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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di GIUGNO 2013

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aggiornamento al 25.06.2013

aggiornamento al 22.06.2013

aggiornamento al 17.06.2013

aggiornamento al 10.06.2013

aggiornamento al 06.06.2013

aggiornamento al 03.06.2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 25.06.2013

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Casse comunali al verde??
No problem: fate pagare il contributo di costruzione per la realizzazione di una stazione radio base!!

     In verità, la sentenza del 2008 l'avevamo già pubblicata tempo fa e non avevamo dato ad essa alcun risalto. Oggi, tuttavia, con la recente sentenza del 2013 vale la pena porre in evidenza questo particolare aspetto, ovverosia la NON gratuità della realizzazione di una stazione radio base.
     Ad onor del vero, il Comune di Carrara sarebbe il primo (ma anche l'ultimo), per quanto ci consti, che fa pagare oneri di urbanizzazione e costo di costruzione ... ed in questi tempi di "magra" diremmo che fa bene, anche perché le compagnie di telefonia mobile non ci sembra che "se la passino tanto male" ...
     Comunque, di seguito riportiamo le due sentenze che hanno ritenuto legittimo il regolamento comunale in forza del quale bisogna versare il conquibus di cui sopra.
24.06.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

EDILIZIA PRIVATA: Elettrosmog. Legittimità contributo per il costo di costruzione di una stazione radio base.
E' legittima la richiesta del contributo per il costo di costruzione di una stazione radio base, in applicazione del regolamento comunale.
L’installazione di stazioni radio base, seppur sottoposta al procedimento autorizzatorio semplificato previsto dal codice delle comunicazioni, costituisce comunque un’attività edilizia che, qualora il codice stesso non prevedesse alcunché, richiederebbe il rilascio del permesso di costruire, con obbligo di pagamento del connesso contributo.
In altri termini, la semplificazione introdotta dal d.lgs. n. 259/2003 opera esclusivamente sul piano procedimentale, ma non comporta che l’installazione delle stazioni radio base sia esclusa dal contributo previsto dal legislatore per tutte le attività edilizie assoggettate a permesso di costruire.
Non è corretto il riferimento all’art. 93 del d.lgs. n. 259/2003, il quale, laddove introduce il divieto per le Pubbliche Amministrazioni di imporre oneri o canoni che non siano stabiliti per legge, si limita a prevedere una riserva di legge per l’imposizione di nuovi oneri o canoni, ferme restando le leggi in materia edilizia (art. 16 del d.p.r. n. 380/2001), quest’ultime, dunque, subordinano le attività soggette a permesso di costruire al pagamento del contributo relativo al costo di costruzione.
Non depone in senso contrario l’art. 17, comma 3, del d.p.r. n. 380/2001, il quale esonera dal predetto contributo le opere di interesse generale e le opere di urbanizzazione, sempre che le stesse siano espressamente previste negli strumenti urbanistici. Invero tale norma non dispone un’esenzione generalizzata, ma subordinata alla specifica previsione dell’opera nello strumento urbanistico.
---------------
Il contributo relativo al costo di costruzione trova fondamento in specifiche norme sull’attività edilizia, comprendente le modifiche dell’assetto del territorio prodotte, come nel caso di specie, dall’installazione di stazioni radio base.
Su tale aspetto, oggetto della disciplina di cui al d.p.r. n. 380/2001, non interferiscono le suddette direttive, riguardanti questioni procedimentali che non escludono la potestà del Comune di esigere i contributi economici connessi alla trasformazione del territorio.
---------------
E' legittima la previsione regolamentare che quantifica nella misura di euro 380.000,00 il costo medio di realizzazione di un impianto di telefonia sul quale viene applicata la percentuale del costo di costruzione pari al 10%.
Invero, qualora il costo di realizzazione della stazione radio base della ricorrente fosse superiore a quello indicato dall’art. 14 del regolamento, la stessa non riceverebbe alcun pregiudizio dall’applicazione della norma, in quanto l’auspicato riferimento dell’Amministrazione al costo effettivo esporrebbe la società istante ad un più elevato onere economico.
Né appare sproporzionata la percentuale applicata dal Comune di Carrara (10%), a fronte dell’art. 16 del d.p.r. n. 380/2001 e dell’art. 121 della L.R. n. 1/2005, i quali demandano all’Ente la determinazione discrezionale di una quota variabile dal 5% al 20% del costo di costruzione.

Con la prima censura la ricorrente sostiene che il manufatto in questione, essendo assimilabile alle opere di urbanizzazione primaria e rivestendo interesse generale, è esonerato, per effetto dell’art. 17 del d.p.r. n. 380/2001 e dell’art. 124 della L.R. n. 1/2005, dal pagamento del costo di costruzione, come è confermato dall’art. 93 del d.lgs. n. 259/2003, che vieta l’imposizione di oneri o canoni per l’impianto di reti o per l’esercizio dei servizi di comunicazione elettronica.
Il rilievo è infondato.
L’installazione di stazioni radio base, seppur sottoposta al procedimento autorizzatorio semplificato previsto dal codice delle comunicazioni, costituisce comunque un’attività edilizia che, qualora il codice stesso non prevedesse alcunché, richiederebbe il rilascio del permesso di costruire, con obbligo di pagamento del connesso contributo. In altri termini, la semplificazione introdotta dal d.lgs. n. 259/2003 opera esclusivamente sul piano procedimentale, ma non comporta che l’installazione delle stazioni radio base sia esclusa dal contributo previsto dal legislatore per tutte le attività edilizie assoggettate a permesso di costruire.
Pertanto emerge l’infondatezza del riferimento, da parte della deducente, all’art. 93 del d.lgs. n. 259/2003, il quale, laddove introduce il divieto per le Pubbliche Amministrazioni di imporre oneri o canoni che non siano stabiliti per legge, si limita a prevedere una riserva di legge per l’imposizione di nuovi oneri o canoni, ferme restando le leggi in materia edilizia (art. 16 del d.p.r. n. 380/2001 e art. 119 della L.R. n. 1/2005); quest’ultime subordinano le attività soggette a permesso di costruire al pagamento del contributo relativo al costo di costruzione e legittimano quindi gli atti impugnati (TAR Toscana, I, 11.09.2008, n. 1950).
Non depone in senso contrario l’art. 17, comma 3, del d.p.r. n. 380/2001, il quale esonera dal predetto contributo le opere di interesse generale e le opere di urbanizzazione, sempre che le stesse siano espressamente previste negli strumenti urbanistici. Invero tale norma non dispone un’esenzione generalizzata, ma subordinata alla specifica previsione dell’opera nello strumento urbanistico; previsione che, nel caso in esame, non sussiste.
Ad analoghe conclusioni si presta l’art. 124 della L.R. n. 1/2005, il quale esonera dall’obbligo del pagamento del contributo gli impianti, le opere di interesse pubblico e le opere di urbanizzazione, ancorché eseguite da privati, alla condizione che vi sia una convenzione tra gli stessi ed il Comune.
Tuttavia, non è stata sottoscritta alcuna convenzione dalla ricorrente e dal Comune di Carrara, con la conseguenza che non sussistono i presupposti di applicazione nemmeno della norma regionale.
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La terza doglianza è incentrata sulla violazione delle direttive 2002/19/CE, 2002/20/CE e 2002/22/CE, le quali, ispirate ai principi di semplificazione, trasparenza e celerità dei procedimenti autorizzatori, non contemplano oneri a carico dei gestori.
Il rilievo non ha pregio.
Il contributo relativo al costo di costruzione trova fondamento in specifiche norme sull’attività edilizia, comprendente le modifiche dell’assetto del territorio prodotte, come nel caso di specie, dall’installazione di stazioni radio base. Su tale aspetto, oggetto della disciplina di cui al d.p.r. n. 380/2001, non interferiscono le suddette direttive, riguardanti questioni procedimentali che non escludono la potestà del Comune di esigere i contributi economici connessi alla trasformazione del territorio.
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Con il quarto motivo l’esponente deduce che l’art. 14 del contestato regolamento comunale quantifica arbitrariamente, senza approfondimenti istruttori e in modo indifferenziato, astratto e aprioristico, nella misura di euro 380.000, il costo medio di realizzazione di un impianto di telefonia sul quale viene applicata la percentuale del costo di costruzione pari al 10%.
La censura è inammissibile.
La ricorrente non ha specificato in alcun modo il costo di realizzazione del proprio impianto, omettendo così di fornire prova circa la natura concretamente lesiva, nei suoi confronti, della contestata quantificazione del contributo.
Invero, qualora il costo di realizzazione della stazione radio base della ricorrente fosse superiore a quello indicato dall’art. 14 del regolamento, la stessa non riceverebbe alcun pregiudizio dall’applicazione della norma, in quanto l’auspicato riferimento dell’Amministrazione al costo effettivo esporrebbe la società istante ad un più elevato onere economico.
Né appare sproporzionata la percentuale applicata dal Comune di Carrara (10%), a fronte dell’art. 16 del d.p.r. n. 380/2001 e dell’art. 121 della L.R. n. 1/2005, i quali demandano all’Ente la determinazione discrezionale di una quota variabile dal 5% al 20% del costo di costruzione
(TAR Toscana, Sez. I, sentenza 11.04.2013 n. 539 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'installazione di stazioni radio base per la telefonia mobile sconta il pagamento del contributo di costruzione.
L’installazione di stazioni radio base, seppur soggetta al procedimento autorizzatorio semplificato di cui al Codice delle Comunicazioni, costituisce pur sempre una attività edilizia che, laddove il Codice non prevedesse alcunché, sarebbe assoggettata al regime del permesso di costruire e, conseguentemente, al pagamento del contributo.
Ne consegue che la semplificazione prevista dal Codice delle Comunicazioni opera esclusivamente sul piano del procedimento, impedendo che l’installazione delle stazioni radio base possa essere assoggettata ad un procedimento diverso e più gravoso rispetto a quello ivi previsto, ma non comporta sic et simpliciter che tale attività non possa essere assoggettata al contributo che deve essere, per legge, corrisposto per tutte le attività edilizie per le quali è previsto il permesso di costruire.

L’art. 93 del Codice delle Comunicazioni, il quale prevede che “le Pubbliche Amministrazioni, le Regioni, le Province ed i Comuni non possono imporre, per l’impianto di reti o per l’esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, oneri o canoni che non siano stabiliti per legge”, non fa altro che prevedere una riserva di legge per la imposizione di nuovi oneri o canoni. Ebbene, sono appunto le leggi in materia edilizia che subordinano le attività soggette a permesso di costruire al contributo.
In altri termini: l’installazione di stazioni radio base è subordinata al pagamento del contributo in quanto rientra tra le attività edilizie; dunque non vi è alcun contrasto con la normativa di settore, né può ritenersi che tale previsione comporti un trattamento non uniforme o discriminatorio; quello richiesto, infatti, non è un onere ulteriore che colpisce specificatamente le stazioni radio base, ma l’ordinario contributo previsto per qualsiasi opera edilizia. Quindi non vi è un “aggravio” economico in capo al gestore della rete radiomobile.
L’art. 86, comma 3 del Codice delle Comunicazioni assimila le infrastrutture di telecomunicazioni, ad ogni effetto, alle opere di urbanizzazione primaria di cui all’art. 16, comma 7, del T.U. dell’edilizia, e l’art. 90 del codice le qualifica come opere di pubblica utilità, con conseguente esenzione dal contributo, esenzione che discende altresì dall’art. 124 della L.R.T. n. 1/2005 e dall’art. 17 del T.U. dell’Edilizia. Il richiamato art. 86 Codice delle Comunicazioni precisa, altresì, che “ad esse si applica la normativa vigente in materia”.
Ebbene, la disciplina di riferimento –per quanto attiene l’esigibilità o meno del contributo di costruzione per la realizzazione di opere di urbanizzazione– è rappresentata, in primo luogo, dall’art. 17 del T.U. dell’Edilizia (n. 380/2001) il quale, al comma 3, prevede espressamente che “il contributo di costruzione non è dovuto: … c) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”. Pertanto, la richiamata disposizione subordina esplicitamente l’esenzione dal contributo di costruzione alla espressa previsione, negli strumenti urbanistici, dell’opera di urbanizzazione che il privato intende realizzare.
E’, pertanto, evidente come del tutto inconferente sia il richiamo operato dalla ricorrente al fine di sostenere l’illegittimità della richiesta di pagamento del costo di costruzione da parte del Comune di Carrara, al ricordato art. 17 D.P.R. 380/2001, atteso che lo stesso, ben lungi dal disporre l’esenzione in via generalizzata per la realizzazione da parte di privati di opere di urbanizzazione primaria, viceversa la consente –solo e soltanto– per la realizzazione di quelle opere di urbanizzazione espressamente indicate negli strumenti urbanistici.
Al di fuori delle ipotesi, da considerarsi eccezionali, in cui l’esenzione è espressamente prevista dalla legge –come si è visto, qualora vi sia, in base alla legge regionale toscana n. 1/2005, una convenzione con il Comune, ovvero, per la normativa statale di cui all’art. 17 del D.P.R. 380/2001, la previsione dell’opera negli strumenti urbanistici– il pagamento del contributo inerente al costo di costruzione, anche qualora i privati realizzino opere di urbanizzazione, è la regola generale
(TAR Toscana, Sez. I, sentenza 11.09.2008 n. 1950 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

NOVITA' NEL SITO

Inserito il nuovo bottone: dossier TENDE DA SOLE

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Quando l'orario di lavoro è articolato in turni secondo la disciplina contrattuale (CGIL-FP di Bergamo, nota 24.06.2013).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Sentenza Corte Costituzionale n. 223/2012 – art. 1, comma 98 – 101, della legge n. 228 del 24/12/2012 di ricezione del decreto legge n. 185 del 29/10/2012 – Richiesta restituzione trattenute. Ulteriori chiarimenti (messaggio 21.06.2013 n. 10065 - link a www.inps.it).

APPALTI: CONTRATTO PUBBLICO DI APPALTO IN MODALITÀ ELETTRONICA E PROBLEMATICHE INTERPRETATIVE ED OPERATIVE - INFORMATIVA SUL TAVOLO TECNICO E PROPOSTA DI EMENDAMENTO DEL COMMA 4, ARTICOLO 6, D.L. 179/2012 (CONVERTITO IN L. 221/2012) (Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, ordine del giorno 13.06.2013).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI: FAQ AVCpass (aggiornate al 14.06.2013).
In considerazione dei fabbisogni informativi manifestati dagli operatori del mercato, come anche rappresentati nel Comunicato del Presidente avente ad oggetto “Modifiche alla deliberazione n. 111 del 20.12.2012 per l’“Attuazione dell’art. 6-bis del d.lgs. 163/2006 introdotto dall'art. 20, comma 1, lettera a), legge n. 35 del 2012”, sono state elaborate le presenti FAQ finalizzate a chiarire il funzionamento del sistema AVCpass e le logiche sottese a quanto rappresentato nella Deliberazione dell’Autorità n. 111/2012 (link a www.avcp.it).

QUESITI & PARERI

COMPETENZE GESTIONALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Sponsor, parla il consiglio. La competenza sui contratti è dell'assemblea. La giurisprudenza richiede che si faccia ricorso a procedure aperte.
Può essere ricondotta alla giunta comunale la competenza in materia di contratti di sponsorizzazione?

La normativa di riferimento è costituita dall'art. 43, comma 1, della legge del 27.12.1997, n. 449, il quale stabilisce che, al fine di favorire l'innovazione dell'organizzazione amministrativa e di realizzare maggiori economie, nonché una migliore qualità dei servizi prestati, le pubbliche amministrazioni possono stipulare contratti di sponsorizzazione e accordi di collaborazione con soggetti privati ed associazioni, senza fini di lucro, costituite con atto notarile.
L'articolo 119 del decreto legislativo n. 267/2000, richiamando il citato articolo 43, consente nello specifico, agli enti locali, la stipula di contratti di sponsorizzazione e accordi di collaborazione, nonché convenzioni con soggetti pubblici o privati diretti a fornire consulenze o servizi aggiuntivi, «al fine di favorire una migliore qualità dei servizi prestati».
I contratti in parola, come previsti dall'articolo 43, hanno il precipuo obiettivo di favorire l'innovazione dell'organizzazione e la realizzazione di economie di spesa, mentre l'art. 119, riferito agli enti locali, li finalizza, in particolare, al miglioramento dei servizi.
La collocazione dei contratti di sponsorizzazione degli enti locali sotto l'univoca disciplina di cui all'articolo 119 del dlgs n. 267/2000 che comprende, come detto, anche gli accordi di collaborazione e le convenzioni, non può non comportare «la necessità di fare ricorso a procedure aperte e trasparenti al fine di individuare il soggetto con cui stipulare il contratto» (conforme Tar Puglia Bari, sez. II, 20/07/2006, n. 2953).
Da tale processo non appare possa essere escluso il consiglio comunale quale organo di indirizzo dell'attività dell'ente, che ai sensi dell'articolo 42, del dlgs n. 267/2000, comma 2, lett. a), ha sia potere regolamentare sulle attività che fanno capo al comune, sia, ai sensi della successiva lett. e), la competenza in ordine «all'affidamento di attività o servizi mediante convenzione».
Anche l'articolo 26 del codice dei contratti pubblici, dlgs 12/04/2006, n. 163, subordinando la stipula di taluni contratti di sponsorizzazione alla regolamentazione europea nell'eventualità in cui i medesimi abbiano un valore superiore a quarantamila euro, riconduce sostanzialmente tali atti alla disciplina dei contratti della pubblica amministrazione, che, nel caso specifico, non sfuggono alla competenza del consiglio comunale titolato a dettare, tra l'altro, le disposizioni di massima per la loro conclusione.
Inoltre, compete sempre al consiglio comunale disporre in via generale, anche in sede di approvazione dei bilanci, sulle risorse di cui all'art. 43 della legge n. 449/1997 per le finalità di cui all'articolo 15, comma 1, del Ccnl dell'01.04.1999 relativo al personale dipendente (articolo Italia Oggi del 21.06.2013).

ENTI LOCALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Link a siti privati.
Può essere pubblicato sul sito istituzionale dell'ente locale un «link» a un sito privato che pur avendo finalità di conoscenza di opportunità di offerte di lavoro, non è, di fatto, vincolato a specifiche normative e controlli a cui sono tenuti i siti web della p.a.?

Il codice dell'amministrazione digitale dlgs n. 82 del 07.03.2005 all'art. 14, comma 2-ter, prevede che le regioni e gli enti locali digitalizzano la loro azione amministrativa e implementano l'utilizzo delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione per garantire servizi migliori ai cittadini e alle imprese.
L'articolo 54 del medesimo decreto disciplina il contenuto dei siti delle pubbliche amministrazioni, prevedendo una serie di elementi obbligatori, nulla dispone, però, in ordine alla previsione di link a siti privati, seppur svolgenti servizi ritenuti di diffusa utilità.
La questione andrà rimessa al parere dell'Agenzia per l'Italia digitale – Digit P.a. – competente nel settore delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione nell'ambito della pubblica amministrazione (articolo Italia Oggi del 21.06.2013).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI SERVIZI: A. Reggio d’Aci, Evidenza pubblica e associazioni di volontariato: l’onerosità della convenzione va valutata in termini comunitari (tratto da www.ipsoa.it - Urbanistica e appalti n. 6/2013).

SICUREZZA LAVORO: C. Macaluso, Il ruolo centrale della valutazione dei rischi (tratto da www.ispoa.it - Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 5/2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Cordasco, ATTO AMMINISTRATIVO IMPLICITO E COMPATIBILITÀ CON LA L. 241/1990. LA PECULIARE FIGURA DELL’AUTHORITY - L’istituto dell’atto amministrativo implicito, la sua regolamentazione e i poteri delle Authorities in materia di adozione di atto amministrativo implicito (Gazzetta Amministrativa n. 1/2013).

APPALTI: M. De Cilla, COLLEGAMENTO SOSTANZIALE TRA IMPRESE SUB-INTRECCIO SOCIETARIO E IMPATTO CONCRETO DELL’INDICE SULLA GARA - Il collegamento sostanziale fra imprese alla luce dei più recenti arresti giurisprudenziali (Gazzetta Amministrativa n. 1/2013).

APPALTI: A. C. Bartoccioni, COMMENTO AGLI ARTICOLI 19 E 20 DEL D.L. 06.07.2012 N. 95, CONVERTITO CON LA L. 07.08.2012, N. 135 - Commento all’art. 19 del d.l. 06.07.2012 n. 95, convertito con la l. 07.08.2012, n. 135, intitolato “Funzioni fondamentali dei comuni e modalità di esercizio associato di funzioni e servizi comunali” e Commento all’art. 20, d.l. 06.07.2012, n. 95, conv. in l. 07.08.2012, n. 135, intitolato “Disposizioni per favorire la fusione di comuni e la razionalizzazione dell’esercizio delle funzioni comunali”, come riorganizzazione strutturale e funzionale dei Comuni, dettata dall’esigenza di far fronte alla gravissima emergenza economica e finanziaria che attualmente investe la quasi totalità dei Paesi Europei, tale da mettere a repentaglio la tenuta del sistema di welfare degli stessi (Gazzetta Amministrativa n. 1/2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: I. Mstrangeli, DIRITTO DI ACCESSO AGLI ATTI E TUTELA DELLA RISERVATEZZA - Il delicato rapporto tra il diritto di accesso agli atti per chi è interessato da un procedimento ispettivo/sanzionatorio e la tutela della riservatezza dell’autore dell’esposto, che a quel procedimento ha dato origine, è risolto con la preferenza per il primo, considerato che la Costituzione non tollera denunce segrete o anonime (Gazzetta Amministrativa n. 1/2013).

URBANISTICA: P. Pittori,  È ANCORA CONSENTITA AI “PICCOLI COMUNI” LA COSTITUZIONE DI SOCIETÀ DI TRASFORMAZIONE URBANA? - Le società di trasformazione urbana, in virtù della loro specialità, sfuggono ai divieti ed alle limitazioni imposte dall’ordinamento, a livello generale, nei confronti delle altre società a partecipazione pubblica (Gazzetta Amministrativa n. 1/2013).

EDILIZIA PRIVATA: M. Asprone, IL PROCEDIMENTO UNICO DI AUTORIZZAZIONE ALLA PRODUZIONE DI ENERGIE RINNOVABILI -  In aderenza alla dottrina , la giurisprudenza ha affermato l’indispensabilità di operare un richiamo ad un livello di governo superiore nel caso di dissenso espresso da un Ente preposto alla tutela ambientale e paesaggistico-territoriale nelle ipotesi di procedimento unico di autorizzazione alla produzione di energie rinnovabili (Gazzetta Amministrativa n. 1/2013).

ENTI LOCALI: F. Palazzotto, IL RESTYLING DELLE UNIONI E L’ESERCIZIO ASSOCIATO DELLE FUNZIONI DEI COMUNI ALLA LUCE DELLE NOVITÀ INTRODOTTE DALLA SPENDING REVIEW - La riforma che ha interessato il sistema delle autonomie locali, seppur realizzata in assenza di un disegno riformatore unitario, è espressione dell’esigenza di far fronte alla gravissima emergenza economica e finanziaria che attualmente investe la quasi totalità dei Paesi Europei, tale da mettere a repentaglio la tenuta del sistema di welfare degli stessi. La disciplina del 2012 si può dividere idealmente in tre macroaree: la prima parte si può identificare nel co. 1: novella dell’art. 14, co. 27 ss., del d.l. 31.5.2010, n. 78 (conv. in l. 30.07.2010, n. 122), in tema di esercizio associato delle funzioni da parte dei comuni fino a 5000 abitanti; la seconda parte nel co. 2 (nonché 5 e 6): novella dell’art. 16, co. 1-16, d.l. 13.08.2011, n. 138 (conv. in l. 14.09.2011, n. 148), in tema di unioni speciali fra i comuni fino a 1000 abitanti; la terza parte nel co. 3: novella dell’art. 32 d.lgs. 18.08.2000, n. 267, ossia della norma base in tema di unioni fra comuni (Gazzetta Amministrativa n. 1/2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: E. Pierantozzi, IL RISARCIMENTO DEL DANNO DA RITARDO DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE NELLA GIURISPRUDENZA DEL CONSIGLIO DI STATO - Nel caso di procedimento amministrativo lesivo di un interesse pretensivo, il ritardo nell'emanazione di un atto amministrativo configura un danno ingiusto, con conseguente obbligo di risarcimento, ove tale procedimento debba concludersi con provvedimento favorevole al destinatario. La richiesta di accertamento del danno va peraltro ricondotta nell’alveo dell’art. 2043 c.c. per l’identificazione degli elementi costitutivi della responsabilità, che vanno provati dal danneggiato ex art. 2697 c.c. (Gazzetta Amministrativa n. 1/2013).

ENTI LOCALI - VARI: V. Puddighinu, IMPRESA IN UN GIORNO: NOVITÀ PREVISTE DAL NUOVO ART. 19 DELLA LEGGE SUL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO - Non più autorizzazioni: con la riforma dell’art. 19 della l. 241/1990, è oggi possibile avviare un’attività artigiana e/o commerciale con la sola produzione della “Segnalazione certificata di inizio attività” redatta in conformità ai requisiti di legge (Gazzetta Amministrativa n. 1/2013).

APPALTI SERVIZI: M. Dell'Unto, L’AFFIDAMENTO DEI SERVIZI ASSICURATIVI E DI INTERMEDIAZIONE ASSICURATIVA: CRITICITÀ E SUGGERIMENTI - Determinazione n. 2 del 13.03.2013 dell’Autorità per la vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture: questioni interpretative concernenti l’affidamento dei servizi assicurativi e di intermediazione assicurativa (Gazzetta Amministrativa n. 1/2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. C. Bartoccioni, L’INDIVIDUAZIONE DEL RESPONSABILE DELL’INQUINAMENTO E COMPATIBILITÀ CON IL PRINCIPIO COMUNITARIO DEL “CHI INQUINA PAGA” - In caso d’inquinamento di un sito l’obbligo di bonifica dello stesso ricade sul responsabile e, in presenza di determinati presupposti, sul proprietario dell’area nei limiti del valore del fondo. Applicazione nel nostro ordinamento del principio comunitario chi inquina paga (Gazzetta Amministrativa n. 1/2013).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: C. Paolini, L. N. 190 DEL 2012 - UNA PRIMA DISCIPLINA ORGANICA SULL’ANTICORRUZIONE: IL SISTEMA NAZIONALE E TERRITORIALE DELLA PREVENZIONE DELLA CORRUZIONE NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Dopo diverse raccomandazioni del Consiglio d’Europa, l’Italia si è dotata di una legge organica per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità della pubblica amministrazione. Civit e Dipartimento della funzione pubblica costituiscono i centri di responsabilità del sistema. Tutte le amministrazioni devono nominare un responsabile della prevenzione della corruzione e dotarsi del piano triennale predisposto dallo stesso responsabile. Per prevenire la corruzione, la legge interviene di nuovo sulla tematica della trasparenza dell’attività amministrativa (Gazzetta Amministrativa n. 1/2013).

APPALTI: S. Napolitano, LA NECESSARIA CORRISPONDENZA DELLE QUOTE DI QUALIFICAZIONE, DI PARTECIPAZIONE ALL’ATI E DI ESECUZIONE TRA LA NOVELLA LEGISLATIVA E LE RECENTI PRONUNCE DELLA GIURISPRUDENZA - La necessaria conciliazione tra il disposto legislativo e l’applicazione pratica del principio di corrispondenza tra quote di partecipazione all’ATI e quote di esecuzione tra i soggetti raggruppati, nel caso specifico di appalti di servizi e forniture (Gazzetta Amministrativa n. 1/2013).

TRIBUTI: G. Napolitano, LA PARTECIPAZIONE DEI COMUNI ALL’ATTIVITÀ DI CONTRASTO ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA: SINTESI DELLA NORMATIVA - Il presente lavoro ricostruisce il quadro normativo in materia di partecipazione dei Comuni all’attività di contrasto all’evasione fiscale e contributiva (Gazzetta Amministrativa n. 1/2013).

APPALTI: S. Villamena, LEGITTIMO AFFIDAMENTO E CONTRATTI PUBBLICI. OSSERVAZIONI SU SERIETÀ E PIGRIZIA AMMINISTRATIVA - La tutela del principio di legittimo affidamento incontra nel nostro ordinamento amministrativo una serie di limitazioni e di condizionamenti che ne rendono talvolta problematica l’applicazione. Nel presente contributo, dopo aver affrontato sinteticamente i profili generali del tema indicato, si è orientata l’analisi sul settore degli appalti pubblici. In questo settore, si è potuto verificare la presenza di orientamenti giurisprudenziali consolidati, cui tuttavia si affiancano alcune sporadiche pronunce che si muovono in senso diverso. Tali ultime pronunce, per quanto criticabili in alcuni passaggi, potrebbero aprire nuovi spazi di tutela per il relativo principio di legittimo affidamento, trovando giustificazione nei recenti interventi legislativi che vanno nel senso di combattere il fenomeno (che nel contributo è definito) dell’amministrazione pigra (Gazzetta Amministrativa n. 1/2013).

APPALTI: A. Cernelli, PRECLUSA L’AZIONE DI INDEBITO ARRICCHIMENTO CONTRO LA P.A. SE L’IMPEGNO CONTRATTUALE NON É AD ESSA ASCRIVIBILE - L’Autore analizza la problematica questione del mezzo di tutela esperibile dal privato che abbia eseguito una prestazione in favore della PA, sulla base di un impegno che, sottoscritto da un dirigente o funzionario pubblico, sia mancante dei requisiti di giuridica riferibilità all’ente. In particolare, l’Autore si sofferma sulla possibilità per il privato di esercitare l’azione di indebito arricchimento ex art. 2041 del codice civile (Gazzetta Amministrativa n. 1/2013).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nel computo della spesa per la formazione del personale, da ridurre del 50% con riferimento a quanto speso nel 2009, non deve essere inclusa quella parte di costi sostenuti per formazione obbligatoria imposta da specifiche norme di legge (si pensi al D.lgs. n. 81/2008 in materia di sicurezza sul lavoro oppure al D.lgs. n. 196/2003 sulla protezione dei dati personali), bensì esclusivamente i costi sostenuti per attività formative decise discrezionalmente dall’ente.
L’art. 6 del D.L. n. 78/2010, attesa la sua evidente ratio di contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica, non può essere ragionevolmente interpretato che nel senso della limitazione e non della esclusione tout court del fabbisogno formativo. Pertanto, qualora l’ente non abbia –erroneamente, considerato l’obbligo formativo– sostenuto spesa di tale natura nell’anno di riferimento (2009), dovrà essere utilizzato, quale parametro valutativo, l’ultimo anno in cui è stata sostenuta spesa per la formazione.

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Il Presidente della Regione Calabria, con la nota in epigrafe indicata, ha formulato una richiesta di parere in merito all’obbligo di contenimento della spesa pubblica per attività di formazione del personale prescritto dall’art. 6, comma 13, del D.L. 78/2010, convertito in Legge 122/2010 e recepito a livello regionale con l’art. 7, comma 2, della L.R. n. 22/2010.
In particolare, il Presidente della Regione, ha interpellato la Sezione in ordine all’apparente contrasto sussistente tra il vincolo normativo stabilito dalle norme appena citate e le disposizioni di natura contrattuale contenute nell’art. 23 del CCNL – Area comparto del 01/04/1999, in seguito confermate dall’art. 45 del CCNL 22/01/2004, nella parte in cui è stata prevista la destinazione allo sviluppo delle attività formative di una quota pari almeno al 1% della spesa complessiva del personale.
Segnatamente, il quesito è stato formulato in questi termini: “Alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 182/2011 e di diverse pronunce di Sezioni regionali della Corte dei conti, la riduzione del 50% deve applicarsi sulla spesa sostenuta nell’anno 2009, anche nel caso in cui nell’Ente la spesa per la formazione è stata inferiore al 1% della spesa complessiva del personale?”.

...
5. Nel merito della questione sottoposta all'esame della Sezione appare opportuno richiamare, preliminarmente, la normativa, primaria e pattizia, applicabile al caso di specie che, si ribadisce, attiene all’applicazione del vincolo di spesa inerente alla formazione del personale stabilito dal legislatore tanto nazionale, quanto regionale, laddove la medesima spesa risulti inferiore al limite minimo stabilito da norme di rango contrattuale.
Come esposto dallo stesso richiedente, l’art. 6 del D.L. 78/2010, recante varie disposizioni inerenti alla riduzione dei costi degli apparati amministrativi, al comma 13 contiene una prescrizione finalizzata al contenimento della spesa pubblica destinata dagli enti pubblici alla formazione del personale. In particolare,
la norma stabilisce che, a decorrere dall'anno 2011, la spesa annua sostenuta dalle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, incluse le autorità indipendenti, per attività esclusivamente di formazione deve essere non superiore al 50% della spesa sostenuta nell'anno 2009.
Le predette amministrazioni svolgono prioritariamente l'attività di formazione tramite la Scuola superiore della pubblica amministrazione ovvero tramite i propri organismi di formazione.
Gli atti e i contratti posti in essere in violazione della disposizione contenuta nel primo periodo del presente comma costituiscono illecito disciplinare e determinano responsabilità erariale. La disposizione di cui al presente comma non si applica all'attività di formazione effettuata dalle Forze armate, dal Corpo nazionale dei vigili del fuoco e dalle Forze di Polizia tramite i propri organismi di formazione.
La norma riportata prevede, pertanto, uno specifico e netto limite all’assunzione di spesa finalizzata esclusivamente alla formazione del personale delle pubbliche amministrazioni, la quale non dovrà assumere un’entità superiore al 50% della medesima spesa sostenuta nell’anno 2009 (diversamente, si osserva, il comma 10 del medesimo art. 6 prevede forme di compensazione tra diverse voci di spesa). Inoltre, viene precisato che l’attività di formazione dovrà essere prioritariamente svolta a mezzo della Scuola superiore della pubblica amministrazione (alla quale deve ritenersi equiparabile la Scuola superiore della pubblica amministrazione locale ex D.P.R. 27/2008) oppure tramite gli organismi di formazione costituiti nei vari enti. È, infine, stabilito che l’adozione di atti e contratti posti in essere in spregio dell’obbligo di contenimento previsto dalla norma determina responsabilità disciplinare ed erariale.
Ancora, il medesimo art. 6, al comma 20, stabilisce che le disposizioni contenute nell’articolo in esame non si applicano in via diretta alle Regioni, alle Province autonome e agli enti del Servizio sanitario nazionale, per i quali costituiscono norme di principio ai fini del coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 117, c. 3, della Costituzione. Su tale aspetto ha avuto modo di pronunciarsi la Corte costituzionale con la sentenza n. 182/2011, successivamente ribadita dalla sentenza n. 139/2012, nella quale sono stati affermati importanti principi, peraltro già oggetto di precedenti pronunce della Corte costituzionale, in merito alla delimitazione della competenza legislativa concorrente sul coordinamento della finanza pubblica.
In particolare, la Consulta, nella sentenza n. 182/2011, nel respingere il ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri radicato sulla legge finanziaria 2011 della Regione Toscana, ha statuito che il legislatore nazionale, anche in adempimento ad obblighi comunitari, stabilendo precisi vincoli e limiti alla progressione della spesa nell’ambito dell’organizzazione degli apparati pubblici, non può non rispettare l’autonomia delle Regioni, per le quali è pur sempre ammissibile raggiungere i risultati prefissati a livello nazionale attraverso modulazioni di spesa differenti rispetto a quelle puntualmente indicate dal legislatore statale per le proprie Amministrazioni.
Aggiunge ancora la Consulta che con l’art. 6, comma 20, il legislatore statale ha mostrato di saper superare la tecnica normativa in origine adottata ai fini del contenimento della spesa pubblica –ed oggetto di un consolidato vaglio negativo di legittimità costituzionale (cfr. Corte costituzionale sentenze n. 417/2005, n. 449/2005, n. 159/2008, n. 297/2009)– preferendo agire direttamente sulla spesa delle proprie amministrazioni con norme puntuali, delle quali si è invece dichiarata l’efficacia nei confronti delle Regioni esclusivamente quali principi di coordinamento della finanza pubblica, escludendone pertanto l’applicabilità diretta (cfr. Corte costituzionale sentenza n. 289/2008).
Di qui la possibilità, per il legislatore statale, di rispettare il riparto concorrente della potestà legislativa in tema di coordinamento della finanza pubblica, solo a condizione di permettere l’enucleazione, dalle singole disposizioni statali, di principi rispettosi di uno spazio aperto all’esercizio dell’autonomia regionale. Diversamente operando, la disposizione statale non avrebbe potuto qualificarsi di principio (cfr. Corte costituzionale sentenza n. 159/2008), quale che ne fosse stata l’eventuale auto designazione adottata dal legislatore nazionale (cfr. Corte costituzionale sentenza n. 237/2009).
In definitiva, lo scrutinio di legittimità costituzionale effettuato nella citata sentenza fornisce un’interpretazione dell’art. 6 del D.L. n. 78/2010 rispettosa dell’autonomia legislativa regionale, giacché riserva alla Regione una valutazione globale dei puntuali limiti di spesa stabiliti dalla norma statale nel rispetto, pur sempre, del vincolo (ed è questo il principio di coordinamento) di riduzione complessiva dei costi degli apparati amministrativi, obiettivo tuttavia modulabile discrezionalmente dalla Regione anche secondo differenti percentuali di ripartizione tra le varie voci di spesa prese in considerazione.
In attuazione del suddetto principio di coordinamento della finanza pubblica contenuto nel ridetto art. 6 del D.L. n. 78/2010, la Regione Calabria ha approvato la Legge regionale n. 22 del 11.08.2010 recante misure di razionalizzazione e riordino della spesa pubblica regionale. In essa sono contenute varie disposizioni finalizzate al contenimento delle spese di funzionamento dell’apparato burocratico regionale.
Per quanto di interesse in questa sede, rileva quanto stabilito dall’art. 7, comma 2, in base al quale, similmente a quanto previsto a livello nazionale, a decorrere dall’anno 2011 la spesa sostenuta per attività di formazione non può essere superiore al 50% della spesa sostenuta nell’anno 2009, ad eccezione della medesima fonte di spesa finanziata da fondi comunitari. La Regione Calabria ha quindi esercitato, con tale provvedimento, la propria discrezionalità legislativa nell’ambito del principio statale sopra visto, adeguandosi pressoché integralmente –per quanto attiene alla spesa per la formazione del personale– a quanto stabilito dall’art. 6 del D.L. n. 78/2010.
Tuttavia,
va rilevato che mentre il legislatore nazionale ha fatto espresso riferimento alla spesa per attività “esclusivamente” di formazione, lasciando quindi supporre che alcune voci di spesa, seppur latamente formative, potrebbero anche essere escluse dal computo complessivo, la Regione Calabria sembra aver recepito il principio statale in modo ancor più rigoroso, riferendosi la citata norma regionale alla spesa sostenuta, in generale, per “attività di formazione”, di qualsiasi natura e tipologia essa sia.
Infine, la ricostruzione normativa deve ora interessarsi della disciplina pattizia. La norma che occorre esaminare è
l’art. 23 del CCNL Regioni-Enti locali, area comparto, del 01.04.1999 (in seguito confermato dall’art. 45 dl CCNL del 22.01.2004), il quale, nel valorizzare il ruolo della formazione del personale (cfr., in proposito, art. 7, comma 4, e art. 7-bis del D.lgs. n. 165/2001) stabilisce, con una norma programmatica, l’impegno per i datori di lavoro di destinare allo sviluppo delle attività formative una quota pari almeno al 1% della spesa complessiva del personale. Peraltro, il comma 2 del citato art. 23, premette che l’esigenza di favorire gli investimenti nella formazione del personale è pur sempre condizionata al rispetto delle effettive capacità di bilancio degli enti.
6. Ciò posto, va rilevato che sul vincolo di contenimento della spesa per formazione del personale hanno avuto modo di pronunciarsi, seppur con riferimento agli enti locali, altre Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, giungendo a soluzioni interpretative del tutto condivisibili anche da questa Sezione.
Nella deliberazione n. 113/2011 la Sezione regionale del controllo molisana, premessa una ricostruzione normativa finalizzata ad evidenziare la natura obbligatoria e necessaria della spesa per formazione del personale, ha avuto modo di precisare che l’art. 6 del D.L. n. 78/2010, attesa la sua evidente ratio di contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica, non può essere ragionevolmente interpretato che nel senso della limitazione e non della esclusione tout court del fabbisogno formativo. Pertanto, qualora l’ente non abbia –erroneamente, considerato l’obbligo formativo– sostenuto spesa di tale natura nell’anno di riferimento (2009), dovrà essere utilizzato, quale parametro valutativo, l’ultimo anno in cui è stata sostenuta spesa per la formazione.
La Sezione controllo del Piemonte (deliberazione n. 55/2011) si è pronunciata su alcune tipologie di spesa formativa oggetto di contenimento ai sensi dell’art. 6, includendovi quelle che finanziano attività formative di riqualificazione del personale, anche se finalizzate allo scopo di evitare il ricorso a professionisti esterni, trattandosi invero dell’obiettivo precipuo di qualsiasi attività formativa, ovvero anche le spese di aggiornamento e formazione per gli educatori degli asili nido, seppur previste dai contratti collettivi.
Ancora, e sempre condivisibilmente,
la Sezione Lombardia (deliberazione n. 116/2011) ha precisato che nel computo della spesa per la formazione del personale, da ridurre del 50%, non deve essere inclusa quella parte di costi sostenuti per formazione obbligatoria imposta da specifiche norme di legge (si pensi al D.lgs. n. 81/2008 in materia di sicurezza sul lavoro oppure al D.lgs. n. 196/2003 sulla protezione dei dati personali), bensì esclusivamente i costi sostenuti per attività formative decise discrezionalmente dall’ente.
Tale argomento è stato anche sposato dalla Sezione Toscana (deliberazione n. 74/2011) la quale ha –opportunamente– avuto modo di aggiungere che
la spesa formativa discrezionale deve essere assoggettata al limite normativo a prescindere dalle modalità concrete di realizzazione dell’attività formativa (tutoraggio o formazione residenziale presso lo stesso ente organizzatore).
Infine, sempre
la Sezione Lombardia (deliberazione n. 117/2012) ha affermato, proprio con riferimento ad un caso analogo a quello oggetto dell’odierno esame, che nessuna interferenza può essere ascritta alle norme contenute nel CCNL, le quali stabiliscono (art. 23, comma 2, CCNL Regioni-Enti locali del 01.04.1999) un limite minimo di spesa da destinare alla formazione, sul rispetto del vincolo legislativo di contenimento della medesima spesa.
7. Esaminata la normativa di riferimento e la giurisprudenza sviluppatasi sulla problematica in esame,
la Sezione non può che dare risposta affermativa al quesito formulato dalla Regione Calabria, confermando pertanto la necessaria applicazione dell’obbligo di legge finalizzato alla contrazione della spesa per formazione, ancorché a livello pattizio sussista una disposizione –non completamente applicata dall’ente istante– implicante un investimento minimo in formazione.
In proposito, il Collegio rileva che, in disparte ogni valutazione sul rango e sulla specialità della fonte legislativa apparentemente contrastante con quella contrattuale, un obbligo contrattuale può, secondo tradizionali principi civilistici (inesigibilità della prestazione ex art. 1218 c.c.), restare inadempiuto qualora sopravvenga un impedimento, determinato appunto dall’entrata in vigore di una nuova disposizione legislativa recante un preciso limite di spesa, tale da rendere impossibile l’adempimento (c.d. factum principis).
Inoltre, come sopra visto, è la stessa disposizione contrattuale (art. 23, c. 2) che, nel prevedere un significativo incremento dei finanziamenti da destinare alla formazione, fa espressa riserva alla effettiva capacità di bilancio la quale, in applicazione delle citate norme di contrazione della spesa, dovrà essere dimezzata rispetto all’analoga spesa di formazione registrata nell’anno 2009.
Va anche aggiunto che appare inconferente, al fine della risposta al quesito, la citazione della sentenza n. 182/2011 della Consulta, atteso che, come è stato già evidenziato, la Regione Calabria ha esercitato la propria discrezionalità legislativa attuando, peraltro in modo pressoché pedissequo per quanto attiene alla spesa per formazione, il principio di coordinamento della finanza pubblica contenuto nell’art. 6 del D.L. n. 78/2010. Pertanto, da questo punto di vista, il legislatore regionale non può certo lamentare l’eventuale violazione delle proprie prerogative costituzionali riconosciute e valorizzate dalla Corte costituzionale nelle citate sentenze n. 182/2011 e n. 136/2012, giacché l’autonomia legislativa regionale è stata, nel caso concreto, pienamente sfruttata.
Nondimeno,
quanto sopra detto non esclude tout court la possibilità per la Regione di soddisfare i fabbisogni formativi del personale dipendente anche attraverso percorsi interni di “auto formazione”, valorizzando all’uopo gli organismi interni di formazione ovvero le risorse dirigenziali da utilizzare eventualmente anche per le docenze, oltreché investendo ed ottimizzando la quota residua, pur sempre disponibile, che la norma di contenimento della spesa formativa tuttora preserva (Corte dei Conti, Sez. controllo Calabria, parere 16.05.2013 n. 23).

NEWS

ATTI AMMINISTRATIVIGUIDA PRATICA AL DECRETO DEL FARE/ LA PA CHE RITARDA PAGA.
Trenta euro al giorno quando il procedimento amministrativo non si conclude nei tempi previsti.

