizia appellata e che essa si
configura –almeno in parte– come strada privata di suo
pubblico in quanto consente il collegamento fra due strade
piuttosto importanti per la viabilità cittadina (la Via
Abruzzo e la Via della Scuola);
- è parimenti pacifico che l’accesso pedonale e carrabile
che il Comune ha ammesso da e per il complesso immobiliare
della società appellante ricade in toto nella porzione della
via Ateleta di proprietà della cooperativa appellata (in tal
senso depone, oltretutto, la relazione tecnica che il primo
giudice ha demandato al dirigente del Settore Viabilità –
Mobilità della provincia dell’Aquila).
Ora, risulta in atti che sia sorta fra le parti private una
controversia avente ad oggetto la delimitazione della
consistenza dei reciproci diritti sulla strada in questione
e che essa sia stata definita con sentenza del Tribunale
civile dell’Aquila n. 202 del 2009, il quale si è espresso
nei termini che seguono: “l’utilizzazione di una strada
privata per il transito di veicoli da parte di una pluralità
indeterminata di persone, se da un lato vale ad evidenziare
l’assoggettamento del bene ad uso pubblico di passaggio, non
può dall’altro legittimare il proprietario del fondo
confinante all’apertura di accesso alla strada stessa,
nemmeno in forza di concessione amministrativa, trattandosi
di facoltà che esorbita dai limiti del predetto uso pubblico
del bene privato e che correlativamente non può essere
neppure oggetto di concessione, essendo a tal fine
necessario un più ampio titolo di acquisto del bene rispetto
al contenuto minimo qualificante del diritto “uso pubblico”;
pertanto, [l’assoggettamento] ad uso pubblico della strada
Ateleta (…) non poteva certamente legittimare la resistente,
una volta acquistato il fondo confinante, ad aprire un
accesso sulla strada stessa e ad esercitarvi il passaggio
per accedere al proprio fondo; ciò a prescindere dalla
presenza di concessione edilizia, che nulla vale a questi
fini in mancanza di atti costitutivi di una servitù di
passaggio”.
Ritiene il Collegio le conclusioni cui è pervenuto il
giudice civile siano condivisibili e applicabili anche ai
fini della definizione della presente controversia, nel cui
ambito la questione relativa alla delimitazione dei diritti
e degli obblighi delle parti private in lite viene in
rilievo in quanto incide sulla legittimità degli atti
abilitativi rilasciati dall’amministrazione comunale.
In particolare, la sentenza civile è condivisibile laddove
ha osservato che la compressione delle prerogative del
proprietario conseguenti all’assoggettamento del bene al
pubblico passaggio non può spingersi (per evidente
eterogeneità di ratio) sino ad ammettere l’adozione
di atti abilitativi (nel caso di specie: il permesso di
costruire) i quali comportino un’ulteriore forma di
compressione volta al soddisfacimento di un interesse
squisitamente privato ed individuale, quale l’accesso alla
strada di uso pubblico.
Si osserva, d’altronde, che se si ammettesse che in sede di
rilascio del permesso di costruire all’autorità
amministrativa sia consentito costituire sull’area di un
terzo un peso (nel caso si specie: l’obbligo di consentire
il passaggio) indipendentemente dal consenso del
proprietario, si giungerebbe ad ammettere un modo
surrettizio di costituzione di una servitù sostanziale
(quale quella che consente il passaggio attraverso e sul
fondo del vicino) al di fuori dei tassativi modi di
costituzione espressamente richiamati dall’articolo 1032 del
Codice civile e in assenza della corresponsione
dell’indennità dovuta ai sensi degli articoli 1032 e 1053
del medesimo Codice.
Si osserva, inoltre, che le conclusioni richiamate non sono
in contrasto con i princìpi enucleati dalla sentenza di
questo Consiglio di Stato, quinta sezione, 09.06.2008, n.
2864 (espressamente richiamata nell’atto di appello).
Si osserva al riguardo:
- che quella sentenza ha compendiato i princìpi
giurisprudenziali in tema di presupposti e condizioni per
l’assoggettamento all’uso pubblico di una strada privata, ma
non ha trattato la questione (che qui viene in rilievo)
relativa al se tale assoggettamento ad uso pubblico comporti
altresì che l’amministrazione possa –in assenza o in
contrasto con la volontà del proprietario– consentire un
accesso ad uso esclusivamente privato sull’area;
- che, se per un verso è vero che la sentenza in parola ha
affermato che l’assoggettamento ad uso pubblico di una
strada privata comporta che questa diviene soggetta alla
normale disciplina stradale “e la proprietà privata si
riduce al fatto che l'area ritornerebbe nella piena
disponibilità del proprietario quando cessasse la
destinazione stradale”, per altro verso essa non ha
affatto affermato che ciò comporti necessariamente la
possibilità di adottare in modo legittimo atti di carattere
abilitativo quale quello impugnato in primo grado. Anzi, se
si portasse alle estreme conseguenze di sistema l’assunto
dell’appellante, si giungerebbe alla conclusione (invero
inammissibile) secondo cui, anche una volta venute meno le
condizioni che hanno comportato l’assoggettamento ad uso
pubblico della strada, non verrebbe meno l’impropria forma
di servitù in tal modo costituita (lo si ripete: in assenza
di una fonte legale o volontaria di costituzione ai sensi
dell’articolo 1032 del Codice civile) (massima
tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.05.2013 n. 2416 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’utilizzazione
di una strada privata per il transito di veicoli da parte di
una pluralità indeterminata di persone, se da un lato vale
ad evidenziare l’assoggettamento del bene ad uso pubblico di
passaggio, non può dall’altro legittimare il proprietario
del fondo confinante all’apertura di accesso alla strada
stessa, nemmeno in forza di concessione amministrativa,
trattandosi di facoltà che esorbita dai limiti del predetto
uso pubblico del bene privato e che correlativamente non può
essere neppure oggetto di concessione, essendo a tal fine
necessario un più ampio titolo di acquisto del bene rispetto
al contenuto minimo qualificante del diritto “uso pubblico”.
Pertanto, “l’assoggettamento…ad uso pubblico della strada
Ateleta……non poteva certamente legittimare la resistente,
una volta acquistato il fondo confinante, ad aprire un
accesso sulla strada stessa e ad esercitarvi il passaggio
per accedere al proprio fondo; ciò a prescindere dalla
presenza di concessione edilizia, che nulla vale a questi
fini in mancanza di atti costitutivi di una servitù di
passaggio.
---------------
Il Comune non può consentire, senza l’accettazione espressa
dei proprietari, l’accesso di terzi attraverso la strada
privata e se lo fa vìola l’art. 11 del D.P.R. 380/2001
consentendo l’edificazione a chi non dispone del titolo
(limitatamente al disposto accesso) per farlo.
E ciò, si ribadisce, per quanto sopra detto, nonostante la
natura pubblica del passaggio attraverso il tratto privato
di strada.
I. I ricorrenti impugnano il permesso di costruire
rilasciato alla controinteressata nella parte in cui
consente gli accessi, carrabili e pedonali, attraverso una
strada che i ricorrenti qualificano di loro esclusiva
proprietà.
I.1) E’ accaduto che il Comune dell’Aquila ha autorizzato la
costruzione di un fabbricato in L’Aquila su area riportata
al N.C.T. al foglio 90, part.lle nn. 1664, 2644, sulla base
(anche) di una dichiarazione della cooperativa
controinteressata (in produzione di parte ricorrente, doc.
n. 3) attestante che “gli accessi del futuro edificio
avverranno dall’antistante strada privata di uso pubblico
via Ateleta. Viabilità in corso di cessione al Comune da
parte delle cooperative”.
La circostanza che la strada attraverso la quale realizzare
gli accessi non fosse nella disponibilità della cooperativa
richiedente, e neppure del Comune, era dunque ben chiara
alla stessa richiedente (come comprovato dalla prudenziale
aggiunta alla succitata dichiarazione in ordine alla “viabilità
in corso di cessione al comune”, che, a ben vedere,
corregge la qualificazione di “strada privata di suo
pubblico”) e dello stesso comune (a margine della
dichiarazione succitata il funzionario istruttore attesta
che “via Ateleta a tutt’oggi risulta strada privata
aperta al pubblico transito. Si ritiene di dover chiedere
l’autorizzazione agli attuali proprietari dell’area”).
Nello stesso senso si esprime il Settore territorio del
Comune di L’Aquila che attestava (doc. n. 4 in produzione di
parte ricorrente) che “per la realizzazione dell’accesso
al lotto d’intervento risulta necessario acquisire specifico
assenso da parte dei proprietari dell’area di fatto
utilizzata come viabilità. L’attuale via Ateleta, sebbene
aperta al pubblico transito, risulta essere strada privata”.
Il settore Opere pubbliche (doc. n. 2 in produzione di parte
ricorrente) del pari certificava che “la strada
denominata via Ateleta in località Torretta, di collegamento
tra via Abruzzo e via della Scuola, è di natura privata,
aperta al pubblico transito”.
II. Osserva il Collegio che, sulla base della relazione
tecnica commessa dal TAR al Dirigente del Settore Viabilità
– Mobilità della Provincia dell’Aquila, può senz’altro
addivenirsi alla conclusione che la contestata Via Ateleta,
nel tratto in contestazione, sia “strada privata aperta
al pubblico transito”, come del resto riconoscono
pacificamente sia il Comune resistente che la
controinteressata; e ciò non solo per quanto attestato dal
Comune e risultante dalla documentazione esibita in atti, ma
per la circostanza del tutto evidente che via Ateleta è
arteria di collegamento (di proprietà privata) tra due
strade pubbliche (via Abruzzo e via della Scuola); se non
altro per il passaggio generalizzato, ripetuto e prolungato,
per la finalità suindicata, l’uso pubblico non può
ragionevolmente escludersi.
II.1) Il tecnico nominato ha invero sul punto chiarito che “dalla
documentazione prodotta dalle parti si evince che un tratto
di via Ateleta è privato in quanto i terreni su cui insiste
la stessa sono di proprietà degli assegnatari degli alloggi
della Cooperativa giusta atto del Notaio Antonio Battaglia
rep. n. 92043 del 16.02.1996. Un altro tratto di strada è di
proprietà del Comune di L’Aquila il quale l’ha acquisita con
atto del notaio Franca Fanti del 12.07.2006, n. rep. 37786
di cessione gratuita di area tra la soc.cooperativa edilizia
Eccezione a r.l. ed il Comune stesso. Lungo il tratto
privato di via Ateleta insiste il terreno su cui è stata
realizzata dalla Orione Costruzioni Generali s.r.l. la
palazzina situata al n. civico 26 di via Ateleta previo
permesso a costruire n. 512 del 28.12.2004…Il progetto
allegato al permesso di costruire prevedeva la realizzazione
di un accesso pedonale e di uno carrabile che effettivamente
insistono sulla parte privata di via Ateleta di proprietà
degli assegnatari degli alloggi della cooperativa edilizia
Novità”.
Conclude il tecnico, condivisibilmente, che: “1. La
strada via Ateleta è parte di proprietà comunale parte di
proprietà privata; 2. La strada via Ateleta è di effettivo
uso pubblico ed in particolare di pubblico transito; 3.
L’uso pubblico è manifesto sin dalla realizzazione delle n.2
cooperative e quindi almeno dal 1981”.
III. Ma tale circostanza (uso pubblico della strada) non
comporta affatto, come sia il Comune che la
controinteressata intendono, che la strada possa essere
utilizzata come accesso alla proprietà privata di altri che
non sia il proprietario della strada medesima.
L’uso pubblico, come sopra detto, serve (e tali sono i
limiti della servitù imposta) per collegare, carrabilmente e
pedonalmente, via degli Abruzzo e via della Scuola.
Tale è la conclusione cui è pervenuto il giudice civile
(sentenza tribunale L’Aquila, n. 202/2009) pronunciandosi
sulla controversia inter partes incentrata sulla
esatta consistenza dei diritti reciproci sulla strada in
questione.
Puntualmente, il giudicante evidenziava che “l’utilizzazione
di una strada privata per il transito di veicoli da parte di
una pluralità indeterminata di persone, se da un lato vale
ad evidenziare l’assoggettamento del bene ad uso pubblico di
passaggio, non può dall’altro legittimare il proprietario
del fondo confinante all’apertura di accesso alla strada
stessa, nemmeno in forza di concessione amministrativa,
trattandosi di facoltà che esorbita dai limiti del predetto
uso pubblico del bene privato e che correlativamente non può
essere neppure oggetto di concessione, essendo a tal fine
necessario un più ampio titolo di acquisto del bene rispetto
al contenuto minimo qualificante del diritto “uso pubblico”;
pertanto, “l’assoggettamento…ad uso pubblico della strada
Ateleta……non poteva certamente legittimare la resistente,
una volta acquistato il fondo confinante, ad aprire un
accesso sulla strada stessa e ad esercitarvi il passaggio
per accedere al proprio fondo; ciò a prescindere dalla
presenza di concessione edilizia, che nulla vale a questi
fini in mancanza di atti costitutivi di una servitù di
passaggio”.
III.1) Giova aggiungere che proprio la natura privata della
strada (riconosciuta dallo stesso Comune) non avrebbe in
ogni caso consentito l’automatica possibilità di apertura
dell’accesso, quand’anche assoggettata a pubblico passaggio,
considerato che finanche per le strade pubbliche l’accesso è
consentito solo per espressa “concessione” dell’ente
proprietario ed è regolamentato, nei casi specifici,
ricorrendone le condizioni di legge (cfr, ad esempio, art.
27 delle norme tecniche di attuazione del P.R.G. di
L’Aquila, pagg. 3 e 4 , in produzione di parte
controinteressata).
III.2) L’intervenuto accertamento della effettiva
consistenza dei “diritti” reciproci comporta
conseguentemente l’illegittimità del permesso di costruire
nella parte in cui consente l’accesso privato traverso il
tratto di via Ateleta di proprietà privata dei ricorrenti.
Il Comune pertanto non avrebbe comunque potuto consentire,
senza l’accettazione espressa dei proprietari, l’accesso di
terzi attraverso la strada privata e nel farlo ha violato,
come esattamente rilevato dai ricorrenti nel primo motivo di
ricorso, l’art. 11 del D.P.R. 380/2001 consentendo
l’edificazione a chi non disponeva del titolo (limitatamente
al disposto accesso) per farlo.
E ciò, si ribadisce, per quanto sopra detto, nonostante la
natura pubblica del passaggio attraverso il tratto privato
di strada.
IV. Il ricorso va pertanto accolto con l’annullamento del
permesso di costruire impugnato in parte de qua in positiva
delibazione del motivo sopra illustrato, con assorbimento
del secondo, terzo e quarto motivo
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 29.03.2012 n. 208 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’assoggettamento
ad uso pubblico di una strada privata, in forza del quale
essa diviene soggetta alla normale disciplina stradale e la
proprietà privata si riduce al fatto che l’area ritornerebbe
nella piena disponibilità del proprietario quando cessasse
la destinazione stradale, deriva o dall’inserimento,
ricollegabile alla volontà del proprietario e palesantesi
nel mutamento della situazione dei luoghi, della strada
nella rete viaria cittadina, come può accadere in occasione
di convenzioni urbanistiche, di nuove edificazioni o di
espropriazioni oppure da un immemorabile uso pubblico (a sua
volta indice di un comportamento del proprietario
verificatosi in epoca remota e imprecisabile).
Tale uso deve essere inteso come comportamento della
collettività contrassegnato dalla convinzione -pur essa
palesata da una situazione dei luoghi che non consente di
distinguere la strada in questione da una qualsiasi altra
strada della rete viaria pubblica- di esercitare il diritto
di uso della strada
Vanno preliminarmente richiamati i principi vigenti in
materia di costituzione dell’uso pubblico delle strade,
esposti nelle sentenze impugnate e confermati con le
decisioni non definitive indicate in epigrafe e desumibili,
ora, dagli articoli 2, comma 7, e 3, comma 1, definizione n.
52, del codice della strada emanato con decreto legislativo
30.04.1992 n. 285 cioè che:
- l’assoggettamento ad uso pubblico di una strada privata,
in forza del quale essa diviene soggetta alla normale
disciplina stradale e la proprietà privata si riduce al
fatto che l’area ritornerebbe nella piena disponibilità del
proprietario quando cessasse la destinazione stradale,
deriva o dall’inserimento, ricollegabile alla volontà del
proprietario e palesantesi nel mutamento della situazione
dei luoghi, della strada nella rete viaria cittadina, come
può accadere in occasione di convenzioni urbanistiche, di
nuove edificazioni o di espropriazioni (vedasi, in aggiunta
ai precedenti già citati nella sentenza impugnata e nelle
decisioni non definitive della Sezione, la decisione
23.06.2003 n. 3716),
- oppure da un immemorabile uso pubblico (a sua volta indice
di un comportamento del proprietario verificatosi in epoca
remota e imprecisabile).
Tale uso deve essere inteso come comportamento della
collettività contrassegnato dalla convinzione -pur essa
palesata da una situazione dei luoghi che non consente di
distinguere la strada in questione da una qualsiasi altra
strada della rete viaria pubblica- di esercitare il diritto
di uso della strada
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 09.06.2008 n. 2864 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Si
ha uso pubblico, che comporta l’assoggettamento della strada
alla disciplina delle strade comunali anche se esse siano
“vicinali” ossia fuori dal centro abitato (decreto
legislativo 30.04.1992 n. 285, contenente il codice della
strada, articoli 2, comma 7, e 3, comma 1, definizione n.
52) quando un’area privata venga dal proprietario destinata
ad essere inserita nella rete viaria pubblica, o mediante
atto negoziale oppure, in modo simile a quanto è previsto
dall’articolo 1062 del codice civile per la costituzione di
servitù per destinazione del padre di famiglia, mediante una
sistemazione dei luoghi nella quale sia implicita la
realizzazione di una strada per uso pubblico, seguita da uso
pubblico effettivo.
Inoltre ha ragione il comune a rilevare che, anche
indipendentemente dall’efficacia del negozio di cessione, si
era verificato un uso pubblico della strada, per
comportamento esplicito e spontaneo del proprietario.
Si ha uso pubblico, che comporta l’assoggettamento della
strada alla disciplina delle strade comunali anche se esse
siano “vicinali” ossia fuori dal centro abitato
(decreto legislativo 30.04.1992 n. 285, contenente il codice
della strada, articoli 2, comma 7, e 3, comma 1, definizione
n. 52) quando un’area privata venga dal proprietario
destinata ad essere inserita nella rete viaria pubblica, o
mediante atto negoziale oppure, in modo simile a quanto è
previsto dall’articolo 1062 del codice civile per la
costituzione di servitù per destinazione del padre di
famiglia, mediante una sistemazione dei luoghi nella quale
sia implicita la realizzazione di una strada per uso
pubblico, seguita da uso pubblico effettivo.
Nella specie la cessione del dottor G.T., seguita dall’uso
pubblico effettivo, dalla toponomastica e dall’illuminazione
pubblica, ha appunto realizzato in modo conclamato quanto
meno la destinazione ad uso pubblico della strada,
indipendentemente, anche qui, dalle vicende del procedimento
amministrativo di lottizzazione
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.06.2003 n. 3716 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL
05.07.2013 |
ã |
A proposito dell'incentivo alla
progettazione interna:
BUTTIAMO L'OKKIO
NELL'ORTICELLO ALTRUI... |
Giorni fa sulla GURI è stato pubblicato il DM
dell'Interno circa la disciplina del'incentivo alla
progettazione interna del personale del "Dipartimento
dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della
difesa civile" che, di seguito, riportiamo:
|
INCENTIVO PROGETTAZIONE: G.U.
13.06.2013 n. 137 "Regolamento recante norme per
la ripartizione dell’incentivo economico, di cui
all’articolo 92, comma 5, del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163, al personale del Dipartimento
dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della
difesa civile" (Ministero dell'Interno,
decreto 22.04.2013 n. 66). |
Ebbene, l'art. 2, comma 3, cosi dispone: "3. Gli
incentivi di cui al comma 1 del presente articolo
sono riconosciuti soltanto quando i relativi
progetti siano stati formalmente approvati e posti a
base di gara e riguardino lavori
pubblici di competenza
dell’amministrazione, quali
attività di costruzione, demolizione,
recupero, ristrutturazione, restauro e
manutenzione straordinaria e
ordinaria, comprese le eventuali
progettazioni di connesse campagne diagnostiche e le
eventuali redazioni di perizie di variante e
suppletive nei casi previsti dall’art. 132, comma 1
del codice, ad eccezione della lettera e).".
|
AVETE LETTO BENE?? |
Il Ministero riconosce l'incentivo alla
progettazione riguardante anche la manutenzione
straordinaria e ordinaria quanto la Corte dei Conti,
a più riprese, ha statuito che non spetta in tali
casi !!
Tanto per rinvigorire la memoria ai distratti di turno,
riproponiamo di seguito alcuni pronunciamenti sul
tema:
|
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Appalti. Per i giudici contabili il
bonus va assegnato solamente per le opere pubbliche.
Manutenzioni ed economie senza incentivo ai
progetti.
LA SOMMA URGENZA/ Da valutare caso per caso
l'erogazione del compenso straordinario negli
interventi decisi in emergenza.
Per le manutenzioni ordinarie, per i lavori in
economia e per le progettazioni diverse dalle opere
pubbliche non spetta l'incentivo per la
realizzazione di opere pubbliche, mentre nelle
cosiddette «somme urgenze» occorre fare una
valutazione caso per caso.
Sono queste le indicazioni di maggiore rilievo
contenute nel
parere 19.03.2013 n. 15 della sezione
regionale di controllo della Corte dei Conti della
Toscana.
In questo modo si spingono gli enti ad applicare in
modo restrittivo l'incentivazione prevista
dall'articolo 92 del Codice dei contratti (Dlgs n.
163/2006) ai dipendenti pubblici, pari al 2%
dell'importo dell'opera.
Queste indicazioni vengono dopo i chiarimenti che
varie sezioni regionali di controllo della Corte dei
Conti hanno fornito sul divieto di erogare questo
compenso nel caso di interventi sul verde, di
redazione di piani urbanistici effettuata
all'esterno dell'ente e di strumenti urbanistici non
collegati alla realizzazione di lavori pubblici.
Ora, con il parere della magistratura contabile
toscana arriva a compimento il processo di drastica
delimitazione dei casi in cui l'incentivo può essere
erogato.
Il parere parte dal richiamo al dettato normativo;
esso fa «riferimento esclusivamente ai lavori
pubblici, e l'articolo 92, comma 1, presuppone
l'attività di progettazione nelle varie fasi,
expressis verbis come finalizzata alla costruzione
dell'opera pubblica progettata. A fortiori, lo
stesso comma 6 dell'articolo 92 prevede che
l'incentivo alla progettazione venga ripartito tra i
dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che
lo abbiano redatto». In altri termini, il dato
normativo subordina il compenso alla realizzazione
di opere pubbliche. Quindi occorre escludere «i
lavori di manutenzione ordinaria, peraltro
finanziati con risorse di parte corrente del
bilancio. Lo stesso può concludersi in riferimento
ai lavori in economia, siano essi connessi o meno ad
eventi imprevedibili». Cioè non siamo in
presenza in nessuna di queste due fattispecie di
opere pubbliche.
Le conclusioni sono più differenziate per i lavori
di somma urgenza. In questo caso «appare
dirimente, alla luce delle interpretazioni proposte,
valutare la natura del lavoro eseguito che dovrà
presentare i caratteri dell'opera pubblica o del
lavoro finalizzato alla realizzazione di un'opera di
pubblico interesse per poter rientrare»
nell'incentivazione.
Infine, viene chiarito che «l'attività
di redazione del piano di gestione di una Zona di
Protezione Speciale, non rientra in quelle oggetto
di incentivo». Anche in questo caso alla base
della esclusione vi è la considerazione che il
dettato legislativo prevede l'incentivo solamente
nel caso di realizzazione di lavori pubblici e non
può essere estesa allo svolgimento di altre attività
(articolo
Il Sole 24 Ore dell'08.04.2013 - tratto
da www.ecostampa.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
► Non sono incentivabili ex art. 92,
comma 5, d.lgs. 163/2006 i lavori di manutenzione
ordinaria, peraltro finanziati con risorse di parte
corrente del bilancio;
► analogamente, sono escluse
dall'applicabilità della predetta norma i lavori in
economia, siano essi connessi o meno ad eventi
imprevedibili o d'urgenza ex art. 175 del d.p.r.
207/2010;
► riguardo, invece, ai lavori di
somma urgenza (art. 176 d.p.r. 207/2010) risulta
dirimente valutare la natura dei lavori eseguiti che
dovranno presentare i caratteri dell'opera pubblica
o dei lavori finalizzati alla realizzazione di
un'opera di pubblico interesse per poter rientrare
nelle tipologie incentivabili ai sensi dell'art. 92
del d.lgs. 163/2006;
► l'attività di redazione di un
piano di gestione di una zona di protezione civile
(legge 56/2000) non rientra tra quelle oggetto di
incentivo disciplinato dal menzionato art. 92.
---------------
Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato
alla Sezione, con nota in data 08.02.2013 prot. n.
2866/1.13.9, richiesta di parere formulata dal
Presidente della provincia di Prato in materia di
incentivi alla progettazione di cui all’art. 92 del
D.Lgs. 163/2006.
In particolare, ai fini della corretta applicazione
delle norme in materia di incentivi al personale,
chiede di sapere se rientra nell’applicazione della
normativa in materia di incentivi di cui all’art.
92, commi 5 e 6, del D.Lgs. 163/2006 l’ipotesi di:
1. lavori di manutenzione ordinaria con
finanziamento di parte corrente, escludendo attività
di taglio del verde, sostituzione di infissi e
apparati termoidraulici;
2. lavori in economia connessi ad eventi
imprevedibili di cui all’art. 125, comma 6, lett.
a), del D.Lgs. 163/2006 e lavori di urgenza di cui
all’art. 175 del DPR n. 207/2010 realizzati sulla
base di perizia tecnica o progettazione esecutiva
affidati ai sensi dell’art. 125, comma 8, D.Lgs.
163/2006;
3. lavori di somma urgenza ordinati in via d’urgenza
e successivamente regolarizzati mediante
approvazione di perizia giustificativa redatta dal
responsabile del procedimento con le modalità di cui
all’art. 176 DPR 207/2010;
4. redazione del Piano di Gestione di una Zona di
Protezione Speciale (L. 56/2000) che prevede tra
l’altro la localizzazione di interventi pubblici in
relazione ai quali l’ente agisce in veste di
stazione appaltante.
...
Nel merito, l’art. 92, comma 5, del D.Lgs. 163/2006
(codice degli appalti) recita: “Una somma non
superiore al due per cento dell'importo posto a base
di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva
anche degli oneri previdenziali e assistenziali a
carico dell’amministrazione, a valere direttamente
sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7,
è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le
modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata e assunti in un
regolamento adottato dall'amministrazione, tra il
responsabile del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza,
della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra
i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel
limite massimo del due per cento, è stabilita dal
regolamento in rapporto all'entità e alla
complessità dell'opera da realizzare. La
ripartizione tiene conto delle responsabilità
professionali connesse alle specifiche prestazioni
da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è
disposta dal dirigente preposto alla struttura
competente, previo accertamento positivo delle
specifiche attività svolte dai predetti dipendenti;
limitatamente alle attività di progettazione,
l'incentivo corrisposto al singolo dipendente non
può superare l'importo del rispettivo trattamento
economico complessivo annuo lordo; le quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non
svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a
personale esterno all'organico dell'amministrazione
medesima, ovvero prive del predetto accertamento,
costituiscono economie. I soggetti di cui
all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono
adottare con proprio provvedimento analoghi criteri”.
Il comma 6 del medesimo articolo 92 recita: “Il
trenta per cento della tariffa professionale
relativa alla redazione di un atto di pianificazione
comunque denominato è ripartito, (…) tra i
dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che
lo abbiano redatto”.
In risposta ai primi due quesiti la Sezione
ribadisce quanto già espresso in altra deliberazione
(n. 293 del 23.10.2012), peraltro citata dal comune
richiedente, ritenendo che l’art. 90 del D.lgs. n.
163/2006 sia alla rubrica che al c. 1, faccia “riferimento
esclusivamente ai lavori pubblici, e l’art. 92, c.
1, presuppone l’attività di progettazione nelle
varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla
costruzione dell’opera pubblica progettata.
A fortiori, lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede
che l’incentivo alla progettazione venga ripartito
“tra i dipendenti dell’amministrazione
aggiudicatrice che lo abbiano redatto” e, dunque, è
di palmare evidenza come il riferimento normativo e
la conseguente voluntas legis sia ascrivibile solo
alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi
una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla
realizzazione di un’opera di pubblico interesse”;
quanto espresso pare escludere dal novero delle
attività retribuibili con l’incentivo in questione i
lavori di manutenzione ordinaria, peraltro
finanziati con risorse di parte corrente del
bilancio. Lo stesso può concludersi in riferimento
ai lavori in economia, siano essi connessi o meno ad
eventi imprevedibili.
In risposta al terzo quesito, riferito a
lavori di somma urgenza ordinati in via d’urgenza,
appare dirimente, alla luce delle interpretazioni
proposte, valutare la natura del lavoro eseguito che
dovrà presentare i caratteri dell’opera pubblica o
del lavoro finalizzato alla realizzazione di
un’opera di pubblico interesse per poter rientrare
nelle tipologie incentivabili ai sensi dell’art. 92
del codice dei contratti (D.Lgs. 163/2006).
In merito al quarto quesito, come già
evidenziato da questa Sezione in altri pareri
(deliberazione n. 213 del 18.10.2011 e deliberazione
n. 389 del 27.11.2012) un atto regolamentare “non
può essere assimilato, per il suo contenuto
intrinseco, ad un progetto di lavori comunque
denominato” mentre “l’art. 90 del D.lgs. n. 163/2006
sia alla rubrica che al c. 1, fa riferimento
esclusivamente ai lavori pubblici, e l’art. 92, c.
1, presuppone l’attività di progettazione nelle
varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla
costruzione dell’opera pubblica progettata. A
fortiori, lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che
l’incentivo alla progettazione venga ripartito “tra
i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che
lo abbiano redatto” e, dunque, è di palmare evidenza
come il riferimento normativo e la conseguente
voluntas legis sia ascrivibile solo alla materia dei
lavori pubblici, presupponendosi una procedura ad
evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di
un’opera di pubblico interesse”; a parere di
questo collegio, pertanto, l’attività di
redazione del Piano di Gestione di una Zona di
Protezione Speciale, non rientra in quelle oggetto
di incentivo disciplinato dalla norma sopra
riportata (Corte
dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 19.03.2013 n. 15). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Il sindaco del comune di Cislago chiedeva se
fosse corretto corrispondere l’incentivo ex art. 92
al personale dipendente interno all’ufficio tecnico
comunale coinvolto nella realizzazione di opere e di
lavori di manutenzione sugli immobili comunali o del
verde pubblico quali: opere di manutenzione
ordinaria e straordinaria sugli immobili (di
carattere edile e relative agli impianti); opere di
manutenzione ordinaria e straordinaria sulle strade,
manutenzione del verde.
Chiedeva, inoltre, se l’incentivo per gli atti di
pianificazione fosse erogabile per la redazione di
varianti allo strumento urbanistico generale (Piano
di Governo del Territorio), relative alla
predisposizione di modifiche parziali e/o totali di
articoli delle norme tecniche di attuazione del PGT
o alla stesura di elaborati relativi
all’azzonamento, sia riguardanti aree con
destinazioni di interesse pubblico che di carattere
privato, con relativa procedura di V.A.S..
---------------
L’incentivo alla progettazione non può venire
riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione
ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale ma
solo per lavori di realizzazione di un’opera
pubblica alla cui base vi sia una necessaria
attività di progettazione.
Esulano, pertanto, tutti quei lavori manutentivi per
la cui realizzazione non è necessaria l’attività
progettuale richiamata negli articoli 90, 91 e 92
del decreto n. 163.
E' di palmare evidenza come il riferimento normativo
e la conseguente voluntas legis sia ascrivibile solo
alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi
una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla
realizzazione di un’opera di pubblico interesse.
---------------
Quanto al corretto significato da attribuire alla locuzione “atto di
pianificazione” inserita nel testo dell’art. 92,
comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, la Sezione richiama
il condivisibile orientamento espresso dalla Sezione
regionale di controllo per il Piemonte a tenore del
quale,
l’atto di pianificazione, comunque denominato, debba
necessariamente riferirsi alla progettazione di
opere pubbliche e non ad un mero atto di
pianificazione territoriale redatto dal personale
tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione.
Stante la sedes materiae della norma sugli incentivi
alla progettazione (Codice degli appalti), nonché la
ratio della disposizione (contenere i costi connessi
alla progettazione delle opere pubbliche
valorizzando le professionalità interne alla
pubblica amministrazione), si condivide
l’argomentazione secondo cui “la
norma àncora chiaramente il riconoscimento del
diritto ad ottenere il compenso incentivante alla
circostanza che la redazione dell’atto di
pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad
atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta
all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta
all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di
alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici
tecnici dell’Ente”.
In conclusione,
ciò che rileva ai fini della riconoscibilità del
diritto al compenso incentivante non è tanto il
nomen juris attribuito all’atto di pianificazione,
quanto il suo contenuto specifico intimamente
connesso alla realizzazione di un’opera pubblica,
ovvero a quel quid pluris di progettualità interna,
rispetto ad un mero atto di pianificazione generale
(piano regolatore o variante generale) che
costituisce, al contrario, diretta espressione
dell’attività istituzionale dell’ente per la quale
al dipendente è già corrisposta la retribuzione
ordinariamente spettante.
--------------
Il sindaco del comune di Cislago, con nota n. 2011
del 05.02.2013, chiedeva all’adita Sezione
l’espressione di un parere in ordine alla corretta
interpretazione dell’articolo 92, commi 5 e 6, del
d.lgs. n. 163/2006.
In particolare, il sindaco del comune di Cislago
chiedeva se fosse corretto corrispondere l’incentivo
ex art. 92 al personale dipendente interno
all’ufficio tecnico comunale coinvolto nella
realizzazione di opere e di lavori di manutenzione
sugli immobili comunali o del verde pubblico quali:
opere di manutenzione ordinaria e straordinaria
sugli immobili (di carattere edile e relative agli
impianti); opere di manutenzione ordinaria e
straordinaria sulle strade, manutenzione del verde.
Chiedeva, inoltre, se l’incentivo per gli atti di
pianificazione fosse erogabile per la redazione di
varianti allo strumento urbanistico generale (Piano
di Governo del Territorio), relative alla
predisposizione di modifiche parziali e/o totali di
articoli delle norme tecniche di attuazione del PGT
o alla stesura di elaborati relativi
all’azzonamento, sia riguardanti aree con
destinazioni di interesse pubblico che di carattere
privato, con relativa procedura di V.A.S..
...
La questione in esame concerne la corretta
interpretazione dell’articolo 92, commi 5 e 6, del
d.lgs. n. 63/2006, questione su cui la
giurisprudenza di questa Sezione è ormai più che
consolidata.
Più nel dettaglio, l’istanza di parere concerne
separatamente il comma 5 citato (incentivi per
l’affido di lavori di manutenzione
ordinaria/straordinaria) ed il comma 6 (incentivi
per la redazione di varianti allo strumento
urbanistico generale), così da rendere opportuna una
separata trattazione.
Seguendo l’ordine numerico, il menzionato comma 5
prevede che “una somma non superiore al due per
cento dell'importo posto a base di gara di un'opera
o di un lavoro, (…), è ripartita, per ogni singola
opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti
in sede di contrattazione decentrata e assunti in un
regolamento adottato dall'amministrazione, tra il
responsabile del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza,
della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra
i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel
limite massimo del due per cento, è stabilita dal
regolamento in rapporto all'entità e alla
complessità dell'opera da realizzare. La
ripartizione tiene conto delle responsabilità
professionali connesse alle specifiche prestazioni
da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è
disposta dal dirigente preposto alla struttura
competente, previo accertamento positivo delle
specifiche attività svolte dai predetti dipendenti
(…); le quote parti dell'incentivo corrispondenti a
prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in
quanto affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione medesima, ovvero prive del
predetto accertamento, costituiscono economie”.
La disciplina in discorso è stata già oggetto di
attenzione da parte di precedenti pronunce della
Corte dei conti (cfr., fra le altre, Sezione
Autonomie
delibera 13.11.2009 n. 16/2009, Sezione
Veneto
parere 26.07.2011 n. 337, Sezione
Piemonte
parere 30.08.2012 n. 290, Sezione
Lombardia
parere 06.03.2012 n. 57 e
parere 30.05.2012 n. 259) alle cui
motivazioni e conclusioni può farsi riferimento per
l’analisi dei profili generali.
La norma va letta nel complessivo contesto delle
modalità d’affidamento degli incarichi
tecnico-professionali, previste dalla legislazione
in materia di contratti pubblici. Quest’ultima (si
rinvia agli artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del
d.lgs. 163/2006) è informata da un principio
generale, già codificato dall’art. 7, comma 6, del
d.lgs. n. 165/2001, in base al quale i predetti
incarichi possono essere conferiti a soggetti
esterni al plesso amministrativo solo se non si
disponga di professionalità adeguate nel proprio
organico e tale carenza non sia altrimenti
risolvibile con strumenti flessibili di gestione
delle risorse umane. Tale presupposto mira a
preservare le finanze pubbliche oltre che a
valorizzare il personale interno alle
amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi ordinarie in cui gli
incarichi tecnici sono espletati da personale
interno, ai fini della loro remunerazione, occorre
far riferimento alle regole generali previste per il
pubblico impiego, il cui sistema retributivo è
conformato da due principi cardine, quello di
definizione contrattuale delle componenti economiche
e quello di onnicomprensività della retribuzione
(cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001,
nonché Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per
la Puglia, sentenze nn. 464, 475 e 487 del 2010).
Secondo questi ultimi nulla è dovuto, oltre al
trattamento economico fondamentale ed accessorio
stabilito dai contratti collettivi, al dipendente
che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi
doveri d’ufficio, anche se di particolare
complessità.
Il c.d. “incentivo alla progettazione”,
previsto dal Codice dei contratti pubblici,
costituisce uno di quei casi nei quali il
legislatore, derogando al principio per cui il
trattamento economico è fissato dai contratti
collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e
speciale, rinviando ai regolamenti
dell’amministrazione aggiudicatrice, previa
contrattazione decentrata, i criteri e le modalità
di ripartizione.
L’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006 deroga ai
principi di onnicomprensività e determinazione
contrattuale della retribuzione del dipendente
pubblico e, come tale, costituisce un’eccezione che
si presta a stretta interpretazione e per la quale
sussiste il divieto di analogia posto dall’art. 12
delle diposizioni preliminari al codice civile (in
tal senso Sezione Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008).
Come evincibile dalla lettera del comma, la legge
pone alcuni paletti per l’attribuzione del predetto
incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“criteri
e modalità”) ad un regolamento interno assunto
previa contrattazione decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno deve
rispettare
(sull’impossibilità da parte del regolamento di
derogare a quanto previsto dalla legge o di
attribuire compensi non previsti, si rimanda al
parere della Sezione n. 259/2012)
paiono essere i seguenti:
►
erogazione ai soli dipendenti
espletanti gli incarichi tassativamente indicati
dalla norma (responsabile del procedimento,
incaricati della redazione del progetto, del piano
della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, e loro collaboratori), riferiti
all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o
un lavoro” (non, pertanto, per un appalto di
fornitura di beni o di servizi).
La norma non presuppone,
tuttavia, ai fini della legittima erogazione,
il necessario espletamento interno di una o più
attività (per esempio, la progettazione)
purché,
come sarà meglio specificato,
il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera
conforme alle responsabilità attribuite e devolva in
economia la quota relativa agli incarichi conferiti
a professionisti esterni;
►
ammontare complessivo non superiore
al due per cento dell’importo a base di gara. Di
conseguenza la somma concretamente prevista dal
regolamento interno può essere stabilita in misura
percentuale inferiore;
►
ancoramento del fondo incentivante
alla base di gara (non all’importo oggetto del
contratto, né a quello risultante dallo stato finale
dei lavori).
Si deduce che
non appare ammissibile la previsione e l’erogazione
di alcun compenso nel caso in cui l’iter dell’opera
o del lavoro non sia giunto, quantomeno, alla fase
della pubblicazione del bando o della spedizione
delle lettere d’invito
(cfr., per esempio, l’art. 2, comma 3, del DM
Infrastrutture n. 84 del 17/03/2008).
Quanto detto non esclude che, in sede di regolamento
interno, al fine di ancorare l’erogazione
dell’incentivo a più stringenti presupposti,
l’amministrazione possa prevedere la corresponsione
solo subordinatamente all’aggiudicazione dell’opera;
►
puntuale ripartizione del fondo
incentivante tra gli incarichi attribuibili
(responsabile del procedimento, progettista,
direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro
collaboratori), secondo percentuali rimesse alla
discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere,
tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza
e ragionevolezza
(cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici, Deliberazioni n. 315 del 13/12/2007, n. 70
del 22/06/2005, n. 97 del 19/05/2004;
►
devoluzione in economia delle quote
del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni
non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale
esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo
che impone di prevedere analiticamente nel
regolamento interno, e graduare, le percentuali
spettanti per ogni incarico espletabile dal
personale, in maniera tale da permettere, nel caso
in cui alcune prestazioni siano affidate a
professionisti esterni, la predetta devoluzione
(si rinvia alle Deliberazioni dell’Autorità di
vigilanza n. 315 del 13/12/2007, n. 35 del
08/04/2009, n. 18 del 07/05/2008 e n. 150 del
02/05/2001).
Sulla base di tali criteri si può rispondere
negativamente al primo quesito posto dal
Comune di Cisalgo:
l’incentivo alla progettazione non
può venire riconosciuto per qualunque lavoro di
manutenzione ordinaria/straordinaria su beni
dell’ente locale ma solo per lavori di realizzazione
di un’opera pubblica alla cui base vi sia una
necessaria attività di progettazione.
Esulano, pertanto, tutti quei lavori manutentivi per
la cui realizzazione non è necessaria l’attività
progettuale richiamata negli articoli 90, 91 e 92
del decreto n. 163.
Sulla stessa linea, con motivazione ampiamente
condivisibile, va richiamata la deliberazione della
Sezione Toscana n. 293/2012/PAR secondo cui “l’art.
90 del D.lgs. n. 163/2006 sia alla rubrica che al c.
1, fa riferimento esclusivamente ai lavori pubblici,
e l’art. 92, c. 1, presuppone l’attività di
progettazione nelle varie fasi come finalizzata alla
costruzione dell’opera pubblica progettata. A
fortiori, lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che
l’incentivo alla progettazione venga ripartito tra i
dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che
lo abbiano redatto e, dunque,
è di palmare evidenza come il riferimento normativo
e la conseguente voluntas legis sia ascrivibile solo
alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi
una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla
realizzazione di un’opera di pubblico interesse”
(nello stesso senso, la medesima Sezione si è
espressa più di recente con il parere n. 459/2012).
Analoga risposta negativa merita la seconda
ipotesi prospettata nell’istanza di parere
(incentivi per la redazione di varianti allo
strumento urbanistico generale).
Ai sensi dell’articolo 92, comma 6, decreto
legislativo n. 163/2003 “il trenta per cento
della tariffa professionale relativa alla redazione
di un atto di pianificazione comunque denominato è
ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel
regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano
redatto”.
Anche su tale disposto normativo la Sezione si è già
più volte pronunciata con le deliberazioni n. 57,
259 e 440 del 2012 cui si rinvia per la completezza
del quadro giurisprudenziale.
Richiamati le suesposte considerazioni
sull’eccezionalità della previsione normativa, va
ricordato che le condivisibili conclusioni di questa
Sezione sono pertanto che “l’art.
92, comma 6, non potrebbe costituire titolo per
l’erogazione di speciali compensi ai dipendenti che
svolgono attività sussidiarie, strumentali o di
supporto alla redazione di atti di pianificazione
affidata a professionisti esterni. Tale
disposizione, infatti, abilita
(nella misura autoritativamente fissata dalla legge)
a riconoscere uno speciale compenso,
al di là del trattamento economico ordinariamente
spettante,
solo in presenza dei due seguenti elementi di
fattispecie:
a) sul piano dell’oggetto, che la prestazione
consista nella diretta “redazione di un atto di
pianificazione”, non in attività variamente
sussidiarie che rientrano nei doveri d’ufficio dei
dipendenti, nel contesto dell’attività di governo
del territorio (cfr. la deliberazione del 27.01.2009, n. 9 di questa
Sezione);
b) implicitamente, che la redazione dello stesso non
sia stata esternalizzata ad un professionista
esterno ai sensi dell’art. 90, comma 6”.
Quanto al corretto significato da attribuire alla
locuzione “atto di pianificazione” inserita
nel testo dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. n.
163/2006, la Sezione richiama il condivisibile
orientamento espresso dalla Sezione regionale di
controllo per il Piemonte (cfr. deliberazione n.
290/2012/SRPIE/PAR), a tenore del quale,
l’atto di pianificazione, comunque denominato, debba
necessariamente riferirsi alla progettazione di
opere pubbliche e non ad un mero atto di
pianificazione territoriale redatto dal personale
tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione.
Stante la sedes materiae della norma sugli
incentivi alla progettazione (Codice degli appalti),
nonché la ratio della disposizione (contenere
i costi connessi alla progettazione delle opere
pubbliche valorizzando le professionalità interne
alla pubblica amministrazione), si condivide
l’argomentazione secondo cui “la
norma àncora chiaramente il riconoscimento del
diritto ad ottenere il compenso incentivante alla
circostanza che la redazione dell’atto di
pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad
atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta
all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta
all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di
alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici
tecnici dell’Ente” (in termini, Sezione contr. Piemonte deliberazione cit.;
cfr. altresì Sezione contr. Lombardia, 30.05.2012,
n. 259; 06.03.2012, n. 57; Sezione contr. Puglia,
16.01.2012, n. 1; Sezione contr. Toscana,
18.10.2011, n. 213).
In conclusione,
ciò che rileva ai fini della riconoscibilità del
diritto al compenso incentivante non è tanto il
nomen juris attribuito all’atto di
pianificazione, quanto il suo contenuto specifico
intimamente connesso alla realizzazione di un’opera
pubblica, ovvero a quel quid pluris di
progettualità interna, rispetto ad un mero atto di
pianificazione generale (piano regolatore o variante
generale) che costituisce, al contrario, diretta
espressione dell’attività istituzionale dell’ente
per la quale al dipendente è già corrisposta la
retribuzione ordinariamente spettante
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 06.03.2013 n.
72). |
Ma ciò che sorprende, per lo meno a chi scrive, e
che il D.M. de quo ha acquisito la
preliminare registrazione alla Corte dei Conti. Ora,
pur non masticando a menadito la materia giuridica,
ci sembra di ricordare che la registrazione della
Corte dei Conti è obbligatoria per alcuni atti dello
Stato centrale e ciò avviene solo dopo aver
accertato che gli stessi siano conformi alle norme
di legge (per saperne di più
cliccare qui).
Ma conforme alla legge non vuol dire solamente un
confronto letterale del testo dell'atto da
registrare con la norma ma anche, e soprattutto, un
confronto coi pronunciamenti giurisprudenziali e/o
con quei pareri resi da altri enti deputati a far
chiarezza (qualificata) allorquando il legislatore,
troppo spesso, è farraginoso nel tramutare nero su
bianco la propria attività.
|
Quindi, sorge spontaneo porsi il
seguente interrogativo: come mai la Corte dei Conti
romana ha registrato il D.M. senza tener conto di
quanto affermato sempre dalla Corte di Conti a
livello regionale??
Non si vorrà far credere
che, nel caso di specie, la mano sinistra non sapeva
cosa facesse la mano destra??
Se, invece (ed è il nostro
auspicio), siamo di fronte ad un madornale lapsus
(e può capitare a qualsiasi comune mortale)
auspichiamo una rettifica in tempo reale... |
Il fatto è che le varie sezioni regionali della
Corte dei Conti "bacchettano" con solerzia (e
fanno bene !!) gli enti locali laddove sperperano,
scialacquano il denaro pubblico con un
modus operandi alquanto disinvolto mentre lo
Stato centrale, nelle sue varie articolazioni, opera
come meglio crede per il sol fatto di avere un visto
di registrazione ... |
E
ALLORA?? |
Allora, vogliamo provare a fare una segnalazione
alla Procura Regionale della Corte dei Conti per
vedere se il Dirigente del "Dipartimento dei
vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della
difesa civile", che andrà (indebitamente) ad
erogare l'incentivo alla progettazione relativamente
a lavori di "manutenzione straordinaria e
ordinaria", sarà condannato a rifondere di tasca
propria la somma elargita ??
Fino a prova contraria, ancora oggi
LA LEGGE E' UGUALE PER TUTTI !! (a fatti e non a
parole ...).
05.07.2013 - LA SEGRETERIA PTPL |
dite
la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
EDILIZIA PRIVATA: R.
Cartasegna,
L’ART. 30 DEL DECRETO-LEGGE 21.06.2013 N. 69 - Inquietante
deregulation urbanistica … e “centri storici” a rischio
(28.06.2013). |
SINDACATI & ARAN |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
EE.LL. - LE ASSUNZIONI ED IL D.LGS. N. 33 DEL
2013 (CGIL-FP
di Bergamo,
nota 01.07.2013). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Il foglio dei lavoratori della Funzione
Pubblica (CGIL-FP
di Bergamo,
giugno 2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La procedura della contrattazione decentrata integrativa -
Comparto Regioni e Autonomie locali (ARAN, marzo 2013). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 04.07.2013, "Testo
coordinato della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il
governo del territorio»". |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
SICUREZZA LAVORO:
E. Faiazza,
Il “Decreto del Fare”: le modifiche apportate in materia di
sicurezza sul lavoro
(03.07.2013 - link a www.diritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
E. Morici e M. Petracca,
Caratteristiche e presupposti dell’annullamento d’ufficio
del provvedimento amministrativo (1. Riferimento
normativo dell’annullamento d’ufficio - 2. Vizi di
legittimità del provvedimento – 3. Interesse pubblico
concreto e attuale – 4. La necessaria comparazione fra
l’interesse pubblico e gli interessi dei privati – 5.
L’annullamento doveroso - 6. Efficacia ex nunc o ex tunc) (03.07.2013
- link a www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Impianti termici: ecco le nuove regole in vigore dal 12
luglio (02.07.2013 - link a www.leggioggi.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
C. Lamberti,
Demolizione di opere
parzialmente difformi e pregiudizio alle parti conformi
(Urbanistica e appalti n. 7/2013 - tratto da
www.ispoa.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
GLI INCENTIVI PER LA PROGETTAZIONE URBANISTICA INTERNA (ART.
92, COMMA 6, DEL CODICE DEI CONTRATTI) - LA POSIZIONE DI
ANCI TOSCANA (20.06.2013).
---------------
La disamina
dell'incentivo alla progettazione interna con particolare
riferimento "alla redazione di un atto di pianificazione
comunque denominato", dalla sua istituzione ad oggi, ad
opera di ANCI Toscana è assolutamente condivisibile in
termini di principio.
Tuttavia, bisogna fare i conti con la realtà di ogni giorno. Detto
altrimenti:
► se il responsabile dell'UTC redige d'ufficio il nuovo PRG/PGT
gli viene riconosciuto l'incentivo pari al 30% della tariffa
professionale;
► se è sfigato, la Procura regionale lo viene a sapere e la
Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale regionale di
competenza, lo condanna (o condanna chi ha sottoscritto la
determina di liquidazione) a risarcire l'amministrazione di
appartenenza per indebita elargizione di somma non dovuta
poiché finalizzata a NON realizzare (ancorché indirettamente
ma in stretta correlazione) un'opera pubblica. E le
sentenze/pareri in tal senso non si contano più ... (cfr. i
contenuti del nostro
dossier INCENTIVO PROGETTAZIONE);
► "va beh, chi se ne frega ... facciamo
ricorso in appello" dirà il tecnico condannato;
► il ricorso in appello viene presentato ma a decidere sono
sempre loro, i Giudici contabili ... ergo, tempo e denaro
buttati dalla finestra per arrampicarsi sui vetri bagnati a
sostenere una posizione indifendibile il cui esito è
scontato: conferma della condanna di 1° grado!!
E allora, chi è quel temerario che s'azzarda ad intascare denaro
pubblico sapendo che la Corte dei Conti ha gridato ai
quattro venti che è illegittimo??
Beh sì, invero temerari ce ne sono assai in giro ed a costoro
facciamo tanti, tanti, tantissimi auguri ...
05.07.2013 - LA SEGRETERIA PTPL |
INCENTIVI PROGETTAZIONE:
A. Olessina,
Il nuovo regime degli
incentivi per la progettazione e diritti quesiti (Urbanistica
e appalti n. 9/2009). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
VARI:
Detrazione Irpef per acquisto mobili: ecco le prime
istruzioni dell’Agenzia - I pagamenti dovranno essere
effettuati mediante bonifici bancari o postali, con le
medesime modalità già previste per usufruire
dell’agevolazione sui lavori di ristrutturazione (04.07.2013
- link a www.fiscooggi.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Oggetto: Termini approvazione PUGSS (Piano
Urbano Generale dei Servizi del Sottosuolo)
(Regione Lombardia - Direzione Generale Ambiente, Energia e
Sviluppo Sostenibile - Energia e Reti Tecnologiche - Reti
Tecnologiche,
nota 04.07.2013 n. 23654 di prot.). |
SICUREZZA LAVORO: Oggetto:
Applicazione delle disposizioni contenute nell'articolo 306,
comma 4-bis, del d.lgs. 09.04.2008, n. 81 così come
modificato dal decreto-legge 28.06.2013, n. 76
(Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
nota 02.07.2013 n. 12059 di prot.).
---------------
Sicurezza nei luoghi di lavoro:
aumentate ammende e sanzioni.
A seguito dell'aumento, stabilito dal D.L. n. 76/2013, delle
contravvenzioni in materia di igiene, salute e sicurezza sul
lavoro e delle sanzioni amministrative pecuniarie previste
dal D.Lgs. n. 81/2008, il Ministero del Lavoro sottolinea
l'applicazione dall'01.07.2013 della rivalutazione del 9,6%.
Il D.L. n. 76/2013, con l’art. 9, comma 2, ha sostituito il
comma 4-bis del D.Lgs. n. 81/2008, relativo alle
contravvenzioni in materia di igiene, salute e sicurezza sul
lavoro ed alle sanzioni amministrative pecuniarie previste
dal medesimo decreto legislativo.
In virtù della nuova modifica, le ammende previste con
riferimento alle contravvenzioni in materia di igiene,
salute e sicurezza sul lavoro e le sanzioni amministrative
pecuniarie previste dal Testo Unico sulla salute e sicurezza
nei luoghi di lavoro, nonché da atti aventi forza di legge
sono rivalutate ogni cinque anni con decreto del direttore
generale della Direzione generale per l'Attività Ispettiva
del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in
misura pari all'indice ISTAT dei prezzi al consumo previo
arrotondamento delle cifre al decimale superiore.
Tuttavia lo stesso articolo stabilisce che in sede di prima
applicazione la rivalutazione avviene, a decorrere dal
01.07.2013, nella misura del 9,6%.
A seguito di quanto sopra, con nota prot. 12059 del
02.07.2013 la Direzione Generale per l’Attività Ispettiva ha
comunicato che tutte le ammende riferite alle
contravvenzioni in materia di igiene, salute e sicurezza sul
lavoro e le sanzioni amministrative previste dal D.Lgs. n.
81/2008 nonché da altre normative in materia, riferite a
violazioni commesse a decorre dall’01.07.2013, sono
incrementate del 9,6%.
Inoltre, per il momento, salvo successive modifiche in sede
di conversione del decreto legge, il risultato finale della
sanzione non va arrotondato
(commento tratto da www.ispoa.it). |
PATRIMONIO - VARI:
OGGETTO: Regime IVA cessioni e locazioni di fabbricati –
Decreto-legge 22.06.2012, n. 83 (Agenzia delle Entrate,
circolare 28.06.2013 n. 22/E). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Incremento orario del part-time e limitazioni
alle assunzioni.
La Corte dei Conti, sezione regionale Veneto, con il
parere 02.07.2013 n. 168 risponde al Comune di
Povegliano Veronese circa la possibilità di non considerare
come "assunzione" l'incremento orario di un proprio
dipendente a tempo parziale elevandolo dal 70% al 92%.
Trattasi di dipendente assunto a tempo indeterminato e pieno
da altro ente, presso il quale ha ottenuto la trasformazione
del rapporto di lavoro a tempo parziale e, successivamente,
passato all'istante mediante mobilità volontaria ex art. 30
d.lgs. 165/2001. L'amministrazione precisa di aver
rispettato il patto di stabilità, il limite di cui all'art.
1, comma 557, legge 296/2006, ma di non poter procedere ad
assunzioni di nuovo personale in base al disposto dell'art.
76, comma 7, del d.l. 112/2008, convertito in legge
133/2008.
Queste le conclusioni della sezione:
"... ritiene che l'ipotesi di sola trasformazione della
percentuale lavorativa di un dipendente, assunto con
contratto full-time, a tempo indeterminato, e
successivamente trasformato in contratto part-time a tempo
indeterminato, non costituisca una nuova assunzione e può
considerarsi ammissibile, nella misura in cui vengano
rispettati i limiti ed i vincoli in materia di spesa per il
personale di cui si ricorda, in particolare, l'obbligo di
riduzione tendenziale della spesa di personale di cui
all'art. 1, comma 557, della legge 27.12.2006, n. 296 (e non
di 'non superamento' della spesa per il personale sostenuta
nell'esercizio finanziario precedente, come specificato
nella richiesta di parere del Sindaco di Povegliano
Veronese) e la percentuale non inferiore al 50% (rectius:
non superiore) della spesa del personale sulle spese
correnti di cui all'art. 76, comma 7, legge 133/2008: del
rispetto di tali vincoli, il Collegio ne ribadisce il
carattere inderogabile" (tratto da www.publika.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità.
La Corte dei Conti, sezione regionale Veneto, con il
parere 27.06.2013 n. 162, risponde
al Comune di Villaverla sul seguente quesito:
"... premette che un dipendente dell'ente ... ha richiesto
la mobilità presso altro ente per aspirazioni professionali
proprie e l'amministrazione comunale non intende ostacolare
tale legittima aspirazione. ... chiede pertanto se il Comune
di Villaverla, prima di esprimersi su tale richiesta di
mobilità, possa attivare a propria volta un procedimento di
mobilità volontaria ai sensi dell'art. 30 del D.Lgs. n.
165/2001 per accertare se altri dipendenti di pubbliche
amministrazioni, di pari categoria e qualifica, siano
disposti a trasferirsi presso l'ente, ovvero, in virtù di
quanto indicato all'art. 34-bis del medesimo D.Lgs. n.
165/2001 ed in applicazione dell'art. 2, comma 13 del D.L n.
95/2012, il ... Comune sia tenuto, previamente, ad attivare
la procedura di verifica di dipendenti inseriti negli
elenchi di disponibilità onde consentire agli stessi di
ricollocarsi".
La sezione esamina la richiesta con 57 pagine di analisi
normativa ed argomentazioni; in particolare, sulle
differenti caratteristiche e finalità della mobilità ex art.
30 d.lgs. 165/2001, rispetto a quella prevista dall'art.
34-bis, sul rapporto di concorrenza-prevalenza tra i due
istituti e ritiene che:
- in prima istanza,
"... in relazione al caso concreto posto
dal comune di Villaverla ...
un eventuale ricorso alla
procedura di mobilità ex articolo 30 D.Lgs. n. 165/2001
debba essere considerata prevalente rispetto alla procedura
di cui agli articoli 34 e 34-bis del medesimo decreto";
- successivamente -passate al vaglio- le disposizioni del
d.l. 95/2012 (convertito in legge 135/2012) sulla riduzione
degli organici delle pubbliche amministrazioni nonché quelle
sulla verifica degli esuberi di personale ex art. 33 d.lgs.
165/2001, "in mancanza di una norma di coordinamento, la
mobilità per ricollocazione di cui comma 13, dell'articolo 2
(d.l. 95/2012), intesa quale norma di sistema che si integra
alle procedure previste dal D.Lgs. n. 165/2001 nella
soluzione delle crisi da eccedenze o sovrannumero, vada
esperita prima della mobilità volontaria ex articolo 30 del
D.Lgs. n. 165/2001";
- da ultimo, come riflessioni ulteriori "Il Collegio, tuttavia, pur persuaso dal punto di vista
interpretativo dalla soluzione prospettata, è consapevole
che dal punto di vista applicativo, sorgono una serie di
problematiche non di poco conto di seguito sintetizzabili:
· la nuova procedura, al pari di quelle ex articolo 34 e 34-bis, prevede la presenza di personale collocato in
disponibilità che può formulare domanda di ricollocazione
presso le amministrazioni che abbiano comunicato vacanze (ex
art. 34 e 34-bis) o che siano indicate nell'elenco di
Funzione Pubblica (ex art. 2, comma 13): come deve comportarsi
l'amministrazione che, presentando vacanze di organico, non
riceva apposite domande da parte dei dipendenti collocati in
disponibilità perché non ve ne sono o perché l'elenco delle
vacanze non risulta ancora adottato da parte di Funzione
Pubblica?
· In tali circostanze, l'assunta prevalenza della mobilità
per ricollocazione cede il passo alla procedura di mobilità
volontaria ex art. 30 del decreto 165/2001 che, come già
evidenziato dal Collegio, prevale invece sulla procedura ex
artt. 34 e 34-bis?
· In quest'ultima ipotesi quanto tempo deve aspettare
l'amministrazione a fronte della mancata presentazione di
istanze da parte dei soggetti collocati in disponibilità
prima di attuare la procedura di mobilità ex articolo 30,
tenendo conto che gli effetti di una mancata conclusione
della stessa entro l'esercizio finanziario rischierebbe di
incidere sulla spesa di personale precludendo all'ente di
riproporla nell'anno successivo (cfr., sul punto, le
deliberazioni di questa Sezione nn. 45 e 46/2013/PAR)?
· L'amministrazione che presenta vacanze in organico è
ancora tenuta ad effettuare la comunicazione all'ente
regionale o alla Funzione Pubblica al fine di attivare la
mobilità per ricollocazione ex art. 34 e 34-bis?
La Sezione ritiene che a detti quesiti applicativi, possano
sommariamente essere fornite le seguenti soluzioni:
· in mancanza di personale collocato in posizione di
disponibilità o di domande pervenute (anche a seguito della
mancata attivazione dell'apposito elenco), le
amministrazioni con vacanze in organico dovranno
necessariamente attivare la procedura di mobilità volontaria
ex art. 30 del decreto 165/2001;
· solo dopo che la mobilità volontaria non sia andata a buon
fine le amministrazioni potranno attivare la comunicazione
alla funzione pubblica ex articolo 34-bis (prodromica
assieme a quella dell'articolo 2, comma 13, del decreto
95/2012 allo svolgimento delle procedure di reclutamento);
· nell'incertezza circa l'effettiva attivazione dell'elenco
di cui all'articolo 2, comma 13, del decreto legge 95/2012, le
amministrazioni sono comunque tenute:
-
qualora abbiano personale collocato in disponibilità, a
comunicare ai due soggetti preposti l'elenco dello stesso
(in attesa che Funzione pubblica chiarisca se vada ancora
effettuata la comunicazione alle strutture regionali data la
centralizzazione della tenuta dell'elenco prevista
dall'articolo 2, comma 13, del decreto legge 95/2012);
-
qualora abbiano vacanze di personale, ad inserire nella
programmazione triennale la previsione che le eventuali
nuove assunzioni siano subordinate, oltre che alla
sussistenza dei presupposti di spesa ed assunzionali
normativamente previsti, alla verificata impossibilità di
ricollocare il personale in disponibilità iscritto
nell'apposito elenco (ai sensi dell'articolo 2, comma 13, del
decreto legge 95/2012 e dell'articolo 34, comma 8, del D.Lgs.
n. 165/2001 e tenendo conto della riflessione di cui al
precedente punto);
-
qualora debbano coprire dette vacanze, ad inviare alla
Funzione Pubblica ed alle strutture regionali,
contestualmente alla comunicazione di voler attivare le
procedure di mobilità ex articolo 30 del D.Lgs. n. 165/2001,
le comunicazioni relative ai concorsi che intendono bandire
qualora detta procedura non vada a buon fine;
-
di procedere, qualora la procedura di mobilità ex articolo
30 non abbia sortito gli effetti sperati, all'avvio delle
procedure concorsuali, osservando l'eventuale regime di
autorizzazione delle assunzioni ed il regime dei vincoli di
spesa ed assunzionali vigente, decorsi due mesi dall'invio
della comunicazione di voler bandire in mancanza di risposte
delle strutture regionali o della Funzione pubblica"
(tratto da www.publika.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Compensi aggiuntivi per incarichi dirigenziali ad
interim e danno erariale.
La Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale Puglia, con la
sentenza 26.06.2013 n. 1014,
condanna il dirigente di un ente locale al risarcimento del
danno patrimoniale per le somme personalmente percepite
quali compensi aggiuntivi a fronte dello svolgimento di
incarico dirigenziale ad interim. Il soggetto è pienamente e
gravemente colpevole ed ha adottato l'atto di riconoscimento
dei compensi in proprio favore (ancorché a fronte di
conforme previsione regolamentare).
Le motivazioni, in sintesi:
- "... nel nostro ordinamento vige attualmente il principio
della c.d. onnicomprensività della retribuzione dei
dipendenti pubblici e, in particolare ... del personale con
qualifica dirigenziale. In tal senso depone l'art. 24 d.lgs.
165/2001, meramente ricognitivo della normativa già vigente,
alla cui stregua '... la retribuzione del personale con
qualifica dirigenziale è determinata dai contratti
collettivi ... (comma 1) e ... il trattamento economico ...
remunera tutte le funzioni ed i compiti attribuiti ai
dirigenti ... nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in
ragione del loro ufficio o comunque conferito
dall'amministrazione presso cui prestano servizio o su
designazione della stessa ...'. La norma è chiarissima e non
ammette dubbi interpretativi: la retribuzione dirigenziale,
stabilita dalla contrattazione collettiva, è solo quella e
deve remunerare tutti gli incarichi eventualmente assegnati
al dirigente, senza che residui alcuna ulteriore possibilità
di utilizzazione di istituti economici diversi da quello di
cui qui si discute. A loro volta, le norme della
contrattazione collettiva dirigenziale del comparto
Regioni-Enti Locali, via via succedutesi nel tempo, e
tuttora operanti, nel recepire il surriferito principio,
hanno definito la struttura della retribuzione in parola,
prevedendo, oltre allo stipendio tabellare, solo la
retribuzione di posizione e di risultato (cfr. art. 33
C.C.N.L. del 10.04.1996; cfr. artt. 24-32 C.C.N.L. del
23.12.1999)";
- "Ed è bene evidenziare che le singole amministrazioni non
possono in alcun modo determinare autonomamente nuove voci
retributive al di là di quelle previste dalla contrattazione
collettiva, a ciò ostando il nitido disposto dell'art. 2,
comma 3, T.U. n. 165/2001, che devolve esclusivamente a
quest'ultima la fissazione delle regole relative al
trattamento economico";
- "... nell'ipotesi di affidamento ad interim di funzioni
dirigenziali diverse da quelle di titolarità, è da
escludersi la possibilità per il dirigente di usufruire di
una maggiorazione della retribuzione di posizione già
goduta, ovvero -e a fortiori- di una seconda indennità,
laddove a remunerare siffatti incarichi aggiuntivi soccorre
l'art. 27, comma 9, CCNL cit., secondo cui '... le risorse
destinate al finanziamento della retribuzione di posizione
devono essere integralmente utilizzate. Eventuali risorse
ancora disponibili sono temporaneamente utilizzate per la
retribuzione di risultato relativa al medesimo anno ...".
La sentenza affronta anche una seconda questione: la
sottoscrizione di ordinanze da parte del Sindaco con vizio
di incompetenza. Al riguardo, la i magistrati contabili
pugliesi ritengono che ricorrano gli estremi della c.d.
scriminante politica.
Osservano, a tal proposito:
- "... la responsabilità non si estende ai titolari degli
organi politici che in buona fede abbiano approvato atti di
gestione ovvero ne abbiano autorizzato o consentito
l'esecuzione" - in tal senso l'art. 1 della legge 20/1994 e
perché ciò "può considerarsi il necessario completamento
della distinzione tra atti di direzione politica ed atti di
gestione";
- "La ratio della disposizione in esame è, infatti, quella
di porre a riparo da possibili conseguente pregiudizievoli -sul piano della responsabilità per danno all'erario- i
titolari degli organi politici per gli atti assunti dagli
organi tecnici ed amministrativi, nell'ambito di competenze
che sono loro proprie, dopo l'entrata in vigore del D.lgs.
29/1993 (ora D.lgs. 165/2001) e presuppone l'intervento
dell'ufficio tecnico o amministrativo come meramente
propedeutico alla decisione che compete all'organo politico:
una decisione che per il suo contenuto tecnico è
condizionata dal parere o da altro adempimento istruttorio
dell'ufficio tecnico o amministrativo";
- "E tuttavia, sebbene di limitata applicazione, la esimente
soggettiva della buona fede conserva immutata la sua
validità anche nel nuovo assetto dei rapporti tra politica
ed amministrazione, in quanto si è osservato che se il
legislatore si è preoccupato, da un lato, di garantire spazi
di autonomia decisionale alla dirigenza nei confronti di
possibili tendenze invasive ed indebite ingerenze da parte
dell'apparato politico, con la previsione di una riserva di
funzione amministrativa di esclusiva spettanza della
dirigenza, dall'altra, comunque, si è preoccupato, con la
introduzione della speciale esimente, di tutelare l'organo
politico da possibili errori della dirigenza che
eventualmente gli sottoponesse l'adozione di decisioni di
competenza dirigenziale";
- "Si è voluto, cioè, ribadire che l'istituto della
responsabilità amministrativa attiene strettamente al campo
della vera e propria attività (amministrativa) di gestione e
di conseguimento dei risultati, e non anche alla attività
intrinsecamente politica, per la quale deve sussistere un
altro tipo di responsabilità (politica)"
(tratto da www.publika.it) |
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
LAVORI PUBBLICI:
Indicazioni alle stazioni appaltanti, alle SOA e alle
imprese in materia di emissione dei certificati di
esecuzione lavori
(deliberazione
23.05.2013 n. 24).