Il decreto legge prova a introdurre un dissuasivo nei confronti della pubblica amministrazione affinché rispetti i tempi di conclusione dei procedimenti.
La novità, in fase sperimentale applicata solamente all'avvio di nuove attività imprenditoriali, stabilisce che a fronte del mancato rispetto dei termini la Pa riconosca un indennizzo, anche se non in modo automatico, per ogni giorno di ritardo.
Un primo passo, forse, verso un modo di amministrare caratterizzato da tempi certi a tutto beneficio degli imprenditori che spesso ora restano bloccati in attesa di risposte (articolo Il Sole 24 Ore del 23.06.2013).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Antenne centralizzate, regole tecniche stese da privati. Il decreto del mse di gennaio 2013 evidenzia non poche problematiche applicative.
È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 25 del 30 gennaio scorso un decreto del Ministero dello sviluppo economico (22.01.2013) che detta le «regole tecniche relative agli impianti condominiali centralizzati d'antenna riceventi del servizio di radiodiffusione».
Il decreto disciplina gli impianti centralizzati d'antenna condominiali, di nuova installazione, che ricevono i segnali del servizio di radiodiffusione, terrestre e satellitare e ne effettuano la distribuzione nell'edificio. Disciplina, altresì, la progettazione e la realizzazione degli impianti d'antenna riceventi il servizio di radiodiffusione conseguenti al riutilizzo di parte della banda Uhf da parte dei servizi di comunicazione elettronica.
Il provvedimento dispone che gli impianti centralizzati d'antenna siano realizzati in modo da «ottimizzare la ricezione delle stazioni emittenti radiotelevisive ricevibili e annullare o minimizzare l'esigenza del ricorso ad antenne riceventi individuali, in modo tale da garantire i diritti inderogabili di libertà delle persone nell'uso dei mezzi di comunicazione elettronica».
Fissate queste caratteristiche generali, il provvedimento passa a dettare ulteriori norme per «la progettazione, la realizzazione e la manutenzione di impianti» che rispettino le caratteristiche di cui sopra. In particolare, gli impianti centralizzati d'antenna (stabilisce ancora l'art. 4) non devono determinare condizioni discriminatorie tra le stazioni emittenti i cui programmi siano contenuti esclusivamente in segnali terrestri primari e satellitari né condizioni discriminatorie nella distribuzione dei segnali alle diverse utenze. L'utilizzo di un mezzo trasmissivo, poi, non deve comportare l'esclusione di altri mezzi trasmissivi che siano da considerare equivalenti o complementari tra loro.
Ma quali devono essere i «criteri realizzativi» delle antenne centralizzate? La risposta è contenuta nell'art. 6 del decreto, ove si dispone che «i riferimenti per la conformità di progettazione, installazione e manutenzione degli impianti centralizzati d'antenna sono: a) la direttiva 2004/108/Ce relativa agli aspetti di compatibilità elettromagnetica; b) le pertinenti norme e guide tecniche di impianto del Cei e i relativi riferimenti normativi europei Cenelec e in particolare la guida Cei 100-7 e le norme della serie En 50083 ed ENn60728 per gli aspetti funzionali e di sicurezza».
Per progettare, installare e fare la manutenzione delle antenne centralizzate, insomma, bisogna seguire regole che non sono contenute nel decreto ministeriale di cui ci stiamo occupando, né in altre disposizioni legislative o regolamentari. Tali regole sono infatti contenute, oltre che in una direttiva europea, in documenti realizzati da due enti di natura privata: il Cei (Comitato elettrotecnico italiano) e il Cenelec (Comitato europeo di normazione elettrotecnica).
E come ci si procura questi documenti, visto che (come detto) non si tratta di leggi o decreti? Ebbene, in questo caso è necessario procurarsi un volume intitolato Guide Cei sugli impianti d'antenna per la ricezione Tv. Volume, deve precisarsi, che non è disponibile gratuitamente, ma che è necessario acquistare al prezzo di 130 euro. Senza, oltretutto, che tale acquisto possa da qualcuno essere evitato per effetto, ad esempio, dell'invio della pubblicazione o di suoi estratti in copia da parte di un terzo (come potrebbe essere, ad esempio, un'Associazione territoriale della Confedilizia). Le indicazioni sul volume sono infatti inequivoche: «Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte del documento può essere riprodotta, messa in rete o diffusa con un qualsiasi mezzo senza il consenso scritto del Cei».
È legittimo tutto ciò? A leggere quanto affermato dal Tar del Lazio nella sentenza n. 5413 dell'01/04/2010 (ottenuta dalla Confedilizia con riferimento a un decreto in materia di ascensori) parrebbe proprio di no. In quell'occasione, infatti, i giudici amministrativi hanno ritenuto illegittime quelle previsioni che, nell'imporre prestazioni a privati proprietari, lascino «ampio spazio nella loro individuazione ad una associazione privata» (l'Uni, nel caso di specie, ente analogo a quelli citati nel decreto sulle antenne), «alle cui libere determinazioni, assunte nel tempo e finalizzate ad un continuo adeguamento delle tecniche di valutazione dei rischi degli impianti, da essa imposte, dipende la loro progressiva quantificazione e i vantaggi economici che l'associazione ne ricava».
Ma il Tar aggiungeva anche: «La riprova della anomala e ingiustificata posizione di vantaggio che ad essa si è ritenuto di assicurare, in danno dei proprietari, è già nell'obbligo fatto ai privati proprietari di acquisire, ad un prezzo esoso, limitatamente ad una sola copia del cartaceo recante il testo delle norme tecniche da osservare e «ad esclusivo uso del cliente», la licenza da parte dell'Uni ad utilizzare la normativa tecnica da essa predisposta, di cui è ritenuta proprietaria e che per questa ragione non è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, come sarebbe doveroso per ogni normativa che alla collettività si impone di applicare».
Il testo integrale del provvedimento può essere scaricato (da parte dei titolari della relativa password) dalla banca dati riservata del sito internet della Confedilizia (articolo Italia Oggi del 22.06.2013).

ENTI LOCALI - VARI: Torna la mediazione civile obbligatoria.
Torna la mediazione civile obbligatoria. È quanto il governo ha previsto nel decreto «del fare». Pertanto, prima di rivolgersi al tribunale o al giudice di pace, è obbligatorio attivarsi presso un organismo di mediazione autorizzato dal ministero della giustizia per dirimere una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione e successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e da diffamazione, contratti assicurativi, bancari e finanziari.
Unico escluso: il risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti.
«Attendevamo con fiducia questo intervento. Sebbene non comprendiamo come mai ad essere esclusa è proprio la materia che di fatto ingolfa i tribunali ordinari», ha evidenziato Falcone.
Anche quando la Corte costituzionale si era espressa in merito all'illegittimità costituzionale, per eccesso di delega legislativa del dlgs 04.03.2010, n. 28 nella parte in cui era previsto il carattere obbligatorio della mediazione, la Lapet non ha mai smesso di continuare a credere in questa misura e nei principi che l'hanno generata: dare un'accelerata alla lentezza della giustizia ordinaria e ridurne i costi. Anzi, l'obbligatorietà, per gli iscritti Lapet, non è mai venuta meno in quanto prevista in tutte le clausole contrattuali, laddove, in caso di lite, è obbligatorio preventivamente ricorrere alla media-conciliazione.
«L'intervento del governo ora giunge a rendere merito a tutto il lavoro che nel corso di questi anni abbiamo fatto, fino alla costituzione del nostro organismo di mediazione AdrMedilapet, iscritto al n. 467 del registro degli Organismi di mediazione presso il ministero della giustizia», ha aggiunto il presidente.
AdrMedilapet rappresenta infatti un ulteriore servizio che la Lapet mette a disposizione dei suoi associati in primis ed è una forma di tutela a cui il cittadino-utente può rivolgersi per dirimere una controversia grazie all'ausilio di esperti e mediatori professionisti.
«Ora che il governo ha dimostrato di voler spingere verso il sistema alternativo di risoluzione delle controversie, principio che trova tra l'altro giustificazione anche da parte della Commissione Ue, è fuori dubbio che tale procedura rappresenti un'opportunità da non perdere», ha indicato Falcone. «Suggeriamo peraltro il reintegro anche di quelle materie che sono state escluse, affinché la mediazione possa finalmente ottenere il ruolo che merita nel panorama della giustizia italiana» (articolo Italia Oggi del 22.06.2013).

SICUREZZA LAVOROGUIDA PRATICA AL DECRETO DEL FARE/ SICUREZZA NEI CANTIERI AFFIDATA A UN DELEGATO.
Alternativa al documento unico di valutazione dei rischi da interferenze nei settori meno pericolosi.

Semplificare la burocrazia senza che a rimetterci siano sicurezza del lavoro e regolarità contributiva. In questa strettoia le norme del decreto del fare cercano un compromesso che, per quel che riguarda il Durc, il documento di regolarità contributiva, dovrà essere acquisto telematicamente dall'ente.
Sul fronte della sicurezza si prevede una riduzione degli obblighi relativi al documento unico di valutazione dei rischi in caso di appalto mentre anche per la formazione si potranno evitare corsi specifici da parte dei laureati in materie coerenti con il lavoro svolto (articolo Il Sole 24 Ore del 22.06.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - VARIGUIDA PRATICA AL DECRETO DEL FARE/ TORNA LA MEDIAZIONE OBBLIGATORIA.
Il tentativo deve essere fatto ma non per i danni da incidenti stradali - Gli avvocati promossi d'ufficio «conciliatori».

Il decreto legge 69/2013, in vigore da oggi 22 giugno, prevede una serie di interventi in materia di giustizia.
Si va, infatti, dal ritorno alla conciliazione obbligatoria a una maxi-operazione di reclutamento di ausiliari per abbattere l'arretrato civile in Corte d'appello per arrivare alle disposizioni che devono bloccare gli abusi sul concordato. Un'operazione che dichiara il suo obiettivo: rendere più affidabile la giustizia (articolo Il Sole 24 Ore del 22.06.2013).

CONDOMINIOCondominio. Le nuove regole richiedono maggioranze più alte per la rimozione. La riforma peggiora i quorum sulle barriere architettoniche.
IL VOTO PER LE INNOVAZIONI/ Prima bastavano un terzo di condomini e 334 millesimi, ora serve la maggioranza degli intervenuti in assemblea e almeno 500 millesimi
INTERVENTO INDIVIDUALE/ Se l'assemblea non vota l'intervento entro un mese dalla richiesta, il condomino potrà installare il servoscala o altra struttura a sue spese.

L'esigenza più sentita in condominio dai diversamente abili, dagli anziani e da tutti coloro colpiti da un handicap o, più semplicemente, da difficoltà motorie è quella di potersi muovere senza difficoltà in condominio, di poter scendere le scale, prendere l'ascensore, di poter godere della propria autonomia e non sentirsi "blindati" a casa propria.
Invece, purtroppo, si assiste spesso a casi di persone disabili che da anni non possono uscire di casa perché impossibilitati ad entrare in ascensori con porte troppo piccole, o addirittura non possono neppure scendere le scale perché abitano al sesto piano e non c'è un servoscala.
Queste sono le barriere architettoniche e nel 2013 la riforma adottata dal legislatore ha complicato le cose invece di migliorarle.
Per la determinazione del concetto di «barriera architettonica» il legislatore fa riferimento all'articolo 27, comma 1, della legge 118/1971, nella quale si definisce barriera architettonica qualsiasi impedimento fisico a ostacolo alla vita di relazione dei minorati. La barriera architettonica, quindi, può essere una scala, un gradino, una rampa troppo ripida.
Già da tempo la normativa, in particolare la legge n. 13 del 09.01.1989 (disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati) e la legge n. 104 del 05.02.1992 (legge quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) non si è limitata a innalzare il livello di tutela in favore di questi soggetti ma ha segnato un radicale mutamento di prospettiva rispetto al modo stesso di affrontare i loro problemi, considerati ora non più questioni solo individuali, ma tali da dover essere assunti dall'intera collettività.
Così l'accessibilità, definita dall'articolo 2 del decreto ministeriale n. 236 del 14.06.1989 come la «possibilità, anche per persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale, di raggiungere l'edificio e le sue singole unità immobiliari, di entrarvi agevolmente e di fruire di spazi e di attrezzature in condizioni di adeguata sicurezza ed autonomia» è divenuta una qualità essenziale degli edifici privati di nuova costruzione ad uso di civile abitazione (vedi anche il capo III del Dpr n. 380 del 06.06.2001, ovvero il testo unico delle disposizione legislative e regolamentari in materia edilizia), quale conseguenza dell'affermarsi nella coscienza sociale, del dovere collettivo di rimuovere preventivamente ogni possibile ostacolo alla esplicazione dei diritti fondamentali delle persona affette da handicap fisici.
Anche la Corte Costituzionale è intervenuta con la sentenza n. 167 del 10.05.1999, in tema di servitù di passaggio coattivo, riconfermando i principi già espressi nella normativa e sottolineando come qualsiasi impedimento e/o ostacolo all'accessibilità dell'immobile abitativo e, quale riflesso necessario, alla socializzazione dei soggetti portatori di handicap, comporti una lesione del fondamentale diritto alla salute intesa nel significato proprio dell'articolo 32, comprensivo anche della salute psichica, la cui tutela deve essere di grado pari a quello della salute fisica.
La depressione quale conseguenza dell'isolamento, per esempio, è una delle tipiche patologie psichiche conseguenti a situazioni del genere, ed è tutt'altro che infrequente, perché chiusi in casa ci si "spegne" letteralmente.
Oggi, per gli edifici già esistenti (la grande maggioranza) il legislatore, con la legge di riforma n. 220/2012 (entrata in vigore quattro giorni fa), invece di diminuire il quorum necessario per deliberare le modifiche da apportare alle parti comuni dirette al superamento o all'eliminazione delle barriere architettoniche, lo ha aumentato.
In particolare se l'articolo 2 della legge 13/1989 prevedeva che per queste modifiche o innovazioni fosse sufficiente in seconda convocazione il voto favorevole di un terzo dei partecipanti al condominio, portatori di almeno un terzo dei millesimi, ora, con la riforma, sia in prima che in seconda convocazione è necessario il voto favorevole espresso dalla maggioranza degli intervenuti in assemblea e almeno la metà del valore millesimale dell'edificio (articolo 1120 del Codice civile).
Se l'assemblea risponde negativamente o non risponde entro un mese dalla richiesta (con la legge 13/1989 erano previsti tre mesi), il condomino potrà sempre a propria cura e spese installare il servoscala e tutte quelle strutture mobili che possono consentirgli una vita, nel vero senso della parola (articolo Il Sole 24 Ore del 22.06.2013).

VARISulle strade. Controlli elettronici a più voci.
Nessuna disposizione normativa limita il potere di accertamento degli ispettori delle aziende di trasporto pubblico che pertanto possono regolarmente sottoscrivere anche gli eventuali verbali di circolazione abusiva sulle strisce gialle rilevati con sistemi elettronici.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza 19.06.2013 n. 15283.
Un cittadino pizzicato dal sistema elettronico preposto al controllo della circolazione limitata sulle strisce gialle dedicate al trasporto pubblico si è rivolto al giudice di pace lamentando il difetto di potere dell'organo accertatore, ovvero del funzionario dipendente dell'azienda municipalizzata trasporti. Contro il conseguente annullamento della multa, confermato pure in appello, il comune di Genova ha proposto con successo ricorso in cassazione.
Ai sensi della legge n. 127/1997 i comuni possono, con provvedimento del primo cittadino, conferire le funzioni di accertamento e prevenzione delle violazioni in materia di sosta ai dipendenti comunali o delle società di gestione dei parcheggi, limitatamente alle aree oggetto di concessione. Questi poteri, specifica la norma, possono inoltre essere conferiti, sempre con provvedimento del sindaco, anche al personale ispettivo delle aziende esercenti il trasporto pubblico di persone. Questo stesso personale può però anche svolgere funzioni di prevenzione e accertamento in materia di circolazione e sosta sulle corsie gialle riservate, prosegue il collegio, previa specifica designazione in tal senso del primo cittadino. Nessuna disposizione limita però poi l'esercizio di questo potere di polizia stradale.
Per questo motivo non può censurarsi la disponibilità dei sistemi di controllo elettronici del traffico dedicati alle strisce gialle presso la sede della società concessionaria. Tantomeno ritenere nulla la multa rilevata dal sistema Sirio Ves sottoscritta dal personale ispettivo di una azienda di trasporto pubblico. Come implicitamente confermato dalle sezioni unite, conclude l'ordinanza, i poteri di polizia stradale conferiti agli ispettori in questo caso non incontrano infatti limitazioni particolari (articolo Italia Oggi del 21.06.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: DECRETO FARE/ Le ultime novità del dl. Ai piccoli comuni 100 mln per le opere.
P.a. lumaca, indennizzi ridotti. Meno soldi per le imprese. E si paga il contributo unificato.

Indennizzi da ritardo ridotti all'osso. In una settimana la portata della norma, in linea di principio rivoluzionaria, che consente di chiedere i danni alla p.a. per le lungaggini burocratiche, è stata via rimpicciolita nel tentativo di tranquillizzare la Ragioneria dello stato. Troppe sono infatti le pratiche amministrative definite fuori tempo massimo per non allarmare via XX Settembre preoccupata delle possibili ricadute sui bilanci pubblici.
E così prima è stato dimezzato, da 4 mila a 2 mila euro l'importo massimo indennizzabile a favore delle imprese (saranno loro i primi beneficiari in via sperimentale), poi è stata la volta della cifra da corrispondere per ogni giorno di ritardo che da 50 euro è scesa a 30. E infine si è allungato il periodo transitorio che servirà per valutare se e in quali termini la chance dell'indennizzo, oggi azionabile solo da parte delle imprese, potrà essere riconosciuta gradualmente anche ai privati. Da un anno si è passati a 18 mesi.
Nel testo definitivo del decreto legge con le misure urgenti per la crescita economica (cosiddetto «decreto del fare») licenziato dal consiglio dei ministri di mercoledì, la procedura per ottenere gli indennizzi è stata infarcita di tali e tanti paletti da risultare zeppa di incognite (si veda altro pezzo in pagina). Per esempio, al termine dei 18 mesi di monitoraggio il governo si riserva la facoltà di fare un passo indietro sull'applicazione dell'indennizzo non solo non estendendolo affatto ai privati, ma anche disponendo con regolamento la cessazione tout court della misura.
E, ancora, come strumento per scongiurare le liti temerarie, si prevede che qualora il ricorso sia dichiarato inammissibile o respinto, il giudice possa condannare il ricorrente al pagamento di una somma da due a quattro volte il contributo unificato.
Ma è leggendo la relazione tecnica al decreto legge che viene fuori la vera sorpresa. Per tranquillizzare le amministrazioni più in difficoltà nel rispettare i tempi, si precisa che «nel caso emergano criticità, le pubbliche amministrazioni interessate potranno individuare termini procedimentali più adeguati alle loro esigenze organizzative, fino a un massimo di 180 giorni» (il termine ordinario previsto dalla legge è di 30 giorni, ndr). Come dire, basterà allungare i tempi per rispondere alle istanze di cittadini e imprese per spostare in avanti nel tempo l'azionabilità del potere sostitutivo che va necessariamente attivato se si vuole ottenere l'indennizzo. Ma quanto impatterà sul bilancio dello stato l'indennizzo da ritardo? La relazione non lo quantifica perché saranno le singole amministrazioni a dover provvedere agli stanziamenti necessari.
Ma vediamo le altre novità di interesse per gli enti locali e la p.a. contenute nel decreto.
Data unica per gli adempimenti. Due sole scadenze per l'efficacia degli adempimenti amministrativi. Il 1° luglio e il 1° gennaio saranno le due finestre per far scattare obblighi di «raccolta, elaborazione, trasmissione, conservazione e produzione di informazioni e documenti» nei confronti degli enti pubblici. Sulla falsariga di quanto accade già in molti paesi europei (Regno Unito, Francia e Olanda) anche in Italia il groviglio burocratico che attanaglia la vita di tutti i giorni e l'economia potrà semplificarsi nei confronti di cittadini e imprese.
Fondo piccoli comuni. Il decreto legge stanzia 100 milioni di euro per il 2014 finalizzati alla realizzazione di opere infrastrutturali nei piccoli comuni. Il programma, chiamato «6000 campanili» finanzierà interventi di adeguamento, ristrutturazione e nuova costruzione di edifici pubblici, ma anche la realizzazione e manutenzione di strade e la messa in sicurezza del territorio. I criteri per l'accesso alle risorse saranno definiti entro 30 giorni dall'entrata in vigore del decreto con una convenzione tra il ministero delle infrastrutture e l'Anci che sarà trasposta in un decreto da pubblicare in G.U. Entro 60 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta del dm i comuni con meno di 5.000 abitanti potranno inviare le richieste di contributo al ministero guidato da Maurizio Lupi.
Il contributo richiesto per il singolo progetto non potrà essere inferiore a 500 mila euro e superiore a un milione. Il costo del singolo intervento potrà superare il contributo richiesto solo se i soldi in più sono già nella disponibilità del comune e sono immediatamente spendibili. Ogni comune potrà presentare un solo progetto. La misura piace all'Anci che la definisce «una boccata d'ossigeno per le economie locali nel difficile contesto attuale».
Slitta la dismissione delle partecipate. Viene prorogato dal 30 giugno al 31.12.2013 il termine entro il quale gli enti pubblici, ai sensi della spending review (dl 95/2012), avrebbero dovuto alienare le partecipazioni in società controllate strumentali che presentino un fatturato da servizi prestati verso la p.a. superiore al 90% del fatturato totale.
Riscossione locale. La proroga a fine anno dell'uscita di scena di Equitalia dalla riscossione locale viene «ritarata» in modo da estendersi anche alla riscossione delle entrate extratributarie (multe). Si precisa che la proroga appena disposta ad opera del dl 35/2013 sarà l'ultima e per il futuro l'attività di riscossione delle entrate dei comuni potrà essere affidata a un consorzio che si avvarrà delle società del gruppo Equitalia.
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Si rischia di far esplodere il contenzioso
L'indennizzo da ritardo rischia di far esplodere il contenzioso. Innanzitutto, è doveroso sottolineare che la sanzione non scatta, come erroneamente indicato, quale diretta conseguenza del ritardo. Infatti, il cittadino o l'impresa che abbia attivato un procedimento amministrativo deve attendere che spiri inutilmente il termine. A questo punto, debbono rivolgersi all'autorità titolare del potere di intervenire in via sostitutiva, ai sensi dell'articolo 2, commi 9-bis e 9-ter, della legge 241/1990. Ma per aspirare all'indennizzo, i cittadini dovranno chiedere l'intervento sostitutivo entro 7 giorni dalla scadenza del termine. Solo qualora questo soggetto non concluda entro il termine ad esso assegnato (pari alla metà di quello iniziale), dovrà pagare l'indennizzo. Laddove il responsabile in via sostitutiva non liquidi l'indennizzo direttamente, sarà possibile rivolgersi al Tar perché si pronunci sia sull'illegittimità del silenzio, sia per ottenere l'indennizzo. Ma si tratterà di un ricorso oneroso, perché sarà dovuto il contributo unificato. E qualora il ricorso venga dichiarato inammissibile, il giudice condannerà il ricorrente a pagare in favore della p.a. una somma da due volte a quattro volte il contributo unificato.
Quindi (si veda ItaliaOggi del 15/06/2013) se per una pratica è previsto il termine ordinario di 30 giorni, la sanzione scatta solo laddove il responsabile in via sostitutiva non concluda il procedimento entro l'ulteriore termine di 15 giorni a lui assegnato, che decorrerà, però, solo da un'ulteriore istanza del cittadino. Pertanto, il tempo a disposizione delle amministrazioni per evitare di incorrere nella sanzione è molto più ampio di quanto a prima vista possa sembrare.
La cosa che, però, soprattutto rende quasi del tutto priva di efficacia la norma è il suo ridottissimo campo di applicazione: la «multa da ritardo» infatti non scatta nelle «ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici». Una vastissima gamma di procedimenti amministrativi, pertanto, risulta totalmente esente. Nelle ipotesi di «silenzio qualificato» rientrano le fattispecie nelle quali allo spirare del termine assegnato da norme di legge o regolamentari per concludere il procedimento, scaturisca, come conseguenza, il «silenzio-assenso» o il «silenzio rigetto». Ma mentre quest'ultima ipotesi è residuale e connessa a specifiche norme di legge, il silenzio-assenso è la regola generale che si applica a tutti i procedimenti a istanza di parte, come prevede l'articolo 20 della legge 241/1990.
La gamma, dunque, dell'estensione dei procedimenti esenti da sanzione è vastissima, con la sola eccezione di qui procedimenti ad istanza di parte che per espresse statuizioni normative non possano concludersi col silenzio-assenso. Visto il clima di sempre minore tolleranza verso la «burocrazia» e i «costi della politica», la previsione rischia di essere un boomerang perché potrebbe innescare un contenzioso amministrativo e giurisdizionale di vastissima portata (articolo Italia Oggi del 21.06.2013).

SICUREZZA LAVOROEdilizia e piccoli lavori: i «piani» saranno facilitati. Pos e Psc. Per i cantieri con durata fino a 10 uomini/giorno.
La semplificazione interessa anche il settore dell'edilizia. Il decreto legge approvato sabato 15 giugno dal Consiglio dei ministri limita il campo di applicazione del Titolo IV del decreto legislativo 09.04.2008, n. 81 (Tu sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro) e prevede la semplificazione dei vari documenti obbligatori.
Il titolo IV del Testo unico detta le misure per la salute e sicurezza nei cantieri temporanei o mobili alle quali non sono tenute le attività contenute nell'articolo 88.
Il decreto legislativo 106/2009, al comma 2 dell'articolo 88 ha introdotto la lettera g-bis), che ha previsto, nelle esclusioni, i lavori relativi a impianti elettrici, reti informatiche, gas, acqua, condizionamento e riscaldamento che non comportino lavori edili o di ingegneria civile di cui all'allegato X.
Il decreto legge a tali attività ha aggiunto i «piccoli lavori la cui durata presunta non è superiore ai dieci uomini giorno, finalizzati alla realizzazione o manutenzione delle infrastrutture per servizi». I limiti sono dunque due: il primo riguarda la condizione che tali attività non comportino lavori edili o di ingegneria civile e che la durata non sia superiore i dieci uomini-giorno, intendendo per tali la somma delle giornate di lavoro necessarie a effettuare i lavori considerati con riferimento all'arco temporale di un anno dall'inizio dei lavori.
L'intervento del legislatore riguarda la semplificazione del piano operativo di sicurezza (Pos), del piano di sicurezza e di coordinamento (Psc) e del fascicolo dell'opera.
Si tratta di documenti che impegnano i committenti dei lavori edili (rientranti nel campo di applicazione di cui al Titolo IV) e l'impresa esecutrice di tali lavori.
Più in dettaglio il Pos è il documento che il datore di lavoro dell'impresa esecutrice – in base agli articoli 89, comma 1, lettera h) e 96, comma 1, lettera g) del Testo unico– deve redigere in riferimento al singolo cantiere; i contenuti sono riportati nell'allegato XV.
Il Psc –in base all'articolo 91, comma 1, lettera a)– è redatto dal coordinatore per la progettazione, i cui contenuti sono specificati nell'allegato XV al Testo unico. Esso è costituito –articolo 100, comma 1– da una relazione tecnica e prescrizioni correlate alla complessità dell'opera da realizzare ed eventuali fasi critiche del processo di costruzione, atte a prevenire o ridurre i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori. Il Psc è obbligatorio nei cantieri in cui sia prevista la presenza, anche non contemporanea, di più imprese esecutrici.
Il fascicolo dell'opera è previsto dall'articolo 91, comma 1, lettera b) ed è redatto dal coordinatore per la progettazione. Il fascicolo è adattato alle caratteristiche dell'opera, i cui contenuti sono definiti dall'allegato XVI, contenente le informazioni utili ai fini della prevenzione e della protezione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, tenendo conto delle specifiche norme di buona tecnica e dell'allegato II al documento UE del 26.05.1993.
Esso, tuttavia, non viene predisposto nel caso di lavori di manutenzione ordinaria di cui all'articolo 3, comma 1, lettera a), del Dpr 380/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia).
In merito a tali documenti il decreto legge, introducendo l'articolo 104-bis al Tu sulla sicurezza, stabilisce che con decreto del ministro del Lavoro, di concerto con quello delle Infrastrutture, sentita la Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e la conferenza permanente Stato-Regioni e province autonome di Trento e Bolzano, saranno individuati modelli semplificati.
L'articolo 32, comma 2, del decreto legge, stabilisce altresì che il decreto ministeriale sarà emanato entro 60 giorni dalla data della sua entrata in vigore.
L'utilizzo dei modelli semplificati non ha rilevanza sugli altri obblighi, comunque correlati alla documentazione obbligatoria (articolo Il Sole 24 Ore del 21.06.2013).

EDILIZIA PRIVATACONSIGLIO DEI MINISTRI/ Completato il secondo tassello del pacchetto crescita. Semplificazioni a costo zero. Meno oneri per cittadini, imprese, fisco, edilizia.
Una manovra a costo zero, con quattro deleghe legislative e tante norme destinate nelle intenzioni del governo a semplificare la vita a cittadini e imprese.

Con l'approvazione del ddl semplificazioni il consiglio dei ministri di ieri ha completato il secondo tassello del pacchetto crescita. Il primo è rappresentato dal decreto legge, cosiddetto «del fare», approvato sabato scorso e non ancora pubblicato in Gazzetta in modo da potervi inserire alcune modifiche dell'ultim'ora (su tutti la proroga della Tobin Tax).
Il testo del dl è stato definitivamente licenziato ieri assieme al ddl che istituisce il tutor d'impresa per gestire l'avvio e la conclusione dei procedimenti amministrativi (si veda ItaliaOggi di ieri), cancella l'obbligo di dichiarazione all'ufficio del registro se l'eredità al coniuge o ai parenti diretti non supera i 75 mila euro e contiene una delega al governo per intervenire con un nuovo «taglia-leggi».
Secondo il ministro della Funzione pubblica Gianpiero D'Alia, «si tratta di norme funzionali alla riduzione degli oneri amministrativi e informativi a carico di cittadini e imprese e utili per il rilancio dell'economia e l'ammodernamento del sistema paese». E a questo proposito palazzo Chigi ha sottolineato come le misure fino ad oggi adottate, comprese quelle contenute nel «Semplifica Italia», abbiano consentito di realizzare un risparmio stimato, a regime, di circa 9 miliardi di euro.
Semplificazioni per i cittadini. Si prevede il rilascio, a richiesta dell'interessato, dei titoli di studio in lingua inglese, in modo che possano essere utilizzati all'estero senza necessità di costose traduzioni asseverate.
Vengono inoltre riuniti gli adempimenti relativi al cambio di residenza e al pagamento della Tares. E ancora, si semplificano le comunicazioni al Pubblico registro automobilistico (Pra). I cittadini non dovranno più comunicare al Pra le perdite di possesso per furto ed i cambi di residenza, che verranno acquisiti d'ufficio.
Si porrà fine, inoltre, alle intestazioni fittizie dei veicoli, perché sarà necessario produrre l'atto sottoscritto non solo dal venditore ma anche dall'acquirente per procedere al passaggio di proprietà. Ogni variazione riguardante la proprietà del veicolo verrà immediatamente e gratuitamente comunicata dal Pra all'interessato con e-mail o sms.
Semplificazioni per le imprese. Il ddl introduce la figura di un tutor per le imprese che le segue passo passo nella loro attività, dall'inizio alla conclusione dei procedimenti. Il tutor informerà gli imprenditori sulle normative applicabili e su tutti gli adempimenti necessari per l'esercizio dell'attività produttiva.
In materia di beni culturali si facilita il fund raising sul territorio, anche di modico valore, da destinare a interventi di tutela dei beni culturali o paesaggistici, analogamente a quanto avviene in altri Paesi europei.
Edilizia. Si semplifica la realizzazione di varianti ai permessi di costruire che non costituiscono variazioni essenziali, assoggettandole alla Scia. Ciò può avvenire a condizione della conformità alle prescrizioni urbanistico-edilizie e dell'avvenuta acquisizione degli atti di assenso in materia ambientale e paesaggistica, nonché di quelli previsti dalle altre norme di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e in particolare delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie e di quelle relative all'efficienza energetica.
Appalti. Si modifica il codice dei contratti pubblici, semplificando le procedure per agevolare la partecipazione alle gare da parte delle piccole e medie imprese. In particolare, si prevede che le stazioni appaltanti devono motivare le ragioni della mancata suddivisione dell'appalto in lotti; l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici vigilerà sul rispetto di tale adempimento. Al fine di promuovere lo sviluppo del partenariato pubblico privato, si riconosce alle amministrazioni aggiudicatrici la possibilità di far ricorso a centrali di committenza, anche per l'affidamento dei contratti di concessione di lavori.
Semplificazioni fiscali. Quando il valore dell'eredità non supera i 75.000 euro i beneficiari sono esonerati dalla dichiarazione se si tratta di coniuge o parenti in linea retta e se l'eredità non comprende immobili o diritti reali immobiliari. Attualmente la soglia per l'esonero è fissata in 50 milioni di lire.
Si stabilisce inoltre che gli interessi sui rimborsi dei crediti di imposta siano erogati contestualmente al rimborso stesso senza che il contribuente debba presentare apposita istanza. In materia di spese di rappresentanza viene portato a 50 euro (da 25,82 euro) il valore unitario degli omaggi per cui è ammessa la detrazione Iva. In questo modo il valore per la detrazione Iva viene uniformato a quello della deducibilità ai fini delle Imposte sui redditi.
E ancora, si prevede l'eliminazione della preventiva autorizzazione per poter dedurre quote di ammortamento finanziario in caso di concessioni relative alla costruzione e all'esercizio di opere pubbliche. In materia di società tra professionisti, viene chiarito che ad esse si applica, anche ai fini Irap, il regime Fiscale delle associazioni senza personalità giuridica costituite tra persone fisiche (articolo Italia Oggi del 20.06.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAVarianti private a lavori in corso. Possibile modificare il permesso di costruire. Più veloce avviare le bonifiche sottoposte a Via.
PROCEDURA SEMPLIFICATA/ Se non interverrà il rigetto motivato dell'istanza entro 90 giorni potranno essere avviati i lavori per la messa in sicurezza dei suoli.

Sarà più facile apportare piccole varianti ai cantieri privati. E i piccoli comuni potranno appoggiarsi a strutture più solide (centrali di committenza) per studiare e gestire operazioni di project financing utili a realizzare opere pubbliche con capitali privati. Per le operazioni di bonifica o di messa in sicurezza dei suoli viene invece introdotta una procedura semplificata che consente l'avvio dei lavori entro 90 giorni dalla presentazione della domanda di Via o di Vas al ministero dell'Ambiente, qualora non sia intervenuto il rigetto motivato dell'istanza.
Sono tre novità contenute nel Ddl semplificazioni approvato dal Governo, con l'obiettivo di snellire le procedure nel campo degli interventi edilizi pubblici e privati. Misure pensate per fare da “spalla” agli interventi varati con il decreto approvato venerdì scorso.
La possibilità di apportare varianti in corso d'opera ai permessi di costruire avverrà attraverso una più semplice segnalazione certificata di inizio attività (la cosiddetta Scia). Una via possibile a patto che si tratti di varianti «non essenziali» al progetto e conformi alle prescrizioni urbanistiche e alle norme. Prevista anche una stretta sulla possibilità di raddoppiare i termini di 60 giorni per l'istruttoria sui permessi di costruire. Prima la possibilità era ammessa nelle città sopra i 100mila abitanti oppure per progetti particolarmente complessi. Ora la doppia opzione sparisce: si potrà fare solo per progetti particolarmente complessi nelle grandi città.
Le centrali di committenza mirano invece a dare un impulso alle partnership tra Pa e privati per la realizzazione di piccole opere pubbliche. Viene estesa la possibilità di ricorrervi per concessioni e project financing, oltre che per gli appalti di tipo tradizionale. L'obiettivo è chiaro: agevolare le piccole amministrazioni a corto di professionalità, ma comunque intenzionate a coinvolgere i privati nel finanziamento dei cantieri. Riguarda le operazioni di project financing anche un altra novità inserita all'ultimo momento nel Ddl. In caso di risoluzione del contratto con il concessionario gli «enti finanziatori» potranno evitare di mandare a monte il contratto trovando una società capace di subentrare nel rapporto in un termine non inferiore a 120 giorni.
Non hanno invece trovato posto nel Ddl le norme che puntavano a far saltare il tetto del 20% alle riserve, inserito nel codice degli appalti con il primo decreto sviluppo (Dl 70/2011) per limitare le richieste risarcitorie avanzate dai costruttori a valle dell'aggiudicazione. Un fenomeno che spesso porta alla lievitazione del costo delle opere rispetto a quanto preventivato con l'assegnazione dell'incarico in gara.
A quanto risulta, nel corso del Consiglio sarebbe stato espunto dal testo del provvedimento anche l'obbligo di suddividere gli appalti in lotti per favorire la partecipazione delle Pmi al mercato degli appalti, che pure era presente nel testo entrato a Palazzo Chigi (articolo Italia Oggi del 20.06.2013).

APPALTI«Solidarietà» per le ritenute. Le imprese dovranno ottenere un'autocertificazione sulla regolarità dei versamenti.
LE CONTROMISURE/ La norma viene neutralizzata anche con l'acquisizione della documentazione o con l'asseverazione di un professionista.

La responsabilità solidale fiscale negli appalti privati resta per le ritenute di lavoro dipendente che il subappaltatore e l'appaltatore debbono versare all'erario in ragione delle prestazioni realizzate.
Questa situazione, che dovrà essere confermata dal testo definitivo del decreto approvato dal Consiglio dei ministri del 15 giugno, fa risorgere, almeno in parte le preoccupazioni che sul tema le imprese avevano manifestato nei mesi scorsi. In parte perché le modifiche appena apportate sollevano appaltatori e committenti dagli obblighi con riferimento all'Iva.
Certamente, però, anche con questa limitazione gli appaltatori e i committenti per evitare rispettivamente l'applicazione di una responsabilità solidale (subappaltatore-appaltatore) o di una "responsabilità sanzionatoria" (committente-appaltatore) devono acquisire la documentazione ovvero devono ottenere un'asseverazione da parte di professionisti abilitati ovvero (come ha interpretato l'agenzia delle Entrate con la circolare 40/E/2012) devono ottenere dal fornitore un'apposita autocertificazione che attesti che il prestatore del servizio abbia regolarmente effettuato le ritenute di lavoro dipendente.
È auspicabile che l'adempimento che non è certamente di facile realizzazione e, come più volte sottolineato, di poca utilità venga soppresso e possibilmente sostituito con un'attività di controllo preventivo delle autorità pubbliche.
A dire il vero questa forma di responsabilità solidale era già prevista dalla versione originaria del decreto legge 223/2006, anche se, all'epoca la norma era naufragata per effettiva impraticabilità.
Anche nel 2006, infatti, la responsabilità solidale veniva meno con l'acquisizione da parte dell'appaltatore, prima del pagamento del corrispettivo, della documentazione che comprovava il corretto adempimento da parte del subappaltatore. Per l'individuazione dell'idonea documentazione la norma rinviava a un decreto ministeriale, decreto che è stato emanato nel 2008 (Dm 74 del 25.02.2008). Successivamente le norme che definivano l'attuazione dell'adempimento e lo stesso decreto sono stati abrogati dall'articolo 3, comma 8, del Dl 97/2008.
A proposito del decreto 74/2008 è interessante notare che il legislatore dell'epoca aveva previsto un F24 specifico per ogni appalto. Pertanto l'appaltatore avrebbe dovuto ricevere dal subappaltatore un F24 per ogni appalto che aveva in piedi con lui e, di fatto, in questo modo poteva (anche in quel caso solo in modo forfettario) verificare se il versamento delle ritenute era coerente con il numero di lavoratori impiegati nel relativo appalto. L'F24, inoltre, era comunque accompagnato da un'autocertificazione del subappaltatore.
La situazione attuale è più complicata, in quanto la norma non prevede alcuna forma di versamento dedicato. Pertanto, nell'attuale quadro normativo sia l'appaltatore che il committente devono acquisire una documentazione ovvero un'autocertificazione dal rispettivo fornitore con riferimento all'appalto.
È chiaro che la soluzione che si può scegliere è quella di acquisire l'autocertificazione (ammessa dall'agenzia delle Entrate). Nell'autocertificazione comunque dovrà comparire, come ribadito da ultimo da Assonime nella circolare 18 del 12.06.2013, l'indicazione del periodo nel quale le ritenute sui redditi di lavoro sono state versate, mediante scomputo totale o parziale; l'indicazione degli estremi del modello F24 con il quale le ritenute, non scomputate, sono state versate.
È importante, inoltre, prevedere specifiche clausole contrattuali per evitare che il fornitore subappalti senza autorizzazione il lavoro. Infine è necessario, acquisire informazioni sul fornitore per evitare di essere coinvolto in comportamenti fraudolenti.
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L'impatto. Il confronto con la previdenza. Regole più severe sul fronte fiscale.
LA PENALIZZAZIONE/ Per l'erario non vale il limite temporale dei due anni dalla cessazione dei lavori.

Responsabilità "solidale" double face. L'intervento operato dal legislatore, teso a eliminare il riferimento agli obblighi Iva non modifica contenuti e procedure della responsabilità fiscale per omissioni altrui e lascia invariata l'asimmetria che sussiste tra questa disciplina e quella prevista dall'articolo 29, comma 2 del decreto legislativo 276/2003.
Quest'ultima prevede un vincolo di solidarietà, in caso di appalto di opere o servizi, tra committente, appaltatore e ciascuno degli eventuali subappaltatori in relazione ai trattamenti retributivi (comprese le quote di Tfr), ai contribuiti previdenziali e ai premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto. Nonostante le norme abbiano efficacia nei confronti delle medesime tipologie contrattuali, ed abbiano entrambe lo scopo di assicurare all'Erario la possibilità di recuperare gli omessi versamenti "risalendo" la catena dell'appalto, il funzionamento delle due disposizioni è significativamente differente (si veda la tabella a lato). A cominciare dai soggetti interessati: fiscalmente, si parla di responsabilità solidale unicamente in capo all'appaltatore (il committente può essere "solo" fatto oggetto di sanzioni, per quanto "salate"), mentre il Dlgs n. 276/2003 prevede che la solidarietà si estenda a tutti gli anelli della catena.
Ci sono alcuni aspetti in cui la norma tributaria è meno "severa" (previsione della attestazione di regolarità come "scudo" contro la solidarietà, limitazione all'importo del corrispettivo contrattuale) rispetto a quella retributiva e contributiva (dove l'attestazione non è prevista e non sono previsti limiti quantitativi).
A ben vedere, tuttavia, sotto molti altri aspetti è la norma tributaria a risultare più penalizzante, poiché non prevede né il beneficio della preventiva escussione del soggetto "infedele", né il limite temporale di due anni dalla cessazione dei lavori, né l'esonero del soggetto "solidale" dalle sanzioni di cui è chiamato a rispondere colui che ha omesso i versamenti. Dal lato dei soggetti tutelati, i verificatori che vigilano sull'applicazione del Dlgs n. 276/2003 hanno in questi anni mostrato di interpretare il termine "lavoratori" in una accezione molto ampia (ad esempio collaboratori, associati, soggetti "in nero"), secondo una lettura che la norma fiscale -letteralmente più puntuale- non sembra poter offrire.
Anche nell'esclusione delle forme contrattuali assimilabili all'appalto l'agenzia delle Entrate ha mostrato di voler tracciare confini molto distinti, spesso disapplicati in campo previdenziale. Sarebbe opportuno, a questo punto, creare una disciplina omogenea (articolo Il Sole 24 Ore del 20.06.2013).

APPALTICertificazione a durata doppia. Ampliata da tre mesi a 180 giorni la validità del Durc nei contratti pubblici.
L'OPPORTUNITÀ/ Il consulente del lavoro potrà ricevere l'invito a regolarizzare entro 15 giorni la posizione dell'azienda.
Viene ampliata da tre mesi a 180 giorni la durata della validità del Durc emesso nell'ambito dei contratti pubblici.

È sicuramente questa la principale novità introdotta dall'articolo 31 del decreto del Fare, norma inserita all'interno del pacchetto delle semplificazioni amministrative e specificatamente dedicata al documento unico di regolarità contributiva rilasciato per i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture.
L'altra importante modifica, da leggere sempre nell'ottica dello snellimento della procedura amministrativa consiste nella possibilità di utilizzare il medesimo Durc in corso di validità anche per più di una delle fasi in cui la medesima procedura si sviluppa.
In particolare il comma 5 dell'articolo 31 consente di utilizzare il documento acquisito nella prima fase, e cioè per la verifica della dichiarazione sostitutiva, anche nelle ulteriori due e cioè per l'aggiudicazione e per la stipula del contratto. Nelle fasi successive invece il documento dovrà essere acquisito ogni 180 giorni, mentre uno nuovo sarà sempre necessario per consentire il saldo finale.
Innovativa è altresì l'indicazione del consulente del lavoro come uno dei soggetti deputati a ricevere a mezzo posta elettronica certificata l'eventuale invito da parte degli Enti preposti al rilascio del documento (Inps, Inail, Casse Edili) di regolarizzare la posizione dell'azienda irregolare entro i successivi 15 giorni.
Nel riscrivere parzialmente il testo dell'articolo 6 del Dpr n. 207//2010, regolamento attuativo del codice dei contratti dei lavori pubblici, la nuova norma del decreto del fare individua come soggetti tenuti ad acquisire direttamente e per via telematica il documenti tutti quelli contemplati dalla lettera b) del comma 1 dell'art. 3 del medesimo decreto di attuazione, cioè tutti quelli tenuti all'applicazione del codice degli appalti dei lavori pubblici.
Oltre alle novità "vere", il provvedimento ripropone alcune regole già introdotte da norme precedenti, in parte correggendo ed integrandone i testi ed in parte estendendone il campo di applicazione. La tecnica legislativa non è delle migliori, in quanto manca ogni coordinamento tra norme vecchie e norme nuove.
Il comma 4 dell'articolo 31 del Dl ripropone infatti sostanzialmente le stesse disposizioni contenute nel comma 3 dell'articolo 6 del Dpr 207/2010 e cioè l'acquisizione d'ufficio del Durc in corso di validità, attraverso strumenti informatici nelle 5 fasi della procedura (verifica della dichiarazione sostituiva, aggiudicazione del contratto, stipula del contratto, pagamento degli stati di avanzamento lavori e certificato di collaudo e/o regolare esecuzione e pagamento del saldo).
La novità principale è che mentre nel testo del 2010 l'acquisizione d'ufficio era obbligatoria solo per le «amministrazioni aggiudicatrici», ora l'obbligo riguarda tutti i soggetti di cui all'articolo 3, comma 1, lettera b) dello stesso Dpr 207/2010 (oltre alle amministrazioni aggiudicatrici, gli organismi di diritto pubblico, gli enti aggiudicatori, gli altri soggetti aggiudicatoti, i soggetti aggiudicatori e le stazioni appaltanti) .
Anche se dal testo del decreto legge non si evince, il comma 3 dell'articolo 6 del Dpr 207/2010 deve considerarsi a questo punto abrogato, perché non più compatibile con le nuove disposizioni. Ai fini di una migliore comprensione sarebbe stato meglio però sostituirlo direttamente con i commi 4 e 5 del decreto legge Fare.
Analoghe considerazioni si possono fare per la previsione dell'intervento sostitutivo in caso di inadempienza contributiva dell'esecutore e del subappaltatore. Il comma 2 dell'articolo 4 del Dpr 207/2010 aveva già previsto che «in caso di ottenimento da parte del responsabile del procedimento del documento unico di regolarità contributiva che segnali un'inadempienza contributiva relativa a uno o più soggetti impiegati nell'esecuzione del contratto, il medesimo trattiene dal certificato di pagamento l'importo corrispondente all'inadempienza. Il pagamento di quanto dovuto per le inadempienze accertate mediante il documento unico di regolarità contributiva è disposto dai soggetti di cui all'articolo 3, comma 1, lettera b), direttamente agli enti previdenziali e assicurativi, compresa, nei lavori, la cassa edile».
Il comma 3 del Dl del Fare contiene disposizioni identiche salvo richiamare anche in questo caso i soggetti di cui all'articolo 3, comma 1, lettera b), del DPR 207/2010 come quelli che hanno ottenuto il Durc risultato irregolare (articolo Il Sole 24 Ore del 20.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA: SEMPLIFICAZIONI/ Le comunicazioni Tares saranno contestuali al cambio di residenza.
Imprese, un tutor in comune. Il responsabile dello sportello unico aiuterà gli imprenditori.
Un angelo custode che prenderà per mano le imprese aiutandole a districarsi nel groviglio della burocrazia.

Il «tutor d'impresa» è la nuova figura a cui il ddl semplificazioni (che assieme al decreto legge con le disposizioni sulla crescita completa il pacchetto sviluppo del governo Letta) affida il compito di far definitivamente decollare gli sportelli unici per le attività produttive istituiti dai comuni.
Sarà infatti il responsabile del Suap a dover assumersi il compito di assistere gli imprenditori dall'avvio alla conclusione dei procedimenti, informandole sulla normativa e sugli adempimenti richiesti.
Qualora il comune non istituisca la figura del tutor d'impresa, gli imprenditori potranno rivolgersi alla regione affinché, in collaborazione con gli altri sportelli unici presenti sul territorio, provveda a fornire assistenza e informazione. Le best practice in materia serviranno come modello per gli altri e per questo dovranno essere pubblicate (a cura dei ministeri della funzione pubblica e dello sviluppo economico in collaborazione con regioni, Anci, Unioncamere e associazioni di imprese) sul portale www.impresainungiorno.it
Tassa rifiuti senza scorciatoie. Per i comuni sarà più agevole individuare i soggetti passivi Tares, ma anche coloro che, essendosi trasferiti, non sono più tenuti al pagamento del tributo. Il ddl semplificazione impone infatti ai municipi di acquisire all'atto del cambio di residenza «le dichiarazioni di iscrizione, variazione o cessazione relative al tributo con riferimento alle unità abitative coinvolte dalla variazione anagrafica».
Reati ambientali. Il ddl contiene anche la delega al governo per riformare l'attuale codice dell'ambiente (dlgs n. 152/2006). Tra i nuovi criteri che orienteranno l'attività del legislatore c'è la ricognizione e il riassetto dei reati ambientali. L'obiettivo è depenalizzare gli illeciti contravvenzionali puniti con la sola pena pecuniaria (o con multa alternativa all'arresto fino a un anno) trasformandoli in illeciti amministrativi che però dovranno essere puniti con sanzioni «adeguate, proporzionate, efficaci ed effettive». Il giro di vite prevede l'aumento fino al triplo delle ammende, mentre gli attuali illeciti ambientali contravvenzionali, puniti con l'arresto pari o superiore a due anni, dovranno essere trasformati in delitti.
Trasmissione dati dei comuni. Anche il riordino degli oneri informativi a carico dei comuni sarà oggetto di delega. La tempistica sarà molto stretta (120 giorni dall'entrata in vigore del ddl) e l'iniziativa dovrà essere presa dagli Affari regionali e da palazzo Vidoni. Dovranno essere eliminati gli obblighi di comunicazione di dati che sono accessibili direttamente sui siti web dei comuni.
Richieste al Pra tramite Pec. Le istanze inoltrate dalle p.a. al Pubblico registro automobilistico (Pra) dovranno essere inviate tramite posta elettronica certificata o tramite apposita procedura telematica predisposta dall'Aci. Dal 01.07.2014 le richieste di aggiornamento degli archivi del Pra dovranno essere trasmesse solo con modalità telematica.
Certificati medici di gravidanza, ci pensa il medico. Il certificato medico di gravidanza attestante la data presunta del parto e valido ai fini della richiesta di maternità obbligatoria dovrà essere trasmesso all'Inps direttamente dal medico del Servizio sanitario nazionale tramite il canale telematico di trasmissione dei certificati medici. Analogamente sarà l'ospedale a dover comunicare all'Inps il certificato di parto (si veda ItaliaOggi del 15/6/2013).
La norma torna all'interno del «decreto Fare» dopo essere stata momentaneamente trasferita nel ddl semplificazioni. Il decreto legge, approvato sabato dal cdm in una formulazione aperta e ancora suscettibile di modifiche (tra i correttivi dell'ultim'ora si segnala la proroga della Tobin Tax) sarà definitivamente licenziato oggi da palazzo Chigi assieme al ddl (articolo Italia Oggi del 19.06.2013).

VARIAll'usufruttuario spettano le spese di manutenzione.
«Qualora un appartamento sito in condominio sia oggetto di usufrutto, l'usufruttuario è tenuto al pagamento delle spese di amministrazione e di manutenzione ordinaria del condominio, mentre il nudo proprietario non vi è tenuto, neppure in via sussidiaria o solidale. Peraltro, ove il nudo proprietario agisca nei confronti dell'usufruttuario per il rimborso di spese attinenti ai servizi comuni da lui sostenute, nel relativo giudizio è consentito all'usufruttuario contestare il debito sul rilievo del mancato godimento di tali servizi».

È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza (inedita) n. 2236/2012 (articolo Italia Oggi del 19.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICACon il ddl suolo l'uso agricolo è blindato.
Divieto di utilizzo per uno scopo diverso da quello agricolo, per almeno cinque anni dall'ultima erogazione, dei terreni agricoli che hanno usufruito di aiuti di Stato o di aiuti comunitari. Incentivato il recupero del patrimonio edilizio rurale per favorire l'attività di manutenzione, ristrutturazione e restauro degli edifici esistenti, anziché l'attività di edificazione e costruzione di nuove linee urbane, attraverso priorità nella concessione di finanziamenti statali e regionali previsti in materia edilizia.
Istituito un registro presso il Ministero delle politiche agricole in cui i comuni «virtuosi» interessati, i cui strumenti urbanistici non prevedono l'aumento di aree edificabili o un aumento inferiore al limite fissato, possono chiedere di essere inseriti. I proventi dei titoli abilitativi edilizi saranno destinati esclusivamente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, a interventi di qualificazione dell'ambiente e del paesaggio, anche ai fini della messa in sicurezza delle aree esposte a rischio idrogeologico.

Queste alcune delle misure contenute nel disegno di legge in materia di contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato, approvato sabato scorso dal consiglio dei ministri (si veda ItaliaOggi del 12 giugno scorso).
«Abbiamo previsto un meccanismo per fissare l'estensione massima di superficie consumabile, attraverso il forte coinvolgimento anche delle regioni e degli enti locali, in una battaglia che è di tutti per un bene fondamentale come la terra», commenta il ministro delle politiche agricole, Nunzia De Girolamo.
Il ddl prevede che tale coinvolgimento degli enti porti a fissare l'estensione massima di terreni agricoli consumabili, con verifica ogni dieci anni dello stato dell'arte (articolo Italia Oggi del 19.06.2013).

ENTI LOCALISpending review. Proroga di sei mesi dei termini per la chiusura o l'affidamento esterno dei servizi.
Società in house, slittano i tagli.
PIÙ TEMPO AI COMUNI/ Per selezionare le aziende multiservizi ora serve un tavolo ministeriale: in ballo 3.400 aziende con 250mila dipendenti.

Arriva una proroga di sei mesi dei termini previsti dalla spending review per lo scioglimento delle società controllate dalle pubbliche amministrazioni o l'esternalizzazione dei servizi da esse prestate. Gli enti titolari di queste società multiservizi (le quali devono aver fatturato fino al 90% delle loro prestazioni per l'ente controllante) erano tenuti ad alienare le relative partecipazioni entro il 30.06.2013. E contestualmente avrebbero dovuto ri-assegnare il servizio prestato per cinque anni a decorrere dal 01.01.2014. I due termini vengono ora allineati e spostati in avanti di sei mesi dall'articolo 49 del decreto legge "del fare". In ballo, secondo dati di Unioncamere, ci sono circa 3.400 società e almeno 240mila dipendenti.
Con i nuovi termini il Governo prende tempo su un fronte rimasto finora trascurato nell'ambito delle vaste razionalizzazioni delle attività delle amministrazioni centrali e periferiche previste dal decreto 95 dell'estate scorsa. Entro lo scorso aprile si sarebbe dovuto emanare un Dpr, sentita anche la Conferenza unificata, per definire i criteri con cui procedere all'individuazione degli enti e degli organismi da razionalizzare ma non è stato fatto. Per le società in house si sarebbe poi dovuto procedere alla definizione di una sorta di anagrafe nazionale per selezionare quelle prestatrici di servizi da affidare a gara e quelle invece da chiudere, con la conseguente scelta di affidare all'esterno il servizio prestato nel rispetto della normativa comunitaria e nazionale.
La mancanza di un monitoraggio di questa razionalizzazione non consente, in questa fase, neppure di conoscere se e in quanti casi sono stati rispettati altri vincoli, come per esempio il taglio degli organi amministrativi delle società, che si sarebbero dovuti ridurre a non più di tre rappresentanti (uno dei quali con la carica di amministratore delegato) di cui due dipendenti dell'amministrazione titolare della partecipazione o di poteri di indirizzo e vigilanza, scelti d'intesa tra le amministrazioni medesime, per le società a partecipazione diretta.
La questione delle società controllate e degli enti strumentali s'intreccia con l'acuirsi della crisi contabile di diverse amministrazioni locali, come per esempio il comune di Alessandria, quello di Napoli, o quello di Reggio Calabria, in situazione di pre-dissesto finanziario. In questi casi oltre alla destinazione del servizio prestato dalle società in house si porrebbe anche il problema di come gestire il personale eventualmente dichiarato in esubero. Dopo il rinvio c'è da aspettarsi l'apertura di un tavolo ministeriale anche con il titolare del dicastero per gli Affari regionali (articolo Il Sole 24 Ore del 19.06.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI«L'indennizzo parte dalle aziende». «Dopo 18 mesi di monitoraggio, i rimborsi saranno estesi a tutti i cittadini». «Per i dirigenti ci sarà uno stimolo esterno che indurrà a comportamenti virtuosi».
L'indennizzo monetario per il ritardo nella conclusione di un procedimento amministrativo partirà per i procedimenti relativi alle attività di impresa e avrà una durata e un carattere sperimentale. Solo dopo 18 mesi di monitoraggio, termine che scatta con l'entrata in vigore della legge di conversione del decreto "del fare", i rimborsi verranno estesi a tutti i cittadini.
A svelare gli ultimi dettagli di questo meccanismo di risarcimento, la cui misura è automatica, è il ministro della Pa e della Semplificazione, Gianpiero D'Alia, che oggi porterà in Consiglio dei ministri il disegno di legge che introduce una nuova ondata di semplificazioni per cittadini e imprese.
Ministro perché non siete partiti subito con gli indennizzi per tutti?
Perché si tratta di una misura estremamente delicata e va introdotta con attenzione e un puntuale monitoraggio. Si è discusso molto in Consiglio e abbiamo deciso di partire dalle imprese perché sono questi i soggetti che in questa fase di crisi hanno bisogno del massimo delle certezze sui tempi della Pa. Prima di estendere gli indennizzi ai cittadini, che per esempio potrebbero rivalersi sui ritardi con cui l'Inps eroga una prestazione, vogliamo vedere bene l'impatto della norma.
Una misura destinata a rilanciare la responsabilità dei dirigenti negli uffici pubblici.
Credo molto nel meccanismo di stimolo esterno che induce a comportamenti virtuosi delle amministrazioni. L'imprenditore che non vede rispettata una scadenza può chiedere conto al responsabile della procedura e chiedere un decreto ingiuntivo per l'indennizzo al giudice. I rimborsi saranno di 30 euro al giorno per ogni giorno dopo la scadenza fino a un massimo di 2mila euro.
Non teme una valanga di ricorsi?
Abbiamo introdotto una norma filtro contro i ricorsi inammissibili: in caso di liti temerarie il ricorrente rischia di dover pagare lui una multa da 2 a 4 volte il contributo unificato. . Ma non sono preoccupato di un assalto alla Pa. Penso invece che questo strumento, che entra in vigore subito, saprà far emergere con velocità aspetti e situazioni patologiche, laddove esistono, e a pagare, in termini di valutazioni disciplinari, saranno i dirigenti inefficienti e responsabili dei troppi indennizzi che hanno dovuto pagare.
Un monitoraggio ci sarà anche per il sistema delle date uniche degli obblighi amministrativi?
Anche quella misura sarà analizzata a fondo. Attuiamo anche in Italia una misura prevista dallo Small business act europeo. Si darà certezza alle imprese e ai cittadini sullo scadenzario degli atti amministrativi che diventa obbligatorio per tutti fatte salve alcune situazioni eccezionali che dovranno essere sempre motivate.
Ministro, il decreto contiene misure che dimostrano il successo dell'attività di misurazione degli oneri amministrativi. Dopo queste nuove semplificazioni il Moa andrà avanti?
L'area di intervento del decreto riguarda oneri amministrativi stimati in 7,7 miliardi l'anno per il sistema delle imprese, oneri che possono essere ridotti per circa 450 milioni. Penso ad aree di intervento come l'edilizia, con tagli di oneri per 500 milioni o alle misure in materia di comunicazioni formali per la sicurezza sul lavoro. Questi interventi andranno avanti e l'attività di misurazione degli oneri amministrativi da aggredire e ridurre verrà istituzionalizzata con un tavolo cui parteciperanno stabilmente Regioni e amministrazioni locali. Dico di più: con l'Agenda delle semplificazioni contenuta nel disegno di legge che si discuterà in Consiglio dei ministri si ridarà vita alla legge annuale di semplificazione.
Il disegno di legge contiene quattro deleghe con una prospettiva di una nuova delegificazione.
Ne parlerei con cautela, deve ancora essere approvato.
Dalle bozze in circolazione si intuiscono misure importanti per cittadini e imprese. Perché non le avete messe nel decreto?
Molte misure non hanno un carattere di necessità e urgenza e le deleghe non possono essere messe in un decreto.
Quali sono le novità più importanti per le imprese?
Credo molto nel tutor d'impresa da attivare presso la rete degli sportelli delle Camere di commercio: deve fare da battistrada per la gestione di tante procedure amministrative. Ma ci sono semplificazioni importanti anche in materia ambientale, si velocizzano le procedure per le bonifiche, per esempio, una misura che in tre anni può attivare nuovi investimenti per 4 miliardi di euro.
E per i cittadini?
Credo che la norma che cancella gli oneri di comunicazione per le successioni fino a 75mila euro rappresenti un atto di giustizia sociale, prim'ancora che una semplificazione come le altre. Ma ripeto, il provvedimento è all'esame domani (oggi per chi legge; ndr) e la cautela è d'obbligo (articolo Il Sole 24 Ore del 19.06.2013).

APPALTISolidarietà, abrogazione parziale. Resta la responsabilità per i versamenti che riguardano retribuzioni e contributi.
IL PROBLEMA/ Le società devono prevedere forme di controllo interno sui fornitori per evitare di finire vittime delle frodi altrui.

Il decreto legge approvato sabato scorso dal Consiglio dei ministri ha abrogato la responsabilità solidale Iva nei rapporti tra appaltatore e subappaltatore e la relativa "responsabilità sanzionatoria" prevista tra appaltatore e committente.
Attenzione, però: il decreto non interviene sulla responsabilità solidale contributiva relativa alle ritenute d'imposta di lavoro dipendente. La norma finale lascia, infatti, inalterate le regole in materia di lavoro (si veda sull'argomento l'articolo pubblicato in questa stessa pagina). In particolare, il decreto prevede un intervento chirurgico all'articolo 35 del Dl 223/2006 abrogando solo i riflessi Iva della normativa.
L'abrogazione della responsabilità solidale Iva negli appalti è sicuramente una scelta attesa, sperata e sicuramente giusta.
In effetti, il provvedimento governativo, anticipando una probabile bocciatura comunitaria della norma, ha il merito di aver cancellato un adempimento che aveva creato per le imprese degli oneri del tutto sproporzionati. Inoltre, l'adempimento, nella sua concreta attuazione, era del tutto inefficace rispetto agli scopi per cui era stata approvato, essendosi ridotto a un mero formalismo con l'acquisizione meccanica di un'autocertificazione del fornitore.
La norma, però, seppur del tutto inadeguata, si proponeva di ridurre un fenomeno di frode Iva legato all'emissione da parte dei fornitori di fatture soggettivamente inesistenti. Il fenomeno sta rapidamente coinvolgendo molti cessionari/committenti, in molti casi, del tutto inconsapevoli. Nel corso degli ultimi anni, anche a causa della grave crisi finanziaria, molti operatori sono caduti nella trappola di fornitori scaltri che attraverso la frode Iva erano in grado di vendere beni e servizi a prezzi notevolmente inferiori. La frode si realizza seguendo uno schema ormai ben consolidato: il fantomatico fornitore si interpone tra il reale soggetto che cede il bene e il servizio e vende al nostro acquirente i beni o i servizi riscuotendo da quest'ultimo l'Iva, ma non provvede a riversare l'imposta all'Erario.
Così facendo questi fornitori sono in grado di vendere a prezzi sicuramente vantaggiosi i beni e/o i servizi potendo beneficiare in modo del tutto illegittimo dell'Iva incassata.
In questi mesi questi fenomeni hanno prepotentemente raggiunto gli onori delle cronache, in quanto la giurisprudenza nazionale di merito e di legittimità, nonché la Corte Ue si sono ampiamente occupate di questi casi. Inoltre del tema si è occupata la Commissione Europea nel libro bianco del futuro dell'Iva e, da ultimo, anche il legislatore nazionale che con il Dl 16/2012 ha cercato di limitare (si fa per dire) all'Iva i recuperi che nel frattempo l'agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza avevano fatto nei confronti dei contribuenti.
L'effetto del recupero è, allo stato attuale, identificabile nella indetraibilità dell'Iva relativa alle fatture emesse nei confronti degli acquirenti/committenti dai fornitori frodatori. Il fenomeno che ha riguardato e riguarda imprese di vari settori economici, impone al contribuente l'adozione di un'adeguata contromisura. In particolare, a prescindere dall'adempimento ora abrogato, le imprese devono introdurre una procedura di controllo economico-amministrativo dei propri fornitori.
La procedura che può sicuramente prendere spunto anche dai principi individuati dalla giurisprudenza, deve consentire all'acquirente/committente di verificare, per esempio, l'esistenza di un reale potere di rappresentanza del venditore rispetto all'impresa fornitrice; l'esistenza e l'attività dell'impresa fornitrice (attraverso l'acquisizione della visura camerale); la corrispondenza degli indirizzi della sede amministrativa e legale e della localizzazione dei pagamenti rispetto ai dati camerali
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Contratti nazionali con ruolo decisivo.
LE INTESE COLLETTIVE/ Potranno individuare i metodi e le procedure per la verifica della regolarità complessiva.

La responsabilità solidale negli appalti è confermata per le retribuzioni, i contributi previdenziali e i premi assicurativi anche dopo l'approvazione del decreto legge «del fare». Infatti, il provvedimento approvato sabato del Consiglio dei ministri non abroga l'articolo 29, comma 2, del decreto legislativo 276/2003 che contiene la responsabilità solidale più per i profili lavoristici mentre è stata eliminata la responsabilità in ambito fiscale riferita all'Iva (articolo 35 del Dl 223/2006).
L'articolo 29 invece, prevede che in caso di appalto di opere o servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, per corrispondere ai lavoratori trattamenti retributivi, contributi previdenziali e premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto. La solidarietà, dunque, riguarda sia il committente sia ciascuno degli appaltatori e subappaltatori e sono comprese anche le quote di Tfr maturato durante l'impiego del lavoratore nel contratto di appalto. Sono, invece, escluse da qualsiasi obbligo le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell'inadempimento. Rimane il dubbio sul titolo degli interessi dato che letteralmente la norma esclude solo le sanzioni civili.
Un ruolo decisivo lo hanno i contratti collettivi nazionali sottoscritti da associazioni di datori di lavoro e lavoratori comparativamente più rappresentative del settore: essi possono individuare metodi e procedure di controllo e verifica della regolarità complessiva degli appalti. C'è una procedura specifica per azionare la responsabilità solidale: il committente può (e deve) eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali subappaltatori.
In questo caso il giudice accerta la responsabilità solidale di tutti gli altri obbligati, ma l'azione esecutiva può essere intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo l'infruttuosa escussione del patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali subappaltatori. Il committente che ha eseguito il pagamento può esercitare l'azione di regresso nei confronti del coobbligato secondo le regole generali (articolo Il Sole 24 Ore del 19.06.2013).

ATTI AMMINISTRATIVIDECRETO FARE/ Il dl sarà licenziato domani. Indennizzi da ritardo solo per le imprese.
P.a., due date per le scadenze. Nuovi adempimenti in vigore dal 1° luglio o dal 1° gennaio.
Due sole scadenze per l'efficacia degli adempimenti amministrativi, due sole date da tenere in mente per trasmettere alla p.a. documenti e informazioni. Il 1° luglio e il 1° gennaio saranno le due finestre per far scattare obblighi di «raccolta, elaborazione, trasmissione, conservazione e produzione di informazioni e documenti» nei confronti degli enti pubblici.

Sulla falsariga di quanto accade già in molti paesi europei (Regno Unito, Francia e Olanda) anche in Italia il groviglio burocratico che attanaglia la vita di tutti i giorni e l'economia potrà semplificarsi nei confronti di cittadini e imprese.
Lo prevede il decreto con le misure urgenti del governo Letta in materia di crescita (cosiddetto «decreto Fare») che sarà definitivamente licenziato domani dal consiglio dei ministri (assieme al ddl semplificazioni, si veda altro articolo a pag. 29). La data unica di efficacia degli obblighi rappresenta un pallino del ministro della funzione pubblica, Gianpiero D'Alia, che non a caso nel suo discorso programmatico alle camere l'aveva indicata tra le priorità con l'obiettivo di decongestionare l'agenda burocratica delle piccole e medie imprese.
Il provvedimento impone anche ai responsabili trasparenza dei singoli enti (previsti dal recente dlgs m.33/2013) di pubblicare sul sito istituzionale delle amministrazioni uno scadenzario con le date di efficacia degli adempimenti. Il tutto dovrà essere comunicato al dipartimento della Funzione pubblica affinché palazzo Vidoni riepiloghi le scadenze in un'apposita sezione del sito ministeriale. L'inosservanza delle norme di semplificazione sarà imputata al dirigente e potrà costituire causa di responsabilità per danno all'immagine, oltre a essere valutata ai fini della retribuzione di risultato.
Indennizzo per danno da ritardo. Saranno le imprese i primi soggetti beneficiari dell'obbligo di indennizzo per il ritardo nella conclusione dei procedimenti amministrativi. Scaduto il termine per l'adozione del provvedimento, più l'extra time a disposizione del funzionario che esercita il potere sostitutivo, la p.a. pagherà 50 euro di indennizzo per ogni giorno di ritardo fino a un massimo di 2.000. L'importo nell'ultima versione del decreto è stato dimezzato, rispetto ad alcune bozze circolate in precedenza, in modo da alleggerire il peso potenziale sulle casse dello stato.
L'obbligo di indennizzo per il momento scatterà solo in via sperimentale e si applicherà da subito per i procedimenti avviati da imprenditori e che riguardano l'esercizio dell'attività di impresa. Entro un anno, il governo con dpr fisserà il termine a decorrere dal quale la misura inizierà a essere applicata, anche gradualmente, ai procedimenti che coinvolgono i non imprenditori e dunque tutti i cittadini. «Siamo consapevoli che una norma del genere rischia di diventare molto onerosa per l'amministrazione pubblica», ha commentato D'Alia, «e per questo per il momento parte in via sperimentale per un anno e solo per le imprese».
«Il rimborso è a carico dell'amministrazione che poi si può rivalere sul singolo dipendente», spiega. «Ogni iter è tracciato, siamo in grado di capire perché una pratica si ferma. Non sarà più possibile che pratiche e richieste di autorizzazioni si perdano in qualche cassetto o sotto pile di carta. Chiamiamo in causa la responsabilità dei dipendenti pubblici». In caso di mancato pagamento dell'indennizzo, gli interessati potranno ricorrere al Tar che deciderà non solo sul merito del procedimento, ma anche sull'indennizzo (si veda ItaliaOggi del 15.06.2013).
In caso di accoglimento della domanda, gli atti dovranno essere trasmessi alla procura della Corte dei conti perché avvii il procedimento di responsabilità nei confronti dei dipendenti pubblici. Nelle comunicazioni di avvio del procedimento, il diritto all'indennizzo dovrà essere espressamente menzionato e portato a conoscenza degli utenti assieme a modalità e termini per conseguirlo. Dovrà inoltre essere espressamente indicato il soggetto a cui è attribuito il potere sostitutivo.
Agenda digitale italiana. Il «decreto Fare» rende più snella, rispetto alla governance disegnata dal primo decreto sviluppo del governo Monti (dl n. 5/2012), l'Agenda digitale italiana, sottoposta alla vigilanza unica di palazzo Chigi. Viene istituita una cabina di regia, presieduta dal capo del governo, che dovrà relazionare al parlamento sullo stato dell'arte normativo, sui programmi avviati, sul loro stato di avanzamento, nonché sulle risorse disponibili.
La cabina di regia si avvarrà di un Tavolo permanente, composto da esperti e rappresentanti delle imprese e delle università, presieduto da Francesco Caio, nominato dal governo commissario per l'attuazione dell'Agenda digitale («mister Agenda digitale»). Dovrà sovraintendere a tutta una serie di misure per abbattere il digital divide, tra cui il fascicolo sanitario elettronico e il domicilio digitale. Il decreto legge che ha ricevuto sabato l'ok di palazzo Chigi, prevede infatti che all'atto della richiesta della carta di identità elettronica, il cittadino possa domandare l'attivazione di una casella di posta elettronica certificata che diventerà il suo domicilio digitale.
Il Fascicolo sanitario elettronico, che consentirà a tutti i pazienti di conservare e visualizzare in ogni momento accertamenti diagnostici ed esami, slitta invece al 2014. Le regioni avranno tempo fino alla fine dell'anno prossimo per istituirlo, ma entro il 31.12.2013, dovranno già presentare un piano all'Agenzia per l'Italia digitale. Sarà questa a curare la progettazione e la realizzazione del Fascicolo sulla base delle esigenze dei governatori (articolo ItaliaOggi del 18.06.2013).

ENTI LOCALI - VARIDECRETO FARE/ Viene introdotto l'incontro preliminare per tastare il terreno
Mediazione, rientro a sorpresa. Esecutività dell'accordo solo con firma dell'avvocato.
La mediazione ritorna a essere obbligatoria, con qualche sorpresa.

Il c.d. decreto Fare approvato sabato scorso dal governo non si è limitato a sanare i vizi di delega denunciati dalla famosa sentenza della Corte costituzionale del 24.10.2012, ma ha aggiunto delle significative novità. È stato infatti previsto che per ottenere l'esecutività dell'accordo di conciliazione serva anche la sottoscrizione degli avvocati che assistono le parti e la c.d. mediazione delegata dal giudice da volontaria è diventata obbligatoria.
La mediazione obbligatoria non sarà poi più tale per le cause per danni derivanti dalla circolazione di veicoli e natanti e per i procedimenti di consulenza tecnica preventiva di cui all'art. 696-bis c.p.c. e durerà molto meno (è stato infatti diminuito da quattro a tre mesi il termine massimo oltre il quale si può depositare la domanda giudiziale). È stato quindi introdotto una sorta di incontro preliminare in cui il mediatore è chiamato a verificare con le parti le possibilità di proseguire il tentativo di mediazione e, qualora ciò non avvenga, il costo del procedimento è stato diminuito considerevolmente. Da ultimo, occorre evidenziare come sia stata estesa la qualifica di mediatore a tutti gli avvocati iscritti nel relativo albo professionale, a prescindere o meno dalla frequenza di uno specifico corso abilitante.
Le novità, come visto, sono davvero tante e sembrano seguire due sostanziali fili conduttori. Da una parte, infatti, si è voluto reintrodurre uno strumento sul quale da tempo si è scommesso per stabilire una sorta di filtro all'accesso di nuovo contenzioso nelle aule dei tribunali (unitamente ad altre misure, quali ad esempio l'aumento del contributo unificato) e che, adesso, con il passaggio della c.d. mediazione delegata dal giudice da semplice invito a vera e propria condizione di procedibilità per il prosieguo della causa, potrebbe diventare anche un modo per eliminare parte del contenzioso giudiziario già in essere (parallelamente si è però deciso di lasciare fuori da detto ambito il gran numero di cause derivanti dalla circolazione stradale e nautica, nelle quali la mediazione ha sostanzialmente fallito per l'ostilità delle compagnie di assicurazione).
Dall'altra si è forse voluto ricucire lo strappo con l'avvocatura, che ha sempre denunciato i limiti dell'obbligatorietà della mediazione, ma le nuove disposizioni non sembrano colpire nel segno e forse rischiano di creare nuovi problemi. Non è infatti del tutto chiaro il portato della disposizione che sembra subordinare l'efficacia esecutiva dell'accordo di conciliazione alla sottoscrizione del medesimo «dagli avvocati che assistono tutte le parti». La norma sembra infatti niente altro che uno escamotage per fare in modo che le parti vadano in mediazione accompagnanti dai legali, pur senza l'espressa introduzione dell'obbligo del relativo patrocinio (conferma di ciò si trae dalla lettura della relazione di accompagnamento al c.d. decreto Fare).
Davvero poco utile e discutibile appare poi la norma che parifica di diritto gli avvocati ai mediatori e che sembra sposare il luogo comune per cui i legali sarebbero già di per sé mediatori, senza bisogno alcuno di prendere parte a corsi sulle tecniche di mediazione. D'altra parte non si sentiva certo la necessità di un aumento del numero dei mediatori, visto che quelli a oggi formati sono di molto superiori al numero dei procedimenti di mediazione, tanto che molti di essi hanno fatto davvero fatica a seguire il numero minimo di procedure imposte dalla legge al fine della continuità dell'iscrizione al relativo registro.
Molto positiva, invece, l'introduzione di un incontro preliminare in cui il mediatore è chiamato a verificare con le parti le possibilità di proseguire il tentativo di mediazione, che evita alle stesse di perdere tempo, ove non siano interessate alla procedura, fissando un tetto massimo di spesa (80 euro per le liti fino a mille euro, 120 fino a 10 mila euro, 200 fino a 50 mila euro, 250 per le liti di valore superiore), per non aggravare i costi che le stesse dovranno sostenere per il futuro processo (articolo ItaliaOggi del 18.06.2013).

APPALTIDECRETO FARE/ La durata del documento di regolarità contributiva a 180 giorni.
Durc soft (grazie ai consulenti). Professionisti in prima fila per integrare i documenti.
Durc più semplice, anche grazie ai consulenti del lavoro. Nei contratti pubblici, infatti, il Durc avrà una validità di 180 giorni e sarà acquisito d'ufficio, per via telematica, da parte di stazioni appaltanti e amministrazioni procedenti. Ai consulenti del lavoro, invece, la regia per la sistemazione dei Durc negativi. Infatti, in caso di mancanza dei requisiti per la regolarità contributiva, gli enti (Inps, Inail e casse edili) contatteranno i professionisti tramite Posta elettronica certificata (Pec), al fine di invitare le imprese assistite a regolarizzare nel termine di 15 giorni.

Le novità sono previste nel decreto Fare approvato sabato dal consiglio dei ministri.
Durc d'ufficio. Una prima novità riguarda l'estensione delle ipotesi in cui il Durc andrà richiesto d'ufficio, così sollevando le imprese dal compito di provvedere alla presentazione e ripresentazione del certificato di regolarità contributiva. Si prevede che il Durc sia acquisito d'ufficio ai fini dell'accertamento dei requisiti di ordine generale per l'affidamento di concessioni e appalti pubblici di lavori, forniture e servizi (inclusi subappalti) previsti dall'articolo 38 del dlgs n. 163/2006 (codice degli appalti pubblici).
L'obbligo di acquisire d'ufficio il Durc ricade sulle stazioni appaltanti e su altri enti aggiudicatori, non soltanto in sede di aggiudicazione dell'appalto ma anche ai fini del pagamento delle prestazioni. Nei contratti pubblici, in particolare, l'obbligo di acquisire d'ufficio il Durc in corso di validità, attraverso strumenti informatici, è previsto nei seguenti casi:
a) per la verifica della dichiarazione sostitutiva relativa al requisito di cui all'articolo 38, comma 1, lettera i) del codice degli appalti pubblici (ossia per la verifica dell'assenza di violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali);
b) per l'aggiudicazione definitiva del contratto pubblico;
c) per la stipula del contratto;
d) per il pagamento degli stati avanzamento lavori o delle prestazioni relative a servizi e forniture;
e) per il certificato di collaudo, il certificato di regolare esecuzione, il certificato di verifica di conformità, l'attestazione di regolare esecuzione, e il pagamento del saldo finale.
Validità di sei mesi. Altra novità concerne la validità del documento unico di regolarità contributiva. Quello rilasciato ai fini dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, infatti, avrà validità di 180 giorni dalla data di emissione. Pertanto, le amministrazioni potranno utilizzare il Durc in corso di validità acquisito per la verifica dei requisiti anche per l'aggiudicazione e per la stipula del contratto. Dopo la stipula del contratto, le amministrazioni saranno tenute ad acquisire il Durc ogni 180 giorni per utilizzarlo ai fini del pagamento e per il certificato finale di collaudo, ad eccezione che per il pagamento del saldo finale ipotesi per la quale, invece, sarà in ogni caso necessaria l'acquisizione di un nuovo Durc (cioè sarà necessario chiedere un nuovo Durc anche se quello precedente è ancora valido, perché con data di rilascio non anteriore a 180 giorni).
Consulenti del lavoro in campo. In caso di mancanza dei requisiti per il rilascio del Durc, il Decreto fare obbliga gli enti preposti al rilascio, prima dell'emissione o dell'annullamento del documento già rilasciato, a invitare l'azienda interessata per il tramite del consulente del lavoro o degli altri professionisti che svolgono la stessa professione (avvocati, commercialisti ecc.), a regolarizzare la posizione entro 15 giorni, indicando analiticamente le cause della irregolarità.
Infine, in caso di Durc con inadempienza contributiva relativa a uno o più soggetti impiegati nell'esecuzione del contratto, le amministrazioni dovranno trattenere dal certificato di pagamento l'importo corrispondente all'inadempienza al fine di riversarlo direttamente agli enti previdenziali e assicurativi, compresa la cassa edile (articolo ItaliaOggi del 18.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA: DECRETO FARE/ Molte le novità in materia edilizia, tra cui la proroga dei lavori di due anni.
Cambi la sagoma dell'immobile? È solo ristrutturazione
La ristrutturazione è leggera anche in caso di ricostruzione con sagoma diversa; termine lavori edilizi prorogato di due anni.

Sono queste alcune delle novità in materia edilizia del decreto legge Fare, approvato dal consiglio dei ministri del 15.06.2013, che cambia anche il procedimento in caso di vincoli.
Partiamo proprio dai vincoli per esaminare le possibili innovazioni al testo unico per l'edilizia e al codice dell'ambiente. Altra novità sono l'affidamento al comune del compito di recuperare i pareri necessari per la Scia, agibilità edilizia parziale.
VINCOLI AMBIENTALI - Si propone di passare dal silenzio-rifiuto al silenzio-rigetto, immediatamente impugnabile. Secondo il Testo unico per l'edilizia (dpr 380/2001), nel caso in cui manchi un atto di assenso per vincolo ambientale, paesaggistico e culturale, si viene a formare il silenzio rifiuto. Il decreto legge modifica il procedimento in caso di immobili vincolati nel seguente modo. Se l'assenso dell'autorità preposta al vincolo è favorevole, il comune sarà tenuto a concludere il procedimento di rilascio del permesso di costruire con un provvedimento espresso e motivato. Se, invece, l'atto di assenso viene negato, decorso il termine per il rilascio del permesso di costruire, questo si intenderà respinto. L'atto è immediatamente impugnabile.
PARERI - Allo sportello unico per l'edilizia va il compito di acquisire i pareri anche prima della presentazione della Scia. Il testo unico edilizia non disciplina l'acquisizione, da parte dello Sportello unico per l'edilizia (Sue), degli atti di assenso presupposti all'inizio dei lavori nel caso in cui l'intervento edilizio sia soggetto alla presentazione della comunicazione di inizio lavori di attività edilizia libera o della Scia edilizia. Il decreto estenderebbe la disciplina prevista oggi solo per il permesso di costruire. Il provvedimento, infatti, dispone che l'interessato possa, prima di presentare la comunicazione o la Scia, richiedere allo sportello unico l'acquisizione di tutti gli atti di assenso necessari per l'intervento edilizio.
Lo sportello si deve attivare, come nel caso di richiesta di permesso di costruire: se non sono rilasciati gli atti di assenso delle altre amministrazioni pubbliche, o è intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni interpellate, il responsabile dello sportello unico indice la conferenza di servizi per acquisirli. Se poi l'istanza di acquisizione di tutti gli atti di assenso è contestuale alla segnalazione certificata di inizio attività, l'interessato potrà dare inizio ai lavori solo dopo la comunicazione da parte dello sportello unico dell'avvenuta acquisizione degli atti di assenso o dell'esito positivo della conferenza di servizi. Le novità si applicano anche alla comunicazione dell'inizio dei lavori per l'attività edilizia libera, qualora siano necessari atti di assenso per la realizzazione dell'intervento edilizio.
TERMINE LAVORI - Il dl allunga di due anni i termini di inizio e ultimazione dei lavori autorizzati con permesso di costruire, Dia o Scia alla data di entrata in vigore della norma. Il termine iniziale per l'avvio dei lavori autorizzati con permesso di costruire è di un anno dal rilascio del permesso, mentre, per ultimare l'opera, il termine è fissato a tre anni dall'inizio dei lavori. I lavori avviati dopo la presentazione di Dia o Scia edilizia devono essere anch'essi ultimati entro tre anni. Questi termini si allungano di un biennio, previa comunicazione del soggetto interessato.
RICOSTRUZIONE E RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA - Per il testo unico dell'edilizia costituiscono «interventi di ristrutturazione edilizia» anche gli interventi che consistono «nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente». Il decreto elimina il requisito della medesima sagoma e, quindi, sono ristrutturazioni edilizie anche gli interventi di ricostruzione di un edificio con il medesimo volume dell'edificio demolito, ma anche con sagoma diversa dal precedente.
Costituiscono, quindi, ristrutturazione gli interventi edilizi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Conseguenza della modifica è che la modifica della sagoma non è rilevante ai fini della individuazione del permesso di costruire come titolo abilitativo necessario (eliminazione del riferimento contenuto nell'articolo 10, comma 1, lettera c) del Testo unico per l'edilizia).
AGIBILITÀ PARZIALE - Il decreto modifica la disciplina del certificato di agibilità, consentendone la richiesta anche per singoli edifici o singole porzioni di uno stesso stabile. Questo a condizione che le unità siano funzionalmente autonome, e sempre che a siano state realizzate e collaudate le opere di urbanizzazione primaria relative all'intero intervento edilizio e siano state completate le parti comuni relative al singolo edificio o singola porzione della costruzione. L'agibilità parziale potrà essere richiesta anche per singole unità immobiliari, (se complete delle opere strutturali, impianti, parti comuni e opere di urbanizzazione primarie ultimate o dichiarate funzionali rispetto all'edificio oggetto di agibilità parziale).
AMBIENTE - Termini ridotti per l'autorizzazione paesaggistica.
Il decreto dimezza il termine (quarantacinque giorni) sull'istanza di autorizzazione paesaggistica; dispone anche l'eliminazione del silenzio-assenso prevedendo l'adozione del provvedimento finale da parte dell'amministrazione competente (articolo ItaliaOggi del 18.06.2013).

APPALTI: DECRETO FARE/Stop agli adempimenti per committenti e appaltatori a portata ridotta
Solidarietà, un no circoscritto. Abrogazione della responsabilità solo per i versamenti Iva.

Soppressione della solidarietà passiva negli appalti limitata alla sola Iva. Questa, in assenza della versione ufficiale del decreto legge del fare approvato sabato scorso dal governo, la scelta compiuta dall'esecutivo.
Il comunicato diramato a fine seduta afferma, infatti, che per i committenti e gli appaltatori arriva l'abrogazione della responsabilità solidale negli appalti ma «relativamente ai versamenti Iva».
Che vi possano anche rientrare le ritenute, è un busillis che sarà sciolto solo con la pubblicazione del dl in G.U.
Secondo la disciplina indicata, ai sensi dei commi da 28 a 28-ter, dell'art. 35, dl 04/07/2006 n. 223, convertito nella legge n. 248/2006, il committente o l'appaltatore possono procedere nel pagamento di quanto dovuto, per l'esecuzione di lavori concordati, all'appaltatore o al sub-appaltatore, soltanto se questi ultimi hanno puntualmente eseguito i versamenti delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e dell'Iva dovuta sulla prestazione.
Il pagamento è condizionato, infatti, alla preventiva consegna della documentazione attestante l'esecuzione dei versamenti, il cui termine risulta scaduto alla data del pagamento del corrispettivo.
La disciplina è articolata e distorta poiché, a fronte di un debito per Iva, per esempio, pari a 5 mila euro, ma a un corrispettivo maturato dal sub-appaltatore nei confronti dell'appaltatore per 50 mila euro, il pagamento non può avvenire per la differenza di 45 mila euro, subendo la totale sospensione e con il blocco dell'operatività dell'impresa esecutrice, legittimamente creditrice. L'intervento limitato non produrrebbe, però, l'alleggerimento auspicato dagli operatori.
Come indicato in un recente documento dell'Associazione dottori commercialisti ed esperti contabili (Aidc) di Milano (marzo 2013) si deve prendere atto che il tema dell'obbligazione solidale del pagamento dell'imposta dovuta, rientra nella competenza della direttiva Iva (Corte di giustizia, sentenza 11/05/2006, causa C-384/04 punto 24), ma che «essendo diretta emanazione di una facoltà riconosciuta agli stati membri, la disposizione riguardante la solidarietà nel pagamento dell'imposta non soggiace al regime di preventiva autorizzazione disciplinato dall'art. 395 della dir. 2006/112/Ce».
Peraltro, la detta disciplina prevede che il committente (o l'appaltatore, in presenza di sub-appalto), per i contratti stipulati a partire dal 12/08/2012 e per i pagamenti eseguiti dall'11/10/2012, sia assoggettabile a una sanzione da 5 mila a 200 mila euro se ha provveduto al pagamento di quanto dovuto per la prestazione, senza aver verificato il versamento delle ritenute o dell'Iva dell'appaltatore o in mancanza di una attestazione («dichiarazione sostitutiva») da parte dei prestatori o di una asseverazione da parte dei responsabili dei Caf o di professionisti abilitati.
Sul punto, l'Agenzia delle entrate (circolare n. 2/E/2013) aveva già precisato che, in presenza di più contratti stipulati tra le medesime parti, poteva essere rilasciata un'autocertificazione «unitaria» e «periodica», in presenza del pagamento del corrispettivo; in effetti, la detta autocertificazione deve far riferimento ai versamenti scaduti nel momento del versamento del corrispettivo e non deve aver come oggetto fatti successivi alla data del rilascio.
La commissione di studio dell'associazione citata aveva anche rilevato alcune incompatibilità (in eccesso e/o in difetto) della disposizione nazionale rispetto alla norma comunitaria, con particolare riferimento all'insorgere della solidarietà anche in assenza di intenti frodatori, al totale blocco dei pagamenti che creano un serio danno alle imprese, alla sproporzione del regime sanzionatorio e alla vanificazione degli effetti anti-evasione, nonché alla non considerata ma necessaria correlazione tra obbligo di solidarietà e adempimento, «in forza della quale l'appaltatore non può sostituirsi nell'adempimento (?) se non al successivo momento in cui l'infrazione venga contestata dall'amministrazione finanziaria».
Concludendo, in attesa della conferma dei contenuti della bozza del provvedimento in circolazione, con l'abrogazione esplicita del comma 28, dell'art. 35, dl 223/2006 che dispone che «in caso di appalto di opere o di servizi, l'appaltatore risponde in solido con il subappaltatore (?) del versamento all'erario delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e del versamento dell'imposta sul valore aggiunto», l'abrogazione varrà anche per le ritenute (articolo ItaliaOggi del 18.06.2013).

CONDOMINIOIn vigore. Scatta la legge 220/2012: quali disposizioni vanno immediatamente applicate e quali no.
Condominio, debutta la riforma. Da oggi operative le nuove maggioranze e i limiti alle deleghe.
IN COMPAGNIA/ Cade il divieto di tenere animali domestici contenuto nei regolamenti condominiali assemblear
i.
La riforma del condominio debutta oggi e le nuove norme, dopo un periodo di sei mesi di "digestione" da parte del mondo immobiliare, sono ora efficaci. Non tutte le nuove disposizioni avranno però un impatto immediato sulla realtà condominiale.
La legge 220/2012 non ha espressamente disciplinato le conseguenze della sua entrata in vigore con norme transitorie e, pertanto, solo il richiamo ai principi generali dell'ordinamento può indicare quali norme avranno immediata applicazione e quali mostreranno la loro incidenza su un arco di tempo più lungo.
In ogni caso, non tutte le norme sono di facile applicazione: tanto che «Il Sole 24 Ore», in collaborazione con tutte le associazioni della proprietà e degli amministratori condominiali, ha proposto alcune modifiche tecniche che stanno per essere inserite in un disegno di legge presentato dal deputato Salvatore Torrisi (si veda a pagina 18).
Il principio generale cui rifarsi è quello previsto dall'articolo 11 delle Disposizioni sulle preleggi del Codice civile, relativo all'irretroattività: la legge non può disporre che per il futuro, con la conseguenza che la norma si applica solo ai rapporti giuridici nati sotto la sua vigenza. Nella realtà condominiale, tuttavia, non è sempre facile capire quali fattispecie debbano sottostare alle nuove disposizioni sin da oggi e quali invece debbano trovare la loro definizione nelle norme anteriormente vigenti.
Si può dire con ragionevole certezza che saranno immediatamente applicabili quelle norme che non innovano nulla rispetto alla disciplina previgente, in quanto immutate oppure volte a disciplinare specificamente fattispecie che prima avevano definizione generale e che in forza di una costante lettura giurisprudenziale trovavano lettura analoga a quella che oggi la riforma detta espressamente: si pensi alla disciplina delle parti comuni (articolo 1117 del Codice civile, e alla disciplina del sottotetto), all'articolo 1118 del Codice civile (ivi compresa la questione del distacco dall'impianto di riscaldamento), al consenso unanime previsto dall'articolo 1119 per la divisione dei beni comuni, all'obbligo per l'amministratore di esibire e rilasciare copia della documentazione agli aventi diritto, alle cause non tassative e codificate di grave irregolarità che possono dar luogo a revoca dell'amministratore (articolo 1129), all'obbligo di rendiconto annuale (articolo 1130 del Codice civile), l'autonomia dell'amministratore nella richiesta di decreto ingiuntivo (articolo 63 delle Disposizioni di attuazione del Codice civile), alla prededuzione delle spese condominiali in sede fallimentare (articolo 30 della legge 220/2012).
Vi sono poi norme che paiono applicabili alle realtà già esistenti, ma solo per quelle compiute dal 18.06.2013, come quelle relative alle attività sulle parti comuni previste dagli articoli 1117 bis e 1122-ter, anche se l'articolo 155 bis delle Disposizioni di attuazione prevede la possibilità per l'assemblea di intervenire anche sugli impianti già esistenti alla data di entrata in vigore (la lettura di alcuni interpreti –ovvero che tali norme si applicherebbero solo agli edifici costruiti o ai condomìni costituiti dopo tale data– pare eccessivamente restrittiva); rientrano in questa previsione anche le norme relative a revisione e modifica delle tabelle millesimali (articolo 69 delle Disposizioni di attuazione), alla tenuta dei registri relativi alla "anagrafica condominiale" (articolo 1130 del Codice civile), alla convocazione, funzionamento e maggioranze dell'assemblea (compresi i limiti di 200 millesimi per le deleghe nei condomìni con oltre 20 condòmini e il divieto de delegare l'amministratore), nonché all'impugnativa dei relativi deliberati (articoli 1135, 1136, 1137 del Codice civile e 66 e 67 delle Disposizioni di attuazione). Appare infine idonea a incidere sulla legittimità anche dei regolamenti condominiali esistenti la norma di cui all'articolo 1130, quinto comma del Codice civile, che qualifica illegittimo il divieto di detenere animali domestici.
Il principio di irretroattività comporta invece che le norme sulla gestione annuale o comunque su attività che hanno avuto inizio sotto la precedente normativa e non hanno ancora esaurito i loro effetti si applichino solo all'esaurirsi di questi effetti: quindi le norme relative a nomina, revoca, durata e relativi risvolti dell'amministratore (articolo 1129 del Codice civile) troveranno applicazione alle nomine effettuate dopo tale data; le nuove modalità di rendicontazione (articolo 1130 bis) sono applicabili ai bilanci degli esercizi iniziati nella vigenza della nuova norma; così quelle relative alla responsabilità patrimoniale (articolo 63 delle Disposizioni di attuazione e 67 delle Disposizioni di attuazione) si applicheranno alle obbligazioni sorte dopo il 18.06.2013.
In tema processuale, infine, vanno ritenute applicabili anche ai giudizi pendenti le nuove norme di natura processuale (articolo 1137 del Codice civile e 64 e 69 delle Disposizioni di attuazione), fatti salvi gli effetti ormai definitivi (articolo Il Sole 24 Ore del 18.06.2013).

GIURISPRUDENZA

COMPETENZE GESTIONALI - ESPROPRIAZIONE: E' fondata la dedotta incompetenza del dirigente comunale ad adottare un provvedimento di acquisizione sanante.
Invero, l’atto adottato ex art. 43, d.P.R. n. 327 del 2001 di acquisizione al patrimonio indisponibile comunale di beni utilizzati per scopi di interesse pubblico deve essere assunto dal Consiglio comunale, trattandosi dell’acquisto di un diritto immobiliare che richiede l’espressione formale di una specifica autonoma volontà.
L’art. 42, comma 2, lett. l), T.U. enti locali, stabilisce che rientrano nelle competenze consiliari gli “acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della giunta, del segretario o di altri funzionari”. Tra questi rientra sicuramente anche l’acquisto di un bene tramite l’istituto della c.d. acquisizione sanante.
L’atto di acquisizione sanante ex art. 43 d.P.R. n. 327 del 2001, per i profili di discrezionalità che lo caratterizzano, esorbita dall'ambito della competenza dell’ufficio per le espropriazioni e, comunque, degli uffici comunali per rientrare nelle attribuzioni del Consiglio comunale in materia di acquisti ed alienazioni immobiliari, di cui all'art. 42 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267.
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L’istituto della “acquisizione sanante” ex art. 43 T.U. n. 327/2001 è di competenza del Consiglio comunale, stante anche la particolare natura di tale acquisizione di cui l’A.P. di questo Consiglio ha fornito una puntuale illustrazione, chiarendo che non risulta possibile qualificare la scelta di farvi ricorso come meramente esecutiva di atti presupposti o rientrante tra le ordinarie funzioni della giunta, del segretario o di altri funzionari, onde tale scelta deve essere ricondotta all’esclusiva competenza dell’organo elettivo consiliare, ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. l, del T.U.E.L..
La natura discrezionale dell’atto di acquisizione sanante esclude, poi, che lo stesso possa qualificarsi come previsto in atti fondamentali del consiglio o mera esecuzione degli stessi, sicché si deve escludere anche per tal verso la riconduzione dell’atto alla competenza dei dirigenti.