---------------
Certificati Esecuzione Lavori
Indicazioni alle stazioni appaltanti, alle SOA ed alle
imprese sulle emissioni CEL
Pubblicata la Deliberazione n. 24 del 23.05.2013 con cui
l’Autorità fornisce indicazioni sulla corretta emissione dei
Certificati di Esecuzione Lavori ai soggetti interessati:
stazioni appaltanti, Società Organismi di Attestazione (SOA)
ed imprese.
Il procedimento previsto nella Delibera, che sarà pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, riguarda
tutti i CEL utili ai fini della qualificazione dell’impresa,
indipendentemente dalla loro data di emissione. Dalla data
di pubblicazione dell’atto nella G.U., decadranno gli
effetti della precedente determinazione n. 6 del 27.07.2010
(02.07.2013 - link a www.avpc.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Non è consentito estendere l’incentivo per la
progettazione di cui dall’art. 92, co. 6, D.Lgs. n. 163/2006
ai redattori di atti di pianificazione del servizio
integrato di igiene urbana preliminare all’indizione di gare
per l’affidamento del servizio stesso, poiché lo svolgimento
di detta attività, intesa come programmazione del servizio
eseguita dai dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice
e doverosa in base al D.Lgs. n. 163/2006 e al d P.R. n.
207/2010, rientra nei doveri d’ufficio
(parere
sulla normativa 21.11.2011 - rif. AG-22/12 -
link a www.autoritalavoripubblici.it).
-----------------
L’esame della questione posta all’attenzione dell’Autorità
presuppone il corretto inquadramento teorico degli incentivi
per la progettazione e dell’attività pianificatoria dei
servizi integrati d’igiene urbana, al fine di stabilire se
la previsione contenuta nell’art. 92, comma 6, del Codice
dei contratti pubblici possa essere interpretata in modo
estensivo o analogico, al fine di riconoscere tale incentivo
anche a coloro che hanno contribuito alla redazione di piani
non espressamente contemplati nella formulazione della
norma.
L’art. 92 del Codice dei contratti pubblici rubricato “Corrispettivi,
incentivi per la progettazione e fondi a disposizione delle
stazioni appaltanti”, contiene una serie di disposizioni
volte a disciplinare l’assegnazione di specifici incentivi,
che assolvono alla finalità di valorizzare le
professionalità interne all’ente e di incrementarne la
produttività. L’Autorità, con il parere sulla normativa del
10.05.2010 (AG 13/2010), ha chiarito che
l’incentivo “assolve alla funzione di compensare i
progettisti dipendenti dell’amministrazione che abbiano in
concreto effettuato la redazione degli elaborati progettuali.”
La ratio legis è di favorire l’ottimale utilizzo
delle professionalità interne a ogni amministrazione e di
assicurare un risparmio di spesa sugli oneri che
l’amministrazione dovrebbe sostenere per affidare
all’esterno gli incarichi. L’incentivo, infatti, può essere
corrisposto al solo personale dell’ente che abbia
materialmente redatto l’atto e ciò in funzione incentivante
e premiale per l’espletamento di servizi propri dell’ufficio
pubblico (C.
Conti, Sez. controllo, Veneto, n. 337 del 26.07.2011).
L’art. 92, comma 6, in particolare, recita: “Il trenta
per cento della tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è
ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel
regolamento di cui al comma 5, tra i dipendenti
dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
L’espressione “atto di pianificazione comunque denominato”
è stata ampiamente valorizzata dall’istante e dai
cointeressati per sostenere la tesi della spettanza
dell’incentivo anche a favore dei dipendenti pubblici che
abbiano contribuito alla redazione degli atti di
pianificazione dei servizi d’igiene ambientale.
Al fine di dare una soluzione al quesito posto dall’istante
occorre chiarire la portata applicativa dell’art. 92, comma
6 del Codice dei contratti pubblici e, contrariamente a
quanto assumono l’Istante e i cointeressati,
sono molteplici gli argomenti che inducono a escludere gli
atti pianificatori dei servizi d’igiene ambientale dalla
nozione di “piano comunque denominato”.
In primo luogo depone a favore dell’esclusione la
genesi della disposizione. L’articolo 92, come afferma la
Relazione illustrativa al Codice dei contratti pubblici, è “sostanzialmente
riproduttivo” di norme contenute negli artt. 17 e 18
della Legge n. 109/1994, che contemplavano tale incentivo
solo nel caso della progettazione di opere pubbliche.
In secondo luogo assume rilievo l’interpretazione
letterale dell’art. 92, comma 6, del Codice medesimo, dalla
quale è agevole desumere che la disposizione è chiaramente
incentrata sulla determinazione dell’ammontare
dell’incentivo e sull’individuazione di una misura e di un
parametro. La misura è il trenta per cento e il parametro è
indicato per relationem, attraverso il richiamo alla
tariffa professionale relativa a un qualsiasi atto di
pianificazione “comunque denominato”, senza altre
specificazioni. L’“atto di pianificazione comunque
denominato” quindi viene richiamato solo per il calcolo
dell’incentivo, pertanto, contrariamente a quanto assume
l’Istante, essa non ha la finalità di estendere l’incentivo,
previsto in base agli altri commi della norma solo in
materia di lavori e di opere pubbliche, alla pianificazione
in materia di servizi o forniture.
Infine rileva la stessa formulazione del comma 6 in esame,
nella parte in cui stabilisce che la ripartizione
dell’incentivo avviene “secondo le modalità stabilite nel
regolamento adottato ai sensi del comma 5”, ossia il
regolamento che l’ente adotta per la ripartizione
dell’incentivo destinato a retribuire il personale degli
uffici tecnici incaricati della progettazione di opere
pubbliche.
La riferibilità dell’incentivo alla sola
progettazione di lavori si evince, poi, dal tessuto
normativo dell’art. 92 del Codice dei contratti pubblici,
che nel comma 1 richiama l’“opera progettata”; nel
comma 3 e nel comma 7 richiama “la progettazione
preliminare, esecutiva e definitiva”, riferite, come
noto, solo ai lavori; nel comma 5 calcola l’incentivo
sull’importo “posto a base di gara di un’opera o di un
lavoro”, nel comma 7-bis richiama il quadro economico di
ciascun “intervento”, parola che, nella terminologia del
Codice dei contratti pubblici, designa sempre i lavori e mai
i servizi.
Infine la lettura prospettata trova conferma anche nella
collocazione sistematica del citato art. 92, inserito nella
sezione I dedicata alla “progettazione interna ed
esterna, livelli di progettazione” del capo IV del
Codice dei contratti pubblici denominato “servizi attinenti
all’architettura e all’ingegneria” avente ad oggetto la
progettazione in tema di lavori pubblici. La prima norma di
tale capo è l’art. 90 che tanto nella rubrica “progettazione
interna ed esterna alle amministrazioni aggiudicatrici in
materia di lavori pubblici”, quanto nel comma 1 fa
riferimento esclusivamente ai lavori pubblici. Il successivo
art. 92, comma 1, richiama le varie fasi dell’attività di
progettazione finalizzata alla costruzione di un’opera
pubblica e il comma 6, come si è detto, ripartisce gli
incentivi tra i dipendenti “delle amministrazioni
aggiudicatrici”, utilizzando una espressione sintetica,
ma comunque evocativa di quanto già contenuto nella rubrica
dell’art. 90 che richiama espressamente la materia dei
lavori pubblici.
La lettura storica, letterale e sistematica dell’art. 92,
comma 6, del Codice dei contratti pubblici induce, quindi, a
ritenere che tale disposizione trova applicazione unicamente
nelle attività relative alla progettazione di opere
pubbliche.
Considerato il tenore della istanza di parere e le
osservazioni dei cointeressati, occorre valutare se la norma
in commento possa essere riferita in via analogica anche
alla progettazione in materia di servizi.
Tale opzione è esclusa dalla natura dell’art. 92, comma 6,
in esame, che è una norma eccezionale, in quanto deroga al
principio di omnicomprensività della retribuzione, in base
al quale l’ordinario trattamento economico mensile compensa
il dipendente per lo svolgimento di tutti i compiti
rientranti nei doveri d’ufficio. Tale principio, come
rilevato anche dalla Corte dei conti in recenti pronunce, si
desume anche dall’inderogabilità della struttura della
retribuzione stabilita dai contratti collettivi, a termini
del combinato disposto di cui agli artt. 2 e 45 del D.Lgs.
n. 165 del 2001 (C. Conti, 20.07.2010, n. 464; C. Conti
02.08.2010, n. 487).
L’art. 92, comma 6, del Codice dei
contratti pubblici, dunque, è una norma di stretta
interpretazione, con la conseguenza che non può essere
applicata oltre i casi in essa previsti, stante il divieto
contemplato nell’art. 14 delle Disposizioni sulla legge in
generale.
La lettura delle norme appena illustrata trova il conforto
della giurisprudenza della Corte dei Conti che, in
recentissime decisioni, si è occupata degli incentivi alla
progettazione.
In particolare la Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
con il parere n. 1 del 16.01.2012, pronunciandosi con
riferimento a varie tipologie di piani, tra cui il piano per
il servizio rifiuti, ha ritenuto che l’art. 92, comma 6,
trova applicazione esclusivamente in materia di lavori
pubblici e non è consentita alcuna interpretazione analogica
atta ad includere nel disposto normativo le attività di
pianificazione non attinenti alla progettazione di opere
pubbliche, ciò anche in ragione della puntualità descrittiva
della norma in commento (C. Conti, Sez. controllo Campania,
parere 10.07.2008, n. 14).
Le decisioni richiamate confermano, peraltro, anche altri
precedenti, tutti unanimi nel ritenere che il piano “comunque
denominato”, la cui redazione fonda il diritto
all’incentivo, non può essere un piano neppure mediatamente
riconducibile alla materia dei lavori pubblici e l’incentivo
presuppone una procedura di evidenza pubblica finalizzata
alla realizzazione di un‘opera di pubblico interesse (C.
Conti, Sez. controllo, Toscana, parere 18.10.2011, n. 213;
C. Conti, Sez. controllo per la Campania, parere 10.07.2008,
n. 14).
E’ doveroso, tuttavia, dar conto di un indirizzo della Corte
dei Conti che ha riconosciuto l’incentivo anche ai redattori
dei piani urbanistici, sul presupposto che l’attività di
pianificazione urbanistica presenta elementi di similitudine
con la progettazione dei lavori pubblici, tanto che è
ricompresa nella categoria degli appalti pubblici di servizi
elencati nell’allegato IIA del Codice dei contratti pubblici
(C. Conti Sez. controllo, Veneto, parere n. 37 del
26.07.2011).
Secondo l’istante questa decisione fonderebbe il diritto
all’incentivo anche nel caso della pianificazione in materia
di servizi integrati d’igiene urbana.
Le argomentazioni assunte dalla Corte dei Conti con
riferimento alla pianificazione urbanistica, non si
attagliano tuttavia al caso di specie, riguardante la
pianificazione dei servizi integrati d’igiene urbana, in
quanto tale attività, nonostante richieda l’impiego di molte
professionalità e competenze specifiche di tipo
multidisciplinare, come assumono l’istante e i
cointeressati, non può in alcun caso essere assimilata alla
progettazione di opere pubbliche, neppure mediatamente.
Sussiste, infatti, una radicale differenza tra la
pianificazione urbanistica e quella in materia di rifiuti,
che non consente di assimilare le due fattispecie.
La pianificazione in tema di rifiuti, come rileva anche
l’Istante, assolve una duplice finalità: da un lato è utile
per determinare il corrispettivo del servizio e dall’altro
consente di stabilire il livello qualitativo dei servizi, il
metodo di controllo degli stessi, la convenienza economica,
il raggiungimento degli obiettivi previsti dal legislatore
con particolare riferimento alla raccolta differenziata.
Tale pianificazione, quindi, per le stesse finalità e per il
suo contenuto non inerisce alla progettazione di opere o
impianti pubblici.
In tal senso assumono rilievo gli allegati all’istanza e
alla nota inviata dai cointeressati da cui si evince che
l’attività programmatoria posta in essere ha richiesto
l’elaborazione di studi demografici; la rilevazione delle
quantità e qualità dei rifiuti prodotti nelle varie zone
ricomprese nell’ATO; la individuazione delle dinamiche della
produzione e delle utenze dei servizi stessi distinte in
domestiche e imprenditoriali; la rilevazione dei fabbisogni;
la individuazione dei metodi di raccolta, degli operatori e
dei mezzi impiegati (etc.). La pianificazione ha inoltre
richiesto un’analisi del territorio, non riguardante però
scelte di governo del territorio, ma l’individuazione dei
materiali, le modalità di raccolta, gli obiettivi
quantitativi, il dimensionamento dei servizi.
Sotto tale profilo, la suddivisione in zone del territorio
comunale eseguita in sede di programmazione del servizio
integrato dei rifiuti, era diretta solo ad individuare le
caratteristiche che accomunano il servizio di raccolta e
smaltimento in una determinata zona e alla localizzazione
delle zone di raccolta, al fine di “tarare” il
servizio stesso in modo conforme alle specificità di quella
parte del territorio comunale, come ammettono gli stessi
cointeressati. La ripartizione in zone operata dai piani del
servizio integrato dei rifiuti, quindi, in nessun caso può
essere assimilata alla “zonizzazione” in ambito
urbanistico, come invece assumono i cointeressati medesimi
nelle note illustrative.
La pianificazione urbanistica, invece, anche se in forma
mediata, inerisce anche a opere o impianti pubblici. Si
ricorda, infatti, che i piani regolatori, strumento
urbanistico di base per garantire un ordinato e corretto
assetto del territorio, contengono, come noto, tra le altre,
sia previsioni cd. di zonizzazione, che suddividono il
territorio comunale in zone omogenee, specificando quelle
con vocazione edificatoria e i vincoli da osservare in
ciascuna di esse; sia norme di localizzazione di aree
destinate a formare spazi di uso pubblico, ovvero riservate
a edifici pubblici o di uso pubblico, a opere e impianti
pubblici o di pubblico interesse, tanto che tali previsioni
sono considerate dalla giurisprudenza ad effetto
sostanzialmente espropriativo, se riguardanti beni di
proprietà privata.
La natura stessa e il contenuto della pianificazione
urbanistica e in particolare dei piani regolatori consente,
pertanto, l’erogazione dell’incentivo ex art. 92, comma 6,
del Codice dei contratti pubblici a favore dei dipendenti
che abbiano partecipato alla redazione di tali strumenti
urbanistici, in quanto tali atti afferiscono, sia pure
mediatamente, alla progettazione di opere o impianti
pubblici o di uso pubblico, dei quali definiscono
l’ubicazione nel tessuto urbano.
L’Autorità, con riferimento all’art. 18, comma 2, della
Legge n. 109/1994, trasfuso in parte qua nell’art.
92, comma 6, del suddetto Codice, ha assunto, con
argomentazioni da cui non vi è ragione per discostarsi, che
nella norma in esame sono ricompresi “oltre ai vari tipi
di atti di pianificazione anche gli atti a contenuto
normativo, come ad esempio i regolamenti edilizi che
accedono alla pianificazione urbanistica, purché completi e
idonei alla successiva approvazione da parte degli organi
competenti”, mentre ne sono esclusi gli interventi
manutentivi ordinari e straordinari di opere ed impianti,
che non comportino la redazione degli elaborati progettuali,
in quanto la norma collega il diritto all’incentivo
all’espletamento di una attività di progettazione
(Determinazione n. 43 del 25.09.2000). Inoltre, con il
successivo parere sulla normativa, già richiamato, AG
13/2010 del 10.05.2010, l’Autorità ha ulteriormente
specificato che il documento identificativo degli interventi
manutentivi su opere o impianti pubblici e la loro
pianificazione rientrano nella nozione di “piano comunque
denominato”, che fonda il diritto all’incentivo per la
progettazione in capo ai redattori del piano.
La natura stessa e il contenuto della pianificazione
urbanistica e in particolare dei piani regolatori consente,
pertanto, l’erogazione dell’incentivo ex art. 92, comma 6, a
favore dei dipendenti che abbiano partecipato alla redazione
di tali strumenti urbanistici, in quanto tali atti
afferiscono, sia pure mediatamente, alla progettazione di
opere o impianti pubblici o di uso pubblico, dei quali
definiscono l’ubicazione nel tessuto urbano.
I richiamati precedenti dell’Autorità e i pareri della Corte
dei Conti, quindi, contrariamente a quanto assumono
l’Istante e i cointeressati, quindi, non fondano il diritto
all’incentivo per i redattori degli atti di pianificazione
dei servizi integrati d’igiene urbana.
Tale conclusione è rafforzata anche dalla finalità degli
atti di pianificazione in esame, così come dichiarata
dall’Istante e quale emerge negli allegati.
In particolare, la società istante assume che la
pianificazione dei servizi è stata elaborata da dipendenti
incaricati dalla stessa società al fine di predisporre “alcuni
affidamenti di servizi integrati d’igiene urbana” e gli
atti di gara allegati all’istanza richiamano in più parti i
risultati di tale pianificazione. L’istante non specifica il
tempo in cui tali gare sono state indette, ma dagli allegati
all’istanza e in particolare dall’allegato n. 8 degli atti
della gara indetta per il Comune di Caltanisetta -che
contiene le schede di rilevazione dei dati relativi ai
rifiuti per gli anni dal 2007 al 2010, e dall’allegato n. 7
della gara indetta per il degli atti della gara indetta per
il Comune di Marianopoli -che contiene le schede di
rilevazione dei dati relativi ai rifiuti per gli anni dal
2006 al 2009- si può desume che le gare in oggetto siano
state bandite nel vigore del Codice dei contratti pubblici e
verosimilmente nel vigore del D.P.R. n. 207/2010, con la
conseguenza che l’attività di pianificazione eseguita dai
dipendenti dell’Istante può essere ricompresa nell’attività
di programmazione del servizio di cui all’art. 94 del Codice
dei contratti pubblici.
Tale norma rubricata “Livelli della progettazione per gli
appalti di servizi e forniture e requisiti dei progettisti”
demanda, tra l’altro, al Regolamento attuativo la
definizione dei livelli di progettazione negli appalti di
servizi e forniture. Tale norma deve essere letta in
combinato disposto con l’art. 5, comma 5, lett. d), del
Codice, che affida al Regolamento stesso il compito di
adottare disposizioni riferite alla progettazione dei
servizi e delle forniture con le connesse attività tecniche.
Alla norma in commento è stata data attuazione con l’art.
279 del Regolamento, il quale stabilisce che la
progettazione dei servizi e delle forniture, articolata di
regola in un unico livello, ha la finalità di identificare
l'oggetto della prestazione del servizio e, in particolare,
comprende vari atti, quali: a) la relazione
tecnica-illustrativa con riferimento al contesto in cui è
inserita la fornitura o il servizio; b) le indicazioni e
disposizioni per la stesura dei documenti inerenti la
sicurezza di cui all'articolo 26, comma 3, del decreto
legislativo 09.04.2008, n. 81; c) il calcolo della spesa per
l'acquisizione del bene o del servizio con indicazione degli
oneri della sicurezza non soggetti a ribasso di cui alla
lettera b); d) il prospetto economico degli oneri
complessivi necessari per l'acquisizione del bene o del
servizio; e) il capitolato speciale descrittivo e
prestazionale; f) lo schema di contratto.
La progettazione che l’Istante assume di aver effettuato
prima di bandire le gare per l’affidamento del servizio
integrato dei rifiuti, desumibile dagli stessi allegati
all’istanza, ha assunto i contenuti indicati dall’art. 279
del Regolamento, il quale stabilisce che tale progettazione
“è predisposta dalle amministrazioni aggiudicatrici
mediante propri dipendenti in servizio” (comma 2).
Tale previsione, formulata con il verbo nel modo indicativo,
attesta che, di regola, l’incarico della progettazione in
materia di servizi e forniture è affidato a professionalità
interne all’ente, con la sola specificazione che “per i
contratti di cui all’art. 300, comma 2, lettera b), la
progettazione di servizi o forniture può avvenire
nell’ambito di gare per l’affidamento di servizi o di
concorsi di progettazione concernenti servizi o forniture,
finalizzati a fornire alla stazione appaltante la
progettazione”; si tratta, dunque, di una possibilità di
ricorso a soggetti esterni riservata solo a speciali
fattispecie contrattuali caratterizzate da particolare
complessità.
In materia di lavori invece la progettazione può essere
affidata sia a professionisti esterni che interni, ancorché
sussista un favor per la progettazione interna, e solo in
tale secondo caso, è stato contemplato l’incentivo al fine
di assicurare, come si è detto, un risparmio di spesa ed
invogliare così le amministrazioni pubbliche ad affidare
l’incarico ai propri dipendenti.
L’assenza di un’alternativa, in termini generalizzati, alla
progettazione interna nell’ambito degli appalti di servizi e
forniture, costituisce un ulteriore elemento che induce ad
escludere la spettanza dell’incentivo.
Pertanto, lo svolgimento dell’attività di pianificazione del
servizio integrato di igiene urbana prodromica all’indizione
di gare per l’affidamento del servizio stesso, intesa come
programmazione del servizio eseguita, nella specie, dai
dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice e doverosa in
base al Codice dei contratti pubblici e al Regolamento
attuativo, rientra nei doveri d’ufficio e non può fondare il
diritto a una retribuzione ulteriore rispetto a quella
percepita dal dipendente pubblico, pena la violazione del
principio di omnicomprensitivà della retribuzione, che
tollera solo deroghe espresse.
La tesi, peraltro, incontra l’avallo della giurisprudenza
della Corte dei Conti, che argomentando proprio sulla natura
di “attività vincolata espressamente prevista dalla
normativa di riferimento” assume che “se l’attività
rientra nelle funzioni istituzionali dell’ente, il
dipendente che abbia redatto materialmente l’atto “svolge
un’attività lavorativa ordinaria che deve essere ricompresa
nei compiti e nei doveri d’ufficio (art. 53 del D.lgs. n.
165/2001) non suscettibile della liquidazione dell’incentivo
di cui all’art. 92, comma 6, del D.lgs. n. 163/2006.”.
Secondo l’istante l’attività di pianificazione, essendo
riconducibile a quelle remunerate con la tariffa
professionale degli ingegneri e degli architetti, ai sensi
dell’art. 5 della Legge 02.03.1949, n. 143- Approvazione
della tariffa professionale degli ingegneri ed architetti e
degli artt. 5 e 6 della Circolare del Ministero dei Lavori
pubblici n. 6679 del 01.12.1969, esplicativa della legge
stessa, dovrebbe dare diritto agli incentivi.
Premesso che non è compito di questa Autorità indagare la
corretta interpretazione della legge che regola le tariffe
professionali degli ingegneri e degli architetti, con la
conseguenza che la seconda parte del quesito prospettato
dall’Istante in ogni caso non potrebbe essere esaminata, si
osserva che l’affermazione dell’istante non scardina la
lettura proposta. Ed invero, anche se la tariffa
professionale prevedesse la remunerazione delle prestazioni
professionali rese per l’elaborazione del piano dei rifiuti,
ciò non potrebbe in nessun caso costituire un argomento per
interpretare analogicamente una norma eccezionale quale è
l’art. 92 del Codice dei contratti pubblici che, per
collocazione sistematica, ratio e contenuto assolve
ad altre finalità e disciplina altri settori
dell’ordinamento.
Peraltro la prospettata tesi dell’Istante prova troppo anche
in ragione del fatto che la pianificazione in materia di
rifiuti non è espressamente compresa tra le attività
remunerate con la tariffa degli ingegneri e degli
architetti, in quanto le norme richiamate dall’istante sono
riferite esclusivamente alla pianificazione urbanistica;
l’inclusione della programmazione in materia di rifiuti tra
le attività remunerate a tariffa è frutto di una
interpretazione di per sé estensiva e, come tale, non idonea
a costituire un argomento utile per fondare la lettura
estensiva (… rectius analogica) di un’altra norma -l’art.
92, comma 6 del Codice- che come già detto più volte ha
natura eccezionale . |
QUESITI & PARERI |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Associazioni ambientaliste non individuate.
Domanda
Le associazioni ambientaliste non individuate ai sensi
dell'articolo 13 della legge numero 349, del 1986, possono
impugnare provvedimenti, ritenuti lesivi, di interessi
ambientali in ambito territoriale circoscritto?
Risposta
Il Consiglio di stato, sezione V, con la sentenza del 22.03.2012, numero 1640, ha affermato che, in tema di
legittimazione attiva di associazioni ambientaliste non
individuate ai sensi dell'articolo 13 della legge numero
349, del 1986, a ricorrere avverso provvedimenti
potenzialmente lesivi di interessi ambientali in ambito
territoriale circoscritto, non sussiste detta legittimazione
attiva delle suddette associazioni ambientaliste se le
stesse non posseggono criteri legittimandi, quali quelli:
«Di perseguire la tutela ambientale in modo non occasionale
e per espressa previsione statutaria nonché di godere di un
adeguato grado di rappresentatività e stabilità nell'area
ricollegabile alla zona in cui si trova il bene ambientale
che si presume leso».
In altre parole, le summenzionate
associazioni ambientaliste devono essere in possesso dei
requisiti atti a svolgere, in modo non occasionale e per
espressa previsione contenuta nello statuto, attività
connesse alla tutela ambientale. Le stesse, poi, devono
essere collegate, in modo stabile, con il territorio e
devono godere di un adeguato grado di rappresentatività
delle popolazioni locali.
I succitati Supremi giudici, nel decidere, hanno tenuto bene
in evidenza, e ne hanno fatto tesoro, la precedente sentenza
della stesso Consiglio di stato, Adunanza plenaria (sentenza
numero 4, del 07.04.2011), che, a proposito di
legittimazione attiva di associazioni ambientaliste non
individuate ai sensi dell'articolo 13 della legge numero
349, del 1986, aveva chiaramente ed esplicitamente
affermato: «Il collegio premette che la legittimazione al
ricorso, in quanto condizione dell'azione, deve essere
accertata con rigore».
Parte della dottrina ha criticato
pesantemente il principio affermato da succitata sezione V,
del Consiglio di stato, sostenendo, che, nella fattispecie,
avrebbe dovuto trovare applicazione il principio della
sussidiarietà orizzontale prevista dall'articolo 118, ultimo
comma, della Carta costituzionale «in alternativa al
complesso accertamento ex iudice dell'esistenza di criteri
quali la vicinanza, lo stabile collegamento e l'adeguata
rappresentatività».
Per questa dottrina, l'articolo 118, summenzionato, è da
solo rappresentativo di un efficace rimedio in difesa di
quelle posizioni giuridiche meritevoli di tutela «che
altrimenti non avrebbero modo di emergere» (articolo ItaliaOggi
Sette dell'01.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Natura pubblica di una strada.
Domanda
L'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche
comporta la natura pubblica della strada?
Risposta
L'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche
non comporta la natura pubblica della strada.
L'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche o
gravate da uso pubblico non ha infatti natura costitutiva e
portata assoluta, ma riveste una funzione puramente
dichiarativa della pretesa del Comune, ponendo una semplice
presunzione di pubblicità dell'uso, superabile con la prova
contraria della natura della strada.
Stante pertanto la natura dichiarativa degli elenchi delle
vie pubbliche o gravate da uso pubblico, è necessario
individuare altri elementi costitutivi da valutarsi al fine
dell'accertamento della natura pubblica di una strada, quali
l'uso pubblico (inteso come l'utilizzo da parte di un numero
indeterminato di persone), l'ubicazione della strada
all'interno di luoghi abitati, nonché il comportamento
tenuto dalla p.a. nel settore dell'edilizia e
dell'urbanistica.
Ciò posto e ribadito pertanto che l'iscrizione di una strada
nell'elenco delle vie pubbliche non comporta la natura
pubblica della strada, avendo l'inserimento una sola valenza
dichiarativa, è opportuno precisare però che chi intende
affermare la natura privata della strada o negare
l'esistenza della servitù non può limitarsi a sostenere che
l'elenco non ha valenza costitutiva, ma deve fornire prove
idonee a dimostrare la diversa connotazione della strada
(Tar Veneto, Sezione II, n. 1555 del 13/12/2012) (articolo ItaliaOggi
Sette dell'01.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Silenzio della Soprintendenza.
Domanda
Su un'area demaniale sottoposta a vincolo vengono realizzate
delle opere in assenza della prescritta concessione. Nella
successiva procedura di sanatoria la Soprintendenza, a cui
viene richiesto il prescritto e vincolane parere, non si
esprime. Vale il principio del silenzio-assenso?
Risposta
L'articolo 167, comma 5, dlgs n. 42/2004 prevede che
«L'autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il
termine perentorio di 180 giorni, previo parere vincolante
della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio
di 90 giorni», nulla precisando in casso di silenzio della
Soprintendenza.
Sono però gli articoli 16 e 17 della legge
n. 241/1990 e Smi a chiarire in modo esplicito il problema,
prevedendo che il principio del silenzio assenso non si
applica «in caso di pareri che debbano essere rilasciati da
amministrazioni preposte alla tutela ambientale,
paesaggistica, territoriale e della salute dei cittadini».
Pertanto il parere della Soprintendenza deve essere
formulato espressamente, attesa l'inapplicabilità
dell'istituto del silenzio assenso giusta gli artt. 16,
comma 3, e 17, comma 2, legge n. 241/1990 e Smi (cfr. Tar
Puglia Lecce, sez I, 13/04/2011 n. 669 e Tar Veneto Venezia,
sez. II, 18/12/2006, n. 4094) (articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rimborso oneri concessori.
Allorché un privato rinunci o non
utilizzi il permesso di costruire a lui concesso, sorge in
capo alla p.a. concedente l'obbligo di restituzione delle
somme da costui corrisposte a titolo di contributo per oneri
di urbanizzazione e costi di costruzione.
Il Comune riferisce di avere ricevuto da una cittadina la
richiesta di restituzione degli oneri concessori da costei
pagati per l'edificazione di un fabbricato residenziale i
cui lavori non risultano mai essere iniziati e la cui
concessione a costruire è nel frattempo decaduta.
L'Ente chiede di sapere se la richiesta della cittadina sia
fondata e se, perciò, debba essere assunto il provvedimento
di rimborso.
La questione giuridica prospettata nel quesito è stata
oggetto di una recente pronuncia di un giudice
amministrativo, conforme ad altre sentenze più risalenti,
che porta a ritenere legittima la richiesta della cittadina
[1].
Il Tar Catania [2],
in un caso analogo a quello sopra rappresentato, ha,
infatti, deciso che: 'Allorché il privato rinunci o non
utilizzi il permesso di costruire ovvero anche quando sia
intervenuta la decadenza del titolo edilizio, sorge in capo
alla p.a., anche ex artt. 2033 [3]
o, comunque, 2041 [4]
c.c., l'obbligo di restituzione delle somme corrisposte a
titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione e conseguentemente il diritto del privato a
pretenderne la restituzione. Il contributo concessorio è,
infatti, strettamente connesso all'attività di
trasformazione del territorio e quindi, ove tale circostanza
non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della
causa dell'originaria obbligazione di dare cosicché
l'importo versato va restituito; il diritto alla
restituzione sorge non solamente nel caso in cui la mancata
realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il
permesso di costruire sia stato utilizzato solo parzialmente
(cfr: CS, V, 02.02.1988 n. 105, 12.06.1995 n. 894 e
23.06.2003 n. 3714; TAR Lombardia, Sez. II, 24.03.2010, n.
728 e TAR Abruzzo 15.12.2006 n. 890, TAR Parma 07.04.1998 n.
149)'.
---------------
[1] Concorde è anche l'Anci, nel suo parere dd.
27.08.2012.
[2] Tar Catania, sez. I, 18.01.2013, n. 159.
[3] Art. 2033 c.c. Indebito oggettivo: 'Chi ha eseguito un
pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha
pagato. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal
giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala
fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della
domanda'.
[4] Art. 2041 c.c. Azione generale di arricchimento: 'Chi,
senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un'altra
persona è tenuto, nei limiti dell'arricchimento, a
indennizzare quest'ultima della correlativa diminuzione
patrimoniale. Qualora l'arricchimento abbia per oggetto una
cosa determinata, colui che l'ha ricevuta è tenuto a
restituirla in natura, se sussiste al tempo della domanda'
(28.06.2013 -
link a
www.regione.fvg.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - PATRIMONIO:
Accettazione di una donazione immobiliare.
Ai sensi dell'art. 42, comma 2, lett.
l), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (Tuel),
l'accettazione di una donazione immobiliare rientra
nell'ambito delle competenze del consiglio comunale in
quanto, per 'acquisti immobiliari', devono intendersi sia
quelli a titolo oneroso sia quelli a titolo gratuito.
Il Comune chiede di sapere se all'accettazione di una
donazione immobiliare sia competente il Consiglio o la
Giunta comunale.
Tale questione, già affrontata da questo Ufficio
[1],
risulta risolvibile ai sensi dell'art. 42, comma 2, lett.
l), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (Tuel) che
prevede, tra le attribuzioni dei consigli, 'gli acquisti
e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e
concessioni che non siano previsti espressamente in atti
fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera
esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria
amministrazione di funzioni e servizi di competenza della
giunta, del segretario o di altre funzioni'.
Non essendo stato specificato diversamente dal legislatore,
per 'acquisti immobiliari' devono intendersi sia
quelli a titolo oneroso (come nella compravendita) sia
quelli a titolo gratuito (come nella donazione).
Per tale ragione, si ritiene che anche l'accettazione di una
donazione immobiliare rientri all'interno delle competenze
del consiglio comunale.
---------------
[1] V. parere prot. n. 166 del 04.01.2007, reperibile
alla pagina web http://autonomielocali.regione.fvg.it (25.06.2013
-
link a
www.regione.fvg.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Monetizzazione festività
soppresse.
Il Dipartimento della funzione pubblica
ha precisato che il divieto di monetizzazione delle ferie e
delle festività soppresse non opera solo in relazione a
quelle vicende estintive del rapporto di lavoro dovute ad
eventi del tutto indipendenti dalla volontà del lavoratore e
dalla capacità organizzativa e di controllo del datore di
lavoro (ad es. decesso, risoluzione per inidoneità
permanente ed assoluta).
Premesso un tanto, per quanto concerne le quattro giornate
di riposo per festività soppresse, ai fini dell'eventuale
monetizzazione nei casi sopra evidenziati, necessita
pertanto tener conto delle caratteristiche del relativo
sistema regolativo (monetizzazione solo per mancata
fruizione nell'anno solare di riferimento per esigenze di
servizio, impossibilità di trasporto all'anno successivo).
Il Comune ha chiesto di conoscere se, ai sensi dell'art. 5,
comma 8, del d.l. 95/2012, convertito in l. 135/2012, nel
caso di festività soppresse non fruite per indifferibili
ragioni di servizio, negli anni precedenti l'entrata in
vigore della predetta normativa (ad es. dal 2002 al 2011),
sia possibile procedere ad un'eventuale monetizzazione o se
le stesse possano essere comunque fruite.
La citata norma prevede che le ferie, i riposi ed i permessi
spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale,
delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione, come individuate
dall'ISTAT (fra tali amministrazioni figurano anche i
Comuni), sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto
previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in
nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici
sostitutivi. Si precisa altresì che detta disposizione si
applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro
per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e
raggiungimento del limite di età. Eventuali disposizioni
normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere
applicazione a decorrere dalla data di entrata in vigore del
medesimo d.l. n. 95/2012.
Si ritiene utile riportare le considerazioni espresse in
proposito dal Dipartimento della funzione pubblica
[1].
Il suddetto Dipartimento ha evidenziato che la norma in
esame non prevede una disciplina transitoria e, quindi, ha
ritenuto che debbano rimanere salvaguardate tutte quelle
situazioni che si sono definite prima dell'entrata in vigore
della legge medesima. Pertanto, la preclusione alla
monetizzazione non riguarda i rapporti di lavoro già cessati
prima dell'entrata in vigore del d.l. 95/2012, le situazioni
in cui le giornate di ferie sono state maturate prima
dell'entrata in vigore della predetta disposizione e ne
risulti incompatibile la fruizione a causa della ridotta
durata del rapporto o a causa della situazione di
sospensione del rapporto cui segua la sua cessazione (ad es.
i casi di collocamento in aspettativa per lo svolgimento del
periodo di prova presso altra amministrazione a seguito
della vincita di un concorso, secondo le clausole di alcuni
contratti di comparto). In ogni caso, anche in queste
ipotesi residuali, la monetizzazione delle ferie potrà
avvenire solo in presenza delle limitate ipotesi
normativamente e contrattualmente previste
[2].
Secondo l'ARAN [3],
'viene meno, quindi, sul piano formale, dall'entrata in
vigore del d.l. 95/2012, ogni possibilità di ulteriore
ricorso all'istituto della monetizzazione, sia delle ferie,
sia dei quattro giorni di riposo delle festività ex lege
937/1977, con la conseguente disapplicazione di tutte le
norme legali e contrattuali che la consentivano.'
[4].
La predetta Agenzia ha richiamato, al riguardo, quanto
enunciato nella circolare esplicativa diramata sulla materia
dal Dipartimento della funzione pubblica
[5], che ha
sottolineato come il divieto di monetizzazione non
opererebbe solo in relazione a quelle vicende estintive del
rapporto di lavoro dovute ad eventi del tutto indipendenti
dalla volontà del lavoratore e dalla capacità organizzativa
e di controllo del datore di lavoro. In questi casi,
infatti, si è ritenuto che l'impossibilità di fruire delle
ferie non sia imputabile o comunque riconducibile al
dipendente. Si tratta delle ipotesi in cui il rapporto di
lavoro si conclude in modo anomalo e non prevedibile in
alcun modo (decesso, risoluzione per inidoneità permanente
ed assoluta), oppure quelle caratterizzate dalla circostanza
che il dipendente non ha, comunque, potuto fruire delle
ferie maturate a causa di assenza dal servizio antecedente
la cessazione del rapporto di lavoro (malattia, congedo di
maternità, aspettative a vario titolo). Si tratta, quindi,
di situazioni che, proprio per i loro contenuti specifici,
non sono considerate rispondenti alla ratio della
norma in argomento e, pertanto, vengono escluse dal suo
ambito di applicazione.
L'ARAN rappresenta inoltre che le indicazioni fornite dal
Dipartimento della funzione pubblica sono applicabili anche
alle quattro giornate di riposo per festività soppresse, di
cui alla l. 937/1977.
Per quanto concerne, infatti, le predette quattro giornate
di riposo, ai fini dell'eventuale monetizzazione, nei casi
in cui ciò sia ancora possibile come sopra evidenziato,
necessita comunque tenere conto delle caratteristiche del
relativo sistema regolativo (monetizzazione solo per mancata
fruizione nell'anno solare di riferimento per esigenze di
servizio, a condizione che sussistano documentati dinieghi a
fronte di puntuali richieste nel medesimo anno;
impossibilità di trasporto all'anno successivo).
In sostanza, la monetizzazione delle giornate di festività
soppresse sarà possibile solo in presenza di una delle
vicende interruttive del rapporto di lavoro sopra
richiamate, intervenute in corso di anno (prima cioè del 31
dicembre), e con riferimento ai riposi maturati e non fruiti
per esigenze di servizio alla data di cessazione.
---------------
[1] Cfr. nota del 06.08.2012.
[2] L'art. 18 del CCNL del 06.07.1995, tuttora applicabile
agli enti locali della Regione Friuli Venezia Giulia,
consente la monetizzazione solo in caso di cessazione del
rapporto, ove il rinvio della fruizione sia avvenuto
legittimamente per esigenze di servizio.
[3] Cfr. Il divieto di monetizzazione delle ferie,
consultabile in: aranagenzia.it/araninforma/index.php/dicembre-2012.
[4] Per quanto concerne le festività soppresse, per gli enti
locali del Friuli Venezia Giulia, la monetizzazione,
nell'ipotesi di mancata fruizione, è disciplinata dall'art.
60, comma 3, del CCRL del 07.12.2006.
[5] Cfr. nota n. 40033 dell'08.10.2012 (25.06.2013
-
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
SICUREZZA LAVORO: Sicurezza, le multe rincarano.
Dal 1° luglio ammende e sanzioni salgono del 9,6%.
Le istruzioni del ministero del lavoro dopo la rivalutazione
prevista dal dl 76/2013.
Multe più salate per gli inadempimenti sulla sicurezza
lavoro. Ammende e sanzioni infatti vanno su del 9,6%, per le
violazioni commesse dal 1° luglio, senza arrotondamento per
i nuovi importi.
Lo precisa il ministero del lavoro nella
nota 02.07.2013 n. 12059 di prot..
Per esempio, dimenticare di
effettuare la valutazione dei rischi costa oggi al datore di
lavoro l'ammenda da 2.740 a 7.014,40 euro; fino al 30 giugno
la multa è stata da 2.500 a 6.400 euro. La novità è stata
prevista dal dl n. 76/2013 (il pacchetto lavoro) in vigore
dal 29 giugno.
Tra le varie modifiche normative introdotte,
spiega il ministero, il decreto ha modificato il comma 4-bis
dell'art. 306 del Tu sicurezza (dlgs n. 81/2008) e nella
nuova versione recita così: «Le ammende previste con
riferimento alle contravvenzioni in materia di igiene salute
e sicurezza sul lavoro e le sanzioni amministrative
pecuniarie previste dal presente decreto nonché da atti
aventi forza di legge sono rivalutate ogni cinque anni con
decreto del direttore generale della direzione generale per
l'attività ispettiva del ministero del lavoro e delle
politiche sociali, in misura pari all'indice Istat dei
prezzi al consumo previo arrotondamento delle cifre al
decimale superiore. In sede di prima applicazione la
rivalutazione avviene, a decorrere dal 01.07.2013, nella
misura del 9,6%».
La norma, precisa il ministero, individua in un decreto
direttoriale lo strumento per la rivalutazione quinquennale
di ammende e sanzioni pecuniarie; e inoltre consente
l'immediata applicazione della rivalutazione, dal 1° luglio,
in quanto già fissata nella misura del 9,6%.
Pertanto, tutte le ammende previste con riferimento alle
contravvenzioni in materia di igiene, salute e sicurezza sul
lavoro e le sanzioni amministrative previste dal Tu
sicurezza nonché da altre normative, riferite a violazioni
commesse dal 1° luglio, sono incrementate del 9,6%
(articolo ItaliaOggi del
04.07.2013). |
LAVORI PUBBLICI: Lavori da oltre 150 mila Bandi-tipo per chi appalta.
L'indirizzo dell'Autorità di
vigilanza sui contratti pubblici.
Al via i bandi-tipo che le stazioni appaltanti potranno
utilizzare per l'affidamento di lavori pubblici di importo
superiore a 150.000 euro; entro fine luglio si chiuderà la
consultazione con le categorie interessate, poi il parere
del ministero delle infrastrutture e il varo del
provvedimento; previsti 12 schemi suddivisi per procedure;
gli appalti integrati (di progettazione e costruzione) da
affidare solo con il criterio dell'offerta economicamente
più vantaggiosa; necessaria una adeguata motivazione per il
requisito del fatturato aziendale.
Sono questi alcuni degli
elementi che emergono dalla lettura dei documenti messi in
consultazione venerdì pomeriggio dall'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici in attuazione dell'articolo
64, comma 4-bis del Codice che attribuisce all'Autorità il
compito di elaborare specifici modelli (bandi-tipo) sulla
base dei quali le stazioni appaltanti sono tenute a
predisporre i propri bandi di gara.
Per i lavori tale
obbligo riguarda tutte le procedure di importo superiore ai
150.000 euro per le quali l'Autorità ha messo quindi a punto
12 schemi di disciplinare di gara e lettere di invito in
relazione alle diverse procedure, aperta, ristretta e
negoziata. All'interno di ogni modello una parte sarà sempre
obbligatoria, altre parti varieranno in ragione delle
diverse alternative che avranno a disposizione le stazioni
appaltanti.
Nel dettaglio, i modelli di gara si riferiscono
agli appalti di lavori di sola esecuzione, di esecuzione e
progettazione esecutiva, di esecuzione, progettazione
definitiva e progettazione esecutiva e sono articolati per
procedura aperta, ristretta e negoziata e in base al
criterio di aggiudicazione (prezzo più basso o offerta
economicamente più vantaggiosa). Per gli appalti integrati,
l'Autorità ha messo a punto soltanto modelli di bando per
aggiudicazione con il criterio dell'offerta economicamente
più vantaggiosa che, come già chiarito dall'Autorità nella
determinazione n. 5 del 27.07.2010, «appare il sistema
di affidamento preferibile in relazione alla specificità e
alla complessità dei servizi in questione, come confermato
da varie disposizioni del Regolamento nelle quali si fa
espresso riferimento all'utilizzo dell'offerta
economicamente più vantaggiosa (cfr. artt. 120 e 266)».
I bandi-tipo contemplano anche i documenti che i concorrenti
devono presentare per poter partecipare in forma di
«aggregazione di imprese di rete». Per la verifica sul
possesso dei requisiti di carattere generale,
tecnico-organizzativo ed economico-finanziario, i bandi-tipo
fanno riferimento all'utilizzo del sistema AVCpass, ancorché
rinviato a inizio 2014. Infine fra le indicazioni fornite
interessante è anche quella ai requisiti di fatturato per i
quali l'Autorità afferma che ai sensi dell'art. 41, comma 2,
del Codice occorre indicare una congrua motivazione in
ordine ai limiti di accesso connessi al fatturato aziendale
che «potrà essere riferita, per esempio, alla necessità
di un'organizzazione progettuale di elevato livello
imprenditoriale» (articolo ItaliaOggi del
02.07.2013). |
TRIBUTI: Tares a luglio se il comune tace.
Prima rata entro fine mese in assenza di delibere diverse.
Le scadenze per la nuova tassa sui
rifiuti modificabili in attesa di regolamento.
La prima rata della Tares va pagata entro la fine di luglio,
a meno che i comuni non abbiano fissato una scadenza diversa
da quella prevista dalla legge. Nel caso in cui l'ente non
indichi le scadenze delle rate, infatti, il tributo deve
essere versato a luglio e ottobre. A partire dal prossimo
anno, invece, i pagamenti rateali vanno effettuati a
gennaio, aprile, luglio e ottobre. Queste scadenze possono
essere modificate con regolamento comunale. La nuova tassa
sui rifiuti e i servizi a saldo deve essere pagata con F24,
con bollettino di conto corrente postale o tramite servizi
elettronici di incasso e di pagamenti interbancari. Solo per
il 2013, per il pagamento degli acconti i comuni possono
inviare ai contribuenti i modelli di pagamento precompilati
già predisposti per il pagamento di Tarsu, Tia1 o Tia2 o
indicare altre modalità di versamento giù utilizzate in
passato.
Scadenze e scelte dei comuni. La nuova tassa sui rifiuti e
la maggiorazione sui servizi possono essere pagate con
l'ultima rata, a conguaglio delle somme versate in acconto
che sono determinate in base a quanto già versato dai
contribuenti nell'anno precedente per Tarsu, Tia1 e Tia2.
Inoltre la maggiorazione, fissata nella misura di 0,30 euro
per metro quadrato, non può essere aumentata dai comuni e il
gettito è riservato allo stato. Gli enti locali, con propria
deliberazione, sono tenuti a indicare scadenze e numero
delle rate di versamento del tributo. Altrimenti, le
scadenze sono quelle previste dalla legge: luglio e ottobre.
I cittadini devono comunque essere informati, anche con la
pubblicazione sul sito internet del comune, almeno 30 giorni
prima della data del versamento. Per il 2013, infatti,
scadenze e numero delle rate di versamento sono stabiliti
dal comune con deliberazione adottata, «anche nelle more
della regolamentazione comunale del nuovo tributo». La prima
rata, dunque, non deve essere necessariamente versata a
luglio, come previsto in un primo momento dal dl rifiuti
(1/2013), ma può essere anticipata o posticipata, anche nel
caso in cui il comune non abbia adottato il regolamento, il
cui termine di scadenza è attualmente fissato al prossimo 30
settembre. Per le prime due rate le amministrazioni locali
possono inviare i modelli già predisposti per il pagamento
di Tarsu, Tia1 o Tia2. Gli acconti verranno scomputati dal
quantum dovuto, a titolo di Tares, per l'anno 2013.
L'articolo 10 del dl 35/2013 ha infatti differito
l'applicazione delle regole di determinazione della Tares al
momento del saldo, con la richiesta di conguaglio di quanto
dovuto dal contribuente in sede di pagamento dell'ultima
rata.
Modalità di pagamento. L'Agenzia delle entrate con un
comunicato pubblicato sul proprio sito ha reso noto che dal
27 maggio scorso è possibile pagare la Tares presso gli
sportelli di banche, poste e agenti della riscossione
utilizzando il modello F24. Inoltre, i pagamenti possono
essere effettuati tramite i servizi di home-banking e
remote-banking messi a disposizione dall'Agenzia delle
entrate oppure online, con Entratel e Fisconline,
collegandosi al sito della stessa Agenzia.
Va ricordato che con la risoluzione 37E/2013 sono stati
istituiti i codici per il versamento con l'F24 del nuovo
tributo sui rifiuti, della tariffa corrispettiva e della
maggiorazione. I contribuenti, in alternativa all'F24, dal
1° luglio hanno facoltà di versare la Tares anche con il
nuovo bollettino di conto corrente postale. Questo
bollettino, approvato con decreto ministeriale, riporta un
unico numero di conto corrente che è valido per tutti i
comuni del territorio nazionale. Il modello intestato a
«pagamento Tares», infatti, riporta obbligatoriamente il
numero di conto 1011136627. Il dm ha fissato anche le
modalità di riversamento ai comuni delle somme riscosse con
il bollettino. La tempistica e le modalità sono analoghe a
quelle previste per i versamenti unitari (F24) dal decreto
legislativo 241/1997.
Soggetti obbligati al pagamento. La Tares è dovuta da
chiunque possieda, occupi o detenga a qualsiasi titolo
locali o aree scoperte, a prescindere dall'uso a cui sono
adibiti. Sono obbligati in solido al pagamento anche i
componenti del nucleo familiare e coloro che usano in comune
locali e aree. Rispetto al regime previgente, la nuova
normativa introduce il criterio della prevalenza, vale a
dire che il tributo va pagato al comune nel cui territorio
insiste, interamente o prevalentemente, la superficie degli
immobili.
I soggetti tenuti al pagamento della tassa devono denunciare
la superficie calpestabile e non più la superficie
catastale, in seguito alle modifiche apportate all'articolo
14 dalla legge di stabilità (228/2012). È stata infatti
rinviata sine die l'applicazione della superficie catastale
per gli immobili a destinazione ordinaria come parametro per
la determinazione del tributo. Considerato che per la
maggior parte degli immobili non esiste ancora la superficie
catastale, all'Agenzia era demandato il compito non semplice
di stabilire medio tempore una superficie convenzionale in
base ai dati in suo possesso.
Tenuto conto delle difficoltà
di utilizzare la superficie catastale, viene consentito ai
comuni di fare ricorso alle superfici già denunciate per Tarsu e Tia,
calcolando la tassa sulla superficie calpestabile anche per
gli immobili a destinazione ordinaria (classificati nelle
categorie A, B e C). Si passerà alla commisurazione del
tributo sulla superficie catastale solo quando verranno
allineati i dati degli immobili a destinazione ordinaria e
quelli riguardanti la toponomastica e la numerazione civica,
interna e esterna, di ciascun comune (articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.07.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Dopo il decreto legge del fare, anche il dl emergenze
ritocca le regole sui sottoprodotti
Terre da scavo, si torna indietro.
Per i piccoli cantieri si applica il codice ambientale.
Cambia per ben due volte nel giro di una settimana il quadro
normativo di riferimento per gestire i materiali da scavo
destinati al riutilizzo in sito diverso da quello di
provenienza come «sottoprodotti», ossia fuori dal regime dei
rifiuti.
Dopo il «decreto legge Fare» (in vigore dal 22
giugno) che ha limitato l'applicazione delle regole in
materia stabilite dal dm 161/2012 ai soli residui
provenienti da attività e opere soggette a Via e Aia,
interviene ora la versione consolidata del dl «Emergenze
ambientali» (dl 43/2013, come convertito dalla legge 71/2013
in vigore dal 26 giugno) che, oltre a confermare la
limitazione sancita dal dl 69/2013, riesuma il «vecchio»
regime previsto dall'articolo 186 del Codice ambientale
stabilendo che esso continua ad applicarsi alla gestione
(come sottoprodotti) dei materiali da scavo provenienti dai
cantieri di piccole dimensioni con produzione non superiore
a 6 mila metri cubi di materiale.
Residui da attività e opere soggette a Via o Aia. Come
anticipato, nella nuova versione (conferitale dalla legge di
conversione pubblicata sulla G.U. del 25.06.2013 n. 147)
del dl 43/2013 appare ora una previsione analoga a quella
del Decreto legge Fare (dl 69/2013, G.U. del 21.06.2013)
sulla limitazione dell'applicazione del dm 161/2012 alle
sole attività soggette ad Aia e Via, previsione però che nel
nuovo decreto d'urgenza appare priva di eccezioni (laddove
il dl 69/2013 ne teneva fuori i residui provenienti da
attività di posa in mare ex articolo 109 del dlgs 152/2006,
«Codice Ambientale») e limitata ai soli interventi
ambientali necessari per risolvere le situazioni di
emergenza oggetto del decreto convertito.
Residui da cantieri di piccole dimensioni. Vera e propria
novità introdotta invece dalla legge di conversione nel dl
43/2013 è il ripristino (seppur circoscritto)
dell'operatività delle pregresse regole recate dallo stesso
Codice ambientale sulla gestione come sottoprodotti delle
terre e rocce.
Stabilisce infatti ora il nuovo articolo 8-bis del dl
emergenze che per la gestione (fuori dal regime dei rifiuti)
di terre e rocce da scavo provenienti dai cantieri di
piccole dimensioni la cui produzione non superi i 6 mila
metri cubi di materiali «continuano ad applicarsi su tutto
il territorio nazionale» le disposizioni stabilite
dall'articolo 186 del dlgs 152/2006.
Disposizioni, lo ricordiamo, costituenti una declinazione
(specifica sui materiali da scavo) delle più generali regole
del Codice ambientale sulla gestione dei sottoprodotti in
generale con l'aggiunta di alcuni obblighi specifici a
carico dei detentori (obblighi tecnici, come quello di
caratterizzazione dei residui, e formali, come quelli
relativi ai tempi massimi del loro deposito).
Disposizioni, ricordiamo ancora, con due particolarità: sono
state formalmente abrogate il 06.10.2012 (ad opera del dlgs 205/2010, che ne ha sancito la soccombenza a favore del
dm 161/2012, che doveva costituire l'unica disciplina in
materia); sono modellate su una nozione di «sottoprodotto»
nel frattempo diventata obsoleta (essendo stato nel 2010
l'originaria nozione recata dall'articolo 183 del dlgs
152/2006 modificata per adeguarla alle regole Ue e
parallelamente spostata nell'articolo 184-bis dello stesso
Codice ambientale).
La reviviscenza del regime ex «articolo 186» (nel silenzio
del legislatore d'urgenza, plausibilmente da intendersi
nella sua più fresca versione pre-abrogazione, quale
risultante dalla formulazione datane dal dlgs 4/2008, di
modifica del dlgs 152/2006) sembra però essere temporanea,
poiché lo stesso dl 43/2013 la porta solo fino all'adozione
della una futura e specifica disciplina di semplificazione
amministrativa per i piccoli cantieri (affidata al
Minambiente dall'articolo 266 del Codice ambientale).
Residui da altre attività. La gestione come sottoprodotti
dei materiali da scavo provenienti da attività diverse dalle
precedenti appare a rigor di logica, e nel silenzio dei due
legislatori d'urgenza, da condurre in base al più generale
regime stabilito in materia dal citato articolo 184-bis del dlgs
152/2006, regime (sempre in vigore ma) per godere del quale
il produttore degli inerti dovrà (senz'altro con non poche
difficoltà) dimostrare che: i residui provengono da un
processo di produzione di cui costituiscono parte integrante
ed il cui fine primo non sia la loro produzione; sono
destinati a riutilizzo certo ed effettuato in un processo di
produzione o utilizzazione; sono riutilizzabili direttamente
senza trattamenti diversi dalla «normale pratica
industriale»; sono oggetto di riutilizzo «legale»
(ossia senza impatti negativi per ambiente e salute umana) (articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.07.2013). |
CONDOMINIO: Ritorna l'obbligo di conciliare per le liti condominiali.
Agli incontri solo l'amministratore.
La mediazione? Vicina di casa.
Competenti gli organismi nella circoscrizione dell'edificio.
Ritorna la mediazione obbligatoria per le controversie
condominiali, arricchita dalle specifiche novità previste
dalla legge di riforma n. 220/2012, entrata in vigore lo
scorso 18 giugno: gli unici organismi di mediazione
competenti saranno quelli con sede nella circoscrizione del
tribunale in cui si trova l'edificio condominiale, agli
incontri potrà partecipare soltanto l'amministratore, previa
delibera assembleare, l'eventuale proposta di conciliazione
dovrà essere approvata dalla maggioranza degli intervenuti
all'assemblea che rappresentino almeno la metà del valore
dell'immobile e alla stessa potrà essere attribuita
efficacia esecutiva soltanto ove sottoscritta dai legali
delle parti che abbiano partecipato all'incontro.
Il vizio di delega e l'intervento del governo con il c.d.
decreto Fare. Con l'ormai famosa sentenza del 24.10.2012 la Corte
costituzionale aveva dichiarato l'illegittimità
costituzionale per eccesso di delega legislativa del dlgs n.
28/2010 nella parte in cui era stata prevista
l'obbligatorietà della mediazione, ossia il suo carattere di
condizione di procedibilità per tutta una serie di
controversie, tra le quali anche quelle in materia
condominiale. Tuttavia, con il recentissimo decreto legge
approvato dal governo lo scorso 15 giugno (c.d. decreto
Fare), si è deciso di reintrodurre detta obbligatorietà,
prevedendo altresì ulteriori e importanti novità relative
alla procedura di mediazione. Per quanto riguarda lo
specifico delle liti condominiali, dette novità vanno quindi
coordinate con le altrettanto rilevanti innovazioni
contenute nella legge di riforma del condominio, delle quali
finora si è poco parlato.
Il concetto di controversia in materia di condominio. L'art.
5 del dlgs n. 28/2010, normativa quadro in materia di
mediazione, nella nuova versione post c.d. decreto Fare,
obbliga quindi le parti a far precedere l'eventuale azione
giudiziaria in materia di condominio da un tentativo di
risoluzione bonaria della controversia presso specifici
organismi iscritti in un apposito registro tenuto presso il
ministero della giustizia. In primo luogo è opportuno
ricordare che anche per questo tipo di controversie vige la
regola generale sull'ambito di applicazione oggettivo della
mediazione stabilita dall'art. 2, comma 1, del dlgs n.
28/2010, in base alla quale è possibile sottoporre a
tentativo di conciliazione soltanto i diritti disponibili.
Per quanto riguarda le controversie in materia di condominio
non è stato però così semplice provvedere alla delimitazione
del relativo ambito oggettivo, perché in questo caso la
disposizione di cui al predetto art. 5 si prestava a
interpretazioni contrastanti. Il nuovo art. 71-quater disp.
att. c.c. introdotto dalla legge di riforma del condominio
ha quindi opportunamente chiarito che per detto tipo di
controversie si intendono quelle derivanti dalla violazione
o dall'errata applicazione delle disposizioni codicistiche
relative al condominio negli edifici e, dunque, alle liti
tra condomini e condominio e a quelle tra condomini,
allorché esse vertano su una di dette questioni.
Occorre anche aggiungere, per completezza, che in ambito
condominiale non è necessario far precedere l'azione
giudiziale dal tentativo di mediazione nei seguenti casi:
a) ricorsi per decreto ingiuntivo, inclusa l'opposizione,
fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e
sospensione della provvisoria esecuzione (l'amministratore
potrà quindi continuare con la normale prassi usualmente
seguita in materia di morosità condominiale per assicurare
alla cassa comune gli oneri evasi dai condomini in ritardo
nei pagamenti);
b) procedimenti urgenti e cautelari (si pensi ai ricorsi
urgenti ex art. 700 c.p.c. per tutelare, ad esempio, i beni
comuni da pericoli imminenti) e procedimenti ex art. 696-bis
c.p.c. (procedimento di consulenza tecnica preventiva),
questi ultimi menzionati dal c.d. decreto Fare;
c) procedimenti possessori, fino all'adozione di
provvedimenti interdittali;
d) procedimenti in camera di consiglio (dunque, ad esempio,
nei casi di domanda di nomina/revoca dell'amministratore di
condominio).
La scelta dell'organismo di mediazione. L'art. 4 del dlgs n.
28/2010 prevede la massima libertà per i privati di
scegliere l'organismo di mediazione che preferiscono,
ovviamente tra quelli iscritti nel predetto registro
ministeriale, senza fare riferimento a criteri processuali,
quale ad esempio quello della competenza per luogo. In
generale le parti sono quindi pienamente libere di scegliere
l'organismo di mediazione sulla base delle proprie
motivazioni personali, che potrebbero essere le più
disparate.
Sono però evidenti i limiti di un meccanismo di
scelta così liberale: se da una parte si facilita al massimo
il privato nel decidere la soluzione a questi più
congeniale, dall'altra si offre il destro a possibili
strategie volte a mettere in difficoltà la controparte e a
ostacolarne la presenza in mediazione, con la speranza di
lucrare sulle possibili ricadute negative che la mancata
partecipazione al tentativo di mediazione può avere in sede
processuale.
Anche su questo aspetto il nuovo art. 71-quater disp. att.
c.c. ha però inserito una disposizione del tutto peculiare
per il condominio, sicuramente destinata a riaprire il
dibattito, mai sopito, sul criterio di scelta dell'organismo
di mediazione. La nuova disposizione introdotta dalla legge
n. 220/2012 prevede infatti che la domanda di mediazione per
le controversie condominiali debba essere presentata, a pena
di inammissibilità, presso un organismo di mediazione
ubicato nella circoscrizione del tribunale nella quale il
condominio è situato (articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Urbanistica. Sopraelevazione, cambio d'uso e sfruttamento
delle volumetrie residue tra gli effetti della norma per le
città.
La ricostruzione perde i vincoli.
Con il decreto «del fare» sostituzione edilizia anche senza
rispetto della sagoma.
Con l'eliminazione del vincolo di rispettare la sagoma negli
interventi di demolizione e ricostruzione del patrimonio
edilizio esistente per effetto del Dl 69/2013 (decreto "del
fare") si potrà rimodellare profondamente la conformazione
delle città, superando gli indici di edificabilità assegnati
dai piani regolatori alla sola condizione di non aumentare
la volumetria preesistente.
Secondo il Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001) gli
interventi di ristrutturazione edilizia consistono nelle
opere rivolte a trasformare gli organismi edilizi «mediante
un insieme sistematico di opere che possono portare ad un
edificio in tutto o in parte diverso dal precedente». Questi
interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di
alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione,
la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nella ristrutturazione edilizia è compresa anche la
demolizione e ricostruzione. Mentre la possibilità di
modificare la sagoma era già riconosciuta dal Testo unico
per le opere che non comportano la demolizione integrale, il
decreto "del fare" consentirà di modificare la sagoma anche
nelle operazioni di demolizione e ricostruzione.
Le possibilità di intervento
La norma entra in vigore con la legge di conversione del
decreto, quindi al più tardi il 21 agosto. A breve sarà
possibile, ad esempio, trasformare un'autorimessa composta
da più piani interrati (a cui il titolo edilizio originario
riconosceva la permanenza di persone per lo svolgimento di
attività lavorative), in una palazzina che trasferisce la
volumetria nel soprassuolo (aumentando l'altezza
dell'edificio preesistente o erigendo ex novo sull'area
sovrastante), collocando nel sottosuolo i parcheggi senza
permanenza di persone.
Il caso può apparire irragionevole, ma corrisponde alla
realtà di diversi interventi realizzati in Lombardia durante
la vigenza dell'articolo 27, comma 1, lettera d), della
legge regionale 12/2005, che per primo aveva eliminato
l'obbligo del rispetto della sagoma negli interventi di
demolizione e ricostruzione. La norma era stata annullata
dalla sentenza della Corte Costituzionale 309/2011 per il
contrasto con il principio fondamentale contenuto nella
definizione di ristrutturazione del Testo unico
sull'edilizia. Ma la definizione ora è stata riscritta nei
termini citati eliminando così il vizio di
incostituzionalità.
Senza giungere al caso limite appena illustrato, si deve
rimarcare che il solo vincolo del rispetto della volumetria
consentirà agli interventi di demolizione e ricostruzione
infedele di superare l'indice edilizio (generalmente
espresso dal rapporto tra la volumetria o superficie
edificabile e la superficie dell'area di intervento)
assegnato dallo strumento urbanistico comunale, tutte le
volte in cui esso sia inferiore alla volumetria esistente.
Questo è un caso molto frequente nei tessuti consolidati
delle nostre città, dove gli edifici sono stati costruiti
ben prima dell'approvazione del primo piano regolatore (che
ha poi imposto indici inferiori all'esistente), se non prima
della stessa legge urbanistica nazionale del 1942.
Appaiono evidenti le positive implicazioni per la
rigenerazione dello stock edilizio italiano il cui valore,
in ragione del riconosciuto degrado, è da attribuirsi quasi
esclusivamente alla localizzazione e alla volumetria
espressa.
Ma vi è una seconda novità non meno importante introdotta
dal decreto: potranno mantenere la volumetria esistente
senza vincolo di sagoma anche «gli interventi rivolti al
ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente
crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione purché
sia possibile accertarne la preesistente consistenza». Per
questa via, di cui non risultano precedenti nella
legislazione regionale, si potrà porre rimedio alle ferite
inferte alle nostre città da sinistri, calamità naturali ed
eventi bellici.
Gli edifici vincolati
Un'ultima notazione, critica, merita la previsione che
continua ad imporre il rispetto della sagoma agli immobili
sottoposti a vincoli. Il decreto non considera che la difesa
dei valori culturali riconosciuti dal vincolo è assicurata
dalla necessaria e preventiva autorizzazione che deve essere
rilasciata dagli organi tutori (su tutti le soprintendenze).
Per salvaguardare i beni vincolati resta ferma anche la
possibilità che il Prg inibisca gli interventi di
demolizione e ricostruzione infedele in determinate aree o
zone urbanistiche.
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Semplificazioni. Raccolta pareri centralizzata.
Allo sportello unico le autorizzazioni per la Scia e la Cia.
Prosegue il percorso legislativo finalizzato a perfezionare
la Segnalazione certificata di inizio attività (Scia) in
materia edilizia. Il decreto "del fare" (Dl 69/2013)
interviene direttamente sul Testo unico in materia edilizia,
inserendo un nuovo articolo (articolo 23-bis), che ha ad
oggetto le autorizzazioni preliminari alla Scia e alla
comunicazione di inizio lavori (Cia) in materia edilizia.
La norma prevede che l'interessato a realizzare opere
edilizie soggette a Scia o Cia, prima della presentazione
della segnalazione stessa, possa richiedere allo sportello
unico comunale per l'edilizia di acquisire tutti gli atti di
assenso necessari per realizzare l'intervento. A fronte
della richiesta, lo sportello dovrà ottenere gli atti dagli
uffici competenti e comunicarne l'avvenuta acquisizione. Se
non sono acquisiti entro 60 giorni dalla domanda, lo
sportello unico deve, invece, convocare una conferenza di
servizi tra le amministrazioni competenti.
La Scia è stata introdotta dalla legge 122/2010 che ha
sostituito l'articolo 19 della legge 07.08.1990, n. 241,
norma che originariamente regolava la denuncia di inizio
attività (Dia). La disposizione ha poi subito ulteriori
modifiche e correzioni, in buona parte dirette a regolare
l'applicazione al settore dell'edilizia.
Con l'ultima precisazione introdotta dal decreto legge
69/2013, a partire dal 22 giugno scorso vengono meno i dubbi
sorti sull'individuazione del soggetto tenuto ad acquisire
le autorizzazioni inerenti ai vincoli ambientali,
paesaggistici, culturali o previsti dalla normativa per le
costruzioni in zone sismiche, la conformità ai quali non è
autocertificabile mediante Scia: su richiesta
dell'interessato, l'onere ricade in capo allo sportello
unico.
Il tenore letterale della disposizione, peraltro, non pare
escludere che l'interessato possa richiedere la formale
acquisizione di atti di assenso che sarebbero comunque
sostituibili mediante Scia. La norma così interpretata
potrebbe rivelarsi utile nei casi in cui sussistano margini
di incertezza rispetto alla conformità del progetto a
specifiche normative.
Il Dl 69 introduce, infine, un'importante previsione a
tutela delle zone omogenee A del Dm 1444/1968, ossia delle
parti del territorio interessate da agglomerati a carattere
storico, artistico e di particolare pregio ambientale: in
tali zone (di fatto i centri storici) gli interventi e le
varianti a permessi di costruire attuabili mediante Scia e
che comportano modifiche alla sagoma dell'edificio
preesistente o già assentito non potranno avere inizio prima
di 20 giorni dalla data di presentazione della segnalazione.