Il ricorso è fondato.
In particolare, è fondata la dedotta incompetenza del dirigente comunale ad adottare un provvedimento di acquisizione sanante.
L’atto adottato ex art. 43, d.P.R. n. 327 del 2001 di acquisizione al patrimonio indisponibile comunale di beni utilizzati per scopi di interesse pubblico deve essere assunto dal Consiglio comunale, trattandosi dell’acquisto di un diritto immobiliare che richiede l’espressione formale di una specifica autonoma volontà.
L’art. 42, comma 2, lett. l), T.U. enti locali, stabilisce che rientrano nelle competenze consiliari gli “acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della giunta, del segretario o di altri funzionari”. Tra questi rientra sicuramente anche l’acquisto di un bene tramite l’istituto della c.d. acquisizione sanante (Cons. St., sez. V, 13.10.2010, n. 7472).
L’atto di acquisizione sanante ex art. 43 d.P.R. n. 327 del 2001, per i profili di discrezionalità che lo caratterizzano, esorbita dall'ambito della competenza dell’ufficio per le espropriazioni e, comunque, degli uffici comunali per rientrare nelle attribuzioni del Consiglio comunale in materia di acquisti ed alienazioni immobiliari, di cui all'art. 42 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (Cons. St., sez. III, 31.08.2010, n. 775).
Non può poi ritenersi, come sostiene la difesa del Comune, che il Dirigente ha semplicemente dato attuazione alla volontà comunale espressa in precedenti atti deliberativi, in particolare nella delibera che iniziava la procedura espropriativa.
A tale proposito, la giurisprudenza ha precisato che “l’istituto della “acquisizione sanante” ex art. 43 T.U. n. 327/2001 è di competenza del Consiglio comunale, stante anche la particolare natura di tale acquisizione di cui l’A.P. di questo Consiglio ha fornito una puntuale illustrazione, chiarendo che non risulta possibile qualificare la scelta di farvi ricorso come meramente esecutiva di atti presupposti o rientrante tra le ordinarie funzioni della giunta, del segretario o di altri funzionari, onde tale scelta deve essere ricondotta all’esclusiva competenza dell’organo elettivo consiliare, ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. l, del T.U.E.L.” (Cons. St., sez. III, 31.08.2010, n. 775).
La natura discrezionale dell’atto di acquisizione sanante esclude, poi, che lo stesso possa qualificarsi come previsto in atti fondamentali del consiglio o mera esecuzione degli stessi, sicché si deve escludere anche per tal verso la riconduzione dell’atto alla competenza dei dirigenti.
Stabilita l’illegittimità dell’atto di acquisizione sanante, è indubbio il comportamento illegittimo dell’amministrazione che, a seguito della scadenza dei termini di occupazione d’urgenza e stante il mancato perfezionamento del procedimento di esproprio, detiene sine titulo il terreno di parte ricorrente sul quale ha proceduto a realizzare l’opera pubblica, così com’è indubbia l’esistenza di un ingiusto pregiudizio in capo al privato che ha perso la disponibilità del terreno.
Dovendosi escludere che la mera trasformazione irreversibile di un suolo con la realizzazione di un'opera pubblica costituisca circostanza idonea a trasferire in capo all’Amministrazione la proprietà delle aree in assenza di un regolare provvedimento di esproprio, e ciò sia nel caso di occupazione del terreno ab origine sine titolo sia nel caso di un'occupazione iniziata in forza di un provvedimento legittimo poi scaduto (cfr. sentenze CEDU nei casi Scordino/Italia, Belvedere Alberghiera c/Italia, Prena c/Italia), il comportamento della Pubblica Amministrazione costituisce un illecito permanente, al quale consegue l’obbligo di far cessare la illegittima compromissione del diritto di proprietà mediante la restituzione del bene alla ricorrente, dato che questa non ha perduto la proprietà del bene ed ha titolo a riaverlo.
Con riferimento all’ulteriore domanda risarcitoria proposta dalla ricorrente, il risarcimento deve operare in relazione all’illegittima occupazione del bene, e deve pertanto coprire le voci di danno per il mancato godimento del bene, dal momento del perfezionamento della fattispecie illecita sino al giorno della sua giuridica regolarizzazione, ossia sino all’effettiva restituzione del bene; ciò salva la possibilità per l’amministrazione di perfezionare valido atto di acquisto del bene (con il consenso dei ricorrenti), ovvero di avvalersi in via postuma dello strumento acquisitivo della proprietà di cui all’art. 42-bis d.p.r. n. 327/2001.
In particolare, il termine iniziale va identificato in quello in cui l’occupazione dell’area è divenuta illegittima, mentre il termine finale va individuato in quello in cui il Comune resistente disporrà la restituzione dell’area, salva la sua legittima acquisizione, per contratto ovvero con lo strumento di cui all’art. 42-bis d.p.r. n. 327/2001.
Con riferimento a tale contesto temporale, il Comune va condannato a corrispondere ai ricorrenti, a titolo risarcitorio, una somma da quantificare sulla base del criterio normativo di cui all’art. 42-bis, co. 3, vale a dire il 5% annuo sul valore dell’area nel periodo considerato.
Trattandosi di debito di valore, la somma dovrà essere rivalutata alla data della presente sentenza e sono inoltre dovuti gli interessi al tasso legale, da calcolarsi sulla base della somma annualmente rivalutata, con applicazione degli indici di rivalutazione dei prezzi al consumo, e ciò sino all’effettivo soddisfo (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 21.06.2013 n. 1500 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Per l’attività di apertura e coltivazione di una cava non è richiesto il preventivo rilascio della concessione edilizia, non essendo subordinata al preventivo controllo dell'autorità comunale; ciò comporta che a queste non è applicabile l’art. 26, secondo comma, del regolamento del codice della strada che prescrive, fuori dei centri abitati, le distanze da rispettare nelle nuove costruzioni.
Il ricorso è fondato.
È da premettere che per giurisprudenza costante per l’attività di apertura e coltivazione di una cava non è richiesto il preventivo rilascio della concessione edilizia, non essendo subordinata al preventivo controllo dell'autorità comunale (Cons. St., sez. VI, 16.09.2008, n. 4342); ciò comporta che a queste non è applicabile l’art. 26, secondo comma, del regolamento del codice della strada che prescrive, fuori dei centri abitati, le distanze da rispettare nelle nuove costruzioni.
L’art. 19 codice della strada (applicabile al caso di specie), nel disciplinare le distanze di sicurezza dalle strade, stabilisce che “La distanza dalle strade da osservare nella costruzione di tiri a segno, di opifici o depositi di materiale esplosivo, gas o liquidi infiammabili, di cave coltivate mediante l'uso di esplosivo, nonché di stabilimenti che interessino comunque la sicurezza o la salute pubblica o la regolarità della circolazione stradale, è stabilita dalle relative disposizioni di legge e, in difetto di esse, dal prefetto, previo parere tecnico degli enti proprietari della strada e dei vigili del fuoco”.
La disciplina è poi rinvenibile nell’art. 104 del d.P.R. 128/1959, per il quale “Senza autorizzazione del prefetto sono vietati gli scavi a cielo aperto per ricerca o estrazione di sostanze minerali a distanze minori di:
a) 10 m.: da strade di uso pubblico non carrozzabili; da luoghi cinti da muro destinati ad uso pubblico;
b) 20 m.: da strade di uso pubblico carrozzabili, autostrade e tramvie; da corsi d'acqua senza opere di difesa; da sostegni o da cavi interrati di elettrodotti, di linee telefoniche o telegrafiche o da sostegni di teleferiche che non siano ad uso esclusivo delle escavazioni predette; da edifici pubblici e da edifici privati non disabitati;
c) 50 m.: da ferrovie; da opere di difesa dei corsi d'acqua, da sorgenti, acquedotti e relativi serbatoi; da oleodotti e gasdotti; da costruzioni dichiarate monumenti nazionali
”.
Infine, l’art. 26, secondo comma, del regolamento del codice della strada stabilisce che “La distanza dal confine stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare nell'aprire canali, fossi o nell'eseguire qualsiasi escavazione lateralmente alle strade, non può essere inferiore alla profondità dei canali, fossi od escavazioni, ed in ogni caso non può essere inferiore a 3 m.”.
In sostanza, la normativa sopra citata, applicabile al caso di specie, non prevede in alcun modo ciò che è stata sostenuto nel provvedimento impugnato e cioè che la cava debba essere distante di mt. 40 dalle strade.
In realtà, il provvedimento impugnato è del tutto carente di motivazione, proprio perché non si riesce a comprendere le ragioni che hanno indotto l’amministrazione a prescrivere le dette condizioni (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 21.06.2013 n. 1472 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Il d.lgs. 152/2006 delinea il procedimento volto all’accertamento dell’inquinamento e, in particolare l’art. 244, comma 2, stabilisce che “La provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi del presente titolo”.
Pertanto, l’accertamento del superamento dei valori di concentrazione soglia in ordine al livello di contaminazione di un sito, impone alla Provincia, dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell'evento e sentito il Comune, di diffidare con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere agli interventi di bonifica e ripristino ambientale del sito inquinato.
La previsione normativa sopra indicata esclude ordinariamente il concorso di altri enti nell’attività successiva all’accertamento dell’inquinamento di un sito, comportando, di conseguenza, l’incompetenza del Sindaco ad emanare i provvedimenti sopra indicati.
Tuttavia la competenza in materia della Provincia può essere considerata come esclusiva soltanto in relazione ai procedimenti ordinari, visto che la norma attributiva del potere non fa uno specifico riferimento alle situazioni in cui si ravvisi l'indifferibilità e l'urgenza di provvedere (per una fattispecie opposta, ossia in cui è prevista esplicitamente l'emanazione di ordinanze contingibili e urgenti, si veda l'art. 191 del D.Lgs. n. 152 del 2006).
Di conseguenza, pur a fronte di una normativa speciale che si occupa, di regola, dell'attività amministrativa in ordine ai siti inquinati, si deve ritenere applicabile la normativa generale, espressione di un potere atipico e residuale, in materia di ordinanze contingibili e urgenti previste dall'art. 50, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000 (T.U.E.L.), allorquando se ne configurino i relativi presupposti.
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Il potere sindacale di emanare ordinanze contingibili ed urgenti ai sensi degli articoli 50 e 54 D.Lgs. n. 267 del 2000 richiede la sussistenza di una situazione di effettivo pericolo di danno grave ed imminente per l'incolumità pubblica, non fronteggiabile con gli ordinari strumenti di amministrazione attiva, debitamente motivata a seguito di approfondita istruttoria.
In altri termini, presupposto per l'adozione dell'ordinanza extra ordinem è il pericolo per l'incolumità pubblica dotato del carattere di eccezionalità tale da rendere indispensabili interventi immediati ed indilazionabili, consistenti nell'imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico del privato.

Il d.lgs. 152/2006 delinea il procedimento volto all’accertamento dell’inquinamento e, in particolare l’art. 244, comma 2, stabilisce che “La provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi del presente titolo”.
Pertanto, l’accertamento del superamento dei valori di concentrazione soglia in ordine al livello di contaminazione di un sito, impone alla Provincia, dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell'evento e sentito il Comune, di diffidare con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere agli interventi di bonifica e ripristino ambientale del sito inquinato.
La previsione normativa sopra indicata esclude ordinariamente il concorso di altri enti nell’attività successiva all’accertamento dell’inquinamento di un sito, comportando, di conseguenza, l’incompetenza del Sindaco ad emanare i provvedimenti sopra indicati.
Tuttavia la competenza in materia della Provincia può essere considerata come esclusiva soltanto in relazione ai procedimenti ordinari, visto che la norma attributiva del potere non fa uno specifico riferimento alle situazioni in cui si ravvisi l'indifferibilità e l'urgenza di provvedere (per una fattispecie opposta, ossia in cui è prevista esplicitamente l'emanazione di ordinanze contingibili e urgenti, si veda l'art. 191 del D.Lgs. n. 152 del 2006) (Tar Milano, sez. IV, 08.06.2010, n. 1758).
Di conseguenza, pur a fronte di una normativa speciale che si occupa, di regola, dell'attività amministrativa in ordine ai siti inquinati, si deve ritenere applicabile la normativa generale, espressione di un potere atipico e residuale, in materia di ordinanze contingibili e urgenti previste dall'art. 50, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000 (T.U.E.L.), allorquando se ne configurino i relativi presupposti (Cons. St., V, 12.06.2009, n. 3765; Cons. St., sez. II, 24.10.2007, n. 2210; Tar Milano, IV, 16.07.2009, n. 4379).
Comunque, ammettendo la competenza del Sindaco a utilizzare lo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente, i presupposti di un tale intervento straordinario devono essere individuati e verificati nella loro esistenza in modo rigoroso, rischiandosi altrimenti di derogare all'ordine legale delle competenze, in chiara violazione di legge
La giurisprudenza ha precisato che “il potere sindacale di emanare ordinanze contingibili ed urgenti ai sensi degli articoli 50 e 54 D.Lgs. n. 267 del 2000 richiede la sussistenza di una situazione di effettivo pericolo di danno grave ed imminente per l'incolumità pubblica, non fronteggiabile con gli ordinari strumenti di amministrazione attiva, debitamente motivata a seguito di approfondita istruttoria. In altri termini, presupposto per l'adozione dell'ordinanza extra ordinem è il pericolo per l'incolumità pubblica dotato del carattere di eccezionalità tale da rendere indispensabili interventi immediati ed indilazionabili, consistenti nell'imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico del privato” (Cons. St., V, 16.02.2010, n. 868).
Nel caso in esame, proprio il provvedimento impugnato evidenzia come già nel 2007 si è avuta la piena conoscenza del superamento delle concentrazioni soglia di rischio per la contaminazione del suolo superficiale, con la conseguenza che la situazione di inquinamento poteva essere fronteggiata con gli ordinari rimedi previsti dall’art. 244 d.lgs. 152/2006.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto perché l’ordinanza in questione è stata assunta in assenza dei presupposti necessari per la sua legittimità richiesti dalla legge (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 21.06.2013 n. 1465 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Anche dopo l'introduzione dell'art. 21-octies, l. 07.08.1990 n. 241, una motivazione incompleta può essere integrata e ricostruita attraverso gli atti del procedimento amministrativo, ma l’integrazione della motivazione deve pur sempre avvenire da parte della p.a. competente, mediante gli atti del procedimento medesimo o mediante un successivo provvedimento di convalida, mentre gli argomenti difensivi dedotti nel processo avverso il provvedimento, proprio in quanto non inseriti in un procedimento amministrativo, non sono idonei ad integrare in via postuma la motivazione.
È da rilevare anzitutto che secondo giurisprudenza costante “anche dopo l'introduzione dell'art. 21-octies, l. 07.08.1990 n. 241, una motivazione incompleta può essere integrata e ricostruita attraverso gli atti del procedimento amministrativo, ma l’integrazione della motivazione deve pur sempre avvenire da parte della p.a. competente, mediante gli atti del procedimento medesimo o mediante un successivo provvedimento di convalida, mentre gli argomenti difensivi dedotti nel processo avverso il provvedimento, proprio in quanto non inseriti in un procedimento amministrativo, non sono idonei ad integrare in via postuma la motivazione” (Tar Catania, sez. IV, 05.04.2013, n. 989; nello stesso senso Cons. St., sez. V, 16.04.2013, n. 2084) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 21.06.2013 n. 1461 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPannelli solari con partita Iva. Vendere energia alla rete: attività economica comunque. Secondo la Corte di giustizia Ue è irrilevante se quanto si produce è inferiore al consumo.
Pannelli solari con obbligo di partita Iva: la produzione dell'energia fotovoltaica venduta stabilmente alla rete è attività economica agli effetti dell'imposta, anche se l'energia prodotta è inferiore a quella consumata.

Questo il principio statuito dalla Corte di giustizia Ue nella sentenza 20.06.2013 causa C-219/12.
Sentenza dagli effetti potenzialmente dirompenti anche per l'Italia, dove l'amministrazione finanziaria dovrà riesaminare la posizione, fin qui seguita per la cessione al gestore di rete dell'energia prodotta dagli impianti fotovoltaici installati sulle abitazioni private, di imporre gli obblighi Iva solo per gli impianti di potenza superiore a 20 kW. Peraltro, a parte le complicazioni formali, l'attribuzione della qualifica di soggetto passivo dell'Iva avrebbe risvolti positivi per i destinatari, perché comporterebbe il diritto alla detrazione dell'imposta pagata per la realizzazione dell'impianto fotovoltaico. Proprio sull'esistenza o meno di questo diritto è sorta, in Austria, la vicenda che ha portato alla pronuncia dei giudici comunitari.
La controversia è scaturita dal rifiuto del fisco di rimborsare a un cittadino l'Iva pagata sull'acquisto di un impianto fotovoltaico installato sul tetto dell'abitazione, la cui produzione di energia era stata interamente ceduta al prezzo di mercato alla società di gestione della rete, dalla quale il cittadino aveva contemporaneamente acquistato, per il fabbisogno dell'abitazione, un quantitativo di energia di gran lunga superiore.
Per risolvere la controversia, i giudici nazionali hanno ritenuto necessario sollecitare la corretta interpretazione della direttiva Iva da parte della Corte di giustizia Ue, alla quale hanno chiesto se la gestione di un impianto fotovoltaico collegato in rete senza una capacità d'immagazzinamento autonoma, installato sopra o in prossimità di un edificio privato a uso abitativo e tecnicamente strutturato in modo tale che la quantità di energia elettrica prodotta dall'impianto risulti costantemente inferiore alla quantità complessiva di energia elettrica consumata privatamente dal titolare per le proprie esigenze domestiche, costituisca un'attività economica ai sensi della direttiva.
Nella sentenza, la Corte ha premesso che si considera soggetto passivo dell'Iva chiunque esercita in modo indipendente e in qualsiasi luogo una delle attività economiche, tra le quali rientrano le operazioni che comportino lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità. Lo sfruttamento di un impianto fotovoltaico rientra fra le attività economiche, se mira a ricavarne introiti stabili. Questa è una questione di fatto che deve essere valutata in base a tutti gli elementi concreti, fra cui la natura del bene. In proposito, un impianto fotovoltaico collegato in rete e installato sopra o in prossimità di un edificio abitativo, può, per sua stessa natura, essere utilizzato sia per scopi economici sia a fini privati.
Nella fattispecie, l'energia elettrica prodotta dall'impianto fotovoltaico è stata ceduta in rete, dietro contropartita di un corrispettivo, per cui si deve ritenere che l'impianto sia stato sfruttato per ricavarne introiti, dei quali resta da verificare la stabilità o meno. Rileva al riguardo la Corte che il contratto è stato concluso «a tempo indeterminato», per cui, trattandosi di sfruttamento di lunga durata, la cessione in rete di energia elettrica in maniera permanente e non soltanto occasionale integra il requisito della stabilità degli introiti.
Per la Corte, quindi, risultano soddisfatti tutti i presupposti necessari per qualificare l'attività in esame come economica ai fini dell'Iva, con conseguente ingresso del diritto alla detrazione, a nulla rilevando la circostanza che la quantità di energia elettrica prodotta dall'impianto è sempre inferiore alla quantità di energia elettrica consumata dal gestore per le proprie esigenze domestiche.
A causa delle caratteristiche tecniche dell'impianto, da un lato, l'energia prodotta è ceduta alla rete e, dall'altro, quella consumata è acquistata presso il gestore della rete. In queste condizioni, la cessione dell'energia è indipendente dall'operazione di prelevamento per le esigenze domestiche, sicché il rapporto fra le due quantità è irrilevante (articolo Italia Oggi del 21.06.2013).

EDILIZIA PRIVATACassazione. Non basta il frazionamento per accedere alla procedura semplificata del decreto Romani.
Fotovoltaico con il «visto». Senza autorizzazione paesaggistica scatta sempre il sequestro.
L'autorizzazione paesaggistica prevista dal Dlgs 42/2004 è necessaria per le opere dedicate alla produzione di energia elettrica alimentate da fonti rinnovabili. Il frazionamento di un impianto più grande in parti distinte, ciascuna fino a 1 Mw elettrico, non giustifica il ricorso alla procedura semplificata prevista dal decreto Romani.

È questo il principio rilevante che giunge dalla III Sez.  penale della Corte di Cassazione che con la sentenza 19.06.2013 n. 26636 ha rigettato il ricorso avverso il mancato dissequestro disposto dal Tribunale del riesame di Chieti delle opere edili dirette alla realizzazione di un impianto fotovoltaico, frazionato in tre distinte unità con potenza fino a 1 Mw elettrico.
Il giudizio della Corte si fonda sul fatto che gli impianti di produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile devono essere sottoposti al preventivo assenso paesaggistico, in quanto la realizzazione di impianti qualificati come opere di pubblica utilità ed indifferibili e urgenti in applicazione dell'articolo 12, Dlgs 387/2003 non incide sull'astratta configurabilità del reato paesaggistico e, dunque, sul fumus richiesto per l'adozione del sequestro.
Del resto, è proprio tale articolo 12 che prevede l'autorizzazione unica, al rilascio della quale è subordinata la realizzazione delle opere. Questa deve essere rilasciata dall'autorità competente nel rispetto delle normative vigenti «in materia di tutela dell'ambiente, di tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico». Queste condizioni sono esplicitamente richiamate anche dall'articolo 5, comma 1, Dlgs 28/2011 (cd. decreto Romani) il quale rinvia esplicitamente all'articolo 12, DLgs 387/2003.
Pertanto, l'autorizzazione unica di cui al citato articolo 12 riveste un carattere «onnicomprensivo esteso a tutti i profili» connessi alla realizzazione e all'attivazione di energia elettrica alimentata da fonti rinnovabili. In tale alveo rientrano, a giudizio della Corte, anche gli aspetti connessi alla conformità non solo edilizia ma anche paesaggistica.
Il giudizio della Corte interviene sulla scorta della sentenza 38733 del 20.03.2012 che la stessa sezione Terza aveva adottato in un caso analogo. Si rafforza dunque il percorso giurisprudenziale secondo cui non è sufficiente il rispetto del profilo ambientale, dovendosi questo necessariamente integrare con quello paesaggistico. Il che è importantissimo, soprattutto in materia di impianti fotovoltaici posti su terreno, che tanto imbruttiscono il territorio.
Inoltre, la Corte ha confermato che a mente dell'articolo 12, DLgs 387/2003 citato la costruzione e l'esercizio di impianti per la produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili, le opere connesse e le infrastrutture indispensabili alla costruzione e all'esercizio degli impianti nonché le loro modifiche sostanziali sono soggetti all'autorizzazione unica ivi prevista e non all'autorizzazione di cui all'articolo 6 del decreto Romani (Pas, Procedura abilitativa semplificata) poiché per accedere a tale sistema è necessario che gli impianti abbiano una potenza nominale non superiore a 1 Mw elettrico. Quindi, deve trattarsi di piccolissimi impianti.
Nel caso di specie, l'impianto era stato frazionato in tre impianti più piccoli ma la Corte vi ha ravvisato una iniziativa imprenditoriale unitaria facente capo ad un unico concessionario e tale da rendere verosimile e astrattamente configurabile l'ipotesi accusatoria del frazionamento di un unico impianto in tre distinti, con conseguente esigenza della più complessa e completa autorizzazione unica prevista dall'articolo 12 del decreto legislativo 387/2003 (articolo Il Sole 24 Ore del 20.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Non può ritenersi assoggettato a permesso di costruire il posizionamento di blocchi di cemento non ancorati al suolo, collocati senza esecuzione di lavori, in maniera provvisoria (sino a quando sarà definito l’iter per il permesso di recintare l’area), che secondo la ricorrente (senza contestazione sul punto) sono immediatamente rimuovibili con una pala meccanica.
... per l'annullamento dell'ordinanza prot. n. 138/D del 05.07.2012 del dirigente dell'U.T.C. del Comune di Ostuni e degli atti e provvedimenti ad essa comunque connessi, con particolare riferimento a quelli ivi richiamati, come il verbale dei VV.UU. prot. n. 19580 del 25.06.2012.
...
L’intervento contestato alla ricorrente consiste nel posizionamento sul terreno di n. 6 cubi di cemento del volume di 1 metro cubo ciascuno, collocati al dichiarato fine di impedire l’accesso e il passaggio con mezzi meccanici, in attesa che il Comune di Ostuni si pronunci sulla richiesta di autorizzazione alla recinzione dell’area di proprietà.
Ciò posto, si tratta si stabilire se l’attività in questione debba essere annoverata tra quelle per le quali è richiesto un titolo edilizio, posto che l’ordinanza impugnata considera le opere “abusive perché realizzate in assenza di Permesso di Costruire in zona del territorio comunale soggetto a vincolo paesaggistico”.
Ad avviso del Collegio, tale connotazione deve essere esclusa, posto che l’art. 10 del T.U. edilizia (DPR 06.06.2001, n. 380) valuta a tal fine la permanenza stabile dell’opera, destinata a soddisfare esigenze non meramente transeunti ma a costituire una permanente innovazione del territorio, per lo più accompagnata dall’esecuzione di lavori.
Invero, la norma stabilisce che costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire, per quanto qui rileva, “gli interventi di nuova costruzione” che, ai sensi dell’art. 3, primo comma, lett. e), DPR n. 380/2001 sono definiti in negativo (opere non rientranti nelle categorie di cui alle lettere precedenti: interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia), nonché in base proprio alla loro caratteristica di innovare in maniera permanente l’assetto dei luoghi (cfr. la lett. e.3): “realizzazione di infrastrutture e di impianti … che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato”; lett. e.5): “installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere … che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”; lett. e.7): “realizzazione di depositi di merci o di materiali [e] realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato”).
A tutto ciò consegue che non può ritenersi assoggettato a permesso di costruire il posizionamento di blocchi di cemento non ancorati al suolo, collocati senza esecuzione di lavori, in maniera provvisoria (sino a quando sarà definito l’iter per il permesso di recintare l’area), che secondo la ricorrente (senza contestazione sul punto) sono immediatamente rimuovibili con una pala meccanica.
Per tali considerazioni il ricorso è dunque fondato e va accolto, con conseguente annullamento dell’impugnata ordinanza (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 05.06.2013 n. 1327 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L’art. 14 d.lgs. n. 22/1997 (norma oggi sostituita dall’art. 192 d.lgs. n. 152/2006, ma applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame), dopo aver vietato il deposito, immissione e abbandono incontrollato di rifiuti (commi 1 e 2), fa obbligo a chiunque violi i suddetti divieti, di “… procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa” (comma 3).
Tale essendo il tenore della suddetta previsione normativa, rileva il Collegio che, avuto riguardo all’orientamento giurisprudenziale dominante, l'ordine di rimozione dei rifiuti presenti sul fondo può essere rivolto al proprietario solo quando ne sia dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori dell'illecito, per avere cioè posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o colposo, dovendosi pertanto escludere che la norma configuri un'ipotesi legale di responsabilità oggettiva.
Ne discende l’illegittimità degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità, ma in mancanza di adeguata dimostrazione, da parte dell'amministrazione procedente, -e sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione- dell'imputabilità soggettiva della condotta.

Il Collegio ravvisa l’illegittimità del provvedimento comunale, privo di motivazione in ordine ai profili di dolo o colpa ascrivibili ai ricorrenti per l’abbandono incontrollato di rifiuti (come dedotto con il primo motivo), sulla scorta dei precedenti pronunciamenti della Sezione in simili fattispecie, ribaditi anche di recente (sentenze del 24.01.2013 nn. 155 e 156).
In funzione motivazionale possono essere riportate le suddette decisioni: <<L’art. 14 d.lgs. n. 22/1997 (norma oggi sostituita dall’art. 192 d.lgs. n. 152/2006, ma applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame), dopo aver vietato il deposito, immissione e abbandono incontrollato di rifiuti (commi 1 e 2), fa obbligo a chiunque violi i suddetti divieti, di “… procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa” (comma 3).
Tale essendo il tenore della suddetta previsione normativa, rileva il Collegio che, avuto riguardo all’orientamento giurisprudenziale dominante, l'ordine di rimozione dei rifiuti presenti sul fondo può essere rivolto al proprietario solo quando ne sia dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori dell'illecito, per avere cioè posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o colposo, dovendosi pertanto escludere che la norma configuri un'ipotesi legale di responsabilità oggettiva.
Ne discende l’illegittimità degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità, ma in mancanza di adeguata dimostrazione, da parte dell'amministrazione procedente, -e sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione- dell'imputabilità soggettiva della condotta (in tal senso, cfr. C.d.S, V, 25.01.2005, n. 136; Id, V, 25.08.2008, n. 4061; Id, V, 19.03.2009, n. 1612; Tar Sicilia, Palermo, n. 584/2010)
>> (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 05.06.2013 n. 1321 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La fissazione sul terreno di due strutture del genere (indipendentemente dall’ancoraggio e dai materiali plastici della chiusura perimetrale) comporta la chiusura di uno spazio fruibile, che costituisce un nuovo volume (avente dimensioni di 40,00 x 46,00 mq. ed altezza media di m. 3,75 per ciascuna serra), rilevante sotto il profilo paesaggistico, in quanto reca una modifica dell’aspetto esteriore dei luoghi ed un impatto visivo non trascurabile, ostruendo la libera visuale dell’area ora occupata dalle serre.
Quindi, va esclusa la riconducibilità dell’intervento de quo alla previsione di legge ex art. 167 dlgs 42/2004, considerato che le due serre “multi tunnel” <<per forma e dimensione costituiscono un ingombro stabile sul territorio e pertanto non rientrano nella casistica prevista dall’art. 167, c. 4, del D.lgs. 42/2004>>.

Passando quindi all’esame del secondo motivo, occorre considerare che l’art. 167, quarto comma, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 stabilisce i casi in cui può essere accertata la compatibilità paesaggistica dell’opera realizzata in assenza della previa autorizzazione, tra cui: <<a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati>>.
La difesa del ricorrente si appunta sulla circostanza secondo cui, nel caso di specie, le serre non creano volume né costituiscono superficie utile, anche tenuto conto della possibilità di realizzarle, in base alla legge regionale n. 19/1986, prescindendo dagli indici di fabbricabilità stabiliti per i manufatti edilizi propriamente intesi (case, depositi, ecc.).
La tesi non può essere condivisa.
Va premesso che, anche quando è posta dalla legge una normativa edilizia di favore per speciali tipologie di opere, resta in ogni caso doverosa la loro sottoposizione alla valutazione del rispetto delle disposizioni poste a tutela del bene paesaggio.
Nel caso di specie, la normativa recata dalla L.R. 11.09.1986, n. 19 (“Disciplina urbanistica per la costruzione delle serre”) non riverbera quindi alcun effetto sull’accertamento della compatibilità paesaggistica dell’intervento, realizzato senza la previa autorizzazione paesaggistica, per il quale occorre riferirsi unicamente alla cennata disposizione del d.lgs. n. 42/2004, che –come detto– esclude tale possibilità per quelle che determinano “creazione di superfici utili o volumi”.
La Soprintendenza ha escluso la riconducibilità dell’intervento alla previsione di legge, considerato che le due serre “multi tunnel” <<per forma e dimensione costituiscono un ingombro stabile sul territorio e pertanto non rientrano nella casistica prevista dall’art. 167, c. 4, del D.lgs. 42/2004>>.
La valutazione della Soprintendenza va condivisa, dal momento che la fissazione sul terreno di due strutture del genere (indipendentemente dall’ancoraggio e dai materiali plastici della chiusura perimetrale) comporta la chiusura di uno spazio fruibile, che costituisce un nuovo volume (avente dimensioni di 40,00 x 46,00 mq. ed altezza media di m. 3,75 per ciascuna serra), rilevante sotto il profilo paesaggistico, in quanto reca una modifica dell’aspetto esteriore dei luoghi ed un impatto visivo non trascurabile, ostruendo la libera visuale dell’area ora occupata dalle serre (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 05.06.2013 n. 1319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'articolo 4 della legge n. 10/1977 ed oggi l'articolo 11 del DPR n. 380/2001 dispongono che l'atto abilitativo alla edificazione sia rilasciato "al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo".
In particolare, poi, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che il rilascio della concessione edilizia non presuppone necessariamente la proprietà del suolo da parte del soggetto istante, essendo sufficiente la disponibilità dello stesso; chiarendosi pure che il possesso del bene è riconducibile alle situazioni di legittimazione per la richiesta della concessione edilizia, alle quali, in alternativa a quella dominicale, l'art. 4 l. n. 10/1977 genericamente rinvia.

Non sono condivisibili gli argomenti dedotti in senso contrario dalle parti resistenti, in particolare dal difensore del Comune di Montecorvino Rovella, nel senso della radicale "inesistenza giuridica" della D.I.A., siccome non corredata dai documenti prescritti, ed in particolare dal titolo di disponibilità dell'area interessata dall'intervento.
In proposito, deve rilevarsi che, ai sensi dell'art. 19, comma 3, l. n. 241/1990 e dell'art. 23, comma 6, d.P.R. n. 380/2001, la "carenza dei requisiti e dei presupposti" legittima l'Amministrazione all'esercizio, entro il termine stabilito (trenta giorni decorrenti dalla presentazione della denuncia, secondo la formulazione dell'art. 23, comma 1, d.P.R. n. 380/2001 vigente alla data della D.I.A. oggetto di controversia), del potere inibitorio (mediante notifica all'interessato dell'"ordine motivato di non effettuare il previsto intervento"): ebbene, nessun elemento normativo o sistematico induce a pervenire ad una diversa conclusione, quanto alla tipologia di potere esercitabile dall’Amministrazione, in relazione alla predicata carenza del titolo di disponibilità dell'area interessata dai lavori de quibus.
Così inquadrato il provvedimento impugnato, non resta che rilevare che nessuna motivazione è stata fornita dall'Amministrazione intimata, nonostante il significativo lasso temporale seguito al perfezionamento della D.I.A. (presentata in data 20.01.2009), in ordine all'interesse pubblico giustificativo dell'annullamento ed alla sua eventuale prevalenza sull'interesse conservativo del privato destinatario degli effetti favorevoli dell'atto annullato, secondo lo schema operativo delineato dall'art. 21-nonies l. n. 241/1990 (espressamente richiamato, con riferimento alla disciplina della D.I.A., dall'art. 19, comma 3, l. cit.).
In ogni caso, a prescindere da tale rilievo, deve osservarsi che, come già statuito da questo Tribunale (TAR per la Campania, Sezione Staccata di Salerno, Sez. II, 17.06.2008, n. 1952), "l'articolo 4 della legge n. 10/1977 ed oggi l'articolo 11 del DPR n. 380/2001 dispongono che l'atto abilitativo alla edificazione sia rilasciato "al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo".
In particolare, poi, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che il rilascio della concessione edilizia non presuppone necessariamente la proprietà del suolo da parte del soggetto istante, essendo sufficiente la disponibilità dello stesso (cfr. Cons. Stato, V, 24.10.1996, n. 1285; IV, 31.01.1995, n. 37); chiarendosi pure che il possesso del bene è riconducibile alle situazioni di legittimazione per la richiesta della concessione edilizia, alle quali, in alternativa a quella dominicale, l'art. 4 l. n. 10/1977 genericamente rinvia (cfr. Cons. Stato, V, 18.06.1996, n. 718).
Pertanto, per affermare la legittimità della determinazione impugnata non è necessario risolvere la questione (tra l'altro pendente dinanzi al giudice civile) in ordine alla titolarità del diritto dominicale. Sufficit al riguardo la titolarità del possesso del bene…
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 30.05.2013 n. 1181 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Ordinanza di rimessione all’Adunanza plenaria. Principio comunitario “chi inquina, paga” e responsabilità del proprietario di un’area inquinata, che non sia anche l’autore dell’inquinamento
Si sottopone all’esame dell’Adunanza plenaria la quaestio iuris:
se in base al principio di matrice comunitaria compendiato nella formula “chi inquina, paga”, l’amministrazione nazionale possa imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia anche l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza di cui all’articolo 240, comma 1, lettera m) del decreto legislativo 152 del 2006 (sia pure, in solido con il responsabile e salvo il diritto di rivalsa nei confronti del responsabile per gli oneri sostenuti),
ovvero
se, in alternativa, in siffatte ipotesi gli effetti a carico del proprietario “incolpevole” restino limitati a quanto espressamente previsto dall’articolo 253 del medesimo decreto legislativo in tema di oneri reali e privilegi speciali
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.05.2013 n. 2740 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oneri di edificazione in area agricola.
Per interventi di nuova edificazione, a destinazione turistico-residenziale, ancorché realizzati in via eccezionale e derogatoria in zona agricola o a prevalente vocazione rurale, l’incidenza degli oneri di urbanizzazione, proprio in funzione della più marcata ed evidente incidenza dei suddetti interventi sul territorio e in vista della necessaria maggiore infrastrutturazione, non possono comportare scostamenti dai coefficienti relativi ad altri usi di natura residenziale.
D’altro canto è di intuitiva evidenza che per interventi di nuova edificazione, a destinazione turistico-residenziale, ancorché realizzati in via eccezionale e derogatoria in zona agricola o a prevalente vocazione rurale, l’incidenza degli oneri di urbanizzazione, proprio in funzione della più marcata ed evidente incidenza dei suddetti interventi sul territorio e in vista della necessaria maggiore infrastrutturazione, non possono comportare scostamenti dai coefficienti relativi ad altri usi di natura residenziale (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.05.2013 n. 2673 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La tenda (da sole) è più che amovibile nell’immediato ed avvolgibile in sé. La stessa è oggettivamente precaria e di carattere occasionale senza che ne risulti alcun aumento volumetrico di aspetto tridimensionale e stabile; la medesima sembra anche atteggiarsi come di utilità alla struttura principale quale pertinenza.
Conseguentemente, è illegittimo l'ordine di rimozione della stessa in quanto installata abusivamente sulla presunzione della necessità preventiva di un permesso comunale.

... per l'annullamento dell'ordine di rimozione di tenda da sole e canale di raccolta acque piovane prot. n. 16886/12.
...
Con l’ordinanza qui impugnata è stato imposto al ricorrente di rimuovere e demolire una tenda da sole, non meglio descritta nello stesso atto di cui sopra ed un canale di gronda e di scolo dell’acqua piovana disposto in fregio ad una finestra di un appartamento altrui il cui proprietario è stato qui chiamato in giudizio, ritenendo il Comune medesimo trattarsi, nel caso, di opere necessitanti un preventivo permesso qualificandosi così le stesse ed allo stato di carattere abusivo.
Ovviamente la difesa del ricorrente, ritenendo essere stata messa in campo una fallace interpretazione di varie norme di cui al DPR 3820/2001 e alla L.R. 12/2005 e l’insistenza di vari profili del vizio di eccesso di potere, ha finito col concludere che le opere sopra descritte non necessiterebbero di alcun titolo legittimante data la loro natura e la loro funzione.
Il Comune, costituitosi in giudizio, ha controbattuto ritenendo infondato il ricorso.
All’Udienza Pubblica dell’08/05/2013, la causa è stata spedita in decisione.
Il ricorso è fondato.
Ed invero la tenda è più che amovibile nell’immediato ed avvolgibile in sé. La stessa è oggettivamente precaria e di carattere occasionale senza che ne risulti alcun aumento volumetrico di aspetto tridimensionale e stabile; la medesima sembra anche atteggiarsi come di utilità alla struttura principale quale pertinenza.
Per quanto riguarda invece il canale di scolo, a tutto concedere, lo stesso può definirsi come strumento di sostanziale manutenzione teso ad evitare infiltrazioni ed umidità. Ovviamente simili declinazioni lasciano salvi tutti i diritti di terzi in relazione ad eventuali vertenze privatistiche.
Le spese di lite della presente vertenza sono a carico del Comune soccombente e sono quantificate in dispositivo, data la vasta letteratura giurisprudenziale conforme all’esito di cui sopra (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 16.05.2013 n. 468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Telefonate private, pena ridotta. L'uso in servizio per rilevare non può essere occasionale. La Cassazione attenua la portata del reato: il massimo di reclusione scende da 10 a 3 anni.
Usare sistematicamente il telefono della scuola per fini personali o il pc dell'ufficio di segretaria per navigare su internet, sempre per fini privati, integra il reato di peculato d'uso e non quello di peculato comune. Sempre che con tali comportamenti il lavoratore abbia prodotto un danno apprezzabile al patrimonio della pubblica amministrazione oppure una concreta lesione alla funzionalità dell'ufficio. É il caso, per esempio, della dirigente scolastica che utilizzi frequentemente il telefono della scuola per effettuare telefonate all'estero.
E sia solito farlo per raggiungere il coniuge, altro dirigente scolastico preposto ad una scuola italiana e viceversa. Oppure all'assistente amministrativo aduso a conversare privatamente nelle prime ore del mattino, occupando la linea telefonica della scuola, approfittando dell'assenza del dirigente. In ciò precludendo ai docenti di comunicare l'assenza per malattia e arrecando pregiudizio all'ordinario svolgimento delle lezioni. Dunque, se prima chi assumeva tali comportamenti rischiava dai 4 ai 10 anni di reclusione adesso la pena ipotizzabile va da 6 mesi a 3 anni di carcere.

É l'effetto della sentenza 02.05.2013 n. 19054 delle Sezioni unite penali della Corte di cassazione.
La pronuncia attenua la portata del reato modificando sostanzialmente il precedente orientamento della Suprema corte. Che per questo genere di reati aveva sempre ritenuto che dovesse applicarsi la reclusione da 3 a 10 anni. Mentre adesso il nuovo orientamento indirizza la giurisprudenza verso l'applicazione la pena più blanda della reclusione da 6 mesi a tre anni. Il reato è previsto dall'articolo 414 del codice penale. Il primo comma è quello che regola il peculato comune e prevede che il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, debba essere punito con la reclusione da quattro a dieci anni. Il secondo comma, invece, regola il cosiddetto peculato d'uso e commina la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole abbia agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, sia stata immediatamente restituita.
Il vecchio orientamento della Suprema corte andava nel senso di considerare la condotta dell'agente inquadrabile nel reato di peculato comune. Secondo tale indirizzo, dunque, l'appropriazione non assumeva rilievo sul telefono in sé, quanto invece sugli impulsi elettromagnetici attraverso i quali la telefonata si concretava. Impulsi che, non potendo essere restituiti, precludevano la configurabilità del reato di peculato d'uso che, per sua natura, prevede la restituzione. Le Sezioni unite, invece, nel motivare il nuovo orientamento, hanno spiegato che le energie occorrenti per realizzare la comunicazione, e indebitamente utilizzate dal pubblico dipendente, non costituiscono patrimonio preesistente dell'amministrazione, suscettibile di sottrazione. E quindi non assumono rilievo ai fini dell'appropriazione necessaria a configurare il peculato comune. L'utilizzo per fini personali, da parte del pubblico agente, del telefono assegnatogli per le esigenze dell'ufficio, rientra invece nel peculato d'uso. Con tale condotta, infatti, «il soggetto distoglie precisamente il bene fisico costituito dall'apparato telefonico, di cui è in possesso per ragioni d'ufficio, dalla sua destinazione pubblicistica», si legge nella sentenza, «piegandolo a fini personali, per il tempo del relativo uso, per restituirlo, alla cessazione di questo, alla destinazione originaria».
Resta il fatto, però, che la relativa responsabilità sussiste solo nel caso in cui il dipendente con tale comportamento produca un apprezzabile danno al patrimonio della pubblica amministrazione oppure una concreta lesione alla funzionalità dell'ufficio. Nel primo caso, dunque, può realizzarsi solo se l'utilizzo improprio del telefono abbia prodotto un notevole danno economico. Fatto questo che non può verificarsi qualora l'utenza telefonica sia stata attivata con un contratto «tutto incluso». Nel secondo caso, invece, si realizza se il tempo passato al telefono dal dipendente per fini personali abbia precluso agli utenti l'accesso al servizio in modo significativo. Per contro l'uso del telefono d'ufficio per fini personali, economicamente e funzionalmente non significativo, deve considerarsi, quindi, penalmente irrilevante (articolo ItaliaOggi del 18.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento di destinazione d’uso rilevante.
Il mutamento di destinazione d’uso è rilevante se avviene fra <<categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico>>, dovendosi in tal caso verificare la variazione del carico urbanistico; parimenti è stato affermato dalla giurisprudenza che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del carico.
In altri termini si configura una “trasformazione edilizia” quando la stessa sia produttiva di vantaggi economici connessi all’utilizzazione del bene immobile, anche senza l’esecuzione di opere edilizie. Appare poi, altresì, evidente che il passaggio da una prevalente destinazione produttiva ad una prevalentemente residenziale o terziaria implica il passaggio ad un’autonoma categoria funzionale, con incremento del carico urbanistico dovuto alla presenza di persone stabilmente residenti nell’immobile.
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La categoria urbanistica di industria, in quanto assoggettata ad un regime contributivo agevolato, è categoria di stretta interpretazione e "concerne strettamente i fabbricati complementari ed asserviti alle esigenze proprie di un impianto industriale e non già quegli edifici che non sono di per sé destinati alla produzione di beni industriali ovvero opere edilizie comunque suscettibili di essere utilizzate al servizio di qualsiasi attività economica".

Fermo restando quanto sopra, giova in ogni caso ricordare che lo scrivente TAR ha già chiarito (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 24.10.2012, n. 2593 e 27.07.2012, n. 2146), che la specifica disciplina regionale sul mutamento di destinazione d’uso deve essere letta ed interpretata alla luce dei principi fondamentali e delle disposizioni più generali risultanti dalla legislazione statale (DPR 380/2001) ed anche dalla stessa legge regionale 12/2005: si verte, infatti, nella materia del “governo del territorio”, oggetto di potestà legislativa regionale concorrente ai sensi dell’art. 117, comma 3°, della Costituzione, con conseguente necessità di rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale.
La legislazione regionale, all’art. 51, comma 1° citato, se da una parte ammette in via di principio il passaggio da una destinazione all’altra, fa espressamente salve le esclusioni previste dallo strumento urbanistico generale (<<…salvo quelle eventualmente escluse dal PGT>>).
L’art. 52, comma 2°, del resto, prevede per i mutamenti d’uso senza opere edilizie un obbligo di semplice comunicazione all’Amministrazione, purché i suddetti mutamenti siano <<…conformi alle previsioni urbanistiche comunali ed alla normativa igienico-sanitaria>>.
Quanto alla normativa statale, l’art. 32, comma 1°, del DPR 380/2001, qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del precedente art. 31 del DPR 380/2001 con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal DM 02.04.1968, n. 1444.
Appare quindi evidente che il mutamento di destinazione d’uso, anche senza opere edilizie, non può costituire un’operazione edilizia o urbanistica per così dire “neutra”, dovendo l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non abbia inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione d’uso è rilevante se avviene fra <<categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico>>, dovendosi in tal caso verificare la variazione del carico urbanistico (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 13.07.2010, n. 4546, con la giurisprudenza ivi richiamata); parimenti è stato affermato che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del carico; in altri termini si configura una “trasformazione edilizia” quando la stessa sia produttiva di vantaggi economici connessi all’utilizzazione del bene immobile, anche senza l’esecuzione di opere edilizie (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14.10.2011, n. 5539, con le pronunce in essa richiamate ed anche TAR Lombardia, Milano, sez. II, 11.02.2011, n. 468).
Appare poi, altresì, evidente che il passaggio da una prevalente destinazione produttiva ad una prevalentemente residenziale o terziaria implica il passaggio ad un’autonoma categoria funzionale, con incremento del carico urbanistico dovuto alla presenza di persone stabilmente residenti nell’immobile (cfr. sul punto anche TAR Lombardia, Milano, sez. II, 27.05.2009, n. 3859, che in relazione al citato art. 32 delle NTA ha espressamente statuito che: <<...rispetto alla destinazione produttiva la destinazione terziaria o residenziale si caratterizza sotto una serie di profili tutt’altro che secondari: comporta il pagamento di un contributo di costruzione più elevato e il conferimento di standard urbanistici in misura maggiore>>).
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La giurisprudenza, peraltro, chiamata a pronunciarsi in tema di cambi di destinazione d'uso, ha avuto modo di chiarire che la categoria urbanistica di industria, in quanto assoggettata ad un regime contributivo agevolato, è categoria di stretta interpretazione e "concerne strettamente i fabbricati complementari ed asserviti alle esigenze proprie di un impianto industriale e non già quegli edifici che non sono di per sé destinati alla produzione di beni industriali ovvero opere edilizie comunque suscettibili di essere utilizzate al servizio di qualsiasi attività economica" (Cons. Stato, sez. V, 19.06.2012 n. 3561; cfr. altresì Cons. Stato, Sez. IV, 25.06.2010, n. 4109; TAR Sardegna, 27.10.2003, n. 1299) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.04.2013 n. 1066 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio sussiste, in generale, l’obbligo per il Comune di verificare il rispetto, da parte dell’istante, dei limiti privatistici a condizione che tali limiti siano immediatamente conoscibili e/o non contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disanima dei rapporti tra i condomini.
Se, dunque, l’amministrazione normalmente non è tenuta a svolgere indagini particolari in presenza di una richiesta edificatoria presentata da un comproprietario, al contrario, qualora uno o più comproprietari si attivino per denunciare il proprio dissenso rispetto al rilascio del titolo edificatorio, il Comune è tenuto a verificare se, a base dell’istanza edificatoria, sia riconoscibile l’effettiva sussistenza della disponibilità del bene oggetto dell’intervento edificatorio.

Il Consiglio di Stato ha rilevato che in sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio sussiste, in generale, l’obbligo per il Comune di verificare il rispetto, da parte dell’istante, dei limiti privatistici a condizione che tali limiti siano immediatamente conoscibili e/o non contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disanima dei rapporti tra i condomini (v., ex plurimis, Sez. IV, 10.12.2007, n. 6332; Sez. IV, 11.04.2007, n. 1654).
Se, dunque, l’amministrazione normalmente non è tenuta a svolgere indagini particolari in presenza di una richiesta edificatoria presentata da un comproprietario, al contrario, qualora uno o più comproprietari si attivino per denunciare il proprio dissenso rispetto al rilascio del titolo edificatorio, il Comune è tenuto a verificare se, a base dell’istanza edificatoria, sia riconoscibile l’effettiva sussistenza della disponibilità del bene oggetto dell’intervento edificatorio (VI, 20.12.2011 n. 6731) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 22.04.2013 n. 2238 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Elettrosmog. Installazione d’impianti radioelettrici consenso del proprietario e sanzioni penali.
Il combinato degli artt. 90, 91 e 92 del D.lgs. n. 259/2003: “Codice delle Comunicazioni elettroniche”, relativi alla procedura di espropriazione in caso di mancato consenso del proprietario, dispone che detto consenso, ove non si faccia luogo dell’espropriazione, debba essere richiesto e ottenuto in quanto necessario ai fini dell’autorizzazione dell’impianto.
Più in generale il consenso dei proprietari degli immobili interessati ad attività edilizia, che ricomprende l’installazione degli impianti radioelettrici, è principio generale del nostro ordinamento desumibile dall’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001, volto a tutelare la ordinata gestione del territorio e la tutela della proprietà privata e dunque deve configurarsi come presupposto di carattere sostanziale di avvio del procedimento e non un suo aggravio.
Inoltre, le infrastrutture di comunicazione elettronica specificate al co. 1 dell’art. 87 del d.lgs. n. 259/2003 restano sottoposte pur sempre, alle sanzioni penali specifiche delle opere soggette a permesso di costruire di cui all’art. 44 del T.U. n. 380/2001 in quanto il mutamento della disciplina per l’abilitazione all’intervento edilizio non incide, sulla disciplina sanzionatoria penale, che non viene correlata alla tipologia del titolo abilitativo, bensì alla consistenza concreta dell’intervento; correlativamente, se sono applicabili le sanzioni penali, a maggior ragione devono ritenersi applicabili anche le sanzioni amministrative di competenza del Comune.
Il fatto che l’art. 87 del D.lgs. n. 359/2003 preveda che dopo 90 giorni l’intervento debba intendersi assentito per silenzio-assenso, non comporta l’assimilazione della procedura alla DIA e non esclude che la disciplina sanzionatoria sia quella relativa al permesso a costruire.

Nel sesto motivo la società Wind censura la sentenza appellata per avere ritenuta legittima la ordinanza di demolizione emessa dal Comune ed in specie:
- per avere erroneamente applicato il regime sanzionatorio di cui all’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 (opere realizzate in assenza di permesso di costruire), laddove, secondo la società, le sanzioni edilizie non si applicano alla materia disciplinata dal D.Lgs. n. 259/2003 e dalla L. n. 36/2001;
- anche a voler applicare il D.P.R. n. 380/2001, il riferimento andrebbe piuttosto individuato negli artt. 37 (“Interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla denuncia di inizio attività e accertamento di conformità”) e 38 (“Interventi eseguiti in base a permesso annullato”), nella parte in cui prevedono l’applicazione di una sanzione pecuniaria;
- non potrebbe consentirsi agli enti locali il potere di incidere in maniera così radicale su un impianto che è diretto a garantire la diffusione del segnale telefonico di pubblica utilità, per il quale al più è consentita la disattivazione, che comunque spetterebbe all’Amministrazione centrale;
- occorrerebbe infine tenere conto del disposto dell’art. 2933 c.c., che impedisce la distruzione della cosa ove la stessa sia di pregiudizio all’economia nazionale.
Tutte le censure di cui sopra non meritano accoglimento.
La sezione osserva come nel nostro ordinamento non è possibile escludere a priori ogni possibile rilevanza, quantomeno concorrente, dell’ordinario regime sanzionatorio edilizio, con riferimento alle strutture del genere di quella in esame, in quanto anche siffatti manufatti sono potenzialmente suscettibili di incidere sull’assetto del territorio e sulla estetica e stabilità degli immobili.
Anche la giurisprudenza della Cassazione Penale ha rilevato che “…le infrastrutture di comunicazione elettronica specificate al co. 1 dell’art. 87 del d.lgs. n. 259/2003 restano sottoposte pur sempre, alle sanzioni penali specifiche delle opere soggette a permesso di costruire” di cui all’art. 44 del T.U. n. 380/2001 in quanto “Il mutamento della disciplina per l’abilitazione all’intervento edilizio non incide, infatti, sulla disciplina sanzionatoria penale, che non viene correlata alla tipologia del titolo abilitativo, bensì alla consistenza concreta dell’intervento” (Cass. Pen. III, 16.09.2005 n. 33735); correlativamente, se sono applicabili le sanzioni penali, a maggior ragione devono ritenersi applicabili anche le sanzioni amministrative di competenza del Comune.
Il fatto che l’art. 87 del D.lgs. n. 359/2003 preveda che dopo 90 giorni l’intervento debba intendersi assentito per silenzio assenso poi non comporta la assimilazione della procedura alla DIA e non esclude che la disciplina sanzionatoria sia quella relativa al permesso a costruire.
Esattamente quindi il primo giudice ha richiamato come termine di riferimento normativo la disposizione dell’art. 38 del D.P.R. n. 380/2001, co. 1, applicabile, in specie, per la parte relativa alla riduzione in pristino che con riferimento alle antenne è normalmente praticabile e non applicabile per la parte relativa alla rimozione di vizi procedurali venendo in rilevo la mancanza di un presupposto sostanziale quale la disponibilità di un titolo di disponibilità.
Né appare conferente il richiamo alla nota del Ministero delle Comunicazioni del 28.02.2003 che si riferisce al caso in disattivazione e spostamento di antenne già autorizzate e che vengano gestite in difformità alle autorizzazioni ricevute o alle norme applicabili mentre il caso in esame attiene ad una antenna priva di autorizzazione in una fattispecie rientrante nel potere di controllo del territorio spettante al Comune.
Inapplicabile è infine l’art. 2933, secondo co., che si riferisce ad ipotesi del tutto eccezionali, di beni volti a produrre e distribuire ricchezza la cui distruzione recherebbe un danno irreparabile all’economia nazionale là dove il caso esame attiene ad un semplice smantellamento di una antenna facilmente allocabile in altro luogo
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 22.04.2013 n. 2238 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Illegittimità ulteriori prescrizioni agli obblighi di bonifica in mancanza della valutazione risultati analisi falda sotterranea.
Sono illegittime le determinazioni conclusive della Conferenza di Servizi decisoria relativa al sito di bonifica di interesse nazionale di Massa Carrara, nella misura in cui mediante detta approvazione, venivano imposte alla Montedison s.r.l. ulteriori prescrizioni di bonifica, con riferimento ad alcuni superamenti dei valori limite di sostanze inquinanti riscontrati nelle acque sotterranee.
La presenza di numerose possibili fonti di inquinamento in un’area fortemente compromessa non può non considerare anche la valutazione della struttura della falda freatica e dei risultati delle analisi relative ai pozzi di emungimento più prossimi all’area inquinata. Da non tralasciare, i risultati dell’analisi “storica” in ordine alle lavorazioni effettuate nello stabilimento in questione.
E' assolutamente rilevante la mancata considerazione dei dati, appare, infatti, di immediata evidenza come i risultati relativi all’analisi delle acque emunte dai pozzi della barriera idraulica prevista dal certificato di compiuta bonifica, non possano essere considerati ininfluenti o secondari nella ricerca delle fonti di inquinamento.

A questo proposito, la giurisprudenza della Sezione ha più volte rilevato l’importanza del detto studio ai fini della ricerca del responsabile dello stato di compromissione ambientale in una zona caratterizzata da numerose e diverse fonti di inquinamento e la contraddittorietà del comportamento dell’Amministrazione che, dopo aver commissionato il detto studio, non ne operi alcuna considerazione in sede di conferenza di servizi decisoria: <<sotto questo punto di vista risulta fondato, ancora, il secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti depositato il 29.05.2009, laddove (punto II.c) è censurato il contrasto tra lo studio di fattibilità redatto dall’I.C.R.A.M. (che prevede la messa in sicurezza della falda, con un intervento coordinato su scala dell’intero sito: cfr. docc. 25-29 della ricorrente, ed in particolare doc. 28) e le prescrizioni reiterate dall’Amministrazione con il decreto direttoriale di recepimento della Conferenza di Servizi decisoria del 10.02.2009.
Nel caso di specie è, pertanto, rinvenibile il vizio di eccesso di potere per contraddittorietà, che, per la giurisprudenza, si può configurare laddove gli atti in asserita contraddizione provengano da una stessa autorità, onde si possa ritenere che questa, adottando di volta in volta soluzioni diverse, abbia inteso usare della sua potestà discrezionale per cause mutevoli, non aderenti al fini istituzionale che è assegnato dalla norma attributiva del potere (TAR Sardegna, Sez. I, 26.01.2010, n. 85; v., pure, TAR Lazio, Roma, Sez. II, 06.05.2009, n. 4740, secondo cui è illegittimo per eccesso di potere per contraddittorietà il provvedimento che presenti contraddizioni od incongruenze rispetto a precedenti valutazioni della medesima P.A., o quando sussistano più manifestazioni di volontà dello stesso Ente che si pongano tra loro in contrasto)
>> (TAR Toscana, sez. II, 11.05.2010 n. 1397 e 1398, che peraltro sembrano rese con riferimento alla medesima conferenza di servizi decisoria di cui alla vicenda che ci occupa) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 22.04.2013 n. 667 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Inquinamento acustico e tutela della salute pubblica.
Per integrare l’applicabilità della misura repressiva dell’inquinamento acustico di cui all’art. 9 della L. n. 447 del 1995, non è necessario che il fenomeno coinvolga l’intera collettività, al riguardo bastando a concretare l’eccezionale ed urgente necessità di intervenire a tutela della salute pubblica, anche l’esposto di una sola persona o di una famiglia, non essendo previsto nella norma alcun parametro numerico o dimensionale.
La giurisprudenza ha inoltre precisato che ai fini dell’adozione della misura repressiva delle violazioni della disciplina sull’inquinamento acustico, i Comuni debbano utilizzare lo specifico strumento dell’ordinanza contingibile ed urgente.

Il Collegio osserva che é infondato il primo mezzo d’impugnazione, con cui la ricorrente ritiene illegittima l’ordinanza sindacale impugnata per erronea applicazione dell’art. 2, c. 3 lett. B) della L. n. 447 del 1995 e dell’art. 8 del D.M. 14/11/1997.
Al riguardo il Collegio ritiene che, allo specifico fine di verificare il superamento dei vigenti limiti di legge riguardo alle emissioni degli impianti industriali, ivi compresi, pertanto, anche i c.d. “limiti differenziali” di cui all’art. 8 del D.M. 14/11/1977, onde valutare la sussistenza o meno dei presupposti per l’adozione di ordinanza extra ordinem ex art. 54, comma 2, D.Lgs. n. 267 del 2000 e 9 L. n. 447 del 1995, non é necessario –come all’opposto sostiene la ricorrente- che l’amministrazione comunale procedente si sia già dotata dei piani di zonizzazione acustica, essendo la previa approvazione di detta pianificazione necessaria solo riguardo ai c.d. limiti acustici “assoluti” (v. TAR Toscana –sez. II, 24/01/2003 n. 39).
Quanto al secondo motivo di ricorso, sull’accoglimento del quale, ad un primo, sommario esame della causa, la Sezione ha fondato l’accoglimento dell’istanza cautelare, il Collegio ritiene ora melius re perpensa di rilevarne, all’opposto, l’infondatezza.
Nel caso di specie si ravvisa, infatti, la sussistenza dei presupposti per l’adozione di ordinanza ex art. 54, comma 2, D.Lgs. n. 267 del 2000, in ipotesi di presunto inquinamento acustico di cui all’art. 9 L. n. 447 del 1995. Detti presupposti consistono, in primo luogo, nell’accertato superamento dei vigenti limiti acustici (“assoluti” e “differenziali”) delle emissioni promananti dagli impianti della ricorrente (v. relaz. fonometrica di A.R.P.A. del 11/06/2004 doc. n. 10 del Comune), nonché nel superamento anche del c.d. livello di attenzione dei rumori (comportante un rischio per la salute umana), come è stato accertato, oltre che nella citata relazione, anche nel parere reso da A.U.S.L. di Modena Distretto di Carpi Servizio Igiene Pubblica in data 05/07/2004 (v. doc. n. 3 del Comune), laddove la struttura sanitaria sostiene, in riferimento ai rumori generati dallo stabilimento della ricorrente, che essi contribuiscono “…all’insorgenza di quei disturbi classificati come effetti extrauditivi che possono interessate l’apparato cardiovascolare, gastro-enterico, endocrino, oltre che il sistema nervoso centrale”.
Le considerazioni che precedono conducono univocamente alla conclusione, coerente con tali premesse, in ordine all’esistenza di una situazione di attuale pericolo per la salute; situazione alla quale risulta che l’amministrazione abbia fatto legittimamente fronte mediante la misura interdittiva straordinaria del divieto di funzionamento degli impianti nelle ore notturne, coerentemente attribuendo efficacia al divieto limitata al solo periodo necessario per realizzare definitive opere mitigatorie del disturbo acustico in questione. Le stesse considerazioni appena svolte valgono anche per ritenere infondato il quarto mezzo d’impugnazione, anch’esso facente leva sulla ritenuta mancanza dei presupposti di legge per l’adozione di ordinanze extra ordinem ai sensi degli art. 9 della L. n. 447 del 1995 e 54, comma 2, del D.Lgs. n. 267 del 2000.
Sul punto, si deve infine osservare che la giurisprudenza amministrativa ha stabilito che per integrare l’applicabilità della misura repressiva dell’inquinamento acustico di cui all’art. 9 della L. n. 447 del 1995, non è necessario che il fenomeno coinvolga l’intera collettività, al riguardo bastando a concretare l’eccezionale ed urgente necessità di intervenire a tutela della salute pubblica, anche l’esposto di una sola persona o di una famiglia (come è avvenuto nel caso in esame), non essendo previsto nella norma alcun parametro numerico o dimensionale (v. TAR Piemonte, sez. II, 27/10/2011 n. 1127; TAR Lombardia –MI- sez. IV, 21/09/2011 n. 2253).
La giurisprudenza ha inoltre precisato che ai fini dell’adozione della misura repressiva delle violazioni della disciplina sull’inquinamento acustico, i Comuni debbano utilizzare lo specifico strumento dell’ordinanza contingibile ed urgente (v. TAR Lombardia –MI- n. 2253 del 2011cit.) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 22.04.2013 n. 302 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Autorizzazione paesaggistica e motivazione.
L’autorizzazione paesaggistica non motivata equivale ad una inammissibile deroga al decreto di tutela.
Considerato che la funzione dell’autorizzazione ex art. 151 del D.Lgs. 490/1999 (già articolo 7 della legge 1497/1939) è appunto quella di verificare la compatibilità dell’opera che si intende realizzare con l’esigenza di conservazione dei valori paesistici protetti dal vincolo e non essendo quindi concesso in sede autorizzatoria di derogare all’accertamento di detti valori contenuto nel relativo provvedimento, una valutazione di compatibilità che si traduca in una obiettiva deroga al vincolo stesso si risolve in un’autorizzazione illegittima.

Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente è infatti l’autorizzazione comunale a rivelarsi del tutto illegittima, in quanto non motivata sulla compatibilità paesaggistica–ambientale.
L’autorizzazione è stata concessa “poiché la consistenza planivolumetrica di dette opere e la tipologia costruttiva delle stesse……non paiono in grado di arrecare pregiudizio ai caratteri naturali distintivi del luogo che sono oggetto di tutela, né di alterarne la percezione visiva”.
Il carattere tautologico e la totale apoditticità dell’affermazione sono evidenti.
Trattasi di un generico modulo motivazionale elaborato dal Comune di Rimini per innumerevoli casi di sanatoria sui quali si è espresso, nonostante l’ovvia diversità degli abusi (cfr. ad esempio la motivazione adottata nel provvedimento di cui ai ricorsi n. 272/04 e n. 614/04 respinti con sentenze n. 578/2012 e n. 555/2012, nonché di cui al ricorso n. 273/04, oggi posto in decisione) e a prescindere dal bene tutelato, appartenente al paesaggio fluviale come nel caso di specie, ovvero al litorale marittimo, come negli altri casi.
L’autorizzazione paesaggistica è in palese contrasto con i principi enunciati in materia dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. ad es. sez. VI, 20.05.2005, n. 2546 e 18.03.2004, n. 1434), la quale ha statuito che l’autorità delegata:
a) deve effettuare le proprie valutazioni in coerenza con le previsioni del vincolo;
b) deve manifestare piena consapevolezza delle conseguenze derivanti dalla realizzazione delle opere e dalla visibilità dell’intervento nel contesto ambientale;
c) deve motivare l’autorizzazione in modo tale da fare emergere l’apprezzamento di tutte le circostanze di fatto rilevanti e la non manifesta irragionevolezza della scelta di prevalenza di un valore diverso da quello tutelato in via primaria.
La mancata osservanza di tali principi si traduce <in un radicale vizio di legittimità dell’autorizzazione in termini di eccesso di potere per difetto di motivazione e sviamento dalla causa tipica, poiché….invece di gestione del vincolo, si verifica di fatto la deroga alla sua efficacia (così, TAR Liguria, sez. I, 05.11.2005, n. 1430)> (cfr. in questi termini, TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 30.12.2006, n. 3362).
La Soprintendenza non ha esorbitato dal potere di controllo di tale legittimità.
Attiene infatti alla sua legittimità la considerazione dell’autorizzazione in rapporto alle esigenze di tutela paesistica: essendo scopo dell’autorizzazione quello di amministrare il paesaggio garantendo la conservazione dei valori oggetto di tutela, essa è affetta da un vizio funzionale allorché consenta trasformazioni del territorio senza valutare il mantenimento del pregio ambientale.
La rilevazione degli elementi di fatto e la loro correlazione con i valori vincolati, compiuta in sede di “estrema difesa del vincolo”, non attiene alla opportunità dell’azione amministrativa, bensì alla ricognizione degli elementi da porre a base della valutazione di legittimità: sicché è erroneo confondere una tale rilevazione con il merito dell’atto amministrativo, che attiene alla discrezionalità delle scelte amministrative”. (C.d.S., Sez. II, pareri nn. 898/97 e 899/97 del 22.04.1998; n. 1864/98 del 18.11.1998; n. 661/98 del 27.01.1999; 23.06.1999, n. 1104/99).
E’ legittimo l’annullamento fondato sulla mera constatazione che l’autorità comunale non ha realmente ed effettivamente valutato la turbativa causata sul contesto ambientale tutelato.
Tale annullamento si fonda infatti su “rilievi che, non solo costituiscono motivazione sufficiente e puntuale del provvedimento, in quanto danno adeguata contezza dei vizi accertati, ma sono certamente esercizio non di una valutazione del merito della determinazione comunale…sibbene di un controllo di mera legittimità, in quanto relativi a forme tipiche di eccesso di potere quali il difetto di presupposto e la carenza di motivazione” (v. Cons. Stato, Ad. Plen. 07.06.1999, n. 20).
Esso “rientra pienamente nei limiti del potere di annullamento del Soprintendente, così come definiti dalla giurisprudenza amministrativa, a partire dalla decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 9 del 14.12.2001 e recentemente ribaditi da questa Sezione con la sentenza 24.01.2005, n. 81: nel senso che detto potere può riguardare soltanto motivi di (il)legittimità, ivi compreso il difetto di motivazione o di istruttoria nonché l’eccesso di potere sotto ogni profilo” (cfr. in questi termini, TAR Bologna, sentenza 22.03.2005, n. 431).
Il rilascio di una immotivata autorizzazione paesaggistica equivale a revoca o deroga della tutela, al contrario di quanto ritenuto dalla ricorrente.
E’ enunciazione costante della giurisprudenza amministrativa quella per la quale l’autorizzazione paesaggistica non motivata equivale ad una inammissibile deroga al decreto di tutela, causa “il mancato assolvimento della funzione dell’autorizzazione paesistica traducendosi quella concessa in un’obiettiva deroga al vincolo stesso…la violazione di legge in cui è incorso l’atto annullato nel disporre una sostanziale deroga al vincolo, e, in definitiva, l’aver omesso la stessa valutazione di compatibilità dell’intervento con il vincolo in questione” (cfr. in questi termini Cons. Stato, Sez. VI, 27.04.2006, n. 2831); “considerato che la funzione dell’autorizzazione ex art. 151 del D.Lgs. 490/1999 (già articolo 7 della legge 1497/1939) è appunto quella di verificare la compatibilità dell’opera che si intende realizzare con l’esigenza di conservazione dei valori paesistici protetti dal vincolo e non essendo quindi concesso in sede autorizzatoria di derogare all’accertamento di detti valori contenuto nel relativo provvedimento, una valutazione di compatibilità che si traduca in una obiettiva deroga al vincolo stesso si risolve in un’autorizzazione illegittima” (cfr. TAR Bologna, Sez. II, n. 30.12.2006, n. 3369; id. TAR Bologna, Sez. II, n. 17.06.2008, n. 2503; nonché, in un precedente del tutto analogo, TAR Bologna, Sez. II, 21.04.2011, n. 394) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 22.04.2013 n. 295 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Vincolo paesistico e sanzioni.
La salvezza delle sanzioni ambientali di cui all'art. 15 legge n. 1497 del 1939 disposta dall’art. 2, comma 46, legge n. 662/1996, opera anche se l'abuso edilizio sia stato ritenuto compatibile con l’assetto paesaggistico dall'autorità preposta alla tutela del vincolo, attraverso il rilascio del parere favorevole ai sensi dell’art. 32 l. n. 47/1985. Ciò in coerenza con il carattere sanzionatorio e non già risarcitorio dell’istituto, confermato con norma di carattere interpretativo dalla menzionata disposizione della legge finanziaria per il 1997.
E’ stato in altri termini affermato che l’autorizzazione postuma ai fini ambientali è valevole all’esclusivo fine di perfezionare la sanatoria prevista dal più volte citato art. 13 l. n. 47/1985, ma non elide del tutto le conseguenze della violazione dell’obbligo di munirsi di tale assenso in via preventiva sancito dall’art. 7 l. n. 1497/1939.

Cosi sintetizzate le contrapposte prospettazioni delle parti, deve innanzitutto darsi atto che presso la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato si registra un incontrastato orientamento, formatosi successivamente alla sentenza appellata, favorevole all’applicazione della sanzione prevista dall’art. 15 l. n. 1497/1939 a prescindere dell’esistenza di un effettivo danno ambientale (oltre alle pronunce citate dall’amministrazione appellante: sez. IV, 03.11.2003 n. 7047; 08.11.2000 n. 6007; sez. VI, 13.07.2006 n. 4420; 21.02.2001 n. 912; vanno richiamate: sez. IV, 15.11.2004, n. 7405; 05.08.2003, n. 4482; 30.06.2003, n. 3931; 12.11.2002, n. 6279; sez. VI, 03.04.2003, n. 1729; 02.06.2000 n. 3184).
Le giurisprudenza in discorso ha infatti precisato, in frontale contrario a quanto statuito nella sentenza appellata, che la salvezza delle sanzioni ambientali di cui all'art. 15 legge n. 1497 del 1939 disposta dall’art. 2, comma 46, legge n. 662/1996, opera anche se l'abuso edilizio sia stato ritenuto compatibile con l’assetto paesaggistico dall'autorità preposta alla tutela del vincolo, attraverso il rilascio del parere favorevole ai sensi dell’art. 32 l. n. 47/1985. Ciò in coerenza appunto con il carattere sanzionatorio e non già risarcitorio dell’istituto, confermato con norma di carattere interpretativo dalla menzionata disposizione della legge finanziaria per il 1997.
E’ stato in altri termini affermato che l’autorizzazione postuma ai fini ambientali è valevole all’esclusivo fine di perfezionare la sanatoria prevista dal più volte citato art. 13 l. n. 47/1985, ma non elide del tutto le conseguenze della violazione dell’obbligo di munirsi di tale assenso in via preventiva sancito dall’art. 7 l. n. 1497/1939.
Tale indirizzo muove dalla premessa di carattere generale, espressa dall’Adunanza generale nel parere n. 4 dell’11.04.2002, che l’autorizzazione ambientale in sanatoria non costituisce un equipollente perfetto dell’autorizzazione preventiva, giacché solo un effettivo controllo a priori degli interventi di trasformazione edilizia in aree vincolate è idoneo ad assicurare la tutela dei valori paesaggistici, cosicché, una volta nondimeno ammessa, essenzialmente per economia di mezzi, l’assentibilità postuma di tali interventivi, con l’effetto di precludere la riduzione in pristino attraverso la demolizione dell’edificio, deve comunque essere fatto salvo il potere di infliggere la sanzione pecuniaria di cui all’articolo 15 della legge n. 1497/1939, come appunto precisato dal legislatore in sede di legge finanziaria per il 1997 con il più volte citato art. 2, comma 46 (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.04.2013 n. 2216 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Piano di zonizzazione acustica e aree particolarmente protette.
Il Piano di zonizzazione acustica ha espressamente enunciato i criteri utilizzati per la zonizzazione, precisando in generale che la classificazione è stata prevista avendo come riferimento la prevalenza delle attività insediate.
Nel dettaglio, si è espressamente ritenuto che non sussistessero nel territorio comunale aree “particolarmente protette”, dovendosi intendere per “area” una vasta estensione esclusivamente a ciò destinata. La semplice sussistenza di edifici destinati ad attrezzature assistenziali, scuole, aree verdi, non è invece stata ritenuta sufficiente a giustificare l’identificazione di una zona specifica di classe I.

Osserva preliminarmente il Collegio che un atto di pianificazione generale, tranne i casi di incidenza su posizioni consolidate, non ha bisogno di una motivazione ulteriore rispetto a quella che si esprime con i criteri posti a sua base (C.S., Sez. IV, 02.10.2008 n. 4765).
Il Piano impugnato, ha espressamente enunciato i criteri utilizzati per la zonizzazione, precisando in generale che “la classificazione è stata prevista avendo come riferimento la prevalenza delle attività insediate”.
Nel dettaglio, si è espressamente ritenuto che non sussistessero nel territorio comunale aree “particolarmente protette”, dovendosi intendere per “area” una vasta estensione esclusivamente a ciò destinata. La semplice sussistenza di edifici destinati ad attrezzature assistenziali, scuole, aree verdi, non è invece stata ritenuta sufficiente a giustificare l’identificazione di una zona specifica di classe I, ad eccezione di un’Oasi naturalistica (Boza).
Quanto precede è stato motivato in relazione al contenuto della D.G.R. 12.7.2022 n. 9776, in materia di “criteri tecnici di dettaglio per la redazione della classificazione acustica del territorio comunale”, secondo cui “l’individuazione di zone di classe I va fatta con estrema attenzione, a fronte anche di specifici rilievi fonometrici che ne supportino la sostenibilità” (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 19.04.2013 n. 986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Attuazione Piano Insediamenti Produttivi (PIP).
Quanto al concetto di “attuazione” di un Piano insediamenti produttivi, un Piano può dirsi “attuato” allorché vi sia stata l’utilizzazione delle aree in esso ricomprese da parte delle imprese assegnatarie, previo espropriazione, o altra forma di acquisizione, delle medesime.
Non è dato, infatti, individuare un concetto diverso di “attuazione” di uno strumento urbanistico attuativo e segnatamente di un PIP, se non quello della effettiva utilizzazione delle sue previsioni, in coerenza con la natura dell’atto di pianificazione e con le finalità di interesse pubblico per suo tramite perseguite.

 Quanto al concetto di “attuazione” di un Piano insediamenti produttivi, il Collegio ritiene –concordando con il I giudice– che effettivamente un Piano può dirsi “attuato” allorché vi sia stata l’utilizzazione delle aree in esso ricomprese da parte delle imprese assegnatarie, previo espropriazione (o altra forma di acquisizione) delle medesime.
Non è dato, infatti, individuare un concetto diverso di “attuazione” di uno strumento urbanistico attuativo (e segnatamente di un PIP), se non quello della effettiva utilizzazione delle sue previsioni, in coerenza con la natura dell’atto di pianificazione e con le finalità di interesse pubblico per suo tramite perseguite (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.04.2013 n. 2178 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Realizzazione di un’isola ecologica adiacente ad un edificio scolastico, configurabilità dell’interesse ad agire.
Non è di per se sufficiente, ai fini della configurabilità dell’interesse ad agire, il mero rapporto di prossimità tra chi agisce in giudizio e l’opera oggetto del provvedimento amministrativo che intende contestare.
È, infatti, necessario dedurre un danno sia pure potenziale che può derivare dall’opera in questione. Danno che se può ritenersi in re ipsa in caso di realizzazione di impianti potenzialmente inquinanti per la tecnologia utilizzata (realizzazione di un impianto di termovalorizzazione dei rifiuti), va, invece, specificamente dedotto in caso di impianti in sé inidonei a determinare una chiara lesione degli interessi dei ricorrenti.
Dunque, il mero criterio della vicinitas di un fondo o di una abitazione all’area oggetto dell’intervento urbanistico-edilizio non può ex se radicare la legittimazione al ricorso, dovendo sempre fornire il ricorrente, la prova concreta del vulnus specifico inferto dagli atti impugnati alla propria sfera giuridica, in termini, ad esempio, di deprezzamento del valore del bene o di concreta compromissione del diritto alla salute ed all’ambiente.
Sarebbe stato necessario, in definitiva, prospettare delle esternalità negative sulla salute e l’ambiente, derivanti dalla realizzazione dell’opera che, invece, gli odierni appellanti non risultano aver dimostrato alla luce delle concrete modalità di conferimento e della tipologia dei rifiuti che dovranno essere depositati presso l’isola ecologica.

Occorre rammentare come la giurisprudenza di questo Consiglio ha più volte ribadito come non sia di per se sufficiente, ai fini della configurabilità dell’interesse ad agire, il mero rapporto di prossimità tra chi agisce in giudizio e l’opera oggetto del provvedimento amministrativo che intende contestare.
È, infatti, necessario dedurre una danno sia pure potenziale che può derivare dall’opera in questione (cfr. da ultimo, sulla necessità che per configurare la condizione dell’azione dell’interesse ad agire sia indispensabile assodare la concretezza, la personalità e l’attualità della lesione alla sfera giuridica di chi agisce in giudizio, Cons. St., sez. V, n. 6261 del 2012, relativamente alla portata generale del principio; sez. IV, n. 4926 del 2012, in relazione alla materia della tutela dell’ambiente).
Danno che se può ritenersi in re ipsa in caso di realizzazione di impianti potenzialmente inquinanti per la tecnologia utilizzata (così Cons. St., Sez. V, 01.10.2010, n. 7275, nel caso di realizzazione di un impianto di termovalorizzazione dei rifiuti), va, invece, specificamente dedotto in caso di impianti in sé inidonei a determinare una chiara lesione degli interessi dei ricorrenti.
In questo senso conclude, ex plurimis, Cons. St., Sez. IV, n. 8364/2010, secondo la quale: “…il mero criterio della vicinitas di un fondo o di una abitazione all’area oggetto dell’intervento urbanistico-edilizio non può ex se radicare la legittimazione al ricorso, dovendo sempre fornire il ricorrente, in casi come quello in esame, la prova concreta del vulnus specifico inferto dagli atti impugnati alla propria sfera giuridica, in termini, ad esempio, di deprezzamento del valore del bene o di concreta compromissione del diritto alla salute ed all’ambiente (cfr. sul principio, anche se espresso in relazione ad impianto di smaltimento rifiuti, Consiglio di Stato, sez. V, 14.06.2007, n. 3191 e 16.04.2003, n. 1948)”; più di recente Cons. St., Sez. V, n. 2460/2012 ha ribadito che “…la mera vicinanza di un fondo ad una discarica non legittima per ciò solo ed automaticamente il proprietario frontista ad insorgere avverso il provvedimento autorizzativo dell'opera, essendo necessaria, al riguardo, anche la prova del danno che egli da questa possa ricevere”.
Sarebbe stato necessario, in definitiva, prospettare delle esternalità negative sulla salute e l’ambiente, derivanti dalla realizzazione dell’opera che, invece, gli odierni appellanti non risultano aver dimostrato alla luce delle concrete modalità di conferimento e della tipologia dei rifiuti che dovranno essere depositati presso l’isola ecologica (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.04.2013 n. 2108 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Illegittimità d.i.a. su immobile abusivo
Non possono essere destinatari dei provvedimenti di assenso al regime della d.i.a. manufatti abusivi che non siano stati sanati o condonati, in quanto gli interventi ulteriori, sia pure riconducibili a manutenzione straordinaria, restauro e/o risanamento conservativo oppure ristrutturazione, ripetono le caratteristiche di illegittimità dell’opera cui ineriscono strutturalmente.
Giurisprudenza uniforme rammenta come non possano essere destinatari dei provvedimenti di assenso al regime della d.i.a. manufatti abusivi che non siano stati sanati o condonati, in quanto gli interventi ulteriori -sia pure riconducibili a manutenzione straordinaria, restauro e/o risanamento conservativo oppure ristrutturazione– “ripetono le caratteristiche di illegittimità dell’opera cui ineriscono strutturalmente” (Cass. pen., III, 24.10.2008 n. 45070; id., 19.04.2006 n. 21490) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.04.2013 n. 2102 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente in genere. Illegittimità ordinanza del Sindaco per l’eliminazione di impianto di distribuzione carburanti senza partecipazione dell’interessato.
E’ illegittima l’ordinanza del sindaco per l’eliminazione di impianto di distribuzione carburanti senza coinvolgimento della controparte.
L’esatta rappresentazione dei luoghi e la valutazione dello stato di pericolo devono fondarsi su un procedimento la cui istruttoria sia aperta alla partecipazione collaborativa dell’interessato, al fine di individuare la migliore soluzione che contemperi, se possibile, il preminente interesse alla sicurezza con quello al mantenimento dell’impianto, sotto il duplice profilo della salvaguardia degli interessi del titolare e della offerta del servizio ai cittadini. Tale affermazione non significa che l’Amministrazione, in sede di rinnovazione del procedimento, non potrà ordinare nuovamente la chiusura dell’impianto di cui si tratta.
Peraltro, a tale soluzione si potrà addivenire qualora, dopo l’istruttoria condotta con il concorso del titolare, risulterà confermata la pericolosità della struttura e saranno risultate impraticabili altre soluzioni quali eventuali modifiche alla medesima, il suo spostamento in altra zona o altro.

La sentenza di primo grado deve essere condivisa anche nella parte in cui dichiara insufficientemente dimostrata la pericolosità dell’impianto, al fine dell’applicazione dell’art. 19 della legge regionale della Campania 29.06.1994, n. 27, ai sensi del quale “le ipotesi di «incompatibilità tra impianto e territorio» sono le seguenti:
a) l'arresto o la deviazione della linea di flusso del traffico veicolare in conseguenza dell'effettuazione del rifornimento di carburanti;
b) la presenza nel tratto di strada, prospiciente l'impianto, di un semaforo, di un incrocio, di una curva o di un dosso;
c) l'impedimento totale o parziale, di visuale riguardo ai beni di interesse storico, architettonico ed ambientale a causa delle strutture dell'impianto
”.
Il caso che ora occupa ricade nell’ambito di applicazione della lettera b).
Riguardo a tale problematica deve essere rilevato come le deduzioni del Comune siano state compiutamente confutate dall’appellante anche mediante la produzione di perizia giurata.
Il Collegio deve quindi riprendere quanto argomentato al punto 3a, rilevando che l’esatta rappresentazione dei luoghi e la valutazione dello stato di pericolo devono fondarsi su un procedimento la cui istruttoria sia aperta alla partecipazione collaborativa dell’interessato, al fine di individuare la migliore soluzione che contemperi, se possibile, il preminente interesse alla sicurezza con quello al mantenimento dell’impianto, sotto il duplice profilo della salvaguardia degli interessi del titolare e della offerta del servizio ai cittadini, come sottolineato dal primo giudice.
Tale affermazione non significa che l’Amministrazione, in sede di rinnovazione del procedimento, non potrà ordinare nuovamente la chiusura dell’impianto di cui si tratta.
Peraltro, a tale soluzione si potrà addivenire qualora, dopo l’istruttoria condotta con il concorso del titolare, risulterà confermata la pericolosità della struttura e saranno risultate impraticabili altre soluzioni quali eventuali modifiche alla medesima, il suo spostamento in altra zona o altro (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.04.2013 n. 2099 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità diniego condono edilizio opere all’interno della fascia di rispetto autostradale.
Il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere assoluto e prescinde dalla caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art. 9 della L. 24.07.1961 n. 729 del 1961 e dal D.M. 1404 del 1968 non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal concessionario, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni, con la conseguenza le distanze previste vanno osservate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti.
In tale contesto, le opere realizzate dopo l’imposizione del vincolo all’interno della fascia di rispetto autostradale rientrano nella previsione di cui all’art. 33, comma 1, lett. d), della L. 28.02.1985 n. 47 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria.

Come è ben noto, il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere assoluto e prescinde dalla caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art. 9 della L. 24.07.1961 n. 729 del 1961 e dal susseguente D.M. 1404 del 1968 non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal concessionario, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni, con la conseguenza le distanze previste vanno osservate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 30.09.2008 n. 4719 e Cass. Civ., Sez. II, 03.11.2010 n. 22422).
In tale contesto, le opere realizzate dopo l’imposizione del vincolo all’interno della fascia di rispetto autostradale rientrano nella previsione di cui all’art. 33, comma 1, lett. d), della L. 28.02.1985 n. 47 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 18.10.2002 n. 5716 e 25.09.2002 n. 4927) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.04.2013 n. 2062 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il semplice sbancamento del terreno non testimonia l’intenzione del concessionario di realizzare il manufatto assentito.
Ai fini dell'impedimento della decadenza della concessione ai sensi dell'art. 31, legge 17.08.1942, n. 1150, l'avvio dei lavori può senz'altro ritenersi sussistente quando le opere intraprese ed oggetto della concessione siano tali da manifestare l'univoca intenzione del concessionario di realizzare il manufatto assentito.
La circostanza relativa alla ripulitura del sito e di aver approntato il cantiere ed i materiali necessari per l'esecuzione dei lavori sull'immobile non può certamente considerarsi come volontà diretta ed univoca volta al compimento delle opere assentite.
Del pari, è stato in passato rimarcato che al fine di impedire la decadenza comminata dall'art. 31 della L. 17.08.1942, n. 1150, come sostituito dall'art. 10 della L. 06.08.1967, n. 765 e dall'art. 4 della L. 28.01.1977, n. 10 l'inizio dei lavori può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da manifestare una effettiva volontà da parte del concessionario di realizzare il manufatto assentito e tale non può considerarsi il semplice sbancamento del terreno.

Nel merito, nel rimarcare che per costante e condivisibile giurisprudenza di questa Sezione l”'amministrazione non è tenuta a fornire specifiche motivazioni sulla adozione dell'atto di decadenza del permesso di costruire di cui all'art. 15, comma 4, d.p.r. n. 380/2001, in quanto qui non si è in presenza di un provvedimento negativo o di autotutela e la pronuncia di decadenza, per il suo carattere dovuto, è sufficientemente motivata con la sola evidenziazione dell'effettiva sussistenza dei presupposti di fatto.
Né è richiesta alcuna ulteriore specificazione, stante la immediata e diretta prevalenza dell'interesse pubblico all'attuazione della regolamentazione sopravvenuta che è imposta dalla norma in questione (Cons. Stato Sez. IV, 07.09.2011, n. 5028), ritiene il Collegio di dovere sinteticamente richiamare alcuni precedenti giurisprudenziali di merito, che hanno costantemente affermato il principio (riferibile sia all'art. 31, legge 17.08.1942, n. 1150 che all’art. 15 del TU edilizia) per cui ai fini dell'impedimento della decadenza della concessione ai sensi dell'art. 31, legge 17.08.1942, n. 1150, l'avvio dei lavori può senz'altro ritenersi sussistente quando le opere intraprese ed oggetto della concessione siano tali da manifestare l'univoca intenzione del concessionario di realizzare il manufatto assentito. La circostanza relativa alla ripulitura del sito e di aver approntato il cantiere ed i materiali necessari per l'esecuzione dei lavori sull'immobile non può certamente considerarsi come volontà diretta ed univoca volta al compimento delle opere assentite (ex multis TAR Molise Campobasso Sez. I, 19.09.2005, n. 875).
Del pari, è stato in passato rimarcato che al fine di impedire la decadenza comminata dall'art. 31 della L. 17.08.1942, n. 1150, come sostituito dall'art. 10 della L. 06.08.1967, n. 765 e dall'art. 4 della L. 28.01.1977, n. 10 l'inizio dei lavori può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da manifestare una effettiva volontà da parte del concessionario di realizzare il manufatto assentito e tale non può considerarsi il semplice sbancamento del terreno (cfr. ex multis, Cons. St., Sez. V, 22.11.1993, n. 1165, ma anche TAR Marche Ancona, Sez. I, Sent., 13.03.2008, n. 195).
Nel caso di specie, nei tre lotti attinti dal provvedimento dichiarativo decadenziale veniva notata la realizzazione (soltanto) di “movimenti terra e gittata di uno strato di battuto di calcestruzzo a circoscrivere le fondamenta della costruzione a farsi”.
Appare evidente pertanto che non sussistevano i requisiti minimali per ritenere che i lavori fossero stati iniziati e, stante la circostanza che erano state rilasciate a parte appellante autonome e separate concessioni edilizie non giova alla posizione di quest’ultima il richiamo all’avvenuto inizio dei lavori nell’altro lotto.
La prescrizione relativa all’inizio “serio e comprovato” delle opere assentite entro l’anno risponde ad un evidente interesse pubblico, incidente sui poteri programmatori dell’amministrazione comunale: si è detto infatti, in passato, che affinché non operi la decadenza della concessione edilizia per mancato inizio dei lavori entro l'anno, non possono essere valutate come cause di forza maggiore le libere scelte imprenditoriali, come tali implicanti un'alea, le cui conseguenze negative non possono che essere imputate al concessionario (tra le tante, TAR Sicilia Catania Sez. I, 21.11.2006, n. 2316).
Esattamente, ad avviso del Collegio il comune ha riscontrato il mancato inizio dei lavori sui lotti per cui è causa (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.04.2013 n. 2027 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ai fini della qualificazione di un rapporto giuridico non deve aversi riguardo tanto al nomen juris speso dalle parti per designarlo, quanto alle caratteristiche da esso effettivamente rivestite nella sua concreta attuazione.
Parimenti, è stato rimarcato, quanto alla qualificazione del provvedimento, che “nell'interpretazione dell'atto amministrativo, ai fini della sua qualificazione, si deve tener conto non del nomen juris assegnatogli dall'autorità emanante, ma del suo effettivo contenuto e di quanto esso effettivamente dispone: ciò, in quanto la sostanza dell'atto prevale sul nomen juris che la P.A. abbia inteso utilizzare”.
È costante, infatti, l'indirizzo giurisprudenziale in base al quale, nell'interpretazione dell'atto amministrativo, ai fini della sua qualificazione, si deve tener conto non del nomen juris assegnatogli dall'autorità emanante, ma del suo effettivo contenuto e di quanto esso effettivamente dispone: ciò, in quanto la sostanza dell'atto prevale sul nomen juris che la P.A. abbia inteso utilizzare.