La disposizione se, da un lato, consente una maggior tutela
dei centri storici, dall'altro incide parzialmente sulla
natura della Scia che, in effetti, si distingue dalla Dia e
dal permesso di costruire in particolare per la possibilità
di avviare i lavori immediatamente. Una breve attesa è, in
ogni caso, un sacrificio accettabile se rivolto, come pare,
a tutelare i beni di pregio del patrimonio edilizio
esistente.
---------------
Procedure. Il titolo di livello «parziale».
Sull'agibilità spazio ai professionisti.
L'AUTOCERTIFICAZIONE/
I tecnici abilitati potranno dichiarare l'esistenza dei
requisiti per il rilascio del certificato al posto del
Comune.
Nessun dubbio sulla possibilità di rilasciare certificati di
agibilità parziali. Inoltre i professionisti abilitati
potranno autocertificare i requisiti di agibilità. Il
decreto "del fare" ha introdotto rilevanti novità anche in
materia di agibilità.
Il legislatore ha sancito la possibilità di rilascio
dell'agibilità parziale delle costruzioni. L'istituto, in
realtà, era già in uso nella prassi anche a seguito di
alcuni interventi interpretativi resi da parte della
giurisprudenza amministrativa (Tar Lombardia-Milano,
Sezione II, sentenza n. 332/2010).
Ma in assenza di un dato normativo esplicito, alcune
amministrazioni comunali hanno, tuttavia, continuato a
negare la possibilità di certificazione parziale. Il decreto
"del fare" fuga ora ogni dubbio in merito, subordinando però
l'agibilità parziale a puntuali condizioni.
In forza delle nuove disposizioni (articolo 30 del Dl
69/2013), il certificato di agibilità potrà essere richiesto
anche per singoli edifici o singole porzioni della
costruzione, purché funzionalmente autonomi.
La richiesta risulterà accoglibile se sono state realizzate
e collaudate le opere di urbanizzazione primaria relative
all'intero intervento edilizio e sono state completate le
parti comuni relative al singolo edificio o alla singola
porzione della costruzione.
L'istanza può anche avere ad oggetto singole unità
immobiliari, purché siano state completate le opere
strutturali, gli impianti e le parti comuni e a condizione
che le opere di urbanizzazione primaria siano state ultimate
o dichiarate funzionali rispetto all'edificio oggetto di
agibilità parziale.
Il decreto, nondimeno, prevede che il rilascio delle
agibilità parziali incida direttamente sulla durata dei
titoli edilizi: nei casi di rilascio di agibilità parziale,
prima della scadenza del termine di fine lavori dettato dal
titolo, il termine stesso è infatti prorogato per una sola
volta per tre anni.
Non solo. La precedente formulazione del Testo unico in
materia edilizia (Dpr 380/2001) prevedeva che l'agibilità
degli edifici potesse essere acquisita esclusivamente
attraverso il rilascio espresso del certificato da parte
dell'amministrazione ovvero mediante silenzio-assenso.
L'autocertificazione circa l'agibilità dell'edificio da
parte di un professionista abilitato era, infatti,
contemplata esclusivamente riguardo alle attività produttive
(Dpr 07.09.2010, n. 160) e da parte di alcune
specifiche normative regionali (ad esempio articolo 86,
legge regionale Toscana n. 1/2005).
Ebbene, il decreto, modificando l'articolo 25 del Testo
unico, estende ora questa facoltà a tutte le costruzioni.
L'interessato, in luogo dell'ordinaria domanda di rilascio
del certificato di agibilità, potrà presentare una
dichiarazione del direttore dei lavori o, qualora questi non
sia stato nominato, di un professionista abilitato, con la
quale si attesti l'agibilità dell'opera e la sua conformità
al progetto.
L'autodichiarazione, salvo diversa indicazione da parte
delle Regioni –che dovranno anche prevedere norme attuative
e per l'effettuazione dei controlli– non potrà però essere
utilizzata riguardo alle agibilità parziali (articolo Il Sole 24 Ore
dell'01.07.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Anticorruzione. Le indicazioni della Civit sulle conseguenze
delle nuove regole.
L'incompatibilità blocca anche i mandati in corso.
Fermati soltanto i dirigenti pubblici con deleghe di
gestione diretta.
Civit, ora anche Autorità nazionale anticorruzione, è
intervenuta su alcuni punti del Dlgs 39/2013, sciogliendo
così dubbi importanti sulle incompatibitilità e
inconferibilità, con tre delibere pubblicate il medesimo
giorno (si veda Il Sole 24 Ore del 29 giugno).
Il primo punto è quello dell'invocato principio del «tempus
regit actum» (delibera 46/2013). Alcuni si chiedevano se il
regime delle incompatibilità si riferisse solo agli
incarichi conferiti dopo l'entrata in vigore del decreto (04.05.2013). La risposta dell'Autorità è stata negativa,
visto che all'articolo 9, comma 1 e all'articolo 12, comma 1
si parla di assunzione e mantenimento dell'incarico e,
all'articolo 15, comma 1, si precisa che il responsabile
dell'anticorruzione deve contestare l'esistenza o
l'insorgenza di incompatibilità. Anche per gli incarichi in
essere, quindi, andrà verificata la rispondenza al decreto.
Il secondo è il tema della conciliabilità tra articolo 4 del
Dl 95/2012 e Dlgs 39/2013 (delibera 47/2013). In merito
Civit accoglie l'interpretazione secondo cui inconferibilità
e incompatibilità si applicano solo a presidente con deleghe
di gestione diretta e di amministratore delegato (si veda Il
Sole 24 Ore del 20.05.2013) e conferma quindi la
possibilità di indicare come consiglieri senza deleghe
dirigenti e dipendenti dell'ente controllante, purché non
rientrino tra quanti (articolo 9, comma 1) non abbiano
incarichi e cariche in enti di diritto privato regolati o
finanziati. La conferma che per «incarichi di amministratore
di enti pubblici e di enti privati in controllo pubblico» si
debbano intendere solo quelli di presidente con deleghe di
gestione diretta e di amministratore delegato risolve per
altro molteplici questioni.
Terzo nodo è la possibilità di riconfermare nel ruolo di
presidente e di ad di una società i medesimi soggetti. Il
dubbio nasce dall'articolo 7 del Dlgs 39/2013. Secondo Civit
(delibera 48/2013) la riconferma è autorizzata sia per la
lettera sia per la ratio della norma, che mira a contenere
la migrazione da un incarico all'altro e non la permanenza
nello stesso ruolo.
Risolte queste questioni, ne restano però altre che dovrà
affrontare, e con urgenza, il legislatore. La prima è
l'evidente ed immotivata disparità di trattamento tra ex
parlamentari ed ex consiglieri regionali e comunali: i primi
non ricadono in quasi nessuna incompatibilità mentre chi fa
politica sul territorio viene trattato come un untore.
Occorre poi rimediare a quello che, almeno per quanto
riguarda le società pubbliche, è il vizio fondamentale del
Dlgs 39/2013, cioè l'equiparazione degli amministratori di
azienda ai politici e non ai dirigenti. La scelta è
irragionevole, soprattutto se si pensa alla frequenza di
situazioni di regime in house, e crea enormi problemi
operativi. I punti da affrontare sono dunque la
compatibilità tra amministratore delegato e direttore
generale e, all'interno dei gruppi aziendali, la rimozione
del divieto di conferire, nelle partecipate di secondo
livello, deleghe di gestione diretta a dirigenti ed
amministratori della capogruppo. Infine, perché a chi è
stato amministratore con deleghe di una società deve essere
vietato di essere nominato in una società diversa? (articolo Il Sole 24 Ore
dell'01.07.2013). |
ENTI LOCALI: Bilanci. Dal 2014 i piccoli enti perdono il controllore
unico.
Revisione dei conti «vietata» per i professionisti al
debutto.
Addio progressivo al revisore contabile unico nei piccoli
Comuni, una modalità di controllo dei bilanci che dovrebbe
quasi sparire dal 1° gennaio prossimo in favore dei collegi
di revisione con tre membri.
L'evoluzione è un "effetto collaterale" dell'obbligo di
gestione associata di tutte le funzioni fondamentali
previsto per i Comuni fino a 5mila abitanti proprio dal 2014
(quest'anno i piccoli enti stanno mettendo insieme le prime
tre delle dieci attività caratterizzanti: articolo 14, comma
31-ter del Dl 78/2010).
Nelle Unioni che esercitano tutte le
funzioni fondamentali, infatti, la vigilanza sui conti è
affidata a un collegio di revisione di tre componenti, che
va a sostituire il vecchio revisore unico dei singoli Comuni
(lo prevede il Dl 174/2012 all'articolo 3, comma 1, lettera
m-bis e comma 4-bis). Sul punto, è appena intervenuto il
Viminale con una serie di istruzioni (si veda anche Il Sole
24 Ore del 27 giugno), spiegando soprattutto che quando
l'Unione inizia a svolgere tutte le funzioni l'effetto
sostitutivo è immediato, e il collegio subentra al
precedente revisore unico senza attendere la fine del
mandato di quest'ultimo. Nelle Unioni che arrivano al
traguardo dello svolgimento associato di tutte le funzioni
prima del 01.01.2014, quindi, il subentro avverrà già
da quest'anno.
La novità nasce per consentire un controllo più compiuto
sulla gestione finanziaria dei nuovi enti, ma non aumenta le
occasioni di attività per i professionisti perché ovviamente
le Unioni riuniranno in media più di tre piccoli enti
(occorre di norma raggiungere la soglia minima di 10mila
abitanti), e di conseguenza a regime i posti da revisore
saranno meno di prima.
Questa evoluzione, semmai, ha il "pregio" di rendere
più evidenti i paradossi del meccanismo attuale, e quindi di
offrire maggiori argomenti a chi chiede una riforma più
organica nella revisione degli enti locali. Nel nuovo
sistema, infatti, i conti dei piccoli enti saranno vigilati
da un collegio di tre membri, mentre quelli dei Comuni fra
5mila e 15mila abitanti, anche se più complessi,
continueranno a essere controllati da un revisore unico. In
questo sfortunato intreccio di regole, poi, si chiuderanno
quasi tutti gli accessi al ruolo per i giovani
professionisti.
In base all'ultima "riforma" (articolo 16, comma 25,
del Dl del Dl 138/2011), infatti, chi non ha alle spalle
precedenti esperienze di revisione locale deve debuttare nei
Comuni con meno di 5mila abitanti, cioè proprio quelli che
entrando nelle Unioni perderanno i posti da revisore.
L'unica strada, quindi, rimarrebbe quella dei Comuni che
dribblano l'obbligo dell'Unione e scelgono l'alternativa
delle convenzioni. Un pasticcio, a cui occorre rimediare in
fretta (articolo Il Sole 24 Ore
dell'01.07.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Previdenza. Negato il diritto al rimborso della trattenuta.
L'Inps respinge al mittente le diffide per riavere il 2,5%.
IL QUADRO/
La trattenuta bocciata dalla Corte costituzionale per chi è
in regime di Tfs viene «congelata» dall'evoluzione normativa.
Nonostante le numerose diffide, l'Inps -gestione dipendenti
pubblici- non restituisce nulla sia ai lavoratori in
gestione Tfs che a quelli in regime Tfr, con buona pace
della sentenza della Corte Costituzionale 223/2012.
L'istituto di previdenza, con il
messaggio 21.06.2013 n. 10065, risponde in questo senso ai dipendenti che,
sollecitati soprattutto dalle organizzazioni sindacali,
chiedono il rimborso della trattenuta del 2,50% a loro
effettuata a titolo di contribuzione Tfr.
Come si ricorderà, la vicenda è sorta dall'applicazione
dell'articolo 12, comma 10, del Dl 78/2010, il quale
stabiliva che tutti i dipendenti assunti a tempo
indeterminato fino al 2000, e quindi assoggettati al regime
Tfs, fossero inquadrati nel regime Tfr a partire dal 01.01.2011.
Interpellati da alcuni lavoratori, i giudici delle leggi
hanno dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma
in quanto non aveva escluso l'applicazione a carico del
dipendente della rivalsa del 2,50% della base contributiva.
Conseguenza avrebbe voluto che le amministrazioni
provvedessero alla restituzione di questa trattenuta.
Sulla questione interviene prima il Dl 185/2012 e poi la
legge 228/2012 (articolo 1, commi 98-101), i quali abrogano
in toto l'articolo 12, comma 10, del Dl 78/2010, azzerandone
tutti gli effetti e riportando, in pratica, sempre dal 01.01.2011, i dipendenti pubblici interessati nel regime Tfs. E, nel contempo, si dispone l'estinzione di diritto di
tutti i ricorsi in essere, fatti salvi quelli già passati in
giudicato.
Sulla base del nuovo quadro normativo, l'istituto di
previdenza può ben rispedire al mittente le lettere di
diffida ricevute per la restituzione delle trattenute a
titolo di Tfr, ma la questione è un'altra: può una legge del
24.12.2012 (appunto la 228/2012) disporre un reinquadramento del personale in regime Tfs con decorrenza
01.01.2011? Come si concilia questa previsione con il
principio della irretroattività delle norme sancito
dall'articolo 11 delle disposizioni preliminari del Codice
civile, derivazione dell'articolo 25 della Costituzione?
Ma se i dipendenti assunti a tempo indeterminato fino al
2000 hanno ragione di reclamare per le trattenute effettuate
nel 2011 e nel 2012, maggiori rivendicazioni dovrebbero
vantare i soggetti divenuti dipendenti pubblici dal 2001.
Per loro si applica, sin dall'assunzione, il regime Tfr,
così come previsto dal Codice civile.
Ma per garantire l'invarianza della retribuzione netta
rispetto ai loro colleghi in Tfs, il datore di lavoro deve
ridurre lo stipendio lordo di un importo pari sempre al
2,50% della base imponibile. È palese la salvaguardia della
parità del risultato in busta paga dei dipendenti pubblici
in regimi previdenziali diversi, ma è altrettanto evidente
la disparità di trattamento fra lavoratori pubblici e quelli
del settore privato, ai quali viene applicata la medesima
normativa di stampo civilistico. I giudici costituzionali,
nuovamente chiamati ad esprimersi, potrebbero offrire una
risposta ancora più ampia sulla questione.
La partita, però, non si gioca solo sul mero piano
giuridico. Sul piatto della bilancia ci sono, infatti,
maggiori oneri per le casse dello Stato che ammonterebbero a
qualche miliardo di euro (articolo Il Sole 24 Ore
dell'01.07.2013). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Relativamente
al credito per restituzione di somme pagate a titolo di
oneri di urbanizzazione per mancato inizio dei lavori stessi
e conseguente decadenza della relativa concessione edilizia,
il dies a quo dell’ordinario termine di prescrizione
decennale del suddetto diritto, deve necessariamente essere
individuato nel momento in cui il diritto al rimborso poteva
essere effettivamente esercitato, e, pertanto, (nel caso di
specie) nella data di scadenza del termine annuale di
decadenza per mancato inizio dei lavori relativi a
concessione edilizia ritirata dall’interessata in data
22/04/1994.
E’ solo da tale momento, infatti, che l’odierna ricorrente
poteva esercitare il diritto in questione, mediante
richiesta al Comune di restituzione delle relative somme,
essendo sempre da tale momento spirato anche il termine per
potere iniziare i lavori concessionati senza incorrere nella
decadenza.
Sulla questione, la giurisprudenza amministrativa ha
osservato che “…per i diritti di credito, la realizzazione
dei quali esige un’attività del creditore, la prescrizione
decorre dal giorno in cui l’attività poteva essere compiuta
ed egli poteva, così, mettersi in grado di esigere la
prestazione dovuta …. sia perché l’inerzia del titolare del
diritto assume rilevanza dal momento in cui è possibile
esercitare il diritto…”.
Il Collegio osserva che il ricorso merita accoglimento.
Va rilevato che non è in contestazione –tra le parti– che la
concessione edilizia rilasciata alla ricorrente in data
10/01/1994 e da questa formalmente ritirata in data
22/04/1994, sia stata dichiarata decaduta dal Comune per
mancato inizio dei lavori entro il termine annuale
decorrente dalla data in cui il titolo è stato ritirato, e
nemmeno è oggetto di contestazione l’esistenza del credito
vantato dalla ricorrente nei confronti dell’Amministrazione
comunale debitrice. Resta, quindi, da risolvere la questione
relativa alla diversa decorrenza del termine ordinario di
prescrizione del diritto dalla ricorrente alla restituzione
delle somme in questione, al fine di accertare l’intervenuta
o meno prescrizione del credito in questione.
La ricorrente individua il dies a quo nella data del
22/04/1995, nella quale, in ragione dello spirare del
termine annuale di inizio dei lavori, è intervenuta la
decadenza della concessione edilizia ritirata il 22/04/1994,
con conseguente produzione di effetti quali: l’impossibilità
di realizzazione dell’intervento e, sotto diverso angolo di
visuale, la possibilità di esercitare il diritto alla
restituzione degli oneri urbanistici già corrisposti al
Comune.
La civica amministrazione, invece, come già si è accennato,
fa coincidere il termine iniziale della prescrizione con la
data di rilascio del titolo edilizio (10/01/1994) o, al
limite, con quella successiva di rilascio dello stesso
(22/04/1994).
Il Collegio ritiene di condividere la tesi della ricorrente,
in quanto, relativamente al credito per restituzione di
somme pagate a titolo di oneri di urbanizzazione per mancato
inizio dei lavori stessi e conseguente decadenza della
relativa concessione edilizia, il dies a quo
dell’ordinario termine di prescrizione decennale del
suddetto diritto, debba necessariamente essere individuato
nel momento in cui il diritto al rimborso poteva essere
effettivamente esercitato, e, pertanto, nel giorno
22/04/1995, ovvero nella data di scadenza del termine
annuale di decadenza per mancato inizio dei lavori relativi
a concessione edilizia ritirata dall’interessata in data
22/04/1994.
E’ solo da tale momento, infatti, che l’odierna ricorrente
poteva esercitare il diritto in questione, mediante
richiesta al Comune di restituzione delle relative somme,
essendo sempre da tale momento spirato anche il termine per
potere iniziare i lavori concessionati senza incorrere nella
decadenza.
Sulla questione, la giurisprudenza amministrativa ha
osservato che “…per i diritti di credito, la
realizzazione dei quali esige un’attività del creditore, la
prescrizione decorre dal giorno in cui l’attività poteva
essere compiuta ed egli poteva, così, mettersi in grado di
esigere la prestazione dovuta …. sia perché l’inerzia del
titolare del diritto assume rilevanza dal momento in cui è
possibile esercitare il diritto…” (v. Cons. Stato, Sez.
V, 19/06/2003 n. 954; TAR Campania –SA- Sez. II, 28/02/2008
n. 247).
Per le suesposte ragioni, il ricorso è accolto e, per
l’effetto, si accerta il diritto della ricorrente alla
restituzione, da parte del comune di Bologna, dell’importo a
suo tempo pagato a titolo di oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria di cui all’oggetto, con accessori di
legge dal dì del dovuto alla data del saldo completo del
debito, con conseguente condanna dello stesso Comune al
pagamento delle suddette somme di cui è debitore
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 01.07.2013 n. 489 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI:
Comuni, legittimo affidare ai dirigenti la
rappresentanza a stare in giudizio.
Mediante specifica previsione statutaria, nell'ambito dei
rispettivi settori di competenza, è possibile affidare la
rappresentanza processuale dei Comuni ai dirigenti.
Nel nuovo sistema istituzionale e costituzionale degli enti
locali, lo statuto del Comune -ed anche il regolamento del
Comune, ma soltanto se lo statuto contenga un espresso
rinvio, in materia, alla normativa regolamentare- può
legittimamente affidare la rappresentanza a stare in
giudizio ai dirigenti, nell'ambito dei rispettivi settori di
competenza, quale espressione del potere gestionale loro
proprio, ovvero ad esponenti apicali della struttura
burocratico-amministrativa del Comune, fermo restando che,
ove una specifica previsione statutaria (o, alle condizioni
di cui sopra, regolamentare) non sussista, il sindaco
conserva l'esclusiva titolarità del potere di rappresentanza
processuale del Comune, ai sensi dell'art. 50 del testo
unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali,
approvato con il d.lgs. 18.08.2000, n. 267.
In particolare, qualora lo statuto (o, nei limiti già
indicati, il regolamento) affidi la rappresentanza a stare
in giudizio in ordine all'intero contenzioso al dirigente
dell'ufficio legale, questi, quando ne abbia i requisiti,
può costituirsi senza bisogno di procura, ovvero attribuire
l'incarico ad un professionista legale interno o del libero
foro (salve le ipotesi, legalmente tipizzate, nelle quali
l'ente locale può stare in giudizio senza il ministero di un
legale) e, ove abilitato alla difesa presso le magistrature
superiori, può anche svolgere personalmente attività
difensiva nel giudizio di cassazione.
Il principio, già espresso in precedenti arresti (cfr.,
Cass. civ. n. 4556/2012), è stato enunciato nuovamente dalla
Suprema Corte che ha in tal modo cassato con rinvio la
sentenza con la quale la corte territoriale aveva dichiarato
inammissibile l'impugnazione proposta avverso una pronuncia
di condanna da parte di un amministrazione comunale.
Esito del ricorso:
Cassa con rinvio, Corte di Appello di Napoli, sentenza
13.07.2005, n. 2315
I precedenti giurisprudenziali:
Cassazione civile, Sez. I, sentenza 22.03.2012, n. 4556;
Cassazione civile, Sez. I, sentenza 05.04.2006, n. 7879;
Cassazione civile, Sez. U, sentenza 16.06.2005, n. 12868
Riferimenti normativi:
Decreto Legisl. 18/08/2000 num. 267 art. 1; Cod. Proc. Civ.
art. 75 (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza
20.06.2013 n. 15493). |
APPALTI SERVIZI:
Affidamento del servizio di tesoreria? Serve
sempre la gara pubblica.
Il TAR della Campania ha accolto il ricorso da una società
specializzata nel servizio di tesoreria e tributi nei
confronti di un ente locale: per i giudici amministrativi il
rinnovo del servizio di tesoreria nei confronti dello stesso
operatore economico già aggiudicatario del servizio deve
essere effettuato tramite gara pubblica.
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Il contenzioso amministrativo
La vicenda si sviluppa seguito del fatto che, con
deliberazione del Consiglio Comunale, è stato rinnovato
l’affidamento del servizio di tesoreria comunale alla Banca
che già in precedenza lo gestiva , in assenza di indizione
di procedura di gara ad evidenza pubblica per l'affidamento
del suddetto servizio.
Avverso tale provvedimento una banca si è opposta davanti
alla competente sede del TAR.
L’analisi del TAR
I giudici amministrativi osservano che l’affidamento del
servizio di tesoreria comunale, inteso ai sensi dell’art.
209 del D.Lgs. 267/2000 quale complesso di operazioni legate
alla gestione finanziaria dell’ente locale, inclusa la
riscossione delle entrate, la custodia di titoli e valori e
gli adempimenti connessi, rientra nell’ambito di operatività
della normativa di cui al D.Lgs. n. 163/2006, risultando
assoggettato alle disposizioni del Codice degli Appalti
Pubblici ai sensi del comma 2 dell’art. 20, in quanto
incluso tra “i servizi finanziari” di cui
all’allegato II A.
Nel caso in esame il servizio affidato dal Comune sulla base
di una convenzione che ne stabiliva la remuneratività
tramite la previsione di un compenso annuale a carico
dell’ente si differenzia per tale ragione dalle concessioni
di servizi in quanto l’onere del servizio viene a gravare
integralmente sull’amministrazione per cui è riconducibile,
anche sotto tale profilo, alla disciplina degli appalti.
Come previsto dall’art. 210 del D.Lgs. n. 267/2000 l’ente
può procedere al rinnovo del contratto di tesoreria nei
confronti del medesimo soggetto per non più di una volta
solo “qualora ricorrano le condizioni di legge”.
Il TAR osserva che in seguito all’entrata in vigore
dell’art. 23 della legge n. 62/2005, la giurisprudenza del
Consiglio di Stato ha chiarito che, in tema di rinnovo o
proroga dei contratti pubblici di appalto non vi è alcuno
spazio per l’autonomia contrattuale delle parti, ma vige il
principio che l’amministrazione, una volta scaduto il
contratto, qualora abbia ancora la necessità di avvalersi
dello stesso tipo di prestazioni, deve effettuare una nuova
gara.
L’art. 57, comma 5, lett. b), del Codice degli Appalti
Pubblici, in tema di procedure negoziate senza previa
pubblicazione di un bando di gara circoscrive i casi in cui
è ammesso l’affidamento diretto all’operatore economico
aggiudicatario del contratto iniziale solo per i “nuovi
servizi consistenti nella ripetizione di servizi analoghi”
alle condizioni indicate tra cui la “previa indicazione
nel bando originario della possibilità del ricorso alla
procedura negoziata”.
Le conclusioni
Per i giudici amministrativi del TAR essendo il quadro
normativo di riferimento, e stante la preminenza della
legislazione di derivazione comunitaria rispetto alle norme
di diritto interno, nonché la necessità di privilegiare in
ogni caso un’interpretazione del dato normativo il più
possibile coerente con il diritto comunitario, deve
escludersi che il rinnovo del servizio di tesoreria nei
confronti del medesimo operatore economico già
aggiudicatario del servizio possa avvenire, in via diretta,
senza previo espletamento di una gara pubblica.
Tra l’altro, evidenziano i giudici amministrativi, l’ente
locale con la delibera di rinnovo impugnata dalla banca
interessata , ha altresì concordato ed approvato la modifica
e l’integrazione di più clausole della convenzione in
precedenza stipulata così modificando l’assetto contrattuale
originariamente posto a base di gara; tale modifica
dell’assetto contrattuale determinato nella originaria
convenzione induce, altresì, ad escludere la ravvisabilità
nella specie di una sorta di “proroga” della
convenzione originariamente stipulata peraltro ammessa dalla
legge, per il solo tempo strettamente necessario
all’espletamento di una nuova gara, mentre nella specie il
rinnovo è avvenuto per un periodo di quattro anni identico a
quello coperto dalla precedente convenzione.
Il ricorso per il TAR merita accoglimento e la delibera
dell’ente locale è, pertanto , da annullare (commento tratto
da www.ispoa.it - TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 21.06.2013 n. 3261 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Tribunale Siena.
Lo stop al decentrato non cancella l'integrativo.
I dipendenti pubblici hanno diritto a mantenere il
trattamento integrativo stabilito dal contratto decentrato,
anche se il contratto è nullo. I lavoratori interessati,
avendo confidato in buona fede nella contrattazione
integrativa stipulata dalle parti sociali, hanno adottato
scelte di vita e assunto impegni che devono essere tutelati.
Quindi la nullità della contrattazione, anche se determina
responsabilità personali e patrimoniali per chi l'ha
sottoscritta, non legittima in alcun modo il recupero delle
somme erogate ai dipendenti che hanno prestato la propria
attività lavorativa in base ad accordi decentrati siglati in
precedenza.
Questo il principio sancito dal TRIBUNALE di Siena, sezione
lavoro, nella
sentenza
13.05.2013 n. 717/2012 con cui ha respinto il ricorso presentato da una Pa
contro i decreti ingiuntivi, presentati da alcuni
dipendenti, per il pagamento del trattamento economico
accessorio riconosciuto dalla contrattazione decentrata.
Nel caso, l'ente aveva unilateralmente sospeso l'erogazione
del trattamento economico integrativo riconosciuto dalla
contrattazione decentrata, in quanto aveva ritenuto tale
contratto nullo per "mancanza di copertura" (articolo 40,
comma 3-quinquies, del Dlgs 165/2001).
Il giudice del lavoro ha chiarito che nel rapporto di
pubblico impiego riformato, la Pa non esercita più poteri di
supremazia speciale, ma opera con la capacità del datore di
lavoro privato. Pertanto, la Pa si trova in qualità di
datore di lavoro su un piano di parità contrattuale con i
dipendenti, che sono titolari di diritti, tutelati
dall'articolo 2907 del Codice civile, non degradabili con
atti unilaterali del datore pubblico. Quindi, non è
configurabile, in linea di principio, un potere di
autotutela della Pa quando agisce in qualità di datore di
lavoro.
La mancata corresponsione (o il recupero successivo
all'erogazione) del trattamento economico accessorio,
previsto dal contratto integrativo, benché tale ultimo atto
sia nullo, contrasta con i fondamentali canoni di buona fede
e affidamento incolpevole del pubblico dipendente percettore
di corrispettivi previsti dal contratto.
Il principio dell'irriducibilità della retribuzione,
infatti, dettato dall'articolo 2103 c.c., impone che la
retribuzione concordata al momento dell'assunzione non sia
riducibile, neppure a seguito di accordo tra il datore e il
prestatore di lavoro.
Ogni patto che preveda una diminuzione del compenso pattuito
è da ritenersi nullo nel caso in cui la decurtazione
riguardi le componenti della retribuzione erogate per
compensare particolari modalità della prestazione
lavorativa.
Il diritto dei lavoratori interessati al mantenimento del
trattamento integrativo, deciso in contrattazione, non
scaturisce soltanto dalla tutela dell'affidamento
incolpevole durante il periodo di esecuzione del rapporto,
ma dalla natura sostanzialmente retributiva del
corrispettivo erogato, nel rispetto dell'articolo 36 della
Costituzione.
Il trattamento integrativo, infatti, nonostante sia
erogabile solo "a consuntivo", in quanto corrispettivo
connesso alla prestazione concretamente effettuata e per le
attività concretamente svolte, ha natura retributiva e come
tale è assistito dalla garanzia di irriducibilità.
Una tale decisione del datore di lavoro sarebbe stata
legittima soltanto nel caso in cui lo stesso datore fosse
riuscito a dimostrare, sul piano quantitativo e qualitativo,
di aver disposto una diminuzione delle prestazioni, tanto da
giustificare la decurtazione del trattamento retributivo (articolo Il Sole 24 Ore
dell'01.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: La
semplice inclusione di una strada nell'elenco delle strade
comunali (o vicinali) non ha efficacia costitutiva e, ciò,
considerando come tali elenchi hanno natura meramente
dichiarativa, per cui detta inclusione non è di per sé
sufficiente a comprovare la natura pubblica o privata di una
strada.
In tal senso si è espressa recentemente la Corte di
Cassazione, secondo cui "l'iscrizione di una strada
nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico
non ha natura costitutiva e portata assoluta, ma riveste
funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune,
ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell'uso,
superabile con la prova contraria della natura della strada
e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della
collettività mediante un'azione negatoria di servitù".
Stante la natura meramente dichiarativa degli elenchi in
questione, la giurisprudenza ha precisato l’esistenza di
ulteriori requisiti da valutarsi al fine dell'accertamento
della natura “pubblica” di una strada, quali l'uso pubblico
(inteso come l'utilizzo da parte di un numero indeterminato
di persone), l'ubicazione della strada all'interno di luoghi
abitati, nonché il comportamento tenuto dalla Pubblica
Amministrazione nel settore dell'edilizia e
dell'urbanistica.
La risoluzione della controversia si sposta quindi
sull’esistenza o meno della connotazione di “strada
pubblica” di Via Tagliamento, presupposto quest’ultimo
per sancire l’applicabilità o meno del disposto di cui al
Decreto Ministeriale sopra citato.
Sul punto va rilevato come questo il Collegio sia
consapevole come la semplice inclusione di una strada
nell'elenco delle strade comunali (o vicinali) non abbia
efficacia costitutiva e, ciò, considerando come tali elenchi
hanno natura meramente dichiarativa, per cui detta
inclusione non è di per sé sufficiente a comprovare la
natura pubblica o privata di una strada.
In tal senso si è espressa recentemente la Corte di
Cassazione, secondo cui "l'iscrizione di una strada
nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico
non ha natura costitutiva e portata assoluta, ma riveste
funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune,
ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell'uso,
superabile con la prova contraria della natura della strada
e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della
collettività mediante un'azione negatoria di servitù (Cass.
Civ., Sez. Un., 27.01.2010, n. 1624)”.
Stante la natura meramente dichiarativa degli elenchi in
questione, la giurisprudenza ha precisato l’esistenza di
ulteriori requisiti da valutarsi al fine dell'accertamento
della natura “pubblica” di una strada, quali l'uso
pubblico (inteso come l'utilizzo da parte di un numero
indeterminato di persone), l'ubicazione della strada
all'interno di luoghi abitati, nonché il comportamento
tenuto dalla Pubblica Amministrazione nel settore
dell'edilizia e dell'urbanistica.
Tutto ciò premesso va comunque rilevato che l’inclusione di
cui si tratta, sancisce comunque un effetto quanto meno “presuntivo”
e per quanto ritiene la qualificazione di una strada
pubblica.
Fermo restando detto criterio presuntivo, e i criteri fatti
propri dall’orientamento sopra ricordato, parte ricorrente
avrebbe dovuto individuare, nel concreto, quegli elementi,
quelle caratteristiche, suscettibili di connotare
diversamente la strada di cui si tratta e, ciò, senza
limitarsi (come in realtà è avvenuto nel ricorso) a porre in
essere una generica contestazione del carattere presuntivo
sopra ricordato.
Al contrario il Comune di Venezia ha rilevato come Via
Tagliamento sia una strada aperta al pubblico; ha, altresì,
precisato come essa costituisca un tratto viario che unisce
le pubbliche strade di Via Rio Cimetto e Via Muggia;
elementi tutti così elencati che, non solo avvalorano il
carattere presuntivo sopra citato, ma consentono di ritenere
insussistente la violazione dell’art. 8 del DM 1444/1968
sostenuta da parte ricorrente.
Il primo motivo deve, pertanto, ritenersi infondato
(Tar Veneto,
Sezione II,
sentenza 13.12.2012 n. 1555 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Il
compenso incentivante previsto in favore del personale degli
uffici tecnici di Amministrazioni pubbliche per la
progettazione di opere pubbliche dalla L. 11.02.1994, n.
109, art. 18, comma 1, e successive modificazioni, e posto a
carico delle amministrazioni aggiudicatarie o titolari di
atti di pianificazione generale, particolareggiata o
esecutiva -compenso che costituisce trattamento retributivo
accessorio a carattere premiale rispetto a quello ordinario
ed incentivante dell’attività lavorativa svolta con mansioni
di progettazione- è disciplinato nei suoi presupposti dal
regolamento che tali amministrazioni sono chiamate ad
emanare ai sensi della L. 15.05.1997, n. 127, art. 6 e
richiede in generale un’attività di progettazione per
un’opera pubblica, prevista in un atto di pianificazione
suddetto, per la realizzazione della quale ci sia stata
l’aggiudicazione dell’appalto.
---------------
Il compenso incentivante di cui si discute ha natura
retributiva e, quindi, su di esso vanno operate le ordinarie
ritenute previdenziali e fiscali, sicché la quota prevista
dalla normativa sopra richiamata è da corrispondere al lordo
di tali oneri.
Stante appunto la natura retributiva di tale trattamento
incentivante, su tale compenso il percettore deve -come per
l’ordinario trattamento retributivo- corrispondere la quota
contributiva (e quella fiscale) con il meccanismo della
ritenuta operata dall’Amministrazione datrice di lavoro.
Non si rinviene infatti alcuna normativa derogatoria che
consenta di ritenere che tale particolare trattamento
retributivo accessorio sia da calcolare come netto rispetto
ad un altro maggior valore che inglobi gli oneri
previdenziali (e fiscali) suddetti e che la differenza debba
essere posta a carico dell’Amministrazione erogante.
La L. 23.12.2005, n. 266, art. 1, comma 207, -secondo il
quale la L. 11.02.1994, n. 109, art. 18, comma 1 e
successive modificazioni, deve interpretarsi nel senso che
la quota percentuale di ripartizione della incentivazione
per la progettazione di opere pubbliche, "è comprensiva
anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell’amministrazione"- è norma di interpretazione autentica,
con efficacia retroattiva.
Non è quindi fondata la pretesa dei ricorrenti incidentali
di percepire, dalla Amministrazione provinciale, le
incentivazioni previste dal citato art. 18 al netto degli
oneri di previdenza ed assistenza (nonché fiscali) a carico
della Provincia stessa.
L'attività di progettazione è "premiata" con
l’attribuzione degli incentivi dell’art. 18 se e solo se
-come correttamente sostenuto dalla difesa della Provincia-
si risolva in un’"effettiva utilità per l’amministrazione
come attività propedeutica alla realizzazione dell’opera
pubblica", quale appunto può essere l’approvazione di un
progetto esecutivo dell’opera pubblica. D’altra parte la
determinazione dei presupposti più di dettaglio del
beneficio costituito da questo trattamento retributivo
accessorio è demandata ad una specifica regolamentazione
dell’Amministrazione pubblica (nella specie i regolamenti
del 1998 e del 1999 dell’Amministrazione provinciale
ricorrente).
Emerge quindi che la Corte d’appello da una parte ha
svalutato i dati normativi suddetti che invece mostrano
doversi trattare di una progettazione arrivata in una fase
avanzata, quando ci sono un progetto esecutivo approvato ed
un’opera da realizzare.
D’altra parte ha immotivatamente ritenuti illegittimi -e
quindi disapplicato- i regolamenti del 1998 e del 1999
dell’Amministrazione provinciale ricorrente sulla base della
mera asserzione che essi –si legge nella sentenza impugnata-
"introducono requisiti ulteriori rispetto a quelli non
previsti dalla legge"; laddove sia la L. n. 109 del
1994, art. 18 che la L. n. 144 del 1999, art. 13 prevedono
espressamente tale potere regolamentare che quindi ben
poteva disciplinare più in dettaglio i presupposti -id
est: i "requisiti ulteriori"- del trattamento
retributivo accessorio costituito dagli incentivi in esame
(cfr. in proposito che Cass., sez. lav., 19.07.2004, n.
13384).
Sotto questo aspetto il ricorso va accolto e l’impugnata
sentenza va cassata con affermazione, ex art. 384 c.p.c.,
comma 1, del seguente principio di diritto: "Il compenso
incentivante previsto in favore del personale degli uffici
tecnici di Amministrazioni pubbliche per la progettazione di
opere pubbliche dalla L. 11.02.1994, n. 109, art. 18, comma
1, e successive modificazioni, e posto a carico delle
amministrazioni aggiudicatarie o titolari di atti di
pianificazione generale, particolareggiata o esecutiva
-compenso che costituisce trattamento retributivo accessorio
a carattere premiale rispetto a quello ordinario ed
incentivante dell’attività lavorativa svolta con mansioni di
progettazione- è disciplinato nei suoi presupposti dal
regolamento che tali amministrazioni sono chiamate ad
emanare ai sensi della L. 15.05.1997, n. 127, art. 6 e
richiede in generale un’attività di progettazione per
un’opera pubblica, prevista in un atto di pianificazione
suddetto, per la realizzazione della quale ci sia stata
l’aggiudicazione dell’appalto".
La causa va rinviata, pure per le spese di lite, alla Corte
d’appello di Bologna cui è demandato di accertare, anche
alla luce della disciplina regolamentare dell’ente
ricorrente, quali progetti abbiano raggiunto quella fase
avanzata di cui si è detto sopra.
---------------
Correttamente la
Corte d’appello ha considerato che il compenso incentivante
di cui si discute ha natura retributiva e quindi su di esso
vanno operate le ordinarie ritenute previdenziali e fiscali,
sicché la quota prevista dalla normativa sopra richiamata
era da corrispondere al lordo di tali oneri. Ed ha ritenuto
che, stante appunto la natura retributiva di tale
trattamento incentivante, su tale compenso il percettore
dovesse -come per l’ordinario trattamento retributivo-
corrispondere la quota contributiva (e quella fiscale) con
il meccanismo della ritenuta operata dall’Amministrazione
datrice di lavoro.
Non si rinviene infatti alcuna normativa derogatoria che
consenta di ritenere -come richiedono i ricorrenti
incidentali- che tale particolare trattamento retributivo
accessorio sia da calcolare come netto rispetto ad un altro
maggior valore che inglobi gli oneri previdenziali (e
fiscali) suddetti e che la differenza debba essere posta a
carico dell’Amministrazione erogante.
Tale interpretazione ha poi trovato conferma -come
puntualmente ha rilevato la Corte d’appello– nella L. n. 350
del 2003, art. 3, comma 29, che ha previsto che "i
compensi che gli enti locali, ai sensi della L. n. 109 del
1999, art. 18 e successive modificazioni ... si intendono al
lordo di tutti gli oneri accessori connesse alle erogazioni,
ivi compresa la quota di oneri accessori a carico degli enti
stessi" e con la ulteriore previsione, di analogo
contenuto, di cui alla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma
257, riprodotta al D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 92, comma,
(c.d. codice degli appalti).
Questa Corte (Cass., sez. lav., 27.07.2010, n. 17536) del
resto ha già affermato in proposito che la L. 23.12.2005, n.
266, art. 1, comma 207, -secondo il quale la L. 11.02.1994,
n. 109, art. 18, comma 1 e successive modificazioni, deve
interpretarsi nel senso che la quota percentuale di
ripartizione della incentivazione per la progettazione di
opere pubbliche, "è comprensiva anche degli oneri
previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione"-
è norma di interpretazione autentica, con efficacia
retroattiva.
Non è quindi fondata la pretesa dei ricorrenti incidentali
di percepire, dalla Amministrazione provinciale, le
incentivazioni previste dal citato art. 18 al netto degli
oneri di previdenza ed assistenza (nonché fiscali) a carico
della Provincia stessa (Corte
di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza
12.04.2011 n. 8344 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL
01.07.2013 |
ã |
E'
illegittima la verifica di compatibilità al PTCP, del
PGT, espressa dalla Giunta ovvero dal Consiglio
Provinciale poiché spetta al dirigente!!
E
allora, perché le Province
lombarde (quasi tutte) si ostinano a rendere il parere
(di legge) a firma dei politici anziché del
dirigente??
Cosa c'è di politico, su cui pronunciarsi, perché si debba "scomodare"
la Giunta provinciale?? |
Le sotto riportate sentenze del TAR meneghino sono
assolutamente condivisibili ed equilibrate sotto il
profilo del riparto di competenze ... e se avete
conseguito la 5^ elementare (come noi che scriviamo)
non potete NON condividerne i contenuti essenziali.
Tuttavia, se c'è qualcuno che dissente saremo ben lieti
di pubblicare qui le proprie argomentazioni ... il
confronto è sempre motivo di crescita professionale
(e non solo).
Comunque, in disparte quanto sentenziato dal Giudice
Amministrativo, potremmo cavarcela da soli nel
pervenire alle medesime conclusioni se abbiamo tempo
e voglia di leggere cosa dispone la norma regionale.
Invero, l'art. 13, comma 5, della L.R. n. 12/2005
così recita: "5. Il documento di piano, il
piano dei servizi e il piano delle regole,
contemporaneamente al deposito, sono trasmessi alla
provincia se dotata di piano territoriale di
coordinamento vigente.
La provincia,
garantendo il confronto con il comune interessato,
valuta esclusivamente la
compatibilità del documento di piano con il proprio
piano territoriale di coordinamento entro
centoventi giorni dal ricevimento della relativa
documentazione, decorsi inutilmente i quali la
valutazione si intende espressa favorevolmente.
Qualora il comune abbia presentato
anche proposta di modifica o integrazione degli atti
di pianificazione provinciale, le determinazioni in
merito sono assunte con deliberazione di Giunta
provinciale. In caso di assenso alla
modifica, il comune può sospendere la procedura di
approvazione del proprio documento di piano sino
alla definitiva approvazione, nelle forme previste
dalla vigente legislazione e dalla presente legge,
della modifica dell’atto di pianificazione
provinciale di cui trattasi, oppure richiedere la
conclusione della fase valutativa, nel qual caso le
parti del documento di piano connesse alla richiesta
modifica della pianificazione provinciale acquistano
efficacia alla definitiva approvazione della
modifica medesima. In ogni caso, detta proposta
comunale si intende respinta qualora la provincia
non si pronunci in merito entro centoventi giorni
dalla trasmissione della proposta stessa."
(comma così modificato dalla legge
reg. n. 4 del 2008)
Orbene, leggendo il 3° periodo del suddetto comma se ne
deduce che è la Giunta provinciale a doversi
esprimere ma solamente "qualora
il comune abbia presentato anche proposta di
modifica o integrazione degli atti di pianificazione
provinciale, ..."
mentre nei casi di ordinarietà -ovverosia di
conformità dell''adottato PGT al PTCP- la
valutazione sarà resa (ovviamente) dal dirigente
competente per materia in quanto trattasi di
"valutare esclusivamente la
compatibilità del documento di piano con il proprio
piano territoriale di coordinamento"
e, quindi, trattasi di attività meramente gestionale
... anche perché mai (ragionevolmente) potrebbe sortire il dubbio che
sia il Consiglio Provinciale a doversi pronunciare.
E le sentenze che andiamo a proporre scaturiscono,
neanche a farlo apposta, dall'impugnazione -tra
l'altro- della valutazione di compatibilità resa dal
dirigente laddove il ricorrente sosteneva la tesi
che la competenza fosse, invece, in capo al
Consiglio/Giunta provinciale.
|
COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA:
La valutazione di compatibilità del PGT al PTCP non
si configura affatto né come atto di indirizzo, né
come espressione di un potere di controllo politico,
ma tende alla mera attuazione degli obiettivi della
pianificazione provinciale ed è, pertanto,
riconducibile alle attribuzioni dirigenziali.
La valutazione di compatibilità
del P.G.T. rispetto al P.T.C.P. non può essere
intesa come limitata ad un mero riscontro della
conformità estrinseca del piano comunale alle
previsioni ad efficacia prescrittiva e prevalente
del piano provinciale.
Inteso in tal modo, infatti, non soltanto il
rapporto di collaborazione istituzionale fra i due
enti verrebbe del tutto svilito, ma neppure si
comprenderebbe il senso della previsione contenuta
nel comma di apertura dell’art. 18 della legge
regionale n. 12/2005.
Detta prescrizione, infatti, pone in luce la
portata, teleologicamente orientata, della
valutazione che fa capo alla Provincia, nel senso di
valorizzare l’accertamento dell’idoneità dell’atto
comunale al raggiungimento degli obiettivi del piano
di coordinamento.
Non va trascurato, poi, quanto già sostenuto da
questo Tribunale, proprio facendo leva sul
presupposto che sia istituzionalmente demandata alla
provincia la tutela dei valori paesaggistici,
cosicché non appare illegittimo:<<… che tale potere
si esprima mediante raccomandazioni affinché il
Comune riveda le proprie previsioni: e ciò perché
tali raccomandazioni, indicazioni o inviti, ispirati
alla tutela dei valori ambientali, ben si rapportano
a quella funzione (ed efficacia) di orientamento,
indirizzo e coordinamento che l’art. 2, quarto
comma, della legge regionale citata attribuisce
espressamente al piano territoriale regionale ed ai
piani territoriali di coordinamento provinciali>>.
---------------
Il Consiglio di Stato ha statuito che la lettera b)
dell’art. 42, secondo comma, del t.u.e.l. si
riferisce “non a qualsiasi parere espresso dall’Ente
che comunque coinvolga i piani o programmi dallo
stesso approvati, ma soltanto ai pareri espressi
nell’ambito del procedimento di formazione di quei
piani e programmi (o delle relative varianti e
deroghe)”, sicché “restano fuori dalla previsione,
ad esempio, i pareri che l’Ente è chiamato a rendere
circa la compatibilità con il proprio piano o
programma di attività poste in essere da altri
soggetti (è il caso del parere di conformità al
P.R.G. di un intervento edilizio, che non si dubita
non appartenga alla competenza consiliare)”.
Tale conclusione è perfettamente applicabile anche
al caso in esame, in cui la Provincia è chiamata ad
esprimere una “valutazione di compatibilità” tra due
strumenti urbanistici di diverso livello, al fine di
verificare, dal riscontro tra le previsioni dell’uno
e dell’altro, se quello sottordinato (PGT) rispetti
le previsioni del piano sovraordinato (PTCP).
Si tratta di un riscontro che non implica alcuna di
quelle scelte di indirizzo che radicano la
competenza del consiglio provinciale, ex art. 42,
primo comma, t.u.e.l., che definisce il consiglio
come “organo di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo”.
Tanto basta a disattendere la tesi secondo cui la
valutazione di compatibilità in questione sarebbe
riservata al consiglio provinciale.
---------------
L’art. 13, quinto comma, della legge regionale n.
12/2005 dispone che: “qualora il comune abbia
presentato anche proposta di modifica o integrazione
degli atti di pianificazione provinciale, le
determinazioni in merito sono assunte con
deliberazione di giunta provinciale”.
Si desume da ciò che la competenza della giunta
provinciale si prospetti nel solo caso in cui
occorra delibare se la proposta di modifica sia o
meno assentibile ai fini della sospensione ovvero
del proseguimento della procedura di approvazione
del PGT, secondo una delle opzioni previste dallo
stesso comma, ferma restando comunque la competenza
del consiglio provinciale per la “definitiva
approvazione…. della modifica dell’atto di
pianificazione provinciale”.
L’art. 48 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (t.u.e.l.),
d’altro canto, demanda alla giunta gli atti che non
sono riservati al consiglio e che non rientrano
nelle competenze del presidente o nelle attribuzioni
dei dirigenti.
A questi ultimi, l’art. 107, secondo comma, del t.u.
assegna “tutti i compiti, compresa l'adozione degli
atti e provvedimenti amministrativi che impegnano
l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi
espressamente dalla legge o dallo statuto tra le
funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo
dell'ente” (secondo comma), nonché (terzo comma)
“l’attuazione degli obiettivi e dei programmi
definiti con gli atti di indirizzo adottati” dagli
organi di governo.
Ai dirigenti competono, tra l’altro (art. 107,
secondo comma, lettera f), “i provvedimenti di
autorizzazione, concessione o analoghi, il cui
rilascio presupponga accertamenti e valutazioni,
anche di natura discrezionale, nel rispetto di
criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti,
da atti generali di indirizzo, ivi comprese le
autorizzazioni e le concessioni edilizie”; nonché
(lettera h) “le attestazioni, certificazioni,
comunicazioni, diffide, verbali, autenticazioni,
legalizzazioni ed ogni altro atto costituente
manifestazione di giudizio e di conoscenza”.
Se si considera che la valutazione di compatibilità
in questione mira esclusivamente a verificare,
attraverso la comparazione del contenuto dei due
piani, il rispetto del P.T.C.P. da parte del piano
comunale di governo del territorio e non implica
profili di discrezionalità, se si eccettuano quelli
insiti nella valutazione della idoneità dell’atto al
conseguimento degli obiettivi del piano (arg. ex
art. 18 co. I cit.), se ne trae la conferma che essa
non si configura affatto né come atto di indirizzo,
né come espressione di un potere di controllo
politico, ma tenda alla mera attuazione degli
obiettivi della pianificazione provinciale, e sia,
pertanto, riconducibile alle attribuzioni
dirigenziali.
Con
il primo motivo, la Società lamenta, in sintesi,
la violazione di legge e l’eccesso di potere poiché,
ai sensi degli artt. 13, co. V, e 18, co. II, della
legge regionale Lombardia n. 12/2005, la Provincia
avrebbe dovuto valutare esclusivamente la
compatibilità del P.G.T con le previsioni
prescrittive e vincolanti del proprio P.T.C.P., onde
salvaguardare l’autonomia comunale in ambito
pianificatorio. Si comprende, così, prosegue
l’istante, l’illegittimità dell’operato provinciale,
per avere violato l’ambito dei poteri pianificatori
riservato al Comune, atteso che nessuna delle
previsioni prescrittive del P.T.C.P. di Como
riguarderebbe l’ambito di proprietà della Società.
Sul punto, la difesa comunale contro-deduce
affermando che la Provincia, in sede di valutazione
di compatibilità del P.G.T. col P.T.C.P., non
dovrebbe affatto limitarsi al mero riscontro formale
delle previsioni di cui all’art. 18, co. II cit.,
ma, in forza del co. I della stessa norma, dovrebbe
valutare la compatibilità dell’intera struttura del
piano urbanistico comunale con i principi ispiratori
del P.T.C.P.
A supporto di tale tesi, il Comune cita il
precedente giurisprudenziale di questo TAR n.
4301/2009.
Anche la Provincia di Como svolge analoghe difese,
contro-deducendo ai motivi nn. 1, 2 e 10 (ritenuti
connessi) con cui viene attaccato l’operato
provinciale.
Così, a proposito della valutazione, di spettanza
provinciale, di conformità al P.T.C.P., viene
richiamata la sentenza del C.d.S. n. 24/2011, nonché
l’art. 11 delle N.T.A. del P.T.C.P. il quale,
nell’indicare le componenti essenziali della rete
ecologica, menziona anche quelle zone che, pur non
essendo cartograficamente comprese nella rete
ecologica, rivestono la medesima valenza ambientale,
assicurando una funzione di cuscinetto in vista e in
aderenza ai principi dello sviluppo sostenibile.
Senza trascurare, poi, prosegue la Provincia, che il
comparto de quo sarebbe interessato da
un’area seppur marginale di pertinenza idraulica.
Da ultimo, la Provincia ribadisce come l’art. 18
della cit. legge reg. preveda che le valutazioni di
compatibilità rispetto al P.T.C.P. concernano
l’accertamento dell’idoneità dell’atto scrutinato ad
assicurare il conseguimento degli obiettivi fissati
dal piano, salvaguardando i limiti di sostenibilità
ivi previsti. In tal senso, andrebbe valorizzata la
previsione dell’art. 1 delle N.T.A. del P.T.C.P. di
Como, che contemplerebbe fra gli obiettivi
strategici proprio la tutela dell’ambiente e la
valorizzazione degli ecosistemi, l’assetto
idrogeologico e la difesa del suolo. Ed è in tale
contesto, conclude la Provincia, che si
collocherebbe la valutazione operata con la
deliberazione impugnata in ordine all’area
dell’esponente, i cui caratteri specifici ne
giustificherebbero l’inserimento nel novero degli <<ambiti
boschivi della rete ecologica locale>>,
disciplinati dall’art. 41 del Piano delle Regole del
P.G.T. del Comune.
Il motivo è infondato.
Al riguardo il Collegio ritiene, in primo luogo, di
dover chiarire che la valutazione di compatibilità
del P.G.T. rispetto al P.T.C.P. non può essere
intesa, come vorrebbe parte ricorrente, come
limitata ad un mero riscontro della conformità
estrinseca del piano comunale alle previsioni ad
efficacia prescrittiva e prevalente del piano
provinciale.
Inteso in tal modo, infatti, non soltanto il
rapporto di collaborazione istituzionale fra i due
enti verrebbe del tutto svilito, ma neppure si
comprenderebbe il senso della previsione contenuta
nel comma di apertura dell’art. 18 della legge
regionale n. 12/2005.
Detta prescrizione, infatti, pone in luce la
portata, teleologicamente orientata, della
valutazione che fa capo alla Provincia, nel senso di
valorizzare l’accertamento dell’idoneità dell’atto
comunale al raggiungimento degli obiettivi del piano
di coordinamento.
Non va trascurato, poi, quanto già sostenuto da
questo Tribunale, proprio facendo leva sul
presupposto che sia istituzionalmente demandata alla
provincia la tutela dei valori paesaggistici,
cosicché non appare illegittimo:<<… che tale
potere si esprima mediante raccomandazioni affinché
il Comune riveda le proprie previsioni: e ciò perché
tali raccomandazioni, indicazioni o inviti, ispirati
alla tutela dei valori ambientali, ben si rapportano
a quella funzione (ed efficacia) di orientamento,
indirizzo e coordinamento che l’art. 2, quarto
comma, della legge regionale citata attribuisce
espressamente al piano territoriale regionale ed ai
piani territoriali di coordinamento provinciali>>
(cfr. TAR Lombardia, Milano, II, n. 4301 del
06.07.2009).
---------------
Con il
quinto motivo si deduce il vizio di incompetenza
del parere di compatibilità provinciale, in quanto
adottato dal dirigente, anziché dagli organi
politici.
In particolare, secondo l’istante qui si tratterebbe
di un giudizio sugli strumenti urbanistici comunali,
che fuoriesce dall’ambito prescrittivo del PTCP e,
dunque, di una valutazione ampiamente discrezionale,
che esulerebbe dalla competenza gestionale per
radicarsi in quella degli organi di governo,
deputati al controllo politico amministrativo.
Il motivo è infondato.
Il Collegio ritiene qui opportuno richiamare un
precedente in cui, in una vicenda analoga, il
Consiglio di Stato ha statuito (sentenza 28.05.2009
n. 3333, Sez. IV) che la lettera b) dell’art. 42,
secondo comma, del t.u.e.l. si riferisce “non a
qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque
coinvolga i piani o programmi dallo stesso
approvati, ma soltanto ai pareri espressi
nell’ambito del procedimento di formazione di quei
piani e programmi (o delle relative varianti e
deroghe)”, sicché “restano fuori dalla
previsione, ad esempio, i pareri che l’Ente è
chiamato a rendere circa la compatibilità con il
proprio piano o programma di attività poste in
essere da altri soggetti (è il caso del parere di
conformità al P.R.G. di un intervento edilizio, che
non si dubita non appartenga alla competenza
consiliare)”.
Tale conclusione è perfettamente applicabile anche
al caso in esame, in cui la Provincia è chiamata ad
esprimere una “valutazione di compatibilità”
tra due strumenti urbanistici di diverso livello, al
fine di verificare, dal riscontro tra le previsioni
dell’uno e dell’altro, se quello sottordinato (PGT)
rispetti le previsioni del piano sovraordinato (PTCP).
Si tratta di un riscontro che non implica alcuna di
quelle scelte di indirizzo che radicano la
competenza del consiglio provinciale, ex art. 42,
primo comma, t.u.e.l., che definisce il consiglio
come “organo di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo” (cfr. in terminis,
TAR Lombardia, Milano, II, 28.07.2009 n. 4468).
Tanto basta a disattendere la tesi secondo cui la
valutazione di compatibilità in questione sarebbe
riservata al consiglio provinciale.
Si tratta ora, una volta esclusa -per le ragioni
esposte al punto che precede- una riserva di
competenza al consiglio provinciale, di esaminare la
censura della Società secondo cui la competenza in
materia apparterrebbe alla giunta provinciale,
anch’essa “organo di governo dell’ente” (art.
36 t.u.e.l.).
Al riguardo, va osservato che, la cit. sentenza n.
3333/2009 del Consiglio di Stato, menzionata da
parte ricorrente, non ha affermato (positivamente e
definitivamente) la competenza della giunta
provinciale, ma si è limitata ad escludere la
riserva di competenza al consiglio, in una
fattispecie in cui la valutazione di compatibilità
-rispetto al sopraordinato PTCP- di un P.I.I.
(programma integrato di intervento), adottato da
altro comune in variante al PRG, era stata
effettuata dalla giunta provinciale con
provvedimento impugnato per incompetenza.
Non si può, dunque, trarre argomento, sic et
simpliciter, dalla sentenza citata per desumerne
tout court la competenza della giunta e
l’incompetenza del dirigente.
In verità, ritiene il Collegio che al quesito di cui
sopra (se cioè nella vicenda in esame sia stato
invaso un ambito di attribuzioni riservato alla
giunta provinciale) debba darsi risposta negativa,
richiamando quanto già sostenuto da questo stesso
Tribunale proprio nella cit. sentenza n. 4468/2009.
All’uopo, va considerato che l’art. 13, quinto
comma, della legge regionale n. 12/2005 dispone che:
“qualora il comune abbia presentato anche
proposta di modifica o integrazione degli atti di
pianificazione provinciale, le determinazioni in
merito sono assunte con deliberazione di giunta
provinciale”. Si desume da ciò che la competenza
della giunta provinciale si prospetti nel solo caso
in cui occorra delibare se la proposta di modifica
sia o meno assentibile ai fini della sospensione
ovvero del proseguimento della procedura di
approvazione del PGT, secondo una delle opzioni
previste dallo stesso comma, ferma restando comunque
la competenza del consiglio provinciale per la “definitiva
approvazione…. della modifica dell’atto di
pianificazione provinciale”.
L’art. 48 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (t.u.e.l.),
d’altro canto, demanda alla giunta gli atti che non
sono riservati al consiglio e che non rientrano
nelle competenze del presidente o nelle attribuzioni
dei dirigenti.
A questi ultimi, l’art. 107, secondo comma, del t.u.
assegna “tutti i compiti, compresa l'adozione
degli atti e provvedimenti amministrativi che
impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non
ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto
tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo
dell'ente” (secondo comma), nonché (terzo comma)
“l’attuazione degli obiettivi e dei programmi
definiti con gli atti di indirizzo adottati”
dagli organi di governo.
Ai dirigenti competono, tra l’altro (art. 107,
secondo comma, lettera f), “i provvedimenti di
autorizzazione, concessione o analoghi, il cui
rilascio presupponga accertamenti e valutazioni,
anche di natura discrezionale, nel rispetto di
criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti,
da atti generali di indirizzo, ivi comprese le
autorizzazioni e le concessioni edilizie”;
nonché (lettera h) “le attestazioni,
certificazioni, comunicazioni, diffide, verbali,
autenticazioni, legalizzazioni ed ogni altro atto
costituente manifestazione di giudizio e di
conoscenza”.
Se si considera che la valutazione di compatibilità
in questione mira esclusivamente a verificare,
attraverso la comparazione del contenuto dei due
piani, il rispetto del P.T.C.P. da parte del piano
comunale di governo del territorio e non implica
profili di discrezionalità, se si eccettuano quelli
insiti nella valutazione della idoneità dell’atto al
conseguimento degli obiettivi del piano (arg. ex
art. 18 co. I cit.), se ne trae la conferma che essa
non si configura affatto né come atto di indirizzo,
né come espressione di un potere di controllo
politico, ma tenda alla mera attuazione degli
obiettivi della pianificazione provinciale, e sia,
pertanto, riconducibile alle attribuzioni
dirigenziali.
In conclusione, quindi, le censure della ricorrente
in punto di competenza sono prive di fondamento
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 25.05.2012 n. 1440 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA:
E' illegittimo che la provincia valuti la compatibilità del
documento di piano del P.G.T., con il proprio piano
territoriale di coordinamento (P.T.C.P.), mediante
provvedimento della Giunta/Consiglio anziché con determina
dirigenziale.
La lettera b)
dell’art. 42, secondo comma, del t.u.e.l. si riferisce “non
a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque coinvolga
i piani o programmi dallo stesso approvati, ma soltanto ai
pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione
di quei piani e programmi (o delle relative varianti e
deroghe)”, sicché “restano fuori dalla previsione, ad
esempio, i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa la
compatibilità con il proprio piano o programma di attività
poste in essere da altri soggetti (è il caso del parere di
conformità al P.R.G. di un intervento edilizio, che non si
dubita non appartenga alla competenza consiliare)”.
Nel caso in esame, la Provincia è chiamata appunto ad una
“valutazione di compatibilità” tra due strumenti urbanistici
di diverso livello, al fine di verificare, dal riscontro tra
le previsioni dell’uno e dell’altro, se quello sottordinato
(PGT) rispetti le previsioni del piano sovraordinato (PTCP).
Si tratta di un riscontro al quale sono estranee valutazioni
di merito; a maggior ragione esso non implica alcuna di
quelle scelte di indirizzo che radicano la competenza del
consiglio provinciale ex art. 42, primo comma t.u.e.l., che
definisce il consiglio come “organo di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo”.
---------------
Dall’art. 48 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (t.u.e.l.),
si desume che la giunta compie gli atti che non sono
riservati al consiglio, e che non rientrano nelle competenze
del presidente o nelle attribuzioni dei dirigenti.
A questi ultimi, l’art. 107, secondo comma, del t.u. assegna
“tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e
provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione
verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o
dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente”
(secondo comma), nonché (terzo comma) “l’attuazione degli
obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo
adottati” dagli organi di governo.
Ai dirigenti competono tra l’altro (art. 107, secondo comma,
lettera f) “i provvedimenti di autorizzazione, concessione o
analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e
valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di
criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti
generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le
concessioni edilizie”; nonché (lettera h) “le attestazioni,
certificazioni, comunicazioni, diffide, verbali,
autenticazioni, legalizzazioni ed ogni altro atto
costituente manifestazione di giudizio e di conoscenza”.
Se si considera che la valutazione di compatibilità in
questione (a) mira esclusivamente a verificare, attraverso
la mera comparazione del contenuto dei due piani, il
rispetto del PTCP da parte del piano comunale di governo del
territorio, e (b) non implica, come osservato, profili di
discrezionalità, se ne trae che essa non si configura come
atto di indirizzo, ma tende alla mera attuazione degli
obiettivi della pianificazione provinciale, ed è pertanto
riconducibile alle attribuzioni dirigenziali.
Il Comune di
Vertemate con Minoprio ha adottato (delibera consiliare
29.07.2008 n. 27) il piano di governo del territorio (PGT),
e lo ha trasmesso alla Provincia di Como -ex art. 13, comma
5, legge regionale lombarda 11.03.2005 n. 12- per la
valutazione di compatibilità con il piano territoriale di
coordinamento provinciale (PTCP).
Con provvedimento 16.12.2008, assunto dal Dirigente del
Settore pianificazione territoriale, la Provincia di Como ha
attestato la compatibilità del PGT col PTCP a condizione che
venissero recepite determinate prescrizioni e apportate al
PGT le conseguenti modifiche.
Il Comune ha controdedotto alle osservazioni dei privati e
alle valutazioni della Provincia, approvando il PGT con
delibera consiliare 15.01.2009 n. 1.
Per quanto riguarda la valutazione di compatibilità
effettuata dalla Provincia, il Comune ha ritenuto il
provvedimento dirigenziale viziato da “difetto assoluto
di attribuzione”, qualificandolo come tale “inidoneo
a produrre gli effetti della valutazione di compatibilità
del PGT con il PTCP”. Ha peraltro controdedotto, “ad
abundantiam”, con apposito documento, alle valutazioni
della Provincia “anche a sostegno delle scelte
urbanistiche effettuate dal consiglio comunale”.
Nel contempo, peraltro, il Comune ha impugnato il
provvedimento dirigenziale col ricorso n. 460/2009,
deducendo i seguenti motivi:
- incompetenza del dirigente, dovendo il parere di
compatibilità essere reso dal consiglio provinciale; il
provvedimento sarebbe anzi nullo, ex art. 21-septies legge
n. 241/1990, per difetto assoluto di attribuzioni, essendosi
il dirigente arrogato un potere di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo riservato all’organo di governo
dell’ente;
- violazione dell’art. 13 legge regionale n. 12 del 2005,
eccesso di potere per difetto di istruttoria, difetto di
motivazione, contraddittorietà e travisamento dei
presupposti di fatto e di diritto: anziché limitarsi ad
effettuare la valutazione di compatibilità tra PGT e PTCP,
lasciando al Comune il potere di individuare le possibili
soluzioni per ricomporre il contrasto tra i due strumenti
urbanistici, la Provincia avrebbe -con le prescrizioni
dettate alle pagg. 19~22 del provvedimento impugnato-
imposto modificazioni sostanziali al PGT adottato,
individuando le destinazioni funzionali che il Comune
sarebbe tenuto a recepire a pena di inefficacia degli atti
assunti; le singole prescrizioni sarebbero poi illegittime
per i motivi esposti nelle controdeduzioni comunali,
riprodotte in ricorso quale parte integrante e sostanziale.
...
La questione di competenza, sollevata dal Comune con il
primo motivo del ricorso n. 460/2009, è infondata.
L’art. 13 della legge regionale 11.03.2005 n. 12 (legge per
il governo del territorio) disciplina la procedura di
approvazione degli atti costituenti il piano di governo del
territorio.
Il quinto comma [nel testo modificato dall'art. 1, comma 1,
lett. u), della l.r. 14.03.2008, n. 4], stabilisce
testualmente: “5. Il documento di piano, il piano dei
servizi e il piano delle regole, contemporaneamente al
deposito, sono trasmessi alla provincia se dotata di piano
territoriale di coordinamento vigente. La provincia,
garantendo il confronto con il comune interessato, valuta
esclusivamente la compatibilità del documento di piano con
il proprio piano territoriale di coordinamento entro
centoventi giorni dal ricevimento della relativa
documentazione, decorsi inutilmente i quali la valutazione
si intende espressa favorevolmente. Qualora il comune abbia
presentato anche proposta di modifica o integrazione degli
atti di pianificazione provinciale, le determinazioni in
merito sono assunte con deliberazione di giunta provinciale.
In caso di assenso alla modifica, il comune può sospendere
la procedura di approvazione del proprio documento di piano
sino alla definitiva approvazione, nelle forme previste
dalla vigente legislazione e dalla presente legge, della
modifica dell’atto di pianificazione provinciale di cui
trattasi, oppure richiedere la conclusione della fase
valutativa, nel qual caso le parti del documento di piano
connesse alla richiesta modifica della pianificazione
provinciale acquistano efficacia alla definitiva
approvazione della modifica medesima. In ogni caso, detta
proposta comunale si intende respinta qualora la provincia
non si pronunci in merito entro centoventi giorni dalla
trasmissione della proposta stessa”.
Il Comune sostiene che la competenza ad esprimere la
valutazione di compatibilità del PGT con il PTCP spetterebbe
al consiglio provinciale, ai sensi dell’art. 42, secondo
comma, lett. b), del decreto legislativo 18.08.2000 n. 267
(testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti
locali), il quale, nel disciplinare le attribuzioni dei
consigli (comunali e provinciali) stabilisce che “il
consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti
fondamentali: …. b) programmi, relazioni previsionali e
programmatiche, piani finanziari, programmi triennali e
elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci annuali e
pluriennali e relative variazioni, rendiconto, piani
territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali
per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da
rendere per dette materie”.
La valutazione di compatibilità di cui trattasi sarebbe
appunto oggetto di un parere riservato al consiglio
provinciale, cui spetterebbe di valutare la compatibilità
del piano comunale con il proprio piano territoriale di
coordinamento, quale strumento urbanistico sovraordinato e,
per taluni profili, prevalente.