Quanto alla prima censura, rammenta il Collegio che, per pacifica giurisprudenza, “ai fini della qualificazione di un rapporto giuridico non deve aversi riguardo tanto al nomen juris speso dalle parti per designarlo, quanto alle caratteristiche da esso effettivamente rivestite nella sua concreta attuazione” (Cons. Stato Sez. V, 19.11.2012, n. 5848); parimenti, è stato rimarcato, quanto alla qualificazione del provvedimento, che “nell'interpretazione dell'atto amministrativo, ai fini della sua qualificazione, si deve tener conto non del nomen juris assegnatogli dall'autorità emanante, ma del suo effettivo contenuto e di quanto esso effettivamente dispone: ciò, in quanto la sostanza dell'atto prevale sul nomen juris che la P.A. abbia inteso utilizzare” (TAR Lazio Latina Sez. I, 22.10.2012, n. 791).
È costante, infatti, l'indirizzo giurisprudenziale in base al quale, nell'interpretazione dell'atto amministrativo, ai fini della sua qualificazione, si deve tener conto non del nomen juris assegnatogli dall'autorità emanante, ma del suo effettivo contenuto e di quanto esso effettivamente dispone (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. II, 14.11.2011, n. 8828): ciò, in quanto la sostanza dell'atto prevale sul nomen juris che la P.A. abbia inteso utilizzare (v. C.d.S., Sez. V, 16.09.2011, n. 5211 ma si veda anche ex multis, TAR Lazio, Roma, Sez. II, 03.11.2009, n. 10782, TAR Lazio, Latina, Sez. I, 21.07.2011, n. 614)
Nel caso di specie sia i presupposti oggettivi posti a sostegno del provvedimento decadenziale che il dato fattuale che ad avviso del comune lo giustificava erano riconducibili alla prescrizione di cui all’articolo 31 della legge 1150 del 1942: l’errato nomen del provvedimento non rileva affatto (e soltanto per completezza, comunque, si fa presente che non è sporadica, in dottrina, la riconducibilità della sanzione della decadenza ad un lato concetto di “autotutela”, intesa qual deliberazione atta a vanificare gli effetti di un precedente provvedimento) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.04.2013 n. 2027 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Legittimità ordinanza per cessazione dell’utilizzo nel locale discoteca di diffusori e strumenti sonori.
E’ legittima l’ordinanza con cui si dispone la cessazione dell’utilizzo nel locale discoteca di diffusori e strumenti sonori, e l’eventuale riutilizzazione, da autorizzarsi con apposito atto, alla presentazione all’Azienda USL di documentazione attestante l’attuazione di tutti gli interventi indicati dal tecnico competente per non rendere possibile il superamento dei limiti prescritti dalla vigente normativa in materia di inquinamento acustico.
L’articolo 16 della legge regionale della Puglia del 12.02.2002 n. 3, prescrive che “in ogni caso”, quindi indipendentemente dalla zonizzazione acustica del territorio comunale con la classificazione del territorio medesimo mediante suddivisione in zone omogenee di destinazione d'uso, le emissioni sonore delle attività “ricreative svolte all’aperto” qual è quella esplicata dal locale discoteca non debbano superare i 55 db nell’orario 19-24; limite, questo, imposto anch’esso dalla “normativa vigente”, da misurarsi “sulla facciata dell’edificio più esposto”.
Inoltre, proprio la mancanza di piano di zonizzazione acustica, il quale avrebbe reso applicabili limiti più rigorosi, il dato che l’area interessata fosse di fatto residenziale, il periodo estivo, che costringeva gli abitanti a tenere aperte le finestre, e la sistematicità (cioè non occasionalità) dell’attività in questione a maggior ragione evidenziavano la necessità e l’urgenza indilazionabili di agire per tutelare la salute pubblica dall’inquinamento acustico
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 15.04.2013 n. 2025 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Legittimità vincolo paesaggistico su tutto il territorio comunale
E’ legittima la sottoposizione di un intero territorio comunale a vincolo paesaggistico, quando il relativo provvedimento si basa su concreti e specifici indici “dell’interesse paesistico dominante”, che riguardi la specificità dei luoghi.
Per la pacifica giurisprudenza, che il Collegio condivide e fa propria, è legittima la sottoposizione di un intero territorio comunale a vincolo paesaggistico, quando il relativo provvedimento si basa su concreti e specifici indici “dell’interesse paesistico dominante”, che riguardi la specificità dei luoghi (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 21.07.2011, n. 4429).
Nel caso in esame, il decreto di apposizione del vincolo n. 10 del 2011 ed i documenti ad esso allegati -con una motivazione ampia, puntuale ed articolata- hanno evidenziato l’esistenza di caratteri unitari e del tutto singolari sotto il profilo naturalistico-ambientale, tali da far ragionevolmente rientrare l’intero territorio comunale di Irsina in un ambito complessivamente meritevole della protezione di cui all’art. 136, lettera d), del d.Lgs. n. 42 del 2004.
Infatti, con una motivazione approfondita, gli atti impugnati in primo grado hanno evidenziato le caratteristiche complessive della zona da sottoporre a vincolo, la natura omogenea ed inalterata del paesaggio agrario lucano ivi riscontrabile ed alla “scenografia paesisticamente unitaria” del territorio comunale irsinese, in tutte le sue parti, sia meridionali che settentrionali.
I riferimenti all’abitato di Irsina, alle case coloniali della Riforma Fondiaria, al Borgo Taccone ed all’antico tracciato ferroviario e cioè a situazioni ricomprese nella parte settentrionale del territorio, contenute nei citati documenti, confermano le caratteristiche unitarie del territorio stesso.
L’Amministrazione competente alla imposizione del vincolo paesaggistico -nell’esercizio della propria discrezionalità tecnica- ben può individuare l’intero territorio comunale come meritevole di protezione, sulla base di una adeguata motivazione, senza isolare singole aree: la relativa valutazione, in quanto tale, è insindacabile da parte del giudice amministrativo (Cons. Stato, Sez. VI, 21.07.2011, n. 4429 e Cons. Stato, Sez. IV, 20.03.2006, n. 1470).
Profili di eccesso di potere non emergono dalla circostanza che i Comuni confinanti a quello di Irsina non siano stati sottoposti al medesimo vincolo, né emergono dal fatto che anche altri territori comunali, pur avendo pregi non dissimili, non siano stati ancora sottoposti al vincolo.
In primo luogo, la scelta tecnico-discrezionale di apporre il vincolo sulla sola area irsinese risulta, come precedentemente rilevato, sufficientemente motivata in relazione alle specificità del territorio in esame.
In secondo luogo, le osservazioni del Comitato Tecnico scientifico ministeriale evidenziano un orientamento cui intende ispirarsi l’Amministrazione statale, circa la considerazione della proposta di vincolo in esame “quale primo atto di tutela di un sistema paesaggistico più esteso”: d’altra parte, ben può l’Amministrazione statale differire nel tempo l’emanazione dei provvedimenti riguardanti l’imposizione dei vincoli anche quando si tratti di interi territori comunali, in ragione anche delle esigenze di natura organizzativa degli uffici, che devono curarne l’istruttoria
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato Sez. VI, sentenza 12.04.2013 n. 2000 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La tutela del paesaggio è affidata alla competenza esclusiva della Stato mentre è attribuita alla legislazione concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.) la valorizzazione dei beni ambientali.
La giurisprudenza costituzionale ha rilevato, altresì, che “il paesaggio non dev’essere limitato al significato di bellezza naturale, ma va inteso come complesso dei valori inerenti al territorio” e conseguentemente come bene “primario” ed “assoluto” necessitante di una tutela unitaria e supportata pure da competenze regionali, sempre nell’ambito di standard stabiliti a livello statale.
Nel contesto normativo così delineato si inserisce la disposizione di cui all’art. 138, comma 3, del d.Lgs. n. 42 del 2004 (nel testo introdotto dall'articolo 2, comma 1, lettera h), del d.Lgs. n. 63 del 2008), in applicazione del quale si è svolto il procedimento in esame, secondo cui “è fatto salvo il potere del Ministero, su proposta motivata del soprintendente, previo parere della regione interessata, che deve essere motivatamente espresso entro e non oltre trenta giorni dalla richiesta, di dichiarare il notevole interesse pubblico degli immobili e delle aree di cui all'articolo 136”.

Ai sensi del combinato disposto dell’art. 117, secondo comma, lettera s), e dell’art. 9, secondo comma, della Costituzione, la tutela del paesaggio è affidata alla competenza esclusiva della Stato mentre è attribuita alla legislazione concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.) la valorizzazione dei beni ambientali (per tutte, vedi la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 9 del 2001, nonché Sez. VI, 29.01.2013, n. 535).
La giurisprudenza costituzionale ha rilevato, altresì, che “il paesaggio non dev’essere limitato al significato di bellezza naturale, ma va inteso come complesso dei valori inerenti al territorio” (Corte Cost., 07.11.1994, n. 379) e conseguentemente come bene “primario” ed “assoluto” (Corte Cost., 05.05.2006, nn. 182 e 183) necessitante di una tutela unitaria e supportata pure da competenze regionali, sempre nell’ambito di standard stabiliti a livello statale (Corte Cost., 22.07.2004, n. 259).
Nel contesto normativo così delineato si inserisce la disposizione di cui all’art. 138, comma 3, del d.Lgs. n. 42 del 2004 (nel testo introdotto dall'articolo 2, comma 1, lettera h), del d.Lgs. n. 63 del 2008), in applicazione del quale si è svolto il procedimento in esame, secondo cui “è fatto salvo il potere del Ministero, su proposta motivata del soprintendente, previo parere della regione interessata, che deve essere motivatamente espresso entro e non oltre trenta giorni dalla richiesta, di dichiarare il notevole interesse pubblico degli immobili e delle aree di cui all'articolo 136(Consiglio di Stato Sez. VI, sentenza 12.04.2013 n. 2000 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il Piano per gli Insediamenti commerciali svolge funzione esaustiva di ogni esigenza sia di carattere commerciale, sia di carattere urbanistico.
Dall'esame della normativa ex d.lgs. n. 114 del 1998 è emersa la chiara volontà del legislatore di assegnare al Piano per gli Insediamenti commerciali una funzione esaustiva di ogni esigenza sia di carattere commerciale, sia di carattere urbanistico.
Di tale espressa ed inequivoca volontà legislativa è prova il tenore dell'art. 6 d.lgs. n. 114 del 1998, il quale, nel demandare alle Regioni la definizione dei criteri generali in materia, affida alle medesime il compito di fissare "i criteri di programmazione urbanistica riferiti al settore commerciale" cui dovranno essere adeguati gli strumenti urbanistici regionali, deputati ad individuare le aree da destinare agli insediamenti commerciali, i vincoli e le prescrizioni vigenti in tali aree.
D'altronde, tale interpretazione è risultata del tutto ragionevole anche sul piano logico-sistematico, non essendo di certo coerenti con il principio di buon andamento amministrativo l'eventuale duplicazione e distinzione di funzioni di programmazione e pianificazione con riferimento al medesimo territorio, con la conseguente, paradossale intersecazione di atti generali e/o di pianificazione.

Già dall'esame della normativa (anche nazionale – ex d.lgs. n. 114 del 1998) è emersa la chiara volontà del legislatore di assegnare al Piano per gli Insediamenti commerciali una funzione esaustiva di ogni esigenza sia di carattere commerciale, sia di carattere urbanistico.
Di tale espressa ed inequivoca volontà legislativa è prova il tenore dell'art. 6 d.lgs. n. 114 del 1998, il quale, nel demandare alle Regioni la definizione dei criteri generali in materia, affida alle medesime il compito di fissare "i criteri di programmazione urbanistica riferiti al settore commerciale" cui dovranno essere adeguati gli strumenti urbanistici regionali, deputati ad individuare le aree da destinare agli insediamenti commerciali, i vincoli e le prescrizioni vigenti in tali aree.
Dalla citata disposizione si è quindi dedotto, in primo luogo, che il legislatore non ha inteso duplicare la programmazione dell'utilizzazione del territorio, separando in due distinti atti la programmazione urbanistica e la programmazione commerciale; in secondo luogo, che l'atto di individuazione delle aree da destinare agli insediamenti commerciali costituisce "strumento urbanistico" ed è in tale strumento che devono essere sia individuate le predette aree sia dettate tutte le prescrizioni urbanistiche di specie.
D'altronde, tale interpretazione è risultata del tutto ragionevole anche sul piano logico-sistematico, non essendo di certo coerenti con il principio di buon andamento amministrativo l'eventuale duplicazione e distinzione di funzioni di programmazione e pianificazione con riferimento al medesimo territorio, con la conseguente, paradossale intersecazione di atti generali e/o di pianificazione (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato Sez. V, sentenza 11.04.2013 n. 1972 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sostituzione del manto di copertura del tetto rientra tra gli interventi di manutenzione ordinaria.
La sostituzione del manto di copertura del tetto rientra tra gli interventi di manutenzione ordinaria a condizione che non vi sia alcuna alterazione dell'aspetto o delle caratteristiche originarie, diversamente si configura una ipotesi di manutenzione straordinaria, per la quale è richiesta la denuncia di inizio attività, se non di nuova costruzione con permesso di costruire alternativo alla d.i.a..
Ai sensi dell'art. 37 del D.P.R. 380/2001, la realizzazione di interventi edilizi di cui all'ad, 22, commi 1 e 2, in assenza o in difformità della denuncia di inizio attività comporta la sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile conseguente alla realizzazione degli interventi stessi e comunque in misura non inferiore ad € 500.
Osserva il Collegio che la sostituzione del tetto può rientrare tra gli interventi di manutenzione straordinaria (art. 3, comma 1, lett. b), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 - T.U. Edilizia), in quanto tali non soggetti a permesso di costruire, purché non venga modificata la quota d'imposta o alterato lo stato dei luoghi né planimetricamente né quantitativamente rispetto alle superfici ed ai volumi preesistenti.
A ciò va aggiunto che la sostituzione del manto di copertura del tetto rientra tra gli interventi di manutenzione ordinaria a condizione che non vi sia alcuna alterazione dell'aspetto o delle caratteristiche originarie, diversamente si configura una ipotesi di manutenzione straordinaria, per la quale è richiesta la denuncia di inizio attività, se non di nuova costruzione con permesso di costruire alternativo alla d.i.a. (Cass. pen. Sez. III, 07.02.2012, n. 17411; TRGA Trentino-Alto Adige Trento Sent., 28.02.20081 n. 57) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 11.04.2013 n. 437 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Bonifiche, chiamata in responsabilità del proprietario.
Il limite procedimentale che incontra la chiamata in responsabilità del proprietario, consiste nell’illustrazione rigorosa, da parte dell’amministrazione procedente, del percorso logico-argomentativo in base al quale sia risultato possibile, coinvolgere in prima persona la proprietà.
Dovranno cioè essere indicate, nella motivazione, le modalità di ricerca utilizzate per rintracciare gli effettivi responsabili dell’inquinamento, nonché l’esito infruttuoso di tali ricerche, ovvero l’impossibilità di giungere all’accertamento dell’identità dei responsabili, ovvero il mancato intervento del responsabile, ovvero ancora l’impossibilità di intervenire da parte della stessa amministrazione così come prescritto dall’art. 250 d.lgs. n. 152 del 2006, ovvero ancora l’assenza di alcun intervento da parte dei soggetti potenzialmente interessati. Solo in presenza di tali indicazioni sarà quindi possibile procedere con la chiamata in causa del proprietario del sito, quale misura ultima di salvaguardia ambientale e sanitaria.

Deve anzitutto prendersi in esame la questione centrale dell’odierna impugnazione, ossia quella –presente in tutti gli atti di impugnazione depositati dalla ricorrente– afferente al rispetto del principio comunitario del “chi inquina paga”, canonizzato all’art. 191, par. n. 2, del TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea), a norma del quale “La politica dell'Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell'Unione. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell'azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio «chi inquina paga»”, e fatto proprio anche dalla direttiva n. 2004/35/CE.
Tale principio è stato ripreso anche dal legislatore nazionale il quale, nel varare le nuove norme in materia ambientale (d.lgs. n. 152 del 2006), lo ha richiamato in apertura della disciplina dedicata alla bonifica dei siti contaminati (art. 239, comma 1) ed ha quindi senz’altro posto a carico del “soggetto responsabile” tutti gli adempimenti finalizzati alla repressione dell’inquinamento, a cominciare dalla messa in atto delle misure di prevenzione, per continuare con lo svolgimento dell’indagine preliminare sui parametri oggetto dell’inquinamento, con la predisposizione di un piano di caratterizzazione delle aree, con l’analisi del rischio e, infine, con tutti gli interventi necessari per realizzare la bonifica e la messa in sicurezza dei luoghi (art. 242 d.lgs. n. 152 del 2006).
Quel principio comunitario, tuttavia, è direttamente connesso al profilo della necessità di un elevato livello di tutela ambientale e sanitaria, obiettivo parimenti perseguito dal diritto dell'Unione Europea e che risulta fondato sui principi della precauzione, dell'azione preventiva e della correzione in via prioritaria alla fonte dei danni causati all'ambiente, parimenti richiamati dal citato art. 191 TFUE.
In tale contesto, la regola per la quale il responsabile dell'inquinamento deve rispondere per le obbligazioni ripristinatorie e risarcitorie è stata quindi intesa dalla giurisprudenza, anche di questa Sezione, quale misura “di chiusura” (così TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, n. 4215 del 2011; TAR Piemonte, sez. II, n. 1257 del 2012 e n. 136 del 2011), beninteso non nel senso che si tratta della misura di ultima analisi ma, al contrario, che si tratta della misura iniziale e principale per affrontare la contaminazione, nella consapevolezza tuttavia che essa potrebbe non risultare sufficiente.
In tale prospettiva, si è quindi concluso nel senso che le misure di tutela necessarie ed urgenti che vengano poste a carico del proprietario del sito non hanno natura né sanzionatoria né risarcitoria, bensì di salvaguardia ambientale e sanitaria, nel superiore interesse pubblico generale ambientale ed ai fini della tutela dell'inviolabile diritto alla salute della popolazione esposta, come si ricava sia dagli artt. 2, 9 e 32 della Costituzione sia dal diritto europeo, fermi restando l'obbligo dell'Amministrazione di procedere all'individuazione del responsabile e la facoltà del proprietario di rivalersi nei suoi confronti. Tale ricostruzione, del resto, appare altresì pienamente conforme al principio generale del nostro ordinamento relativo alla funzione sociale della proprietà (art. 42 Cost.), che giustifica anche la conformazione, imposizione di pesi o oneri, ed infine la stessa estinzione per espropriazione del diritto (così, ancora, TAR Lazio, sent. n. 4215 del 2011).
Del resto, come pure affermato, recentemente ed a più riprese, dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. VI, 15.07.2010, n. 4561; sez. II, parere n. 2038 del 30.04.2012), mentre la responsabilità dell’autore dell’inquinamento costituisce una forma di responsabilità oggettiva per gli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree, sensibilmente diversa si presenta, invece, la posizione del proprietario del sito per la responsabilità del quale occorre fare riferimento ai commi 1 e 2 dell’art. 253 d.lgs. n. 152 del 2006: chi è proprietario o chi subentra nella proprietà o possesso del bene subentra anche negli obblighi connessi all’onere reale ivi previsto, indipendentemente dal fatto che ne abbia avuto preventiva conoscenza.
Quella posta in capo al proprietario è pertanto una responsabilità “da posizione”, non solo svincolata dai profili soggettivi del dolo o della colpa, ma che non richiede neppure l’apporto causale del proprietario responsabile al superamento o pericolo di superamento dei valori limite di contaminazione.
È quindi evidente che il proprietario del suolo –che non abbia apportato alcun contributo causale, neppure incolpevole, all’inquinamento– non si trova in alcun modo in una posizione analoga od assimilabile a quella dell’inquinatore, essendo tenuto a sostenere i costi connessi agli interventi di bonifica esclusivamente in ragione dell’esistenza dell’onere reale sul sito (così, da ultimo, cfr. il recente precedente della Sezione, la sent. n. 1257 del 2012).
Nel caso di specie non è dubbio che le prescrizioni previste dalle varie conferenze di servizi, poi rispettivamente recepite ed approvate dai vari decreti del Ministero dell’Ambiente indirizzati alla società ricorrente, siano state imposte a quest’ultima “in qualità di attuale proprietaria delle aree” (come si legge, ad esempio, a pag. 6 del verbale dell’ultima conferenza, quella del 24.10.2011), con ciò rendendosi chiaro che il titolo di responsabilità richiamato non era quello soggettivo o finanche oggettivo tipico degli operatori professionali la cui attività possa aver arrecato l’inquinamento (cfr. art. 3, par. n. 1, lett. a, della direttiva n. 2004/35/CE, nonché la sentenza n. 378 del 2010 della Corte di Giustizia CE), ma era quello “da posizione” che coinvolge il proprietario in quanto tale, ai sensi dell’art. 253 d.lgs. n. 152 del 2006.
Il richiamo a quest’ultima norma, tuttavia, rende evidente che anche l’attivazione della responsabilità “da posizione”, afferente alla sfera giuridica del proprietario o dei suoi aventi causa, è sottoposta a limiti, nello specifico di natura procedimentale. Specifica, infatti, il comma 3 dell’art. 253 che “Il privilegio e la ripetizione delle spese possono essere esercitati, nei confronti del proprietario del sito incolpevole dell'inquinamento o del pericolo di inquinamento, solo a seguito di provvedimento motivato dell'autorità competente che giustifichi, tra l'altro, l'impossibilità di accertare l'identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l'impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità”. Tale norma, nel riferirsi alla disciplina sui privilegi e sulla ripetizione delle spese di bonifica, è indicativa di come la responsabilità “da posizione” del proprietario debba essere, in generale, intesa: ossia, come responsabilità di natura residuale, attivabile a fini di salvaguardia ambientale e sanitaria allorché non sia stato possibile attivare i rimedi –per così dire– ordinari previsti dalla legge.
Va ricordato, in proposito, che in prima battuta (ed in ossequio al già ricordato principio basilare del “chi inquina paga”) l’ordinamento chiama a rispondere il responsabile dell’inquinamento (art. 242 d.lgs. n. 152 del 2006); qualora questi non sia individuabile, o comunque non abbia posto in essere le misure necessarie, è previsto che spetti alla stessa amministrazione procedente (che, per l’ipotesi dei siti di interesse nazionale, è il Ministero dell’Ambiente, coadiuvato da altri soggetti istituzionali, ai sensi dell’art. 252, comma 5, d.lgs. n. 152 del 2006) predisporre i necessari interventi; è poi anche previsto che il proprietario (o anche qualsiasi altro soggetto interessato) possa spontaneamente intervenire in qualsiasi momento per realizzare in prima persona le opere necessarie (art. 244, comma 4, d.lgs. n. 152 del 2006).
L’intervento coatto del proprietario, pertanto, in quanto extrema ratio di tutela ambientale e sanitaria, potrà essere stabilito solo allorché non sia stato individuato l’effettivo responsabile dell’inquinamento, ovvero questi non abbia provveduto, ovvero non sia potuta intervenire la stessa amministrazione procedente ai sensi dell’art. 250 d.lgs. n. 152 del 2006, ovvero ancora non sia intervenuto spontaneamente alcun soggetto interessato.
Il limite procedimentale che incontra la chiamata in responsabilità del proprietario, quindi, consiste nell’illustrazione rigorosa, da parte dell’amministrazione procedente, del percorso logico-argomentativo in base al quale sia risultato possibile, nel caso di specie, coinvolgere in prima persona la proprietà. Dovranno cioè essere indicate, nella motivazione, le modalità di ricerca utilizzate per rintracciare gli effettivi responsabili dell’inquinamento, nonché l’esito infruttuoso di tali ricerche, ovvero l’impossibilità di giungere all’accertamento dell’identità dei responsabili, ovvero il mancato intervento del responsabile, ovvero ancora l’impossibilità di intervenire da parte della stessa amministrazione così come prescritto dall’art. 250 d.lgs. n. 152 del 2006, ovvero ancora l’assenza di alcun intervento da parte dei soggetti potenzialmente interessati. Solo in presenza di tali indicazioni sarà quindi possibile procedere con la chiamata in causa del proprietario del sito, quale misura ultima di salvaguardia ambientale e sanitaria.
Tutto quanto precede, peraltro, deve necessariamente far salvi i principi generali in tema di responsabilità da inquinamento, nel senso che, qualora sia sussistente un collegamento eziologico tra la posizione del proprietario del sito e l’evento inquinante in atto, deve riespandersi la regola della responsabilità soggettiva per dolo o colpa. Ciò, in particolare, vale per le ipotesi in cui sia individuabile un comportamento colposo di omesso controllo o di omessa vigilanza da parte del proprietario il quale –pur avendo oggettivamente la possibilità di evitare l’innescarsi o l’aggravarsi della contaminazione, qualora avesse sottoposto l’area di sua disponibilità ai dovuti controlli– non si sia tuttavia attivato in tale direzione.
Nelle ipotesi in cui sia stata accertata la consapevolezza, in capo alla proprietà, dell’esistenza di un inquinamento in atto, sarà pertanto possibile coinvolgere quest’ultima nell’apprestamento delle misure ritenute necessarie in base alle norme generali, adducendo cioè un omesso controllo o un’omessa vigilanza giuridicamente rilevanti (nel senso di originare una posizione giuridica di garanzia) (cfr., per un caso analogo, la sentenza di questa Sezione, già citata, n. 136 del 2011) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 11.04.2013 n. 435 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIA e opere difformi.
In caso di presentazione di dichiarazione di inizio di attività, l'inutile decorso del termine previsto per legge ai fini dell’esercizio del potere inibitorio all’effettuazione delle opere non comporta che l’attività del privato, ancorché del tutto difforme dal paradigma normativo, possa considerarsi legittimamente effettuata e, quindi possa andare esente dalle sanzioni previste dall'ordinamento per il caso di sua mancata rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle previsioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi.
Ed infatti, in tali ipotesi il titolo abilitativo comunque formatosi per effetto dell'inerzia dell'amministrazione può comunque formare oggetto, alle condizioni previste in via generale dall'ordinamento, di interventi di annullamento d’ufficio o di revoca.
In siffatte ipotesi, infatti, l’amministrazione non perde i propri ordinari poteri di vigilanza e sanzionatori, il cui esercizio risponde a finalità di interesse generale e la cui connotazione presenta caratteri in parte diversi rispetto al potere esercitato al momento (per così dire ‘genetico’) della formazione del titolo per silentium.

Al riguardo, il Collegio condivide (non rinvenendosi nel caso di specie ragioni per discostarsene) l’orientamento secondo cui, in caso di presentazione di dichiarazione di inizio di attività, l'inutile decorso del termine previsto per legge ai fini dell’esercizio del potere inibitorio all’effettuazione delle opere (nel caso di specie, si tratta del termine di cui ai commi 11 e 15 dell’articolo 4 del decreto-legge 398 del 1993) non comporta che l’attività del privato, ancorché del tutto difforme dal paradigma normativo, possa considerarsi legittimamente effettuata e, quindi possa andare esente dalle sanzioni previste dall'ordinamento per il caso di sua mancata rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle previsioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi.
Ed infatti, in tali ipotesi il titolo abilitativo comunque formatosi per effetto dell'inerzia dell'amministrazione può comunque formare oggetto, alle condizioni previste in via generale dall'ordinamento, di interventi di annullamento d’ufficio o di revoca.
In siffatte ipotesi, infatti, l’amministrazione non perde i propri ordinari poteri di vigilanza e sanzionatori, il cui esercizio risponde a finalità di interesse generale e la cui connotazione presenta caratteri in parte diversi rispetto al potere esercitato al momento (per così dire ‘genetico’) della formazione del titolo per silentium (in tal senso: Cons. Stato, IV, 30.07.2012, n. 4318) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.04.2013 n. 1909 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Legittimità ordinanza per cessazione attività rumorose a danno di un solo cittadino.
E' legittima l'ordinanza contingibile ed urgente del Sindaco con la quale si ordina di sospendere con effetto immediato l'attività di essiccazione del mais ed ogni altra lavorazione che comporti emissioni acustiche superiori ai limiti di legge, anche a danno di un solo cittadino.
Il potere di ricorrere a siffatto strumento eccezionale deve ritenersi consentito in presenza di fenomeni di inquinamento acustico accertati dall’ARPA, tenuto conto del fatto che siffatto inquinamento viene esplicitamente ritenuto dalla L. 447/1995 pericoloso per la salute umana e che né l’Amministrazione né il cittadino esposto all’inquinamento hanno a disposizione alcun diverso strumento al fine di ottenere nel breve termine un abbattimento o la cessazione delle emissioni sonore.
La stessa giurisprudenza ha anche ritenuto che le ordinanze di cui all’art. 9 della L. 447/1995 si giustifichino anche qualora l’inquinamento accertato non coinvolga l’intera collettività, stante che il concetto di “salute pubblica” non può interpretarsi in senso restrittivo, cioè come riferito alla condizione fisica di tutti i cittadini o di un insieme di essi: chiunque si trovi esposto a situazioni pericolose per la salute deve essere tutelato da parte dello Stato e delle istituzioni che lo rappresentano, e ciò anche in coerenza con il dettato di cui all’art. 32 Cost..
Conseguentemente ai fini di che trattasi per “salute pubblica” deve intendersi non la salute di tutti i cittadini ma la salute di qualunque cittadino.

Tanto sopra premesso in punto di fatto, il Collegio ritiene che il ricorso non possa essere accolto.
A migliore comprensione della decisione va ricordato che in materia di immissioni acustiche la normativa vigente (L. 447/1995 e D.P.C.M. 14/11/1997) richiede il rispetto di diversi tipi di limiti e precisamente:
a) il c.d. limite di emissione, che rappresenta il massimo rumore producibile da una sorgente sonora misurato in prossimità della sorgente stessa;
b) il c.d. limite di immissione, che rappresenta invece il massimo rumore che può essere immesso da una o più sorgenti sonore all’interno di un ambiente abitativo, misurato in prossimità dei ricettori;
c) il c.d. limite differenziale, che rappresenta la soglia di rumore ambientale equivalente oltre la quale la differenza tra tale rumore ed il rumore di fondo non deve superare determinati limiti.
L’art. 4 del D.P.C.M. 14.11.1997 fissa detti limiti in 5 Db durante il giorno ed i 3 dB durante il periodo notturno e la soglia oltre la quale si deve far luogo alla verifica di tale valore differenziale é quella dei 50 dB del rumore ambientale equivalente misurato di giorno a finestre aperte, e di 35 dB del rumore stesso misurato di notte a finestre chiuse.
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Tanto chiarito in punto di fatto si deve ora esaminare la questione, sollevata in ricorso, se le ordinanze di cui all’art. 9 della L. 447/1995 possano essere adottate anche a tutela di un solo privato cittadino e sul presupposto del mero superamento dei limiti di cui al D.P.C.M. 14.11.1997.
A tali quesiti la giurisprudenza, con decisioni che il Collegio ha già ritenuto condivisibile (TAR Piemonte n. 1382/2012), ha già dato risposta positiva, mettendo in evidenza che il potere di ricorrere a siffatto strumento eccezionale deve ritenersi consentito in presenza di fenomeni di inquinamento acustico accertati dall’ARPA, tenuto conto del fatto che siffatto inquinamento viene esplicitamente ritenuto dalla L. 447/1995 pericoloso per la salute umana e che né l’Amministrazione né il cittadino esposto all’inquinamento hanno a disposizione alcun diverso strumento al fine di ottenere nel breve termine un abbattimento o la cessazione delle emissioni sonore. (si veda in particolare TAR Campania-Napoli, n. 3556/2011).
La stessa giurisprudenza ha anche ritenuto che le ordinanze di cui all’art. 9 della L. 447/1995 si giustifichino anche qualora l’inquinamento accertato non coinvolga l’intera collettività, ed anche tale proposizione viene condivisa dal Collegio, stante che il concetto di “salute pubblica” non può interpretarsi in senso restrittivo, cioè come riferito alla condizione fisica di tutti i cittadini o di un insieme di essi: chiunque si trovi esposto a situazioni pericolose per la salute deve essere tutelato da parte dello Stato e delle istituzioni che lo rappresentano, e ciò anche in coerenza con il dettato di cui all’art. 32 Cost..
Conseguentemente ai fini di che trattasi per “salute pubblica” deve intendersi non la salute di tutti i cittadini ma la salute di qualunque cittadino (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 05.04.2013 n. 422 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Ordinanza di bonifica e partecipazione del soggetto interessato.
L'attività istruttoria del procedimento di bonifica deve prevedere la partecipazione del soggetto interessato e, in particolare, gli accertamenti analitici devono essere effettuati in contraddittorio.
Deve, infatti, rilevarsi che, quand’anche possa considerarsi provata al presenza di agenti inquinanti nel terreno in questione, deve essere provata anche l’imputabilità dell’evento.

Come la prevalente giurisprudenza ha avuto modo di chiarire, “l'attività istruttoria del procedimento di bonifica deve prevedere la partecipazione del soggetto interessato e, in particolare, gli accertamenti analitici devono essere effettuati in contraddittorio (TAR Lombardia Milano, sez. I, 19.04.2007, n. 1913; TAR Friuli Venezia Giulia, 27.07.2001, n. 488)” (TAR Toscana, Sez. II, 06.05.2009, n. 762).
Deve, infatti, rilevarsi che, quand’anche possa considerarsi provata al presenza di agenti inquinanti nel terreno in questione, non è in alcun modo provata l’imputabilità dell’evento, tanto meno in via esclusiva, alle operazioni di scavo condotte dal Sig. Stabile per conto dei ricorrenti (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 03.04.2013 n. 134 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVOROObblighi del coordinatore per l’esecuzione dei lavori.
Esemplare continua ad essere l’analisi svolta dalla Corte Suprema in ordine agli obblighi e alle responsabilità del coordinatore per l’esecuzione dei lavori (quanto alla posizione di garanzia dei coordinatori v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, IV edizione, Milano, 2012, 501 ss. e 508 ss., cui aggiungi Cass. 14.02.2013, Palmisano e altri, in ISL, 2013, 4; 224; Cass. 01.10.2012, Cassera e altro, e Cass. 26.09.2012, Farina e altro, ibid., 2013, 1, 39; Cass. 10.08.2012, P.C. in c. Torlaschi, ibid., 2012, 11, 609; Cass. 14.06.2012, Gencarelli, e Cass. 07.06.2012, Goracci, ibid., 2012, 10, 544).
Il dipendente di un’impresa appaltatrice di lavori di scavo e di trasporto con mansione di autista era stato schiacciato sotto il cancello metallico di accesso all’area del cantiere uscito dalle guide di scorrimento. Oltre ai datori di lavoro dell’infortunato e all’appaltatore della costruzione del cancello, fu condannato il coordinatore per l’esecuzione dei lavori, con l’addebito di «non aver adeguato il piano di sicurezza e di coordinamento (PSC) ed il fascicolo di prevenzione in relazione all’evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, ai rischi conseguenti al sopravvenuto accesso al cantiere attraverso il cancello de quo e non aver quindi verificato l’idoneità del piano operativo di sicurezza della impresa datrice di lavoro rispetto alla valutazione del rischio attinente all’accesso al cantiere e conseguentemente alla individuazione delle relative misure di prevenzione e di protezione
La Sez. IV premette che «più imprese appaltatrici operavano sul cantiere e una molteplicità di imprese risultavano incaricate di operare nell’area della società committente
Ne ricava «la sussistenza della ragion d’essere della presenza del coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione (CSE): ruolo che l’imputato era tenuto a svolgere per la durata di tutti lavori di ampliamento del capannone con annessa tettoia, con gli obblighi previsti, a nulla rilevando che egli avesse disposto la sospensione dei lavori per la mancanza del permesso a costruire tant’è vero che successivamente ebbe ad effettuare altro sopralluogo sul cantiere
Rileva che «l’imputato, in violazione in particolare della posizione di garanzia di cui era investito quale coordinatore per l’esecuzione dei lavori, ha cooperato con gli altri imputati alla determinazione dell’evento
Spiega che «egli (per effetto dei precisi obblighi assunti con la nomina a CSE) non era perfettamente a conoscenza anche prima della data di sospensione dei lavori, come dimostrato dai verbali dei numerosi sopralluoghi da lui stesso redatti previo accesso al cantiere, dello stato di intrinseca pericolosità e di precaria stabilità del cancello, comunque utilizzato per l’accesso al cantiere benché privo del fermo di fine corsa», che, «ciononostante, nel Piano di sicurezza in fase di progettazione neppure si accennava al cancello scorrevole in acciaio (causa del mortale infortunio) attraverso il quale ordinariamente si accedeva al cantiere», e che non «risultavano integrazioni di detto piano di sicurezza
La conclusione è che «il rischio per l’incolumità dei lavoratori dei terzi, derivante delle descritte condizioni del cancello, non era stato minimamente valutato e che pertanto l’evento -del tutto prevedibile visto che l’impresa datrice di lavoro comunque disponeva delle chiavi di accesso al cantiere e, quale appaltatrice, aveva del tutto legittimamente incaricato il dipendente di recarsi a prelevare un escavatore- si sarebbe potuto evitare ove l’imputato avesse adempiuto ai suoi obblighi.» (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 06.03.2013 n. 10319
- tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 5/2013).

SICUREZZA LAVOROResponsabilità del RSPP con funzioni operative dell’impresa appaltatrice in cantiere.
In un cantiere di opere pubbliche appaltate da un comune per il consolidamento di un movimento franoso con presenza di più imprese esecutrici, per l’infortunio mortale occorso a un lavoratore della s.r.l. appaltatrice furono condannati il presidente del consiglio di amministrazione, l’amministratore delegato-direttore tecnico, il vicepresidente, e il RSPP della s.r.l., (a sorpresa, non risulta considerata la posizione dell’organizzazione committente).
La Sez. IV conferma la condanna anche del RSPP.
Rileva che «la responsabilità del predetto viene ravvisata nell’assunzione di garanzia circa l’esecuzione dei lavori derivante dall’accettazione della delega che gli attribuiva funzioni operative in materia di sicurezza, rispetto alla quale non può assumere rilievo la dedotta estromissione da parte degli amministratori e la privazione delle concrete possibilità di intervenire (‘egli aveva soltanto la possibilità o di adoperarsi in concreto per adempiere l’incarico ricevuto malgrado gli ostacoli frapposti dagli amministratori o di rinunciare all’incarico formalmente, ottenendo così l’esonero da responsabilità’’)
Ne desume che, «in primo luogo, l’imputato, quale soggetto assuntore di fatto, in forza di delega, della responsabilità del cantiere, era tenuto a sorvegliare circa le attività, anche non previste o programmate, che si svolgevano presso il medesimo, quali quelle avvenute in occasione dell’incidente
Osserva che, «prescindendo da chi in concreto dispose l’interruzione della sospensione dei lavori, i fatti avvenuti il giorno dell’infortunio evidenziano omissioni relative alle dotazioni di sicurezza del cantiere riferibili all’imputato
in ragione tanto della delega menzionata, quanto della posizione di responsabile del servizio di prevenzione e protezione della s.r.l..
»
Spiega che «si tratta di manchevolezze attinenti a presidi da attuare in epoca precedente al giorno dell’infortunio e, quindi, rientranti nella sfera di controllo di quest’ultimo in forza del menzionato duplice titolo
Prende atto delle «macroscopiche omissioni degli obblighi concernenti l’informazione e la formazione del personale spettanti al servizio di prevenzione e protezione, nonché la mancata realizzazione di misure tecnico-organizzative e adeguate opere di protezione ai fini della corretta e sicura esecuzione dell’attività lavorativa, e,
in particolare, di idonei, stabili e ancorati ponteggi.»
E conclude che, «In presenza della descritta situazione, la responsabilità dell’evento non può essere ascritta esclusivamente a chi ha trasgredito il provvedimento di sospensione dei lavori, ma anche a colui cui sono riconducibili macroscopiche pregresse violazioni relative alla sicurezza del cantiere.» (Circa le responsabilità del RSPP v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, IV edizione, Milano, 2012, 342, cui adde Cass. 21.12.2012, R.C., Lovison e altro, in ISL, 2013, 2, 106) (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 26.02.2013 n. 9154
- tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 4/2013).

SICUREZZA LAVOROGli obblighi di cooperazione e coordinamento del datore di lavoro committente.
Ancora un’utile sentenza sugli obblighi del datore di lavoro committente nel quadro dell’art. 26 D.Lgs. n. 81/2008 (per una illustrazione di tali obblighi v. Guariniello, Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza, IV edizione, Milano, 2012, specialmente 260 ss., cui adde Cass. 19.09.2012, R.C., Pinto  e altri, in ISL, 2012, 12, 673; Cass. 20.09.2012, Varvarotto e altro, ibid., 2012, 11, 611; Cass. 10.08.2012, Bifulco, ibid., 2012, 11, 611; Cass. 10.07.2012, Sguassero e altro, ibid., 2012, 8-9, 488; Cass. 11.05.2012, P.C. e Andreacchio, ibid., 2012, 7, 425).
Nel caso esaminato dalla Corte Suprema, il datore di lavoro committente di lavori di ritiro del materiale contenuto in un silo della sua azienda fu riconosciuto colpevole del delitto di omicidio colposo in danno di un lavoratore dipendente dell’impresa appaltatrice dei lavori di ritiro e deceduto per asfissia all’interno del silo, «essendo rimasto sepolto da diversi metri cubi di segatura che lo avevano investito e fatto cadere all’interno del manufatto mentre era intento alle operazioni di svuotamento e di recupero degli scarti di lavorazione
Due i profili di colpa addebitati all’imputato: «la mancata predisposizione di cautele contro il rischio di caduta all’interno del silo dal portello laterale; la mancanza di personale in grado di attivare interventi di salvataggio e di primo soccorso
La Sez. IV prende atto che, «mentre il documento di valutazione dei rischi della impresa appaltatrice prevedeva, in caso di ritiro del materiale presso il cliente, sia il presidio di quest’ultimo che il divieto di operare su impianti altrui, quello della impresa committente prevedeva che le operazioni di scarico del silo fossero affidati a terzi, ai quali spettava di adottare le necessarie misure di sicurezza», e che «tale evidente contraddizione era stata ritenuta in contrasto con l’obbligo di coordinamento e di cooperazione prescritto dall’art. 26, comma 2, D.Lgs. n. 81/2008 che individua un preciso profilo di responsabilità in capo all’imputato, la cui tesi, diretta ad escludere la sussistenza tra le due imprese di un contratto di appalto, ma solo di fornitura, è stata respinta
Rileva, altresì, che «negli accordi in concreto intercorsi tra le due imprese doveva rinvenirsi un rapporto assimilabile all’appalto quanto agli obblighi in materia di prevenzione degli infortuni, e quindi al rispetto delle relative norme», visto che la vittima non si limitava a prelevare la segatura, oggetto del contratto di fornitura, ma provvedeva anche allo svuotamento del silo», e che, quindi, «a margine del rapporto di fornitura, il lavoratore concretamente svolgeva un’attività strettamente connessa con l’attività produttiva della impresa committente, poiché questa, per poter procedere, non poteva prescindere dal periodico svuotamento del silo, al quale da anni il lavoratore deceduto provvedeva ogni quindici giorni
Sottolinea, altresì, che, «a fronte dei divergenti contenuti dei documenti di valutazione dei rischi riconducibili due imprese (quello dell’impresa appaltatrice prevedeva che l’accesso presso i clienti per il ritiro del materiale si dovesse svolgere alla presenza del cliente o di un suo rappresentante, con il divieto di operare sugli impianti altrui; quello della impresa committente prevedeva che le operazioni di scarico della segatura fossero affidate a terzi che avrebbero dovuto adottare idonee misure di sicurezza), non poteva non ritenersi indispensabile un coordinamento tra le due ditte, idoneo a chiarire un aspetto di tanta rilevanza, ai fini della sicurezza, nello svolgimento frequente e pluridecennale delle segnalate attività
Osserva che «di tale coordinamento, giustamente ritenuto riconducibile alla normale diligenza e prudenza che sempre deve sovraintendere alle attività imprenditoriali, non poteva non farsi carico l’imputato, al quale, in ogni caso, in quanto proprietario degli impianti, spettava di garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro, con riguardo non solo ai propri dipendenti, ma anche a chiunque, pur estraneo all’impresa, fosse chiamato a svolgere la propria opera all’interno della stessa
Nota che «proprio all’imputato, e proprio ai fini della sicurezza del luogo di lavoro, spettava di installare idonei presidi, volti a garantire che gli interventi sul silo, di cui era proprietario, a chiunque e per qualunque motivo affidati, si svolgessero in condizioni di sicurezza
Ne desume che, «al di là della qualificazione giuridica del rapporto intercorrente tra le due ditte sopra indicate, ciò che comunque rileva è che le condizioni di lavoro nel silo non garantivano la sicurezza degli addetti, dipendenti o meno dell’imputato», e che «il principale profilo di colpa a costui attribuito è stato individuato nell’avere omesso di adottare misure idonee ad impedire la caduta all’interno del silo di persone addette allo svuotamento dello stesso, come il lavoratore deceduto ovvero ad altre mansioni» (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 26.02.2013 n. 9153
- tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 4/2013).

EDILIZIA PRIVATA: INAPPLICABILITA' DELLA SANATORIA PER I REATI IN TEMA DI CEMENTO ARMATO.
La circostanza che le violazioni edilizie siano assentibili ex post non rileva ai fini della normativa in materia di conglomerato cementizio armato, in quanto quest’ultima è finalizzata a garantire l’esercizio del controllo preventivo della p.a. sulle attività edificatorie mediante cemento armato, sicché non è possibile affermare una esclusione effettiva di pericolosità.
La Corte di Cassazione torna nuovamente a pronunciarsi, con la sentenza in esame, sulla disciplina dettata dal D.P.R. n. 380/2001 in tema di costruzioni in cemento armato, analizzando più specificamente il tema dell’applicabilità dei possibili effetti di una sanatoria postuma sui reati correlati. La vicenda processuale segue all’ordinanza cautelare con cui l’A.G. ha disposto il sequestro di alcuni manufatti con riferimento alla violazione degli artt. 71 e 75 D.P.R. n. 380/2001, concernenti, cioè, la normativa sul cemento armato.
Contro l’ordinanza reiettiva dell’istanza di dissequestro, proponeva ricorso per cassazione la difesa degli indagati censurandola per violazione di legge, in quanto si sarebbe al cospetto di una mera presunzione di pericolosità dell’immobile per mera violazione di precetti formali; in altri termini, si muove dall’assunto che anche i reati edilizi sono assentibili ex post con sanatoria, mentre la violazione di cui si discute è risolubile anche solo con una oblazione; del resto, aggiunge la difesa, non esiste giurisprudenza di legittimità che giustifichi il sequestro motivato esclusivamente sul mancato rispetto della normativa sul cemento armato.
La Corte respinge la tesi difensiva, in quanto destituita di fondamento. In particolare, osservano gli Ermellini, oggetto e finalità della normativa sul cemento armato (così come di quella antisismica) sono quelle di evitare possibili crolli, e non di regolare l’assetto e lo sviluppo del territorio sotto il profilo urbanistico. La riprova di tale principio è che la contravvenzione a tale disciplina non viene meno neanche con l’estinzione, anche se per rilascio di sanatoria, del reato edilizio.
Né rileva, come invece ritiene la difesa, che si sarebbe al cospetto di mere violazioni formali, perché l’assunto è smentito dalla circostanza che, quando l’edificazione avvenga in cemento armato, l’osservanza delle prescrizioni imposte è prescritta proprio al fine di assicurare la stabilità e sicurezza delle strutture di questo tipo (V., tra le tante: Cass. pen., sez. III, 17.10.1995, n. 10370, in Ced Cass., n. 203089). Nessun pregio ha, infine, per la Corte, il richiamo dei ricorrenti al fatto che persino le violazioni edilizie siano assentibili ex post, perché la normativa di cui si discute è finalizzata a garantire l’esercizio del controllo preventivo della p.a. sulle attività edificatorie mediante cemento armato e, nella specie, non poteva affermarsi, allo stato, una esclusione effettiva di pericolosità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.02.2013 n. 8067 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 5/2013).

EDILIZIA PRIVATA: L’ACCERTAMENTO TARDIVO DI COMPATIBILITA` PAESAGGISTICA HA VALORE DI AUTORIZZAZIONE PAESISTICA.
L’accertamento di compatibilità paesaggistica, ai sensi del D.Lgs. n. 42 del 2004 (art. 167), ove emanato oltre il termine perentorio -per previsione espressa di legge- di 180 giorni previsto dal D.Lgs. n. 42 del 2004 (art. 181, comma 1-quater), va qualificato come rilascio postumo di autorizzazione paesistica, il quale ha l’effetto di escludere la rimessione o l’esecuzione dell’ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Corte di Cassazione, nella sentenza in esame, verte sulla valenza giuridica che può assumere il provvedimento di accertamento di compatibilità paesaggistica intervenuto oltre il termine perentorio di legge.
La vicenda processuale segue alla conferma, in sede d’appello, di una sentenza di condanna per il delitto di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004 (art. 181, comma 1- bis), inflitta al proprietario di un immobile per avere realizzato un locale seminterrato in assenza di autorizzazione paesaggistica in zona vincolata e dichiarata di notevole interesse pubblico. I giudici di merito avevano argomentato la decisione rilevando che, trattandosi di immobile realizzato in zona di notevole interesse pubblico, e non potendosi considerare opera di minore impatto paesaggistico (in considerazione della creazione di un nuovo volume fuori terra) non poteva trovare applicazione la causa di non punibilità di cui all’art. 181, comma 1-ter, D.Lgs. n. 42/2004, perché non era ancora stata accertata la compatibilità paesaggistica, malgrado il parere favorevole prodotto dalla difesa.
Infine, la sentenza impugnata rilevava che il mancato perfezionamento dell’iter della richiesta di accertamento della compatibilità paesaggistica impediva di revocare l’ordine di rimessione in pristino dei luoghi, alla cui ottemperanza era subordinata la sospensione della pena. Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per cassazione censurandola, per quanto qui di interesse, per aver confermato la sanzione accessoria della demolizione, avendo i giudici di merito illegittimamente disatteso l’istanza di rinvio o sospensione del processo per consentire il perfezionamento dell’iter riguardante l’accertamento della compatibilità paesaggistica, segnalando l’errore in cui era incorso il giudice nell’individuazione della durata del termine di conclusione del procedimento (che, a suo dire, sarebbe di 270 giorni).
La tesi, sul tale punto, è stata condivisa dalla Cassazione che, muovendo dall’accertato rilascio da parte dell’Ufficio Tutela del Paesaggio dell’accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi del D.Lgs. n. 42 del 2004 (art. 167), ha osservato che, pur essendo tale provvedimento emanato ben oltre il termine di 180 giorni previsto dal D.Lgs. n. 42 del 2004 (art. 181, comma 1-quater) -termine perentorio per previsione espressa di legge-, lo stesso deve comunque essere qualificato come rilascio postumo di autorizzazione paesistica che, però, comunque ha l’effetto di escludere la remissione o l’esecuzione dell’ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi (sulla questione non constano precedenti in termini: v., in precedenza, sui rapporti tra condono ambientale e ordine di rimessione in pristino, Cass. pen., sez. III, 31.10.2008, n. 40639, in Ced Cass., n. 241537) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.02.2013 n. 8059 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 5/2013).

GIURISPRUDENZA

SICUREZZA LAVOROGli obblighi del coordinatore per l’esecuzione dei lavori.
Magistrale continua ad essere l’analisi svolta dalla Corte Suprema in ordine agli obblighi e alle responsabilità del coordinatore per l’esecuzione dei lavori (quanto alla posizione di garanzia dei coordinatori v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, IV edizione, Milano, 2012, 501 ss. e 508 ss., cui aggiungi Cass. 01.10.2012, Cassera e altro, e Cass. 26.09.2012, Farina e altro, in ISL, 2013, 1, 39; Cass. 10.08.2012, P.C. in c. Torlaschi, ibid., 2012, 11, 609; Cass. 14.06.2012, Gencarelli, e Cass. 07.06.2012, Goracci, ibid., 2012, 10, 544).
Significativo appare l’insegnamento impartito dalla presente sentenza: «la qualità di coordinatore per l’esecuzione dei lavori non è valsa in nessun caso ad escluderne la rilevante posizione di garanzia, assegnatagli dal sistema ai fini della garanzia della sicurezza dei lavoratori, in conformità all’insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, più volte ribadito nel senso della spettanza, al coordinatore per l’esecuzione dei lavori, non soltanto dei compiti organizzativi e di raccordo tra le imprese che collaborano alla realizzazione dell’opera, ma anche di quelli riguardanti la vigilanza sulla corretta osservanza delle prescrizioni del piano di sicurezza.
Trattasi di figure le cui posizioni di garanzia non si sovrappongono a quelle degli altri soggetti responsabili nel campo della sicurezza sul lavoro, ma ad esse si affiancano per realizzare, attraverso la valorizzazione di una figura unitaria con compiti di coordinamento e controllo, la massima garanzia dell’incolumità dei lavoratori
.» (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 14.02.2013 n. 7443 -
tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 4/2013).

EDILIZIA PRIVATA: OPERE INTERNE E RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA.
Poiché le cosiddette ‘‘opere interne’’ non sono più previste nel D.P.R. 06.06.2001, n. 380, come categoria autonoma d’intervento edilizio sugli edifici esistenti, i lavori prima definibili come tali rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle superfici ovvero mutamento di destinazione d’uso.
La questione oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte verte, nel caso in esame, sulla persistente rilevanza penale di quella categoria di interventi edilizi definiti tradizionalmente come ‘‘opere interne’’.
La vicenda processuale trae origine dal provvedimento con cui il Tribunale del Riesame aveva respinto l’appello che il PM aveva proposto contro il diniego del GIP di disporre il sequestro preventivo di un immobile ritenuto illegittimamente edificato; inizialmente, tale edificio era stato oggetto di sequestro probatorio la cui convalida era stata impugnata dall’indagato ed annullata dal Tribunale del Riesame sul rilievo che, semmai, il bene avrebbe dovuto essere vincolato con diversa misura.
Per tale ragione, il PM si era rivolto al GIP che, come detto, aveva respinto sostenendo non essere ravvisabili gli estremi del reato ipotizzato. Contro l’ordinanza di rigetto dell’appello del pubblico ministero, quest’ultimo proponeva ricorso per cassazione sostenendo che per le opere in questione, consistenti nella realizzazione di tramezzature interne con creazione di una stanza e di un bagno (e, quindi, un mutamento dei volumi), sarebbe stato necessario il permesso di costruire. In sostanza, la decisione del Tribunale del Riesame si baserebbe su un orientamento superato, atteso che, non esistendo più le ‘‘opere interne’’ a seguito dell’entrata in vigore del TUA, solo per le opere minori non sarebbe necessario il permesso di costruire.
La tesi non è stata condivisa dal Supremo Collegio il quale osserva che la stessa giurisprudenza citata dal ricorrente contiene elementi che smentiscono la tesi del gravame.
Ed infatti, precisa la Corte, proprio perché le cosiddette "opere interne"’ non sono più previste nel D.P.R. 06.06.2001, n. 380, come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, i lavori prima definibili come tali rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle superfici ovvero mutamento di destinazione d’uso. Trasferendo tali indicazioni al caso in esame, risulta evidente per gli Ermellini che non ricorre alcuna delle ipotesi appena descritte: dal momento che si è al cospetto di tramezzature interne che hanno creato una stanza ed un bagno, non vi è stato aumento dei volumi ma solo un aumento delle unità immobiliari o, se si preferisce, una diversa distribuzione dei medesimi spazi.
Di certo, poi, conclude la Corte, la citata tramezzatura non ha dato luogo ad alcuna modifica dei prospetti né, ancor meno, ad una destinazione d’uso (in precedenza, in senso conforme: Cass. pen., sez. III, 24.11.2011, n. 47438, in Cass. Pen., 2012, 11, 3859; Id., sez. fer., 04.09.2012, n. 37713, in Dir. & Giust., 2012; Id., sez. III, 20.05.2010, n. 27713, in Ced Cass., n. 247919; Id., sez. III, 16.03.2010, n. 20350, in Cass. Pen., 2011, 708; Id., sez. III, 19.11.2003, n. 280, in Ced Cass., n. 226830) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.02.2013 n. 7092
- tratto da Urbanistica e appalti n. 5/2013).

EDILIZIA PRIVATA: RECUPERO A FINI ABITATIVI DEI SOTTOTETTI ESISTENTI E RILEVANZA PENALE.
In caso di realizzazione, in mancanza di titoli abilitativi, di opere che avrebbero dovuto essere oggetto di permesso di costruire o di DIA, ai sensi dell’art. 22, comma 3, del Testo Unico edilizia, risulta configurabile il reato di cui all’art. 44 dello stesso testo unico, trovando applicazione l’espressa previsione del comma 2-bis del medesimo articolo, che ne prevede l’applicazione anche agli interventi edilizi suscettibili di realizzazione mediante denuncia di inizio attività, eseguiti in assenza o in totale difformità dalla stessa.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Corte di Cassazione con la sentenza in esame concerne la rilevanza penale di quella tipologia di interventi edilizi che, apparentemente, si appalesano inoffensivi sul piano dell’assetto ordinato del territorio urbano ma che, a ben vedere, lo incidono e giustificano, dunque, la reazione penale.
La vicenda processuale trae origine dall’impugnazione contro la sentenza di appello confermativa della condanna dell’imputato, per i reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. c), e del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, perché, su un terreno di sua proprietà, in area sottoposta a vincolo paesaggistico, aveva realizzato lavori di ampliamento di un preesistente fabbricato seminterrato, con scavi, fondazioni, pilastri in cemento armato, pavimentazione in cemento, soletta con travi in legno, tamponature delle murature perimetrali e tavolati divisori, in mancanza di permesso di costruire e di autorizzazione paesaggistica.
Contro tale sentenza proponeva ricorso per cassazione la difesa dell’imputato sostenendo, da un lato, che i lavori svolti avrebbero dovuto essere considerati mera attività di ampliamento, come tale assoggettata al titolo abilitativo della denuncia di inizio attività, di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, con conseguente inapplicabilità della sanzione penale (l’ampliamento che riguardi vani seminterrati, secondo la difesa, non avrebbe dovuto essere considerato come incidente sulla volumetria dell’edificio; dall’altro lato, la difesa rilevava la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 3, 10, 22 e 44, perché la Corte d’appello avrebbe ritenuto applicabile alla fattispecie concreta la norma incriminatrice di cui al richiamato art. 44, pur trattandosi di un ampliamento inerente un recupero a fini abitativi, non essendosi realizzata alcuna nuova costruzione).
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che hanno infatti respinto il ricorso. In particolare, i giudici di legittimità hanno precisato che la Corte d’appello aveva desunto la natura di nuova costruzione delle opere realizzate da elementi correttamente ritenuti univoci e concordanti, desunti dal verbale di sopralluogo e dalle fotografie in atti. Si era, in particolare, evidenziato che:
a) è stato edificato un nuovo fabbricato in muratura mediante scavo del terreno, realizzazione di fondamenta e pilastri in cemento armato, pavimentazione in cemento, solette in legno, caldara in cemento, tamponature, muratura, con finestre e porte, assoggettata a denuncia di inizio attività, ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 3;
b) sopra il fabbricato seminterrato, illegittimamente ampliato, non vi erano né un rustico, né una copertura preesistenti, ma è stato realizzato ex novo un fabbricato in legno avente un basamento in muratura e un tetto con copertura in tegole, con la conseguenza che l’intervento non può essere ricondotto alla categoria della ‘‘recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti’’ di cui alla L.R. Lombardia n. 12 del 2005, art. 63, comma 1-bis. Correttamente, dunque, il Tribunale e la Corte d’appello, secondo la Cassazione, avevano ritenuto che, essendo state realizzate, in mancanza di titoli abilitativi, opere che avrebbero dovuto essere oggetto di permesso di costruire o di DIA, ai sensi dell’art. 22, comma 3, del testo unico sull’edilizia, risulta configurabile il reato contestato, di cui all’art. 44, comma 1, lett. c), dello stesso testo unico, trovando applicazione l’espressa previsione del comma 2-bis dello stesso articolo, secondo cui «Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi suscettibili di realizzazione mediante denuncia di inizio attività ai sensi dell’art. 22, comma 3, eseguiti in assenza o in totale difformità dalla stessa» (in tal senso, ex plurimis: Cass. pen., sez. III, 05.03.2009, n. 9894, in Ced Cass., n. 243099; Id., sez. III, 09.07.2009, n. 28048, in Ced Cass., n. 244580; Id., sez. III, 14.11.2011, n. 41425, in Ced Cass., n. 251327) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.02.2013 n. 6517
- tratto da Urbanistica e appalti n. 5/2013).

EDILIZIA PRIVATA:  REATO PAESAGGISTICO CONFIGURABILE ANCHE IN CASO DI ‘‘NATURALE’’ RIPRISTINO AMBIENTALE.
Il reato di cui all’art. 181 del D.Lgs. n. 42 del 2004, ha natura di reato di pericolo astratto, per il quale non è necessario un effettivo pregiudizio per l’ambiente e richiede, per il suo perfezionamento, l’esecuzione di interventi in assenza di preventiva autorizzazione che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, con l’ulteriore precisazione che detto reato si configura anche nel caso in cui, per il mero decorso del tempo e senza l’intervento dell’uomo, gli effetti prodotti dalla condotta illecita siano venuti meno, restituendo ai luoghi l’originario assetto.
Si segnala per la particolarità della questione giuridica affrontata la sentenza in esame, con cui la Corte di Cassazione è chiamata nuovamente a pronunciarsi sul tema della configurabilità del reato paesaggistico, contemplato dall’art. 181 del D.Lgs. n. 42/2004, nel caso in cui gli effetti del reato medesimo siano naturalmente regrediti senza alcun intervento dell’uomo.
La vicenda processuale vedeva imputati il committente ed il direttore dei lavori di alcuni reati paesaggistici ed edilizi per aver eseguito, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, lavori in difformità dai titoli abilitativi rilasciati, eseguendo la escavazione della sponda di un canale, per 68 metri, non prevista nell’autorizzazione e posizionando il materiale escavato all’interno delle barene anziché addossarlo sulla sponda come pure stabilito nella medesima autorizzazione.
Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per cassazione la difesa, sostenendo che gli interventi eseguiti, considerata la particolare conformazione delle barene -terreni molli in continuo movimento- non avrebbero determinato alcuna alterazione dello stato dei luoghi, tanto che, all’esito del giudizio di primo grado, il giudice non ne aveva ordinato la rimessione in pristino poiché lo stato dei luoghi si era, nel frattempo, naturalmente reintegrato: tale circostanza, aggiungeva la difesa, consentirebbe, quanto meno, di ritenere integrata la causa estintiva di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004 (art. 181, comma 1-quinquies), stante l’impossibilità di una condotta riparatrice e la evidente disparità di trattamento che altrimenti si verificherebbe tra coloro che possono rimediare all’intervento eseguito e coloro il cui intervento non ha determinato alcuna modifica dei luoghi.
La tesi non ha però avuto seguito nella valutazione dei giudici di legittimità che hanno dichiarato manifestamente infondati i motivi di ricorso.
In particolare, la Corte ha sul punto precisato, da un lato, che il reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004 (art. 181), ha natura di reato di pericolo astratto, per il quale non è necessario un effettivo pregiudizio per l’ambiente e richiede, per il suo perfezionamento, l’esecuzione di interventi in assenza di preventiva autorizzazione che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, con l’ulteriore precisazione che detto reato si  configura anche nel caso in cui, per il mero decorso del tempo e senza l’intervento dell’uomo gli effetti prodotti dalla condotta illecita siano venuti meno, restituendo ai luoghi l’originario assetto; dall’altro, che l’inapplicabilità della speciale causa estintiva di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004 (art. 181, comma 1-quinquies) discende dal fatto che, secondo consolidata giurisprudenza, la rimessione in pristino delle aree o degli immobili vincolati interessati dall’intervento abusivo dev’essere effettuata spontaneamente dal trasgressore prima che venga disposta d’autorità ed, in ogni caso, prima che intervenga la condanna (v., in termini: Cass. pen., sez. III, 21.01.2008, n. 3064, in Ced Cass., n. 238628).
A ciò si aggiunga, infine, la natura premiale della speciale causa estintiva, la cui ragion d’essere trova esclusivo fondamento nella spontanea iniziativa del responsabile dell’abuso paesaggistico, la cui azione ripristinatoria resta improduttiva di effetti estintivi del reato se provocata dall’intervento dell’autorità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.02.2013 n. 6299
- tratto da Urbanistica e appalti n. 5/2013).

EDILIZIA PRIVATA:  INDIVIDUAZIONE DEL MOMENTO CONSUMATIVO NEL MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO.
Nei casi in cui si proceda al mutamento di destinazione d’uso di un immobile mediante l’esecuzione di opere il cui scopo è quello di renderlo utilizzabile per finalità diverse da quelle originarie, la trasformazione dovrà ritenersi ultimata con il completamento delle opere medesime, quando, cioè, l’uso del manufatto secondo la nuova destinazione sia effettivamente possibile.
Particolarmente interessante la questione oggetto di attenzione da parte della Cassazione nella vicenda in esame, in cui la Corte affronta, sotto un diverso angolo visuale, il tema del mutamento di destinazione d’uso di un’unit immobiliare, in particolare fissando con chiarezza quando deve ritenersi ‘‘ultimato’’ l’illecito intervento edilizio.
La vicenda processuale segue alla condanna, confermata in appello, nei confronti di un imputato cui era stato addebitato di aver modificato l’originaria destinazione d’uso di un locale sottotetto da locale di sgombero a locale ad uso abitativo, con realizzazione di opere e ampliamento volumetrico non assentibile, realizzazione del locale sottotetto con pendenza delle falde del 37% in luogo del 35% assentito, con conseguente maggiore altezza al colmo, il tutto in assenza di permesso di costruire o, comunque, in difformità totale dal permesso di costruire e da quanto disposto dall’art. 6, comma 2, delle Norme Tecniche di attuazione del PRG del Comune.
Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per cassazione la difesa, sostenendo, per quanto di interesse in questa sede, che la Corte d’appello avrebbe erroneamente individuato la data di consumazione del reato facendo riferimento alla realizzazione di impianti all’interno del locale, mentre la modifica dell’originaria destinazione d’uso avrebbe dovuto considerarsi perfezionata nel momento in cui era avvenuta la realizzazione delle falde con pendenza superiore rispetto a quanto previsto, poiché sarebbe tale intervento ad aver reso urbanisticamente rilevante la volumetria del sottotetto.
La prospettazione difensiva, pur suggestiva, è stata però disattesa dagli Ermellini che hanno, sul punto, respinto il ricorso.
In particolare, i giudici di legittimità hanno affermato che nei casi in cui, come nella fattispecie, si proceda al mutamento di destinazione d’uso di un immobile mediante l’esecuzione di opere il cui scopo è quello di renderlo utilizzabile per finalità diverse da quelle originarie, la trasformazione dovrà ritenersi ultimata con il completamento delle opere medesime, quando, cioè, l’uso del manufatto secondo la nuova destinazione sia effettivamente possibile.
In applicazione di tale principio si è rilevato che, nel caso in esame, la Corte d’appello aveva rilevato che, all’atto del sequestro, le opere interne al sottotetto e destinate a renderlo abitabile erano ancora in corso di esecuzione, tanto che oltre a non essere stati ancora installati ‘‘importanti elementi strutturali’’, quali luci e condizionatori, mancava anche una scala di accesso ai locali e veniva utilizzata una scala mobile a pioli per accedere attraverso un foro praticato sul pavimento, costituente l’unica via di ingresso dall’ultimo piano del fabbricato al sottotetto. Da qui, dunque, la corretta interpretazione fattane dai giudici di merito.
In giurisprudenza, si noti che la Cassazione, già in passato aveva avuto modo di operare una interessante distinzione, precisando che, il mutamento di destinazione d’uso può essere materiale, quando si realizzi attraverso l’esecuzione di opere edili sull’immobile preesistente, ovvero soltanto funzionale, quando avvenga con una semplice modificazione dell’utilizzo, che non comporti trasformazioni materiali: solo il mutamento funzionale richiede, per essere integrato, l’effettiva modifica della destinazione dell’immobile, mentre il mutamento materiale si consuma sin dall’inizio dei lavori edilizi finalizzati al cambio di destinazione, purché tale finalizzazione sia desumibile attraverso mezzi probatori di natura logica o storica (v., Cass. pen., sez. VI, 28.10.1999, n. 12271, in Ced Cass., n. 214527) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.02.2013 n. 6298 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 5/2013).

EDILIZIA PRIVATA:  INAPPLICABILITA' DEL ‘‘SILENZIO ASSENSO’’ ALLA PROCEDURA DI ACCERTAMENTO DELLA COMPATIBILITA' PAESAGGISTICA.
In tema di tutela del paesaggio, il provvedimento di compatibilità paesaggistica ed ambientale dell’autorità competente deve avere forma espressa, in quanto è da escludersi, nella tutela preventiva svolta dalla pubblica Amministrazione, l’istituto del silenzio assenso.
Di estremo interesse il tema oggetto di attenzione da parte della Corte Suprema nella sentenza in esame, in cui i giudici di legittimità sono chiamati a pronunciarsi sulla legittimità dell’applicazione dell’istituto del cd. silenzio-assenso nella procedura di accertamento di compatibilità paesaggistica introdotta nel 2004.
La vicenda processuale segue alla conferma in appello di una sentenza di condanna nei confronti di un’imputata per alcune violazioni edilizie e paesaggistiche, con pena sospesa subordinata alla demolizione del manufatto abusivo. Contro la predetta sentenza proponeva ricorso per cassazione la difesa, censurandola, per quanto qui di interesse, per presunta violazione del D.Lgs. n. 42 del 2004 (art. 181, comma 1-quater), risultando apodittica e priva di pregio logico-giuridico la sentenza laddove aveva ritenuto non perfezionata la procedura di compatibilità ai sensi della suddetta norma, con la conseguente inapplicabilità del D.Lgs. n. 42 del 2004 (art. 181, comma 1-ter), giacché, con produzione documentale, si era fornita la prova di avere ottenuto il parere di compatibilità paesaggistica ed ambientale dalla competente Soprintendenza ai beni culturali ed ambientali.
Orbene, la Corte aveva ritenuto non perfezionata la procedura per l’omesso pronunciamento dell’autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell’accertamento della compatibilità paesaggistica, identificata nel Comune; ma, a parere della difesa, l’art. 181, comma 1-quater, prevede che l’autorità competente si pronunci sulla domanda entro il termine perentorio di 180 giorni previo parere vincolante della soprintendenza: vista la perentorietà del termine e la natura vincolante del parere, dunque, sarebbe applicabile l’istituto che consente la formazione dell’assenso a seguito dell’inutile decorso del tempo.
La tesi, pur argutamente prospettata, non è stata accolta dagli Ermellini che hanno, sotto tale punto, respinto il ricorso.
In particolare, i giudici di legittimità osservano come la difesa adducesse, in sostanza, un silenzio assenso che supplisca all’espresso accertamento di compatibilità, silenzio assenso che -a giudizio della Cassazione- però, non prevede la norma, la quale logicamente lo avrebbe indicato come risultanza dell’accostamento dei due elementi della perentorietà del termine e della vincolatività dell’atto intermedio procedimentale se in tal senso si fosse collocata l’intenzione del legislatore (ubi voluit dixit), la quale evidentemente, al contrario, si è collocata sulla stessa linea della normativa precedente (D.Lgs. n. 490 del 1999) ove era da escludersi, nella tutela preventiva svolta dalla pubblica Amministrazione, l’istituto del silenzio assenso (v., sul punto: Cass. pen., sez. III, 04.10.2004, n. 38707, in Ced Cass., n. 229599) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.02.2013 n. 6285
- tratto da Urbanistica e appalti n. 5/2013).

EDILIZIA PRIVATAL’istallazione di tende solari rientra nel novero degli interventi di manutenzione straordinaria, in quanto non determina alcun volume autonomo né una modifica permanente dello stato dei luoghi, con la conseguenza che il titolo edilizio a tal fine necessario è costituito dalla denuncia di inizio attività, ai sensi del combinato disposto degli articoli 6, 10 e 22 del D.P.R. n. 380/2001.
Infatti, le tende solari, pur essendo destinate ad alterare la facciata dell'edificio cui accedono (per cui non possono definirsi interventi di manutenzione ordinaria), hanno tuttavia semplice funzione (accessoria e pertinenziale) di arredo dello spazio esterno, limitata nel tempo e nello spazio (in quanto si tratta di strutture generalmente utilizzate nella sola stagione estiva e che non determinano alcuna variazione plano-volumetrica dell’immobile principale, per cui non integrano né una nuova costruzione né una ristrutturazione edilizia).
L’assenza della necessità del permesso di costruire ha, inoltre, ricevuto l'avallo del Consiglio di Stato in relazione ad una fattispecie di maggiore gravità rispetto a quella oggi in discussione, secondo cui <<hanno carattere pertinenziale e, come tali, non debbono essere assistite da permesso di costruire, le opere che hanno finito per sostituire una preesistente tenda parasole di un esercizio commerciale con una struttura in legno infissa alla facciata dell’edificio a mezzo di una trave e ancorata alla facciata medesima nonché, in proiezione anteriore, al muretto antistante l’accesso dell’esercizio, atteso che la struttura realizzata, pur essendo indubbiamente più stabile e "pesante" rispetto alla tenda parasole di cui ha preso il posto, è palesemente destinata ad assolvere alla medesima funzione di essa, non essendo, per entità e caratteristiche, idonea ad integrare la nozione di "porticato" o di "veranda"; in particolare, detta struttura è insuscettibile di costituire un volume autonomo e aggiuntivo rispetto all’esercizio commerciale cui accede. Ne discende che l’opera in questione va qualificata come mera pertinenza rispetto all’edificio, in quanto tale non necessitante il previo rilascio di concessione edilizia (oggi permesso di costruire)>>).
Il Collegio osserva peraltro, al riguardo, che a seguito delle modifiche apportate all’art. 6 D.P.R. n. 380/2001 dall’art. 5, del D.L. 25.03.2010, n. 40 (convertito con L. 22.05.2010, n. 73) sul regime giuridico degli interventi di manutenzione straordinaria, tali interventi possono ormai essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo, previa semplice comunicazione di inizio lavori, con previsione, in caso di mancanza di quest’ultima, di una sanzione pecuniaria pari ad euro 258,00.
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Il fatto che l’area dell’intervento sia sottoposta a vincolo paesaggistico comporta in ogni caso la necessità per l’interessato di munirsi dell’autorizzazione della competente Sovrintendenza.
Pur trattandosi, infatti, di intervento di manutenzione straordinaria, l’autorizzazione è comunque necessaria, in quanto si tratta di un intervento che, per sua natura, altera (anche se in modo del tutto transeunte e contingente) lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici (cfr. art. 149, comma primo, lett. a), D.Lgs. n. 42/2004).
L’autorizzazione paesaggistica potrebbe eventualmente essere rilasciata in sanatoria, trattandosi, per l’espressa codificazione normativa appena riportata, di intervento potenzialmente sussumibile nella fattispecie derogatoria di cui all’articolo 167, comma 4, lett. “a”, D.Lgs. n. 42/2004 (riguardante lavori che non hanno determinato creazione di superfici utili o di volumi), nonché –per quanto più sopra considerato in ordine alla natura giuridica dell’intervento in questione- in quella di cui alla lett. “c” della medesima disposizione (concernente lavori integranti interventi di manutenzione straordinaria).
Il ricorso merita accoglimento.
Il provvedimento gravato si fonda sull'erroneo presupposto che il contestato intervento sia sottoposto al regime del permesso di costruire.
Come compiutamente evidenziato dalla recente sentenza di questa Sezione n. 5324 del 12.10.2011, sulla problematica concernente l’individuazione del titolo edilizio necessario per l'istallazione di tende solari, si registravano in giurisprudenza, prima della modifiche apportate all’art. 6 D.P.R. n. 380/2001 dall’art. 5 D.L. 25.03.2010, n. 40, tre diverse posizioni.
Secondo un primo orientamento, si sarebbe trattato di un intervento privo di rilevanza edilizia, che non richiedeva, in quanto tale, alcun titolo concessorio (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. III, 31.07.2006, n. 1890).
Secondo un'opposta opinione, invece, le tende solari sarebbero finalizzate alla migliore fruizione di un immobile e risulterebbero destinate ad essere utilizzate in modo permanente e non a titolo precario e pertanto necessiterebbero del permesso di costruire (cfr. TAR Basilicata, sez. I, 27.06.2008, n. 337).
A parere, infine, di una posizione intermedia (espressa proprio da questa Sezione con la sentenza 02.12.2008, n. 20791), l’istallazione di tende solari rientrerebbe nel novero degli interventi di manutenzione straordinaria, in quanto non determinerebbe alcun volume autonomo né una modifica permanente dello stato dei luoghi, con la conseguenza che il titolo edilizio a tal fine necessario sarebbe costituito dalla denuncia di inizio attività, ai sensi del combinato disposto degli articoli 6, 10 e 22 del D.P.R. n. 380/2001.
Il Collegio ribadisce, in accordo con quanto recentemente espresso nella già richiamata sentenza n. 5324 del 12.10.2011, di condividere la riferita configurazione della natura giuridica degli interventi in questione come interventi di manutenzione straordinaria, che trova il proprio aggancio normativo nell’art. 3, comma primo, D.P.R. n. 380/2001.
Infatti, le tende solari, pur essendo destinate ad alterare la facciata dell'edificio cui accedono (per cui non possono definirsi interventi di manutenzione ordinaria), hanno tuttavia semplice funzione (accessoria e pertinenziale) di arredo dello spazio esterno, limitata nel tempo e nello spazio (in quanto si tratta di strutture generalmente utilizzate nella sola stagione estiva e che non determinano alcuna variazione plano-volumetrica dell’immobile principale, per cui non integrano né una nuova costruzione né una ristrutturazione edilizia).
Al riguardo, difatti, l’articolo 6, comma 1, lettera d), del Regolamento Edilizio del Comune di Napoli fa rientrare fra le opere di manutenzione straordinaria, le <<opere finalizzate alla sistemazione di spazi esterni, che non comportino la realizzazione di superfici utili o volumi, quali: - realizzazione di giardini, opere di arredo, quali vasche, aiuole per impianti floreali o arborei, fontane, eccetera; realizzazione di pergolati, grillages e gazebi>>.
L’assenza della necessità del permesso di costruire ha, inoltre, ricevuto l'avallo del Consiglio di Stato in relazione ad una fattispecie di maggiore gravità rispetto a quella oggi in discussione (cfr. C.d.S., sez. IV, 17.05.2010, n. 3127, secondo cui <<hanno carattere pertinenziale e, come tali, non debbono essere assistite da permesso di costruire, le opere che hanno finito per sostituire una preesistente tenda parasole di un esercizio commerciale con una struttura in legno infissa alla facciata dell’edificio a mezzo di una trave e ancorata alla facciata medesima nonché, in proiezione anteriore, al muretto antistante l’accesso dell’esercizio, atteso che la struttura realizzata, pur essendo indubbiamente più stabile e "pesante" rispetto alla tenda parasole di cui ha preso il posto, è palesemente destinata ad assolvere alla medesima funzione di essa, non essendo, per entità e caratteristiche, idonea ad integrare la nozione di "porticato" o di "veranda"; in particolare, detta struttura è insuscettibile di costituire un volume autonomo e aggiuntivo rispetto all’esercizio commerciale cui accede. Ne discende che l’opera in questione va qualificata come mera pertinenza rispetto all’edificio, in quanto tale non necessitante il previo rilascio di concessione edilizia (oggi permesso di costruire)>>).
Si deve quindi ritenere che, nel caso di specie, il contestato intervento edilizio rientri nel novero degli interventi di manutenzione straordinaria e che quindi fosse sottoposto, alla data in cui è stato realizzato, al regime della denuncia di inizio attività, all’epoca applicabile a tale categoria di opere, ai sensi delle richiamate disposizioni normative di cui agli articoli 6, 10 e 22 del D.P.R. n. 380/2001.
Il Collegio osserva peraltro, al riguardo, che a seguito delle modifiche apportate all’art. 6 D.P.R. n. 380/2001 dall’art. 5, del D.L. 25.03.2010, n. 40 (convertito con L. 22.05.2010, n. 73) sul regime giuridico degli interventi di manutenzione straordinaria (entrate in vigore in data successiva a quella di realizzazione delle opere per cui è causa), tali interventi possono ormai essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo, previa semplice comunicazione di inizio lavori, con previsione, in caso di mancanza di quest’ultima, di una sanzione pecuniaria pari ad euro 258,00.
Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve pertanto ritenere che l'impugnato provvedimento di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi risulti affetto dai vizi denunciati dal momento che esplicitamente postula che per la sua realizzazione sia necessario il permesso di costruire.
Si tratta, infatti, per quanto più sopra esposto, di affermazione assolutamente non corretta sul piano giuridico.
Nella sua memoria difensiva, il Comune di Napoli mostra di condividere la suindicata impostazione secondo cui l'intervento in questione è ascrivibile alla tipologia della manutenzione straordinaria (sottoposto quindi a denuncia di inizio attività).
Tuttavia, deduce che non risulta l'interessato abbia presentato alcuna denuncia in tal senso e pertanto, l'intervento in questione sarebbe stato realizzato “senza titolo” e quindi l'impugnato ordine demolitorio sarebbe pienamente legittimo ai sensi dell'articolo 27, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001.
Inoltre, l’avvocatura comunale eccepisce l’inammissibilità del ricorso.
Parte ricorrente non avrebbe difatti contestato che l’area in questione sia sottoposta a vincolo paesaggistico ovverosia il presupposto in base ai quali è stata ordinata la demolizione ai sensi del citato articolo 27, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001.
Il Collegio, al riguardo, ritiene di non discostarsi sostanzialmente da quanto recentemente espresso nell’analogo caso di cui alla già citata sentenza di questa Sezione n. 5324 del 12.10.2011, sia pure in base ad argomentazioni parzialmente diverse.
Le argomentazioni difensive dell’avvocatura comunale (che introducono un nuovo elemento di valutazione in sede giudiziale e che quindi sarebbero tecnicamente inammissibili, per il divieto di integrazione “postuma” della motivazione), non possono tuttavia essere condivise, in quanto da un lato contrastano con l’obiettiva circostanza che l’unico profilo motivazionale contenuto nel provvedimento impugnato sia quello dell’asserita –ma erronea- necessità del permesso di costruire (senza alcuna altra distinzione o specificazione) e, dall’altro, non tengono conto dell’autonomia dei due diversi titoli, quello edilizio e quello paesaggistico, sancita normativamente dall’art. 146, comma quarto, D.Lgs. n. 42/2004.
Inoltre, la semplice menzione della circostanza che l’area in questione sia sottoposta a vincolo paesaggistico e l’indicazione dell’art. 27, comma 2, della legge n. 380/2001 non costituiscono un autonomo motivo dell’atto gravato tale da giustificare da solo il provvedimento negativo, facente sorgere l’onere di impugnativa.
Anzi, al contrario, il mero riferimento a tali circostanze, in assenza di alcuna specificazione in ordine alla mancanza di autorizzazione paesaggistica ed alla deduzione di tale circostanza come presupposto della misura sanzionatoria, non è sufficiente a far considerare l’aspetto dell’assenza di titolo paesaggistico quale motivazione della misura sanzionatoria, che si concentra invece sul profilo della necessità del permesso di costruire.
Al riguardo, il fatto che l’area dell’intervento sia sottoposta a vincolo paesaggistico -pur non mutando per quanto anzidetto la questione per quanto riguarda la legittimità del provvedimento gravato- comporta in ogni caso la necessità per l’interessato di munirsi dell’autorizzazione della competente Sovrintendenza.
Pur trattandosi, infatti, di intervento di manutenzione straordinaria, l’autorizzazione è comunque necessaria, in quanto si tratta di un intervento che, per sua natura, altera (anche se in modo del tutto transeunte e contingente) lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici (cfr. art. 149, comma primo, lett. a), D.Lgs. n. 42/2004).
L’autorizzazione paesaggistica potrebbe eventualmente essere rilasciata in sanatoria, trattandosi, per l’espressa codificazione normativa appena riportata, di intervento potenzialmente sussumibile nella fattispecie derogatoria di cui all’articolo 167, comma 4, lett. “a”, D.Lgs. n. 42/2004 (riguardante lavori che non hanno determinato creazione di superfici utili o di volumi), nonché –per quanto più sopra considerato in ordine alla natura giuridica dell’intervento in questione- in quella di cui alla lett. “c” della medesima disposizione (concernente lavori integranti interventi di manutenzione straordinaria).
In conclusione, il ricorso deve essere accolto, nei termini e per le ragioni suindicate, con conseguente annullamento dell'impugnata Disposizione Dirigenziale (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 16.12.2011 n. 5919 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'installazione di n. 3 tende solari estensibili per complessivi ml. 17,00 x 3,00 di sporgenza si configura quale intervento di manutenzione straordinaria, che trova il proprio aggancio normativo nell’art. 3, comma primo, D.P.R. n. 380/2001.
Infatti, le tende solari, pur essendo destinate ad alterare la facciata dell'edificio cui accedono (per cui non possono definirsi interventi di manutenzione ordinaria), hanno tuttavia semplice funzione (accessoria e pertinenziale) di arredo dello spazio esterno, limitata nel tempo e nello spazio (in quanto si tratta di strutture generalmente utilizzate nella sola stagione estiva e che non determinano alcuna variazione plano-volumetrica dell’immobile principale, per cui non integrano né una nuova costruzione né una ristrutturazione edilizia).
L’assenza della necessità del permesso di costruire ha, inoltre, ricevuto l'avallo del Consiglio di Stato in relazione ad una fattispecie di maggiore gravità rispetto a quella oggi in discussione, secondo cui <<hanno carattere pertinenziale e, come tali, non debbono essere assistite da permesso di costruire, le opere che hanno finito per sostituire una preesistente tenda parasole di un esercizio commerciale con una struttura in legno infissa alla facciata dell’edificio a mezzo di una trave e ancorata alla facciata medesima nonché, in proiezione anteriore, al muretto antistante l’accesso dell’esercizio, atteso che la struttura realizzata, pur essendo indubbiamente più stabile e "pesante" rispetto alla tenda parasole di cui ha preso il posto, è palesemente destinata ad assolvere alla medesima funzione di essa, non essendo, per entità e caratteristiche, idonea ad integrare la nozione di "porticato" o di "veranda"; in particolare, detta struttura è insuscettibile di costituire un volume autonomo e aggiuntivo rispetto all’esercizio commerciale cui accede. Ne discende che l’opera in questione va qualificata come mera pertinenza rispetto all’edificio, in quanto tale non necessitante il previo rilascio di concessione edilizia (oggi permesso di costruire)>>.
Tuttavia è bene notare al riguardo, ancorché non applicabile al caso di specie (in quanto sono state introdotte in data successiva a quella di realizzazione delle opere per cui è causa), che le modifiche apportate all’art. 6 D.P.R. n. 380/2001 dall’art. 5 D.L. 25.03.2010, n. 40 (conv. L. 22.05.2010, n. 73) sul regime giuridico degli interventi di manutenzione straordinaria comporta che tali interventi possono ormai essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo, previa semplice comunicazione di inizio lavori, con previsione, in caso di mancanza di quest’ultima, di una sanzione pecuniaria pari ad euro 258,00.
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Il fatto che l’area dell’intervento sia sottoposta a vincolo paesaggistico comporta in ogni caso la necessità per l’interessato di munirsi dell’autorizzazione della competente Sovrintendenza.
Pur trattandosi di intervento di manutenzione straordinaria, l’autorizzazione è comunque necessaria, in quanto si tratta di un intervento che, per sua natura, altera (anche se in modo del tutto transeunte e contingente) lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici (cfr. art. 149, comma primo, lett. a), D.Lgs. n. 42/2004).
Si tratta tuttavia di un intervento di <<lieve entità>>, per il quale è applicabile la procedura semplificata disciplinata dal D.P.R. 09.07.2010 n. 139, come stabilito dal relativo Allegato 1, n. 16, che espressamente ricomprende tra tali interventi quelli concernenti la <<collocazione di tende da sole sulle facciate degli edifici per locali destinati ad attività commerciali e pubblici esercizi>> (come nel caso di specie, in cui la tenda è tra l’altro funzionale alla migliore fruizione del corrispondente suolo pubblico di cui il ricorrente è legittimo concessionario).
L’autorizzazione paesaggistica può inoltre essere rilasciata in sanatoria, trattandosi, per l’espressa codificazione normativa appena riportata, di intervento di lieve entità, perfettamente sussumibile, quindi, nella fattispecie derogatoria di cui all’articolo 167, comma 4, lett. “a”, D. Lgs. n. 42/2004 (riguardante lavori che non hanno determinato creazione di superfici utili o di volumi), nonché –per quanto più sopra considerato in ordine alla natura giuridica dell’intervento in questione- in quella di cui alla lett. “c” della medesima disposizione (concernente lavori integranti interventi di manutenzione straordinaria).

Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Come infatti esattamente dedotto dal ricorrente con la prima censura (e come già osservato da questa Sezione in sede cautelare), l’impugnato provvedimento si fonda sull'erroneo presupposto che il contestato intervento (consistente nell'istallazione, nel giugno del 2009, nello spazio antistante l'ingresso dell'esercizio commerciale sito alla via Partenope n. 11, di <<n. 3 tende solari estensibili per complessivi ml. 17,00 x 3,00 di sporgenza>>) sia sottoposto al regime del permesso di costruire (e non invece a quello della Denuncia di Inizio Attività, ratione temporis applicabile alla fattispecie).
In ordine alla problematica concernente l’individuazione del titolo edilizio necessario per l'istallazione di tende solari, occorre rilevare che, in giurisprudenza, prima della modifiche apportate all’art. 6 D.P.R. n. 380/2001 dall’art. 5 D.L. 25.03.2010, n. 40 (conv. L. 22.05.2010, n. 73), si potevano registrare tre diverse posizioni.
Secondo un primo orientamento, si tratterebbe di un intervento privo di rilevanza edilizia, che non richiederebbe, in quanto tale, alcun titolo concessorio (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. III, 31.07.2006, n. 1890).
Secondo un'opposta opinione, invece, le tende solari sarebbero finalizzate alla migliore fruizione di un immobile e risulterebbero destinate ad essere utilizzate in modo permanente e non a titolo precario e pertanto necessiterebbero del permesso di costruire (cfr. TAR Basilicata, sez. I, 27.06.2008, n. 337).
Secondo, invece, una posizione intermedia (espressa proprio da questa Sezione con la sentenza 02.12.2008, n. 20791), l’istallazione di tende solari rientrerebbe nel novero degli interventi di manutenzione straordinaria, in quanto non determinerebbe alcun volume autonomo né una modifica permanente dello stato dei luoghi, con la conseguenza che il titolo edilizio a tal fine necessario sarebbe costituito dalla denuncia di inizio attività, ai sensi del combinato disposto degli articoli 6, 10 e 22 del D.P.R. n. 380/2001.
Il Collegio condivide pienamente la riferita configurazione della natura giuridica degli interventi in questione come interventi di manutenzione straordinaria, che trova il proprio aggancio normativo nell’art. 3, comma primo, D.P.R. n. 380/2001. Infatti, le tende solari, pur essendo destinate ad alterare la facciata dell'edificio cui accedono (per cui non possono definirsi interventi di manutenzione ordinaria), hanno tuttavia semplice funzione (accessoria e pertinenziale) di arredo dello spazio esterno, limitata nel tempo e nello spazio (in quanto si tratta di strutture generalmente utilizzate nella sola stagione estiva e che non determinano alcuna variazione plano-volumetrica dell’immobile principale, per cui non integrano né una nuova costruzione né una ristrutturazione edilizia).
Non è un caso che, in particolare, per quanto riguarda le opere eseguite nel territorio comunale, il Comune di Napoli espressamente annoveri, nel proprio regolamento edilizio, l’installazione di tende solari nell’ambito degli interventi di manutenzione straordinaria (cfr. art. 6, comma primo, lett. g), R.E., che fa a tal fine testuale riferimento agli interventi di <<realizzazione, modifica o integrazione di mostre, vetrine, tende e insegne per gli esercizi commerciali, terziari o artigianali>>).
Tale configurazione ha inoltre ricevuto l'avallo del Consiglio di Stato in relazione ad una fattispecie di maggiore gravità rispetto a quella oggi in discussione (cfr. C.d.S., sez. IV, 17.05.2010, n. 3127, secondo cui <<hanno carattere pertinenziale e, come tali, non debbono essere assistite da permesso di costruire, le opere che hanno finito per sostituire una preesistente tenda parasole di un esercizio commerciale con una struttura in legno infissa alla facciata dell’edificio a mezzo di una trave e ancorata alla facciata medesima nonché, in proiezione anteriore, al muretto antistante l’accesso dell’esercizio, atteso che la struttura realizzata, pur essendo indubbiamente più stabile e "pesante" rispetto alla tenda parasole di cui ha preso il posto, è palesemente destinata ad assolvere alla medesima funzione di essa, non essendo, per entità e caratteristiche, idonea ad integrare la nozione di "porticato" o di "veranda"; in particolare, detta struttura è insuscettibile di costituire un volume autonomo e aggiuntivo rispetto all’esercizio commerciale cui accede. Ne discende che l’opera in questione va qualificata come mera pertinenza rispetto all’edificio, in quanto tale non necessitante il previo rilascio di concessione edilizia (oggi permesso di costruire)>>).
Si deve quindi ritenere che, nel caso di specie, il contestato intervento edilizio rientri nel novero degli interventi di manutenzione straordinaria e che quindi fosse sottoposto, alla data in cui è stato realizzato, al regime della denuncia di inizio attività, all’epoca applicabile a tale categoria di opere, ai sensi delle richiamate disposizioni normative di cui agli articoli 6, 10 e 22 del D.P.R. n. 380/2001.
E’ bene notare infatti, al riguardo, che le modifiche apportate all’art. 6 D.P.R. n. 380/2001 dall’art. 5 D.L. 25.03.2010, n. 40 (conv. L. 22.05.2010, n. 73) sul regime giuridico degli interventi di manutenzione straordinaria (secondo cui tali interventi possono ormai essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo, previa semplice comunicazione di inizio lavori, con previsione, in caso di mancanza di quest’ultima, di una sanzione pecuniaria pari ad euro 258,00), non possono essere considerate applicabili alla presente fattispecie, in quanto sono state introdotte in data successiva a quella di realizzazione delle opere per cui è causa.
Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve pertanto ritenere che l'impugnato provvedimento di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi risulti affetto dei vizi denunciati con la prima censura, dal momento che non soltanto omette di qualificare la natura giuridica dell'intervento contestato, ma esplicitamente postula che per la sua realizzazione sia necessario il permesso di costruire.
Si tratta, infatti, per quanto più sopra esposto, di affermazione assolutamente non corretta sul piano giuridico (che tra l'altro contraddice immotivatamente le risultanze della richiamata istruttoria tecnica del 28/05/2010, in cui si rileva invece che si tratta di manutenzione straordinaria, sottoposta a dichiarazione inizio attività).
Nella sua memoria difensiva, il Comune di Napoli mostra di condividere tale impostazione. Afferma infatti che l'intervento in questione è ascrivibile alla tipologia della manutenzione straordinaria, sottoposto quindi a denuncia di inizio attività. Tuttavia, osserva ancora che l'interessato non ha presentato alcuna denuncia in tal senso e che, inoltre, non ha acquisito il parere favorevole della Sovrintendenza (che sarebbe stato necessario, stante il vincolo paesaggistico gravante sull'area dell'intervento). Nella specie, pertanto, l'intervento in questione sarebbe stato realizzato “senza titolo” e quindi l'impugnato ordine demolitorio sarebbe pienamente legittimo ai sensi dell'articolo 27, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001.
Le argomentazioni difensive dell’avvocatura comunale (che introducono un nuovo elemento di valutazione in sede giudiziale e che quindi sarebbero tecnicamente inammissibili, per il divieto di integrazione “postuma” della motivazione), non possono tuttavia essere condivise, in quanto da un lato contrastano con l’obiettiva circostanza che l’unico profilo motivazionale contenuto nel provvedimento impugnato sia quello dell’asserita –ma erronea- necessità del permesso di costruire (senza alcuna altra distinzione o specificazione) e, dall’altro, non tengono conto dell’autonomia dei due diversi titoli, quello edilizio e quello paesaggistico, sancita normativamente dall’art. 146, comma quarto, D.Lgs. n. 42/2004.
In ogni caso, il fatto che l’area dell’intervento sia sottoposta a vincolo paesaggistico non muta i termini della questione, ma comporta semplicemente la necessità per l’interessato di munirsi dell’autorizzazione della competente Sovrintendenza.
Pur trattandosi infatti di intervento di manutenzione straordinaria, l’autorizzazione è comunque necessaria, in quanto si tratta di un intervento che, per sua natura, altera (anche se in modo del tutto transeunte e contingente) lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici (cfr. art. 149, comma primo, lett. a), D.Lgs. n. 42/2004).
Si tratta tuttavia di un intervento di <<lieve entità>>, per il quale è applicabile la procedura semplificata disciplinata dal D.P.R. 09.07.2010 n. 139, come stabilito dal relativo Allegato 1, n. 16, che espressamente ricomprende tra tali interventi quelli concernenti la <<collocazione di tende da sole sulle facciate degli edifici per locali destinati ad attività commerciali e pubblici esercizi>> (come nel caso di specie, in cui la tenda è tra l’altro funzionale alla migliore fruizione del corrispondente suolo pubblico di cui il ricorrente è legittimo concessionario).
L’autorizzazione paesaggistica può inoltre essere rilasciata in sanatoria, trattandosi, per l’espressa codificazione normativa appena riportata, di intervento di lieve entità, perfettamente sussumibile, quindi, nella fattispecie derogatoria di cui all’articolo 167, comma 4, lett. “a”, D. Lgs. n. 42/2004 (riguardante lavori che non hanno determinato creazione di superfici utili o di volumi), nonché –per quanto più sopra considerato in ordine alla natura giuridica dell’intervento in questione- in quella di cui alla lett. “c” della medesima disposizione (concernente lavori integranti interventi di manutenzione straordinaria).
In conclusione, assorbito ogni altro motivo, il ricorso deve essere accolto, con conseguente annullamento dell'impugnata disposizione dirigenziale n. 233 del 15/07/2010 (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.11.2011 n. 5324 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’installazione di una tenda da sole facilmente smontabile, in funzione ornamentale ed accessoria del fabbricato e di protezione dalle intemperie, non integra i caratteri propri della costruzione e non necessita quindi di concessione edilizia.
Occorre premettere che, secondo la giurisprudenza amministrativa, l’installazione di una tenda da sole facilmente smontabile, in funzione ornamentale ed accessoria del fabbricato e di protezione dalle intemperie, non integra i caratteri propri della costruzione e non necessita quindi di concessione edilizia (cfr. TAR Toscana, Sez. II, 24.07.1997 n. 470).
Pertanto, ai fini dell’illiceità dell’opera, non vale argomentare sul vincolo di inedificabilità assoluta cui si trova assoggettata l’intera zona, ricompresa nel piano urbanistico territoriale della costiera Sorrentino-Amalfitana, ai sensi dell’art. 5, comma 1, della legge regionale 27.06.1987 n. 35.
Il detto vincolo, infatti, concerne soltanto il rilascio delle concessioni edilizie (oggi, dei permessi di costruire) e, ai sensi del comma 4, non si applica agli interventi subordinati ad autorizzazione ed a quelli per i quali non sono necessari né la concessione, né l’autorizzazione (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 27.04.2011 n. 748 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La "struttura in ferro stilizzata … a falda ondulata e leggermente inclinata … parzialmente coperta da pannelli trasparenti in policarbonato … corredata da tre tende ritraibili di mq. 36 per m. 3 di altezza", sul terrazzino di pertinenza dell’immobile, per la sua tipologia e per l’uso di materiali dal non rilevante impatto visivo, può ritenersi un arredo dello spazio esterno con la conseguenza che la stessa può farsi rientrare fra le opere di manutenzione straordinaria, ai sensi dell’articolo 6 del Regolamento Edilizio del Comune.
Sicché, illegittimo si rileva il provvedimento impugnato con il quale il Comune erroneamente ha ritenuto le opere, realizzate dal ricorrente, di ristrutturazione edilizia con la conseguente irrogazione della sanzione demolitoria.