La tesi non può essere, alla stregua della giurisprudenza
più recente, condivisa.
Sia pure in una vicenda in cui era stata contestato, per
incompetenza, un provvedimento emesso in materia non da un
dirigente, ma dalla giunta provinciale, il Consiglio di
Stato ha statuito (sentenza 28.05.2009 n. 3333, Sez. IV) che
la lettera b) dell’art. 42, secondo comma, del t.u.e.l. si
riferisce “non a qualsiasi parere espresso dall’Ente che
comunque coinvolga i piani o programmi dallo stesso
approvati, ma soltanto ai pareri espressi nell’ambito del
procedimento di formazione di quei piani e programmi (o
delle relative varianti e deroghe)”, sicché “restano
fuori dalla previsione, ad esempio, i pareri che l’Ente è
chiamato a rendere circa la compatibilità con il proprio
piano o programma di attività poste in essere da altri
soggetti (è il caso del parere di conformità al P.R.G. di un
intervento edilizio, che non si dubita non appartenga alla
competenza consiliare)”.
Nel caso in esame, la Provincia è chiamata appunto ad una “valutazione
di compatibilità” tra due strumenti urbanistici di
diverso livello, al fine di verificare, dal riscontro tra le
previsioni dell’uno e dell’altro, se quello sottordinato (PGT)
rispetti le previsioni del piano sovraordinato (PTCP).
Si tratta di un riscontro al quale sono estranee valutazioni
di merito; a maggior ragione esso non implica alcuna di
quelle scelte di indirizzo che radicano la competenza del
consiglio provinciale ex art. 42, primo comma t.u.e.l., che
definisce il consiglio come “organo di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo”.
Tanto basta a disattendere la tesi secondo cui la
valutazione di compatibilità in questione sarebbe riservata
al consiglio provinciale.
---------------
Sempre a sostegno
della censura di incompetenza, il Comune denuncia la
violazione dell’art. 107 del t.u.e.l., per avere il
dirigente provinciale “invaso le attribuzioni riservate
agli organi di governo dell’Ente”: il che comporterebbe
-secondo l’assunto comunale- nullità dell’atto (ex art.
21-septies legge n. 241/1990) per difetto assoluto di
attribuzioni, o quanto meno annullabilità dello stesso per
violazione dell’ordine delle competenze.
Ora, una volta esclusa -per le ragioni esposte al punto che
precede- una riserva di competenza al consiglio provinciale,
si deve esaminare se la censura del Comune possa avere
fondamento sotto un diverso profilo, nel senso cioè che la
competenza in materia appartenga alla giunta provinciale,
anch’essa “organo di governo dell’ente” (art. 36
t.u.e.l.): tesi sulla quale punta la difesa comunale, dopo
avere preso atto -nella memoria depositata il 19.06.2009-
della recente statuizione del giudice di appello.
Al riguardo va osservato che la menzionata sentenza n.
3333/2009 del Consiglio di Stato non ha affermato
(positivamente e definitivamente) la competenza della giunta
provinciale, ma si è limitata ad escludere la riserva di
competenza al consiglio in una fattispecie in cui la
valutazione di compatibilità -rispetto al sopraordinato PTCP-
di un P.I.I. (programma integrato di intervento), adottato
da altro comune in variante al PRG, era stata effettuata
dalla giunta provinciale con provvedimento impugnato per
incompetenza.
Non si può trarre dunque argomento, sic et simpliciter,
dalla sentenza citata per desumerne tout court la
competenza della giunta e l’incompetenza del dirigente.
Ciò premesso, ritiene il Collegio che al quesito di cui
sopra (se cioè nella vicenda in esame sia stato invaso un
ambito di attribuzioni riservato alla giunta provinciale)
debba darsi risposta negativa, alla luce sia della normativa
regionale di settore, sia della disciplina generale delle
attribuzioni dirigenziali.
L’art. 13, quinto comma, della legge regionale n. 12/2005
(di cui si è riportato il testo al precedente punto 5.)
dispone che “qualora il comune abbia presentato anche
proposta di modifica o integrazione degli atti di
pianificazione provinciale, le determinazioni in merito sono
assunte con deliberazione di giunta provinciale”: il che
lascia arguire che la competenza della giunta provinciale
insorga nel solo caso in cui occorra delibare se la proposta
di modifica sia o meno assentibile ai fini della sospensione
ovvero del proseguimento della procedura di approvazione del
PGT, secondo una delle opzioni previste dallo stesso comma,
ferma restando comunque la competenza del consiglio
provinciale per la “definitiva approvazione…. della
modifica dell’atto di pianificazione provinciale”.
Dall’art. 48 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (t.u.e.l.),
si desume, d’altro canto, che la giunta compie gli atti che
non sono riservati al consiglio, e che non rientrano nelle
competenze del presidente o nelle attribuzioni dei
dirigenti.
A questi ultimi, l’art. 107, secondo comma, del t.u. assegna
“tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e
provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione
verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o
dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente”
(secondo comma), nonché (terzo comma) “l’attuazione degli
obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo
adottati” dagli organi di governo.
Ai dirigenti competono tra l’altro (art. 107, secondo comma,
lettera f) “i provvedimenti di autorizzazione,
concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga
accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale,
nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai
regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le
autorizzazioni e le concessioni edilizie”; nonché (lettera
h) “le attestazioni, certificazioni, comunicazioni, diffide,
verbali, autenticazioni, legalizzazioni ed ogni altro atto
costituente manifestazione di giudizio e di conoscenza”.
Se si considera che la valutazione di compatibilità in
questione (a) mira esclusivamente a verificare, attraverso
la mera comparazione del contenuto dei due piani, il
rispetto del PTCP da parte del piano comunale di governo del
territorio, e (b) non implica, come osservato, profili di
discrezionalità, se ne trae che essa non si configura come
atto di indirizzo, ma tende alla mera attuazione degli
obiettivi della pianificazione provinciale, ed è pertanto
riconducibile alle attribuzioni dirigenziali.
In conclusione, le censure del Comune in punto di competenza
sono prive di fondamento; mentre appaiono fondate le
(speculari) censure della Provincia circa l’erroneità del
presupposto (incompetenza del dirigente) sulla cui base il
Comune ha ritenuto di disattendere la valutazione di
compatibilità del PGT
(TAR Lombardia-Milano, Sezione II,
sentenza 28.07.2009 n. 4468 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
Per mera curiosità, abbiamo operato un'indagine on-line
dalla quale risulta
che le n. 12 province lombarde si sono organizzate,
circa il modus operandi della verifica in
questione,
come di seguito indicato:
1- provincia di Bergamo:
deliberazione di Giunta;
2- provincia di Brescia: determinazione
dirigenziale (siccome risposto telefonicamente)
3- provincia di Como: determinazione dirigenziale
(siccome desumibile dalle sopra citate sentenze)
4- provincia di Cremona:
deliberazione di
Giunta
5- provincia di Lecco:
deliberazione di
Giunta
6- provincia di Lodi: deliberazione di Giunta
(siccome desumibile da atto pubblicato all'albo
pretorio)
7- provincia di Mantova: determinazione
dirigenziale (siccome risposto telefonicamente
da un comune)
8- provincia di Milano:
deliberazione di
Giunta
9- provincia di Monza e della Brianza: determinazione
dirigenziale (sic!!) previa deliberazione della
Giunta (siccome risposto telefonicamente)
10- provincia di Pavia:
deliberazione di
Giunta
11- provincia di Sondrio:
deliberazione di Giunta;
12- provincia di Varese:
deliberazione di Giunta.
Beh, non c'è che dire: "Il mondo è bello perché è
vario!!" ... o perché è avariato?? Checché se ne
dica, la 1^ Repubblica (1948/marzo 1994) non è mica
morta: si è reincarnata nella 2^ (nata con le
elezioni politiche del marzo 1994) e presto rivivrà
nella 3^ (che già si intravede all'orizzonte ...). E
tutto ciò alla faccia della tanto sbandierata
semplificazione procedimentale e, soprattutto, della
separazione delle competenze politiche da quelle
gestionali!!
Per non
pensare, poi, al fatto che in Giunta partecipa pure
il Segretario, il quale "deve" -ai sensi
dell’art. 97 d.Lgs. n. 267/2000- esercitare compiti
di “assistenza giuridico-amministrativa” ed
"è tenuto" a segnalare l'eventuale
illegittimità di un atto che si va a deliberare,
nonostante l'esplicita abrogazione del "parere di
legittimità" avvenuta anni or sono: e ciò non lo
diciamo noi ma, insistentemente e da parecchi mesi a
questa parte, la Corte dei Conti con le sue
articolazioni giurisdizionali (e non solo) ...
eppure, si delibera ugualmente!!
Per completezza di esposizione, dobbiamo anche dire che
il TAR è intervenuto nel confermare la competenza
della Giunta, e non del Consiglio siccome invocato
dal ricorrente, semplicemente perché la valutazione
di compatibilità è stata resa, appunto, dalla Giunta
la quale -dovendo il Giudice scegliere fra i due
organini politici- ha qualche chance che
l'altro non ha. Certamente, se anche in questi tre
ricorsi di seguito riproposti l'Amministrazione
provinciale si fosse pronunciata con determinazione
dirigenziale l'epilogo sarebbe stato come quelli
rappresentati in premessa. Quindi, non fanno testo e
giusto solo per averne notizia ...
|
COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA: Il
parere di compatibilità di cui all’art. 13 della legge
regionale n. 12/2005 non costituisce un atto di
pianificazione generale, riservato alla competenza
dell’organo consiliare ai sensi del citato D.Lgs. 267/2000,
ma una mera valutazione sul rapporto fra gli atti di
pianificazione comunale (PGT) e provinciale (PTCP), di
natura essenzialmente tecnica e non certo espressione della
generale potestà di pianificazione territoriale,
riconosciuta dalla legge soltanto al Consiglio.
In ordine al ricorso 2887/2007, occorre dapprima esaminare
lo specifico motivo (vale a dire il n. 7, vedesi pag. 19
dell’atto introduttivo), rivolto contro il provvedimento
provinciale di compatibilità della pianificazione comunale
con il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP).
Secondo l’esponente, la delibera di Giunta sarebbe viziata
da incompetenza, in quanto il parere di compatibilità con il
PTCP del piano comunale sarebbe riservato al Consiglio
Provinciale, quale organo competente ai sensi dell’art. 42,
comma 2, lett. b), del D.Lgs. 267/2000 (Testo Unico degli
enti locali).
La censura è infondata, visto che il parere di compatibilità
di cui all’art. 13 della legge regionale n. 12/2005 non
costituisce un atto di pianificazione generale, riservato
alla competenza dell’organo consiliare ai sensi del citato
D.Lgs. 267/2000, ma una mera valutazione sul rapporto fra
gli atti di pianificazione comunale (PGT) e provinciale (PTCP),
di natura essenzialmente tecnica e non certo espressione
della generale potestà di pianificazione territoriale,
riconosciuta dalla legge soltanto al Consiglio.
Alla conclusione sopra indicata, è ormai giunta la
giurisprudenza amministrativa ed in tale senso è orientata
anche la scrivente Sezione (si vedano le sentenze del TAR
Lombardia, sez. II, n. 4303/2009 e n. 1221/2010, costituenti
precedenti specifici ai quali si rinvia).
In conclusione, lo specifico mezzo di gravame rivolto contro
la deliberazione provinciale deve essere respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.12.2010 n. 7512 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA:
E' di competenza della giunta provinciale
emettere pareri di compatibilità di uno strumento
urbanistico comunale, tenuto conto che l'art.
42 T.U. 267/2000 si riferisce solo ai
pareri espressi (dal Consiglio) nell’ambito del procedimento
di formazione dei suoi piani e dei suoi programmi, mentre
esulano dalla previsione i pareri che l’Ente è chiamato a
rendere circa la compatibilità con il proprio piano o
programma di attività poste in essere da altri soggetti.
L’ultimo motivo, in cui si rileva l’incompetenza della
Giunta a rilasciare il parere di compatibilità con il PTCP
ai sensi dell’art. 42 T.U. 267/2000, è infondato, alla luce
della decisione del 28.05.2009 n. 3333 con cui il Consiglio
di Stato (Sez. VI) ha ritenuto di competenza della giunta
provinciale emettere pareri di compatibilità di uno
strumento urbanistico comunale, sull’assunto che la suddetta
norma si riferisca solo ai pareri espressi nell’ambito del
procedimento di formazione dei suoi piani e dei suoi
programmi, mentre esulano dalla previsione i pareri che
l’Ente è chiamato a rendere circa la compatibilità con il
proprio piano o programma di attività poste in essere da
altri soggetti (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.05.2010 n. 1221 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA:
Rientra nella competenza
della giunta provinciale emettere pareri di compatibilità di
uno strumento urbanistico comunale con il P.T.C.P.
Non può, al riguardo, invocarsi l’art. 42, c. 2, lett. b),
d.lgs. n. 267/2000: tale norma -che attribuisce alla
competenza consiliare i “programmi, relazioni previsionali e
programmatiche, piani finanziari, programmi triennali e
elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci annuali e
pluriennali e relative variazioni, rendiconto, piani
territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali
per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da
rendere per dette materie”- si riferisce, difatti, “non a
qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque coinvolga i
piani o programmi dallo stesso approvati, ma soltanto ai
pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione
di quei piani e programmi (o delle relative varianti e
deroghe)”.
Come ha di recente affermato il Consiglio di Stato con la
sentenza 28.05.2009 n. 3333, rientra nella competenza della
giunta provinciale emettere pareri di compatibilità di uno
strumento urbanistico comunale (si trattava, nel caso
esaminato, di un programma integrato di intervento) con il
P.T.C.P.
Non può, al riguardo, invocarsi l’art. 42, c. 2, lett. b),
d.lgs. n. 267/2000: tale norma -che attribuisce alla
competenza consiliare i “programmi, relazioni
previsionali e programmatiche, piani finanziari, programmi
triennali e elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci
annuali e pluriennali e relative variazioni, rendiconto,
piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e
pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad
essi, pareri da rendere per dette materie”- si
riferisce, difatti, “non a qualsiasi parere espresso
dall’Ente che comunque coinvolga i piani o programmi dallo
stesso approvati, ma soltanto ai pareri espressi nell’ambito
del procedimento di formazione di quei piani e programmi (o
delle relative varianti e deroghe)”. (Cons. Stato, sez.
IV, 28.05.2009, n. 3333) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.07.2009 n. 4303 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
In conclusione, non ci resta che confidare nel "ravvedimento"
operativo di quelle Amministrazioni provinciali che,
magari, non conoscevano i suddetti pronunciamenti
giurisprudenziali e ciò al fine di evitare il
contenzioso giurisdizionale e, perché no, anche
l'eventuale e non remoto risarcimento del danno ... poiché,
adesso, non possono nascondersi dietro la foglia di
fico e dire: "Sorry, ma io non
lo sapevo!!".
01.07.2013 - LA SEGRETERIA PTPL
|
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI:
Trasmissione obbligatoria di dati e informazioni.
Firmato oggi dal presidente dell’Avcp Sergio Santoro e dal
presidente della CIVIT Romilda Rizzo un comunicato per
chiarire che la trasmissione alla CIVIT, ai sensi dell'art.
1, c. 27, dei dati sui contratti pubblici di cui all'art. 1,
c. 16, lett. b), come specificati dall'art. 1, c. 32, della
legge n. 19 del 2012 si intende assolta con la trasmissione
di detti dati all'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture secondo quanto
previsto dalla Delibera dell’Avcp n. 26 del 2013 (comunicato
congiunto 25.06.2013 del Presidente della CIVIT
(Autorità nazionale Anticorruzione) e del Presidente
dell'Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture -
link a www.avcp.it). |
SINDACATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: EE.LL.:
la disciplina dell'indennità di turno
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 27.06.2013). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: ALBO GESTORI AMBIENTALI: trasporto di rifiuti
ingombranti prodotti dalle imprese edili (ANCE Bergamo,
circolare 28.06.2013 n. 157). |
APPALTI:
Oggetto: Eliminazione dell’IVA dalla responsabilità
solidale (ANCE Bergamo,
circolare
28.06.2013 n. 154). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Importanti novità nella gestione delle terre e
rocce da scavo (ANCE Bergamo,
circolare 27.06.2013 n. 147). |
ENTI LOCALI:
Sui limiti temporali alla nomina o alla conferma in
incarichi amministrativi di vertice e di amministratori di
enti pubblici o di enti di diritto privato in controllo
pubblico, ai sensi dell’art. 7, d. lgs. n. 39/2013 (CIVIT,
delibera 27.06.2013 n. 48). |
ENTI LOCALI:
Sul rapporto tra le previsioni dell’art. 4 del d. l. n.
95/2012, convertito, con modificazioni, in l. n. 135/2012, e
gli artt. 9 e 12 del d. lgs. n. 39/2013 (CIVIT,
delibera 27.06.2013 n. 47). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
In tema di efficacia nel tempo delle norme su
inconferibilità e incompatibilità degli incarichi nelle
pubbliche amministrazioni e negli enti privati in controllo
pubblico di cui al d.lgs. n. 39/2013 (CIVIT,
delibera 27.06.2013 n. 46). |
EDILIZIA PRIVATA:
Decreto Legge del 21.06.2013 n. 69
(c.d. “Decreto Del Fare”) - Commento alle norme di interesse
per il settore privato (ANCE, 27.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Chiarimenti in merito all’applicazione delle
disposizioni di cui al decreto legge 04.06.2013, n. 63 in
materia di attestazione della prestazione energetica degli
edifici (Ministero dello Sviluppo Economico,
circolare 25.06.2013 n. 12976 di prot.).
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Dal Ministero i chiarimenti su Attestato
di Prestazione Energetica (APE), ACE e modalità di calcolo.
Con l'entrata in vigore del Decreto Legge 63/2013 viene
soppresso l’Attestato di Certificazione Energetica (ACE) e
introdotto, in suo luogo, l’Attestato di Prestazione
Energetica (APE), rispondente ai criteri indicati dalla
direttiva 2010/31/UE.
Poiché sono stati sollevati da più parti dubbi sulla
normativa tecnica da applicare per la redazione
dell’Attestato, Il Ministero dello Sviluppo Economico ha
ritenuto opportuno fornire qualche chiarimento.
In particolare, l’articolo 4, comma 1, del D.L. 63/2013
dispone che la metodologia di calcolo della prestazione
energetica sarà definita con uno o più decreti del Ministro
dello Sviluppo Economico.
Nelle more dell’aggiornamento tecnico, le norme transitorie
contenute all’articolo 9 del D.L. 63/2013 per il calcolo
delle prestazioni energetiche degli edifici fanno
riferimento al D.P.R. 59/2009 e a specifiche norme tecniche
(UNI e CTI) già note.
Conseguentemente, il D.L. 63/2013 (art.13) prevede che, solo
dall’entrata in vigore dei decreti di aggiornamento della
metodologia di cui all’articolo 4, sia abrogato il D.P.R.
59/2009.
Pertanto, fino all’emanazione dei “famosi” decreti, si
adempie alle prescrizioni del D.L. 63/2013 redigendo l’APE
secondo le modalità di calcolo previste dal D.P.R. 59/2009,
fatto salvo nelle Regioni che hanno provveduto ad emanare
proprie disposizioni normative in attuazione della direttiva
2002/91/CE.
Quindi APE con le modalità dell’ACE (27.06.2013 -
commento tratto da www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Oggetto: Sanzioni per ritardata presentazione degli
accatastamenti fabbricati rurali (Consiglio Nazionale
Geometri e Geometri Laureati,
nota 18.06.2013 n. 7092 di prot.). |
ENTI LOCALI:
Oggetto: D.M. 13.12.2012. Modifiche e integrazioni al
D.M. 18.05.2007 recante norme di sicurezza per le attività
di spettacolo viaggiante. Chiarimenti e indirizzi
applicativi (Ministero dell'Interno,
nota 11.06.2013 n. 17082 di prot.) |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
D.L. 21.06.2013, n. 69 “decreto del fare”: novità
per l’edilizia e raffronto con la normativa regionale della
Lombardia.
Tabella raffronto del T.U. dell'Edilizia e della L.R.
12/2005 alla luce delle modifiche operate con il d.l.
21.06.2013 n. 69 (26.06.2013 - link a
www.studiospallino.it). |
APPALTI:
Contratti pubblici: un "vademecum" per le
amministrazioni.
La Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha
approvato, nel corso dell’ultima riunione, le
linee guida in materia di trasparenza
e pubblicità degli appalti pubblici (13.06.2013). Una
sorta di vademecum -predisposto da Itaca (Istituto per
l’innovazione e trasparenza degli appalti e la compatibilità
ambientale) ed elaborato da uno specifico gruppo di lavoro
interregionale coordinato dalla Regione Friuli-Venezia
Giulia– che fornisce una ricognizione puntuale delle norme
vigenti in materia di pubblicità e di trasparenza sui
contratti pubblici, anche alla luce della produzione
normativa intervenuta di recente.
La normativa sulla trasparenza, pubblicità e monitoraggio
delle fasi degli appalti comporta adempimenti che ogni
stazione appaltante è chiamata quotidianamente a svolgere e
presuppone l’esistenza di strutture capaci di reggere
l’impatto delle costanti innovazioni normative e
tecnologiche. La complessità e la frammentarietà degli
argomenti è però tale da rendere spesso particolarmente
difficoltoso l’operato del singolo funzionario.
Proprio per far fronte alle difficoltà operative delle
amministrazioni aggiudicatrici è stata predisposta questa
guida operativa che costituisce un utile strumento di lavoro
per coloro che a vario titolo seguono la disciplina degli
appalti (13.06.2013 - tratto da www.regioni.it).
---------------
INTRODUZIONE - Il presente documento si propone lo scopo di
effettuare –in considerazione della cospicua produzione
normativa recentemente emersa– una ricognizione delle norme
vigenti in materia di pubblicità e di trasparenza, con
particolare riferimento all’ambito dei contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture, nonché di fornire (anche
attraverso l’elaborazione di alcuni schemi sintetici e
sinottici) uno strumento operativo che possa essere utile
alle stazioni appaltanti tenute ad applicare il D.Lgs.
12.04.2006, n. 163, recante il “Codice dei contratti
pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE”
(testo normativo che d’ora in poi verrà indicato, per
brevità, anche semplicemente come Codice).
Più in particolare, alla luce dell’ampia produzione
normativa sul tema della trasparenza amministrativa –e
considerato il possibile “disorientamento” che tale
recente normazione può comportare sulle stazioni appaltanti
soggette all’adempimento dei nuovi obblighi– appare
importante chiarire in quale modo le nuove norme vadano ad
impattare (spesso sovrapponendosi ed aggiungendosi) rispetto
agli obblighi di pubblicità già vigenti in materia di
affidamento dei contratti pubblici d’appalto.
In via più generale, si può notare come la pubblicità e la
trasparenza dell’attività amministrativa siano due principi
distinti, benché indissolubilmente legati tra loro anche
negli appalti: a riprova di ciò, si noti come già l’art. 2,
comma 1 del Codice dispone espressamente che: “L'affidamento
e l'esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e
forniture, ai sensi del presente codice, deve garantire la
qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei
principi di … trasparenza … nonché quello di pubblicità con
le modalità indicate nel presente codice”.
Oltre a ciò, l’art. 11 del D.Lgs. 27.10.2009, n. 150 nonché,
più di recente, l’art. 1, comma 15, della Legge 06.11.2012,
n. 190, (c.d. legge anticorruzione) hanno definito la
trasparenza dell’attività amministrativa come livello
essenziale delle prestazioni concernenti i diritti sociali e
civili ai sensi dell’art. 117, comma 2, lettera m), della
Costituzione, facendola così assurgere a vero e proprio
valore di rango costituzionale.
Da ultimo, l’articolo 1, comma 1, del D.lgs. 14.03.2013, n.
33, (Amministrazione trasparente) stabilisce che la
trasparenza deve essere intesa come “accessibilità totale
delle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività
delle pubbliche amministrazioni, alla scopo di favorire
forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”.
In tale contesto, appare utile procedere ad una ricognizione
degli obblighi attualmente vigenti in materia di trasparenza
e di pubblicità, con particolare riferimento ai procedimenti
di scelta del contraente per l’affidamento di lavori,
forniture e servizi (che costituiscono diretta attuazione
dei principi di legalità, buon andamento e imparzialità), al
fine di distinguere gli adempimenti che attengono alla sfera
della trasparenza da quelli che concernono l’ambito della
pubblicità, con conseguente evidenziazione delle specifiche
applicative.
Mentre, infatti, la trasparenza –in conformità a quanto
disposto all’art. 1, comma 15, della citata L. n. 190/2012–
deve essere assicurata mediante la pubblicazione di una
serie di dati all’interno dei siti internet istituzionali
delle pubbliche amministrazioni, in formato aperto e
facilmente Linee guida ITACA – Trasparenza e pubblicità:
analisi dei nuovi obblighi e del loro impatto
sull’affidamento dei contratti pubblici d’appalto
elaborabile da chiunque vi abbia interesse, gli adempimenti
in materia di pubblicità nell’ambito delle procedure ad
evidenza pubblica vanno assolti attraverso la pubblicazione
di documenti, redatti in formato chiuso, sul profilo di
committente della stazione appaltante, ovvero secondo le
specifiche modalità di volta in volta individuate dalla
norma richiamata (cfr. Gazzetta ufficiale…).
Ed è proprio tale analisi che ITACA si è impegnata ad
effettuare attraverso la costituzione di un Gruppo di lavoro
a ciò dedicato “Trasparenza e pubblicità nei contratti
pubblici” del quale fanno parte:
- step 1. Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia: dott.ssa
Cristiana Bobbio, dott.ssa Diana Luddi, dott.ssa Gabriella
Pasquale (Coordinatrice);
- step 2. Regione Emilia-Romagna: ing. Massimo Cataldi (NQ);
- step 3. Regione Toscana: dott.ssa Ivana Malvaso, dott.
Andrea Bertocchini, dr.ssa Michela Megli;
- step 4. Regione Umbria: avv. Ilenia Filippetti, dott.
Guido Maraspin;
- step 5. Regione Veneto: dott.ssa Maria Grazia Bortolin. |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Il
Decreto del Fare è già in vigore! Lo Speciale di BibLus-net
con tutte le novità per il settore edile, per il Codice
Appalti e non solo.
È in vigore dal 22.06.2013 il Decreto Legge 21.06.2013, n.
69, il cosiddetto “Decreto del Fare”, pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale n. 144 del 21.06.2013, Suppl.
Ordinario n. 50.
Composto da 86 articoli e un allegato, il provvedimento
contiene misure per:
●
il sostegno alle imprese
●
il potenziamento dell'agenda digitale italiana
●
il rilancio delle infrastrutture
●
la semplificazione amministrativa e fiscale
Tante le novità introdotte nel settore dell’edilizia, con
ritocchi sostanziali anche al Testo Unico per l’Edilizia
(D.P.R. 388/2001), che riguardano
►
SCIA e Comunicazione di Inizio Lavori: prevista la
possibilità di delegare allo Sportello Unico l’incombenza di
acquisire, anche prima della SCIA, i pareri e i nulla osta
necessari.
►
Termine Lavori: il decreto allunga di due anni i termini di
inizio e ultimazione dei lavori utilizzati con Permesso di
Costruire, DIA o SCIA alla data di entrata in vigore della
norma.
►
Ricostruzione e Ristrutturazione edilizia: gli interventi di
demolizione e ricostruzione non dovranno più rispettare il
vincolo della sagoma, ma solo quello della volumetria.
►
Certificato di agibilità: potrà essere richiesto anche per
singoli edifici, singole porzioni della costruzione o
singole unità immobiliari purché funzionalmente autonomi.
►
DURC: per i contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture il Documento Unico di Regolarità Contributiva
potrà essere acquisito in via informatica e avrà validità di
180 giorni.
Previste significative semplificazioni anche per i vincoli
ambientali, terre e rocce da scavo (D.M. 161/2012) e la
gestione delle acque sotterranee.
Un capitolo a parte meritano le modifiche apportate al Testo
Unico della Sicurezza che semplificano sensibilmente gli
adempimenti e gli obblighi a carico delle imprese (V. art.
“Decreto del Fare, semplificazioni su DUVRI e DVR per le
attività a basso rischio. La tavola sinottica del modifiche
al TUS”).
Alcune modifiche vengono apportate anche al Codice degli
Appalti.
Per i lettori di BibLus-net uno speciale dedicato al Decreto
del Fare pubblicato in Gazzetta, una Tavola sinottica con le
modifiche apportate al Codice degli Appalti e il Testo del
Decreto Legge
(27.06.2013 - link a www.acca.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA CANTIERI:
Decreto del Fare, semplificazioni su DUVRI e DVR per le
attività a basso rischio. La tavola sinottica delle
modifiche al TUS.
Con la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del Decreto
Legge 21.06.2013, n. 69, dal 23.06.2013, vengono introdotte
una serie di semplificazioni in materia di sicurezza sul
lavoro.
Il provvedimento apporta, infatti, significative modifiche
al Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro (D.Lgs. 09.04.
2008, n. 81).
Rimandando per tutti gli approfondimenti allo speciale di
BibLus-net dedicato al “Decreto del Fare” (V. art. “Il
Decreto del Fare è già in vigore! Lo Speciale di BibLus-net
con tutte le novità per il settore edile, per il Codice
Appalti e non solo…”), segnaliamo di seguito le novità
più importanti in tema di sicurezza sul lavoro.
►
DUVRI
Nelle attività a basso rischio infortunistico, stabiliti da
un Decreto del Ministro del Lavoro da emanarsi, non sarà più
necessario il DUVRI ma sarà invece sufficiente
l’individuazione di un incaricato, in possesso di
formazione, esperienza e competenza professionali, che
sovrintenda alla cooperazione e al coordinamento.
E’ prevista, inoltre, l’esenzione del DUVRI per i servizi di
natura intellettuale, le mere forniture di materiali o
attrezzature, i lavori o i servizi la cui durata non è
superiore ai 10 uomini-giorno.
►
Attestazione Valutazione dei Rischi
Il Decreto del Ministro del Lavoro da emanarsi dovrà
definire, oltre all’elenco di attività a basso rischio,
anche un modello con cui i datori di lavoro che operano in
tali attività potranno attestare di aver effettuato la
valutazione dei rischi. Resta ferma la possibilità di
utilizzare le Procedure Standardizzate.
►
POS, PSC e Fascicolo dell'Opera semplificati per i
cantieri temporanei e mobili
Per i cantieri temporanei o mobili, il Ministero del Lavoro
individuerà, entro 60 giorni dall’entrata in vigore del
Decreto, modelli semplificati per la redazione del Piano
Operativo di Sicurezza, Piano di Sicurezza e Coordinamento e
Fascicolo dell’Opera.
►
Semplificazione delle notifiche agli organi di
vigilanza
Previste semplificazioni per le notifiche agli organi di
vigilanza, come ad esempio la comunicazione telematica.
►
Nuova tempistica per le verifiche periodiche delle
attrezzature
Sarà ridotto da 60 a 45 giorni il termine entro il quale
l’INAIL è tenuta ad effettuare la prima verifica. INAlL, ASL
o ARPA devono comunicare entro 15 giorni dalla richiesta l’
eventuale impossibilità di effettuare la verifica.
►
Semplificazioni in materia di formazione
Saranno adottate misure per evitare la duplicazione delle
attività formative rivolte a Responsabili, Addetti al
servizio di protezione, Dirigenti, Preposti, Lavoratori e
Rappresentanti.
►
Semplificazione della denuncia degli infortuni sul
lavoro da parte del datore di lavoro
È abrogato l’obbligo per il datore di lavoro di comunicare
entro 2 giorni all’autorità locale di pubblica sicurezza
ogni infortunio sul lavoro che abbia per conseguenza la
morte o l’inabilità al lavoro per più di tre giorni.
Le autorità di pubblica sicurezza, le aziende sanitarie
locali, etc. acquisiranno direttamente dall’INAIL, mediante
accesso telematico, i dati relativi alle denunce di
infortuni sul lavoro mortali e di quelli con prognosi
superiore a trenta giorni.
►
Ampliamento delle attività a cui non si applicano le
misure per la salute e sicurezza nei cantieri temporanei o
mobili
Nei cantieri temporanei e mobili i piccoli lavori la cui
durata presunta non è superiore ai 10 uomini-giorno
finalizzati alla realizzazione o manutenzione delle
infrastrutture per servizi non si applicheranno più le
disposizioni del TUSL.
Si precisa che l’operatività delle nuove norme su DVR, DUVRI
e cantieri temporanei e mobili sono legate all’emanazione di
appositi Decreti del Ministero del Lavoro che dovranno
individuare le tipologie di attività a basso rischio e i
modelli semplificati da adottare.
Insieme allo speciale dedicato al “Decreto del Fare”,
mettiamo a disposizione dei lettori la tavola sinottica con
le modifiche del Decreto Legge 69/2013 al Testo Unico della
Sicurezza
(27.06.2013 - link a www.acca.it). |
SICUREZZA LAVORO: Cosa
accade se il coordinatore per la sicurezza non è riuscito ad
effettuare il corso di aggiornamento entro il 15.05.2013?
Il D.Lgs. 81/2008 prescrive, per coloro che si sono
abilitati a svolgere incarichi di coordinatore per la
sicurezza a norma della Legge 494/1996, un aggiornamento
obbligatorio di 40 ore entro 5 anni dall’entrata in vigore
del Decreto stesso, ossia entro il 15.05.2013.
Cosa accade se il coordinatore per la sicurezza non è
riuscito ad effettuare il corso di aggiornamento entro la
data del 15.05.2013?
Il quesito, presentato dal CNA (Confederazione Nazionale
dell'Artigianato e della Piccola e Media Impresa) in un
interpello al Ministero del Lavoro, finora non ha avuto
risposta.
Non è dato sapere, quindi, in via ufficiale se
l'abilitazione viene resa inefficace e risulta necessario
rifrequentare il corso abilitante di 120 ore o se si è
semplicemente sospesi finché non ci si aggiorna.
Secondo l'interpretazione del Consiglio nazionale degli
ingegneri (CNI), espressa con la
circolare 03.05.2013 n. 210, se il professionista non è
riuscito ad effettuare il corso di aggiornamento entro la
data del 15.05.2013, non è più abilitato a ricoprire il
ruolo di Coordinatore per la sicurezza fino a quando non
avrà espletato gli aggiornamenti previsti.
Non potrà, quindi, esercitare le proprie funzioni, che
saranno “sospese” fino a quando egli non completerà
l'aggiornamento per il monte ore mancante.
Ancora più cauto l’orientamento
26.06.2013 dell’Ordine degli Architetti di Roma (in
ordine alla
risposta 09.04.2013 n.
32/0008112/MA006.A001 di prot.
della Direzione Generale divisione III del Ministero del
lavoro e delle Politiche Sociali prot. 32/0008112/MA006.A001
a due quesiti posti dall’Ordine degli ingegneri di Bologna,
la quale, pur non avendo valenza di risposta ad interpello,
offre un’autorevole chiave interpretativa) che consiglia di
attendere i chiarimenti del Ministero e di non frequentare,
per il momento, corsi di aggiornamento della cui efficacia
non si hanno certezze
(27.06.2013 - link a www.acca.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. Martelli,
Ambiente: entra in vigore la nuova Autorizzazione “unica” (Aua).
Più ombre che luci (14.06.2013 - link a
www.filodiritto.com). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
F. V. Rinaldi, La legge “anticorruzione” e la riforma dei
reati contro la Pubblica Amministrazione - Legge 06.11.2012
n. 190:
►
Parte II +
Parte I (30.05.2013
- link a www.filodiritto.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
A. Scarcella,
Dalla UE prospettive di eliminazione totale dell’amianto
(Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 5/2013 - tratto da
www.ispoa.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA- ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 27 dell'01.07.2013, "Disposizioni
in materia di programmazione commerciale. Modifica al titolo
II, capo I, della legge regionale 02.02.2010, n. 6 (Testo
unico delle leggi regionali in materia di commercio e fiere)"
(L.R.
27.06.2013 n. 4). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 27.06.2013, "Adozione
dello schema di fideiussione bancaria o assicurativa a
carico dei soggetti autorizzati alla realizzazione ed
all’esercizio di un impianto di produzione di energia da
fonti rinnovabili, ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. 387/2003
e s.m.i. come garanzia della dismissione degli stessi"
(decreto D.S. 24.06.2013 n. 5448). |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 27.06.2013 n. 149 "Regolamento recante disciplina
dei criteri di accreditamento per assicurare la
qualificazione e l’indipendenza degli esperti e degli
organismi a cui affidare la certificazione energetica degli
edifici, a norma dell’articolo 4, comma 1, lettera c), del
decreto legislativo 19.08.2005, n. 192"
(D.P.R.
16.04.2013 n. 75). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
27.06.2013 n. 149
"Regolamento recante definizione dei criteri generali in
materia di esercizio, conduzione, controllo, manutenzione e
ispezione degli impianti termici per la climatizzazione
invernale ed estiva degli edifici e per la preparazione
dell’acqua calda per usi igienici sanitari, a norma
dell’articolo 4, comma 1, lettere a) e c) , del decreto
legislativo 19.08.2005, n. 192"
(D.P.R.
16.04.2013 n. 74).
---------------
Si legga una prima disamina del decreto:
Nuove regole per l’esercizio, la conduzione, il controllo, e
la manutenzione degli impianti termici (28.06.2013
- link a www.ance.it). |
ENTI LOCALI - VARI: G.U.
27.06.2013 n. 149 "Definizione delle modalità di
rafforzamento del sistema dei controlli dell’ISEE" (Ministero
del Lavoro e delle Politiche Sociali,
decreto 08.03.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 25.06.2013 n. 147 "Testo del decreto-legge
26.04.2013, n. 43, coordinato con la legge di conversione
24.06.2013, n. 71, recante: «Disposizioni urgenti per il
rilancio dell’area industriale di Piombino, di contrasto ad
emergenze ambientali, in favore delle zone terremotate del
maggio 2012 e per accelerare la ricostruzione in Abruzzo e
la realizzazione degli interventi per Expo 2015.
Trasferimento di funzioni in materia di turismo e
disposizioni sulla composizione del CIPE»".
---------------
Si evidenziano i seguenti articoli di interesse:
Art. 5-ter - Acquisizione di lavori,
servizi e forniture dei comuni con popolazione non superiore
a 5.000 abitanti
1. Il termine di cui
all’articolo 23, comma 5, del decreto-legge 06.12.2011, n.
201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011,
n. 214, già prorogato ai sensi dell’articolo 29, comma
11-ter, del decreto-legge 29.12.2011, n. 216, convertito,
con modificazioni, dalla legge 24.02.2012, n. 14, è
ulteriormente differito al 31.12.2013. Sono fatti salvi i
bandi e gli avvisi di gara pubblicati a far data dal
10.04.2013 fino alla data di entrata in vigore della legge
di conversione del presente decreto.
Art. 6-ter - Incrementi di superfici in
sede di ricostruzione
1. Il comma 13-bis
dell’articolo 3 del decreto-legge 06.06.2012, n. 74,
convertito, con modificazioni, dalla legge 10.08.2012, n.
122, è sostituito dal seguente: «13 -bis In sede di
ricostruzione degli immobili adibiti ad attività
industriale, agricola, zootecnica o artigianale, anche a
seguito di delocalizzazione, i comuni possono prevedere un
incremento massimo del 20 per cento della superficie utile,
nel rispetto della normativa in materia di tutela
ambientale, culturale e paesaggistica».
(ATTENZIONE:
da applicarsi dal
26.06.2013)
Art. 7-bis - Rifinanziamento della ricostruzione
privata nei comuni interessati dal sisma in Abruzzo
3. A decorrere dalla data
di entrata in vigore della legge di conversione del presente
decreto, le misure dell’imposta fissa di bollo attualmente
stabilite in euro 1,81 e in euro 14,62, ovunque ricorrano,
sono rideterminate, rispettivamente, in euro 2,00 e in euro
16,00. (ATTENZIONE:
da applicarsi dal 26.06.2013)
Art. 8-bis - Deroga alla disciplina
dell’utilizzazione di terre e rocce da scavo
1. Al fine di rendere più
celere e più agevole la realizzazione degli interventi
urgenti previsti dal presente decreto che comportano la
necessità di gestire terre e rocce da scavo, adottando nel
contempo una disciplina semplificata di tale gestione,
proporzionata all’entità degli interventi da eseguire e
uniforme per tutto il territorio nazionale, le disposizioni
del regolamento di cui al decreto del Ministro dell’ambiente
e della tutela del territorio e del mare 10.08.2012, n. 161,
si applicano solo alle terre e rocce da scavo prodotte
nell’esecuzione di opere soggette ad autorizzazione
integrata ambientale o a valutazione di impatto ambientale.
2. Fermo restando quanto previsto dal comma 1, in attesa di una
specifica disciplina per la semplificazione amministrativa
delle procedure, alla gestione dei materiali da scavo,
provenienti dai cantieri di piccole dimensioni la cui
produzione non superi i seimila metri cubi di materiale,
continuano ad applicarsi su tutto il territorio nazionale le
disposizioni stabilite dall’articolo 186 del decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152, in deroga a quanto stabilito
dall’articolo 49 del decreto-legge 24.01.2012, n. 1,
convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n.
27.
(ATTENZIONE: da applicarsi dal
26.06.2013)
---------------
Si legga un primo commento dal titolo:
Terre e rocce da scavo (26.06.2013 - link a
www.ance.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Proroga
delle graduatorie dei concorsi.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri emana il
decreto 19.06.2013 che dispone la proroga al 31.12.2013
di diversi termini; tra questi anche quello previsto
dall'art. articolo 1, comma 4, del decreto-legge 29.12.2011,
n. 216 (convertito, con modificazioni, in legge 24.02.2012,
n. 14) -già prorogato al 30.06.2013 per effetto
dell'articolo 1, comma 388, della legge n. 228/2012-
relativo alle graduatorie di concorso.
Conseguentemente è prorogata sino al 31.12.2013 la validità
delle graduatorie (approvate successivamente al 30.09.2003)
dei concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato,
relative alle amministrazioni pubbliche soggette a
limitazioni delle assunzioni
(tratto da e link a www.publica.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Relazione di fine mandato comunale e provinciale ai sensi
dell’articolo 4 del decreto legislativo 06.09.2011, n. 149
(D.M.
26.04.2013).
---------------
Con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il
Ministro dell’economia e delle finanze in data 26.04.2013
sono stati approvati, ai sensi dell’art. 4 del decreto
legislativo 06.09.2011, n. 149, gli schemi tipo di relazione
di fine mandato dei presidenti delle province e dei sindaci
dei comuni con popolazione superiore o uguale a 5000
abitanti, nonché lo schema tipo di relazione di fine mandato
in forma semplificata per i comuni con popolazione inferiore
a 5000 abitanti. |
QUESITI & PARERI |
ENTI
LOCALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Il welfare non si sposta. Conta quando è iniziata la
prestazione. I criteri per determinare la competenza a
sostenere gli oneri assistenziali.
Chi è tenuto al pagamento del contributo in favore della
famiglia affidataria di un minore residente presso altro
comune?
L'art. 6 della legge 08.11.2000, n. 328, nel
disciplinare le funzioni dei comuni in materia di sistema
integrato di interventi e servizi sociali, ha articolato gli
interventi e le competenze comunali nell'ambito della più
ampia programmazione della regione, ente cui spetta dirimere
gli specifici aspetti di competenza.
Nondimeno, la disciplina di riferimento per determinare la
residenza di un minore è l'art. 45 del codice civile, per il
quale «il minore ha il domicilio nel luogo di residenza
della famiglia o del tutore».
Per quanto riguarda l'attribuzione degli oneri connessi alla
degenza di un soggetto presso strutture residenziali, la
legge n. 328/2000 stabilisce, all'art. 6, il principio che
essi siano imputabili all'ente presso il quale, prima del
ricovero, il soggetto abbia la propria residenza.
La citata norma di riferimento (art. 6, comma 4, della legge
n. 328/2000) prevede che «per i soggetti per i quali si
renda necessario il ricovero stabile presso strutture
residenziali, il comune nel quale essi hanno la residenza
prima del ricovero, previamente informato, assume gli
obblighi connessi all'eventuale integrazione economica».
Tale disposizione ha inteso introdurre il criterio della
residenza, corrispondendo all'esigenza di tutela dei
soggetti più deboli della società, ossia quelle persone
bisognose di un'assistenza cui non sono in grado di fare
fronte economicamente.
Si è cercato di fissare un criterio di imputazione delle
spese semplice e univoco, in modo da evitare accertamenti,
spesso complessi, in ordine al maturare del biennio già
prescritto dall'art. 72 della legge n. 6972/1890 (c.d. legge
Crispi) -abrogato dall'art. 30, della citata legge 08.11.2000, n. 328- rendendo, quindi, ininfluenti, ai
fini dell'imputazione degli oneri, eventuali trasferimenti
di residenza degli interessati e i motivi di tali
trasferimenti; inoltre si è inteso sgravare il comune ove ha
sede la struttura assistenziale in cui viene ricoverato
l'utente dall'onere di accollo economico.
In tal senso il legislatore ha voluto radicare la competenza
sempre nel comune nel quale gli interessati o, nel caso di
minori, i genitori esercenti la potestà o il tutore hanno la
residenza al momento in cui la prestazione ha inizio.
La disposizione in esame tende anche a fornire un criterio
per la risoluzione di eventuali contenziosi tra regioni,
qualora gli assistiti vengano ospitati in strutture site in
regione diversa da quella in cui hanno la residenza, data la
non uniforme disciplina che la materia trova nelle varie
legislazioni regionali.
La valenza precettiva dell'art. 6 della legge n. 328/2000,
correlata all'esigenza della tutela dei soggetti deboli ha,
peraltro, ricevuto un rafforzamento ed una più ampia
legittimazione a seguito delle modifiche apportate dalla
legge costituzionale n. 3/2001 al Titolo V della Parte II
della Costituzione; l'art. 117, comma 2, lett. m), del testo
novellato, infatti, affida alla legislazione esclusiva dello
Stato la «determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», al cui
ambito appare riconducibile la disciplina volta a garantire,
comunque, la fruizione delle forme assistenziali a favore
dei minori nei casi in cui la loro erogazione possa
astrattamente coinvolgere più soggetti istituzionali.
Nel caso di specie, pertanto, l'ente competente a sostenere
gli oneri derivanti dal ricovero di persone in stato di
disagio e dei figli minori, ospitati in struttura
residenziale o affidati a famiglie, è quello nel quale gli
interessati o, nel caso di minori, i genitori esercenti la
patria potestà o il tutore, hanno la residenza al momento in
cui la prestazione assistenziale ha avuto inizio, a nulla
rilevando i successivi cambiamenti di residenza dei genitori
(articolo ItaliaOggi del 28.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Protezione sostenibile.
Domanda.
In materia di Valutazione di impatto ambientale (Via), cosa
deve intendersi per protezione sostenibile?
Risposta.
In tema di Valutazione di impatto ambientale (Via) la
pubblica amministrazione competente, nel valutare l'impatto
che l'intervento dell'uomo sull'ambiente procura, deve
valutarlo non soltanto alla luce del principio dello
sviluppo sostenibile, codificato nell'articolo 3-quater del
decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, ma anche alla
luce della cosiddetta «protezione sostenibile», che è una
tutela rafforzata che contempera, come afferma il Consiglio
di stato, sezione VI, con la sentenza numero 7472, del 16.11.2004, i vantaggi economici che la protezione in sé
assicura con gli equilibri che sono essenziali per qualsiasi
cittadino, che ha diritto a tutte le informazioni all'uopo
necessarie, per una sempre maggiore trasparenza sul
procedimento. Trasparenza che deve giustificare le scelte
che la pubblica amministrazione ha effettuato, quale garante
nella tutela dell'ambiente.
Il Tribunale amministrativo regionale (Tar) del Veneto,
sezione III, con la sentenza dell'08.03.2012, numero 333,
ha puntualizzato che la normativa portata dall'articolo 21
comma 2, lettera b), del citato decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, per la procedura di Valutazione di impatto
ambientale (Via), fissa l'obbligo di identificare e valutare
ogni possibile alternativa al progetto, compresa la sua non
realizzazione, con l'indicazione delle principali ragioni
della scelta effettuata. Infatti, la scelta deve essere resa
trasparente sia sotto il profilo dell'impatto ambientale,
sia al fine di evitare interventi che possano causare
sacrifici ambientali superiori a quelli necessari per
soddisfare l'interesse che si sottende con l'iniziativa.
E,
il Consiglio di stato, sezione VI, con la sentenza numero
933, del 22.02.2007, ebbe ad affermare, sempre in tema
di rilascio della Valutazione di impatto ambientale (Via),
che «la natura schiettamente discrezionale della decisione
finale (e della preliminare verifica di assoggettabilità)
sul versante tecnico e anche amministrativo, rende
fisiologico ed obbediente alla ratio su evidenziata che si
pervenga ad una soluzione negativa ove l'intervento proposto
cagioni un sacrificio ambientale superiore a quello
necessario per il soddisfacimento dell'interesse diverso
sotteso all'iniziativa: da qui la possibilità di bocciare
progetti che arrechino vulnus non giustificato da esigenze
produttive, ma suscettibile di venire meno, per il tramite
di soluzioni meno impattanti in conformità al criterio di
sviluppo sostenibile ed alla logica della proporzionalità
tra consumazione delle risorse naturali e benefici per la
collettività che deve governare il bilanciamento di istanze
antagoniste» (articolo ItaliaOggi Sette del
24.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Opzione zero.
Domanda.
La pubblica amministrazione, in sede di Valutazione di
impatto ambientale (Via), deve esaminare anche la cosiddetta
«opzione zero»?
Risposta.
La pubblica amministrazione, in sede di Valutazione di
impatto ambientale (Via), deve esaminare tutte le opzioni
alternative, relative al tipo di intervento richiesto,
compresa quella relativa alla non realizzazione dell'opera,
cosiddetta «opzione zero». Pertanto, come anche sostenuto
dal Tribunale amministrativo regionale (Tar) del Veneto,
sezione III, con la sentenza dell'08.03.2012, numero 333,
è illegittima una Valutazione di impatto ambientale (Via)
che non prende in considerazione o le prende in maniera
insufficiente, le opzioni suddette, compresa la cosiddetta
«opzione zero».
Peraltro, la Corte di giustizia europea, sezione VI, con la
sentenza numero 435, del 16.09.1999, causa C-435/97,
ebbe a puntualizzare che: «Gli articoli 4, n. 2, e 2, n. 1,
della direttiva del Consiglio 27.06.1985, 85/337/Cee_
vanno intesi nel senso che non conferiscono ad uno Stato
membro né il potere di dispensare, a priori e globalmente,
dalla procedura di valutazione di impatto ambientale
istituita dalla direttiva determinate classi di progetti
elencate nell'allegato II di quest'ultima, ivi comprese le
modifiche di tali progetti, né il potere di sottrarre a tale
procedura uno specifico progetto, a meno che l'insieme di
tali classi di progetto o il progetto specifico possa essere
ritenuto, sulla base di una valutazione complessiva,
inidoneo ad avere un impatto ambientale importante. Spetta
al giudice nazionale verificare se le Autorità competenti,
sulla base dell'esame in concreto da esse eseguito che le ha
condotte ad esonerare il progetto dalla procedura di
valutazione istituita dalla direttiva, abbiano concretamente
valutato, in conformità alla stessa, l'importanza
dell'impatto ambientale dello specifico progetto in
questione».
In ogni caso l'Autorità amministrativa
competente ha l'obbligo di comunicare, a richiesta, i motivi
per i quali la decisione è stata assunta, ovvero le
informazioni ed i documenti pertinenti in risposta alle
richieste formulate (Corte di giustizia, sezione II,
sentenza del 04.05.2006, causa C-508/2003) (articolo ItaliaOggi Sette
del 24.06.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Obblighi di pubblicazione delle dichiarazioni relative alla
situazione patrimoniale dei consiglieri comunali ai sensi
dell'art. 14 del d.lgs. 33/2013.
Nelle more dei necessari chiarimenti da
parte dei competenti uffici statali, si ritiene opportuno
considerare le disposizioni di cui all'articolo 14 del
d.lgs. 33/2013 applicabili ai componenti degli organi di
indirizzo politico di tutti i comuni, indipendentemente
dalla soglia demografica degli stessi.
Con riferimento all'articolo 14, comma 1, lettera f), del
d.lgs. 14.03.2013, n. 33, recante 'Riordino della
disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità,
trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle
pubbliche amministrazioni', il Comune chiede di
conoscere se l'obbligo di presentazione della documentazione
di cui agli artt. 2, 3 e 4 della legge 05.07.1982, n. 441
riguardi i titolari di incarichi pubblici di carattere
elettivo di tutti i comuni o solamente di quelli con
popolazione superiore a 15.000 abitanti. Un tanto in
considerazione del fatto che, per espressa modifica operata
dall'art. 52, comma 1, n. 4 del d.lgs. 33/2013, le
disposizioni di cui alla l. 441/1982 si applicano, tra
l'altro, 'ai consiglieri di comuni capoluogo di provincia
ovvero con popolazione superiore ai 15.000 abitanti.'.
Il d.lgs. 33/2013 ha modificato la disciplina in tema di
obblighi di pubblicazione concernenti i componenti degli
organi di indirizzo politico, materia che, a decorrere dal
20.04.2013 (data di entrata in vigore del decreto
legislativo), risulta normata dall'articolo 14 di detto
decreto e dagli articoli 2, 3 e 4 della l. 441/1982, come
modificati dall'art. 52 del medesimo decreto. Inoltre, da
tale data risulta abrogato l'articolo 41-bis
[1] del
d.lgs. 267/2000 (art. 53, comma 1, lett. c).
Si osserva che l'articolo 14 del d.lgs. 33/2013, pur
richiamando al comma 1, lettera f) gli articoli 2, 3 e 4
della l. 441/1982 (applicabili, ai sensi del precedente
articolo 1 n. 5 della medesima legge, ai Comuni con
popolazione superiore a 15.000 abitanti), non differenzia in
alcun modo gli enti locali in relazione alla loro
popolazione, essendo rivolto, in via generale, alle
'pubbliche amministrazioni'.
Conseguentemente non risulta chiaro se, ai sensi dell'art.
14 del d.lgs. 33/2013, tutti i comuni, a prescindere dalla
dimensione demografica, siano tenuti a dar corso agli
adempimenti in tema di pubblicazione concernenti i
componenti degli organi di indirizzo politico relativi alle
dichiarazioni di cui agli artt. 2, 3 e 4 della l. 441/1982,
come modificata dall'art. 52 del decreto.
In considerazione dei summenzionati dubbi interpretativi,
questo Servizio ha provveduto a trasmettere un quesito al
Dipartimento della Funzione Pubblica e provvederà
tempestivamente ad informare l'Ente instante circa il
contenuto della risposta.
Nelle more dei necessari chiarimenti da parte dei competenti
uffici statali, si ritiene opportuno considerare le
disposizioni di cui all'articolo 14 del d.lgs. 33/2013
applicabili ai componenti degli organi di indirizzo politico
di tutti i comuni, indipendentemente dalla soglia
demografica degli stessi.
Si rappresenta, tuttavia, che, ai sensi dell'articolo 49,
comma 3, del decreto legislativo in commento, 'Le
sanzioni di cui all'articolo 47 [2]
si applicano per ciascuna amministrazione, a partire dalla
data di adozione del primo aggiornamento annuale del Piano
triennale della trasparenza e comunque a partire dal
centottantesimo giorno successivo alla data di entrata in
vigore del presente decreto.' [3]
---------------
[1] Il testo dell'articolo 41 bis del TUEL disponeva: '1.
Gli enti locali con popolazione superiore a 15.000 abitanti
sono tenuti a disciplinare, nell'ambito della propria
autonomia regolamentare, le modalità di pubblicità e
trasparenza dello stato patrimoniale dei titolari di cariche
pubbliche elettive e di governo di loro competenza. La
dichiarazione, da pubblicare annualmente, nonché all'inizio
e alla fine del mandato, sul sito internet dell'ente
riguarda: i dati di reddito e di patrimonio con particolare
riferimento ai redditi annualmente dichiarati; i beni
immobili e mobili registrati posseduti; le partecipazioni in
società quotate e non quotate; la consistenza degli
investimenti in titoli obbligazionari, titoli di Stato, o in
altre utilità finanziarie detenute anche tramite fondi di
investimento, sicav o intestazioni fiduciarie.'.
[2] L'art. 47 'Sanzioni per casi specifici' disciplina al
comma 1 le sanzioni per la mancata o incompleta
comunicazione delle informazioni e dei dati di cui
all'articolo 14.
[3] Le sanzioni, pertanto, non saranno applicabili fino al
17.10.2013 (14.06.2013 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CORTE DEI CONTI |
CONSIGLIERI COMUNALI -
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Anche il Segretario comunale è responsabile per
l'approvazione illegittima di debiti fuori bilancio.
Osserva il Collegio che i lavori oggetto
della presente controversia –determinativi del pagamento–
non rientravano tra quelli oggetto di appalto e la loro
realizzazione era stata decisa in piena autonomia
dall’impresa, senza alcun coinvolgimento istituzionale della
stazione appaltante o della direzione dei lavori.
Né sussisteva la presenza di apposite riserve negli atti
adottati nelle varie fasi di esecuzione dell’appalto.
In altri termini l’impresa aveva deciso autonomamente e
contra legem –vista la normativa di settore-, in assenza di
richiesta o autorizzazione dell’Amministrazione comunale
committente di effettuare lavori che esulavano dall’opus
appaltato.
La normativa in tema di opere pubbliche preclude –in via
generale– all’appaltatore la possibilità di operare con tali
modalità pur, se in ipotesi, al fine di realizzare
interventi caratterizzati da intrinseca utilità.
In siffatto modo l’art. 342, comma primo, della legge sui
lavori pubblici (all. F) 20.03.1865 n. 2248, applicabile
nella specie, impedisce in via generale all’appaltatore di
apportare “variazioni o addizioni di sorta al lavoro assunto
senza averne ricevuto l’ordine per iscritto dall’ingegnere
direttore”, ed in seguito si aggiunge che “mancando una tale
approvazione gli appaltatori non possono pretendere alcun
aumento di prezzo od indennità per le variazioni od
addizioni avvenute, e sono tenuti ad eseguire senza compenso
quelle riforme che in conseguenza l’Amministrazione credesse
opportuno di ordinare, oltre il risarcimento dei danni
recati”.
Nella stessa direzione l’art. 134 del d.P.R. 21.12.1999 n.
554 dispone che “nessuna variazione o addizione al progetto
approvato può essere introdotta dall’appaltatore se non è
disposta dal direttore dei lavori e preventivamente
approvata dalla stazione appaltante nel rispetto delle
condizioni e dei limiti indicati dal’art. 25 della legge. Il
mancato rispetto di tale disposizione non dà titolo al
pagamento dei lavori non autorizzati e comporta la
rimessione in pristino, a carico dell’appaltatore, dei
lavori e delle opere nella situazione originaria secondo le
disposizioni del direttore dei lavori”.
I regimi derogatori che si sono succeduti nel tempo non
hanno mai permesso la possibilità di variazioni unilaterali
dell’appaltatore, senza che questi ne avesse fatto riserva
(sulla necessità di una tempestiva iscrizione di riserva,
pena la decadenza del diritto al pagamento per i maggiori
costi delle opere eseguite e preclusione anche dell’azione
ai sensi dell’art. 2041 c.c.. cfr. Corte Cassazione
12.09.2003 n. 13440) o prescindendo dal coinvolgimento della
direzione dei lavori.
Il Giudice di Legittimità ha, pertanto, più volte ribadito
che “in materia di appalti l’onere dell’iscrizione nel
registro di contabilità (di cui al RD n. 350 del 1895)
condiziona la tutelabilità delle pretese dell’appaltatore
non accolte dalla committente PA in ordine alle partite di
lavoro eseguite".
Vieppiù il Giudice di Legittimità ha statuito che “non è poi
esatto che l’appaltatore abbia l’onere di iscrivere la
riserva per maggiori compensi pretesi soltanto al momento
della scadenza contrattuale prevista …. In quanto dal
combinato disposto degli artt. 53 e 54 r.d. n. 350 del 1895…
si ricava la regola assoluta ed inderogabile che
l’appaltatore che richieda maggiori compensi, rimborsi o
indennizzi, per qualsiasi titolo e in relazione a qualsiasi
situazione nel corso dell’esecuzione dell’opera, è tenuto a
iscrivere nel registro di contabilità la riserva
“immediatamente” e quindi contestualmente all’insorgenza e
percezione del fatto dannoso. Solo dal registro di
contabilità è rilevabile l’incidenza che le varie vicende
potranno avere sui costi dell’appalto e per il committente e
per l’appaltatore”.
Ove anche, come prospettato dalle parti convenute in ipotesi
fossero da considerare opere extracontrattuali, ai sensi
dell’art. 344 della l. 20.03.1865 n. 2248 all. F, era
necessario un nuovo impegno di spesa ed un autonomo
contratto, ad oggetto tipologie di opere e compensi
spettanti all’appaltatore, dovendo ricorrere, a pena di
nullità ed improduttività di effetti, un atto adottato
dall’organo rappresentativo esterno dell’ente, il solo
legittimato a stipulare in nome e per conto di esso.
Sicché vi è improponibilità della domanda ex art. 2041 c.c.
rivolta all’ente locale per opere e lavori commissionati
senza alcun previo impegno di spesa né copertura
finanziaria, come disposto dal previgente art. 23, comma 4,
del D.L. 66 del 1989 convertito nella legge n. 144 del 1989
(norme più volte modificate ed infine cristallizzate negli
artt. 191 e 194 del d.lgs. n. 267 del 2000, sempre in
armonia con il dettato dell’art. 23 D.L. 66/1989). La
improponibilità deriva dal fatto che le norme, impositive di
sole azioni dirette nei confronti del funzionario
deliberante, hanno fatto venir meno la necessaria
residualità dell’azione ex art. 2041 c.c. nei riguardi
dell’ente locale.
---------------
L’art.
1, comma 1–ter della l. n. 20/1994 dispone che “nel caso di
deliberazioni di organi collegiali la responsabilità si
imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso voto
favorevole. Nel caso di atti che rientrano nella competenza
propria degli uffici tecnici o amministrativi la
responsabilità non si estende ai titolari degli organi
politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne
abbiano autorizzato o consentito l’esecuzione”.
Pertanto, ribadisce il Collegio, che l’atto dannoso, ossia
il riconoscimento del debito fuori bilancio, rientra tra le
competenze dell’organo politico (art. 194 d.lgs. 267/2000) e
non in quella propria dell’organo tecnico (che in ogni caso
è responsabile in quanto proponente).
Nella fattispecie, non si è trattato di ratificare o
approvare un atto proprio di altro organo (tecnico), ma di
adottare un atto di riconoscimento di debito fuori bilancio,
rientrante appieno nella propria sfera di competenza e
responsabilità.
L’aver autorizzato l’accollo della spesa risulta, pertanto,
decisione poco avveduta e assolutamente antigiuridica e, in
ordine al profilo psicologico, va sicuramente affermata la
colpa grave sia degli amministratori (rectius dell’apparato
politico), sia dei funzionari amministrativi che hanno
espresso parere favorevole all’adozione del provvedimento,
in quanto la normativa di riferimento era assolutamente
intellegibile, non sussistendo i presupposti per riconoscere
quanto richiesto (non essendo state avanzate riserve o
richieste di alcun genere sui lavori extracontratto per i
quali non era stata coinvolta la direzione dei lavori o
l’Amministrazione comunale).
Pertanto va affermata la colpa grave degli odierni convenuti
in forza dei differenti ruoli rivestiti nell’ambito del
Comune e della palese erroneità dell’atto nell’ambito delle
rispettive competenze.
Il pagamento di lavori esulanti dal contratto, decisi in
piena autonomia dall’impresa senza coinvolgimento
dell’Amministrazione in mancanza della richiesta di
pagamento durante la loro effettuazione o l’apposizione di
riserve, determina una anomala richiesta di pagamento (a
distanza di cinque anni dall’ultimo pagamento afferenti al
lavori), e tale anomalia non poteva trovare “copertura”
attraverso il riconoscimento di un debito fuori bilancio.
---------------
Nel novero dei soggetti che hanno avuto un apporto causale
più rilevante nella causazione del danno (pari al 70% dello
stesso) va anche ritenuto responsabile il segretario
comunale che aveva, ai sensi dell’art. 97 d.Lgs. n.
267/2000, il dovere di esercitare compiti di “assistenza
giuridico amministrativa” ed era tenuto a segnalare
l’illegittimità di un atto palesemente in contrasto con i
principi in tema di contrattualistica pubblica, tanto più
che non vi era in atti alcuna controversia, giudiziaria o
stragiudiziale, che potesse indurre ad indirizzare verso una
decisione (il riconoscimento del debito fuori bilancio)
costituente un minor danno a fronte di ipotetici esborsi a
seguito della soccombenza in giudizio.
---------------
La Procura contesta agli odierni convenuti di aver espresso
voto favorevole –o di aver consentito– alla legittimità del
pagamento senza rilevare, nonostante le specifiche
competenze istituzionali, l’intervenuta decadenza.
Osserva il Collegio che i lavori oggetto della presente
controversia –determinativi del pagamento– non rientravano
tra quelli oggetto di appalto e la loro realizzazione era
stata decisa in piena autonomia dall’impresa, senza alcun
coinvolgimento istituzionale della stazione appaltante o
della direzione dei lavori.
Né sussisteva la presenza di apposite riserve negli atti
adottati nelle varie fasi di esecuzione dell’appalto.
In altri termini l’impresa aveva deciso autonomamente e
contra legem –vista la normativa di settore-, in assenza
di richiesta o autorizzazione dell’Amministrazione comunale
committente di effettuare lavori che esulavano dall’opus
appaltato.
La normativa in tema di opere pubbliche preclude –in via
generale– all’appaltatore la possibilità di operare con
tali modalità pur, se in ipotesi, al fine di realizzare
interventi caratterizzati da intrinseca utilità.
In siffatto modo l’art. 342, comma primo, della legge sui
lavori pubblici (all. F) 20.03.1865 n. 2248, applicabile
nella specie, impedisce in via generale all’appaltatore di
apportare “variazioni o addizioni di sorta al lavoro assunto
senza averne ricevuto l’ordine per iscritto dall’ingegnere
direttore”, ed in seguito si aggiunge che “mancando una tale
approvazione gli appaltatori non possono pretendere alcun
aumento di prezzo od indennità per le variazioni od
addizioni avvenute, e sono tenuti ad eseguire senza compenso
quelle riforme che in conseguenza l’Amministrazione credesse
opportuno di ordinare, oltre il risarcimento dei danni
recati”.
Nella stessa direzione l’art. 134 del d.P.R. 21.12.1999 n.
554 dispone che “nessuna variazione o addizione al progetto
approvato può essere introdotta dall’appaltatore se non è
disposta dal direttore dei lavori e preventivamente
approvata dalla stazione appaltante nel rispetto delle
condizioni e dei limiti indicati dal’art. 25 della legge. Il
mancato rispetto di tale disposizione non dà titolo al
pagamento dei lavori non autorizzati e comporta la
rimessione in pristino, a carico dell’appaltatore, dei
lavori e delle opere nella situazione originaria secondo le
disposizioni del direttore dei lavori”.
I regimi derogatori che si sono succeduti nel tempo non
hanno mai permesso la possibilità di variazioni unilaterali
dell’appaltatore, senza che questi ne avesse fatto riserva
(sulla necessità di una tempestiva iscrizione di riserva,
pena la decadenza del diritto al pagamento per i maggiori
costi delle opere eseguite e preclusione anche dell’azione
ai sensi dell’art. 2041 c.c.. cfr. Corte Cassazione 12.09.2003 n. 13440) o prescindendo dal coinvolgimento
della direzione dei lavori.
Il Giudice di Legittimità ha, pertanto, più volte ribadito
che “in materia di appalti l’onere dell’iscrizione nel
registro di contabilità (di cui al RD n. 350 del 1895)
condiziona la tutelabilità delle pretese dell’appaltatore
non accolte dalla committente PA in ordine alle partite di
lavoro eseguite": in termini C. Cass. Sez. I 4851/1997.
Vieppiù il Giudice di Legittimità ha statuito che “non è
poi esatto che l’appaltatore abbia l’onere di iscrivere la
riserva per maggiori compensi pretesi soltanto al momento
della scadenza contrattuale prevista …. In quanto dal
combinato disposto degli artt. 53 e 54 r.d. n. 350 del 1895…
si ricava la regola assoluta ed inderogabile che
l’appaltatore che richieda maggiori compensi, rimborsi o
indennizzi, per qualsiasi titolo e in relazione a qualsiasi
situazione nel corso dell’esecuzione dell’opera, è tenuto a
iscrivere nel registro di contabilità la riserva
“immediatamente” e quindi contestualmente all’insorgenza e
percezione del fatto dannoso.
Solo dal registro di contabilità è rilevabile l’incidenza
che le varie vicende potranno avere sui costi dell’appalto e
per il committente e per l’appaltatore”: cfr. Corte Cass., I
Sez. Civ. 07.10.2010 n. 20828.
Ove anche, come prospettato dalle parti convenute in ipotesi
fossero da considerare opere extracontrattuali, ai sensi
dell’art. 344 della l. 20.03.1865 n. 2248 all. F, era
necessario un nuovo impegno di spesa ed un autonomo
contratto, ad oggetto tipologie di opere e compensi
spettanti all’appaltatore, dovendo ricorrere, a pena di
nullità ed improduttività di effetti, un atto adottato
dall’organo rappresentativo esterno dell’ente, il solo
legittimato a stipulare in nome e per conto di esso: in
termini Cass. I Sez. 28.02.2013 n. 5020.
Sicché vi è improponibilità della domanda ex art. 2041 c.c.
rivolta all’ente locale per opere e lavori commissionati
senza alcun previo impegno di spesa né copertura
finanziaria, come disposto dal previgente art. 23, comma
4, del D.L. 66 del 1989 convertito nella legge n. 144 del
1989 (norme più volte modificate ed infine cristallizzate
negli artt. 191 e 194 del d.lgs. n. 267 del 2000, sempre in
armonia con il dettato dell’art. 23 D.L. 66/1989). La
improponibilità deriva dal fatto che le norme, impositive di
sole azioni dirette nei confronti del funzionario
deliberante, hanno fatto venir meno la necessaria
residualità dell’azione ex art. 2041 c.c. nei riguardi
dell’ente locale: cfr. Cass. 5020/2013 e 4216 del 2012).
Tanto ribadito in ordine al fatto causativo del danno
erariale e ritenuta la sussistenza del rapporto di servizio,
le parti convenute –apparato politico (i consiglieri
comunali, il sindaco e l’assessore comunale)- invocano la cd.
esimente politica, ai sensi dell’art. 1, comma 1–ter della
l. n. 20/1994, avendo gli stessi fatto affidamento
sull’istruttoria svolta dagli uffici tecnici comunali
competenti preposti al momento gestorio amministrativo.
Osserva il Collegio che la norma invocata dispone che “nel
caso di deliberazioni di organi collegiali la responsabilità
si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso voto
favorevole. Nel caso di atti che rientrano nella competenza
propria degli uffici tecnici o amministrativi la
responsabilità non si estende ai titolari degli organi
politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne
abbiano autorizzato o consentito l’esecuzione”.
Pertanto, ribadisce il Collegio, che l’atto dannoso, ossia
il riconoscimento del debito fuori bilancio, rientra tra le
competenze dell’organo politico (art. 194 d.lgs. 267/2000) e
non in quella propria dell’organo tecnico (che in ogni caso
è responsabile in quanto proponente).
Non si è trattato, quindi, di ratificare o approvare un atto
proprio di altro organo (tecnico), ma di adottare un atto di
riconoscimento di debito fuori bilancio, rientrante appieno
nella propria sfera di competenza e responsabilità.
L’aver autorizzato l’accollo della spesa risulta, pertanto,
decisione poco avveduta e assolutamente antigiuridica e, in
ordine al profilo psicologico, va sicuramente affermata la
colpa grave sia degli amministratori (rectius dell’apparato
politico), sia dei funzionari amministrativi che hanno
espresso parere favorevole all’adozione del provvedimento,
in quanto la normativa di riferimento era assolutamente
intellegibile, non sussistendo i presupposti per riconoscere
quanto richiesto (non essendo state avanzate riserve o
richieste di alcun genere sui lavori extracontratto per i
quali non era stata coinvolta la direzione dei lavori o
l’Amministrazione comunale): cfr. Corte conti Sez. III Centr.
12.05.2008 n. 161 e 27.12.2011 n. 888.
Pertanto va affermata la colpa grave degli odierni convenuti
in forza dei differenti ruoli rivestiti nell’ambito del
Comune e della palese erroneità dell’atto nell’ambito delle
rispettive competenze.
Il pagamento di lavori esulanti dal contratto, decisi in
piena autonomia dall’impresa senza coinvolgimento
dell’Amministrazione in mancanza della richiesta di
pagamento durante la loro effettuazione o l’apposizione di
riserve, determina una anomala richiesta di pagamento (a
distanza di cinque anni dall’ultimo pagamento afferenti al
lavori), e tale anomalia non poteva trovare “copertura”
attraverso il riconoscimento di un debito fuori bilancio.
L’adozione di un atto avente particolare rilievo finanziario
e contabile determina pertanto una più rilevante
responsabilità per il maggior rigore che avrebbero dovuto
avere i convenuti cui si imputa il 70% del danno
finanziario, ed in specie i sigg.ri Michele Bello, Enzo
Bianchi, Franco Dringoli, Giuseppe Fanfani e Valter
Tirannanzi.
Il sig. Giuseppe Fanfani, sindaco –e come tale organo di
sovrintendenza al funzionamento dei servizi e degli uffici-, ha espresso voto favorevole sulla delibera C.C. n. 147
del 26.07.2007 nonostante la palese violazione della
stessa per la normativa in tema di contrattualistica
pubblica, ed essendo o dovendo essere a conoscenza della non debenza del pagamento dei lavori dell’impresa a fronte dell’assenza di apposizioni di riserve: cfr. questa Sezione
617/2009.
Parimenti responsabile è il sig. Franco Dringoli, assessore
competente, per le medesime considerazioni mosse nei
confronti del sindaco, cioè per la violazione palese della
normativa in tema di contrattualistica pubblica, ma anche
per le sue attribuzioni specifiche in materia di lavori
pubblici.
Responsabile è anche il sig. Valter Tirinnanzi, direttore
dei lavori, che con comportamento gravemente omissivo non ha
vigilato adeguatamente sulla legittima esecuzione dei lavori
oggetto dell’appalto con specifica responsabilità nell’aver
consentito variazioni ed integrazioni al contratto approvato
dall’Amministrazione, ma anche per non aver rilevato la
tardività delle richieste.
Fondata appare anche la richiesta di condanna del sig. Enzo
Bianchi, responsabile dell’Area Servizi Infrastrutture che
ha avuto un ruolo rilevante nella formazione del
provvedimento contestato, poi sottoposto all’approvazione
del Consiglio Comunale.
Infine nel novero dei soggetti che hanno avuto un apporto
causale più rilevante nella causazione del danno (pari al
70% dello stesso) va anche ritenuto responsabile il
segretario comunale che aveva, ai sensi dell’art. 97 d.Lgs.
n. 267/2000, il dovere di esercitare compiti di “assistenza
giuridico amministrativa” ed era tenuto a segnalare
l’illegittimità di un atto palesemente in contrasto con i
principi in tema di contrattualistica pubblica, tanto più
che non vi era in atti alcuna controversia, giudiziaria o
stragiudiziale, che potesse indurre ad indirizzare verso una
decisione (il riconoscimento del debito fuori bilancio)
costituente un minor danno a fronte di ipotetici esborsi a
seguito della soccombenza in giudizio: in termini Sezione
giurisdizionale Regione Calabria n. 208/2006.
Tutti i soggetti con il loro comportamento hanno
contribuito, a parere del Collegio in pari misura,
all’assunzione di un onere finanziario da parte del Comune
in assenza di un obbligazione giuridicamente rilevante, non
rilevando (o non facendo rilevare) la incontestabile
esistenza della decadenza realizzata dall’impresa, ritenuta
l’assenza di riserve da parte dell’appaltatore.
Né rileva, ai fini della individuazione delle
responsabilità, l’argomentazione difensiva secondo cui
l’inosservanza della prescritte procedure sarebbe dovuta
alla “extracontrattualità” dei lavori eseguiti, atteso che
non viene contestato che questi non fossero compresi nel
contratto, ma che essi, benché connessi e strumentali a
quelli appaltati, siano stati pagati con procedura
irregolare: cfr. questa Sezione 16.11.2009 n. 617
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana,
sentenza
17.06.2013 n. 206). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nei Comuni. Deliberazione della Corte dei conti del Veneto.
Senza piano esecutivo di gestione niente premi.
PERCORSO OBBLIGATO/
La mancata adozione del Peg e del piano-performance
impedisce di erogare al personale i compensi legati ai
risultati.
Senza piano esecutivo di gestione e piano della performance
non è possibile erogare la retribuzione di risultato e il
salario accessorio ai dipendenti degli enti locali.
Sono
queste le conclusioni del
parere
17.06.2013 n. 161 della
Corte dei conti del Veneto, Sez. di controllo.
Un Comune, a causa del commissariamento e nonostante una
forte attività di programmazione, non è riuscito ad
approvare definitivamente il Peg del 2012. Nei primi mesi
del 2013 è sorto quindi il dubbio se erogare o meno i
compensi relativi alla retribuzione di risultato dei
dipendenti incaricati di posizione organizzativa. I giudici
contabili richiamano innanzitutto le modifiche apportate
dalla legge 174/2012 che ha unificato nel Peg anche il piano
dettagliato degli obiettivi e il piano della performance. Il
pacchetto dei documenti deve quindi contenere tutti gli
elementi sia finanziari, sia di indirizzo e operativi, per
l'attribuzione della produttività individuale e collettiva,
anche con riferimento alla valutazione e incentivazione,
legata alle performance generali oltre che individuali. La
mancata adozione del Peg comporta di conseguenza un'attività
amministrativa carente nel perseguire gli obiettivi, ma
anche priva di un sistema in grado di assicurare la
legittima distribuzione del salario accessorio. La
conclusione è inevitabile: non è possibile arrivare a
erogare compensi di risultato e di produttività con
strumenti diversi dalle assegnazioni previste nel Peg.
Per quanto riguarda il fondo delle risorse decentrate dei
dipendenti, la Corte si spinge ad affermare che senza il
piano esecutivo di gestione, appare dubbiosa la possibilità
di procedere a un impegno di risorse relative al trattamento
accessorio. Non ci sono però considerazioni sulla diversa
natura tra fondo di parte stabile (che non presenta elementi
di discrezionalità ai fini dello stanziamento) e fondo di
parte variabile.
Sulla possibilità/obbligo di erogare comunque almeno il 10%
della retribuzione di posizione quale premio di risultato
agli incaricati di posizione organizzativa, i magistrati
contabili sono particolarmente severi. La somma, anche se
prevista contrattualmente, non può essere corrisposta nel
caso in cui al dipendente non siano stati assegnati
specifici obiettivi e risultati da conseguire in relazione
all'incarico e questo deve avvenire preventivamente. È
comunque esclusa ogni possibilità di intervento in sanatoria
in via successiva. Al di là del caso specifico, sono
evidenti le difficoltà operative legate ai continui rinvii
del termine ultimo di approvazione del bilancio di
previsione, condizione insuperabile per l'adozione del Peg (articolo Il Sole 24 Ore del
24.06.2013). |
APPALTI SERVIZI:
Servizi ict, la consulenza è out. La stabile organizzazione
richiede la gara d'appalto. La Corte dei conti Lombardia
fornisce indicazioni su come esternalizzare i servizi.
È da qualificare come appalto di servizi e non consulenza
l'attività di elaborazione di dati informatici e flussi
informativi, finalizzati allo snellimento delle procedure.
La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la
Lombardia, col
parere 07.06.2013 n. 236 torna sulla
delicata questione della distinzione tra appalto e
consulenze, fornendo indicazioni preziose rispetto ai
presupposti da rispettare per esternalizzare i servizi.
Il parere prende le mosse dal quesito avanzato da un comune,
che aveva chiesto se un servizio finalizzato
all'elaborazione di dati informatici, bonifica archivi e
svolgimento di attività istruttorie finalizzate alla
gestione dell'ufficio tributi potesse configurarsi come
consulenza e, dunque ricadere nella disciplina dell'articolo
7, comma 6, del dlgs 165/2001, invece che in quella del
codice dei contratti.
La sezione in primo luogo evidenzia bene che, a prescindere
dalla qualificazione (consulenza o appalto) del rapporto che
regola l'esternalizzazione, occorre avere cura di dimostrare
la sussistenza di ragioni giustificatrici dell'assegnazione
delle attività lavorative all'esterno.
Vi sono, dunque, valutazioni preliminari da svolgere, da
porre come base della motivazione della conseguente scelta
gestionale.
In primo luogo, occorre evidenziare che l'oggetto della
prestazione richiesta a terzi «non rientri nelle funzioni
ordinarie e nelle mansioni istituzionali» che devono essere
necessariamente svolte dalle strutture amministrative
dell'ente, ad opera dei dipendenti preposti.
In secondo luogo, occorre obbligatoriamente accertare la
carenza di risorse umane, ma anche strumentali, tale da
rendere necessario sopperire ai fabbisogni lavorativi,
mediante l'esternalizzazione.
Secondo il parere, proprio in relazione all'obbligo di
motivare la necessità dell'amministrazione di rivolgersi
all'esterno per acquisire prestazioni non ascritte alle
obbligatorie mansioni istituzionali, un servizio come il
riordino degli archivi e lo svolgimento di attività
istruttorie dell'ufficio tributi non può drasticamente
essere affidato a terzi. Infatti, si tratta di mansioni
istituzionali, spettanti in via ordinaria agli uffici,
sicché l'assegnazione di tali attività all'esterno
comporterebbe un'ingiustificata duplicazione delle funzioni
ordinarie e, dunque, una spesa che potrebbe costituire
danno.
Invece, l'elaborazione e distribuzione nel sistema
informativo di dati informatici può configurarsi come una
prestazione non necessariamente configurabile come
ordinaria.
Per la Corte dei conti, la complessità delle attività svolte
ed il risultato da garantire, poiché richiedono
un'organizzazione stabile, fanno sì che il contratto non
possa configurarsi come consulenza, bensì come appalto di
servizi.
Non convince, tuttavia, il percorso cui la Corte dei conti
giunge alla corretta conclusione. Il parere, infatti, si
rifà ancora alla distinzione tra la prevalenza dell'elemento
personalistico della prestazione, che caratterizzerebbe la
consulenza o comunque l'incarico di prestazione d'opera
professionale, distinguendole dall'appalto, che richiede,
invece, una stabile organizzazione imprenditoriale di mezzi
e servizi. Tali distinzioni, ricavate dall'ordinamento
civile italiano, risultano ormai superate dalla normativa
europea di regolazione dei servizi e dallo stesso codice dei
contratti, ai sensi del quale è operatore economico anche la
persona fisica, se svolge le prestazioni di servizi in via
continuativa nel mercato.
La reale differenza tra consulenze e appalti di servizi non
va ricavata dalle caratteristiche soggettive del prestatore,
ma dal risultato atteso.
Se si tratta di un prodotto finale, che l'ente si limita a
utilizzare così com'è, è un appalto. Nel caso di un sistema
di data warehousing risultato è appunto l'organizzazione dei
dati in un sistema informativo funzionale e solido,
assicurata da un appaltatore di servizi.
Laddove, invece, il risultato dell'incaricato esterno sia un
risultato intermedio, allora si tratta di consulenza o
collaborazione.
Il caso dei «pareri», prodotto tipico delle
consulenze, è emblematico: il parere non chiude
l'istruttoria, ma viene utilizzato dagli uffici per produrre
essi, col provvedimento finale, il prodotto finale
(articolo ItaliaOggi del 28.06.2013). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Consulenze p.a., vietato scegliere sempre gli stessi. Corte
conti: discrezionalità e trasparenza a braccetto.
Nella scelta di avvalersi di consulenti esterni, appare
estremamente incongruo nella fase valutativa delle
candidature che la pubblica amministrazione non esprima una
specifica preferenza in ordine al titolo di studio
posseduto, ma destini specifica preparazione nel settore in
cui si richiede detta consulenza. Infatti, operando in tal
modo, l'amministrazione pubblica finisce per giovarsi dei
medesimi soggetti. Lo scopo cui deve tendere l'agire
pubblico è quello di assicurarsi il miglior profilo
possibile, attraverso un giudizio complessivo sull'intero
curriculum del candidato e non che un singolo aspetto sia
sufficiente a sorreggere l'intera valutazione. Anzi, nel
settore dei fondi europei, si assiste sempre più a una
costante reiterazione di apporti professionali esterni
all'organico della p.a., a scapito degli uffici già preposti
e che sono in grado di curare i predetti progetti.
È quanto ha affermato la Corte dei conti, sezione centrale
di controllo di legittimità sugli atti delle amministrazioni
dello stato, nel testo della recente
deliberazione
04.06.2013 n.
10, con cui ha ricusato il visto e la conseguente
registrazione ad alcuni contratti di consulenza esterna
sottoscritti dal dipartimento per le pari opportunità,
nell'ambito di programmi operativi co-finanziati con fondi
europei.
Nei casi in esame, le doglianze della magistratura
contabile si sono soffermate sui requisiti ritenuti
necessari per l'espletamento dell'attività lavorativa. Posto
che il dipartimento individua i soggetti attraverso
l'immissione delle autocandidature in una «long list», è il
passo successivo che desta perplessità. In pratica, se da un
lato il dipartimento non esprime una specifica preferenza in
ordine al titolo di studio (e quindi i collaboratori
selezionati sono muniti di diverso diploma di laurea),
dall'altro si richiede, invece, una specifica preparazione
nel settore delle «pari opportunità». Specializzazione,
scrive la Corte, che possiedono solo coloro che abbiano già
ricoperto lo stesso tipo di consulenza. Ne consegue che in
tal modo l'amministrazione «finisce per giovarsi, in modo
più o meno continuo, sempre degli stessi soggetti».
Se tale modus operandi può farsi rientrare nella
discrezionalità dell'azione amministrativa, è altresì
pacifico che la stessa deve muoversi entro i binari del buon
agire, della razionalità e della trasparenza. L'obiettivo,
ovvero l'interesse, che l'amministrazione pubblica deve
perseguire è quello di pervenire all'individuazione delle
migliori risorse disponibili che, non necessariamente,
coincidono con chi ha già operato presso la stessa p.a.
Richiedere e attribuire un ulteriore punteggio a una
specifica professionalità nella materia oggetto della
consulenza, pone, a detta della Corte, in una situazione «deteriore»
tutti coloro che, pur muniti di titoli culturali di elevato
valore e di adeguate esperienze professionali, non abbiano
già svolto tale specifica attività. Lo scopo della p.a. è
quello di assicurarsi il miglior profilo professionale,
attraverso un giudizio che implichi la valutazione delle
complessive qualità dei soggetti, evitando che un singolo
aspetto di cui si compone il curriculum, sia
sufficiente a sorreggere il giudizio complessivo.
A questo quadro, la Corte aggiunge che, nel caso di fondi
europei, «si assiste a una costante reiterazione di
apporti professionali esterni, vale a dire una sorta di
provvista parallela di personale», a scapito di una
struttura stabile dell'ufficio che è in grado di curare
direttamente tali progetti
(articolo ItaliaOggi del 26.06.2013).
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Massima deliberazione 04.06.2013 n. 10.
In tema di contratto di collaborazione
coordinata e continuativa ai sensi dell’art. 7, comma 6, del
d.lgs. n. 165/2001, è consentita –in sede di controllo di
legittimità- la verifica circa la rispondenza ai principi di
razionalità, trasparenza, non-discriminazione dei criteri
adottati dalla Commissione esaminatrice per la selezione dei
candidati.
Nel caso di specie, mentre l’Amm.ne non esprimeva alcuna
preferenza in ordine al titolo di studio necessario per
l’espletamento dell’incarico, attribuiva esclusiva rilevanza
all’esperienza maturata nello specifico settore, in modo
tale da privilegiare coloro che avessero ricoperto lo stesso
tipo di incarico.
La Sezione ha ritenuto che lo scopo cui deve tendere
l’Amministrazione è quello di reperire il soggetto dotato
del miglior profilo professionale attraverso un giudizio
atto a ponderare le complessive qualità degli scrutinandi ed
evitando che, un singolo aspetto di cui si compone il
curriculum, possa sorreggere il giudizio complessivo.
Inoltre, il corretto utilizzo delle collaborazioni esterne,
secondo il modello delineato dall’art. 7, comma 6 citato,
postula un ambito temporale limitato, circostanza che non
ricorre nel caso esaminato ove, nello specifico settore dei
fondi europei, si assiste ad una costante reiterazione di
apporti professionali esterni a scapito di una progressiva e
adeguata strutturazione dell’Ufficio in grado di curare tale
attività.
Per quanto attiene la retribuzione stabilita nei suddetti
contratti di collaborazione, la Sezione ha stabilito che
deve essere evidenziato l’iter logico seguito dall’Amm.ne
per l’attribuzione del massimale di costo, posto che la
circolare 2/2009 del Ministero del Lavoro (disciplinante il
settore ed in base alla quale si era autovincolata),
stabilisce che esso è “soggetto a contrattazione tra le
parti in relazione alle specifiche competenze… (omissis) dei
soggetti chiamati a svolgere le attività”. |
NEWS |
ENTI LOCALI - VARI: Sì
ai box autovelox.
Box autovelox ammessi purché siano visibili e segnalati.
Sono valide, infatti, le multe elevate con i misuratori di
velocità installati negli armadietti colorati disseminati
anche nei centri abitati.
Lo ha confermato il Ministero dei
trasporti con il parere n. 1561/2013.
La questione dei box
autovelox, sempre più diffusi con una chiara vocazione
dissuasiva, non incontra molti limiti operativi a parere
dell'organo centrale.
I dispositivi omologati possono essere installati anche solo
saltuariamente nei box, ma per questo gli armadietti non
devono essere rimossi a fine servizio, specifica
innanzitutto la nota.
In centro abitato i dispositivi
possono essere resi operativi solo con la necessaria
presenza del vigile nelle immediate vicinanze, prosegue il
parere. Ma non serve che l'agente sia visibile a fianco del
box. Spiega, infatti, il ministero che l'obbligo di
visibilità deve essere soddisfatto dalla postazione e dal
relativo segnale di avvertimento sia preventivo che
posizionato a ridosso del misuratore
(articolo ItaliaOggi del 29.06.2013). |
ENTI
LOCALI - VARI:
Telecamere intelligenti per i capannoni isolati.
Se l'impianto o il capannone è isolato, si possono
installare telecamere intelligenti.
Il garante della
privacy, con il provvedimento n. 218/2013, ha accolto le
richieste di un gruppo industriale di installare un sistema
di videosorveglianza dotato di riconoscimento dei movimenti,
per proteggere cinque complessi fotovoltaici posizionati in
zona isolate.
I gestori degli impianti hanno chiesto di
poter utilizzare telecamere dotate di «motion control» in
grado di rilevare automaticamente eventuali movimenti
all'interno dell'area ripresa e di allertare immediatamente
il personale di controllo. Nei casi di videosorveglianza con
motion detection è prescritta la richiesta di verifica
preliminare al garante, che nel caso concreto ha dato il via
libera con l'obbligo, però, di adottare alcune tutele per la
privacy.
Le telecamere devono, in casi come questo, essere
segnalate e devono inquadrare solo le aree interne
dell'impianto e l'area immediatamente attigua la recinzione.
L'accesso via internet alle immagini conservate nei computer
degli impianti potrà avvenire solo tramite connessioni
protette (con rete VPN) e trasmissioni criptate. Va
rispettato anche lo Statuto dei lavoratori e, in
particolare, il divieto di controllo a distanza: prima di
avviare l'attività di videosorveglianza, ci vuole l'accordo
sindacale o in mancanza si deve chiedere il nulla osta alla
Direzione provinciale del lavoro.
Con un secondo provvedimento (162/2013) il garante ha
stabilito che le agenzie per il lavoro, in occasione di
colloqui conoscitivi, non possono acquisire e conservare
copia dei documenti di identità, utilizzati per identificare
le persone, a meno che non sia previsto da specifiche norme.
L'agenzia può procedere alla corretta identificazione degli
aspiranti lavoratori chiedendo l'esibizione di un documento
di identità ed eventualmente annotandone gli estremi. Mentre
deve, invece, ritenersi eccedente acquisire copia del
documento stesso.
Le copie dei documenti di identità contengono dati
personali, come le fotografie dell'interessato, le
caratteristiche fisiche e lo stato civile, non pertinenti
alle finalità per le quali venivano raccolti (presentazione
del curriculum e colloquio conoscitivo). Tra l'altro occorre
evitare che ci siano rischi di furto di identità. Vietato,
dunque, alla società di conservare le copie dei documenti di
identità dei candidati
(articolo ItaliaOggi del 29.06.2013). |
PATRIMONIO: Immobili
p.a., il Demanio stringe i costi.
Agenzia del demanio al lavoro per il contenimento dei costi
degli immobili della p.a. Grazie a una norma inserita nel
recente ddl semplificazioni, le amministrazioni avranno
l'obbligo di comunicare il proprio fabbisogno di spazio (si
veda ItaliaOggi del 19.06.2013). Cambierà il parametro
di riferimento: dal concetto di metro quadro a persona si
andrà verso il costo totale a persona (total occupancy cost),
includendo quindi anche gli oneri indiretti, compresi quelli
energetici.
A spiegarlo a ItaliaOggi è Stefano Scalera, direttore del
Demanio, a margine di un convegno sulle società di
investimento immobiliare quotate (Siiq), che si è tenuto
giovedì a Milano.
«L'attività si articola in due fasi»,
afferma Scalera, «la prima è la raccolta dati da parte delle
amministrazioni. A oggi, nonostante l'adempimento sia
volontario, abbiamo avuto un riscontro da circa il 47% degli
enti. La seconda fase sarà invece costituita dal benchmarking tra le diverse amministrazioni, relativamente
alle spese collegate agli immobili. Scendere nel dettaglio
delle singole voci è indispensabile per una vera spending
review».
Un processo senz'altro articolato, ma che finora ha
consentito allo stato di risparmiare circa 50 milioni di
euro di sole locazioni. Al centro dei lavori c'erano le Siiq
e i nuovi veicoli societari introdotti dall'articolo 33-bis
del dl n. 98/2011, che possono beneficiare di un trattamento
fiscale analogo. Il binomio real estate-finanza è ancora
debole: mentre alla borsa di Parigi l'industria immobiliare
rappresentata vale il 5% del comparto, in Italia è appena lo
0,2%.
Un fenomeno che rispecchia la scarsa propensione dei
soggetti nazionali ad approdare sui mercati, dal momento che
«solo il 20% del pil è quotato», evidenzia Massimo Tononi,
presidente Borsa Italiana. Secondo il presidente della
Consob, Giuseppe Vegas, «l'immobiliare è il settore che,
forse più di altri, deve seguire trasparenza, regole di governance chiare e moralità dei protagonisti.
Contemporaneamente a qualche aggiustamento legislativo andrà
operata una selezione accurata dei partecipanti al mercato».
Alessandro Balp, partner dello studio Bonelli Erede
Pappalardo, ha invece passato in rassegna le campagne di
dismissione del mattone pubblico negli altri paesi europei,
«dove negli ultimi dieci anni sono stati privatizzati
immobili per circa 25 miliardi di euro, soprattutto in
Inghilterra, Germania e Olanda. Le operazioni non hanno
riguardato solo cessioni, ma sono state strette anche
partnership pubblico-privato per la manutenzione
straordinaria e la valorizzazione dei fabbricati pubblici
non utilizzati»
(articolo ItaliaOggi del 29.06.2013). |
APPALTI: Bandi,
costi di pubblicità chiari. Gravano sulle imprese, quindi
serve un'indagine di mercato.
Documento della Conferenza delle regioni conferma l'obbligo
di pubblicazione sui giornali.
I costi per la pubblicazione dei bandi
di gara sui quotidiani dovranno essere chiaramente
specificati negli avvisi, in considerazione del fatto che si
tratta di oneri posti a carico dell'impresa che si aggiudica
l'appalto. E proprio per garantire il miglior prezzo nei
confronti delle aziende, sarà opportuno che le p.a.
effettuino preventivamente un'indagine di mercato. Se poi la
gara dovesse andare deserta o concludersi senza
l'individuazione di un vincitore, gli oneri di pubblicità
legale sui quotidiani resteranno a carico delle stazioni
appaltanti.
A chiarirlo è la Conferenza delle regioni che ha elaborato
le
linee guida in materia di trasparenza e pubblicità degli
appalti pubblici.
Una sorta di vademecum, predisposto da Itaca
(Istituto per l'innovazione e trasparenza degli appalti e la
compatibilità ambientale), l'organo tecnico del parlamentino
dei presidenti di regione, che fornisce una ricognizione
puntuale delle norme vigenti in materia di pubblicità e di
trasparenza sui contratti pubblici, anche alla luce della
produzione normativa intervenuta di recente.
Il documento conferma quanto da sempre sostenuto da
ItaliaOggi: e cioè che le p.a. devono continuare a
pubblicare i bandi di gara sui quotidiani per effetto di
quanto previsto dal recente decreto legislativo n. 33/2013
in materia di obblighi di pubblicità, trasparenza e
diffusione di informazioni da parte delle pubbliche
amministrazioni.
L'art. 37, comma 1, del dlgs richiama infatti tutte le
disposizioni del Codice dei contratti pubblici (dlgs n.
163/2006) in materia di bandi, avvisi e inviti (articoli 63,
65, 66, 122, 124, 206 e 223) e quindi, a giudizio dei
governatori, ne «conferma la piena efficacia». Un
ulteriore tassello a favore dell'obbligo di pubblicità è poi
rappresentato dalla decisione di porre a carico delle
imprese aggiudicatarie gli oneri sostenuti dalle p.a. per la
pubblicazione sui quotidiani. Tali oneri dovranno essere
rimborsati alle stazioni appaltanti nel termine di 60 giorni
dall'aggiudicazione. La novità, introdotta dal cosiddetto «decreto
crescita 2.0» (dl 179/2012) e operativa «per tutti i
bandi e gli avvisi pubblicati successivamente al 01.01.2013»,
richiama nuovamente gli obblighi previsti dal Codice dei
contratti pubblici (articoli 66 e 122) e dunque ne conferma
la vigenza.
Fatta chiarezza sul quadro normativo in vigore, il documento
approvato dalla Conferenza delle regioni raccomanda alcune
cautele da adottare da parte degli enti pubblici. Nei bandi
bisognerà citare la norma che pone gli oneri a carico
dell'aggiudicatario e individuare in modo specifico i costi
dopo un'attenta analisi di mercato. In caso di gara deserta
o senza vincitore gli oneri resteranno in capo alla stazione
appaltante.
E qualora la gara preveda la suddivisione dell'affidamento
in più lotti, in assenza di uno specifico dettato normativo,
la soluzione individuata dalla Conferenza dei governatori
prevede che «i costi debbano essere ripartiti tra gli
aggiudicatari in proporzione all'importo a base d'asta di
ciascun lotto» (articolo ItaliaOggi del 29.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Patentino per certificare.
Edifici, attestato energetico da tecnici abilitati.
In Gazzetta il dpr sui corsi di formazione
obbligatori. Si parte dal 12 luglio.
Definiti i criteri di accreditamento e i requisiti
professionali per i tecnici della certificazione energetica
degli edifici. Dal 12 luglio prossimo, i tecnici dovranno
frequentare specifici corsi di formazione per la
certificazione energetica della durata minima di 64 ore, al
fine di ottenere un attestato di frequenza.
E solo costoro potranno rilasciare il nuovo attestato di
prestazione energetica (Ape), che sostituisce il vecchio
Attestato di certificazione energetica (Ace), in base a
quanto previsto dal dl 63/2013 (da ultimo si veda ItaliaOggi
di ieri). I corsi saranno tenuti, a livello nazionale, da
università, enti di ricerca, ordini e collegi professionali,
a livello regionale dalle regioni e province autonome e da
altri soggetti autorizzati dalle regioni.
Questo è quanto prevede il
D.P.R.
16.04.2013 n. 75 pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale del 27.06.2103 n. 149.
Il regolamento
è composto di 7 articoli e di un allegato, entrerà in vigore
il prossimo 12 luglio. Il regolamento -emanato ai sensi
dell'articolo 4, comma 1, lettera c), del dlgs 192/2005-
consentirà di svolgere l'attività di certificazione
energetica ai seguenti soggetti: i tecnici abilitati, sia
dipendenti di enti pubblici o di società di servizi
pubbliche o private che liberi professionisti, in possesso
di almeno uno dei seguenti titoli: laurea in architettura,
ingegneria, agraria, scienze forestali, diploma di perito
industriale, geometra, perito agrario; gli enti pubblici o
gli organismi di diritto pubblico accreditati che svolgono
attività di ispezione del settore edile e degli impianti; le
società di servizi energetica (ESCo).
I tecnici dovranno partecipare a specifici corsi di
formazione, i cui contenuti minimi sono illustrati
nell'allegato 1 al dpr n. 75/2013. Non sono tenuti a
partecipare ai corsi di formazione i tecnici iscritti al
proprio albo o collegio e in possesso di abilitazione
professionale relativa alla progettazione di edifici e
impianti asserviti agli edifici stessi, nell'ambito delle
specifiche competenze a esso attribuite dalla legislazione
vigente.
Nel caso in cui il tecnico non abbia le competenze in tutti
i campi (progettazione di edifici e impianti) deve operare
in collaborazione con un altro tecnico abilitato, in modo
tale che il gruppo di lavoro così costituito abbia tutti le
professionalità richieste. Per assicurare la loro
indipendenza, i certificatori dovranno dichiarare l'assenza
di conflitto di interessi con i progettisti, i costruttori e
i produttori di materiali coinvolti nella
costruzione/ristrutturazione dell'edificio certificato.
Il regolamento si applicherà nelle Regioni e Province
autonome che non hanno una propria disciplina in materia di
qualificazione dei certificatori energetici, e comunque fino
all'entrata in vigore delle norme regionali. Le Regioni e
Province autonome che invece hanno già legiferato su questo
tema devono adeguare la propria normativa per renderla
coerente con quella la legislazione nazionale.
L'emanazione del regolamento è funzionale alla piena
attuazione della direttiva 2002/91/Ce, e in particolare
dell'articolo 7, e che, in proposito, la Commissione europea
già il 18.10.2006 ha avviato la procedura di messa in mora
nei confronti dell'Italia, ai sensi dell'articolo 226 del
Trattato Ce (procedura di infrazione 2006/2378)
(articolo ItaliaOggi del 29.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
FABBRICATI RURALI/
Accatastamento tardivo. Sanzioni, ma non per tutti.
Colpiti gli edifici con ruralità al 30/11.
Le sanzioni per il tardivo accatastamento dei fabbricati
rurali valgono solo per gli edifici che, al momento della
scadenza del termine del 30.11.2012, erano ancora in
possesso dei requisiti di ruralità ed erano ancora iscritti
nel catasto terreni.
Il chiarimento è arrivato con la
nota 18.06.2013 n. 7092 di prot.
del Consiglio Nazionale Geometri che riporta il chiarimento della direzione
centrale Catasto e cartografie dell'Agenzia del territorio
su richiesta del Consiglio nazionale dei geometri.
Ricordiamo che se il proprietario non ha accatasto i
fabbricati rurali il 30.11.2012 può richiedere il
pagamento della sanzione ridotta per ravvedimento operoso
(dal 1 marzo al 31.11.2013 ) ed è tenuto a versare
129,00 euro per ogni unità immobiliare. Al contrario se il
proprietario non richiede il pagamento della sanzione
ridotta per «ravvedimento operoso», l'Agenzia provvede a
emettere «verbale per irrogazione della sanzione per mancato
rispetto del termine», e l'importo minimo da pagare ammonta
ad euro 344,00 per unità immobiliare.
La sanzione ridotta va
richiesta dal professionista e pagata contestualmente alla
presentazione del Docfa. I tecnici del Territorio ricordano
che in base all'articolo 13, comma 14-ter, e successive
modifiche, del decreto legge 06.12.2011 (manovra salva-Italia) il termine per accatastare i fabbricati rurali
al catasto edilizio urbano è scaduto il 30.11.2012.
Le
pratiche di accatastamento presentate in data successiva
devono quindi essere sanzionate. Il comma 14-ter dell'art.
13 del dl n. 201 del 2011, stabilisce infatti che «i
fabbricati rurali iscritti nel catasto dei terreni, devono
essere dichiarati al catasto edilizio urbano entro il 30.11.2012, con le modalità stabilite dal decreto del
ministro delle finanze 19.04.1994, n. 701». Dato che
alcuni uffici territoriali catastali hanno applicato le
stesse sanzioni anche per gli accatastamenti tardivi dei
fabbricati ex rurali o che avevano perso il requisito di
ruralità prima del 30.11.2012, il Consiglio nazionale
dei geometri ha richiesto un chiarimento ufficiale.
La Direzione centrale Catasto e cartografia ha puntualizzato
e chiarito che la scadenza e le conseguenti sanzioni il
ritardo della dichiarazione al catasto edilizio urbano,
applicate ai fabbricati rurali che al 30.11.2012
risultavano ancora in possesso dei loro requisiti ed
iscritti al catasto terreni. Al contrario, spiega la
Direzione centrale catasto e cartografia, le sanzioni non
valgono per gli edifici ex rurali o che hanno perso i
requisiti di ruralità prima del 30.11.2012.
Concludendo, l'agenzia del Territorio ha quindi ribadito
che i fabbricati rurali in possesso del requisito di
ruralità dovevano essere accatastati entro il 30.11.2012. Al
contrario, i fabbricati ex rurali sono sempre accatastabili
entro trenta giorni o dopo cinque anni dal momento in cui
perdono i requisiti di ruralità
(articolo ItaliaOggi del 29.06.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nei contratti locali risorse decentrate e progressioni.
L'aran ha individuato i temi oggetto di contrattazione e le
procedure da seguire.
Le materie ammesse alla contrattazione decentrata
integrativa sono state ristrette dai vincoli introdotti dal
dlgs n. 150/2009, c.d. legge Brunetta. In attesa che le
trattative avviate a livello nazionale approdino alla firma
di un contratto per tutto il pubblico impiego in cui siano
individuati in modo preciso i temi su cui gli enti locali ed
i soggetti sindacali possono contrattare a livello locale e
quelli su cui sono necessarie altre forme di relazione,
l'Aran individua in modo preciso i temi oggetto di
contrattazione e le procedure che occorre seguire.
Tra le principali materie di cui la contrattazione
collettiva decentrata integrativa può occuparsi si segnala
in primo luogo la destinazione delle risorse decentrate,
tema che si conferma essere quello di maggiore rilievo,
unitamente alla disciplina delle indennità rimesse a questo
livello dai contratti nazionali, cioè la produttività, le
specifiche responsabilità, il maneggio valori, il disagio,
la individuazione delle fattispecie che danno luogo alla
erogazione del compenso per il rischio.
Mentre la contrattazione decentrata non deve occuparsi né
del turno né dei compensi per le attività svolte in giornate
festive, né della reperibilità. Altro importante tema
rimesso ai contratti di secondo livello è costituito dalla
disciplina delle progressioni economiche, a partire dalla
spesa. Ed inoltre si devono disciplinare le modalità di
ripartizione dei compensi previsti da specifiche
disposizioni di legge.
Per l'Aran sono poche le materie «trattabili dal contratto
nazionale, ma la cui trattabilità dovrebbe essere venuta
meno a seguito di norme di legge sopravvenute (dlgs n.
150/2009; dlgs n. 141/2011; dl n. 95/2012). La
individuazione di queste ultime è avvenuta su base
interpretativa, tenuto conto degli orientamenti emanati dai
competenti ministeri (si richiamano, al riguardo, le
circolari esplicative n. 7/2010, n. 1/2011 e n. 7/2011 del
dipartimento della funzione pubblica, nonché la circolare n.
25/2012 della Ragioneria generale dello stato d'intesa con
il Dipartimento funzione pubblica».
Non si deve più
contrattare in materia di orario di lavoro sui criteri
generali delle politiche e sulla articolazione delle
tipologie: questo tema viene quindi attratto nella
competenza esclusiva dell'ente, salva la eventuale
concertazione sull'orario di servizio; e sui programmi per
la formazione del personale. La individuazione delle materie
escluse dalla contrattazione di secondo livello dalla legge
Brunetta è assai limitata: in altri termini le indicazioni
dell'Aran devono essere definite come assai prudenti. Il che
è sicuramente largamente influenzato dalla scelta di non
esporre le singole amministrazioni locali ad una limitazione
unilaterale delle materie oggetto di contrattazione che
potrebbe non essere fatta propria dai giudici del lavoro in
presenza di eventuali contenziosi. Una terza componente è
costituita dalle materie che, in base alla contrattazione
nazionale, non sono oggetto di contrattazione integrativa,
ancorché ricomprese nel sistema della partecipazione
sindacale.
Tra esse si ricordano soprattutto le scelte per
le posizioni organizzative: conferimento, valutazione
periodica, graduazione delle funzioni e valutazione. L'Aran
non dice se la definizione delle risorse che negli enti con
i dirigenti devono essere prelevate dal fondo per il
finanziamento delle posizioni organizzative è materia o meno
di contrattazione decentrata. L'altro grande tema è
costituito dalla metodologia di valutazione delle
prestazioni dei dipendenti e dei risultati delle posizioni
organizzative, cioè dalla scheda.
L'Aran ricorda infine che tra le materie che non sono
oggetto né di contrattazione integrativa né di
partecipazione sindacale vanno compresi in primo luogo i
buoni pasto, per cui la scelta in questa materia appartiene
alla competenza esclusiva dell'ente. Ed ancora, la
disciplina delle ferie, dei permessi retribuiti e di quelli
a c.d. recupero, nonché la disciplina delle relazioni
sindacali e i termini per il preavviso
(articolo ItaliaOggi del 28.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - VARI:
Marca da bollo, rincari del 10%. Da ieri
il costo è salito 2 e 16 euro.
Bollo rincarato del 10% circa per i contratti di locazione
di qualsiasi tipo: da quelli per immobili a uso
villeggiatura, brevi vacanze o weekend, ai contratti di
comodato.
A segnalarlo è la Confedilizia, spiegando che si
tratta dell'effetto della pubblicazione, sulla Gazzetta
Ufficiale n. 147 del 25 giugno, della legge n. 71/2013, di
conversione del decreto legge n. 43/2013 (il cosiddetto
decreto Emergenze).
La marca da bollo da 1,81 e quella da 14,62 euro, a
prescindere dal contesto di utilizzo, diventeranno quindi
rispettivamente di 2 di 16 euro (si veda ItaliaOggi del
13/06/2013).
Gli aumenti, in vigore da ieri, interessano tutti gli atti
giuridici sottoposti a imposta di bollo e contribuiranno
alla ricostruzione in Abruzzo con una cifra stimata in un
miliardo e 200 milioni di euro. Così facendo lo stato potrà
assicurare tra il 2014 e il 2019 circa 197 milioni annui per
la riparazione di immobili danneggiati o l'acquisto di nuove
abitazioni sostitutive.
Nel settore degli immobili, come spiega Confedilizia, per i
contratti di comodato l'imposta sarà di 16 euro ogni 4
facciate (100 righe). Mentre sale a 2 euro la marca da bollo
da applicarsi sulle ricevute relative al canone di locazione
di importo superiore a euro 77,47 se non soggette a Iva.
Esenti, invece, dal bollo (ai sensi dell'art. 13 della
Tariffa allegata al dpr 26/10/72, n. 642) le ricevute degli
oneri condominiali.
Al di là del settore immobiliare poi molteplici sono le
attività interessate dall'aumento in quanto soggette a marca
da bollo: dagli atti rogati, alle scritture private, le
pubblicazioni di matrimonio, gli atti di notorietà, ricevute
e quietanze, fino alle fatture e note dei professionisti
senza partita Iva (articolo ItaliaOggi del 27.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - VARI: E l'imposta fissa di bollo è già cresciuta a 2 e a 16 euro.
Il rincaro da ieri. La decisione con
la legge 147/2013.
IL MECCANISMO/ L'importo andrà adeguato anche per registri e
libri soggetti a bollatura e non utilizzati fino a martedì
scorso.
Aumentano le misure fisse dell'imposta di bollo. Da ieri,
con la pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 147 del
25.06.2013 della legge 71/2013, di conversione del Dl
43/2013, in particolare, gli importi in precedenza stabiliti
in 1,81 e 14,62 euro passano, rispettivamente, a euro 2 e 16
euro. Non sono interessati dalla novità gli atti finalizzati
fino al 25 giugno, ancorché presentati in data successiva ad
un ufficio pubblico per la registrazione.
L'aumento riguarda una serie di documenti che interessa
diversi soggetti. In particolare l'imposta di bollo che oggi
è pari a euro 2 riguarda: le fatture che contengono importi
non assoggettati ad Iva; gli estratti conti o altri
documenti di accreditamento o addebitamento per somme
superiori a euro 77,47; ricevute o lettere commerciali
presentate per l'incasso presso gli istituti di credito per
somme inferiori a 129,11 euro.
L'aumento invece da euro 14,62 a euro 16 riguarda numerosi
documenti (così come meglio identificati nei primi tre
articoli della tariffa, parte I) nonché i documenti
societari (libri sociali e registri contabili di cui
all'articolo 16 della tariffa, parte I). A titolo
esemplificativo questo aumento dell'imposta fissa riguarda:
gli atti rogati o autenticati da un notaio o altro pubblico
ufficiale; le scritture private contenenti convenzioni anche
unilaterali che disciplinino rapporti giuridici di ogni
specie; istanze, memorie, ricorsi, dirette agli organi
dell'amministrazione dello Stato e degli enti pubblici
territoriali tendenti ad ottenere rilasci di certificati
ovvero provvedimenti amministrativi.
La modifica nell'imposta fissa ha anche altre implicazioni
quali quelle nei riguardi dei soggetti autorizzati
all'assolvimento dell'imposta in modo virtuale. Essi infatti
all'atto della presentazione della dichiarazione per l'anno
2013 saranno tenuti ad indicare separatamente gli atti ai
quali si applica l'aumento dell'imposta. Inoltre laddove
l'agenzia delle Entrate provveda entro il prossimo mese di
luglio a notificare la riliquidazione provvisoria delle
rimanenti rate 2013, queste ultime dovranno essere
modificate.
Per quanto invece riguarda l'adeguamento del bollo da
assolvere sui libri e sulle scritture contabili, occorre
fare delle distinzioni. Per i registri soggetti a bollatura,
anche facoltativa, sui quali è già stata assolta l'imposta
all'atto dell'effettuazione della formalità, sarà necessario
procedere all'integrazione dell'imposta di bollo nel caso in
cui siano completamenti inutilizzati. Ciò significa che gli
accadimenti (rectius: verbali) in essi riportati devono
essersi verificati prima del 26 giugno scorso. L'operazione
potrà essere effettuata con l'annotazione nell'ultima pagina
numerata degli estremi della ricevuta di pagamento modello
F23, ovvero con l'apposizione delle marche da bollo
necessarie per ottenere il nuovo importo, da annullarsi ex
articolo 12 del Dpr 642/1972. Nel caso in cui i registri siano
già stati utilizzati ancorché parzialmente non occorre
integrare il bollo.
Per i registri contabili non soggetti a bollatura, per i
quali l'imposta va assolta esclusivamente sulle pagine
effettivamente utilizzate, ed è dovuta per blocchi di 100
pagine o frazioni di esse, l'imposta fissa nella nuova
misura di 16 euro dovrà essere corrisposta per i blocchi di
100 pagine utilizzati a decorrere da ieri, utilizzando le
stesse modalità di integrazione innanzi precisate. Anche in
questo caso nulla è dovuto per i blocchi di 100 pagine che
risultano ancorché in parte utilizzati.
È possibile continuare ad utilizzare le vecchie marche da
bollo da euro 1,81 e da euro 14,62, integrandole qualora
l'imposta si renda dovuta nella nuovo misura. Lo stesso
discorso vale per la carta da bollo, ma la differenza va
integrata con l'applicazione delle marche da bollo
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.06.2013). |
APPALTI: Negli
appalti solidarietà estesa agli autonomi.
Il committente risponde con appaltatori e subappaltatori.
La responsabilità solidale negli appalti si estende ai
lavoratori autonomi.
Questa la principale novità contenuta
nel decreto legge che amplia l'applicazione del regime di
solidarietà di cui all'articolo 29 del Dlgs 276/2003 ai
lavoratori impiegati con un contratto di lavoro autonomo.
Ma non è questa l'unica modifica, in quanto la nuova norma,
oltre a confermare che la solidarietà non si applica negli
appalti stipulati dalla pubblica amministrazione, chiarisce
che il potere di deroga da parte dei Ccnl in materia di
solidarietà si applica solo all'obbligazione di tipo
retributivo e non produce effetti nei confronti degli
obblighi di natura previdenziale e assicurativa.
Il comma 2 dell'articolo 29 del decreto Biagi prevede che,
negli appalti di opere e servizi ex articolo 1655 del codice
civile, in caso di inadempimento da parte dell'appaltatore o
del subappaltatore, il committente è obbligato in solido a
corrispondere ai lavoratori utilizzati i relativi
trattamenti retributivi, compreso il Tfr, nonché a versare i
corrispondenti contributi previdenziali e i premi
assicurativi maturati nel periodo di esecuzione del
contratto.
Con la recente modifica, tale vincolo si estende al
committente anche quando nell'appalto siano utilizzati
lavoratori con contratti «di natura autonoma». Stante la
generica espressione utilizzata dalla legge, sono da
ricondurre nel più esteso vincolo solidaristico, i contratti
di collaborazione a progetto, le vecchie co.co.co , le
cosiddette mini co.co.co, ma anche le prestazioni di lavoro
autonomo occasionale e le prestazioni d'opera professionale
ex articolo 2222 del codice civile.
Nel caso dei collaboratori a progetto e dei co.co.co
(comprese le "mini"), la responsabilità solidale è piena in
quanto riguarderà non solo il pagamento del compenso, ma
anche il versamento dei contributi alla Gestione separata e
dei premi all'Inail.Per le prestazioni rese dai
professionisti e dai prestatori di lavoro autonomo
occasionale (salvo quelli con compenso oltre 5.000 euro), la
solidarietà sarà limitata al pagamento del compenso.
Il decreto legge dichiara altresì in modo esplicito che il
regime della solidarietà non trova applicazione nei
confronti della pubblica amministrazione ex comma 2
dell'articolo 1 del Dlgs 165/2001 in qualità di committente
del contratto di appalto. Non si tratta di una novità, posto
che in base alle previsioni dell'articolo 1 del Dlgs
276/2003, tutto il decreto, ivi compreso l'articolo 29 non è
applicabile nell'ambito della pubblica amministrazione. La
necessità di questa conferma da parte del legislatore è
probabilmente dipesa da alcune pronunce della magistratura
che rifacendosi alla legge delega 30/2003, avevano ritenuto
applicabile il regime della solidarietà negli appalti anche
nei confronti dello Stato.
Importante e chiarificatrice è la precisazione secondo cui
le eventuali diverse previsioni dei Ccnl in materia di
responsabilità solidale, ammesse dallo stesso articolo 29
del Dlgs 276/2003, sono efficaci solo ai fini retributivi,
ma non per gli obblighi contributivi e assicurativi, dei
quali i Ccnl non possono disporre
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.06.2013). |
ENTI
LOCALI: DAL
VIMINALE/
Tre revisori nelle Unioni di Comuni.
Nelle Unioni di Comuni che svolgono tutte le funzioni
fondamentali al posto degli enti che le compongono, entra in
gioco il collegio di tre revisori dei conti invece del
revisore unico. A determinare il rispetto del requisito è
l'indicazione delle funzioni svolte nello Statuto
dell'Unione: quando la Carta fondamentale riporta tutte le
attività ritenute essenziali negli enti locali, il collegio
di tre membri (analogo a quello che agisce nei Comuni
superiori a 15mila abitanti) può partire subito, per cui il
vecchio revisore unico decade.
Con queste indicazioni, contenute nella
circolare
24.06.2013 n. 57782 diffusa ieri, il dipartimento per gli Affari
interni e territoriali del ministero dell'Interno detta le
istruzioni per applicare le nuove regole introdotte nello
scorso autunno dal decreto «salva-enti» (articolo 3,
comma 1, lettera m-bis, e comma 4-bis del Dl 174/2012).
L'esercizio associato di tutte le funzioni fondamentali è
obbligatorio per legge a partire dal 01.01.2014, data dalla
quale di conseguenza dovrebbe sparire il revisore unico da
tutti i Comuni.
Unica eccezione, spiega il Viminale, sono le Unioni
disciplinate dal Dl 138/2011 per gli enti fino a mille
abitanti, che però sono una fattispecie residuale e in
pratica superata dalle nuove regole sulle Unioni
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.06.2013). |
APPALTI: DECRETO
DEL FARE/ LA RESPONSABILITÀ SOLIDALE
La solidarietà negli appalti cancellata solo per l'Iva.
Restano i vincoli per l'applicazione delle ritenute sul
lavoro dipendente.
L'articolo 50 del decreto "del fare" interviene sul comma 28
dell'articolo 35 del Dl 223/2006, eliminando (ma solo per
l'Iva) la tanto discussa responsabilità solidale posta "a
tutela" dei mancati versamenti fiscali nell'ambito dei
contratti di appalto e subappalto. Mentre in una prima
versione del decreto si abrogavano integralmente i commi 28,
28-bis e 28-ter dell'articolo 35, cancellando del tutto
l'estensione della responsabilità in campo fiscale, l'ultima
formulazione lascia, dunque, inalterata la disciplina per
quanto attiene alla ritenute di lavoro dipendente.
Queste
disposizioni sono state introdotte dal Dl 16/2012, con una
prima formulazione che ha subito importanti integrazioni con
il Dl 83/2012.
Gli aggiornamenti
Ecco cosa prevede la disciplina aggiornata, in caso di
appalti o subappalti di opere e servizi (senza limitazione
al solo settore edile):
- da un lato la responsabilità solidale dell'appaltatore con
il subappaltatore, con riferimento al versamento delle
ritenute sui redditi di lavoro dipendente (e non più anche
dell'Iva dovuta da quest'ultimo) in relazione alle
prestazioni effettuate nell'ambito del rapporto di
subappalto. Questa responsabilità è limitata all'ammontare
del corrispettivo dovuto e può essere evitata ottenendo,
anteriormente al pagamento del corrispettivo, la
documentazione attestante che i versamenti scaduti sono
stati correttamente eseguiti;
- dall'altro, una sanzione amministrativa da 5mila a 200mila
euro in capo al committente, nel caso in cui egli paghi
l'appaltatore senza essere in possesso della documentazione
individuata al punto precedente.
Alcuni dei tanti dubbi applicativi sono stati affrontati
dall'agenzia delle Entrate con le circolari 40/E/2012 e
2/E/2013. Il primo documento di prassi, in particolare, ha
previsto l'applicazione delle nuove regole ai contratti
stipulati (o rinnovati) dal 12.08.2012 e relativamente
ai pagamenti intervenuti dall'11 ottobre scorso.
Gli effetti sulle imprese
Gli eccessi di queste disposizioni sono parsi fin da subito
evidenti: si finisce con l'arruolare forzosamente le imprese
in compiti di vigilanza che non competono loro, peraltro
istituendo una procedura che favorisce la circolazione della
"carta" senza realmente incrementare la possibilità che
vengano meno le omissioni nei versamenti. Questo sistema
finisce per causare problemi a chi agisce correttamente,
mentre non ne crea a chi opera illecitamente.
Per la semplice dimenticanza di un "pezzo di carta",
l'appaltatore (anche in buona fede) finisce per rispondere
verso il fisco alla stessa stregua del subappaltatore
"infedele", mentre il committente viene pesantemente
sanzionato anche nel caso limite in cui è completamente
all'oscuro di un eventuale subappalto concluso
dall'appaltatore.
Proprio questi effetti deleteri potevano essere alla base di
una censura da parte dell'Unione europea, poiché la Corte di
Giustizia ha più volte affermato (ad esempio nella sentenza
21.06.2012, cause riunite C-80/11 e C-142/11) che spetta
«alle autorità fiscali effettuare i controlli necessari
presso i soggetti passivi al fine di rilevare irregolarità e
evasioni in materia di Iva nonché infliggere sanzioni al
soggetto passivo che ha commesso dette irregolarità o
evasioni».
Il timore di venir "bacchettati" in sede comunitaria ha
fatto sì che venisse eliminata l'Iva tra i versamenti cui è
applicabile la disciplina, con la conseguenza che tutte le
perplessità emerse in questi mesi restano invariate per
quanto riguarda i versamenti delle ritenute di lavoro
dipendente omesse dal subappaltatore e/o dall'appaltatore.
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Il fronte del lavoro. Dopo la riforma Fornero.
Vincolo biennale su contributi e premi.
La riforma Fornero ha rimodulato la materia della
solidarietà negli appalti determinando una netta separazione
tra il regime della responsabilità solidale sul piano del
rapporto di lavoro (articolo 29 del decreto legislativo
276/2003) e su quello fiscale (articolo 35 del Dl 223/2006).
Il decreto ora approvato dal Consiglio dei ministri
interviene sulla materia fiscale, mentre non apporta alcun
cambiamento alla disciplina della responsabilità solidale "lavoristica"
disciplinata all'articolo 29 del decreto 276. Quest'ultima
disposizione prevede un'obbligazione solidale tra il
committente, l'appaltatore ed eventuali subappaltatori entro
il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, con
riferimento alla retribuzione, comprese le quote di Tfr, ai
contributi previdenziali e ai premi assicurativi dovuti in
relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto.
Rimangono escluse dalla responsabilità solidale le sanzioni
civili, per le quali risponde solo colui al quale viene
addebitato l'inadempimento, ed è previsto il meccanismo del
beneficium excussionis a favore del committente, che impone
al creditore di aggredire in prima battuta il patrimonio del
debitore principale (articolo 29, comma 2; circolare del
ministero del Lavoro 2/2012).
La riforma Fornero ha introdotto una cosiddetta clausola di
riserva, cioè la possibilità per i contratti collettivi
nazionali, sottoscritti dalle associazioni dei lavoratori e
datori comparativamente più rappresentative, di prevedere
una deroga al regime di responsabilità solidale del
committente, sia per le retribuzioni che, si deve ritenere,
per gli obblighi contributivi e assicurativi.
La clausola di riserva dell'articolo 29 del decreto 276/2003
deve essere coordinata con l'articolo 8 del decreto
legislativo 138/2011 (sul cosiddetto contratto di
prossimità) che consente di derogare in peius alle
disposizioni di legge in materia di solidarietà negli
appalti, mediante contratti collettivi aziendali o
territoriali (articolo 8, comma 2, lettera c). Ciò potrebbe
far pensare che la deroga alla responsabilità solidale sia
ormai ammessa solo tramite il contratto collettivo
nazionale, con conseguente abrogazione implicita di quella
parte dell'articolo 8 del Dl 138/2011 che attribuisce invece
tale possibilità ad accordi di livello inferiore.
Tuttavia, nell'articolo 29 il riferimento al contratto
collettivo nazionale appare finalizzato semplicemente a
escludere che il potere di deroga spetti anche alla
contrattazione di livello inferiore, secondo il tipico
meccanismo della deregolamentazione contrattata. Viceversa,
il sistema previsto dall'articolo 8 consente la deroga
contrattuale al regime legale della solidarietà, in materia
retributiva, su presupposti del tutto differenti, che si
basano sulla vicinanza del contratto collettivo con la
realtà produttiva oggetto di regolamentazione e sulla
rappresentatività territoriale qualificata dei sindacati
stipulanti. Pertanto, è plausibile pensare che se il
legislatore avesse voluto modificare la disciplina del
contratto di prossimità in materia di solidarietà
nell'appalto, lo avrebbe fatto con una previsione espressa e
non mediante il rinvio generale al contratto collettivo
nazionale operato dall'articolo 29, secondo comma del
decreto 276.
Un altro aspetto problematico relativo all'articolo 29
riguarda l'ambito applicativo della disciplina della
solidarietà circa i lavoratori coinvolti
(subordinati/autonomi) e i settori compresi (appalti
pubblici/privati).
Sulla prima questione, la previsione dell'articolo 29, comma
2 utilizza un generico rinvio al termine "lavoratori",
lasciando aperta la possibilità che i beneficiari delle
tutele poste dal regime della responsabilità solidale siano
non solo i lavoratori subordinati, ma anche altri soggetti
impiegati nell'appalto con diverse tipologie contrattuali
come i collaboratori a progetto e gli associati in
partecipazione (lo hanno affermato ministero del Lavoro e
Inps, rispettivamente nelle circolari 5/2011 e 106/2012).
Tuttavia, si deve considerare che lo stesso articolo 29 fa
riferimento alla "retribuzione" e "quote di Tfr", istituti
che fanno pensare al lavoro dipendente, e che
tradizionalmente il regime della solidarietà -che è
istituto eccezionale e non applicabile in modo estensivo-
ha sempre riguardato la materia del lavoro subordinato (si
pensi all'articolo 1676 Codice civile e alla legge
1369/1960).
Per quanto concerne i settori coinvolti, l'esclusione del
settore pubblico dal regime della solidarietà sembra
derivare direttamente dal decreto 276 (articolo 1, comma 2)
che lascia fuori dal proprio ambito applicativo le pubbliche
amministrazioni e il loro personale (tale esclusione con
riferimento alla solidarietà fiscale è espressamente sancita
dall'articolo 35 del Dl 223/2006)
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.06.2013). |
SICUREZZA LAVORO: DECRETO
DEL FARE/
LA SICUREZZA.
Per la valutazione dei rischi ritorna l'autocertificazione.
Per le aziende che operano in ambiti più sicuri e
individuati con decreto.
Le semplificazioni in materia di lavoro tendono a rendere
meno burocratici i numerosi ed onerosi obblighi che sono
imposti ai datori di lavoro in materia di salute e sicurezza
nei luoghi di lavoro.
Essi riguardano diversi aspetti, alcuni di natura formale ma
con risvolti senz'altro sostanziale –quando di parla di
valutazione dei rischi– altri di natura documentale.
Il Duvri
Una prima modifica riguarda l'articolo 26 del decreto
legislativo 81/2008 (Tu sulla salute e sicurezza nei luoghi
di lavoro), che ha istituito il Duvri, Documento unico di
valutazione dei rischi, cui è obbligato il datore di lavoro
committente in caso di affidamento di lavori, servizi e
forniture all'impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi
all'interno della propria azienda.
Il Duvri, ora non sarà
l'unica scelta ma è previsto che il datore di lavoro
committente, se opera in settori di attività a basso rischio
infortunistico, da determinare con decreto ministeriale che
sarà emanato entro 90 giorni, potrà, in alternativa,
individuare un proprio incaricato, in possesso di
formazione, esperienza e competenza professionali, tipiche
del preposto, nonché di periodico aggiornamento e di
conoscenza diretta dell'ambiente di lavoro, per
sovraintendere alla cooperazione e coordinamento.
L'obbligo del Duvri o dell'incaricato non si applica ai
servizi di natura intellettuale, alle mere forniture di
materiali o attrezzature, ai lavori o servizi la cui durata
non è superiore a dieci uomini-giorno (con riferimento
all'arco temporale di un anno dall'inizio dei lavori) e
sempre che essi non comportino rischi derivanti dalla
presenza di agenti cancerogeni, biologici, atmosfere
esplosive o dalla presenza di rischi particolari di cui
all'allegato XI Tu.
Procedure standardizzate
Le nuove procedure standardizzate obbligatorie per le micro
imprese (datori di lavoro che occupano fino a 10 lavoratori)
già entrate il 1° giugno scorso (Dm 30.11.2012), ora
subiscono una modifica, facendo ritornare la possibilità di
ricorrere all'autocertificazione. La novità riguarda le
aziende che operano nei settori a basso rischio
infortunistico che saranno individuate con lo stesso decreto
ministeriale di cui di è detto sopra. Qui sarà riportato un
apposito allegato recante il modello con il quale, fermi
restando i vari obblighi, i datori di lavoro interessati
potranno optare (in luogo delle procedure standardizzate)
mediante l'attestazione di aver effettuato la valutazione
dei rischi di cui agli articoli 17, 28 e 29 del Tu.
Resta fermo che fino alla emanazione del decreto
ministeriale non si applica la deroga ma dovranno essere
seguite obbligatoriamente le procedure standardizzate.
Formazione e aggiornamento
Il decreto di semplificazione in esame abolisce i doppioni
in materia di formazione e aggiornamento riguardanti i
responsabili ed addetti al servizio di prevenzione e
protezione (Rspp-Aspp), i dirigenti, preposti,
rappresentanti dei lavoratori e lavoratori, previste dagli
articoli 32 e 37 Tu. È infatti previsto che in tutti casi di
formazione e aggiornamento, in cui i contenuti dei percorsi
formativi, in tutto o in parte, si sovrappongono, è
riconosciuto il credito formativo per la durata della
formazione e aggiornamento corrispondenti erogati.
Notifiche all'organo di vigilanza di nuovi lavori
Le novità riguardano l'articolo 67 del Tu, come ora
modificato e si riferiscono all'obbligo di comunicazione
all'organo di vigilanza competente per territorio, da parte
di chi intenda procedere alla costruzione o realizzazione di
edifici o locali da adibire a lavorazioni industriali,
nonché nei casi di ampliamenti e di ristrutturazione di
quelli esistenti, ove si presume l'impiego di più di tre
lavoratori. Resta fermo che i lavori devono essere eseguiti
nel rispetto della normativa di settore.
Con un apposito decreto ministeriale, che sarà emanato entro
90 giorni, saranno individuate, secondo criteri di
semplicità e di comprensibilità, le informazioni da
trasmettere mediante modelli uniformi da utilizzare. Fino
alla emanazione del predetto decreto la comunicazione deve
contenere:
- la descrizione dell'oggetto delle lavorazioni e delle
principali modalità di esecuzione delle stesse;
- la descrizione delle caratteristiche dei locali e degli
impianti.
Le comunicazioni suddette avverranno presso lo sportello
unico per le attività produttive, con le modalità stabilite
con Dpr 160/2010, che provvederà ad informare il competente
organo di vigilanza in via telematica.
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Le altre misure. Con durata non superiore a dieci
uomini-giorno.
Piccoli interventi, regole semplificate.
Il decreto sulle semplificazioni in materia di salute e
sicurezza nei luoghi di lavoro, non manca di incidere
notevolmente sulle verifiche obbligatorie e sulle varie
comunicazioni riguardanti anche gli infortuni sul lavoro.
Le modifiche che sono state apportate ai commi 11 e 12
dell'articolo 71 del Tu, riguardano sostanzialmente
l'entrata in campo delle Regioni e quindi dell'Agenzia
regionale per la protezione ambientale (Arpa). Il nuovo
comma 11 stabilisce che la prima verifica delle attrezzature
riportate nell'allegato VI al Tu è effettuata dall'Inail che
provvede nel termine di 45 giorni dalla richiesta, decorso
inutilmente il quale, il datore di lavoro può avvalersi
della Asl o, qualora ciò sia previsto dalla legge regionale,
dell'Arpa e di soggetti pubblici o privati abilitati secondo
le modalità stabilite con l'apposito decreto dell'11.04.2011. Le successive verifiche sono effettuate dalla Asl o,
ove ciò sia previsto con legge regionale, dall'Arpa, che vi
provvede entro 30 giorni dalla richiesta. Decorso
inutilmente tale termine, il datore di lavoro può avvalersi
dei soggetti pubblici o privati abilitati.
L'Inail, le Asl e l'Arpa hanno l'obbligo di comunicare al
datore di lavoro l'eventuale impossibilità di effettuare le
verifiche di propria competenza. Oltre al privato anche
l'Inail, l'Asl e Arpa possono avvalersi del supporto dei
soggetti pubblici e privati abilitati per le verifiche di
loro competenza. Le spese sono poste a carico del datore di
lavoro.
In merito alla salute e sicurezza nei cantieri temporanei e
mobili le modifiche riguardano il campo di applicazione del
Titolo IV del Tu e la semplificazione, dei vari Piani di
sicurezza, tra cui il piano operativo di sicurezza (Pos). In
merito al campo di applicazione esso si restringe, infatti,
modificando l'articolo 88 del Tu, alla lettera g-bis, che
esclude alcune attività soggette al Titolo IV, sono inseriti
anche i piccoli lavori la cui durata presunta non è
superiore a 10 uomini-giorno, finalizzati alla realizzazione
o manutenzione delle infrastrutture per servizi.
In merito alla semplificazione del Pos è stato inserito nel
Tu il nuovo articolo 104-bis con il quale viene previsto che
con decreto ministeriale, da emanare entro 60 giorni, sono
individuati modelli semplificati per la sua redazione nei
termini ex articolo 89, comma 1, lettera h), del Tu, del
piano di sicurezza e coordinamento (Psc), previsto
all'articolo 100, comma 1, del Tu e del fascicolo dell'opera
disciplinato all'articolo 99, comma 1, lettera b), del Tu.
Restano fermi i relativi obblighi a essi connessi.
Le comunicazioni obbligatorie all'organo di vigilanza in
caso di situazioni di emergenza durante i lavori con
esposizione a particolari e specifici rischi, potranno
essere effettuate in via telematica anche tramite gli
organismi paritetici o le organizzazioni sindacali dei
datori di lavoro. Le comunicazioni riguardano il superamento
dei valori limite nelle lavorazioni con esposizione ad
agenti chimici, ad agenti cancerogeni e mutageni, ad agenti
biologici, nonché la notifica prima dell'inizio dei lavori
con esposizione all'amianto.
Sul fronte delle denunce infortuni l'articolo 54 del Dpr
1124/65, che prevedeva la denuncia all'autorità di pubblica
sicurezza, degli infortuni occorsi e per i quali era stata
diagnosticata una prognosi per più di tre giorni è stato
abrogato. È prevista, invece, la modifica all'articolo 56,
Dpr 1124/65, per cui è ora stabilito che le autorità di
pubblica sicurezza, le Asl, le Autorità portuali e
consolari, le direzioni territoriali del lavoro (Dtl) e i
corrispondenti uffici della Regione siciliana e delle
Province autonome di Trento e Bolzano, acquisiscano
dall'Inail, mediante accesso telematico (secondo le modalità
che entreranno in vigore dopo il 180° giorno dalla
emanazione del Dm istitutivo del sistema informativo
nazionale per la prevenzione-Sinp), i dati relativi alle
denunce infortuni sul lavoro mortali e di quelli con
prognosi superiore a 30 giorni (articolo Il Sole 24 Ore del 26.06.2013). |
APPALTI: DECRETO
DEL FARE/ APPALTI E SEMPLIFICAZIONE.
Durc acquisito d'ufficio. Il certificato varrà 180 giorni.
Nel caso di irregolarità compensazione o «allineamento» in
15 giorni.
Il Dl del "fare", così come viene chiamato il provvedimento
approvato dal Consiglio dei Ministri il 15 giugno, modifica
le regole previste per la richiesta, il rilascio e la
validità del Durc (documento unico di regolarità
contributiva).
Le variazioni si inseriscono nel solco del ventilato
miglioramento dei rapporti tra la pubblica amministrazione e
i vari soggetti che operano imprenditorialmente (e non solo)
sul territorio italiano. La maggior parte delle modifiche
riguardano il Codice dei contratti pubblici relativi a
lavori servizi e forniture.
L'acquisizione del Durc
Le novità introdotte riguardano –tra l'altro– le modalità
di acquisizione del Durc nella fase degli accertamenti
relativi alle clausole di esclusione dagli appalti pubblici.
Fino a oggi, infatti, il documento di regolarità
contributiva era posto a corredo della documentazione a cura
dell'«affidatario» cioè del soggetto a cui la pubblica
amministrazione affidava l'appalto.
Ora la norma innova sensibilmente l'iter in quanto prevede,
per le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori,
l'obbligo di acquisire d'ufficio il documento unico di
regolarità contributiva.
L'incasso
Un passo avanti lo si registra anche nella fase dell'incasso
del corrispettivo –sia per gli stati di avanzamento dei
lavori (Sal), sia per il saldo finale– da parte di chi ha
reso la prestazione nell'ambito dell'appalto o del
subappalto. Non è più previsto, infatti, che per ricevere il
pagamento, l'affidatario e i subappaltatori (per il suo
tramite) trasmettano all'amministrazione o all'ente
committente il Durc ma, lo stesso, verrà acquisto
automaticamente d'ufficio dalla stazione appaltante.
Può verificarsi, tuttavia, che il soggetto che ha eseguito i
lavori non sia in regola con il versamento dei contributi;
tale situazione viene evidenziata nel Durc, acquisito
d'ufficio, dalle amministrazioni aggiudicatrici, dagli
organismi di diritto pubblico, dagli enti e dagli altri
soggetti assegnatari. Ricorrendo questa fattispecie, il
decreto del fare prevede che si debba procedere comunque al
pagamento agli aventi diritto, delle competenze trattenendo
l'importo corrispondente all'inadempienza risultante dal
Durc. La stessa norma obbliga chi ha trattenuto le somme a
versarle a favore degli enti previdenziali e assicurativi,
compresa, se presente, la Cassa edile, per l'esecuzione dei
lavori nei settori dell'edilizia.
Gli stessi soggetti, elencati sopra, nei contratti pubblici
di lavori, servizi e forniture, d'ora in avanti dovranno
acquisire telematicamente il Durc, nelle varie fasi in cui
si articola l'iter procedurale.
In particolare, è previsto che il documento sia richiesto
per verificare la veridicità della dichiarazione rilasciata
dal soggetto che partecipa all'aggiudicazione dell'appalto,
circa l'assenza di violazioni gravi, definitivamente
accertate, di norme in materia di contributi previdenziali e
assistenziali.
Allo stesso modo il Durc, acquisito d'ufficio
telematicamente, servirà per la stipula del contratto,
nonché per aggiudicare l'appalto; ciò in quanto, tra i
requisiti figura sempre e comunque anche la regolarità
contributiva. Inoltre, il reperimento d'ufficio della
certificazione servirà anche per i vari pagamenti e, per
esempio, per i certificati di collaudo, di regolare
esecuzione o di verifica di conformità.
Ovviamente una volta che l'ufficio pubblico (amministrazioni
aggiudicatrici, organismi di diritto pubblico, ecc.) avrà
ottenuto il Durc telematico e verificato che il soggetto è a
posto, la regolarità (certificata dal documento telematico)
deve essere ritenuta valida per tutte le fasi del
procedimento in cui è richiesto il soddisfacimento di tale
requisito.
Validità semestrale
Un volta stipulato il contratto di appalto, le stesse
amministrazioni, ogni 180 giorni (finora erano 90), dovranno
acquisire il Durc in automatico e lo dovranno utilizzare per
dare sistematicamente corso ai pagamenti, ai collaudi, al
rilascio del certificato di regolare esecuzione o di
conformità. Per effetto delle modifiche, il Durc, rilasciato
per i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture,
guadagna un periodo di validità maggiorato che si estende a
180 giorni.
Sempre nei contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture, le pubbliche amministrazioni acquisiscono
d'ufficio il Durc relativo ai subappaltatori. Il documento
deve essere utilizzato per il rilascio dell'autorizzazione
al subappalto.
In caso di inadempienze
La norma dispone anche una mini regolamentazione per i casi
in cui vi siano delle inadempienze e il Durc non possa
essere rilasciato.Il soggetto (intestatario del Durc) deve
essere invitato a regolarizzare la propria posizione, prima
del rilascio del documento o del suo annullamento. La
notizia dell'inadempienza e l'invito alla regolarizzazione
viaggerà tramite Pec (posta elettronica certificata) e la
potrà ricevere il consulente del lavoro che assiste
l'azienda, collaborando, così, alla definizione. I termini
per provvedere a versare quanto dovuto sono fissati in 15
giorni (articolo Il Sole 24 Ore del 26.06.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: DECRETO
DEL FARE/ La Pubblica amministrazione.
I RAPPORTI CON I CITTADINI/
Risarciti i ritardi della «Pa» verso imprese e
professionisti.
Ticket di 30 euro per ogni giorno di attesa Resta
l'indennizzo per gli altri danni.
Gli imprenditori aprono la strada a un nuovo modo di
amministrare, in cui i tempi sono certi e i ritardi
sanzionati. Questo è il contenuto innovativo dell'articolo
28 del decreto legge, in tema di indennizzi nella
conclusione del procedimento.
Tutti coloro i quali entrano in contatto con una pubblica
amministrazione, attivando un procedimento, possono contare
su un indennizzo in caso di ritardo. Si tratta di una sorta
di ticket quantificato in modo forfetario (30 euro per ogni
giorno di ritardo fino a 2mila euro per procedimento), che
non esclude il risarcimento di altri tipi di danni
(patrimoniali, biologici e morali).
Gli interessati
A prima lettura sembra che l'indennizzo spetti a tutti
coloro i quali colloquiano con uffici pubblici in veste
imprenditoriale: quindi spetta anche ai professionisti, che
in più campi (come sottolinea l'Antitrust) sono assimilati
agli imprenditori. Per tutti gli altri cittadini, dagli
studenti alle casalinghe, l'indennizzo è rinviato di almeno
18 mesi. Le amministrazioni cui si può chiedere l'indennizzo
da ritardo sono quelle centrali e locali, compresi i
soggetti privati preposti all'esercizio di attività
amministrative (concessionari, società pubbliche), e inclusi
gli "organismi di diritto pubblico" e quelli che l'Istat ha
codificato come soggetti pubblici.
I casi di esclusione
Nulla spetta nei casi in cui l'inerzia dell'amministrazione
ha già di per se un significato, attribuitogli dalla legge.
Ad esempio, in materia di accesso ai documenti, il 31°
giorno dall'istanza di rilascio di una copia già esprime un
diniego all'interessato. Non generano indennizzo i
comportamenti taciti qualificati (dalla legge) come
“diniego”, cioè quelli che l'interessato può immediatamente
percepire come un ostacolo alla propria richiesta. Se,
infatti, l'interessato può desumere già dal silenzio la
volontà dell'amministrazione a lui sfavorevole, non vi è
motivo per accordare un indennizzo.
L'indennizzo infatti spetta per l'incertezza che confonde
l'imprenditore interessato, il quale non sa se otterrà il
provvedimento. Ad esempio, se l'imprenditore edile chiede un
permesso di costruire in area vincolata sotto l'aspetto
ambientale (adiacente a un corso d'acqua) già il 30° giorno
passato senza notizie mette in grado di capire che
l'autorità competente è ostile al progetto (articolo 20,
comma 9, Dpr 380/2001, modificato dal decreto del fare del
giugno 2013).
Silenzio rigetto e silenzio rifiuto
Il silenzio diniego è simile a un negativo fotografico,
perché con un'adeguata lettura se ne può dedurre il
contenuto. Il silenzio rifiuto è invece privo di qualsiasi
contenuto interpretabile e quindi paralizza l'attività del
privato (e perciò genera un indennizzo).
Chi ottiene un silenzio rigetto (che esprime una specifica
volontà negativa della Pa) può contestare l'opinione
dell'ente pubblico, dimostrando di avere tutti i presupposti
per ottenere il provvedimento favorevole. Chi è destinatario
di un silenzio rifiuto (privo di significato) ha meno spazi
e può solo chiedere al giudice amministrativo (entro un
anno) l'accertamento dell'obbligo di provvedere e la
verifica della fondatezza della sua pretesa (articoli 31 e
117 Dlgs 104/2010).
Pochi mesi fa, la legge anticorruzione
(articolo 38, legge 190/2012) sembrava aver obbligato la Pa
ad esprimersi sempre in modo chiaro, non trincerandosi
dietro un silenzio, con la minaccia di un potere sostitutivo
del superiore gerarchico. Evidentemente, questo passo in
avanti è stato ritenuto eccessivo, e con il pagamento di 30
euro al giorno l'amministrazione riconquista il potere di
non esprimersi nei tempi di legge. Il paradosso è ancor più
evidente in quanto è la stessa amministrazione ad essersi
data i tempi del procedimento, attraverso un'analisi delle
strutture organizzative (Dpcm 21.03.2013 n. 58).
Ci saranno poche speranze di indennizzo per chi partecipa a
concorsi pubblici, in quanto l'operato delle Commissioni
giudicatrici non è agevolmente cadenzabile. La procedura per
ottenere l'indennizzo è a sua volta articolata e non prevede
tempi brevi. L'imprenditore deve rivolgersi (entro sette
giorni dalla scadenza del termine) al responsabile del
potere sostitutivo (che è individuato sul sito internet
della singola Pa, ex articolo 2, comma 9-bis, legge
241/1990).
Quest'ultimo ha un proprio termine per provvedere (la metà
di quello che spettava al sostituito inadempiente) e se
perdura il silenzio, la somma verrà liquidata dallo stesso
soggetto che non ha provveduto in sostituzione (una sorta di
suicidio sotto l'aspetto della responsabilità contabile). Se
nemmeno il sostituto provvede alla liquidazione nel termine
di cinque giorni, l'imprenditore può rivolgersi al Tar entro
dieci giorni (con l'assistenza di un avvocato e costi
fiscali di oltre 300 euro)
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: DECRETO
DEL FARE/ Edilizia.
LE SEMPLIFICAZIONI/
Per le ristrutturazioni niente vincoli di sagoma.
L'innovazione non si applica agli immobili di carattere
storico-artistico.
Ristrutturazioni e ricostruzioni libere dalla sagoma
preesistente: lungo questa linea l'articolo 20 del decreto
legge 69 modifica una serie di norme del Testo unico
edilizia 380/2001 e, a cascata, opera sulle Regioni (Corte
costituzionale 309/2011).
Per sagoma si intende l'insieme dei punti che definiscono il
perimetro esterno dell'edificio, con la conseguenza che le
ristrutturazioni che dovevano rispettare l'identità di
sagoma lasciavano pochi spazi a innovazioni. Per esempio,
non era possibile, dovendo rispettare la sagoma, spostare
volumi o concentrare più piani su una diversa superficie. La
sagoma, insieme al concetto di volume e a quello di
destinazione d'uso, caratterizza ogni intervento edilizio:
poiché il volume è traslabile (anche a seguito della legge
70/2011, che ne consente la cessione) e la destinazione
d'uso opera per categorie, era rimasta solo la sagoma a
limitare le ristrutturazioni di più ampia portata. Ora che
si può ristrutturare e ricostruire senza rispettare la
sagoma precedente, si è definitivamente elasticizzato il
concetto di "fedeltà" che caratterizzava gli interventi di
edilizia sostitutiva.
La «Dia»
La dichiarazione di inizio attività (Dia "pesante" o super
Dia, articolo 22 del Testo unico 380/2001) può quindi
generare edifici diversi, conformi alle previsioni
urbanistiche vigenti al momento della ristrutturazione,
senza le rigidità conseguenti al formale rispetto della
sagoma precedente. Non è più sanzionabile come difformità
essenziale lo scostamento dal profilo autorizzato, abuso che
poteva determinare anche una riduzione in pristino perché la
ristrutturazione era considerata una nuova costruzione.
Questa conseguenza sembra anche applicabile agli abusi
antecedenti il decreto del fare: le attuali difformità di
sagoma, non essendo più sintomo di variazione essenziale,
possono essere oggetto di una ridotta sanzione pecuniaria.
L'innovazione non si applica agli immobili sottoposti a
vincoli in base al Codice dei beni culturali (decreto
legislativo 42/2004): da una prima lettura sembra che i
vincoli che non ammettono ristrutturazioni con diversa
sagoma siano quelli su specifici immobili
(storico-artistici) e non quelli su edifici posizionati in
zone sottoposte a vincolo (e non singolarmente vincolati,
come le zone vicine ai corsi d'acqua).
Ciò anche perché, nelle zone vincolate, l'intervento di
ristrutturazione, oggi liberato dalla sagoma preesistente, è
comunque soggetto a uno specifico titolo abilitativo
(permesso di costruire) e quindi deve essere sottoposto al
vaglio dell'autorità preposta alla tutela del vincolo
(articolo 22, comma 6, del Testo unico 380/2001).
Quindi, chi tentasse di ristrutturare in zona vincolata con
una Dia e senza rispettare la sagoma, incorrerebbe in un
abuso anche ambientale con l'unica, leggera, tolleranza
prevista dal Dpr 139/2010, ad esempio, per le falde del
tetto.
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Zone protette. Le mancate risposte del Comune.
Nelle aree vincolate silenzio con doppio valore.
Nelle zone sottoposte a vincoli ambientali, paesaggistici o
culturali cambia il significato del silenzio. In mancanza di
vincolo, il silenzio mantenuto dal dirigente per 30 giorni
dalla proposta dello sportello unico è un silenzio assenso
(articolo 20, comma 8, del Dpr 380/2001). Se c'è il vincolo
ambientale, paesaggistico o culturale, non c'è questa forma
di silenzio assenso, ma una procedura più complessa.
In
particolare, se l'autorità preposta alla tutela del vincolo
si esprime favorevolmente all'intervento, il Comune si deve
pronunciare entro i successivi 30 giorni. Il silenzio che
perduri oltre il trentesimo giorno è un silenzio rifiuto che
esprime unicamente un'inerzia del Comune, ma non una volontà
contraria all'intervento edilizio.
Se, invece, l'autorità
preposta alla tutela del vincolo si esprime in senso
sfavorevole all'intervento edilizio, il silenzio mantenuto
dal Comune nei successivi 30 giorni genera un rigetto, cioè
un espresso giudizio sfavorevole. Questo perché nel
procedimento di competenza del Comune confluiscono pareri di
più soggetti, mentre l'autorità che si esprime nei confronti
del richiedente è il solo Comune.
È quindi necessario
separare i vari contributi all'interno del procedimento,
imputando all'autorità che si esprime negativamente la
responsabilità del proprio dissenso. I diversi tipi di
silenzio (rifiuto o rigetto) hanno conseguenze differenti in
sede di contestazione, poiché il primo è un'omissione, il
secondo è equiparato a un parere sfavorevole.
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Il Suap. Nuovi ambiti di intervento.
Riviste le competenze dello sportello unico.
All'interno del Comune, il decreto del fare riordina le
attività dello sportello unico attività produttive (Suap),
cioè dell'ufficio cui il cittadino si rivolge convogliandovi
le varie fasi e i vari pareri che conducono al rilascio del
permesso di costruire. Con l'articolo 30 del decreto, (che
introduce l'articolo 23-bis nel Testo unico 380/2001) il Suap si interessa anche della Scia (Segnalazione certificata
di inizio attività) e della "comunicazione dell'inizio dei
lavori" (articolo 6, comma 2, Dpr 380/2001).
In particolare,
lo Sportello può fare da collettore di tutti gli atti di
assenso, pareri, visti e nulla osta che siano necessari e
quindi solleva il privato dall'onere di procurarsi questi
provvedimenti. Se i pareri non giungono al Suap entro 60
giorni se vi è un dissenso da parte di un'amministrazione
interpellata, il Suap convoca una conferenza di servizi
nella quale discutere e amalgamare le varie opinioni
(articolo 14, legge 241/1990). Se l'interessato si rivolge
al Suap e contestualmente presenta una Scia, non può
iniziare subito i lavori (come gli sarebbe consentito se non
si fosse rivolto al Suap per acquisire i vari pareri), ma
deve aspettare l'avvenuta acquisizione dei pareri o l'esito
positivo della conferenza dei servizi.
Per i centri storici le procedure hanno tempi più diluiti.
Si prevede, infatti, che per gli interventi eseguibili con
Scia, che determinino la modifica della sagoma rispetto
all'edifico preesistente o già assentito, si debbano
attendere 20 giorni dalla presentazione della Scia prima di
iniziare i lavori.
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Fabbricati. I certificati.
Agibilità per singoli edifici.
Diventa più snella la procedura per ottenere il rilascio del
certificato di agibilità. Fino a oggi, interventi complessi,
di più piani o di più edifici, potevano ottenere solo
un'unica e complessiva agibilità, con il risultato di dover
attendere, per commercializzare efficacemente gli immobili,
l'ultimazione di tutte le opere del complesso edilizio.
Inoltre, un'eventuale diffomità o eccedenza emersa per una
singola unità causava l'interruzione del procedimento di
rilascio dell'agibilità complessiva, generando forti
contrasti e liti civili. Ora, invece, è consentita la
richiesta dell'agibilità anche per singoli edifici o per
porzioni di essi. Ciò è possibile se le unità siano
funzionalmente autonome, e siano state realizzate e
collaudate (o dichiarate funzionali) le opere di
urbanizzazione primaria (fogne, servizi, verde pro quota).
Il rilascio del certificato potrà avvenire anche per le
singole unità immobiliari, nelle quali siano stati
completati gli impianti e le opere strutturali, consentendo
al venditore di agevolare la commercializzazione dei beni.
Se quindi si realizza un parco, singoli edifici potranno
essere dichiarati agibili indipendentemente dall'effettiva
ultimazione di tutte le opere previste. All'interno poi del
singolo edificio, può essere dichiarata agibile l'unità
effettivamente ultimata, anche se un'altra unità, per
esempio di difficile collocazione commerciale, rimane al
rustico in attesa di migliori momenti. La norma semplifica
le vendite ed evita garanzie e fideiussioni che di norma
fungevano da paracadute nei casi in cui si doveva attendere
l'ultimazione di un intero complesso prima di ottenere
l'agibilità.
Infine, una rilevante accelerazione deriva dalla possibilità
di autodichiarare l'agibilità da parte dei professionisti
del settore, senza quindi attendere l'intervento di tecnici
comunali. La dichiarazione ribalta le responsabilità sul
professionista, che però oggi ha il vantaggio di verificare
solo le singole unità
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.06.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: DECRETO
DEL FARE/ I CANTIERI.
Materiali da scavo e riporti, prove di cambio di regole.
Le definizioni restano ambigue: necessario ritoccarle in
Parlamento.
Il "decreto del fare" interviene anche sul fronte dei
cantieri e delle costruzioni, cercando da un lato di
limitare il campo di applicazione del lunare Dm 161/2012 sui
materiali di scavo e dall'altro di correggere il tiro sui
materiali di riporto, vittime di pregressi fraintendimenti e
pasticci normativi, dovuti a una non completa trasposizione
del Dm 471/1999 nella nuova disciplina sulle bonifiche del
Codice ambientale del 2006.
Il campo di applicazione
Il nuovo decreto con l'articolo 41, comma 2, aggiunge un
comma all'articolo 184-bis che il decreto legislativo
152/2006 ("Codice ambientale") dedica ai sottoprodotti e
stabilisce che il Dm 161/2012 «si applica solo alle terre e
rocce da scavo» che provengono da attività o opere soggette
a Via (Valutazione d'impatto ambientale) o ad Aia
(Autorizzazione integrata ambientale). Come è evidente,
dunque, il raggio di azione del Dm 161/2012 si restringe
moltissimo, restando riservato a opere di maggiore entità.
Le imprese e le associazioni di categoria conoscono bene la
"querelle" che si era instaurata tra chi voleva limitare
l'applicazione delle regole del Dm 161/2012 solo ai cantieri
che superavano i 6mila metri cubi di materiale prodotto e
chi, invece, la generalizzava a prescindere dai dati
dimensionali. Con la modifica si andrebbe ben oltre, poiché
ci possono essere cantieri che superano i 6.000 metri cubi
di materiale escavato ma le opere o le attività relative non
sono soggette ad Aia o Via.
Tuttavia, rimane un problema e anche grande: il nuovo
decreto riferisce la sua previsione escludente a "terre e
rocce da scavo", mentre il Dm 161/2012 è riferito ai
"materiali da scavo", cioè a un universo generalizzato di
materiali derivanti dai cantieri all'interno dei quali ci
sono anche le terre e le rocce da scavo, ma non solo.
Infatti, nei materiali da scavo contemplati dal Dm trovano
posto anche calcestruzzo, bentonite, polivinilcloruro (Pvc),
vetroresina, miscele cementizie e additivi per scavo
meccanizzato, oltre a materiali litoidi e residui di
lavorazione di materiali lapidei. È necessario, allora, che
in sede di conversione il Parlamento intervenga per
correggere il tiro e riallineare il campo di applicazione
del Dm 161/2012 con quello del nuovo decreto, altrimenti
sarà difficile applicare l'esenzione.
Il nuovo decreto, invece, chiarisce univocamente che il Dm
161/2012 non si applica all'immersione in mare di materiale
di escavo e attività di posa in mare di cavi e condotte
previste all'articolo 109 del decreto 152/2006.
Materiali di riporto
Su questo fronte, invece, il nuovo decreto modifica
l'articolo 3 del Dl 2/2012 (legge 28/2012) e stabilisce che
le matrici materiali di riporto sono costituite da una
miscela eterogenea di materiale di origine antropica
(residui e scarti di produzione e di consumo) e di terreno.
La nuova disposizione continua modificando radicalmente i
commi 2 e 3 dell'articolo 3 del Dl 2/2012 e il punto
dirimente diventa il test di cessione.
Infatti, affinché i riporti che rimangono all'interno del
cantiere siano considerati suolo, quindi matrice ambientale
(cioè non rifiuti), si dispone che devono essere sottoposti
al test di cessione effettuato sui materiali granulari in
base all'articolo 9 del Dm 05.02.1998. Il tutto, per
escludere rischi di contaminazione delle acque sotterranee
e, ove conformi, i riporti devono rispettare la disciplina
sulla bonifica. I riporti non conformi o sono rimossi o sono
resi conformi al test di cessione o sono sottoposti a messa
in sicurezza permanente con l'uso delle migliori tecniche
disponibili a costi sostenibili e che consentono di
utilizzare l'area senza rischi per la salute.
Sarà necessario che il Parlamento colga la conversione in
legge come l'occasione giusta per correggere un errore,
esentando i materiali di riporto dall'applicazione del già
citato Dm 161/2012. Questo Dm, infatti, prevede, anche se in
forme non sempre comprensibili e appropriate, la sua
applicazione alle matrici materiali di riporto. Però, se è
previsto che questi riporti siano esclusi dalla disciplina
sui rifiuti, non si capisce perché debbano entrare in quella
dei sottoprodotti cui il Dm 161 è riferito.
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Acqua di bonifica? Non è rifiuto.
La definizione. Vengono considerate scarichi.
L'articolo 41, comma 1 del decreto interviene sulle acque di
falda emunte durante le bonifiche e modifica radicalmente
l'articolo 243 del Codice ambientale (decreto legislativo
152/2006).
Innanzitutto, si dispone che l'eventuale rischio sanitario
dovuto ad acque di falda contaminate vada arginato con
misure di attenuazione e poi eliminato alla fonte. Inoltre,
le barriere fisiche o idrauliche sono ammesse solo se non è
altrimenti possibile intervenire sul rischio sanitario
associato alla circolazione delle acque emunte. Ora è
possibile immetterle nei cicli produttivi del sito.
Diversamente, l'immissione di acque emunte in acque
superficiali o in fognatura deve avvenire previa idonea
depurazione (anche in loco).
Con il comma 4, si modifica il
regime giuridico di tali acque che ora, se ne ricorrono i
presupposti, diventano "scarichi" cui si applica la parte III del Codice ambientale. Finora non era chiaro se le acque
emunte fossero acque o rifiuti allo stato liquido. La
distinzione non è di poco conto poiché muta totalmente
l'assetto legislativo e amministrativo di riferimento.
Il ministero dell'Ambiente le ha sempre considerate "rifiuti
liquidi" (con tutto ciò che ne deriva in termini di
autorizzazioni, scritture ambientali e costi) mentre una
fiorente giurisprudenza amministrativa era divisa equamente
tra le due opzioni. Ne è derivato uno scenario a macchia di
leopardo. Questa modifica era già stata inserita nei vari
decreti di semplificazione del Governo Monti ma era rimasta
senza esito. Nel frattempo il contenzioso continua a tutto
danno dei bilanci aziendali e nessun beneficio ambientale.
Ora, l'importante modifica del nuovo decreto richiama gli
elementi costitutivi della nozione di "scarico" del decreto
152/2006; sicché le acque emunte non vanno più considerate
rifiuti liquidi ma acque reflue industriali, se ricorrono le
caratteristiche dello scarico. I valori limite sono
determinati in massa. Il nuovo assetto consente alle imprese
di realizzare e gestire le opere necessarie con meno
difficoltà
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.06.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
DECRETO DEL FARE/
LA MEDIAZIONE.
Ritorna l'obbligo di cercare la conciliazione.
Aumenta lo spazio del giudice per proporre intese fra le
parti in secondo grado.
Ritorna la conciliazione come condizione di procedibilità
per le controversie in alcune materie chiave del contenzioso
civile. Il decreto legislativo n. 28 del 2010 aveva
introdotto nel nostro ordinamento l'istituto della cosiddetta
mediazione obbligatoria in attuazione della delega contenuta
nella legge 69/2009 che recepiva la direttiva comunitaria
52/2008 del 21.05.2008 «relativa a determinati aspetti
della mediazione in materia civile e commerciale».
L'incostituzionalità
Il decreto legislativo era stato dichiarato incostituzionale
dalla Consulta con la sentenza n. 272 del 2012 per eccesso
di delega legislativa, sul rilievo che la Legge delega aveva
recepito la direttiva comunitaria senza tracciare uno schema
di mediazione pregiudiziale obbligatoria e che, dunque, il
Governo aveva esorbitato dalle indicazioni del legislatore
delegante in violazione dell'articolo 77 della Costituzione.
La Corte costituzionale non aveva invece ravvisato profili
di illegittimità della mediazione obbligatoria rispetto al
diritto fondamentale di difesa sancito dall'articolo 24
della Carta costituzionale, ritenendo che la Direttiva
2008/52/CE potesse essere recepita dal legislatore nazionale
di qualsiasi Stato membro dell'Unione Europea, attraverso la
creazione di un modello domestico di mediazione delle liti
civili e commerciali formalmente, o sostanzialmente,
obbligatoria.
Il nuovo Governo è partito da questo riconoscimento per
introdurre nuovamente lo strumento della mediazione
obbligatoria attraverso il recente decreto legge contenente
sulle «Disposizioni per il rilancio dell'economia». In
particolare l'articolo 79 (Capo VIII «Misure in materia di
mediazione civile e commerciale») del decreto ha recuperato
l'istituto, sanando il vizio censurato dalla Corte
costituzionale di eccesso di delega, con lo scopo di
alleggerire il carico del contenzioso giudiziario «in
entrata», mentre altre disposizioni del decreto sono volte
allo smaltimento dell'arretrato.
Le esclusioni
L'istituto della mediazione obbligatoria è stato dunque
nuovamente inserito quale requisito di procedibilità per
quanto riguarda le cause in materia (i) di condominio, (ii)
diritti reali, (iii) divisione, (iv) successioni ereditarie,
(v) patti di famiglia, (vi) locazione, (vii) comodato, (viii)
affitto di aziende, (ix) risarcimento del danno derivante da
responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della
stampa o con altro mezzo di pubblicità, (x) contratti
assicurativi, bancari e finanziari.
Rispetto al passato sono state escluse le cause relative al
risarcimento dei danni da circolazione stradale, così come è
stata esclusa la pregiudizialità anche nell'ambito dei
procedimenti sommari di accertamento tecnico preventivo.
Allo stesso modo restano esclusi dall'ambito di applicazione
(a) i procedimenti per ingiunzione, inclusa l'opposizione,
fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e
sospensione della provvisoria esecuzione; (b) i procedimenti
per convalida di licenza o sfratto, (c) i procedimenti
possessori, (d) i procedimenti di opposizione o incidentali
di cognizione relativi all'esecuzione forzata; (e) i
procedimenti in camera di consiglio, ed infine (f) l'azione
civile esercitata nel processo penale.
I mediatori
Oltre alle modifiche sull'ambito di applicazione della
normativa, il legislatore d'urgenza ha compiuto altri
ritocchi al precedente impianto della mediazione
obbligatoria. In particolare, è stata riconosciuta la
qualifica di mediatore a tutti gli avvocati regolarmente
iscritti all'albo, esonerandoli quindi dal dover acquisire
il titolo attraverso la frequentazione di corsi formativi
specialistici. Il ruolo poi dell'avvocato viene valorizzato
attraverso la necessità voluta dal legislatore della
sottoscrizione dei verbali delle procedure anche da parte
degli avvocati difensori e non più solo dal soggetto
incaricato della mediazione.
Per quanto riguarda invece la durata della procedura di
conciliazione si è tentato di dare una stretta in termini di
efficacia, prevedendo: da un lato, una prima riunione di
carattere esplorativo, volta a verificare concretamente
l'esistenza di margini di successo della mediazione con
costi ridotti per le parti in caso di accertamento
dell'impossibilità di concludere la mediazione; dall'altro
lato, la riduzione della durata massima della procedura che
passa da quattro a tre mesi.
Il peso del giudice
Infine il nuovo decreto ha riconosciuto a favore del
giudice, anche in sede di giudizio di appello, la
possibilità –valutati la natura della causa, lo stato
dell'istruzione e il comportamento delle parti– di
disporre, sino all'udienza di precisazione delle conclusioni
ovvero della discussione finale, l'esperimento del
procedimento di mediazione, indicando l'organismo di
mediazione.
Come detto, il decreto "del fare" (così è stato ribattezzato
il decreto legge) ha come obiettivo quello di dare ossigeno
al nostro sistema giudiziario civile attraverso una serie di
interventi che incidono sull'incremento dei giudici (con
ricorso a figure non togate) per lo smaltimento
dell'arretrato, nonché attraverso forme deflattive del
contenzioso sia già iniziato (estensione della conciliazione
obbligatoria tipica del processo del lavoro anche al
giudizio civile ordinario) ovvero prima ancora che venga
proposto attraverso la mediazione obbligatoria
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.06.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
DECRETO DEL FARE/ Il dl sviluppo prevede il diritto a un
(mini) indennizzo. Corsa a ostacoli per ottenerlo.
Ritardi della p.a., per le imprese oltre al danno anche la
beffa.
Piccolo indennizzo dalla p.a. per le imprese vittime di
ritardi burocratici nei procedimenti relativi all'avvio e
all'esercizio dell'attività. Si comincia a sperimentare (per
un anno e mezzo), nel settore delle imprese, il principio
per cui basta il superamento del termine massimo per la
conclusione del procedimento avviato con una istanza a fare
nascere il diritto al risarcimento, che però non può
superare i 2 mila euro. Ma niente risarcimento pieno: ci si
deve accontentare. E bisogna chiederlo subito, altrimenti si
perde tutto. Senza dimenticare che la tecnica usata (tetto
massimo insuperabile all'indennizzo) favorisce
l'allungamento del ritardo.
Il decreto del «Fare» (dl n. 69 del 21.06.2013
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 144 del 21.06.2013) da un lato introduce un istituto rivoluzionario
(risarcimento per il solo ritardo), ma, dall'altro lato,
costruisce un procedimento in cui per ottenere il beneficio
bisogna fare una corsa ad ostacoli e in cui il vantaggio
viene azzerato se l'impresa non ha diritto all'accoglimento
dell'istanza.
Meglio di niente, ma il nuovo sistema potrebbe rivelarsi una
puntura di zanzara sul corpo di un pachiderma.
Diritto all'indennizzo. Il sistema sembra ben congegnato:
l'impresa deve essere da subito informata del diritto
all'indennizzo e deve attivarsi per chiederlo;
parallelamente si sviluppa anche l'iter del ricorso al Tar
per ottenere i provvedimento e quello della responsabilità
del funzionario pubblico.
Il governo, innanzi tutto, ha stabilito il principio:
l'impresa ha diritto a che l'amministrazione pubblica sia
sollecita anche a rispondere, magari bocciando la richiesta,
purché senza lungaggini. Ma la p.a. non deve fare aspettare
troppo, magari per poi dire di no, oppure dire di sì quando
l'assenso non interessa più.
Il diritto di avere una risposta tempestiva a prescindere
dall'accoglibilità della richiesta, che pure aveva trovato
affermazione in qualche sentenza del Consiglio di stato,
diventa regola dell'ordinamento. A ciò corrisponde il
vantaggio per le imprese di sapere se un progetto può andare
avanti e se un investimento merita di essere proseguito, in
attesa del via libera definito dell'amministrazione
competente.
La norma ha però il suo limite nella forfettizzazione
dell'indennità limitata a una cifra molto bassa. Tra l'altro
la norma esclude che possa essere chiesta una cifra
superiore, in quanto qualifica il beneficio come
«indennizzo» e non come «risarcimento». In sostanza
l'indennizzo è garantito, ma se un'impresa ha subito un
danno ben superiore dalla cifra massima stabilita dalla
legge, se lo deve tenere e non può rivalersi sulla pubblica
amministrazione ritardataria. Naturalmente ci si riferisce
all'indennizzo da mero ritardo. Se la p.a. ha agito con dolo
o colpa spetta anche il risarcimento.
Un percorso (anzi, una corsa) a ostacoli. Tornando
all'indennizzo per il solo fatto del ritardo (senza
verificare se c'è stata dolo o colpa), attenzione comunque a
superare tutti gli ostacoli disseminati dalla disposizione.
Innanzi tutto deve trattarsi di un procedimento a istanza di
parte, per cui la legge prevede l'obbligo di pronunciarsi:
devono essere procedimenti regolati da una norma che prevede
un atto finale da parte dell'ente competente. Sono esclusi i
casi di silenzio-assenso o silenzio-rigetto e i concorsi
pubblici.
In sostanza un'impresa presenta un'istanza e aspetta che
decorra il termine massimo previsto per quel singolo
procedimento.
Anche questo è un trabocchetto a sfavore delle imprese:
dilatare il termine di conclusione del procedimento
significa rinviare l'indennizzo.
L'impresa o il suo consulente deve premurarsi di segnare in
agenda quel termine, recuperandolo dalla comunicazione che
la p.a. è tenuta a fare all'inizio del procedimento
(comunicazione di avvio del procedimento). E se la p.a. è
negligente e non fa la comunicazione di avvio, meglio essere
prudenti e recuperare il termine massimo dalla legge o dai
regolamenti dell'ente, oppure chiedendolo espressamente
all'ente procedente.
Anche il decreto legge vuole facilitare il compito alle
imprese e prevede che nella comunicazione di avvio del
procedimento e nelle informazioni sul procedimento deve
essere segnalato il diritto all'indennizzo, le modalità e i
termini per conseguirlo e deve anche essere indicato il
soggetto cui è attribuito il potere sostitutivo e i termini
a questo assegnati per la conclusione del procedimento.
Bisogna, comunque, segnarsi in agenda la data finale a
disposizione delle pa, perché entro e non oltre sette giorni
dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento
bisogna mandare un sollecito formale all'ufficio. Se non lo
si fa, l'indennizzo sfuma.
Da notare l'asimmetria: la p.a. può essere lenta, ma per
essere indennizzati dalla amministrazione lenta,
l'interessato deve correre e, se non lo fa, perde tutto
l'indennizzo. In ogni caso così è la norma. Entro sette
giorni si scrive una richiesta alla p.a. interessata e si
chiede l'intervento sostitutivo e cioè che qualcuno si
sostituisca al funzionario inerte e risponda.
Il termine di sette giorni è una tagliola, in quanto la
stesso decreto lo definisce termine decadenziale: o lo
rispetti o decadi. Chi non è decaduto potrà ottenere, a
titolo di indennizzo per il mero ritardo, una somma pari a
30 euro per ogni giorno di ritardo con decorrenza dalla data
di scadenza del termine del procedimento, comunque
complessivamente non superiore a 2 mila euro. Questo
significa che dal sessantasettesimo giorno di ritardo la
p.a. non paga niente. Ma significa anche che l'impresa non
può chiedere risarcimenti per perdite patrimoniali eccedenti
quella cifra e tanto meno per perdita di chance o lucro
cessante (salvo il dolo o la colpa).
Così come tecnicamente elaborata, la norma favorisce i
ritardi lunghi. Meglio sarebbe stato individuare una somma
crescente con il dilatarsi del ritardo. Come scritta non si
disincentivano affatto i ritardi, li si rende solo un po'
costosi.
Una volta sollecitato l'intervento sostitutivo, il
responsabile potrà, a sua volta, essere rispettoso dei tempi
oppure una lumaca.
Nel caso in cui anche il titolare del potere sostitutivo sia
lento e non emani il provvedimento nel termine (pari alla
metà di quello massimo) o non liquidi l'indennizzo maturato
a tale data, l'impresa potrà rivolgersi al Tar per ottenere
giustizia. Sia per chiedere l'atto sia per chiedere
l'indennizzo, oltre che, in caso di dolo o colpa della p.a.,
anche per chiedere il risarcimento.
Lo stato comunque ci guadagna le spese di giustizia, anche
se il contributo unificato è ridotto alla metà.
Ma attenzione, se l'impresa perde la causa per infondatezza
dell'istanza iniziale (se manifesta), il giudice condanna a
pagare in favore dell'ente pubblico una somma da due volte a
quattro volte il contributo unificato.
Si tratta di una disposizione che vuole disincentivare chi
crede di poter sfruttare le norme, facendo raffiche di
istanze al solo fine di lucrare sui ritardi: se le istanze
sono campate in aria, non solo si rischia di non prendere
nulla, ma se il Tar ritiene che l'istanza sia manifestamente
infondata, si rischia di sborsare quattrini alla pa.
Novità sperimentale.
Attenzione: la novità è sperimentale e non è detto che verrà
stabilizzata. Il decreto afferma che le novità si
applicheranno, in via sperimentale dalla data di entrata in
vigore della legge di conversione del decreto «Fare»,
ai procedimenti amministrativi relativi all'avvio e
all'esercizio dell'attività di impresa iniziati
successivamente alla data di entrata in vigore (articolo ItaliaOggi Sette
del 24.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
DECRETO DEL FARE/ Eliminati i vincoli burocratici per le
ristrutturazioni e per richiedere l'agibilità al comune.
Edilizia, meno lacci e lacciuoli.
Meno vincoli burocratici per le ristrutturazioni e per
richiedere l'agibilità al comune. Questo significa avere più
margine di azione per interventi edilizi sull'esistente e
vendite più veloci degli appartamenti finiti.
Il decreto del
Fare ritocca il Testo unico per l'edilizia (dpr 380/2001)
con novità favorevoli per le imprese. Tra cui anche
l'attribuzione alla p.a. del compito di recuperare i pareri
necessari per le segnalazioni certificate di inizio attività
(Scia) e di comunicazione per l'attività edilizia libera.
Vediamo dunque le disposizioni in materia di costruzioni.
Pareri a cura dello sportello unico. Viene attribuito allo
Sportello unico per l'edilizia il compito di acquisire i
pareri anche prima della presentazione della Scia. La norma
cambia nel senso che viene esteso a tutti i titoli edilizi
la possibilità di delegare all'amministrazione le incombenze
burocratiche di reperimento dei nulla osta.
Il Testo unico per l'edilizia non disciplina l'acquisizione,
da parte dello Sportello unico per l'edilizia (Sue), degli
atti di assenso presupposti all'inizio dei lavori nel caso
in cui l'intervento edilizio sia soggetto alla presentazione
della comunicazione di inizio lavori di attività edilizia
libera o della Scia edilizia. Il decreto estende la
disciplina prevista oggi solo per il permesso di costruire.
Il provvedimento, infatti, dispone che l'interessato possa,
prima di presentare la comunicazione o la Scia, richiedere
allo Sportello unico l'acquisizione di tutti gli atti di
assenso necessari per l'intervento edilizio. Lo Sportello si
deve attivare, come nel caso di richiesta di permesso di
costruire: se non sono rilasciati gli atti di assenso delle
altre amministrazioni pubbliche, o è intervenuto il dissenso
di una o più amministrazioni interpellate, il responsabile
dello Sportello unico indice la conferenza di servizi per
acquisirli.
Se, poi, l'istanza di acquisizione di tutti gli atti di
assenso è contestuale alla segnalazione certificata di
inizio attività, l'interessato potrà dare inizio ai lavori
solo dopo la comunicazione da parte dello Sportello unico
dell'avvenuta acquisizione degli atti di assenso o
dell'esito positivo della conferenza di servizi. Le novità
si applicano anche alla comunicazione dell'inizio dei lavori
per l'attività edilizia libera, qualora siano necessari atti
di assenso per la realizzazione dell'intervento edilizio.
Peraltro nei centri storici per gli interventi o le varianti
a permessi di costruire ai quali è applicabile la
segnalazione certificata d'inizio attività con modifiche
della sagoma rispetto all'edificio preesistente o già
assentito, i lavori non possono in ogni caso avere inizio
prima che siano decorsi venti giorni dalla data di
presentazione della segnalazione.
La delega alla p.a. di acquisire i pareri alleggerirà gli
oneri amministrativi per le imprese.
Termine lavori. Il decreto allunga di due anni i termini di
inizio e ultimazione dei lavori autorizzati con permesso di
costruire, Dia o Scia alla data di entrata in vigore della
norma. Il termine iniziale per l'avvio dei lavori
autorizzati con permesso di costruire è di un anno dal
rilascio del permesso, mentre, per ultimare l'opera, il
termine è fissato a tre anni dall'inizio dei lavori. I
lavori avviati dopo la presentazione di Dia o Scia edilizia
devono essere anch'essi ultimati entro tre anni. Questi
termini si allungano di un biennio, previa comunicazione del
soggetto interessato. Poiché la proroga è automatica, il
decreto consente di proseguire nei lavori senza necessità di
passare dall'ufficio tecnico comunale. Le imprese, quindi,
risparmiano il tempo e i costo di una pratica edilizia.
Senza contare che la proroga di legge impedisce di accertare
abusi edilizi per gli interventi realizzati dopo la scadenza
del termine iniziale.
Ricostruzione e ristrutturazione edilizia. Per il Testo
unico dell'edilizia costituiscono «interventi di
ristrutturazione edilizia» anche gli interventi che
consistono «nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente». Il decreto
elimina il requisito della medesima sagoma e, quindi, sono
ristrutturazioni edilizie anche gli interventi di
ricostruzione di un edificio con il medesimo volume
dell'edificio demolito, ma anche con sagoma diversa dal
precedente.
Costituiscono, quindi, ristrutturazione gli
interventi edilizi volti al ripristino di edifici, o parti
di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la
loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza. Conseguenza della modifica è che
la modifica della sagoma non è rilevante ai fini della
individuazione del permesso di costruire come titolo
abilitativo necessario (eliminazione del riferimento
contenuto nell'articolo 10, comma 1, lettera c) del Testo
unico per l'edilizia).
Con una eccezione. Con riferimento agli immobili sottoposti
a vincoli, gli interventi di demolizione e ricostruzione e
gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti
costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia
soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente.
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Certificato anche per le singole unità.
Il decreto modifica la disciplina del certificato di
agibilità, consentendone la richiesta anche per singoli
edifici o singole porzioni di uno stesso stabile. Questo a
condizione che le unità siano funzionalmente autonome, e
sempre che siano state realizzate e collaudate le opere di
urbanizzazione primaria relative all'intero intervento
edilizio e siano state completate le parti comuni relative
al singolo edificio o singola porzione della costruzione.
L'agibilità parziale potrà essere richiesta anche per
singole unità immobiliari.
Nei casi di rilascio del
certificato di agibilità parziale prima della scadenza del
termine entro il quale l'opera deve essere completata, lo
stesso è prorogato per una sola volta di tre anni. Viene,
inoltre, individuato un procedimento alternativo alla
richiesta di agibilità. Se l'interessato non propone domanda
deve presentare la dichiarazione del direttore dei lavori o,
qualora non nominato, di un professionista abilitato, con la
quale si attesta la conformità dell'opera al progetto
presentato e la sua agibilità e allegare la richiesta di
accatastamento dell'edificio e la dichiarazione dell'impresa
installatrice di conformità degli impianti.
Attività edilizia libera. Una dichiarazione in meno per la
comunicazione di inizio lavori. Il Testo unico per
l'edilizia prevede per l'attività edilizia libera l'invio di
una comunicazione dell'inizio dei lavori, a cui deve essere
allegata una relazione asseverata firmata da un tecnico
abilitato, che dichiari di non avere rapporti di dipendenza
con l'impresa né con il committente. Il decreto dispone di
eliminare tale dichiarazione da parte del tecnico abilitato.
Vincoli ambientali. Si passa dal silenzio-rifiuto al
silenzio-rigetto, immediatamente impugnabile. Secondo il
Testo unico per l'edilizia (dpr 380/2001), nel caso in cui
manchi un atto di assenso per vincolo ambientale,
paesaggistico e culturale, si viene a formare il silenzio
rifiuto. Il dl modifica il procedimento in caso di immobili
vincolati. Se l'assenso dell'autorità preposta al vincolo è
favorevole, il comune sarà tenuto a concludere il
procedimento di rilascio del permesso di costruire con un
provvedimento espresso e motivato. Se l'atto di assenso
viene negato, decorso il termine per il rilascio del
permesso di costruire, questo si intenderà respinto (articolo ItaliaOggi Sette del
24.06.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Le regole riformulate dal decreto del Fare sulla gestione
dei materiali come sottoprodotti.
Terre da scavo, conta l'attività.
Meno adempimenti se il cantiere è a basso impatto.
Sarà il potenziale impatto ambientale dell'attività da cui
derivano a determinare le regole cui le terre e rocce da
scavo (non contaminate e destinate al riutilizzo in altro
sito) dovranno essere sottoposte per poter essere gestite
come «sottoprodotti» invece di veri e propri «rifiuti».
Infatti, a parità di caratteristiche qualitative, se
provenienti da attività ed opere soggette a «Via» e «Aia»
(ossia Valutazione di impatto ambientale e Autorizzazione
integrata ambientale) i citati residui potranno essere
gestiti fuori dal regime dei rifiuti solo se rispetteranno
le specifiche disposizioni tecniche e burocratiche sancite
dal dm 161/2012, laddove gli stessi materiali, se
provenienti da altre imprese, potranno essere gestiti come
«sottoprodotti» dietro il semplice rispetto delle condizioni
generali stabilite in materia dal «Codice ambientale» (dlgs
152/2006).
Questo il nuovo scenario normativo disegnato dal
cosiddetto decreto legge «del fare».
Materiali da scavo e «sottoprodotti». Tecnicamente,
l'intervento in materia viene effettuato dal legislatore
d'urgenza tramite la semplice delimitazione del campo di
applicazione del dm Ambiente 161/2012 alle citate attività,
delimitazione però che, innestandosi sulla complessa
disciplina del dlgs 152/2006, provoca a valle una completa
riformulazione della materia.
Fermo restando il principio in base al quale ogni sostanza o
oggetto costituisce un «rifiuto» qualora il suo detentore
intende disfarsene, il Codice ambientale prevede infatti
diverse categorie di materiali da scavo, disciplinandone
differentemente la gestione ossia:
1) il suolo non contaminato e il materiale allo stato
naturale riutilizzato nello stesso sito di scavo (escluso ex lege dalla disciplina dei rifiuti in forza dell'articolo 185
del Codice);
2) il suolo escavato e contaminato destinato a utilizzo in
altro sito (deve essere obbligatoriamente gestito come
rifiuto);
3) il suolo escavato non contaminato e altro materiale allo
stato naturale utilizzati in siti diversi da quelli di scavo
(gestibili fuori dalla disciplina dei rifiuti solo se
rispettano le condizioni per poter essere inquadrati come
«sottoprodotti»). Ed è proprio sulle condizioni specifiche
per gestire come «sottoprodotti» tali ultimi materiali di
scavo che interviene il dl Fare, condizioni che sono però
già state oggetto di diversi interventi legislativi.
Stabilite inizialmente dall'articolo 186 del dlgs 152/2006,
tali regole sono infatti poi state sostituite dalle (più
severe) norme sancite dal dm Ambiente 161/2012, decreto che
dal 06.10.2012 si è imposto (in virtù della forza
conferitagli dal dlgs 152/2006) come unica disciplina di
riferimento in materia, provocando l'espressa abrogazione
del citato articolo 186 del Codice ambientale.
Stessi residui, regimi diversi. Il dl Fare interviene sul
citato assetto limitandosi, come accennato, l'applicabilità
del dm 161/2012 ai soli materiali da scavo (non contaminati
e destinati a riutilizzo extra situ) derivanti da attività
soggette a Via o Aua (ma a esclusione di quelle relative
alla posa in mare, disciplinate dall'articolo 109 del
Codice).
A seguito di tale previsione, ne deriva che per la gestione
come sottoprodotti delle terre e rocce derivanti dalle
attività a minor impatto ambientale (dunque, quelle non
«Via» o «Aua») sarà dunque sufficiente (stante la perdurante
abrogazione dell'originaria disciplina prevista
dall'articolo 186 del dlgs 152/2006) il rispetto del (sempre
operativo e) articolo 184-bis del Codice ambientale sui
sottoprodotti in generale ed a mente del quale (si ricorda)
non sono «rifiuti» i residui che:
- sono originati da un processo di produzione di cui
costituiscono parte integrante e il cui scopo primario non
sia la loro produzione;
- sono destinati a riutilizzo certo ed effettuato nel corso
dello stesso o successivo processo di produzione o
utilizzazione;
- sono riutilizzabili direttamente senza alcun ulteriore
trattamento diverso dalla «normale pratica industriale»;
- sono oggetto di riutilizzo «legale» (ossia tale da
soddisfare i requisiti dei prodotti e senza impatti negativi
per ambiente e salute umana). E ciò laddove le più grevi
regole del dm 161/2012 prevedono invece il rispetto di
precisi criteri qualitativi e adempimenti formali per il
deposito e trasporto dei sottoprodotti.
Materiali di riporto. Da ultimo, il dl Fare interviene in
materia anche in relazione alla disciplina dei «materiali di
riporto» eventualmente contenuti nel suolo (ossia i
materiali di origine antropica entrati a far parte dello
stesso).
E ciò sia specificando la definizione datane dal dl 2/2012
(provvedimento di interpretazione autentica del dlgs
152/2006) sia stabilendo espressamente come la loro gestione
al di fuori del regime dei rifiuti (ai sensi dello stesso
Codice ambientale) sia possibile solo ove essi materiali di
riporto risultino conformi ai limiti massimi previsti dai «test
di cessione» (articolo ItaliaOggi Sette
del 24.06.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
TEMPI SPRINT E COSTI BASSI: LA MEDIAZIONE TORNA IN GIOCO.
Tre mesi per chiudere il procedimento. Conto massimo di 200
euro se salta l'intesa.
Sarà la volta buona? Visti i precedenti della mediazione
civile, la domanda è d'obbligo. Dopo le proteste degli
avvocati, dopo la bocciatura della Corte costituzionale, il
Governo con il decreto "del fare" ha rilanciato in grande
stile la mediazione.
L'obiettivo è sempre lo stesso: fare in modo che le parti
tentino di mettersi d'accordo, prima di iniziare un processo
in piena regola e ammucchiare altri fascicoli sulle
scrivanie dei giudici. Nello schema messo a punto dal
Governo, però, cambiano alcuni aspetti chiave della
procedura: si abbreviano i tempi entro cui bisogna
raggiungere un'intesa (da quattro a tre mesi), si introduce
un primo incontro «di programmazione» con il mediatore, da
convocare entro 30 giorni dalla domanda di conciliazione, e
si prevedono costi ridotti a carico delle parti se già nel
corso di questo primo contatto si capisce che è impossibile
trovare un accordo.
Ad esempio, secondo la versione definitiva del Dl 69/2013
(diversa dalle bozze circolate nei giorni scorsi), in caso
di fallimento del tentativo, ogni parte pagherà al massimo
100 euro per una lite che ne vale tra mille e 10mila. E in
questo importo sono inclusi anche i 40 euro di spese di
avvio del procedimento.
La posizione degli avvocati
Altre due novità previste dal Governo puntano a valorizzare
il ruolo dell'avvocato. Da un lato, si prevede che l'accordo
finale dev'essere sottoscritto da un legale per poter
ottenere l'omologazione da parte del giudice, a sua volta
necessaria affinché l'intesa valga come titolo esecutivo.
Dall'altro, si dice che tutti gli iscritti all'albo sono
mediatori di diritto (con buona pace di quegli avvocati, per
lo più giovani, che negli anni scorsi hanno investito tempo
e denaro nei corsi per diventare mediatori).
Queste due aperture, però, non sembrano aver placato le
proteste della categoria. La prova è nelle reazioni arrivate
subito il varo del decreto "del fare": l'Organismo unitario
dell'avvocatura (Oua) ha chiesto al presidente Napolitano di
non firmare, convocando per domani un'assemblea
straordinaria e minacciando l'astensione dalle udienze. Ma
c'è anche chi evoca altri ricorsi come quello poi sfociato
nella pronuncia 272/2012 della Consulta, che a dicembre
dell'anno scorso ha bocciato la conciliazione. Il motivo
della bocciatura, infatti, è stato un semplice eccesso di
delega, mentre resterebbero da analizzare nel merito le
presunte lesioni del diritto di difesa dei cittadini (su cui
non si è espressa neppure l'ordinanza di rigetto 156/2013
depositata venerdì scorso dalla Corte).
Le condizioni del debutto
A calmare le acque potrebbe essere l'apertura del ministro
della Giustizia, Annamaria Cancellieri, che ha accettato di
incontrare l'avvocatura e il presidente del Consiglio
nazionale forense, Guido Alpa.
D'altra parte, il Dl 69 introduce una sorta di fase di
decantazione, in cui cercherà di inserirsi chi pretende una
correzione delle regole. Le nuove regole sulla mediazione,
infatti, saranno operative solo una volta trascorsi 30
giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione.
Quindi, al massimo, entro il 20 settembre.
Nel frattempo, resta la situazione di emergenza della
giustizia civile italiana, che affossa la competitività del
sistema-Paese. Come rilevato da uno studio dell'Ocse
pubblicato venerdì scorso, l'Italia è all'ultimo posto per
durata dei processi tra gli Stati aderenti
all'organizzazione: 2.866 giorni in media, dal primo grado
alla Cassazione. Quasi otto anni, contro i due e mezzo della
Francia.
Si spiega anche con questi dati la volontà del Governo di
rilanciare la mediazione, anche se i danni derivanti dalla
circolazione stradale sono usciti dalla lista delle materie
per cui è obbligatoria. Una scelta forse dettata dalla
necessità di studiare misure specifiche per un settore in
cui –accanto ai privati– nelle liti sono coinvolti anche
operatori strutturati come le compagnie assicurative.
La conciliazione nel processo
Accanto al ripristino della mediazione come «condizione di
procedibilità» del giudizio, il Governo rafforza anche la
conciliazione all'interno del processo.
Il giudice potrà letteralmente mandare le parti davanti a un
organismo di mediazione, anziché semplicemente «invitarle
a trovare un accordo». Inoltre, viene previsto che il
giudice –entro la fine dell'istruttoria– formuli alle parti
una proposta transattiva o conciliativa, il cui rifiuto
senza giustificato motivo costituirà comportamento
valutabile ai fini della sentenza (articolo Il Sole 24 Ore
del 24.06.2013). |
SEGRETARI COMUNALI:
Retribuzione di posizione, scontro segretari-Inps
LA CONTESA/
Ancora numerosi i ricorsi sulla valutazione a fini
previdenziali delle maggiorazioni alla voce stipendiale.
Lo scontro fra segretari comunali e provinciali e l'Inps
sulla maggiorazione della retribuzione di posizione non ha
visto ancora la parola fine. Ora anche la giurisprudenza, un
tempo a fianco dei segretari, registra alcune sentenze
favorevoli all'istituto di previdenza. Ma oggi, forse, i
segretari hanno qualche ragione in più.
Così si può
riassumere lo stato attuale dell'annosa vicenda che riguarda
la valutazione ai fini pensionistici della maggiorazione
della retribuzione di posizione prevista dall'articolo 41,
comma 4, del Ccnl del 16.05.2001.
I segretari comunali e provinciali sostengono che la
maggiorazione abbia la stessa natura della retribuzione di
posizione, forti di un parere Aran che va in questa
direzione. Concludono, quindi, con la valutazione di
entrambe le voci stipendiali in quota «A» della pensione.
L'Inps, invece, afferma che i due emolumenti non possono
essere considerati omogenei, perché la retribuzione di
posizione è fissa e continuativa e il suo importo è
stabilito dal Ccnl, mentre, per la maggiorazione, il Ccdi
del 22.12.2003 individua condizioni soggettive e
oggettive in presenza delle quali l'ente può (e non deve)
riconoscere la maggiorazione.
Ovviamente i segretari,
pensionati, ricorrono contro i provvedimenti che considerano
la maggiorazione in quota «B»: negli anni passati, molte
sentenze hanno accolto questi ricorsi. Nonostante questo
orientamento giurisprudenziale, l'ex Inpdap (note operative
11/2006 e 23/2011), persevera sulla propria posizione. Ma il
vento sembra cambiare, e la Corte dei conti, in sede di
appello, sembra riportarsi in linea con l'istituto di
previdenza (Sezione III, sentenze 279/2013 e 293/2013).
L'Unione segretari torna alla carica, forte del fatto che,
oggi, i segretari sono dipendenti del ministero
dell'Interno. E chiedono all'Inps di mettere nero su bianco
il motivo per il quale i loro colleghi, dirigenti
ministeriali, si vedono valutata in maniera più pesante sia
la retribuzione di posizione di parte fissa, sia quella di
parte variabile, come pure i dirigenti e i titolari di
posizione organizzativa degli enti locali, mentre per i
segretari si persiste in un atteggiamento contrario, con una
disparità di trattamento.
Anche a questo, l'Inps risponde richiamando la sentenza
della Corte dei conti del Piemonte 124/ 2012, in cui si
evidenzia la non sovrapponibilità della struttura
retributiva dei segretari e delle altre figure dirigenziali,
confermata dalla presenza di un comparto di contrattazione
ad hoc. L'Unione ha dunque scritto nuovamente
all'Inps e al presidente della Corte dei conti, ribattendo,
punto per punto, sulle ragioni di una valutazione in quota
«A» della maggiorazione. Non resta che attendere i prossimi
sviluppi (articolo Il Sole 24 Ore
del 24.06.2013). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Non sussiste l'obbligo della previa comunicazione
di avvio del procedimento nel caso di adozione del
provvedimento di revoca di in presenza di un'informativa
prefettizia antimafia sfavorevole.
Il sistema delle informative essendo ispirato alla logica
della massima anticipazione della soglia di difesa sociale
non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede
penale di carattere definitivo, ma può essere sorretta da
elementi sintomatici e indiziari.
L'adozione del provvedimento di revoca di un'aggiudicazione
o comunque di un incarico di svolgimento di pubblico
servizio, in presenza di un'informativa prefettizia
antimafia sfavorevole, configura un provvedimento non
soltanto fortemente caratterizzato nel profilo
contenutistico, ma anche connotato dall'urgenza del
provvedere.
Ad escludere l'obbligo della previa comunicazione di avvio
del procedimento concorre, quindi, il carattere
spiccatamente cautelare della misura, che fa rilevare quelle
esigenze di celerità, che rendono giustificata l'omissione
della notizia partecipativa altrimenti prescritta. Pertanto,
nel caso di specie, va respinta, in quanto priva di
fondamento giuridico, la doglianza svolta con riguardo
all'asserita violazione delle garanzie di comunicazione e
partecipazione al procedimento.
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Il sistema delle informative essendo ispirato alla logica
della massima anticipazione della soglia di difesa sociale,
finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del
contrasto alle attività della criminalità organizzata, la
misura interdittiva non deve necessariamente collegarsi ad
accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi
sull'esistenza della contiguità dell'impresa con
organizzazione malavitose, e quindi del condizionamento in
atto dell'attività di impresa, ma può essere sorretta da
elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti
elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di
ingerenza nell'attività imprenditoriale della criminalità
organizzata.
L'unico limite è rappresentato dalla non spendibilità -a
salvaguardia dei principi di legalità e di certezza del
diritto- di elementi di semplice sospetto o meramente
congetturali, privi di riscontro fattuale (TAR Piemonte,
Sez. I,
sentenza 27.06.2013 n. 787 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sulla portata dell'art. 12 del D.L. 07.05.2012,
n. 52, riguardante l'obbligo di seduta pubblica per la fase
di apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche.
L'art. 12 del D.L. 07.05.2012, n. 52, riguardante l'obbligo
di seduta pubblica per la fase di apertura dei plichi
contenenti le offerte tecniche non ha portata ricognitiva
del principio affermato con la pronuncia n. 13 del 2011 ma
ha la specifica funzione transitoria di salvaguardare gli
effetti delle procedure concluse o pendenti alla data del 9
maggio 2012, nelle quali si sia proceduto all'apertura dei
plichi in seduta riservata, recando in sostanza, per questo
aspetto, una sanatoria di tali procedure.
L'orientamento volto a riconoscere la natura sanante
dell'art. 12 del D.L. 07.05.2012, n. 52 è diretto a
contenere gli oneri amministrativi ed economici che
deriverebbero della caducazione, altrimenti inevitabile, di
centinaia di gare che, diversamente, sarebbero di fatto
travolte per il mero mancato rispetto dei canoni di
pubblicità dell'apertura dei plichi contenenti le offerte
tecniche, in assenza di qualsivoglia indizio circa la
manomissione o l'occultamento degli stessi da parte
dell'amministrazione.
Non può, invero, non riconoscersi a tale tesi un'utilità non
trascurabile dal punto di vista della deflazione del
contenzioso amministrativo e del rispetto del principio di
affidamento e buona fede, da riferire tanto alla stazione
appaltante, quanto all'impresa aggiudicataria della gara,
che legittimamente può avere confidato sulla vigenza di
determinate regole procedimentali (Consiglio di Stato,
Adunanza Plenaria,
sentenza 27.06.2013 n. 16 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI FORNITURE:
E' legittima l'esclusione di un concorrente per
tardivo deposito della campionatura oggetto di offerta.
E' legittima
l'esclusione di un concorrente per tardivo deposito di una
parte della campionatura oggetto di fornitura, in quanto la
campionatura era funzionale alla valutazione delle offerte
da parte della commissione di gara.
Infatti, la stessa era indicata quale elemento da produrre a
corredo della relazione tecnica (quest'ultima da inserire
senz'altro nel plico contenente l'offerta tecnica) e che,
pertanto, solo per ovvie ragioni di spazio la campionatura
non doveva essere inserita nei plichi contenenti le offerte,
pur dovendosi rispettare, per il suo deposito, la medesima
scansione temporale fissata per la presentazione delle
offerte (in particolare, la lex specialis disponeva
che la stessa doveva essere prodotta "entro il termine di
scadenza per la presentazione delle offerte").
Né, nel casi di specie, ha motivo di porsi, un problema di
possibile violazione dell'art. 46, c. 1-bis, del d.lgs.
n.163 del 2006, che sancisce la tassatività delle clausole
di esclusione; per vero, è lo stesso art. 42, c. 1, lett.
l), del Codice dei contratti pubblici a prevedere, negli
appalti di forniture, il deposito di campioni quale
ordinaria modalità di prova del requisito di capacità
tecnica, di tal che la clausola del bando risulta coerente
con la richiamata previsione di rango primario, sia con
riguardo alla natura dell'incombente posto a carico degli
offerenti, sia in relazione alla necessità di fissare un
termine perentorio per il deposito dei campioni di fornitura
(in quanto funzionale a comprovare il requisito di capacità
tecnica dell'offerente).
Va ritenuta immune da vizi, pertanto, la determinazione di
esclusione assunta dall'Università in danno della originaria
ricorrente che, avendo tardivamente prodotto la campionatura
oggetto di offerta, era senz'altro da escludere dalla
selezione, anche a garanzia del principio della par
condicio competitorum (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 26.06.2013 n. 3516 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’urbanistica sovrintende al razionale
sfruttamento antropico del territorio e trova nella
disciplina edilizia la sua attuazione concreta; per questo,
l’urbanistica mira ad asservire l’attività edilizia pubblica
e privata ad atti di programmazione generale tendenti a
tracciare le coordinate fondamentali per un uso razionale e
sapiente del territorio, ai fini di preservarlo per il
futuro, con un’attenzione verso diversi interessi, tutti
inevitabilmente coinvolti nell’attività edilizia, assistiti
di volta in volta da legislazioni di settore orientate alla
loro specifica salvaguardia (economia, salute, paesaggio,
ambiente).
Il paesaggio attiene invece alla preservazione di
valori estetici, storici, culturali, i quali sono difesi con
la previsione di vincoli conformativi, diretti ed indiretti,
che ne limitano in concreto le possibilità di intervento,
normalmente ammesse su altri beni non rilevanti per questi
profili.
Ciò spiega perché non è possibile estendere automaticamente
la disciplina urbanistico-edilizia ai bene paesaggistici,
ossia a beni particolari ad “uso controllato".
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Nonostante gli elementi specifici e propri che coinvolgono
l’interesse paesaggistico, l’osservanza delle regole
ermeneutiche che impongono una rigorosa interpretazione
letterale dell’art. 167 d.lgs. 42/2004 non esclude affatto
che il volume tecnico, rispetto alla nozione di volume
edilizio, possa ricevere, in considerazione della peculiare
destinazione funzionale, una valutazione differenziata, caso
per caso, suscettibile di concludersi con l’autorizzazione
paesaggistica postuma, qualora in concreto il manufatto non
presenti elementi incompatibili o comunque di estraneità con
il paesaggio nel quale è destinato a collocarsi.
A questa soluzione il Collegio perviene sulla base di
un’attenta indagine sul concetto di volume tecnico.
E’ tale l’opera edilizia priva di autonomia funzionale,
anche potenziale, perché destinata a contenere impianti al
servizio di una costruzione principale, destinati
esclusivamente a soddisfare esigenze tecniche e funzionali
dell’abitazione e che non possono essere ubicati all’interno
di questa.
Tre sono i parametri utili per identificare la nozione di
volume tecnico:
- il primo, di tipo funzionale, secondo cui l’opera
che costituisce volume tecnico deve assumere un rapporto di
strumentalità necessaria rispetto alla costruzione
principale perché ne consente un migliore e più efficiente
utilizzo;
- il secondo ed il terzo di tipo strutturale,
nel senso che, da un lato, la collocazione esterna del
volume tecnico appare l’unica soluzione praticabile per
impossibilità di ricorrere a soluzioni progettuali diverse
e, dall’altro, deve esistere un rapporto di necessaria
proporzionalità tra volume tecnico e costruzione principale.
Nella nozione di volume tecnico non rientrano, ad esempio,
le soffitte, gli stenditoio chiusi e quelli di sgombero, i
piani di copertura qualora, impropriamente considerati
sottotetti, costituiscano in realtà mansarde perché dotate
di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda.
Devono invece considerarsi gli impianti serventi connessi a
condotte idrica, termica o all’ascensore.
Il Collegio è dell’avviso che il concetto di volume tecnico
sia rilevante non solo per gli aspetti urbanistici ed
edilizi ma anche ai fini della valutazione paesaggistica,
tanto da sottrarlo, in sede di accertamento postumo in
sanatoria, alla preclusione fissata dall’art. 167, comma 4,
lett. a), d.lgs. 42/2004. Questo perché l’attributo
“tecnico”, finisce per connotare l’opera di un suo contenuto
strumentale e funzionale tipico, tale da condizionarne anche
la disciplina di riferimento.
Non è un caso che, proprio in tema di autorizzazione
paesaggistica in sanatoria, l’ipotesi del volume tecnico
riceva dallo stesso ministero resistente una considerazione
differenziata rispetto alla disciplina generale relativa ai
volumi edilizi. Al riguardo, la circolare del Segretario
generale n. 33 del 26.06.2009, nel dettare talune linee
interpretative ed operative ai fini dell’autorizzazione
paesaggistica postuma, ai sensi del più volte menzionato
art. 167 d.lgs. 42/2004, chiarisce che “per volumi s’intende
qualsiasi manufatto costituito da parti chiuse emergente dal
terreno o dalla sagoma di un fabbricato preesistente
indipendentemente dalla destinazione d’uso del manufatto",
per poi precisare: “ad esclusione dei volumi tecnici”.
Benché la circolare sia espressione di un potere di mero
indirizzo interno, privo di efficacia precettiva autonoma e
non vincolante per i giudici, essa è tuttavia un chiaro
indizio di come la stessa amministrazione competente abbia
sposato una soluzione interpretativa che ragionevolmente
tiene conto delle peculiari caratteristiche dei volumi
tecnici.
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L’esistenza di un vincolo paesaggistico esclude la
formazione del silenzio-assenso sulle domande per il
rilascio di titoli edilizi in sanatoria.
Se il parere non è espresso nel termine previsto, si
verifica un’ipotesi di silenzio-rifiuto o
silenzio-inadempimento, perché sussiste sempre l'obbligo
dell'ente locale di provvedere espressamente nel termine
fissato dalla normativa sopra menzionata.
Prima di affrontare i diversi motivi di
censura, il Collegio ritiene opportuno fornire un
chiarimento sull’esatta portata applicativa della normativa
di legge dedicata all’autorizzazione paesaggistica in
sanatoria.
Appurata la sussistenza di questo elemento di fatto, è
necessario a questo punto chiarire se anche i volumi
tecnici, al pari delle altre opere, soggiacciono alla regola
posta dall’art. 167, comma 4, lett. a), d.lgs. 42/2004,
secondo cui l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria è
consentita, tra l'altro, "per i lavori, realizzati in
assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che
non abbiano determinato creazione di superfici utili o
volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati";
ovvero se la particolare destinazione funzionale che
caratterizza i predetti volumi tecnici, finisca per
sottrarli dal regime restrittivo posto dal menzionato art.
167.
Il tema è complesso, tanto da essere oggetto di pronunce
giurisdizionali tra di loro contrastanti.
Secondo un primo orientamento, infatti, la giurisprudenza
amministrativa si è espressa nel senso che la nozione di
volume tecnico, in virtù della sua specifica destinazione,
non è assimilabile a quella di volume, il cui aumento in
eccesso rispetto a quanto legittimamente realizzabile
impedisce la compatibilità paesaggistica (cfr. TAR
Puglia, Bari, sez. III, 13.01.2013, n. 35; TAR
Campania, Napoli, Sez. VII, 04.11.2009, n. 6827; Sez. IV, 21.09.2010, n. 17491; TAR Emilia, Parma, 15.09.2010, n. 435).
Secondo altro orientamento, invece, se è vero che la nozione
di volume tecnico assuma in sé una connotazione funzionale e
strutturale del manufatto, tuttavia tale nozione non può che
essere limitata alla disciplina urbanistica ed edilizia; ne
deriva che la stessa non sarebbe in grado di derogare ai
principi riduttivi posti in materia di tutela del paesaggio
(TAR Campania, Salerno, sez. I, 11.10.2011, n. 1642;
TAR Campania, Napoli, sez. IV, 17.02.2010, n. 963).
Per risolvere la questione, è essenziale, ad avviso del
Collegio chiarire quale sia la relazione tra la materia
urbanistica e quella del paesaggio.
L’urbanistica sovrintende al razionale sfruttamento
antropico del territorio e trova nella disciplina edilizia
la sua attuazione concreta; per questo, l’urbanistica mira
ad asservire l’attività edilizia pubblica e privata ad atti
di programmazione generale tendenti a tracciare le
coordinate fondamentali per un uso razionale e sapiente del
territorio, ai fini di preservarlo per il futuro, con
un’attenzione verso diversi interessi, tutti inevitabilmente
coinvolti nell’attività edilizia, assistiti di volta in
volta da legislazioni di settore orientate alla loro
specifica salvaguardia (economia, salute, paesaggio,
ambiente).
Il paesaggio attiene invece alla preservazione di valori
estetici, storici, culturali, i quali sono difesi con la
previsione di vincoli conformativi, diretti ed indiretti,
che ne limitano in concreto le possibilità di intervento,
normalmente ammesse su altri beni non rilevanti per questi
profili.
Ciò spiega perché non è possibile estendere automaticamente
la disciplina urbanistico-edilizia ai bene paesaggistici,
ossia a beni particolari ad “uso controllato".
Per la soluzione della questione, ad avviso del Collegio, se
è vero che occorre avere ben presente la diversità degli
interessi tutelati in ambito urbanistico ed in quella
paesaggistico, diversità che induce a distinguere e a non
sovrapporre le relative normative, non si può tuttavia
ignorare che sia la disciplina in materia
urbanistico-edilizio sia quella concernente il paesaggio
hanno riguardo alla cura, per profili differenti ma tra loro
complementari, di uno stesso elemento che consiste nel
territorio. Se così è, si rafforza la prospettiva che vede i
due profili interferire e condizionarsi a vicenda.
La saldatura tra i due aspetti è d’altronde confermata da un
importante concetto, quello di “governo del territorio”,
introdotto dalla legge costituzionale del 18.10.2001,
n. 3 che ha modificato il titolo V della Costituzione. Il
governo del territorio è nozione inclusiva del complesso
delle discipline che individuano e graduano gli interessi in
base ai quali possono essere regolati gli interventi
ammissibili sul territorio, risorsa per definizione limitata
(Corte Cost., 28.06.2004, n. 196). Con questo concetto,
la materia urbanistica evolve verso una nozione più ampia
che coinvolge tutto ciò che attiene all’uso del territorio
ed alla localizzazione di impianti ed attività (Corte Cost.
07.10.2003, n. 307).
E’ sempre più evidente ora che, in pratica, aspetti dapprima
relegati in ambito urbanistico ed edilizio, incrocino la
tutela del paesaggio e, per questo, finiscano per
condizionare la lettura delle relative discipline.
Alla luce delle considerazioni appena svolte, occorre
ora analizzare la specifica normativa prevista in tema di
autorizzazione paesaggistica in sanatoria.
La strutturale e
funzionale separazione degli interessi pubblici coinvolti
giustifica, a livello sistematico, la diversità della stessa
disciplina ordinaria in tema di autorizzazione paesaggistica
che l'art. 146, comma 4, d.lgs. 42/2004 configura come atto
"autonomo" e "presupposto" rispetto al permesso di costruire
o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio; questi non possono essere rilasciati
in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche
parziale, degli interventi edilizi effettuati senza titolo,
salvi i casi richiamati dall’art. 167, commi 4 e 5, d.lgs.
42/2004.
Riguardo a questi ultimi, l'art. 167, comma 4,
lett. a), d.lgs. 42/2004 chiarisce che “l'autorità
amministrativa competente accerta la compatibilità
paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5”, tra
gli altri, “per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati”. Il fondamento
della menzionata disposizione è di consentire, in deroga al
già indicato divieto generale, l'autorizzazione
paesaggistica postuma esclusivamente per i c.d. abusi
minori, ossia quelli che non producano aumento di “superfici
utili”, “volumi” ovvero “aumento di quelli legittimamente
realizzati”.
Il Collegio, per questo, non condivide la posizione di
recente assunta dal Tar Sicilia, Palermo, (Sez. I) che, con
ordinanza collegiale n. 802 del 10.04.2013, ha rimesso
alla Corte di giustizia dell'Unione europea la questione
pregiudiziale relativamente alla circostanza se l’art. 17
della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. ed il
principio di proporzionalità come principio generale del
diritto dell’U.E., ostino all’applicazione di una normativa
nazionale che -come il più volte citato art. 167, comma 4,
lett. a), d.lgs. 42/2004- esclude la possibilità
dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria per tutti gli
interventi edilizi comportanti incremento di superfici e
volumi, indipendentemente dall’accertamento in concreto
della compatibilità di tali interventi ai valori di tutela
paesaggistica dello specifico sito considerato.
L’ordinanza in argomento, per quanto operi un’ardita ed
apprezzabile operazione ermeneutica, con l’aggancio del
diritto di proprietà e della tutela del paesaggio ai diritti
fondamentali dell’Unione europea, trascura tuttavia
l’evidente profilo sanzionatorio-punitivo contenuto nella
previsione di cui al menzionato art. 167, comma 4, profilo
che, ancorché vada a scapito della facoltà edificatorie
connesse al diritto di proprietà, non può che costituire una
prerogativa intangibile del legislatore nazionale, in
ossequio alla salvaguardia del bene paesaggio, peraltro,
assistito da previsione di rango costituzionale.
In altri
termini, il legislatore italiano, in coerenza con
l’accentuato profilo costituzionale dell’interesse pubblico
alla preservazione del paesaggio, ha volutamente
differenziato la disciplina in materia di accertamento
postumo di conformità degli interventi effettuati in assenza
o in difformità dal titolo edilizio, a seconda che il bene
da tutelare sia l’ordinato assetto del territorio sotto i
profili urbanistici ed edilizi ovvero la tutela del
paesaggio; la conformità in sanatoria è sempre possibile nel
primo caso, anche qualora sia presente un incremento dei
volumi o delle superfici (art. 36 d.p.r. 380/2001), mentre
risulta inammissibile nel secondo caso, qualora vi sia da
presidiare il paesaggio.
Questa scelta del legislatore nazionale non sembra
censurabile per contrasto ai principi costituzionali della
ragionevolezza e della parità di trattamento è per quelli
dell’ordinamento comunitario, perché la necessità di
preservare al massimo livello il paesaggio impone una
soluzione legislativa che, nei confronti degli interventi
edilizi sine titulo, abbia carattere fortemente dissuasivo
se non punitivo-sanzionatorio.
Il diverso approccio del legislatore, più pragmatico e
disponibile nel caso di attività edilizia senza titolo od in
difformità da questo, rispetto ai casi di attività edilizia
prive di nulla osta paesaggistico trova, peraltro, una
chiara spiegazione anche sotto il profilo logico giuridico.
Ed invero, per quanto riguarda l’attività edilizia senza
titolo o in difformità da questo, l’amministrazione locale
non ha che da svolgere un controllo di conformità tra la
singola costruzione abusiva e le previsioni contenute nei
piani di programmazione e nella regolamentazione edilizia
comunale (regolamento edilizio e norme tecniche di
attuazione); simile riscontro postumo è invece
inimmaginabile in tema di paesaggio, per il quale
l’amministrazione competente deve svolgere un giudizio che
non si riduce ad un riscontro deduttivo di conformità ma
implica una valutazione di merito, sugli aspetti anche
estetici, valutazione che potrebbe essere irrimediabilmente
compromessa nel momento in cui il nuovo volume è già venuto
ad esistenza.
E’ per questa ragione che –contrariamente a quanto
sostenuto anche in giurisprudenza, (in particolare, TAR
Umbria, 29.11.2011, n. 388 che pure ha escluso la
sanabilità dei volumi tecnici) secondo cui le nozioni di
"volume" e di "superficie utile" sono estranee alla tutela
paesaggistica, che farebbe perno, piuttosto, sulla
"percettibilità visiva"– si è dell’avviso, invece, che tali
nozioni siano comunque rilevanti ai fini della tutela
paesaggistica; esse tuttavia ricevono, rispetto ad una
valutazione di ambito meramente urbanistico-edilizio, una
considerazione diversa che prescinde dal concetto di “carico
urbanistico” per coinvolgere aspetti eminentemente estetici
e percettivi.
Orbene, nonostante gli elementi specifici e propri che
coinvolgono l’interesse paesaggistico, l’osservanza delle
regole ermeneutiche che impongono una rigorosa
interpretazione letterale dell’art. 167 d.lgs. 42/2004 non
esclude affatto che il volume tecnico, rispetto alla nozione
di volume edilizio, possa ricevere, in considerazione della
peculiare destinazione funzionale, una valutazione
differenziata, caso per caso, suscettibile di concludersi
con l’autorizzazione paesaggistica postuma, qualora in
concreto il manufatto non presenti elementi incompatibili o
comunque di estraneità con il paesaggio nel quale è
destinato a collocarsi.
A questa soluzione il Collegio perviene sulla base di
un’attenta indagine sul concetto di volume tecnico.
E’ tale l’opera edilizia priva di autonomia funzionale,
anche potenziale, perché destinata a contenere impianti al
servizio di una costruzione principale, destinati
esclusivamente a soddisfare esigenze tecniche e funzionali
dell’abitazione e che non possono essere ubicati all’interno
di questa (Corte Cass. Sez. II civ. 03.02.2011, n.
2566; Cons. Stato, sez. IV, 04.05.2010, n. 2565).
Tre sono i parametri utili per identificare la nozione di
volume tecnico:
- il primo, di tipo funzionale, secondo cui l’opera che
costituisce volume tecnico deve assumere un rapporto di
strumentalità necessaria rispetto alla costruzione
principale perché ne consente un migliore e più efficiente
utilizzo;
- il secondo ed il terzo di tipo strutturale, nel senso che,
da un lato, la collocazione esterna del volume tecnico
appare l’unica soluzione praticabile per impossibilità di
ricorrere a soluzioni progettuali diverse e, dall’altro,
deve esistere un rapporto di necessaria proporzionalità tra
volume tecnico e costruzione principale (TAR Campania,
Napoli, sez. III, 09.11.2010, n. 23699; sez. IV, 10.05.2010, n. 3433).
Nella nozione di volume tecnico non rientrano, ad esempio,
le soffitte, gli stenditoio chiusi e quelli di sgombero, i
piani di copertura qualora, impropriamente considerati
sottotetti, costituiscano in realtà mansarde perché dotate
di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda
(Cons. Stato, sez. IV, 28.01.2011, n. 687). Devono
invece considerarsi gli impianti serventi connessi a
condotte idrica, termica o all’ascensore.
Il Collegio è dell’avviso che il concetto di volume tecnico
sia rilevante non solo per gli aspetti urbanistici ed
edilizi ma anche ai fini della valutazione paesaggistica,
tanto da sottrarlo, in sede di accertamento postumo in
sanatoria, alla preclusione fissata dall’art. 167, comma 4,
lett. a), d.lgs. 42/2004. Questo perché l’attributo
“tecnico”, finisce per connotare l’opera di un suo contenuto
strumentale e funzionale tipico, tale da condizionarne anche
la disciplina di riferimento.
Non è un caso che, proprio in tema di autorizzazione
paesaggistica in sanatoria, l’ipotesi del volume tecnico
riceva dallo stesso ministero resistente una considerazione
differenziata rispetto alla disciplina generale relativa ai
volumi edilizi. Al riguardo, la circolare del Segretario
generale n. 33 del 26.06.2009, nel dettare talune linee
interpretative ed operative ai fini dell’autorizzazione
paesaggistica postuma, ai sensi del più volte menzionato
art. 167 d.lgs. 42/2004, chiarisce che “per volumi
s’intende qualsiasi manufatto costituito da parti chiuse
emergente dal terreno o dalla sagoma di un fabbricato
preesistente indipendentemente dalla destinazione d’uso del
manufatto", per poi precisare: “ad esclusione dei volumi
tecnici”.
Benché la circolare sia espressione di un potere di mero
indirizzo interno, privo di efficacia precettiva autonoma e
non vincolante per i giudici, essa è tuttavia un chiaro
indizio di come la stessa amministrazione competente abbia
sposato una soluzione interpretativa che ragionevolmente
tiene conto delle peculiari caratteristiche dei volumi
tecnici.
Su queste premesse di carattere metodologico possono ora
essere affrontate le singole censure proposte dalla
ricorrente.
Infondato è il primo motivo di ricorso, con il quale
parte ricorrente deduce la tardività del provvedimento
impugnato perché adottato dopo il termine, pari a novanta
giorni, previsto dagli articoli 167, comma 5, e 181, commi
1-ter e 1-quater, d.lgs. 42/2004.
Secondo pacifico orientamento della giurisprudenza, al quale
il Collegio aderisce, l’esistenza di un vincolo
paesaggistico esclude la formazione del silenzio-assenso
sulle domande per il rilascio di titoli edilizi in sanatoria
(Cons. Stato, sez. IV, 31.03.2009, n. 2024).
Se il parere non è espresso nel termine previsto, si
verifica un’ipotesi di silenzio-rifiuto o
silenzio-inadempimento, perché sussiste sempre l'obbligo
dell'ente locale di provvedere espressamente nel termine
fissato dalla normativa sopra menzionata (TAR Calabria,
Catanzaro, sez. II, 14.01.2009, n. 10; TAR Toscana,
Firenze, sez. III, 06.02.2008).
Irrilevante, nel caso in esame, si pone la violazione
dell’art. 7 L. n. 241/1990, oggetto del secondo motivo di
ricorso, atteso che la Soprintendenza, benché abbia in
effetti omesso la comunicazione dell’avvio del procedimento,
ha tuttavia garantito nella sostanza il contraddittorio e la
partecipazione procedimentale alla ricorrente. Quest’ultima
ha infatti ricevuto, in attuazione dell’art. 10-bis L. n.
241/1990, la comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento della domanda, di cui alla nota prot. n.
29804/2012; ciò ha in definitiva consentito alla ricorrente
di produrre ulteriori elementi istruttori prima della fase
decisoria.
Fondati, invece, sono il terzo, il quarto ed
il quinto
motivo di censura che -per ragioni di connessione
argomentativa- possono ricevere trattazione congiunta.
Con gli stessi parte ricorrente censura, sotto diversi
profili, la violazione degli articoli 167, comma 4, e 181,
commi 1-ter e 1-quater, d.lgs. 42/2004, nonché l’eccesso di
potere per sviamento, carenza d’istruttoria, dei presupposti
ed irragionevolezza. Si duole infine della violazione
dell’art. 12, punto 4, NTA del Piano territoriale paesistico
“Cilento costiero", con i connessi profili di eccesso di
potere per difetto assoluto di motivazione, carenza
d’istruttoria, illogicità, irrazionalità.
Parte ricorrente sostiene, in sintesi, che nessuno
degli interventi edilizi svolti sia in grado di creare una
volumetria aggiuntiva o una superficie utile, calcolabili a
fini residenziali, trattandosi di volumi tecnici e quindi
estranei al perimetro tracciato dagli artt. 146 e 167 del d.lgs. 42 del 2004, il codice dei beni culturali.
Sebbene la circostanza sia messa in dubbio dalla
Soprintendenza, il Collegio è dell’avviso che effettivamente
il manufatto contestato realizzi un volume tecnico, di
carattere pertinenziale e destinato esclusivamente ad
impianti tecnologici. Il dato è, infatti, difficilmente
contestabile essendo suffragato sia dall’esito del
sopralluogo effettuato dall’Ufficio tecnico comunale (prot.
n. 3882 del 07.05.2012) sia dalla documentazione
fotografica, allegata agli atti della causa, che ha
costituito uno dei supporti istruttori alla richiesta di
accertamento di conformità. Il manufatto è destinato al
ricovero di due serbatoi di acqua con autoclave ed attrezzi
vari da giardino.
Sotto questo profilo non si rinviene la carenza documentale
lamentata dalla Soprintendenza, atteso che le integrazioni
documentali richieste sono state fornite all’organo di
controllo in allegato alla nota di trasmissione degli atti
disposta dall’amministrazione comunale.
In linea con la giurisprudenza amministrativa ormai
prevalente, ove la documentazione sia incompleta, la
Soprintendenza ha il potere/dovere di chiederne
l’integrazione, non potendosi limitare ad annullare l’atto
sottoposto al suo controllo (ex multis, Cons. Stato, sez. VI,
03.05.2011, n. 2611).
Nel caso di specie appare rilevante la circostanza
che le opere oggetto di sanatoria edilizia e paesaggistica
consistono in una volumetria invero modesta, inferiore a 25
metri cubi, per una superficie complessiva di circa 11 metri
quadri. Il manufatto, come sopra chiarito, è destinato al
ricovero di impianti idrici, include la pavimentazione della
relativa parte sovrastante, con conseguente incremento della
preesistente area già utilizzata come terrazzo, sulla quale
è stata installata un’inferriata di delimitazione del bordo.
In altri termini, gli interventi edilizi sopra indicati non
hanno creato volumetria né superficie utili e calcolabili a
fini residenziali ed, inoltre, non sono individuabili ad
occhio nudo dalla visione del prospetto della collina sulla
quale insistono.
Va inoltre considerato che la cubatura del manufatto
non supera il 20% del volume del fabbricato principale (come
da certificato UTC, acquisito agli atti della causa), del
quale costituisce pertinenza, come chiarito dal disposto di
cui all’art. 3, comma 5, lett. e.6) d.p.r. n. 380/2001.
Infine, ai sensi dell’art. 12, punto 4, NTA del Piano
territoriale Paesistico “Cilento Costiero”, nella zona CIRA
(Conservazione integrale e riqualificazione ambientale),
sottozona 3, la Soprintendenza medesima, con l’impugnato
parere del 27.11.2012, ammette anche interventi di
ristrutturazione edilizia integrale con eventuale
adeguamento igienico e funzionale una tantum, nel rispetto
del limite di incremento di volumetria del 10%, con
possibilità di arrotondare a 6 metri quadri i valori
inferiori a tale soglia e fino ad un massimo assoluto di 16
metri quadri di superficie utile.
Il volume tecnico
realizzato risponde alle dimensioni massime consentite,
anche in considerazione della circostanza che la fattispecie
in esame non realizza una ristrutturazione edilizia, bensì
il meno invasivo intervento di manutenzione straordinaria
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 25.06.2013 n. 1429 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Sulla competenza del Consiglio Comunale alla
decisione sull'individuazione delle nuove sedi
farmaceutiche, ai sensi dell'art. 11 del d.l. n. 1/2012,
conv. con l. n. 27/2012.
La nuova disciplina statale in materia di assistenza
farmaceutica, introdotta con l'art. 11 del d.l. n. 1/2012,
ha ampliato il numero di farmacie da ubicare sul territorio
e, nel contempo, ha attribuito al Comune il potere di
identificare le zone in cui collocare le nuove farmacie,
secondo criteri ispirati all'equa distribuzione sul
territorio, nonché all'accessibilità del servizio
farmaceutico anche nelle aree scarsamente abitate.
Come affermato dalla giurisprudenza condivisa dal Collegio,
è, pertanto, evidente che, nell'attuale sistema, l'atto
mediante cui il Comune approva l'istituzione di nuove sedi
farmaceutiche ha riflessi sulla pianificazione e
organizzazione del servizio farmaceutico nell'intero
territorio comunale ed è atto che esprime scelte
fondamentali attinenti alla vita sociale e civile della
comunità locale: per l'effetto, la competenza ad adottare la
relativa decisione non può che spettare al Consiglio
Comunale. Ciò, sotto un duplice profilo: da un lato, ai
sensi dell'art. 42, c. 2, lett. b), del d.lgs. n. 267/2000 (T.U.E.L.),
che assegna all'organo consiliare i poteri di programmazione
e di pianificazione dell'Ente locale; dall'altro, ai sensi
della successiva lett. e) dell'art. 42, c. 2, cit., che
attribuisce al Consiglio l'organizzazione dei pubblici
servizi.
Milita, infine, a favore dell'attribuzione al Consiglio
Comunale della competenza ad individuare le nuove sedi
farmaceutiche, ex art. 11 cit., il fatto che si tratta di
una scelta fondamentale attinente alla vita sociale e civile
della comunità locale, sicché il Consiglio Comunale appare
la sede naturale ove attuare quella dialettica tra
maggioranza ed opposizione funzionale all'individuazione
delle aree più corrispondenti alle esigenze della
collettività (TAR Lazio-Latina,
sentenza 24.06.2013 n. 578 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI:
Il rinnovo del servizio di tesoreria nei
confronti del medesimo operatore economico già
aggiudicatario del servizio non può avvenire, in via
diretta, senza previo espletamento di una gara pubblica.
L'affidamento del servizio di tesoreria comunale -inteso ai
sensi dell'art. 209 t.u. quale complesso di operazioni
legate alla gestione finanziaria dell'ente locale ivi
inclusa la riscossione delle entrate, la custodia di titoli
e valori e gli adempimenti connessi- rientra nell'ambito di
operatività della normativa di cui al d.lgs. n. 163/2006
risultando assoggettato alle disposizioni del Codice ai
sensi del comma 2 dell'art. 20 in quanto incluso tra "i
servizi finanziari" di cui all'all. II A ed identificato
con cpv 66600000-6.
Ai sensi dell'art. 210 del d.lgs. n. 267/2000 -posto a base
del provvedimento impugnato- l'ente può procedere al rinnovo
del contratto di tesoreria nei confronti del medesimo
soggetto per non più di una volta solo "qualora ricorrano
le condizioni di legge". Nell'ambito delle "condizioni
di legge" in presenza delle quali è ammesso il rinnovo
non può prescindersi dal rilievo della normativa di
derivazione comunitaria introdotta dall'art. 23 della l.
18.04.2005 n. 62 che, al fine di porre termine ad una
procedura di infrazione azionata da parte della Commissione
europea (n. 2110/2003), ha esplicitamente soppresso la
facoltà, precedentemente riconosciuta alle amministrazioni
dall'art. 6, c. 2, della l. 24.12.1993 n. 537, di pervenire
al rinnovo di contratti pubblici nei confronti del medesimo
contraente in presenza di accertate ragioni di convenienza e
di pubblico interesse, consentendo la sola proroga dei
contratti per acquisti e forniture di beni e servizi per il
tempo necessario alla stipula dei nuovi contratti a seguito
di espletamento di gara pubblica.
Ne consegue che, nel caso di specie, il rinnovo del servizio
di tesoreria nei confronti del medesimo operatore economico
già aggiudicatario del servizio non poteva avvenire, in via
diretta, senza previo espletamento di una gara pubblica (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 21.06.2013 n. 3261 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ACQUA E INQUINAMENTO IDRICO – Art. 74 d.lgs. n.
152/2006 – Acque reflue industriali – Acque di prima pioggia
- Presenza di residui di materiali ferrosi o composti
chimici impiegati nell’attività produttiva – Natura di acque
meteoriche di dilavamento – Esclusione.
L’art. 74,
primo comma, lett. h), del d.lgs. 03.04.2006, n. 152 reca la
seguente definizione di “acque reflue industriali”:
qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici od
impianti in cui si svolgono attività commerciali o di
produzione di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e
dalle acque meteoriche di dilavamento”.
A queste ultime sono da ascriversi le acque pluviali che,
nel loro percorso, trascinano unicamente pulviscolo o altro
materiale di origine naturale, mentre le acque (specialmente
quelle di prima pioggia) che dilavano un’area in cui si
posano residui di materiali ferrosi scaturiti da processi di
produzione (nella specie, impianto di zincatura), o composti
chimici impiegati nell’attività, non costituiscono acque
meteoriche di dilavamento e necessitano di essere depurate
prima dell’immissione nel terreno (massima tratta da
www.ambientediritto.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 21.06.2013 n. 1459 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di
provvedimenti relativi ad interventi edilizi, va esclusa in
capo al progettista dell’opera la titolarità di un interesse
autonomo e differenziato che possa validamente fondare la
legittimazione ad impugnare (il diniego all'istanza
presentata).
Quest’ultima va riconosciuta, infatti, esclusivamente in
capo al committente della attività di progettazione in
quanto titolare di un diritto reale o di godimento ovvero di
altra situazione giuridica qualificata e differenziata da
cui deriva la legittimazione a ricorrere.
Al progettista può essere riconosciuta una mera
legittimazione ad intervenire, accessoria e subordinata, per
la tutela di un interesse di fatto alla realizzazione
dell’opera da lui ideata ma non certo una legittimazione a
ricorrere in via principale spettante ad altro soggetto, il
committente, che non ha inteso avvalersi del rimedio
giurisdizionale.
Con il ricorso in epigrafe
specificato, l’ing. Antonio Positano impugna il prefato
provvedimento di diniego di accertamento di compatibilità
paesaggistica, eccependone numerosi vizi, tutti, a suo dire,
derivanti da una discrepanza tra il contenuto della istanza
da lui presentata ed il provvedimento adottato dal Comune ed
oggetto di impugnazione.
Ritiene il collegio di potere decidere il ricorso con
sentenza semplificata ai sensi degli articoli 74 e 35, c. 1,
lett. b), del c.p.a, dichiarandolo inammissibile per carenza
di legittimazione ad agire in capo al ricorrente, ing.
Positano.
Costituisce, infatti, orientamento consolidato quello
secondo cui, in materia di provvedimenti relativi ad
interventi edilizi, va esclusa in capo al progettista
dell’opera la titolarità di un interesse autonomo e
differenziato che possa validamente fondare la
legittimazione ad impugnare (ex multis, TAR Lombardia,
Milano, II; sentenza 28.01.2011, n. 265 e copiosa
giurisprudenza ivi richiamata).
Quest’ultima va riconosciuta, infatti, esclusivamente in
capo al committente della attività di progettazione in
quanto titolare di un diritto reale o di godimento ovvero di
altra situazione giuridica qualificata e differenziata da
cui deriva la legittimazione a ricorrere (TAR Lombardia
Milano, II, sentenza 02.09.2011, n. 2148).
Al progettista può essere riconosciuta una mera
legittimazione ad intervenire, accessoria e subordinata, per
la tutela di un interesse di fatto alla realizzazione
dell’opera da lui ideata ma non certo una legittimazione a
ricorrere in via principale spettante ad altro soggetto, il
committente, che non ha inteso avvalersi del rimedio
giurisdizionale (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 21.06.2013 n. 1391 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di abusivismo edilizio, la
presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, ai
sensi dell’art. 36 del d. P. R. n. 380 del 2001,
successivamente all’impugnazione dell’ordine di demolizione
produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione
stessa per sopravvenuta carenza di interesse; invero, il
riesame dell’abusività dell’opera provocato dall’'istanza di
sanatoria determina la necessaria formazione di un nuovo
provvedimento di accoglimento o di rigetto che vale comunque
a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell’originario ricorso.
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La presentazione dell’istanza di sanatoria successivamente
all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione produce
l’effetto di rendere inefficace tale provvedimento e,
quindi, improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuta
carenza di interesse, atteso che a seguito dell’istanza di
sanatoria l’ordinanza di demolizione deve essere sostituita
o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento
sanzionatorio; più precisamente, la presentazione
dell’istanza di sanatoria per opere edilizie già oggetto di
provvedimenti sanzionatori determina l’improcedibilità del
ricorso proposto nei confronti di quest’ultimi e ciò in
quanto la ricorrente non può avere alcun interesse a
coltivare un gravame concernente misure che –all’esito del
procedimento di sanatoria– dovranno essere sostituite con un
nuovo provvedimento sanzionatorio ovvero dal titolo edilizio
rilasciato in sanatoria; invero, posto che la presentazione
dell’istanza di sanatoria dell’abuso edilizio produce in
capo all’amministrazione l’obbligo di avviare e concludere
il relativo procedimento con provvedimento espresso e
motivato, la determinazione amministrativa, in caso di
contenuto favorevole al privato, avrà come effetto
l’integrale soddisfacimento delle sue pretese con
conseguente cessazione della materia del contendere del
ricorso giurisdizionale avverso la demolizione dell’opera,
mentre, in caso di rigetto della domanda, la lesione della
sfera giuridica del richiedente originerà da questo nuovo
provvedimento e dalla rinnovata misura sanzionatoria che a
tale atto dovrà necessariamente seguire, con conseguente
improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di
interesse.
Rileva il Tribunale come il ricorso,
per effetto della presentazione delle due domande di
sanatoria, precisate in narrativa, sia divenuto improcedibile, per sopravvenuta carenza d’interesse, giusta
il pacifico indirizzo giurisprudenziale compendiato, ex multis, nelle massime seguenti:
- “In materia di abusivismo
edilizio, la presentazione dell’istanza di accertamento di
conformità, ai sensi dell’art. 36 del d. P. R. n. 380 del
2001, successivamente all’impugnazione dell’ordine di
demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile
l’impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse;
invero, il riesame dell’abusività dell’opera provocato
dall’'istanza di sanatoria determina la necessaria
formazione di un nuovo provvedimento di accoglimento o di
rigetto che vale comunque a rendere inefficace il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell’originario ricorso”
(Consiglio di Stato – Sez. I – 27.12.2012, n. 4921);
- “La presentazione dell’istanza di sanatoria successivamente
all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione produce
l’effetto di rendere inefficace tale provvedimento e,
quindi, improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuta
carenza di interesse, atteso che a seguito dell’istanza di
sanatoria l’ordinanza di demolizione deve essere sostituita
o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento
sanzionatorio; più precisamente, la presentazione
dell’istanza di sanatoria per opere edilizie già oggetto di
provvedimenti sanzionatori determina l’improcedibilità del
ricorso proposto nei confronti di quest’ultimi e ciò in
quanto la ricorrente non può avere alcun interesse a
coltivare un gravame concernente misure che –all’esito del
procedimento di sanatoria– dovranno essere sostituite con
un nuovo provvedimento sanzionatorio ovvero dal titolo
edilizio rilasciato in sanatoria; invero, posto che la
presentazione dell’istanza di sanatoria dell’abuso edilizio
produce in capo all’amministrazione l’obbligo di avviare e
concludere il relativo procedimento con provvedimento
espresso e motivato, la determinazione amministrativa, in
caso di contenuto favorevole al privato, avrà come effetto
l’integrale soddisfacimento delle sue pretese con
conseguente cessazione della materia del contendere del
ricorso giurisdizionale avverso la demolizione dell’opera,
mentre, in caso di rigetto della domanda, la lesione della
sfera giuridica del richiedente originerà da questo nuovo
provvedimento e dalla rinnovata misura sanzionatoria che a
tale atto dovrà necessariamente seguire, con conseguente
improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di
interesse” (TAR Campania–Salerno – Sez. II, 19.10.2012, n. 1902)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 21.06.2013 n. 1384 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’articolo 82 del DPR n. 616/1977 (di poi la
normativa di cui all’art. 151 del D.Lgs. n. 490/1999 ed oggi
quella contenuta nel D.Lgs. n. 42/2004) configura un sistema
complesso di tutela del paesaggio, implicante l’intervento
sia della Regione che dello Stato, in cui la concorrenza dei
poteri è disciplinata dal principio di leale cooperazione.
Con specifico riferimento ai poteri della Regione (o
dell’ente subdelegato), va rilevato che la funzione
dell’autorizzazione è quella di verifica della compatibilità
dell’opera edilizia che si intende realizzare con l’esigenza
di conservazione dei valori paesistici protetti dal vincolo.
E’ stato, infatti, evidenziato che quest’ultimo contiene un
accertamento circa l’esistenza di valori paesistici
oggettivamente non derogabile e che è compito
dell’autorizzazione accertare in concreto la compatibilità
dell’intervento con il mantenimento e l’integrità dei
richiamati valori.
Difatti, il paesaggio è un valore costituzionale primario e,
pertanto, l’autorità amministrativa non deve svolgere una
ponderazione comparativa tra un interesse primario ed un
interesse secondario, ma unicamente operare un giudizio in
concreto circa il rispetto da parte dell’intervento
progettato delle esigenze connesse alla tutela del paesaggio
stesso.
La determinazione dell’ente locale deve, dunque, essere
motivata anche quando abbia contenuto positivo, favorevole
al richiedente.
Tale principio, già consolidato in giurisprudenza in
relazione alla peculiare natura dell’atto ed alla rilevanza
degli interessi coinvolti, trova oggi espresso fondamento
normativo nell’articolo 3 della legge n. 241/1990, secondo
il quale ogni provvedimento amministrativo, di contenuto sia
negativo che positivo, deve essere motivato, recando
l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni
giuridiche che hanno determinato la decisione in relazione
alle risultanze dell’istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto di tale motivazione, la
giurisprudenza è ferma nel ritenere, ai fini della congruità
e sufficienza della stessa, che debba esservi l’indicazione
della ricostruzione dell’iter logico seguito, in ordine alle
ragioni di compatibilità effettive che –in riferimento agli
specifici valori paesistici dei luoghi- possano consentire
tutti i progettati lavori, considerati nella loro globalità
e non esclusivamente in semplici episodi di dettaglio.
E’, dunque, necessario motivare l’autorizzazione in modo
tale che emerga l’apprezzamento di tutte le rilevanti
circostanze di fatto e la non manifesta irragionevolezza
della scelta effettuata sulla prevalenza di un valore in
conflitto con quello tutelato in via primaria, non potendo
l’autorità amministrativa limitarsi ad affermazioni
apodittiche e dovendosi pure riferire non all’entità
atomisticamente valutata del singolo intervento, ma al
complesso strutturalmente individuato che deriva dalla
sovrapposizione con quello preesistente.
Occorre, quindi, esternare adeguatamente l’avvenuto
apprezzamento comparativo, da un lato, del contenuto del
vincolo e, dall’altro, di tutte le rilevanti circostanze di
fatto relative al manufatto ed al suo inserimento nel
contesto protetto, in modo da giustificare la scelta di dare
prevalenza all’interesse del privato rispetto a quello
tutelato in via primaria attraverso l’imposizione del
vincolo.
---------------
Le considerazioni sopra svolte valgono anche per il
procedimento di condono edilizio di opere realizzate su aree
sottoposte a vincolo, per il quale l’articolo 32 della legge
n. 47/1985 dispone che “il rilascio della concessione o
dell’autorizzazione in sanatoria … è subordinato al parere
favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del
vincolo stesso”.
Invero, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che il
suddetto parere ha natura e funzioni identiche alla
autorizzazione paesaggistica, in quanto entrambi gli atti
costituiscono il presupposto per l’assentimento del titolo
che legittima la trasformazione urbanistico edilizia della
zona protetta; con la conseguenza che anche in tale caso è
applicabile il potere ministeriale di annullamento del
provvedimento.
Orbene, ritiene il Tribunale che
legittimamente l’autorità ministeriale ha rilevato,
ponendolo a base del disposto annullamento, il difetto di
motivazione dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata
dall’autorità comunale.
L’articolo 82 del DPR n. 616/1977 (di poi la normativa di cui
all’art. 151 del D.Lgs. n. 490/1999 ed oggi quella contenuta
nel D.Lgs. n. 42/2004) configura un sistema complesso di
tutela del paesaggio, implicante l’intervento sia della
Regione che dello Stato, in cui la concorrenza dei poteri è
disciplinata dal principio di leale cooperazione (Corte
Cost., sent. N. 359/1995, n. 151/1986, n. 302/1988).
Con specifico riferimento ai poteri della Regione (o
dell’ente subdelegato), va rilevato che la funzione
dell’autorizzazione è quella di verifica della compatibilità
dell’opera edilizia che si intende realizzare con l’esigenza
di conservazione dei valori paesistici protetti dal vincolo.
E’ stato, infatti, evidenziato (cfr. Cons. Stato, VI,
14.11.1991, n. 828; VI, 25.09.1995, n. 963) che quest’ultimo
contiene un accertamento circa l’esistenza di valori
paesistici oggettivamente non derogabile e che è compito
dell’autorizzazione accertare in concreto la compatibilità
dell’intervento con il mantenimento e l’integrità dei
richiamati valori.
Difatti, il paesaggio è un valore costituzionale primario e,
pertanto, l’autorità amministrativa non deve svolgere una
ponderazione comparativa tra un interesse primario ed un
interesse secondario, ma unicamente operare un giudizio in
concreto circa il rispetto da parte dell’intervento
progettato delle esigenze connesse alla tutela del paesaggio
stesso.
La determinazione dell’ente locale deve, dunque, essere
motivata anche quando abbia contenuto positivo, favorevole
al richiedente.
Tale principio, già consolidato in giurisprudenza in
relazione alla peculiare natura dell’atto ed alla rilevanza
degli interessi coinvolti (cfr. Cons. Stato, VI, 15.12.1981,
n. 751; 19.05.1981, n. 221; IV, 18.11.1980, n. 1104), trova oggi
espresso fondamento normativo nell’articolo 3 della legge
n. 241/1990, secondo il quale ogni provvedimento
amministrativo, di contenuto sia negativo che positivo, deve
essere motivato, recando l’indicazione dei presupposti di
fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la
decisione in relazione alle risultanze dell’istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto di tale motivazione, la
giurisprudenza è ferma nel ritenere, ai fini della congruità
e sufficienza della stessa, che debba esservi l’indicazione
della ricostruzione dell’iter logico seguito, in ordine alle
ragioni di compatibilità effettive che –in riferimento agli
specifici valori paesistici dei luoghi- possano consentire
tutti i progettati lavori, considerati nella loro globalità
e non esclusivamente in semplici episodi di dettaglio (cfr. Cons. Stato, VI,
05.07.1990, n. 692; 14.11.1991, n. 828;
25.09.1993, n. 963; 20.06.1995, n. 952).
E’, dunque, necessario motivare l’autorizzazione in modo
tale che emerga l’apprezzamento di tutte le rilevanti
circostanze di fatto e la non manifesta irragionevolezza
della scelta effettuata sulla prevalenza di un valore in
conflitto con quello tutelato in via primaria (cfr. Cons.
Stato, VI, 04.06.2004, n. 3495), non potendo l’autorità
amministrativa limitarsi ad affermazioni apodittiche e
dovendosi pure riferire non all’entità atomisticamente
valutata del singolo intervento, ma al complesso
strutturalmente individuato che deriva dalla sovrapposizione
con quello preesistente (cfr. Cons. Stato, VI, 03.03.2004, n.
1060; 14.05.2004, n. 3116).
Occorre, quindi, esternare adeguatamente l’avvenuto
apprezzamento comparativo, da un lato, del contenuto del
vincolo e, dall’altro, di tutte le rilevanti circostanze di
fatto relative al manufatto ed al suo inserimento nel
contesto protetto, in modo da giustificare la scelta di dare
prevalenza all’interesse del privato rispetto a quello
tutelato in via primaria attraverso l’imposizione del
vincolo (cfr. Cons. Stato, VI, 21.02.2007, n. 924).
Le considerazioni sopra svolte valgono anche per il
procedimento di condono edilizio di opere realizzate su aree
sottoposte a vincolo, per il quale l’articolo 32 della legge
n. 47/1985 dispone che “il rilascio della concessione o
dell’autorizzazione in sanatoria … è subordinato al parere
favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del
vincolo stesso”.
Invero, la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, VI, 28.01.1998,
n. 114) ha avuto modo di chiarire che il suddetto parere ha
natura e funzioni identiche alla autorizzazione
paesaggistica, in quanto entrambi gli atti costituiscono il
presupposto per l’assentimento del titolo che legittima la
trasformazione urbanistico edilizia della zona protetta; con
la conseguenza che anche in tale caso è applicabile il
potere ministeriale di annullamento del provvedimento (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 21.06.2013 n. 1380 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le opere appartenenti alla tipologia de qua (ndr:
tenda con struttura metallica ancorata alla parete e al
pavimento, e copertura in telo ombreggiante) sono
configurabili come interventi di manutenzione straordinaria,
ai sensi dell'art. 3, comma primo, D.P.R. n. 380/2001, ciò
in quanto "le tende solari, pur essendo destinate ad
alterare la facciata dell'edificio cui accedono (per cui non
possono definirsi interventi di manutenzione ordinaria),
hanno tuttavia semplice funzione (accessoria e pertinenziale)
di arredo dello spazio esterno, limitata nel tempo e nello
spazio (in quanto si tratta di strutture generalmente
utilizzate nella sola stagione estiva e che non determinano
alcuna variazione plano-volumetrica dell'immobile
principale, per cui non integrano né una nuova costruzione
né una ristrutturazione edilizia)".
Consegue, dalla predetta qualificazione dell'intervento de
quo, la sua estraneità al regime demolitorio, presupponente
la necessità -non riscontrabile nella specie-
dell'acquisizione del permesso di costruire ai fini della
sua legittima realizzazione.
Come statuito con la sentenza citata, infatti, a seguito
delle modifiche apportate all'art. 6 D.P.R. n. 380/2001
dall'art. 5, del D.L. 25.03.2010, n. 40 (convertito con L.
22.05.2010, n. 73), gli interventi di manutenzione
straordinaria possono essere eseguiti senza alcun titolo
abilitativo, previa semplice comunicazione di inizio lavori,
con previsione, in caso di mancanza di quest'ultima, di una
sanzione pecuniaria pari ad euro 258,00.
Iniziando dall'opera costituita da
"tenda con struttura metallica ancorata alla parete e al
pavimento, e copertura in telo ombreggiante", deve
richiamarsi l'orientamento giurisprudenziale ben
rappresentato da TAR per la Campania, Napoli, Sez. IV, 16.12.2011, n. 5919, a mente del quale le opere
appartenenti alla tipologia de qua sono configurabili come
interventi di manutenzione straordinaria, ai sensi dell'art.
3, comma primo, D.P.R. n. 380/2001, ciò in quanto "le tende
solari, pur essendo destinate ad alterare la facciata
dell'edificio cui accedono (per cui non possono definirsi
interventi di manutenzione ordinaria), hanno tuttavia
semplice funzione (accessoria e pertinenziale) di arredo
dello spazio esterno, limitata nel tempo e nello spazio (in
quanto si tratta di strutture generalmente utilizzate nella
sola stagione estiva e che non determinano alcuna variazione
plano-volumetrica dell'immobile principale, per cui non
integrano né una nuova costruzione né una ristrutturazione
edilizia)".
Consegue, dalla predetta qualificazione dell'intervento de
quo, la sua estraneità al regime demolitorio, presupponente
la necessità -non riscontrabile nella specie-
dell'acquisizione del permesso di costruire ai fini della
sua legittima realizzazione.
Come statuito con la sentenza citata, infatti, a seguito
delle modifiche apportate all'art. 6 D.P.R. n. 380/2001
dall'art. 5, del D.L. 25.03.2010, n. 40 (convertito con L.
22.05.2010, n. 73), gli interventi di manutenzione
straordinaria possono essere eseguiti senza alcun titolo
abilitativo, previa semplice comunicazione di inizio lavori,
con previsione, in caso di mancanza di quest'ultima, di una
sanzione pecuniaria pari ad euro 258,00 (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 21.06.2013 n. 1377 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di un
muretto di recinzione, accompagnata dall'apposizione di
ringhiere e cancelli metallici, non rientra nel novero delle
opere soggette a concessione edilizia, bensì, per il suo
carattere pertinenziale, nell'ambito delle opere assentibili
con autorizzazione gratuita, ai sensi del combinato disposto
degli artt. 1 della Legge n. 10/1977 e 7, comma 2, lett. a),
del D.L. n. 9/1982, convertito nella Legge n. 94/1982.
Ne discende che il regime sanzionatorio appropriato non
consiste nell'irrogazione dell'ingiunzione di demolizione,
ma nella comminatoria di una sanzione pecuniaria. (…) Il
Collegio osserva che le opere di recinzione in questione ben
possono essere ricomprese nell'ambito delle "opere
costituenti pertinenze od impianti tecnologici al servizio
di edifici già esistenti", di cui all'art. 7 del D.L. n.
9/1982 cit..
Invero, esse sembrano possedere tutte le caratteristiche che
la consolidata elaborazione giurisprudenziale connette al
concetto di pertinenza edilizia:
a) un nesso oggettivo strumentale e funzionale con la cosa
principale;
b) il mancato possesso, per natura e struttura, di una
pluralità di destinazioni;
c) un carattere durevole;
d) la non utilizzabilità economica in modo diverso;
e) una ridotta dimensione;
f) una individualità fisica e strutturale propria;
g) l'accessione ad un edificio preesistente edificato
legittimamente (…).
Ne deriva che la sanzione irrogabile per le recinzioni
aventi natura pertinenziale, effettuate in assenza della
prescritta autorizzazione gratuita, si concreta in una
misura di carattere pecuniario e non nell'ordine di
demolizione.
A non diverse conclusioni deve poi pervenirsi in relazione
all'ulteriore opera interessata dall'impugnato ordine di
demolizione, rappresentata da un "muretto divisorio posto
circa a metà del terrazzo composto da muro di altezza m.
0,90 e inferriata di altezza m. 1,10, di lunghezza circa m.
9,00, con cancelletto metallico m. 1,10".
Invero, è stato affermato dalla giurisprudenza, in relazione
a siffatta tipologia di opere (cfr. TAR per la Calabria,
Catanzaro, Sez. II, 10.06.2008, n. 647), che "la
realizzazione di un muretto di recinzione, accompagnata
dall'apposizione di ringhiere e cancelli metallici, non
rientra nel novero delle opere soggette a concessione
edilizia, bensì, per il suo carattere pertinenziale,
nell'ambito delle opere assentibili con autorizzazione
gratuita, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1
della Legge n. 10/1977 e 7, comma 2, lett. a), del D.L. n.
9/1982, convertito nella Legge n. 94/1982.
Ne discende che
il regime sanzionatorio appropriato non consiste
nell'irrogazione dell'ingiunzione di demolizione, ma nella
comminatoria di una sanzione pecuniaria. (…) Il Collegio
osserva che le opere di recinzione in questione ben possono
essere ricomprese nell'ambito delle "opere costituenti
pertinenze od impianti tecnologici al servizio di edifici
già esistenti", di cui all'art. 7 del D.L. n. 9/1982 cit..
Invero, esse sembrano possedere tutte le caratteristiche che
la consolidata elaborazione giurisprudenziale connette al
concetto di pertinenza edilizia:
a) un nesso oggettivo
strumentale e funzionale con la cosa principale;
b) il
mancato possesso, per natura e struttura, di una pluralità
di destinazioni;
c) un carattere durevole;
d) la non
utilizzabilità economica in modo diverso;
e) una ridotta
dimensione;
f) una individualità fisica e strutturale
propria;
g) l'accessione ad un edificio preesistente
edificato legittimamente (…).
Ne deriva che la sanzione
irrogabile per le recinzioni aventi natura pertinenziale,
effettuate in assenza della prescritta autorizzazione
gratuita, si concreta in una misura di carattere pecuniario
e non nell'ordine di demolizione" (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 21.06.2013 n. 1377 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Nelle gare indette per la concessione di servizi
la scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei
principi desumibili dal Trattato e dei principi generali
relativi ai contratti pubblici (fattispecie relativa al
complesso del Vittoriano).
Ai sensi dell'art. 30, c. 3, del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici), nelle
gare indette per la concessione di servizi la scelta del
concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi
desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai
contratti pubblici e, in particolare, dei principi di
trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione,
parità di trattamento, mutuo riconoscimento,
proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati
almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero
soggetti qualificati in relazione all'oggetto della
concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi.
Sebbene in tale quadro normativo, ai fini della verifica
dell'effettiva capacità tecnica, l'elenco esemplificativo di
cui agli artt. 41 e 42 del Codice dei contratti pubblici non
costituisce, per la stazione appaltante un vincolo diretto,
tuttavia in relazione al richiamo ai principi del Trattato
UE, le determinazioni in materia di requisiti soggettivi di
partecipazione alle gare non devono essere illogiche,
arbitrarie, inutili o superflue e devono essere rispettose
del "principio di proporzionalità", il quale esige
che ogni requisito individuato sia al tempo stesso
necessario ed adeguato rispetto agli scopi perseguiti.
Pertanto, il concreto esercizio del potere discrezionale
deve essere funzionalmente coerente con il complesso degli
interessi pubblici e privati coinvolti dal pubblico incanto
e deve rispettare i principi del Codice dei contratti
pubblici, con la conseguenza che, nella scelta dei requisiti
di partecipazione il ricordato principio di non
discriminazione impone che la stazione appaltante deve
ricorrere a quelli che comportino le minori turbative per
l'esercizio dell'attività economica e l'intero impianto
delle prescrizioni di gara non deve costituire dunque una
violazione sostanziale dei principi di libera concorrenza,
par condicio, non discriminazione trasparenza di cui
all'art. 2, c. 1, del più volte citato Codice (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 18.06.2013 n. 6094 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Del tutto pacificamente, la giurisprudenza
interpreta la nozione di manutenzione nel senso di imporre
la necessaria esistenza di un duplice ordine di limiti, uno
di carattere funzionale, costituito dalla necessità che i
lavori siano diretti alla mera sostituzione o al puro
rinnovo di parti dell'edificio, e l'altro di carattere
strutturale, consistente nella proibizione di alterare i
volumi e le superfici delle singole unità immobiliari o di
mutare la loro destinazione.
---------------
Non è possibile legare il concetto di manutenzione
straordinaria alla funzione svolta e quindi ritenere che,
nel caso di impianti industriali come quello per cui è
causa, questo possa essere riferito all’impianto nel suo
complesso, atteso che la legge fa riferimento ai singoli
interventi, escludendo questa tipologia di valutazione
complessive.
In via preliminare, la Sezione ritiene necessario rimarcare come la
sussunzione di un determinato intervento edilizio in una
delle categorie di opere di cui all’art. 3 del d.P.R. n. 380
del 2001 non sia evento dipendente dalla scelta soggettiva
dell’ente pubblico autorizzante, ma discenda dalla
qualificazione legislativa e quindi dalla loro
corrispondenza allo schema normativo. Tale affermazione
risulta valida addirittura per la legislazione regionale
(vedi Corte costituzionale, 23.11.2011 n. 309) e a maggior
ragione per l’amministrazione, per cui la valutazione della
natura delle opere prescinde integralmente dalle eventuali
considerazioni favorevoli precedentemente svolte, evento
peraltro qui non riscontrabile.
Nel caso in specie, le opere realizzate non sono
assolutamente inquadrabili nel concetto di interventi di
manutenzione, anche straordinaria. Tale nozione, già data
dall’art. 31, comma 1, lettera b), della l. 05.08.1978
n. 457, è ora espressa dall’art. 3, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2011 e comprende “le opere e le modifiche
necessarie per rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre
che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità
immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di
uso”.
Del tutto pacificamente, la giurisprudenza interpreta tale
nozione nel senso di imporre la necessaria esistenza di un
duplice ordine di limiti, uno di carattere funzionale,
costituito dalla necessità che i lavori siano diretti alla
mera sostituzione o al puro rinnovo di parti dell'edificio,
e l'altro di carattere strutturale, consistente nella
proibizione di alterare i volumi e le superfici delle
singole unità immobiliari o di mutare la loro destinazione
(da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 22.03.2007 n.
1388).
Ne deriva che, contrariamente a quanto dedotto in appello
(pag. 5 “non è dato capire perché l'aggiunta di una vasca
completamente interrata per lo stoccaggio degli inerti, di
un nastro trasportatore per l'alimentazione dell'impianto e
di una vasca per il lavaggio degli automezzi in posizione
differente dalla precedente, debbano stravolgere la natura
dell'intervento e non siano passibili di sanatoria”) le
opere realizzate si collocano concettualmente al di fuori
del concetto di manutenzione straordinaria.
Infatti, non è possibile legare il concetto di manutenzione
straordinaria alla funzione svolta e quindi ritenere che,
nel caso di impianti industriali come quello per cui è
causa, questo possa essere riferito all’impianto nel suo
complesso, atteso che la legge fa riferimento ai singoli
interventi, escludendo questa tipologia di valutazione
complessive (per la loro incongruenza, si veda la già citata
Corte costituzionale, 23.11.2011 n. 309).
Al contrario, le opere in esame integrano interventi
diversi, non di mera sostituzione o rinnovo delle parti già
esistenti, per cui esulano dal concetto evocato (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.06.2013 n. 3270 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’accesso documentale è
rivolto a ottenere documenti esistenti e in possesso della
pubblica amministrazione, sicché è inammissibile l'istanza
con la quale si chiede all'Amministrazione non l'ostensione
di atti già esistenti in rerum natura, ma un'attività di
elaborazione e formazione di nuovi documenti, che non può
essere pretesa in sede di accesso.
Ne deriva che tale pretesa non può essere invocata allorché
lo stesso interessato non chieda l'esibizione di documenti
di cui sia certa l'esistenza, ma intende provare l'esistenza
di documenti che egli afferma essere stati a suo tempo
formati, atteso che, agendo diversamente ed ammettendo una
richiesta di esibizione di documenti non corredata con la
prova dell'esistenza delle notizie riferibili all'interesse
di cui l'istante è titolare, in essi contenute, essa si
trasformerebbe in un inammissibile strumento di controllo
sull'attività stessa.
---------------
La reiterazione in sé di una istanza di accesso, ove non
acquisti un contenuto pretestuoso o contrario alla legge
stessa, non è illegittima qualora rientri nello schema
normativo individuato dalla giurisprudenza consolidata in
tema (la quale chiarisce come salvo ammette la salvezza del
diritto dell'interessato a reiterare l'istanza di accesso ed
a pretendere riscontro alla stessa in presenza di fatti
nuovi sopravvenuti, non rappresentati nell'originaria
istanza o anche a fronte di una diversa prospettazione
dell'interesse giuridicamente rilevante).
In primo luogo, va rimarcato come l’accesso documentale sia rivolto
a ottenere documenti esistenti e in possesso della pubblica
amministrazione (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 12.02.2013 n. 846; Consiglio di Stato, sez. IV, 30.07.2012 n. 4316, dove si dichiara inammissibile l'istanza con
la quale si chiede all'Amministrazione non l'ostensione di
atti già esistenti in rerum natura, ma un'attività di
elaborazione e formazione di nuovi documenti, che non può
essere pretesa in sede di accesso).
Ne deriva che tale
pretesa non può essere invocata allorché lo stesso
interessato non chieda l'esibizione di documenti di cui sia
certa l'esistenza, ma intende provare l'esistenza di
documenti che egli afferma essere stati a suo tempo formati, atteso che, agendo diversamente ed ammettendo una
richiesta di esibizione di documenti non corredata con la
prova dell'esistenza delle notizie riferibili all'interesse
di cui l'istante è titolare, in essi contenute, essa si
trasformerebbe in un inammissibile strumento di controllo
sull'attività stessa (Consiglio di Stato, sez. IV, 10.12.2009 n. 7725).
In secondo luogo, va sottolineato come la scienza
dell’amministrazione, e quindi i documenti che la
rappresentano, non siano detenuti ad uso proprio, ma
rappresentino un bene fruibile dalla collettività, secondo
la disciplina del diritto d’accesso stesso. Per cui, la
reiterazione in sé di una istanza di accesso, ove non
acquisti un contenuto pretestuoso o contrario alla legge
stessa (come nel caso esaminato da Consiglio di Stato, sez. IV, 12.02.2013 n. 846), non è illegittima, qualora
rientri nello schema normativo individuato dalla
giurisprudenza consolidata in tema (la quale chiarisce
come salvo ammette la salvezza del diritto
dell'interessato a reiterare l'istanza di accesso ed a
pretendere riscontro alla stessa in presenza di fatti nuovi
sopravvenuti, non rappresentati nell'originaria istanza o
anche a fronte di una diversa prospettazione dell'interesse
giuridicamente rilevante; cfr., Consiglio di Stato, sez. V,
12.03.2009 n. 1429; Consiglio di Stato, sez. V, 02.02.2010 n. 442; Consiglio di Stato, sez. V,
02.02.2010 n. 442; Consiglio di Stato, sez. IV, 06.06.2011
n. 3403) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.06.2013 n. 3267 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La pretesa delle parti appellanti, ossia il
riconoscimento di un danno risarcibile come conseguenza
dell’azione amministrativa illegittima, non è qualificabile
come evento direttamente conseguente alla declaratoria
giurisdizionale dell’illegittimità di un atto
amministrativo, ma deve essere fondata su una pluralità di
presupposti, desumibili dalla normativa civilistica in tema
di danno extracontrattuale, che contemplano, accanto
all’accertata non conformità a legge del provvedimento
lesivo, anche la sussistenza del danno de quo, la puntuale e
ragionevole dimostrazione del rapporto di causa ed effetto
che si instaura tra atto illegittimo e danno e
l’imputabilità all’amministrazione stessa del fatto.
Non vi è quindi un meccanismo di automatica equivalenza tra
l’intervenuto annullamento dell’atto amministrativo,
l’evidenziato comportamento illegittimo della pubblica
amministrazione e la risarcibilità del danno ingiusto
eventualmente patito dal soggetto destinatario degli effetti
lesivi dell’atto annullato. Ed è alla parte istante, secondo
la normale ripartizione dell’onere probatorio nell’ambito
dei diritti soggettivi, che spetta dare contezza dei fatti
sui quali si fonda la propria pretesa.
In via preliminare, la Sezione evidenzia come la pretesa delle
parti appellanti, ossia il riconoscimento di un danno
risarcibile come conseguenza dell’azione amministrativa
illegittima, non sia qualificabile come evento direttamente
conseguente alla declaratoria giurisdizionale
dell’illegittimità di un atto amministrativo, ma deve essere
fondata su una pluralità di presupposti, desumibili dalla
normativa civilistica in tema di danno extracontrattuale,
che contemplano, accanto all’accertata non conformità a
legge del provvedimento lesivo, anche la sussistenza del
danno de quo, la puntuale e ragionevole dimostrazione del
rapporto di causa ed effetto che si instaura tra atto
illegittimo e danno e l’imputabilità all’amministrazione
stessa del fatto.
Non vi è quindi un meccanismo di automatica equivalenza tra
l’intervenuto annullamento dell’atto amministrativo,
l’evidenziato comportamento illegittimo della pubblica
amministrazione e la risarcibilità del danno ingiusto
eventualmente patito dal soggetto destinatario degli effetti
lesivi dell’atto annullato. Ed è alla parte istante, secondo
la normale ripartizione dell’onere probatorio nell’ambito
dei diritti soggettivi, che spetta dare contezza dei fatti
sui quali si fonda la propria pretesa.
Sulla base di queste premesse incontestabili e del tutto
pacifiche, ed in disparte ogni valutazione sull’effettiva
spettanza del bene della vita, la cui lesione viene fondata
come fatto a sostegno del danno subito dagli appellanti (va
infatti rammentato che il TAR in sede di cognizione ha
evidenziato come l’amministrazione avrebbe prima dovuto
annullare la concessione edilizia rilasciata per poi
procedere alla fase sanzionatoria, evidenziando ad ogni modo
il contrasto tra il manufatto realizzato e la pianificazione
vigente), va effettivamente rimarcato come alcun valido
elemento probatorio sia stato portato a sostegno della
pretesa risarcitoria.
A tal fine, appare necessario evidenziare come correttamente
il TAR abbia respinto la pretesa degli originari
ricorrenti, reiterata in appello, fondata su due diverse
voci di danno, entrambe miranti a ottenere un danno
ipotetico.
In merito alla prima voce vantata, ossia al subito
incremento dei prezzi necessari per la realizzazione
dell’opera de qua, ha ben evidenziato il giudice di prime
cure come non si trattasse di danno effettivo, ma di mera
ipotesi, atteso che gli stessi erano fondati su meri
preventivi e quindi non si trattava di spese effettivamente
sostenute. Tale dato appare incontestabile, atteso che,
anche in sede di appello, la parte ha evidenziato che non si
trattava di preventivi, ma di “richieste di nuovi maggiori
prezzi e corrispettivi” (pag. 7), ossia di fatti futuri, che
confermano pienamente la ricostruzione del TAR come danno
meramente ipotetico.
In merito alla seconda voce, ossia al danno subito per la
forzata protrazione del contratto di locazione
dell’abitazione, l’ipoteticità appare ancora più marcata,
atteso che il danno si basa su una serie di elementi del
tutto incerti e teorici (realizzazione dell’opera,
destinazione dell’opera ad abitazione, ecc.), sui quali non
vi è stato alcun riscontro, nemmeno al momento di questa
decisione, intervenuta a congrua distanza temporale dai
fatti.
Infine, per quanto attiene la decisione di compensare le
spese di giudizio, occorre evidenziare come la scelta
appartenga alla piena valutazione del giudice, che qui si
dimostra del tutto condivisibile, visto come la sentenza
abbia rimarcato la differenza tra procedimento adottato e
effettiva legittimità dell’opera realizzata e parzialmente
respinto la pretesa dei ricorrenti (si veda Consiglio di
Stato, sez. IV, 28.02.2013 n. 1232, dove si afferma che nel
processo amministrativo di primo grado è sufficiente a
giustificare la compensazione fra le parti in causa delle
spese e degli onorari del giudizio la circostanza che il
giudice di prime cure, dopo l'accoglimento della domanda di
annullamento, abbia respinto quella di risarcimento, con
conseguente reciproca soccombenza dei litiganti) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.06.2013 n. 3266 - link a
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URBANISTICA:
Il problema del contenuto e dei limiti della
pianificazione urbanistica, del significato stesso del
concetto di “urbanistica” in senso giuridico e, di
conseguenza, del contenuto della potestà pianificatoria, è
già stato affrontato da questo Consiglio di Stato con
considerazioni che devono essere riconfermate ai fini della
presente decisione.
Si è affermato che il potere di pianificazione urbanistica
del territorio –la cui attribuzione e conformazione
normativa è costituzionalmente conferita alla potestà
legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art.
117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente
attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti
di pianificazione, al Comune– non è limitato alla
individuazione delle destinazioni delle zone del territorio
comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti
edificatori delle stesse.
Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere
rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica
che non è limitato solo alla disciplina coordinata della
edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia,
distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per
mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi
anche finalità economico–sociali della comunità locale (non
in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi
interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello
Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di
valori costituzionalmente tutelati.
Proprio per tali ragioni, lo stesso legislatore
costituzionale, nel novellare l’art. 117 della Costituzione
per il tramite della legge cost. n. 3/2001, ha sostituito
–al fine di individuare le materie rientranti nella potestà
legislativa concorrente Stato-Regioni- il termine
“urbanistica” con la più onnicomprensiva espressione di
“governo del territorio”, certamente più aderente,
contenutisticamente, alle finalità di pianificazione che
oggi devono ricomprendersi nel citato termine di
“urbanistica”.
D’altra parte, già il legislatore ordinario (sia pure ai
fini della attribuzione di giurisdizione sulle relative
controversie), con l’art. 34, comma 2, d.lgs. 31.03.1998 n.
80, aveva affermato che “la materia urbanistica concerne
tutti gli aspetti dell’uso del territorio”.
Tali finalità, per così dire “più complessive”
dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano
attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla legge
17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto
della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi” (art. 1),
non solo nell’”assetto ed incremento edilizio” dell’abitato,
ma anche nello “sviluppo urbanistico in genere nel
territorio della Repubblica”.
In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio
del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul
piano giuridico, solo come un coordinamento delle
potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà,
così offrendone una visione affatto minimale, ma devono
essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali
sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo
complessivo ed armonico del medesimo. Uno sviluppo che tenga
conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli -non in
astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di
abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei
luoghi–, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di
esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre
degli abitanti, sia delle esigenze economico–sociali della
comunità radicata sul territorio (tra le quali certamente
rientra l’aspirazione, anche in proprietà, alla casa di
abitazione), sia, in definitiva, del modello di sviluppo che
si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione
della loro storia, tradizione, ubicazione e di una
riflessione “de futuro” sulla propria stessa essenza, svolta
-per autorappresentazione ed autodeterminazione- dalla
comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi
elettivi e, prima ancora, attraverso la partecipazione dei
cittadini al procedimento pianificatorio.
In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è
funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo
edilizio del territorio in considerazione delle diverse
tipologie di edificazione distinte per finalità (civile
abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e
artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla
realizzazione contemperata di una pluralità di interessi
pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti.
Ne consegue che, diversamente opinando, e cioè nel senso di
ritenere il potere di pianificazione urbanistica limitato
alla sola prima ipotesi, si priverebbe la pubblica
amministrazione di un essenziale strumento di realizzazione
di valori costituzionali, quali sono almeno quelli espressi
dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma
secondo, Cost..
A quanto sin qui esposto, occorre aggiungere che l’onere di
motivazione gravante sull’amministrazione in sede di
adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui
le scelte effettuate incidano su zone territorialmente
circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere
generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili
generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate,
senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata”, così
come, nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello
strumento urbanistico, non occorre controdedurre
singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e
opposizione.
Occorre, infatti, ribadire che le scelte urbanistiche (in
particolare, in sede di variante) richiedono puntuale
motivazione esclusivamente ove incidano su zone
territorialmente circoscritte, ledendo legittime aspettative
(specie edificatorie) dei privati proprietari, in
conseguenza non soltanto di statuizioni di pronunce
giurisdizionali passate in giudicato, ma anche di accordi
con l'ente locale ed in particolare di convenzioni di
lottizzazione divenute operative. A fronte di aspettative di
mero fatto, le scelte di natura tanto ambientale quanto
urbanistica rimesse all'Amministrazione nell'interesse
generale, infatti, sono di regola sufficientemente motivate
con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che
hanno sorretto la previsione, senza necessità di una
motivazione puntuale e "mirata".
Le scelte urbanistiche, dunque, richiedono una motivazione
più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni
interessanti la pianificazione in generale, ovvero un’area
determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche,
pregiudicando, si ripete, legittime aspettative; così come,
mentre richiede una motivazione specifica una variante che
interessi aree determinate del PRG., per le quali
quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior
ragione in presenza di legittime aspettative dei privati),
non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di
un’area muta per effetto della adozione di un nuovo
strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e
complessiva definizione del territorio comunale.
Il Collegio non può che condividere l’esposizione dei principi che
regolano il contenuto ed i limiti della potestà pianificatoria, esposti nella sentenza appellata e come da
questa ricavati dalla giurisprudenza.
Il problema del contenuto e dei limiti della pianificazione
urbanistica, del significato stesso del concetto di
“urbanistica” in senso giuridico e, di conseguenza, del
contenuto della potestà pianificatoria, è stato affrontato
da questo Consiglio di Stato, sez. IV, con la sentenza 10.05.2012 n. 2710, medio tempore pubblicata, con
considerazioni che devono essere riconfermate ai fini della
presente decisione.
Si è affermato che il potere di pianificazione urbanistica
del territorio –la cui attribuzione e conformazione
normativa è costituzionalmente conferita alla potestà
legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art.
117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente
attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti
di pianificazione, al Comune– non è limitato alla
individuazione delle destinazioni delle zone del territorio
comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti
edificatori delle stesse.
Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere
rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica
che non è limitato solo alla disciplina coordinata della
edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia,
distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per
mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi
anche finalità economico–sociali della comunità locale (non
in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi
interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello
Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di
valori costituzionalmente tutelati.
Proprio per tali ragioni, lo stesso legislatore
costituzionale, nel novellare l’art. 117 della Costituzione
per il tramite della legge cost. n. 3/2001, ha sostituito –al fine di individuare le materie rientranti nella potestà
legislativa concorrente Stato-Regioni- il termine
“urbanistica” con la più onnicomprensiva espressione di
“governo del territorio”, certamente più aderente, contenutisticamente, alle finalità di pianificazione che
oggi devono ricomprendersi nel citato termine di
“urbanistica”.
D’altra parte, già il legislatore ordinario (sia pure ai
fini della attribuzione di giurisdizione sulle relative
controversie), con l’art. 34, comma 2, d.lgs. 31.03.1998
n. 80, aveva affermato che “la materia urbanistica concerne
tutti gli aspetti dell’uso del territorio”.
Tali finalità, per così dire “più complessive”
dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano
attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla legge 17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto
della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi” (art. 1),
non solo nell’”assetto ed incremento edilizio” dell’abitato,
ma anche nello “sviluppo urbanistico in genere nel
territorio della Repubblica”.
In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio
del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul
piano giuridico, solo come un coordinamento delle
potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà,
così offrendone una visione affatto minimale, ma devono
essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali
sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo
complessivo ed armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità
edificatorie dei suoli -non in astratto, bensì in relazione
alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle
concrete vocazioni dei luoghi–, sia di valori ambientali e
paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e
quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze
economico–sociali della comunità radicata sul territorio
(tra le quali certamente rientra l’aspirazione, anche in
proprietà, alla casa di abitazione), sia, in definitiva, del
modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi
stessi, in considerazione della loro storia, tradizione,
ubicazione e di una riflessione “de futuro” sulla propria
stessa essenza, svolta -per autorappresentazione ed
autodeterminazione- dalla comunità medesima, attraverso le
decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora,
attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio.
In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è
funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo
edilizio del territorio in considerazione delle diverse
tipologie di edificazione distinte per finalità (civile
abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e
artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla
realizzazione contemperata di una pluralità di interessi
pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti.
Ne consegue che, diversamente opinando, e cioè nel senso di
ritenere il potere di pianificazione urbanistica limitato
alla sola prima ipotesi, si priverebbe la pubblica
amministrazione di un essenziale strumento di realizzazione
di valori costituzionali, quali sono almeno quelli espressi
dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma
secondo, Cost..
A quanto sin qui esposto, occorre aggiungere che l’onere di
motivazione gravante sull’amministrazione in sede di
adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui
le scelte effettuate incidano su zone territorialmente
circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere
generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili
generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate,
senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata”
(Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008 n. 5478), così come,
nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello
strumento urbanistico, non occorre controdedurre
singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e
opposizione.
Occorre, infatti, ribadire che le scelte urbanistiche (in
particolare, in sede di variante) richiedono puntuale
motivazione esclusivamente ove incidano su zone
territorialmente circoscritte, ledendo legittime aspettative
(specie edificatorie) dei privati proprietari, in
conseguenza non soltanto di statuizioni di pronunce
giurisdizionali passate in giudicato, ma anche di accordi
con l'ente locale ed in particolare di convenzioni di
lottizzazione divenute operative. A fronte di aspettative di
mero fatto, le scelte di natura tanto ambientale quanto
urbanistica rimesse all'Amministrazione nell'interesse
generale, infatti, sono di regola sufficientemente motivate
con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che
hanno sorretto la previsione, senza necessità di una
motivazione puntuale e "mirata" (Cons. Stato, sez. IV. n.
5478/2008 cit.).
Le scelte urbanistiche, dunque, richiedono una motivazione
più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni
interessanti la pianificazione in generale, ovvero un’area
determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche,
pregiudicando, si ripete, legittime aspettative; così come,
mentre richiede una motivazione specifica una variante che
interessi aree determinate del PRG., per le quali
quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior
ragione in presenza di legittime aspettative dei privati),
non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di
un’area muta per effetto della adozione di un nuovo
strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e
complessiva definizione del territorio comunale.
In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la
destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno
di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo
che la motivazione non può riguardare ogni singola
previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo
criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle
scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento
urbanistico.
Né, d’altra parte, una destinazione di zona precedentemente
impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre,
di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo
appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un
nuovo PRG, conseguenza di una nuova e complessiva
valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e
delle esigenze medio tempore sopravvenute (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.06.2013 n. 3262 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Rispondono di abuso di ufficio il Sindaco e il
Consigliere comunale che procedono alla nomina di parenti
privi dei requisiti prescritti dalla normativa, violando il
perseguimento dell’interesse pubblico in considerazione
della prevalenza di aspetti legati alla comune militanza
politica, ovvero alla prossimità parentale dei nominati con
esponenti della medesima coalizione politica.
La VI Sez. penale si pronuncia in tema di abuso di ufficio.
Un sindaco e un consigliere comunale venivano condannati per
avere nominato illegalmente nel proprio staff familiari
privi dei requisiti soggettivi richiesti dalla legge. Nel
condividere il significato complessivo del quadro probatorio
posto in risalto dai giudici di prime e seconde cure, la
Corte Suprema concorda sulla obiettiva e macroscopica
violazione del regolamento comunale del nucleo di
valutazione, approvato con la delibera di Giunta, che
stabiliva, in ossequio al D.Lgs. 30.07.1999, n. 286, che la
nomina dei componenti della relativa struttura di supporto
tecnico del Sindaco doveva essere effettuata "tra esperti
qualificati in materie economiche e/o in materie di
organizzazione aziendale e del lavoro e/o in materie
giuridiche", da scegliere sulla base di un adeguato
curriculum professionale.
Al nucleo di valutazione, composto da tre membri nominati
dal Sindaco, spettava, tra l'altro, il controllo interno
della regolarità amministrativa, della gestione delle
risorse pubbliche e della realizzazione degli obiettivi,
unitamente alla valutazione della dirigenza o del personale
incaricato di posizioni organizzative, con funzioni
rilevanti in tema di valutazione delle prestazioni dei
responsabili delle aree e, soprattutto, delle scelte
compiute in sede di attuazione dei piani, programmi ed altri
strumenti di determinazione dell'indirizzo politico, in
termini di congruenza tra risultati conseguiti ed obiettivi
predefiniti.
Sebbene l'istituzione del nucleo di valutazione rispondesse
all'esigenza di costituire una struttura di supporto tecnico
consultivo e propositivo del Sindaco, sì da individuare gli
strumenti tecnici più idonei per la verifica del
conseguimento dei correlativi obiettivi di indirizzo
politico, il provvedimento di nomina è stato adottato in
favore di persone palesemente prive, all'atto della scelta,
dei requisiti necessari, o perché neppure laureate, ovvero
perché laureate in discipline diverse da quelle menzionate
nel regolamento, o, infine, perché laureate, ma del tutto
prove di esperienza nei su indicati settori di riferimento.
A tale riguardo, inoltre, l'assenza di un'adeguata
istruttoria, così come l'assoluta carenza di motivazione dei
provvedimenti di nomina, in ordine alla verifica del
possesso dei requisiti soggettivi richiesti dalle norme
regolamentari, hanno coerentemente indotto i Giudici di
merito a concludere nel senso che le relative
determinazioni, anziché dettate dalla volontà di garantire
il perseguimento del pubblico interesse, furono viziate da
un criterio selettivo diverso da quello stabilito nella
norma regolamentare, e segnatamente dalla prevalente
considerazione di aspetti legati alla comune militanza
politica, ovvero alla prossimità parentale dei nominati con
esponenti della medesima coalizione politica che sosteneva
il Sindaco.
La norma regolamentare, così come formulata, richiede,
infatti, il possesso congiunto di una qualifica
professionale e di una comprovata esperienza negli specifici
settori delle competenze di riferimento, senza rendere
necessario, peraltro, il raggiungimento della soglia del
possesso di un eccellente livello di specializzazione, anche
di tipo universitario, richiesto invece per il conferimento
di incarichi individuali a consulenti esterni delle
amministrazioni pubbliche (arg. ex art. 7, comma 6, del
D.Lgs. 30.03.2001, n. 165).
Muovendo da tali preliminari considerazioni, dunque, la
sesta sezione penale ascrive la vicenda in esame nel reato
di abuso di ufficio, in considerazione della prevalenza di
aspetti legati alla comune militanza politica ovvero di
interessi privati (Corte
di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 12.06.2013 n. 25859 -
link a www.neldiritto.it). |
APPALTI:
a) nelle gare pubbliche, la formula da utilizzare
per la valutazione dell’offerta economica può essere scelta
dall’amministrazione con ampia discrezionalità e di
conseguenza la stazione appaltante dispone di ampi margini
nella determinazione dei criteri da porre quale riferimento
per l’individuazione dell’offerta economicamente più
vantaggiosa nonché nella individuazione delle formule
matematiche;
b) nella scelta dei criteri di valutazione dell’offerta
economicamente più vantaggiosa sono connaturati i seguenti
limiti:
I) i criteri devono essere coerenti, con le prestazioni che formano
oggetto specifico dell’appalto e essere pertinenti alla
natura, all’oggetto e al contenuto del contratto;
II) in base all’art. 83, co. 1, d.lgs. 163/2006, il criterio
selettivo dell’offerta economicamente più vantaggiosa impone
alla stazione appaltante di determinare nella legge di gara
i criteri di valutazione dell’offerta «pertinenti alla
natura, all’oggetto e alle caratteristiche del contratto»;
III) una volta optato per un determinato sistema (quale l’offerta
economicamente più vantaggiosa) il quale riconosce adeguato
rilievo alla componente-prezzo nell’ambito della dinamica
complessiva dell’offerta, è poi illegittimo l’operato
dell’amministrazione la quale fissi regole di gara tali da
annullare il rilievo dell’offerta economica nell’economia
complessiva dei fattori idonei a determinare
l’aggiudicazione;
c) le posizioni soggettive delle imprese coinvolte nella
procedura sono pacificamente qualificabili in termini di
interesse legittimo ed è altrettanto assodato che le
relative controversie non rientrano nel novero delle
tassative ed eccezionali ipotesi di giurisdizione di merito
sancite oggi dall’art. 134 c.p.a.;
d) il sindacato giurisdizionale nei confronti di tali
scelte, tipica espressione di discrezionalità
tecnico-amministrativa, è consentito unicamente in casi di
abnormità, sviamento e manifesta illogicità; premesso che a
seguito della storica decisione di questo Consiglio, è
pacifico che il controllo sugli apprezzamenti tecnici
dell’amministrazione possa svolgersi attraverso la verifica
diretta dell’attendibilità delle operazioni compiute da
quest’ultima, sotto il profilo della loro correttezza quanto
a criterio tecnico ed a procedimento applicativo, è
necessario precisare che tale riscontro esigibile dal
giudice amministrativo sulle valutazioni discrezionali deve
essere svolto extrinsecus, nei limiti della rilevabilità
ictu oculi dei vizi di legittimità dedotti, essendo diretto
ad accertare il ricorrere di seri indici di invalidità e non
alla sostituzione dell’amministrazione; la sostituzione, da
parte del giudice amministrativo, della propria valutazione
a quella riservata alla discrezionalità dell’amministrazione
costituisce ipotesi di sconfinamento vietato della
giurisdizione di legittimità nella sfera riservata alla
p.a., quand’anche l’eccesso in questione sia compiuto da una
pronuncia il cui contenuto dispositivo si mantenga nell’area
dell’annullamento dell’atto; in base al principio di
separazione dei poteri sotteso al nostro ordinamento
costituzionale, solo l’amministrazione è in grado di
apprezzare, in via immediata e diretta, l’interesse pubblico
affidato dalla legge alle sue cure, conseguentemente, il
sindacato sulla motivazione delle valutazioni discrezionali:
I) deve essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica
della non pretestuosità della valutazione degli elementi di
fatto acquisiti;
II) non può avvalersi di criteri che portano ad evidenziare la mera
non condivisibilità della valutazione stessa;
III) deve tenere distinti i profili meramente accertativi da quelli
valutativi (a più alto tasso di opinabilità) rimessi
all’organo amministrativo, potendo esercitare più penetranti
controlli, anche mediante c.t.u. o verificazione, solo avuto
riguardo ai primi.
Ritenuto, circa l’ambito della discrezionalità esercitabile dalla
stazione appaltante nell’individuare i criteri e sub criteri
(con i relativi punteggi) indispensabili per selezionare
l’offerta economicamente più vantaggiosa, la natura delle
posizioni soggettive coinvolte e il sindacato esercitabile
dal giudice amministrativo su tali scelte nell’ambito del
quadro ordinamentale e processuale nazionale, che il
collegio non intende decampare dai consolidati principi
elaborati dalla giurisprudenza (cfr. Cons. St., sez. V, 18.02.2013, n. 978; sez. V, 10.01.2013, n. 88; sez.
V, 27.06.2012, n. 3781, cui si rinvia a mente del
combinato disposto degli artt. 74, co. 1, 88, co. 2, lett.
d), e 120, co. 10, c.p.a.), in forza dei quali:
a) nelle gare pubbliche, la formula da utilizzare per la
valutazione dell’offerta economica può essere scelta
dall’amministrazione con ampia discrezionalità e di
conseguenza la stazione appaltante dispone di ampi margini
nella determinazione dei criteri da porre quale riferimento
per l’individuazione dell’offerta economicamente più
vantaggiosa nonché nella individuazione delle formule
matematiche;
b) nella scelta dei criteri di valutazione dell’offerta
economicamente più vantaggiosa sono connaturati i seguenti
limiti:
I) i criteri devono essere coerenti, con le prestazioni che
formano oggetto specifico dell’appalto e essere pertinenti
alla natura, all’oggetto e al contenuto del contratto;
II) in base all’art. 83, co. 1, d.lgs. 163/2006, il criterio
selettivo dell’offerta economicamente più vantaggiosa impone
alla stazione appaltante di determinare nella legge di gara
i criteri di valutazione dell’offerta «pertinenti alla
natura, all’oggetto e alle caratteristiche del contratto»;
III) una volta optato per un determinato sistema (quale
l’offerta economicamente più vantaggiosa) il quale riconosce
adeguato rilievo alla componente-prezzo nell’ambito della
dinamica complessiva dell’offerta, è poi illegittimo
l’operato dell’amministrazione la quale fissi regole di gara
tali da annullare il rilievo dell’offerta economica
nell’economia complessiva dei fattori idonei a determinare
l’aggiudicazione;
c) le posizioni soggettive delle imprese coinvolte nella
procedura sono pacificamente qualificabili in termini di
interesse legittimo ed è altrettanto assodato che le
relative controversie non rientrano nel novero delle
tassative ed eccezionali ipotesi di giurisdizione di merito
sancite oggi dall’art. 134 c.p.a. (cfr., sotto l’egida della
precedente normativa, identica in parte qua, Cons. St., ad. plen.,
09.01.2002, n. 1);
d) il sindacato giurisdizionale nei confronti di tali
scelte, tipica espressione di discrezionalità
tecnico-amministrativa, è consentito unicamente in casi di
abnormità, sviamento e manifesta illogicità; premesso che a
seguito della storica decisione di questo Consiglio (cfr.
sez. IV, 09.04.1999, n. 601), è pacifico che il controllo
sugli apprezzamenti tecnici dell’amministrazione possa
svolgersi attraverso la verifica diretta dell’attendibilità
delle operazioni compiute da quest’ultima, sotto il profilo
della loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a
procedimento applicativo, è necessario precisare che tale
riscontro esigibile dal giudice amministrativo sulle
valutazioni discrezionali deve essere svolto extrinsecus,
nei limiti della rilevabilità ictu oculi dei vizi di
legittimità dedotti, essendo diretto ad accertare il
ricorrere di seri indici di invalidità e non alla
sostituzione dell’amministrazione; la sostituzione, da parte
del giudice amministrativo, della propria valutazione a
quella riservata alla discrezionalità dell’amministrazione
costituisce ipotesi di sconfinamento vietato della
giurisdizione di legittimità nella sfera riservata alla
p.a., quand’anche l’eccesso in questione sia compiuto da una
pronuncia il cui contenuto dispositivo si mantenga nell’area
dell’annullamento dell’atto; in base al principio di
separazione dei poteri sotteso al nostro ordinamento
costituzionale, solo l’amministrazione è in grado di
apprezzare, in via immediata e diretta, l’interesse pubblico
affidato dalla legge alle sue cure, conseguentemente, il
sindacato sulla motivazione delle valutazioni discrezionali:
I) deve essere rigorosamente mantenuto sul piano della
verifica della non pretestuosità della valutazione degli
elementi di fatto acquisiti;
II) non può avvalersi di criteri che portano ad evidenziare
la mera non condivisibilità della valutazione stessa;
III) deve tenere distinti i profili meramente accertativi da
quelli valutativi (a più alto tasso di opinabilità) rimessi
all’organo amministrativo, potendo esercitare più penetranti
controlli, anche mediante c.t.u. o verificazione, solo avuto
riguardo ai primi (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.06.2013 n. 3239 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Bar rumoroso? No penale.
Nel caso di un pubblico esercizio che impedisce il riposo
delle persone il superamento dei limiti massimi di rumore
stabiliti dalla normativa comporta solo la sanzione
amministrativa fissata dalla legge sull'inquinamento
acustico. Non scatta quindi più automaticamente la denuncia
penale quando l'esercente impedisce il sonno ai vicini
impedendo la propagazione del rumore degli avventori.
Lo ha
stabilito la Corte di Cassazione, Sez. I pen., con la
sentenza
11.06.2013 n. 25601.
I gestori di un bar
rumoroso sono stati denunciati dai vigili per disturbo della
quiete pubblica e il tribunale di Milano ha confermato la
loro responsabilità penale ai sensi dell'art. 659 cp
(articolo ItaliaOggi del 25.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Condensa
e infiltrazioni in casa? Il costruttore è tenuto a risarcire
il danno derivante da difetti e carenze!
L’impresa è responsabile di tutti i difetti di costruzione,
anche di quelli più piccoli.
È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, Sez. II
civile, con la
sentenza 11.06.2013 n. 14650, precisando che la
responsabilità del costruttore vale anche per i difetti di
piccola portata e non solo per quelli in grado di incidere
sulla staticità dell’edificio.
Nel caso in esame un condominio aveva citato in giudizio il
costruttore per alcuni difetti nell’immobile acquistato tra
cui infiltrazioni in corrispondenza degli infissi, distacco
dell’intonaco circostante, condensa dovuta a ponti termici
dovuti alla composizione non omogenea della parete esterna
in cemento e laterizio.
Il Tribunale ordinario aveva accolto la richiesta,
condannando il costruttore al pagamento di 71.000 euro a
titolo di risarcimento.
La Corte d’Appello aveva ribaltato la sentenza sostenendo
che il risarcimento sarebbe stato possibile solo per difetti
costruttivi così gravi da incidere sulle componenti
essenziali dell’opera in modo da pregiudicarne la normale
utilità.
A detta della Cassazione, invece, per agire contro il
costruttore è sufficiente qualsiasi alterazione incidente
sulla struttura e sulla funzionalità dell’edificio che ne
pregiudichi il godimento in misura apprezzabile e l’impiego
duraturo cui è destinato.
Tra i gravi difetti di cui il costruttore è chiamato a
rispondere, sostengono i giudici di legittimità, rientrano
anche le infiltrazioni di acqua dovute a carenze
dell’impermeabilizzazione che possono essere eliminate con
interventi di manutenzione ordinaria
(27.06.2013 - link a www.acca.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L’art. 52 d.lgs. n. 165/2001 sancisce il diritto
alla adibizione alle mansioni per le quali il dipendente è
stato assunto o ad altre equivalenti, e recepisce -attese le
perduranti peculiarità relative alla natura pubblica del
datore di lavoro, tuttora condizionato, nell'organizzazione
del lavoro, da vincoli strutturali di conformazione al
pubblico interesse e di compatibilità finanziaria delle
risorse- un concetto di equivalenza "formale", ancorato alle
previsioni della contrattazione collettiva
(indipendentemente dalla professionalità acquisita) e non
sindacabile dal giudice, con la conseguenza che condizione
necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere
considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da
parte della contrattazione collettiva, indipendentemente
dalla professionalità acquisita.
Pertanto, nel caso di ampliamento della pianta organica con
creazione di una posizione dirigenziale non si registra un
demansionamento nei confronti del dipendente già in servizio
sino ad allora titolare della posizione apicale all’interno
del Corpo di Polizia municipale, ma inquadrato in una
posizione inferiore. Semplicemente, si registra un
riallineamento automatico delle posizioni lavorative imposto
dalla stessa l. n. 65/1986, dalla cui disciplina si evince
che il Comandante del Corpo di Polizia municipale deve avere
la qualifica di vigile urbano, ha la responsabilità del
Corpo e ne risponde direttamente al Sindaco.
Del resto appare utile rammentare come per giurisprudenza
consolidata la nomina a Comandante del Corpo non deve essere
necessariamente accompagnata dall’assegnazione di una
qualifica dirigenziale.
Inoltre in questa sede non può che ribadirsi l’avviso già
espresso dalla Suprema Corte in ordine ai limiti che
incontra il sindacato di legittimità del giudice: “Nel
regime di impiego contrattualizzato alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni successivo al d.lgs. n. 80 del
1998, ove le mansioni attribuite ad un dipendente pubblico
siano modificate come conseguenza di un atto amministrativo
che incide sulle linee fondamentali e di organizzazione
dell'ente, compete al giudice di merito, risolvendosi
nell'accertamento della volontà della P.A., la
interpretazione dell'atto amministrativo, e la relativa
valutazione è incensurabile in sede di legittimità se
sorretta da motivazione adeguata ed immune dalla violazione
delle norme che, dettate per la interpretazione dei
contratti, sono applicabili anche agli atti amministrativi”.
Resta, quindi, all’attenzione del Consiglio l’esame di
quelle doglianze che si rivolgono avverso l’atto di macrorganizzazione con il quale l’amministrazione appellata
ha provveduto a rivedere la pianta organica del Corpo di
Polizia municipale e quelle rivolte contro il bando con le
quali si contesta la possibilità stessa di avviare la
procedura concorsuale. Mentre per le ragioni sopra descritte
non possono essere valutate le censure contenute nell’atto
di appello e riassunte nel punto 3 della parte in fatto
dell’odierna motivazione dalla lett. f) alla lett. i).
L’appellante si duole della circostanza che in
violazione di quanto dispone l’art. 52 d.lgs. n. 165/2001,
non sarebbe possibile sottrarre le mansioni affidate ad un
pubblico dipendente, né varrebbe quale giustificazione la
presunta riorganizzazione del Corpo di Polizia municipale,
poiché tale non potrebbe essere valutata la mera assunzione
di un nuovo dipendente.
La censura è priva di pregio e va
disattesa.
L’art. 52 d.lgs. n. 165/2001, infatti, sancisce
il diritto alla adibizione alle mansioni per le quali il
dipendente è stato assunto o ad altre equivalenti, e
recepisce -attese le perduranti peculiarità relative alla
natura pubblica del datore di lavoro, tuttora condizionato,
nell'organizzazione del lavoro, da vincoli strutturali di
conformazione al pubblico interesse e di compatibilità
finanziaria delle risorse- un concetto di equivalenza
"formale", ancorato alle previsioni della contrattazione
collettiva (indipendentemente dalla professionalità
acquisita) e non sindacabile dal giudice, con la conseguenza
che condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni
possano essere considerate equivalenti è la mera previsione
in tal senso da parte della contrattazione collettiva,
indipendentemente dalla professionalità acquisita (Cass.,
sez. lav., 11.05.2010, n. 11405).
Pertanto, nel caso di
ampliamento della pianta organica con creazione di una
posizione dirigenziale non si registra un demansionamento
nei confronti del dipendente già in servizio sino ad allora
titolare della posizione apicale all’interno del Corpo di
Polizia municipale, ma inquadrato in una posizione
inferiore. Semplicemente, si registra un riallineamento
automatico delle posizioni lavorative imposto dalla stessa
l. n. 65/1986, dalla cui disciplina si evince che il
Comandante del Corpo di Polizia municipale deve avere la
qualifica di vigile urbano, ha la responsabilità del Corpo e
ne risponde direttamente al Sindaco (Cons. St., Sez. V, 14.05.2013, n. 2607).
Del resto appare utile rammentare
come per giurisprudenza consolidata la nomina a Comandante
del Corpo non deve essere necessariamente accompagnata
dall’assegnazione di una qualifica dirigenziale (Cons. St.,
sez. V, 14.11.1997, n. 1303).
Inoltre in questa sede
non può che ribadirsi l’avviso già espresso dalla Suprema
Corte in ordine ai limiti che incontra il sindacato di
legittimità del giudice: “Nel regime di impiego contrattualizzato alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni successivo al d.lgs. n. 80 del 1998, ove le
mansioni attribuite ad un dipendente pubblico siano
modificate come conseguenza di un atto amministrativo che
incide sulle linee fondamentali e di organizzazione
dell'ente, compete al giudice di merito, risolvendosi
nell'accertamento della volontà della P.A., la
interpretazione dell'atto amministrativo, e la relativa
valutazione è incensurabile in sede di legittimità se
sorretta da motivazione adeguata ed immune dalla violazione
delle norme che, dettate per la interpretazione dei
contratti, sono applicabili anche agli atti amministrativi”
(Cass., Sez. Lav., 11.09.2007, n. 19025).
Appare,
ancora, del tutto infondato il profilo di illegittimità
inerente l’assenza di una vera riorganizzazione del Corpo di
Polizia municipale, non potendo la stessa ridursi
nell’ampliamento di organico di una sola unità come
lamentato dall’appellante. Sotto questo profilo, infatti, il
varo della L.R. Lombardia, n. 3/2004, con attribuzione di
nuove funzioni al Corpo di Polizia municipale ben giustifica
l’esigenza di rafforzarne l’organico, mentre rientra nel
merito della valutazione discrezionale dell’amministrazione
comunale la decisione in ordine all’aumento di una sola
unità, come quella relativa all’individuazione della
qualifica professionale da inserire in pianta organica
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.06.2013 n. 3236 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
I pareri da allegare alle delibere di
Giunta/Consiglio rilevano solo sul piano interno; pertanto,
la loro assenza si traduce in una mera irregolarità e non
ridonda in un vizio di legittimità.
Del pari
infondata è la censura imperniata sull’assenza del parere
del responsabile del servizio.
Invero, secondo un
consolidato orientamento di questo Consiglio, da cui non si
ravvisano ragioni per decampare (cfr. Cons. St., sez. IV, 26.01.2012, n. 351; sez. IV, 22.06.2006, n. 3888; n.
1567 del 2001; 23.04.1998, n. 670), i pareri in
questione rilevano solo sul piano interno, pertanto, la loro
assenza si traduce in una mera irregolarità e non ridonda in
un vizio di legittimità (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.06.2013 n. 3236 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Durc tardivo? Impresa in gara.
La p.a. non chieda documenti in possesso di altri uffici.
Per il Consiglio di stato è ora che
nel pubblico le varie realtà comunichino di più.
Il Durc non arriva in tempo? L'impresa è fuori dalla
procedura a evidenza pubblica. E invece no: se l'azienda
risulta in regola con i contributi e il documento si trova
presso lo sportello unico Inps-Inail, la Regione che ha
promosso la gara non deve far altro che acquisirlo
d'ufficio: l'amministrazione, infatti, non può pretendere
dal privato atti o certificati che risultano già in possesso
di un altro ente pubblico. È ora, insomma, che all'interno
del settore pubblico le varie realtà si parlino e
interagiscano.
È quanto emerge dalla
sentenza
11.06.2013 n. 3231,
pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di Stato.
Buon andamento. Bocciato il ricorso della Regione in una
controversia che nasce da un bando per ottenere incentivi a
valere sui fondi europei (ma il principio affermato da
palazzo Spada ben vale per altre procedure pubbliche, come
le gare d'appalto). Annullata la clausola che prevede
l'esclusione automatica per l'azienda se il Durc non arriva
nel termine prescritto nonostante la richiesta regolarità
contributiva sussista davvero.
L'impresa partecipante fa
richiesta allo sportello unico e ne allega una copia alla
domanda di partecipazione: poi ottiene il documento vero e
proprio e lo invia alla Regione, ma il plico non arriva in
tempo utile. Non per questo l'operatore economico deve
essere condannato a rinunciare al progetto finanziato da
fondi Ue: l'ente territoriale, in virtù del canone
costituzionale del buon andamento dell'amministrazione,
avrebbe dovuto acquisire d'ufficio il cartaceo, dal momento
che disponeva anche dei dati utili.
Nessuna acquiescenza. Né può ritenersi che l'impresa
partecipando alla gara con la presentazione della richiesta
di Durc si sia preclusa la successiva facoltà di
impugnazione. La presentazione della domanda di
partecipazione ad una procedura concorsuale, infatti, non
implica certamente di per sé l'acquiescenza alle clausole
del bando: l'impugnazione può tuttavia scattare unicamente
dopo avere concretamente dimostrato, non solo la volontà di
partecipare alla procedura selettiva, ma anche la lesione
attuale e concreta dell'interesse legittimo azionato
considerato, d'altro canto, che la presentazione della
domanda è un atto normalmente necessario proprio per
radicare l'interesse al ricorso. La Regione paga le spese di
giudizio
(articolo ItaliaOggi del 27.06.2013). |
APPALTI:
Il Consiglio di Stato illustra le fasi di gara
nel
caso di selezione delle offerte da svolgersi con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa (artt. 83 e
segg. del Codice dei contratti pubblici), il cui
procedimento di gara si svolge, normalmente, in tre fasi: in due fasi sono necessarie
prevalenti competenze amministrative ed in una fase sono
necessarie prevalenti competenze tecniche. (... leggere più
sotto).
Per esaminare le censure sollevate che, tenuto conto
della posizione occupata dall’appellante nella graduatoria
di merito, riguardano (anche in appello) il procedimento
seguito dall’amministrazione per l’aggiudicazione della
gara, occorre ricordare che, nel caso di selezione delle
offerte da svolgersi con il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa (artt. 83 e segg. del Codice
dei contratti pubblici), il procedimento di gara si svolge,
normalmente, in tre fasi: in due fasi sono necessarie
prevalenti competenze amministrative ed in una fase sono
necessarie prevalenti competenze tecniche.
Dopo aver ricevuto le offerte, nel termine indicato
dal bando, l’amministrazione in una prima fase svolge
diverse operazioni preliminari alla valutazione delle
offerte: verifica la regolarità dell’invio dell’offerta e il
rispetto delle disposizioni generali e di quelle speciali
contenute nel bando (o nella lettera di invito) e nel
disciplinare di gara (e l’osservanza delle regole sulla
produzione dei documenti).
La stazione appaltante provvede quindi, in seduta pubblica,
all’apertura dei plichi delle diverse offerte che (di norma)
contengono tre buste: la busta A (documentazione
amministrativa), la busta B (documentazione tecnica) e la
busta C (offerta economica).
La stazione appaltante, disposta l’idonea
conservazione delle buste (C) contenenti le offerte
economiche, procede quindi all’apertura delle buste (A)
contenenti la documentazione amministrativa per verificarne
il contenuto e per consentire la successiva verifica dei
requisiti generali previsti dalla normativa sugli appalti
pubblici (artt. 38 e 39 del codice degli appalti) e dei
requisiti speciali, dettati dagli atti di gara (artt. 41 e
42 del codice), nonché di tutte le altre condizioni dettate
per la partecipazione alla gara.
L’amministrazione procede poi, sempre in seduta pubblica
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 28.07.2011, n.
13 e poi art. 12 del d.l. 07.05.2012, n. 52, convertito,
con modificazioni, dalla legge 06.07.2012, n. 94)
all’apertura delle buste (B), contenenti la documentazione
tecnica, per prendere atto del relativo contenuto e per
verificare l’effettiva presenza dei documenti richiesti nel
bando (o nella lettera di invito) e nel disciplinare di gara
(schede tecniche, relazioni tecniche illustrative,
certificazioni tecniche etc.). Anche tale documentazione è
poi conservata in plico sigillato.
Tali attività, preliminari alla valutazione delle
offerte, sono eseguite dal seggio di gara o direttamente dal
responsabile del procedimento unico (RUP), di norma il
dirigente preposto alla competente struttura organizzativa
della stazione appaltante (che si avvale anche dei
funzionari del suo ufficio), che, ai sensi dell’art. 10,
comma 2 del Codice, «svolge tutti i compiti relativi alle
procedure di affidamento previste dal presente codice, ivi
compresi gli affidamenti in economia, e alla vigilanza sulla
corretta esecuzione dei contratti, che non siano
specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti» e, ai
sensi del comma 3, lettera c) «cura il corretto e razionale
svolgimento delle procedure».
Dopo la preliminare fase di verifica dei contenuti
dell’offerta, si passa alla seconda fase di valutazione
delle offerte tecniche.
A tale seconda fase provvede l’apposita Commissione tecnica
che è nominata ai sensi dell’art. 84 del Codice dei
contratti e dell’art. 283, comma 2, del Regolamento di cui al
D.P.R. n. 207 del 2010.
In una o più sedute riservate, la Commissione verifica
quindi la conformità tecnica delle offerte e valuta le
stesse, assegnando i relativi punteggi sulla base di quanto
previsto dal disciplinare di gara (e delle altre regole che
la stessa Commissione si è data).
Completato l’esame dell’offerta tecnica,
l’amministrazione procede, nuovamente in seduta pubblica, ad
informare i partecipanti delle valutazioni compiute, a dare
notizia di eventuali esclusioni e a dare lettura dei
punteggi assegnati dalla Commissione sulle offerte tecniche
dei concorrenti non esclusi.
Quindi, verificata l’integrità del plico contenenti le buste
con le offerte economiche (e l’integrità delle singole
buste), l’amministrazione procede all’apertura delle stesse
con la lettura delle singole offerte, con l’indicazione dei
ribassi offerti e dei conseguenti prezzi netti e la
determinazione (matematica) dei punteggi connessi ai prezzi.
Il seggio di gara formula quindi la graduatoria finale
sulla base della somma dei punteggi assegnati per l’offerta
tecnica e per l’offerta economica e procede
all’aggiudicazione provvisoria in favore dell’offerta che ha
raggiunto il maggiore punteggio complessivo.
Come si è esposto, nella prima fase della procedura, ai
relativi atti (apertura dei plichi, verifica della
documentazione amministrativa e presa d’atto della
documentazione tecnica) provvede, in seduta pubblica, il
seggio di gara.
Le operazioni di valutazione e di graduazione nel
merito delle offerte tecniche, come si è ricordato, vengono
espletate, in uno o più sedute riservate, dalla commissione
giudicatrice.
Le operazioni della (terza) fase conclusiva dell’iter
di gara (comunicazione dell’esito della valutazioni
tecniche, lettura dei prezzi offerti, formulazione della
graduatoria finale ed aggiudicazione provvisoria) sono
infine espletate, in seduta pubblica, dal seggio di gara.
In proposito ogni questione che era stata prima
sollevata circa l’esatta individuazione dell’organo tenuto
agli adempimenti di tale fase deve ritenersi risolta a
seguito dell’approvazione del regolamento di esecuzione del
Codice dei Contratti pubblici (D.P.R. n. 207 del 2010) che,
all’art. 283, comma 3, ha previsto che «in seduta pubblica,
il soggetto che presiede la gara dà lettura dei punteggi
attribuiti alle offerte tecniche, procede all’apertura delle
buste contenenti le offerte economiche, dà lettura dei
ribassi espressi in lettere e delle riduzioni di ciascuna di
esse e procede secondo quanto previsto dall’articolo 284»
alla verifica di anomalia di cui all’art. 86 del codice,
avvalendosi anche di apposita Commissione (o della stessa
Commissione tecnica) e dichiarando l’aggiudicazione
provvisoria in favore della migliore offerta risultata
congrua.
Per quanto riguarda, in particolare, il procedimento
per la verifica dell’anomalia, l’art. 284 del D.P.R. n. 207
del 2010, nel dare attuazione all’art. 88 del Codice in
relazione agli appalti di servizi, rinvia all’art. 121 del
D.P.R. n. 207 che, al comma 10, per le gare da aggiudicare
con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa,
prevede espressamente che, qualora vi siano offerte da
sottoporre alla verifica di congruità, ai sensi dell’art.
86, comma 2, del Codice «… qualora il punteggio relativo al
prezzo e la somma dei punteggi relativi agli altri elementi
di valutazione delle offerte siano entrambi pari o superiori
ai limiti indicati dall'articolo 86, comma 2, del codice, il
soggetto che presiede la gara chiude la seduta pubblica e ne
dà comunicazione al responsabile del procedimento, che
procede alla verifica delle giustificazioni presentate dai
concorrenti ai sensi dell'articolo 87, comma 1, del codice
avvalendosi degli uffici o organismi tecnici della stazione
appaltante ovvero della commissione di gara, ove
costituita».
Da tali disposizioni si evince che è il responsabile del
procedimento ad essere investito anche della funzione di
svolgere la verifica dell’anomalia, potendosi avvalere, ove
costituita, della apposita Commissione (o della stessa
Commissione tecnica)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 11.06.2013 n. 3228 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
E' irrilevante il fatto
che il nome del RUP sia già conosciuto prima del termine di
presentazione delle offerte trattandosi di circostanza
ordinaria.
Al contrario, è la commissione giudicatrice che, a garanzia
della regolarità della gara, deve essere nominata solo dopo
lo scadere del termine ultimo di presentazione delle offerte
(art. 84, comma 10, del Codice).
Con il secondo
motivo la Società E.P. ha sostenuto che la sentenza
appellata è erronea anche nella parte in cui ha respinto il
motivo (primo nel ricorso di primo grado) con il quale aveva
lamentato la violazione dell’art. 84 del codice dei
contratti perché la Commissione di gara, prevista nel caso
di aggiudicazione di gara con l’offerta economicamente più
vantaggiosa, non aveva svolto le attività di valutazione ed
ammissione dei concorrenti e di graduazione dei punteggi ma
aveva lasciato tali attività al RUP, il cui nome era
peraltro già conosciuto prima del termine di presentazione
delle offerte, o addirittura ad un suo delegato.
La censura non è fondata.
Nella fattispecie, come ha affermato anche il TAR,
correttamente il Seggio di gara ha svolto tutte le attività
che, come si è ricordato, possono ritenersi facenti parte
della prima fase della procedura. Mentre all’attività di
valutazione delle offerte ha regolarmente provveduto
l’apposita Commissione giudicatrice.
Non ha quindi rilievo la circostanza che tali atti non
siano stati compiuti dalla commissione in composizione
plenaria, né ha rilievo la circostanza che il RUP si è fatto
assistere da diversi soggetti posto che, nelle operazioni
che procedono la valutazione tecnica delle offerte, il RUP è
assistito da testimoni, uno dei quali con il ruolo di
segretario verbalizzante. Ma, in ogni caso, né i testimoni
né il segretario partecipano alla formazione delle decisioni
adottate dal presidente di seggio in ordine alle modalità di
gestione delle sedute di gara.
Contrariamente a quanto affermato dall’appellante, il
seggio di gara ha svolto quindi compiti che potevano essere
svolti dal seggio, riguardanti la verifica della regolarità
dei plichi e dei requisiti per la partecipazione alla gara,
nonché della documentazioni presentata.
Né può avere alcun rilievo la circostanza che il nome
del RUP fosse già conosciuto prima del termine di
presentazione delle offerte trattandosi di circostanza
ordinaria. Mentre è la commissione giudicatrice che, a
garanzia della regolarità della gara, deve essere nominata
solo dopo lo scadere del termine ultimo di presentazione
delle offerte (art. 84, comma 10, del Codice). E nella
fattispecie, come ricordato anche dal TAR, la Commissione
tecnica è stata nominata il 05.07.2012 dopo la scadenza
del termine di presentazione delle offerte (16.04.2012).
Non risultano pertanto violati, come pure affermato dal
TAR, data la natura meramente istruttoria dell’attività
svolta, con esclusione di ogni attività valutativa, i
principi di par condicio, imparzialità e trasparenza.
Le argomentazioni esposte consentono di respingere anche il
terzo motivo (secondo motivo del ricorso di primo grado) con
il quale l’appellante ha sostenuto che il seggio di gara,
nella seduta del 24.04.2012, nella quale si ammettevano le
ditte alla fase successiva, non era composto secondo il
disciplinare e in ottemperanza alla delega conferita dal
Dirigente
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 11.06.2013 n. 3228 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L’art. 40, d.P.R. 25.06.1983, n. 347, dispone
l’inquadramento del personale degli enti locali nei diversi
livelli dell’articolazione ivi prevista sulla base del
raffronto fra la declaratoria del profilo professionale
formalmente attribuito a ciascuno e la declaratoria dei
profili inseriti nei vari livelli istituiti dallo stesso
d.P.R., senza che possa darsi alcun rilievo alle eventuali
mansioni superiori svolte.
Deve essere premesso che l’art. 40, d.P.R. 25.06.1983, n.
347, dispone l’inquadramento del personale degli enti locali
nei diversi livelli dell’articolazione ivi prevista sulla
base del raffronto fra la declaratoria del profilo
professionale formalmente attribuito a ciascuno e la
declaratoria dei profili inseriti nei vari livelli istituiti
dallo stesso d.P.R., senza che possa darsi alcun rilievo
alle eventuali mansioni superiori svolte.
L’assunto è da tempo pacifico, essendo stati da tempo
superati i dubbi emersi nella fase di applicazione nella
giurisprudenza dei tribunali amministrativi (da ultimo C. di
S., V, n. 1924 del 2013 cui si rinvia a mente dell’art. 88,
co. 2, lett. d), c.p.a.).
E’ vero che il Comune di Firenze ha posto in essere una
complessa procedura preordinata, appunto, a dare rilievo
alle mansioni superiori a quelle proprie della qualifica
svolte dai dipendenti al fine dell’inquadramento nei livelli
previsti dal d.P.R. richiamato, e che tali deliberazioni non
sono impugnate.
Peraltro, appare evidente che le relative deliberazioni –anche superando ogni problema di disapplicazione– hanno un
contenuto marcatamente eccezionale, per cui sono
suscettibili solo di stretta interpretazione.
Alla luce di tali osservazioni, deve essere rilevato come
l’originario ricorrente abbia preteso di essere inquadrato
in un profilo professionale inesistente.
L’originario ricorrente, ed ora le appellanti, sminuiscono
il significato di tale fatto, attribuendogli una valenza
solo formale, ma la tesi non può essere condivisa.
Invero, i casi eccezionali nei quali la normativa regolante
lo stato giuridico dei dipendenti pubblici ammette la
rilevanza dell’esercizio di mansioni superiori si basano sul
presupposto che l’Amministrazione abbia di fatto ricevuto un
vantaggio dalla preposizione del dipendente a compiti di
maggiore impegno di quelli di sua spettanza; nel caso in cui
le mansioni di cui si tratta non sono riconducibili ad un
preciso profilo professionale è dimostrato che tale
presupposto non ricorre, in quanto l’Amministrazione non ha
riconosciuto l’utilità delle mansioni di cui si tratta
inquadrandole in un preciso profilo professionale.
L’applicabilità del principio appena riassunto al caso che
ora occupa è ulteriormente sottolineata dal fatto che, come
rilevato anche dal primo giudice, le deliberazioni con le
quale il Comune intimato ha disciplinato le operazioni di
reinquadramento del proprio personale hanno previsto, fra i
criteri per l’attribuzione del beneficio, il fatto che le
mansioni siano state svolte su posto vacante.
E’ evidente, infatti, che se non può essere attribuito
rilievo a mansioni svolte su posto non vacante, a maggior
ragione non può essere dato rilievo a mansioni svolte su
posto inesistente e di cui, quindi, l’Amministrazione non ha
ravvisato la necessità.
Occorre inoltre osservare, per mero completamento
d’indagine, che l’ascrivibilità delle mansioni svolte
dall’originario ricorrente alla declaratoria della prima
qualifica dirigenziale, per la quale egli non disponeva del
titolo di studio necessario per l’accesso dall’esterno, è
affermata in termini sostanzialmente assiomatici (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.06.2013 n. 3225 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nell'ambito delle opere
edilizie, la semplice ristrutturazione si verifica ove gli
interventi, comportando modificazioni esclusivamente
interne, abbiano interessato un edificio del quale
sussistano (e, all'esito degli stessi, rimangano inalterate)
le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le
strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la
ricostruzione allorché dell'edificio preesistente siano
venute meno, per evento naturale o per volontaria
demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduca
nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna
variazione rispetto alle originarie dimensioni
dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della
volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla
originaria sagoma di ingombro.
In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di
nuova costruzione, da considerare tale, ai fini del computo
delle distanze rispetto agli edifici contigui come previste
dagli strumenti urbanistici locali, nel suo complesso, ove
lo strumento urbanistico rechi una norma espressa con la
quale le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per
le nuove costruzioni siano estese anche alle ricostruzioni,
ovvero, ove una siffatta norma non esista, solo nelle parti
eccedenti le dimensioni dell'edificio originario.
Deriva da quanto precede, pertanto -anche con riguardo alla
legge n. 457 del 1978 e all'art. 31 di questa- che la
semplice constatazione dell'aumento di superficie e di
volumetria è sufficiente a rendere l'intervento edilizio non
riconducibile al paradigma normativo della ristrutturazione
e all'esonero dall'osservanza delle distanze legali previsto
per detto tipo di interventi.
Nel merito, in primo luogo, il Collegio rileva che,
nell'ambito delle opere edilizie, la semplice
ristrutturazione si verifica ove gli interventi, comportando
modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un
edificio del quale sussistano (e, all'esito degli stessi,
rimangano inalterate) le componenti essenziali, quali i muri
perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre
è ravvisabile la ricostruzione allorché dell'edificio
preesistente siano venute meno, per evento naturale o per
volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si
traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza
alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni
dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della
volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla
originaria sagoma di ingombro.
In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di
nuova costruzione, da considerare tale, ai fini del computo
delle distanze rispetto agli edifici contigui come previste
dagli strumenti urbanistici locali, nel suo complesso, ove
lo strumento urbanistico rechi una norma espressa con la
quale le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per
le nuove costruzioni siano estese anche alle ricostruzioni,
ovvero, ove una siffatta norma non esista, solo nelle parti
eccedenti le dimensioni dell'edificio originario.
Deriva da quanto precede, pertanto -anche con riguardo alla
legge n. 457 del 1978 e all'art. 31 di questa- che la
semplice constatazione dell'aumento di superficie e di
volumetria è sufficiente a rendere l'intervento edilizio non
riconducibile al paradigma normativo della ristrutturazione
e all'esonero dall'osservanza delle distanze legali previsto
per detto tipo di interventi (Cassazione civile, sez. un.,
19.10.2011, n. 21578).
Nella fattispecie, dunque, i lavori abusivi eseguiti dai
ricorrenti sono da classificare come opere ex novo, e
non ristrutturazione, in quanto parte del fabbricato
preesistente è stato conglobato nel nuovo manufatto, che si
configura quindi come un organismo edilizio diverso, con
dimensioni maggiori sia in pianta che in altezza e con
conseguente incremento della volumetria
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.06.2013 n. 3221 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I beni che hanno civilisticamente natura
pertinenziale non sono necessariamente tali ai fini
dell'applicazione delle regole proprie dell'attività
edilizia.
La nozione di pertinenza in ambito edilizio ha infatti un
significato più circoscritto e si fonda sulla mancanza di
autonoma destinazione e autonomo valore del manufatto
pertinenziale, sul suo non incidere sul carico urbanistico,
sulle ridotte dimensioni, tali da non alterare in modo
significativo l'assetto del territorio, caratteristiche
queste la cui sussistenza deve essere dimostrata
dall'interessato e che non ricorrono palesemente nel
manufatto oggetto del provvedimento di demolizione.
Inoltre, il Collegio osserva, sulla scorta di un’ormai
consolidata giurisprudenza, che i beni che hanno
civilisticamente natura pertinenziale non sono
necessariamente tali ai fini dell'applicazione delle regole
proprie dell'attività edilizia; la nozione di pertinenza in
ambito edilizio ha infatti un significato più circoscritto e
si fonda sulla mancanza di autonoma destinazione e autonomo
valore del manufatto pertinenziale, sul suo non incidere sul
carico urbanistico, sulle ridotte dimensioni, tali da non
alterare in modo significativo l'assetto del territorio,
caratteristiche queste la cui sussistenza deve essere
dimostrata dall'interessato e che non ricorrono palesemente
nel manufatto oggetto del provvedimento di demolizione (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, n. 4573 del 2010).
Pertanto, la sentenza penale prodotta in giudizio
dall’appellante, relativa alla diversa qualificazione
giuridica del bene quale pertinenza, sulla base della
nozione civilistica, è irrilevante nel giudizio
amministrativo, ove rileva, come detto, il diverso concetto
di pertinenza urbanistica (ex multis: Consiglio di
Stato, sez. VI, 28.01.2013, n. 496)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.06.2013 n. 3221 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è sufficientemente motivata con riferimento
all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla
sicura assoggettabilità di queste al regime concessorio, non
essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo
motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di
interesse pubblico.
Anche il terzo
motivo d’appello deve essere respinto, poiché, per nota e
consolidata giurisprudenza, l'ordinanza di demolizione di
opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con
riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle
opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime
concessorio, non essendo necessario, in tal caso, alcun
ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad
eventuali ragioni di interesse pubblico (cfr., anche
Consiglio di Stato, sez. V, 11.01.2011, n. 79 e Consiglio di
Stato, sez. VI, 24.09.2010, n. 7129)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.06.2013 n. 3221 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Capitolato di gara, i requisiti
tecnico-finanziari e quelli di qualità viaggiano separati.
E’ da ritenersi sostanzialmente corretta la procedura della
stazione appaltante che nel capitolato richiede, alle ditte
partecipanti, solo i requisiti di capacità economico
finanziaria e tecnica, mentre rimanda ad un apposito
allegato la richiesta di dichiarazione circa il possesso di
specifici requisiti di qualità.
il Consiglio di Stato ha legittimato la discrezionalità
delle stazioni appaltanti che godono di un certo margine sia
nella scelta dei criteri di aggiudicazione sia nel punteggio
da attribuire a ciascun elemento.
Il contenzioso amministrativo
Nel caso specifico una azienda sanitaria aveva indetto una
procedura aperta per l’affidamento del servizio di
assistenza domiciliare, da aggiudicarsi con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per la durata
di tre anni (l’importo della gara era piuttosto elevato: 15
milioni di euro).
Alla base del contenzioso amministrativo vi era che le
cooperative sociali, che in passato per molti anni erano
state affidatarie del servizio, avevano impugnato il bando
ed il capitolato della nuova gara censurandone i requisiti
di partecipazione, sul presupposto che non fosse richiesto
il possesso dei requisiti occorrenti per conseguire
l’accreditamento; contestavano, inoltre, le modalità di
aggiudicazione, con particolare riferimento alla previsione
di un punteggio assai elevato, per chi avesse “esperienze
pregresse in reparti di terapia intensiva”.
L’Azienda sanitaria aveva concluso la procedura di
affidamento in favore di una SPA mentre il costituendo RTI
di cooperative sociali si era classificato al secondo posto;
il ricorso al TAR prevedeva, inoltre, la contestazione che
l’impresa aggiudicataria non avesse i requisiti necessari
per essere accreditata e che la composizione della
Commissione giudicatrice non sarebbe stata legittima, con
particolare riferimento al suo Presidente; che infine la
valutazione delle offerte tecniche sarebbe stata errata in
più punti.
Il TAR ha respinto il ricorso e avverso la sentenza le
cooperative sociali del costituendo R.T.I. hanno proposto
appello.
La legittimità dell’operato della stazione
appaltante
Osserva il Consiglio di Stato che in riferimento ai
requisiti di partecipazione richiesti, le cooperative
ricorrenti ritengono errato il comportamento della stazione
appaltante che avrebbe in questo caso preteso solamente il
possesso di requisiti attinenti alla capacità economica
finanziaria e tecnica delle imprese partecipanti, ai sensi
degli artt. 41 e 42 del D.Lgs. 163/2003, cd. Codice dei
Contratti Pubblici, trascurando del tutto dalle loro
effettive dotazioni umane, strumentali ed organizzative.
I giudici amministrativi del Consiglio di Stato ritengono
che simile presupposto sia, tuttavia, infondato poiché, come
correttamente già sottolineato dal TAR, sebbene il
capitolato d’oneri prevedesse all’apparenza i soli requisiti
di capacità economica finanziaria e tecnica, il suo allegato
obbligava pur sempre di dichiarare di essere in possesso
anche dei requisiti di cui “all’art. 2 della legge
regionale n. 6/2011 ed in particolare dei requisiti (sia
quelli minimi per l’esercizio delle attività sanitarie e
socio sanitarie che quelli ulteriori per l’accreditamento)
previsti dal richiamato decreto del Commissario ad acta n.
90/2010 e successive modifiche”.
Per il Consiglio di Stato è sicuramente discutibile sul
piano formale la scelta della stazione appaltante di non
evidenziare già nel corpo del capitolato la necessità di
tali requisiti “specifici”, ma non si può
ragionevolmente dubitare che quegli stessi requisiti fossero
richiesti, se non immaginando una procedura del tutto
contra legem; tra l’altro, evidenziano i giudici di
Palazzo Spada, la ditta aggiudicataria aveva autocertificato
di possedere tutti i requisiti indicati dall’allegato.
Per il Consiglio di Stato, quindi, poiché la procedura di
gara in questione richiedeva il possesso di determinati e
specifici requisiti di qualità, connaturati all’assistenza
domiciliare, e la SPA aggiudicataria ne ha autocertificato
il possesso (spettando alla stazione appaltante procedere
con attenzione ai necessari controlli) su questo punto il
ricorso va respinto.
Con riferimento alla critica che le cooperative ricorrenti
hanno rivolto all’entità dell’importo programmato dalla
stazione appaltante, il Consiglio di Stato ritiene che non
vi deve essere una critica al metodo di gara (l’opzione per
il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa
dove, però, la competizione è stranamente limitata alla sola
offerta tecnica, non potendo i concorrenti confrontarsi
anche sul terreno dell’offerta economica), ma solo
all’entità del corrispettivo presunto, che non sarebbe “in
linea” con i principi della spending review e che
impedirebbe persino l’approvazione della procedura da parte
degli organi regionali.
Ma su questo punto, per il Consiglio di Stato, non vi è
traccia nel motivo dedotto dalle cooperative ricorrenti; ne
consegue che detta censura non è ammissibile nel presente
giudizio, per carenza di interesse; lo stesso Consiglio di
Stato ritiene che di tale questione ne debba essere
investita la Procura della Corte dei Conti, per le
valutazioni riservate alla sua competenza.
Il criterio del punteggio
Le cooperative ricorrenti contestano, inoltre, le modalità
di attribuzione del punteggio; il Consiglio di Stato ricorda
che il margine di discrezionalità di cui godono in generale
le stazioni appaltanti nella determinazione dei criteri di
aggiudicazione e del diverso peso da attribuire loro, come
già indicato dal TAR, è una scelta compiuta immune da vizi
logici, non potendosi dubitare della rilevanza riconoscibile
alla pregressa esperienza maturata in entrambi gli ambiti
sopra indicati, nell’ottica di un innalzamento generale
della qualità del servizio. A ciò si può aggiungere che le
differenze di punteggio registratesi su tali voci non si
sono dimostrate neppure decisive ai fini della gara.
Le conclusioni
Per il Consiglio di Stato il ricorso è del tutto infondato e
deve essere, quindi , respinto. Non è , pertanto, da
censurare la scelta operata dalla stazione appaltante di
assegnare un punteggio elevato alle esperienze pregresse
maturate in specifici ambiti connessi al servizio richiesto
(commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez.
III,
sentenza 24.05.2013 n. 2846 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
La Corte di Cassazione su effetti e limiti dei lavori di
sopraelevazione dell'immobile.
Edifici, il decoro prima di tutto.
L'intervento conforme all'aspetto può essere lesivo.
Le nozioni di decoro e aspetto architettonico sono diverse,
ma la prima ha un contenuto più restrittivo della seconda,
con la conseguenza che un intervento giudicato lesivo del
decoro di un edificio non può al tempo stesso essere
valutato conforme all'aspetto architettonico del medesimo.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con
la
sentenza 24.04.2013 n. 10048.
Nel caso in questione i giudici di legittimità hanno infatti
cassato la sentenza di merito che, pur avendo accertato la
lesione del decoro architettonico dell'edificio conseguente
alla sopraelevazione realizzata da un condomino, aveva però
ritenuto che la stessa non avesse violato anche l'aspetto
architettonico del fabbricato, rilevante ai sensi dell'art.
1127 c.c., essendosi mantenuta all'interno dello stile
proprio dell'immobile.
Sopraelevazione e aspetto architettonico dell'edificio. La
sopraelevazione consiste in un'aggiunta quantitativa in
senso verticale alla volumetria dell'edificio. In
particolare si può parlare di sopraelevazione nel caso di
opere che comportino lo spostamento in alto della copertura
del fabbricato, in modo da occupare lo spazio sovrastante e
superare l'originaria altezza dell'edificio. La nozione di
sopraelevazione non va pertanto limitata alla costruzione di
nuovi piani dell'edificio, ma si estende a ogni intervento
che comporti l'innalzamento della copertura del fabbricato.
Così, per esempio, la trasformazione della soffitta o del
sottotetto non abitabili in un piano abitabile, mediante la
modifica della pendenza del tetto della vecchia soffitta,
con una migliore utilizzazione dello spazio ricavato,
configura una mera modifica interna. Al contrario, l'opera
riguardante una soffitta inabitabile trasformata in
appartamento, con l'aumento dell'altezza media da uno a tre
metri e la realizzazione di un nuovo tetto con unico
spiovente in sostituzione di quello preesistente a doppia
falda, è da considerare come costruzione di un nuovo piano.
Se nel realizzare detta parte aggiuntiva del fabbricato
viene adottato uno stile diverso da quello della parte
preesistente dell'edificio, normalmente si determina anche
un mutamento peggiorativo dell'aspetto architettonico
complessivo, percepibile da qualunque osservatore.
Di
conseguenza, il condomino che sopraeleva non può mutare
l'aspetto architettonico del fabbricato, costruendo per
esempio un piano in stile moderno (con materiali di recente
introduzione sul mercato) su un edificio di stile classico o
neoclassico. Il pregiudizio dell'aspetto architettonico
quindi può consistere in una diminuzione del valore
dell'immobile per la diversità della linea architettonica o
dei materiali utilizzati, così come per l'altezza dei nuovi
piani, che sia completamente diversa rispetto a quelli
preesistenti, oppure ancora per il tipo di infissi (colore,
forma ecc.).
Aspetto architettonico e decoro architettonico: le
differenze. Come detto, l'art. 1127 c.c., dettato in materia
di sopraelevazione, obbliga il condomino a seguire l'aspetto
architettonico dell'edificio. Diversamente, in tema di
limiti alle innovazioni, l'art. 1120 c.c. parla di decoro
architettonico. Si tratta dello stesso concetto o di due
nozioni differenti? La giurisprudenza, con particolare
riferimento alla predetta recente pronuncia della Suprema
corte, risponde negativamente.
Per decoro architettonico del fabbricato, infatti, deve
intendersi l'estetica data dall'insieme delle linee e delle
strutture dell'edificio. L'alterazione di tale decoro può
verificarsi alla realizzazione di opere che mutino
l'originario aspetto anche soltanto di singoli elementi o
punti del fabbricato tutte le volte che il cambiamento sia
tale da riflettersi sull'insieme dell'estetica dello
stabile. Dal decoro architettonico deve essere quindi tenuto
distinto l'aspetto architettonico: mentre, infatti, il primo
è una qualità positiva dell'edificio, derivante dal
complesso delle caratteristiche architettoniche principali e
secondarie, con il secondo l'accento viene posto sulla
conservazione dello stile complessivo dell'immobile.
La distinzione non è priva di rilievo pratico: la modifica
strutturale di una parte anche di modesta consistenza
dell'edificio, infatti, pur non incidendo normalmente
sull'aspetto architettonico, può comportare il venir meno di
altre caratteristiche influenti sull'estetica dell'immobile
e, dunque, sul decoro architettonico del medesimo. La
lesione del decoro architettonico, poi, è denunziabile anche
ove incida su caratteristiche dei beni comuni (mentre la
sopraelevazione e l'aspetto architettonico riguardano opere
realizzate nelle parti esclusive). È vero, però, che per
essere legittimamente portata a termine l'opera di
sopraelevazione deve rispettare entrambe gli aspetti sopra
citati: in questi casi non basta quindi che siano osservati
soltanto i canoni inerenti all'aspetto architettonico, ma
anche quelli attinenti al decoro dell'edificio.
In quali casi non può essere contestata la violazione
dell'aspetto architettonico dell'edificio. La violazione
dell'aspetto architettonico consiste in un'incidenza di
particolare rilievo della nuova opera sullo stile
architettonico dell'edificio che, essendo immediatamente
apprezzabile da parte di persone di media preparazione
culturale, si traduce in una diminuzione del pregio estetico
ed economico del fabbricato. Quindi, il giudizio relativo
all'impatto della sopraelevazione sull'aspetto
architettonico dell'edificio va condotto avendo esclusivo
riguardo alle caratteristiche stilistiche facilmente
percepibili: in altre parole, se le la nuova opera è
assolutamente invisibile ai terzi o visibile solo da
notevole distanza dal caseggiato, la stessa non è
contestabile.
In ogni caso i condomini possono opporsi alla
sopraelevazione eseguita dal condomino dell'ultimo piano sul
suo terrazzo a livello, o lastrico solare, che pregiudichi
le caratteristiche architettoniche dell'edificio e, se
eseguita, ne possono chiedere l'abbattimento e il
risarcimento del danno. Ma la relativa azione, posta a
tutela dei proprietari esclusivi del piano sottostante,
comproprietari delle parti comuni, si prescrive per il
mancato esercizio ventennale (articolo ItaliaOggi Sette del
24.06.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il Tar Lazio ha ribaltato l'orientamento della Funzione
pubblica sulla legge Fornero.
P.a., la pensione può attendere.
Gli statali possono restare in servizio fino a 70 anni.
I dipendenti pubblici, a domanda, possono restare in
servizio fino ai 70 anni d'età per migliorare la pensione.
L'amministrazione, infatti, non deve e non può collocare a
riposo i lavoratori che abbiano raggiunti i limiti d'età per
la permanenza in servizio fissato a 65 anni (c.d. limite
ordinamentale).
Lo ha stabilito il TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, nella
sentenza
07.03.2013 n. 2446,
ribaltando l'indirizzo interpretativo della riforma Fornero
della pensioni per il settore pubblico e annullando la
circolare n. 2/2012 dell'allora ministro per la p.a. Filippo
Patroni Griffi, condivisa con ministero del lavoro,
ministero dell'economia e Inps (su ItaliaOggi del 09.03.2012).
La pronuncia decide il ricorso di un direttore generale
dell'amministrazione penitenziaria, collocato a riposo dal
01.01.2013 per raggiunti limiti d'età, avendo compiuto
65 anni a dicembre 2012. Il dirigente invece avrebbe
preferito restare a lavoro un altro anno, fino ai 66 anni
d'età fissati quale requisito (età) per la pensione di
vecchiaia.
La questione è decisa con una diversa
interpretazione della deroga prevista dalla riforma Fornero,
la quale stabilisce che la vecchia disciplina continua a
valere per i soggetti che maturano i requisiti di pensione
entro il 31.12.2011 (comma 14, dell'art. 24, del dl n.
201/2011). Da tale deroga la circolare n. 2/2012 aveva
tratto un vincolo per le p.a.: l'obbligo di collocare a
riposo a partire dal 2012, al compimento di 65 anni (limite ordinamentale), i dipendenti che nel 2011 erano in possesso
della massima anzianità contributiva (40 anni) o della
«quota» (era 96) o comunque dei requisiti per una pensione;
ciò in quanto la riforma Fornero non ha modificato il regime
della permanenza in servizio, con la conseguenza di
continuare a costituire il tetto massimo di servizio fino a
garantire la decorrenza della pensione, ma mai oltre.
Ma per
il Tar quella deroga non dice esattamente questo; anzi,
afferma il contrario. Per arrivare alle proprie conclusioni,
il tribunale prende in esame e confronta la predetta deroga
(comma 14 dell'art. 24 del dl n. 201/2011) con un'altra
deroga, cioè quella che consente al lavoratore che maturi
entro il 31.12.2011 i requisiti di età e anzianità
previsti dalla normativa previgente la riforma Fornero di
avere la pensione sulla base della vecchie norme potendone
richiedere anche la certificazione del diritto (comma 3,
dell'art. 24, del dl n. 201/2011).
Secondo il Tar, mentre
quest'ultima deroga (comma 3) configura un diritto
soggettivo dei lavoratori, l'altra deroga (comma 14)
stabilisce gli effetti temporali della riforma, a
prescindere dalla volontà del lavoratore. La prima (comma 3)
è una salvaguardia che rende, a domanda, inopponibile al
lavoratore tutta la riforma della pensioni; la seconda
(comma 14) si presta a due letture.
La prima lettura,
seguita dalla circolare n. 2/2012, è quella per cui il
legislatore ha voluto stabilire che, l'aver maturato al 31.12.2011 il diritto a una pensione (nel caso della
sentenza: la pensione di anzianità), rende inapplicabili i
nuovi requisiti per l'altra pensione previsti dalla riforma Fornero (nel caso della sentenza: la pensione di vecchiaia,
quindi la permanenza in servizio fino a 66 anni di età). La
seconda lettura, seguita dal Tar, vuole invece
l'inapplicabilità dei nuovi requisiti di pensione introdotti
dalla riforma Fornero nei confronti dei lavoratori che, al
31.12.2011, hanno maturato i requisiti per la pensione di
vecchiaia «e» quelli per la pensione di vecchiaia
(articolo ItaliaOggi del 25.06.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Welfare.
Il Tar Lazio annulla la circolare 2/2012 della Funzione
pubblica sul recesso d'ufficio per chi ha raggiunto i
requisiti per l'assegno.
Al lavoro nella Pa anche gli over 65.
Per i giudici la riforma favorisce il prolungamento del
rapporto di impiego.
GLI EFFETTI/
Amministrazioni indotte a revocare in autotutela i
provvedimenti di messa a riposo per chi ha maturato il
diritto nel 2011.
La riforma previdenziale nella pubblica amministrazione non
può essere utilizzata per mandare in pensione di vecchiaia
tutti coloro che hanno raggiunto i 65 anni.
Il TAR Lazio-Roma,
Sez. I-quater,
sentenza
07.03.2013 n. 2446, ha
annullato uno stralcio della circolare 2 del dipartimento
della Funzione pubblica nella parte in cui prevede il
collocamento a riposo d'ufficio al compimento del 65esimo
anno di età nei confronti di quei dipendenti che entro il
2011 erano già in possesso della massima anzianità
contributiva, o comunque dei requisiti prescritti per
l'accesso a un trattamento pensionistico diverso dalla
pensione di vecchiaia. Il contenuto della circolare era
stato condiviso con i ministeri del Lavoro, dell'Economia e
con lo stesso Inps.
Per meglio comprendere la portata della sentenza 2446/2012 è
necessario riepilogare cosa è accaduto con l'entrata in
vigore della riforma Monti-Fornero. L'articolo 24 del Dl
201/2011 ha innalzato i requisiti anagrafici per l'accesso
alla pensione di vecchiaia nonché quelli contributivi per
l'accesso alla pensione anticipata (ex anzianità) superando
il sistema delle quote, delle finestre mobili e prevedendo
elevate anzianità contributive (per il 2013, 41 anni e 5
mesi per le donne, +1 anno per gli uomini). Il comma 14
precisa che i requisiti di accesso e di regime delle
decorrenze vigenti prima della data di entrata in vigore
continuano ad applicarsi ai soggetti che maturano i
requisiti entro il 2011.
Nel caso in sentenza, il ministero della Giustizia aveva
collocato a riposo, per raggiunti limiti di età, un proprio
dipendente che già nel 2011 aveva oltre 40 anni di
contributi, dando seguito a quanto previsto dalla circolare
citata. Il ricorrente sosteneva di poter permanere in
servizio fino al raggiungimento del nuovo limite anagrafico
per l'accesso alla pensione di vecchiaia (66 anni oltre gli
incrementi legati alla speranza di vita).
I giudici amministrativi hanno ritenuto convincenti gli
elementi, aderendo all'interpretazione, secondo cui, a
domanda, i nuovi requisiti anagrafici per la pensione di
vecchiaia trovano applicazione a coloro che alla data del 31.12.2011 avevano maturato i requisiti per la pensione
di anzianità, ma non quelli per la pensione di vecchiaia.
La sentenza prosegue affermando che va preferita
l'interpretazione normativa che favorisce il prolungamento
del rapporto di impiego anziché quella opposta (sostenuta
dall'Amministrazione resistente) che invece "anticipa" la
risoluzione. La sentenza ammette, altresì, che il comma 14
dell'articolo 24 si presta a essere interpretato in entrambi
i sensi, e che argomenti decisivi non sono traibili neppure
dal comma 3 del citato articolo che prevede la
certificazione del diritto acquisito su istanza del
lavoratore. Gli effetti della sentenza, di fatto, inducono
le Pubbliche amministrazioni a revocare in autotutela tutti
quegli atti di collocamento a riposo per raggiunti limiti di
età (di norma 65 anni) nei confronti di quei lavoratori che
entro il 2011 hanno comunque maturato un diritto a pensione
a qualsiasi titolo.
È da segnalare però che nel dispositivo non viene menzionato
il comma 4 che prevede, per gli iscritti alle forme
esclusive e sostitutive della medesima, la "incentivazione"
del proseguimento dell'attività lavorativa –fermi restando
i limiti ordinamentali– che nel pubblico impiego sono
fissati al compimento del 65esimo anno di età (articolo 4
del Dpr 1092/1973).
Inoltre, l'effetto della sentenza che in prima battuta
potrebbe far pensare a una minore spesa pensionistica,
tradurrà i propri effetti con un maggior assegno. Infatti,
grazie al comma 2, dal 2012, con riferimento alle anzianità
contributive maturate a decorrere da tale data, il calcolo
della quota di pensione corrispondente a tali anzianità
avverrà secondo il metodo di calcolo contributivo.
Motivo per cui, poiché il ricorrente alla fine del 2011
aveva un'anzianità contributiva superiore a 40 anni,
maturerà ulteriori quote di pensione relativamente alle
anzianità riferite al periodo gennaio 2012-marzo 2014,
data di cessazione per raggiungimento dei nuovi limiti
anagrafici
(articolo Il Sole 24 Ore del
25.06.2013). |
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