Al riguardo si deve rilevare che, come risulta dagli atti, il Comune ha sanzionato la realizzazione di una <<struttura in ferro stilizzata … a falda ondulata e leggermente inclinata … parzialmente coperta da pannelli trasparenti in policarbonato … corredata da tre tende ritraibili>> di mq. 36 per m. 3 di altezza, sul terrazzino di pertinenza dell’immobile sito in Napoli via ....
Tale struttura, per la sua tipologia e per l’uso di materiali dal non rilevante impatto visivo, come emerge anche dalle foto depositate, può ritenersi, come sostenuto dal ricorrente, un arredo dello spazio esterno con la conseguenza che la stessa può farsi rientrare, come pure sostenuto dal ricorrente nel quinto motivo di ricorso, fra le opere di manutenzione straordinaria, ai sensi dell’articolo 6 del Regolamento Edilizio del Comune di Napoli.
Infatti l’articolo 6, comma 1 lettera d), del Regolamento Edilizio del Comune di Napoli fa rientrare fra le opere di manutenzione straordinaria, le <<opere finalizzate alla sistemazione di spazi esterni, che non comportino la realizzazione di superfici utili o volumi, quali: - realizzazione di giardini, opere di arredo, quali vasche, aiuole per impianti floreali o arborei, fontane, eccetera; realizzazione di pergolati, grillages e gazebi>>.
Illegittimo si rileva pertanto il provvedimento impugnato con il quale il Comune di Napoli erroneamente ha ritenuto le opere realizzate dal ricorrente di ristrutturazione edilizia con la conseguente irrogazione della sanzione demolitoria (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 02.12.2008 n. 20791 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per l’installazione di tende e/o strutture parasole risulta necessario il rilascio del provvedimento di concessione edilizia, ora denominato permesso di costruire, in quanto opere edilizie che, essendo finalizzate alla migliore fruizione di un immobile, risultano destinate ad essere utilizzate in modo permanente (anche se, come nella specie, solo per alcuni mesi all’anno) e non a titolo precario.
Al riguardo va sottolineato che per l’installazione di tende e/o strutture parasole risulta necessario il rilascio del provvedimento di concessione edilizia, ora denominato permesso di costruire (sul punto cfr. TAR Piemonte Sez. I Sent. n. 1136 del 26.04.2005; TAR Lazio Roma Sez. II-ter Sent. n. 1841 dell’08.03.2002), in quanto opere edilizie che, essendo finalizzate alla migliore fruizione di un immobile, risultano destinate ad essere utilizzate in modo permanente (anche se, come nella specie, solo per alcuni mesi all’anno) e non a titolo precario.
Ma nella specie l’impugnata autorizzazione n. 9 del 05.07.2005 assume la configurazione di un normale permesso di costruire, in quanto dopo l’entrata in vigore del DPR n. 380/2001 la previgente autorizzazione edilizia gratuita è stata sostituita dalla Denuncia di Inizio di Attività, la quale risulta efficace soltanto dopo il mero decorso di 30 giorni, se entro tale termine il competente Dirigente Comunale non adotta il provvedimento inibitorio, previsto dall’art. 23 DPR n. 380/2001.
Mentre anche i permessi di costruire rientrano nell’ampio genus degli atti autorizzatori; al riguardo si osserva che, tenuto conto di quanto statuito dalla Corte Costituzionale nella Sentenza n. 5 del 30.01.1980, secondo cui il diritto di edificare inerisce al diritto di proprietà del suolo, si desume agevolmente che il termine “concessione edilizia”, prima usato dal Legislatore era improprio, in quanto il provvedimento di concessione attribuisce un diritto creato ex novo, mentre l’atto di autorizzazione rimuove un limite legale all’esercizio di un preesistente diritto, come nel caso del diritto di edificare, che costituisce una delle facoltà del diritto di proprietà di un terreno, per cui sarebbe stata più corretta la denominazione di autorizzazione edilizia (la quale poteva essere suddivisa in autorizzazione edilizia gratuita ed autorizzazione edilizia onerosa), anziché quella di concessione edilizia
(TAR Basilicata, sentenza 27.06.2008 n. 337 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa la collocazione di una tenda a spiovente, sorretta da struttura (in alluminio) mobile zavorrata in appoggio sul selciato, di dimensione corrispondente all’occupazione già autorizzata, costituita da un telo in PVC bianco sostenuto da otto piantane, per la protezione dei fiori esposti alle intemperie, la stessa risulta priva di rilevanza edilizia e non necessita, quindi, di titolo concessorio per la sua installazione.
Il ricorrente espone di essere titolare di autorizzazione rilasciata dal Comune di Milano per l’esercizio del commercio ambulante di fiori, nonché di concessione per l’occupazione di spazio pubblico della superficie di m. 12x5, destinata a posteggio fisso sul Piazzale Cimitero Maggiore.
Lo stesso precisa di aver presentato al Comune di Milano, in data 25.10.1995, domanda di autorizzazione per la collocazione di una tenda a spiovente, sorretta da struttura mobile zavorrata in appoggio sul selciato, di dimensione corrispondente all’occupazione già autorizzata, costituita da un telo in PVC bianco sostenuto da otto piantane, per la protezione dei fiori esposti alle intemperie.
Con successiva nota in data 21.05.1996, l’interessato ha invitato l’amministrazione comunale a pronunciarsi entro il termine di trenta giorni, preavvertendo che, in difetto, avrebbe dato corso al posizionamento della tenda.
L’autorizzazione è stata negata con provvedimenti emessi in data 26.11.1997, in ragione del contrasto tra la tipologia di concessione, relativa a posteggio per banco mobile, e il carattere di permanenza ed inamovibilità della struttura destinata a tenda ombrasole; con gli stessi provvedimenti l’interessato veniva anche diffidato a rimuovere il manufatto abusivamente installato.
...
Ciò posto, il Collegio ritiene che il manufatto in questione, consistente in una intelaiatura in alluminio zavorrata, ma non ancorata al suolo, destinata a fungere da supporto di una tenda parasole, facilmente rimovibile per le modalità in cui è stata posata, risulti privo di rilevanza edilizia e non necessiti quindi di titolo concessorio per la sua installazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 31.07.2006 n. 1890 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa maggiore o minore facilità di rimozione non rileva, infatti, ai fini della qualificazione di un’opera edilizia in termini di precarietà.
Neppure assumono una valenza decisiva, in tal senso, la struttura del manufatto abusivo, la sua tipologia o i materiali utilizzati.
Ciò che rileva al fine della qualificazione di un’opera edilizia come precaria è, invece (come affermato dalla giurisprudenza consolidata e condiviso dal Collegio), la funzione cui è obiettivamente finalizzata l’opera, con la conseguenza che solamente le costruzioni destinate ab origine al soddisfacimento di esigenze contingenti e circoscritte nel tempo saranno esenti dall’obbligo della concessione, mentre vi saranno assoggettate le opere destinate ad una utilizzazione perdurante nel tempo.
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La struttura realizzata dal ricorrente, in assenza di titolo autorizzativo e sul balcone dell’alloggio di proprietà, è costituita da un telaio a supporto di pannelli trasparenti scorrevoli; detto telaio delimita completamente il perimetro costituito dal parapetto del balcone ed è ancorato al parapetto medesimo e all’intradosso della soletta sovrastante.
Il manufatto abusivo è stato realizzato all’evidente fine di migliorare la fruizione dell’alloggio, offrendo una protezione dagli agenti atmosferici e ampliando gli spazi utilizzabili.
Esso non è quindi destinato a soddisfare esigenze temporanee, mediante una utilizzazione circoscritta nel tempo, bensì è finalizzato ad un utilizzo tendenzialmente durevole, con obiettivi caratteri di stabilità.
Ne consegue che l’opera edilizia, non connotabile in termini di precarietà, era soggetta al rilascio di concessione edificatoria.
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L’assenza di connotati di precarietà del manufatto, peraltro di non irrilevante impatto visivo, fa sì che la costruzione abbia stabilmente modificato la superficie e la volumetria dell’immobile.
Deve altresì osservarsi come l’opera in questione costituisca sostanzialmente una veranda chiusa con superfici trasparenti, seppure scorrevoli su pannelli mobili, la cui apposizione all’edificio di abitazione ne ha alterato la sagoma, realizzando una trasformazione edilizia duratura che necessitava di concessione edilizia.
Ne consegue che legittimamente il Sindaco di Novara, accertata l’esecuzione di opere in assenza di concessione, ne ha disposto la rimozione.

E’ contestata nel presente giudizio la legittimità del provvedimento R.G. n. 2 del 09.01.1998, notificato il successivo 14 gennaio, con il quale il Sindaco di Novara ha ordinato la rimozione della struttura realizzata dal ricorrente, in assenza di titolo autorizzativo, sul balcone dell’alloggio di proprietà (recte: dell’alloggio di cui, all’epoca dei fatti, era promissario acquirente).
Il manufatto abusivo è costituito da un telaio a supporto di pannelli trasparenti scorrevoli; detto telaio delimita completamente il perimetro costituito dal parapetto del balcone ed è ancorato al parapetto medesimo e all’intradosso della soletta sovrastante.
Con l’unico motivo di gravame il ricorrente deduce l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio adottato dal Comune di Novara, sostenendo che la struttura di cui è stata ordinata la rimozione, “lungi dall’essere fissa ed inamovibile”, è semplicemente fissata al parapetto del balcone mediante tenute di sicurezza, paragonabili ai sostegni utilizzati per l’installazione di tende parasole, e costituirebbe pertanto opera precaria, non soggetta al rilascio di concessione edilizia.
Il motivo è privo di pregio.
La maggiore o minore facilità di rimozione non rileva, infatti, ai fini della qualificazione di un’opera edilizia in termini di precarietà (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 23.01.1995, n. 97 e Cons. Stato, sez. V, 12.11.1996, n. 1317).
Neppure assumono una valenza decisiva, in tal senso, la struttura del manufatto abusivo, la sua tipologia o i materiali utilizzati (cfr. TAR Lombardia, Milano, 17.02.1997, n. 168).
Ciò che rileva al fine della qualificazione di un’opera edilizia come precaria è, invece (come affermato dalla giurisprudenza consolidata e condiviso dal Collegio), la funzione cui è obiettivamente finalizzata l’opera, con la conseguenza che solamente le costruzioni destinate ab origine al soddisfacimento di esigenze contingenti e circoscritte nel tempo saranno esenti dall’obbligo della concessione, mentre vi saranno assoggettate le opere destinate ad una utilizzazione perdurante nel tempo (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. V, 24.02.1996, n. 226).
Nel caso in esame, il manufatto abusivo è stato realizzato all’evidente fine di migliorare la fruizione dell’alloggio, offrendo una protezione dagli agenti atmosferici e ampliando gli spazi utilizzabili.
Esso non è quindi destinato a soddisfare esigenze temporanee, mediante una utilizzazione circoscritta nel tempo, bensì è finalizzato ad un utilizzo tendenzialmente durevole, con obiettivi caratteri di stabilità.
Ne consegue che l’opera edilizia, non connotabile in termini di precarietà, era soggetta al rilascio di concessione edificatoria.
Il ricorrente sostiene, in secondo luogo, che la realizzazione della struttura abusiva, proprio in ragione della sua “assoluta rimovibilità”, non avrebbe comportato la modifica delle metrature dell’alloggio e del suo perimetro.
Anche questa affermazione è destituita di fondamento.
Come già rilevato al punto precedente, infatti, l’assenza di connotati di precarietà del manufatto, peraltro di non irrilevante impatto visivo, fa sì che la costruzione abbia stabilmente modificato la superficie e la volumetria dell’immobile.
Deve altresì osservarsi come l’opera in questione costituisca sostanzialmente una veranda chiusa con superfici trasparenti, seppure scorrevoli su pannelli mobili, la cui apposizione all’edificio di abitazione ne ha alterato la sagoma, realizzando una trasformazione edilizia duratura che necessitava di concessione edilizia.
Ne consegue che legittimamente il Sindaco di Novara, accertata l’esecuzione di opere in assenza di concessione, ne ha disposto la rimozione, ai sensi dell’articolo 7 della legge 28.02.1985, n. 47 e dell’articolo 64 della legge regionale Piemonte 05.12.1977, n. 56 (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 26.04.2005 n. 1136 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 22.06.2013

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dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

PUBBLICO IMPIEGO: R. Lasca, Lavoro straordinario nel Pubblico Impiego: discriminazioni dirette ed indirette “mirate” … da evitare! - La prassi incolta di molte PP.AA. italiane, a fronte della fruizione delle ore retribuite di permesso, discrimina i lavoratori dipendenti portatori di handicap essi stessi o meri assistenti ex L. 104/1992 (10.06.2013).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate, 06.06.2013).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 21.06.2013, suppl. ord. n. 50/L, "Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia" (D.L. 21.06.2013 n. 69).
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Per leggere la sintesi dei numerosi provvedimenti presi, si legga il comunicato stampa 15.06.2013 della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 21.06.2013, "Indirizzi per l’applicazione delle norme transitorie per la pianificazione comunale (l.r. 1/2013)" (circolare regionale 19.06.2013 n. 14).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: A. Ferruti, Prestazione energetica degli edifici: novità e conferme nel decreto-legge n. 63/2013 (giugno 2013 - link a www.lexitalia.it).

URBANISTICA: L. Spallino, Gli strumenti giuridici della rigenerazione urbana: evoluzione delle forme (21.06.2013 - link a www.studiospallino.it).

EDILIZIA PRIVATA: P. Giannone, L’istituto della sanatoria disciplinata dall’art. 36 del D.P.R. 380/2001 e la sua estensibilità all’Autorizzazione Unica alla realizzazione ed all’esercizio di impianti per la produzione di energia elettrica mediante utilizzo di fonti energetiche rinnovabili di cui all'art. 12, comma 3, del D.Lgs. 387/2003 - PARTE 1^ (link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: G. Severini, La tutela costituzionale del paesaggio (art. 9 Cost.) (link a www.giustizia-amministrativa.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Dipendente comunale, membro della commissione di gara o responsabile del procedimento?
Domanda
Può essere nominato membro di una Commissione di gara per l'affidamento di un servizio compreso nell'elenco di cui all'allegato II B del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 il dipendente comunale destinato a rivestire l'incarico di responsabile del procedimento nella fase di esecuzione del contratto da stipulare con il soggetto aggiudicatario?
Risposta
L'art. 20 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, che regola espressamente gli appalti di servizi elencati nell'allegato II B dello stesso D.Lgs., prevede che "l'aggiudicazione degli appalti aventi per oggetto i servizi elencati nell'allegato II B è disciplinata esclusivamente dall'art. 68 (specifiche tecniche), dall'art. 65 (avviso sui risultati della procedura di affidamento), dall'art. 225 (avvisi relativi agli appalti aggiudicati)".
L'incompatibilità prospettata nella domanda è invece regolata dall'art. 84 comma 4, per cui "I commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta"; tra i ruoli che fanno sorgere l'incompatibilità la giurisprudenza ricomprende pacificamente anche il responsabile del procedimento (si veda, ex multis, la recente TAR Puglia Bari Sez. I, 06.02.2013, n. 174).
Per completezza, è opportuno citare anche l'art. 27 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 ("principi relativi ai contratti esclusi"), che stabilisce al comma 1: "L'affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi forniture, esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità...".
Basandosi sul mero dettato normativo, si potrebbe affermare che l'art. 84 non è ricompreso tra gli articoli previsti dall'art. 20 come applicabili ai servizi di cui all'allegato II B del codice; sull'argomento è pero intervenuta, con orientamenti contrastanti, la giurisprudenza amministrativa. Si veda ad esempio Cons. Stato Sez. III, 17.10.2011, n. 5547, che riporta in massima "gli appalti esclusi, compresi nell'allegato II B dell'art. 20 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice degli appalti), sono soggetti esclusivamente all'applicazione delle norme ivi richiamate ovvero agli artt. 65 (avviso sui risultati della procedura di affidamento), 68 (specifiche tecniche) e 225 (avviso appalti aggiudicati nei settori speciali). La scelta della stazione appaltante di aggiudicare un appalto escluso con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa di cui all'art. 83 del codice non implica, salvo un esplicito richiamo contenuto negli atti di gara, l'applicazione del disposto di cui al successivo art. 84 relativo alla nomina e costituzione della commissione di gara", attenendosi quindi a un'interpretazione letterale del disposto normativo, laddove un'altra sezione del Consiglio di Stato ha ritenuto che la ratio nell'art. 84 sia invece espressione di "principi generali, costituzionali e comunitari, volti ad assicurare il buon andamento e l'imparzialità dell'azione amministrativa.
Secondo la giurisprudenza, essa, in quanto espressiva di un principio generale, è applicabile anche alle procedure di evidenza pubblica non disciplinate dal codice dei contratti pubblici
" (Cons. Stato Sez. IV, 10.01.2012, n. 27).
A dirimere questo contrasto è di recente intervenuta l'Adunanza plenaria, con la Sent., 07.05.2013, n. 13. La sentenza, pur intervenendo nello specifico sull'applicabilità o meno dell'art. 84 alle concessioni di servizi ex art. 30, stabilisce comunque principi generali che appaiono applicabili anche all'ambito dei contratti esclusi (ed è la stessa sentenza a richiamare più volte l'art. 27). In particolare il Consiglio di Stato statuisce che "deve ritenersi, quindi, che le regole, quali quelle contenute nell'art. 84 sui "tempi" della formazione e sulla "regolare composizione" di un organo amministrativo (tali regole aventi natura sostanziale e non ogni diversa disposizione procedurale) siano un predicato dei principi di trasparenza e di imparzialità, per cui le disposizioni di cui ai commi 4 e 10 devono ritenersi espressione di principio generale del codice".
Gli ultimi orientamenti giurisprudenziali portano quindi a ritenere che le norme dell'art. 84 siano espressione di principi generali tesi ad assicurare trasparenza e imparzialità, e in quanto tali applicabili anche alle procedure di evidenza pubblica non disciplinate dal codice dei contratti pubblici, come peraltro previsto dall'art. 27 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163. Per questi motivi, vista la non univocità delle soluzioni proposte dalla giurisprudenza, pare più prudente che lo stesso dipendente comunale non svolga ambedue le funzioni di membro della commissione e di responsabile del procedimento
(21.06.2013 - tratto da www.ipsoa.it).

APPALTI SERVIZI: Convenzione per la gestione e manutenzione degli spazi verdi del Comune.
La convenzione per lo svolgimento di attività a favore del Comune da parte di un'associazione di volontariato e un eventuale contributo alla medesima non possono essere correlati tra loro, pena la qualificazione di 'corrispettivo' del contributo stesso, esclusa dalla vigente normativa.
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Il Comune chiede un parere in ordine alla possibilità di affidare la gestione e manutenzione degli spazi verdi di proprietà comunale al gruppo locale Alpini, a fronte di un contributo annuo.
L'articolo 4, commi 6, 7 e 8 del decreto legge 06.07.2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135, ha disciplinato, fra l'altro, alcuni aspetti degli affidamenti delle pubbliche amministrazioni per l'acquisizione di beni e servizi, anche mediante convenzioni stipulate con le associazioni di volontariato.
In particolare, il comma 6 dispone che a decorrere dal 01.01.2013 le pubbliche amministrazioni, di cui al l'articolo 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, possono acquisire a titolo oneroso servizi di qualsiasi tipo da enti di diritto privato, anche mediante convenzioni, unicamente tramite le procedure previste dalla normativa nazionale in conformità con quella comunitaria.
Gli enti di diritto privato di cui agli artt. da 13 a 42 del codice civile (società, associazioni, fondazioni e comitati) che forniscono servizi all'amministrazione anche a titolo gratuito, non possono ricevere contributi a carico delle finanze pubbliche. Restano escluse da tale disposizione le fondazioni istituite con la finalità di promuovere lo sviluppo tecnologico e l'alta formazione tecnologica, gli enti operanti nel campo dei servizi socio-assistenziali e dei beni ed attività culturali, dell'istruzione e della formazione, le associazioni di promozione sociale, gli enti di volontariato (di cui alla l. 266/1991 'Legge quadro sul volontariato'), le organizzazioni non governative, le cooperative sociali, le associazioni sportive dilettantistiche nonché le associazioni rappresentative, di coordinamento e supporto degli enti territoriali e locali.
Il comma 7, al fine di evitare distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori nel territorio nazionale, sancisce che, a decorrere dal 01.01.2014, i soggetti ivi contemplati, fra cui le pubbliche amministrazioni indicate al comma precedente, devono acquisire sul mercato i beni e servizi strumentali alla propria attività, mediante le procedure concorrenziali previste dal codice appalti. E' consentita l'acquisizione in via diretta di beni e servizi tramite convenzioni realizzate con le associazioni di promozione sociale, iscritte negli specifici registri, le organizzazioni di volontariato iscritte negli specifici registri, le associazioni sportive dilettantistiche, le cooperative sociali, ai sensi delle vigenti normative nonché le convenzioni siglate con le organizzazioni non governative per le acquisizioni di beni e servizi realizzate negli ambiti di attività cooperazione allo sviluppo, previste della vigenti disposizioni.
Il comma 8 prevede che dal 01.01.2014 l'affidamento diretto può avvenire solo a favore di società a capitale interamente pubblico nel rispetto della normativa comunitaria per la gestione in house, a condizione che il valore economico del servizio o dei beni oggetto di affidamento sia pari o inferiore a 200.000 euro annui.
Sono fatti salvi gli affidamenti in essere fino alla scadenza naturale e comunque fino al 31.12.2014 e le acquisizioni in via diretta di beni e servizi il cui valore complessivo sia pari o inferiore a 200.000 euro in favore delle associazioni di promozione sociale, degli enti di volontariato, delle associazioni sportive dilettantistiche, delle organizzazioni non governative e delle cooperative sociali.
Con riferimento alla fattispecie in commento, sarà dunque preventivamente necessario accertare la natura di 'organizzazione di volontariato' dell'associazione nazionale alpini
[1] con la quale il Comune instante intende sottoscrivere la convenzione e verificare che la stessa risulti iscritta da almeno sei mesi nell'apposito registro. Infatti, tanto in virtù delle summenzionate norme statali, quanto ai sensi dell'articolo 14 della legge regionale 09.11.2012, n. 23, recante 'Disciplina organica sul volontariato e sulle associazioni di promozione sociale e norme sull'associazionismo', l'iscrizione nel registro ivi indicato è considerata un requisito essenziale per la stipula di convenzioni, tanto con la Regione e con gli enti e le aziende regionali, quanto con gli enti locali.
Una volta accertata la sussistenza dei requisiti prescritti dalla citata normativa e appurato il rispetto delle disposizioni di cui all'articolo 14, lr 23/2012, ovvero che le attività oggetto della convenzione rientrano tra quelle indicate al comma 1
[2], e che gli interventi richiesti rientrano nel settore in cui l'organizzazione opera principalmente [comma 5, lett. a)], si potrà procedere alla stipula della convenzione in argomento.
Diversa questione concerne, invece, la possibilità di erogare un contributo annuo all'associazione e di collegarlo all'attività svolta in convenzione.
Infatti, l'articolo 14, comma 4, della lr 23/2012 dispone che l'attività prevista in convenzione sia svolta secondo le finalità e i principi di cui agli articoli 2, 3 e 4 della legge 11.08.1991, n. 266. Si osserva, in particolare che i predetti articoli, con riferimento alle organizzazioni di volontariato, prevedono espressamente l'assenza di fini di lucro, escludono la possibilità che l'attività dei volontari venga retribuita; il successivo articolo 5, indica tra le risorse economiche dell'organizzazione esclusivamente contributi, donazioni e lasciti ricevuti, e rimborsi derivanti da convenzioni.
Inoltre, con riferimento al comma 3 del citato art. 14, lr 23/2012, si osserva che tra gli elementi regolati dalle convenzioni non figurano in alcun modo proventi aventi natura di corrispettivo bensì, sub lettera a) 'il contenuto dell'intervento volontario e gratuito, nonché le modalità di svolgimento delle prestazioni che formano oggetto della convenzione' e sub lettera g) 'le modalità di erogazione, di rendicontazione, i rapporti finanziari, la tipologia delle spese ammissibili a rimborso, comprensive della copertura assicurativa a carico dell'ente e i tempi per il rimborso'.
Si ritiene, dunque, che
la convenzione per lo svolgimento delle attività indicate in premessa e un eventuale contributo all'associazione non possano essere correlati, pena la qualificazione di 'corrispettivo' del contributo stesso, esclusa, come ampiamente illustrato, dalle norme sopra riportate.
Per quanto concerne, invece, il diverso profilo dell'assegnazione di contributi al gruppo Alpini (non correlati con la convenzione stipulata), si rileva che, ai sensi del sopra richiamato articolo 4, comma 6, del DL 95/2012, il divieto di erogare contributi ivi contemplato non opera nei confronti degli enti di volontariato.
Tuttavia le modalità di erogazione di un contributo all'associazione de qua dovranno rispettare le prescrizioni di cui all'articolo 12 della legge 07.08.1990, n. 241, ai sensi del quale:  '1. La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
2. L'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1.
'.
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[1] Il gruppo Alpini è solitamente inteso come un'associazione apartitica che si propone di:
   a) tenere vive e tramandare le tradizioni degli Alpini, difenderne le caratteristiche;
   b) rafforzare tra gli Alpini di qualsiasi grado e condizione i vincoli di fratellanza nati dall'adempimento del comune dovere verso la Patria;
   c) promuovere e favorire lo studio dei problemi della montagna e del rispetto dell'ambiente naturale;
   d) promuovere e concorrere in attività di volontariato.
Per il conseguimento degli scopi associativi il gruppo Alpini, in genere, non ha scopo di lucro, si avvale in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri soci.
[2] Il comma 1 dell'art. 14 recita: 'In attuazione del principio di sussidiarietà e per promuovere forme di amministrazione condivisa, le organizzazioni di volontariato iscritte nel Registro da almeno sei mesi possono stipulare convenzioni con la Regione, gli enti e aziende il cui ordinamento è disciplinato dalla Regione e gli enti locali per lo svolgimento di:
   a) attività e servizi assunti integralmente in proprio;
   b) attività innovative e sperimentali;
   c) attività integrative complementari o di supporto a servizi pubblici;
   d) attività frutto di co-progettazione tra organizzazioni ed enti pubblici.'
(13.06.2013 - link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Indennità del vicesindaco reggente.
Al vicesindaco reggente compete, per il periodo di concreto esercizio dei pieni poteri sostitutivi, un'indennità di importo pari a quella goduta dal sindaco, atteso che la misura dell'indennità si correla essenzialmente alla funzione svolta dal percipiente e non alla qualifica da questi rivestita (Consiglio di Stato, parere n. 501/2001).
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla misura dell'indennità spettante al vicesindaco reggente a seguito delle dimissioni del sindaco.
Sentito il Servizio finanza locale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Ai sensi dell'articolo 37-bis, comma 1, della legge 08.06.1990, n. 142
[1], in caso di dimissioni del sindaco, la giunta decade e si procede allo scioglimento del consiglio. La giunta e il consiglio rimangono in carica sino all'elezione del nuovo consiglio e del nuovo sindaco, mentre le funzioni del sindaco sono svolte dal vicesindaco.
Il Consiglio di Stato, sezione I, parere 14.06.2001, n. 501, si è espresso nel senso di un riconoscimento di pieni poteri del vicesindaco investito di funzioni vicarie, potendo svolgere tutte le funzioni che precedentemente facevano capo al sindaco.
Infatti, nell'ipotesi di dimissioni del sindaco, la sostituzione dello stesso da parte del vicesindaco ha carattere stabile ed «assume contorni assimilabili per molti versi a quelli della vera e propria reggenza».
In conseguenza, e unitamente alla considerazione che l'indennità in argomento è correlata essenzialmente alla funzione svolta dal percipiente (e non alla qualifica da questi rivestita), il Consiglio di Stato ha ritenuto che al vicesindaco reggente competa, per il periodo di concreto esercizio dei poteri sostitutivi, un'indennità di importo pari a quella goduta dal sindaco.
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[1] Per effetto del rinvio operato dall'articolo 23, comma 1, della legge regionale 04.07.1997, n. 23, nel Friuli Venezia Giulia tale articolo continua a trovare applicazione, così come vigente alla data di entrata in vigore della legge regionale 23/1997
(13.06.2013 - link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Obbligo di astensione dei consiglieri comunali.
Qualora nell'approvazione di una variante al PRGC si possa escludere la presenza di un interesse immediato, diretto e specifico dei singoli amministratori (o dei loro parenti o affini sino al quarto grado) non sussiste alcun obbligo di astensione, mentre, in caso contrario, si può addivenire all'approvazione della variante in argomento mediante il ricorso alla votazione frazionata.
Il Comune chiede di conoscere se sussista l'obbligo di astensione degli amministratori locali, ai sensi dell'art. 78, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, nel caso di adozione di variante al PRGC volta a modificare una norma generica di zona B4 (che individua le aree di pertinenza delle abitazioni, edificabili solo per servizi ed accessori, su tutto il territorio comunale). Un tanto poiché, in caso di risposta affermativa, la quasi totalità dei consiglieri comunali risulterebbe interessata dall'obbligo di astenersi, rendendo di fatto impossibile l'adozione della variante in commento.
Ai sensi dell'articolo 78, comma 2, del d.lgs. 267/2000, 'Gli amministratori di cui all'art. 77, comma 2, devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado'.
L'obbligo di astensione trova il suo fondamento nel principio costituzionale di imparzialità e trasparenza dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.).
Come già affermato dallo scrivente Ufficio nel parere prot. n. 21090 dd. 26.05.2011, la giurisprudenza sul tema dell'obbligo di astensione per conflitto di interessi da parte dei soggetti appartenenti ad organi collegiali, ha chiarito come lo stesso ricorra per il solo fatto che essi siano portatori di interessi personali che possano trovarsi in posizione di conflittualità, ovvero anche solo di divergenza, rispetto a quello generale, affidato alle cure dell'organo di cui fanno parte.
[1]
Con riferimento specifico all'approvazione dei provvedimenti normativi o di carattere generale, ai quali la fattispecie in esame sembra essere riconducibile, la norma ha disciplinato l'obbligo di astensione in modo tale che la sua violazione possa verificarsi solo in presenza di un interesse immediato, diretto e specifico dell'amministratore (o dei suoi parenti o affini) e non di un interesse genericamente non definito.
Sarà necessario, pertanto, valutare le condizioni specifiche che consentano di escludere o ammettere la corrispondenza del caso concreto alla fattispecie ipotizzata dalla norma.
La giurisprudenza ha, comunque, al riguardo, affermato che: 'L'obbligo di astensione che incombe sugli amministratori comunali in sede di adozione (e di approvazione) di atti di pianificazione urbanistica sorge per il solo fatto che, considerando lo strumento stesso l'area alla quale l'amministratore è interessato, si determini il conflitto di interessi, a nulla rilevando il fine specifico di realizzare l'interesse privato e/o il concreto pregiudizio dell'amministrazione pubblica'.
[2]
Il Ministero dell'Interno, intervenuto sull'argomento, nel richiamare la suindicata giurisprudenza, ha, altresì, affermato come la stessa sia concorde nel ritenere che il dovere di astensione sussista in tutti i casi in cui gli amministratori versino in situazioni, anche potenzialmente, idonee a porre in pericolo la loro assoluta imparzialità e serenità di giudizio.
[3]
Per evitare che un possibile conflitto di interessi infici la legittimità degli atti deliberativi, la giurisprudenza ha ritenuto che una votazione frazionata delle modifiche ai piani urbanistici, cui di volta in volta si astengono gli amministratori interessati, seguita dall'approvazione dello strumento pianificatorio nel suo complesso, rappresenti una soluzione 'ragionevole e realistica'.
[4] Infatti, ove non si consentisse detta votazione frazionata, sarebbe sostanzialmente impossibile per i piccoli comuni, in cui gran parte degli amministratori e loro parenti e affini sono proprietari dei terreni interessati, procedere all'adozione di strumenti urbanistici generali. [5]
L'adozione dello strumento urbanistico non può, comunque, esaurirsi in votazioni frazionate, ma deve necessariamente comprendere una fase conclusiva comportante l'esame, la discussione, la votazione e approvazione del documento pianificatario nel suo complesso. Tale votazione complessiva da parte di tutti i componenti il collegio, ivi compresi i consiglieri che si sono astenuti dalle votazioni sulle singole modifiche, non può ritenersi preclusa dall'articolo 78, comma 2, del d.lgs. 267/2000. Infatti, il consigliere 'interessato', per quanto riguarda la scelta pianificatoria che lo riguarda direttamente, non è più in grado di influire, almeno direttamente, sulla stessa in sede di votazione finale, atteso che il consenso su quella scelta si è già formato senza la sua partecipazione
[6].
Valuti, dunque, l'Ente instante, alla luce delle considerazioni sopra svolte, se nella fattispecie in esame si possa escludere la presenza di un interesse immediato, diretto e specifico dei singoli amministratori (o dei loro parenti o affini): in caso affermativo non sussisterebbe alcun obbligo di astensione, mentre, in caso contrario, si potrebbe addivenire all'approvazione della variante in argomento mediante il ricorso alla votazione frazionata, alla luce dell'orientamento sopra esposto.
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[1] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 13.06.2008, n. 2970.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 26.05.2003, n. 2826. Di recente si veda Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 28.01.2011, n. 693.
[3] Ministero dell'Interno, pareri del 03.06.2008, del 22.04.2008 e del 31.10.2007.
[4] TAR Veneto, Sez. I, 08.06.2006, n. 1719.
[5] Detta soluzione è stata accolta anche dal Ministero dell'Interno. Si veda al riguardo il parere del 18.10.2012.
[6] Un tanto è stato recentemente confermato dalla Cassazione penale, nella sentenza 27/03/2013, n. 14457, che ha chiarito che 'il sindaco e l'assessore all'urbanistica non hanno il dovere di astenersi dalla delibera di approvazione del piano regolatore generale, trattandosi di un atto finale di un procedimento complesso in cui vengono valutati, ponderati e composti molteplici interessi, sia individuali che pubblici, sicché il provvedimento ha un contenuto di carattere generale, attenendo all'assetto territoriale nel suo complesso; mentre tale obbligo di astensione sussiste se il voto espresso dagli amministratori riguarda la destinazione della singola area o la specifica prescrizione, come è accaduto nella fattispecie nella quale il voto aveva avuto ad oggetto una variante e poi la relativa opposizione alla variante, concernente un'area in relazione alla quale è riconoscibile un interesse personale, anche indiretto, del pubblico amministratore.'
(05.06.2013 - link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: I permessi studio.
In un comune, con 28 dipendenti in organico, sono state presentate, a fine 2010, 2 richieste di permessi studio per l’anno 2011. Considerato che solo il 3% del totale dipendenti ha diritto di usufruire dei permessi studio, sono stati concessi, pertanto, solo a un dipendente, in quanto lo stesso, a parità di titoli, non aveva fruito in passato di permessi per ore studio. Il dipendente che ha fruito del diritto non ha utilizzato tutte le ore studio e nel corso del 2011 non ha dato comunicazione di rinuncia per la differenza. Il secondo in graduatoria non ha richiesto, a sua volta, di utilizzare la differenza, se si fosse realizzata.
Ora, a dicembre 2012, a distanza di quasi un anno dalla scadenza dell’utilizzo delle ore studio 2011, il secondo in graduatoria chiede che gli vengano assegnate le ore di permessi studio 2011 residue, non utilizzate dal collega, per la frequenza universitaria svolta sempre nel 2011, debitamente documentata, con conseguente riconversione dei giorni imputati a ferie e/o recupero nello stesso 2011.
Si chiede, alla luce dei fatti descritti, come questo ente deve rapportarsi, considerato il tempo intercorso tra l’esercizio di un eventuale diritto all’utilizzo delle ore residuali e la richiesta dell’interessato a distanza di un anno.

La disciplina dei permessi per il diritto allo studio è contenuta nell’art. 15 del Ccnl del 2000 che, al comma 1, fissa il vincolo secondo il quale i permessi in parola sono determinati nella “misura massima di 150 ore individuali per ciascun anno”. Questa chiara indicazione contrattuale deve essere intesa come un vincolo periodico che vale per ogni singolo anno, termina alla fine di ogni anno e riprende vigore con l’inizio dell’anno successivo con un nuovo periodo di 150 ore. In altri termini non è in alcun modo possibile utilizzare eventuali ore non usufruite in un anno per trasportarle all’anno successivo in aggiunta alle ordinarie 150 ore di questo ultimo periodo.
In altri termini, se nell’esercizio 2011, ad esempio, risultano non fruiti 40 giorni del monte complessivo di 150, questi 40 giorni vengono azzerati al 31 dicembre e non possono concorrere a integrare le 150 ore del 2012.
Altro e diverso discorso può essere svolto sull’utilizzo delle ore non fruite da parte del lavoratore interessato con attribuzione ad altro eventuale soggetto interessato, a sua esplicita richiesta, ma nel corso del medesimo esercizio.
Ritornando al caso pratico, possiamo ipotizzare che nel 2012 il dipendente autorizzato a fruire delle 150 ore ha fruito solo in parte del suo diritto, ad esempio, per 110 ore, e dichiara espressamente che non utilizzerà il residuo di 40 ore entro il 31 dicembre del medesimo anno; in questo caso l’ente è legittimato ad attribuire queste 40 ore ad altro lavoratore richiedente in possesso dei prescritti requisiti. Ricordiamo che questa operazione deve riguardare le sole assenze del medesimo anno 2012 che non possono essere riferite all’anno 2013. Per concludere, le ore non fruite nell’anno 2011 devono considerarsi ormai inutilizzabili (Guida al Pubblico Impiego n. 6/2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Scorrimento graduatoria concorsuale.
Un ente locale ha chiesto un approfondimento in merito al previo esperimento delle procedure di mobilità volontaria in caso di assunzione tramite scorrimento di graduatoria concorsuale, soprattutto in relazione alla sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 4329/2012, in cui si sancisce che la modalità di assunzione per scorrimento della graduatoria di concorso già espletato è estranea alla fattispecie delineata dal comma 2-bis dell’art. 30 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165.
Alle tematiche del previo esperimento della mobilità volontaria, anche in relazione alle assunzioni tramite scorrimento di graduatoria, è dedicato il paragrafo n. 10, “Indicazioni per la pianificazione del fabbisogno e in materia di mobilità”, della nota circolare n. 11786 del 22.02.2011 del dipartimento della Funzione pubblica che, ancorché non destinata agli enti locali, può essere utilmente richiamata.
Nella predetta nota circolare si ricordava che per quanto attiene all’obbligo di esperire preventivamente le procedure di mobilità volontaria, lo stesso risponde ad un’esigenza di razionalizzazione dell’organizzazione pubblica e di riduzione della spesa di personale, senza trascurare l’aspirazione dei pubblici dipendenti di conciliare meglio vita personale e lavorativa attraverso una maggiore vicinanza alla propria abitazione. La nuova formulazione dell’art. 30, comma 1, del Dlgs n. 165/2001, come voluta dal Dlgs n. 150/2009, introduce poi l’obbligo di “rendere pubbliche le disponibilità dei posti in organico da ricoprire attraverso passaggio diretto di personale da altre amministrazioni, fissando preventivamente i criteri di scelta” e si richiamava, “infine, la giurisprudenza consolidata secondo cui l’obbligo delle amministrazioni, prima di procedere all’espletamento di procedure concorsuali, di attivare le procedure di mobilità evidenzia un obiettivo chiaro del legislatore di accordare all’istituto della mobilità priorità assoluta rispetto all’assunzione di nuovo personale pubblico”.
L’obiettivo va perseguito anche se alla nuova assunzione si procede mediante lo scorrimento di graduatorie ancora efficaci, “nell’evidente scopo di contenimento della spesa pubblica inerente al personale di tutte le pubbliche amministrazioni”. Deve osservarsi che, trascorso più di un triennio dal febbraio 2011, anche se non può definirsi del tutto univoco l’orientamento della giurisprudenza
al riguardo, è pur vero che la lettura sistematica della disciplina in materia evidenzia un favor legislativo per l’istituto della mobilità.
Accanto alla previsione inequivocabile della preventiva attivazione delle procedure di mobilità “prima di procedere all’espletamento di procedure concorsuali” (art. 30, comma 2-bis, del Dlgs n. 165/2001) l’applicazione dell’istituto, anche nel caso di scorrimento di graduatorie di idonei, si rinviene nel comma 2 dello stesso art. 30, che dispone “In ogni caso sono nulli gli accordi, gli atti o le clausole dei contratti collettivi volti ad eludere l’applicazione del principio del previo esperimento di mobilità rispetto al reclutamento di nuovo personale”, principio che lascia desumere la priorità, riconosciuta dalla legge, alle procedure di mobilità rispetto a quelle del reclutamento, con la conseguenza che una deroga alle prime, a favore delle seconde, va eventualmente motivata, fatte salve le normative speciali in materia più vincolanti.
Si ricorda, inoltre, che nell’ambito degli atti di organizzazione, ispirati ai principi di efficienza, razionalizzazione del costo del lavoro pubblico, contenimento della spesa complessiva per il personale, migliore utilizzazione delle risorse umane, le amministrazioni pubbliche devono curare “l’ottimale distribuzione delle risorse umane attraverso la coordinata attuazione dei processi di mobilità e di reclutamento del personale” (art. 6, comma 1, ultimo periodo, del Dlgs n. 165/2001).
Pertanto, tenuto conto che le politiche di reclutamento delle pubbliche amministrazioni si basano sulla programmazione dei fabbisogni di personale, tale programmazione deve essere predisposta mediante un piano previsionale puntuale ed equilibrato, che preveda, nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica e del regime delle assunzioni, l’esperimento delle procedure di mobilità volontaria, quale modalità ordinaria di reclutamento, e l’accesso dall’esterno per pubblico concorso.
In conclusione, l’ambito di estensione del principio del previo esperimento della mobilità volontaria deve tenere conto del regime assunzionale valido per la singola amministrazione nell’anno di riferimento e nel triennio; della finalità primaria del contenimento della spesa di personale; delle esigenze organizzative dell’amministrazione preventivamente definite mediante apposita e dettagliata motivazione, nel rispetto del principio di trasparenza ed imparzialità (Guida al Pubblico Impiego n. 6/2013).

PUBBLICO IMPIEGO: I buoni pasto.
In sede di delegazione trattante sono insorti contrasti interpretativi in ordine all’applicazione delle disposizioni che regolano i buoni pasto.
Partendo dal presupposto che con un buono di 5,29 euro, secondo i prezzi correnti della ristorazione veloce tra i pubblici esercizi della zona di riferimento, non è possibile consumare un pasto completo di primo e secondo, tralasciando contorno e bevande, la parte sindacale chiede che ai dipendenti che hanno diritto al buono pasto non sia applicata la trattenuta di 1/3 sul valore del buono.
La scrivente amministrazione comunale chiede, quindi, a codesto servizio di consulenza se la vigente legislazione e la vigente contrattazione collettiva consentono alle amministrazioni locali datrici di lavoro di non applicare discrezionalmente la trattenuta di 1/3 sui buoni pasto sostitutivi del servizio di mensa.

La richiesta sindacale non è accoglibile. Si conferma che la vigente normativa legislativa e contrattuale non consente alle amministrazioni locali datrici di lavoro di rinunciare discrezionalmente alla trattenuta e quindi al recupero nei confronti dei dipendenti di 1/3 sul costo dei buoni pasto sostitutivi del servizio di mensa messi a disposizione dei dipendenti, tenendo conto delle specificità di orario e di servizio.
n proposito non sono riscontrabili ipotesi alternative. Una scelta in tal senso farebbe sorgere responsabilità a carico di chi la ponesse in essere. Si richiamano in proposito gli artt. 45 e 46 del Ccnl del 14.09.2000, con particolare attenzione al comma 4 per il primo (“4. Il dipendente è tenuto a pagare, per ogni pasto, un corrispettivo pari ad un terzo del costo unitario risultante dalla convenzione, se la mensa è gestita da terzi, o un corrispettivo pari ad un terzo dei costi dei generi alimentari e del personale, se la mensa è gestita direttamente dall’ente.”) e al comma 1 per il successivo (“1. Il costo del buono pasto sostitutivo del servizio di mensa è pari alla somma che l’ente sarebbe tenuto a pagare per ogni pasto, ai sensi del comma 4 dell’articolo precedente.”). I predetti artt. sono stati successivamente integrati dall’art. 13 (“Disposizioni in materia di buoni pasto”) del Ccnl del 09.05.2006, che conferma ‘in toto’ quanto sancito dai predetti, introducendo flessibilità nell’orario di possibile consumazione del pasto da parte di particolari categorie di dipendenti.
A margine si richiama il parere della sezione regionale di controllo della Lombardia della Corte dei conti che, con deliberazione n. 651 del 06.12.2011, a proposito di buoni pasto, esprime parere contrario all’incremento del valore del beneficio (tale sarebbe il mancato rimborso del terzo a carico del dipendente). Infatti per la Corte sussiste per le amministrazioni pubbliche il divieto di incrementare l’importo dei buoni pasto in quanto, a suo giudizio, i predetti buoni sono da considerarsi elementi retributivi rientranti nel trattamento economico complessivo che non può e non deve essere incrementato ai sensi dell’art. 9, comma 1, del decreto legge n. 78/2010.
Quanto sopra evidenzia che non si può accogliere quanto richiesto dalle rappresentanze sindacali (Guida al Pubblico Impiego n. 4/2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi pubblici, vigenza graduatorie.
Un comune della regione Sardegna chiede se la proroga dei termini di vigenza delle graduatorie di concorsi pubblici al 30.06.2013 in virtù di quanto disposto dalla legge n. 228 del 2012 interessi anche le graduatorie la cui scadenza naturale è in un periodo successivo al 31.12.2012.
Nel caso specifico l’ente ha graduatorie in scadenza nei mesi di gennaio e aprile 2013.

La proroga riguarda senz’altro anche le graduatorie in scadenza nei mesi di gennaio e aprile 2013. Al fine di motivare la risposta, occorre descrivere il quadro normativo di riferimento. Il decreto legge 29.12.2011, n. 216, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.02.2012, n. 14, stabiliva, all’articolo 1, comma 4, che “L’efficacia delle graduatorie dei concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato, relative alle amministrazioni pubbliche soggette a limitazioni delle assunzioni, approvate successivamente al 30 settembre 2003, è prorogata fino al 31.12.2012”.
Tale disposizione individua le graduatorie oggetto di proroga fino al 31.12.2012.
Gli aspetti rilevanti, in modo concorrente, per l’applicazione della norma sono:
graduatorie in scadenza approvate successivamente al 30.09.2003: la formulazione del legislatore esprime un concetto dinamico.
Preliminarmente si sottolinea che l’istituto della proroga è applicabile nella misura in cui l’intervento opera su una fattispecie produttiva ancora di effetti alla data della proroga.
La dinamicità (rapportata alle parole “in scadenza”) fa intendere che la volontà della legge è quella di prorogare non solo le graduatorie che scadono il giorno della data di entrata in vigore del provvedimento, ma anche quelle la cui scadenza opererebbe nell’arco temporale di durata dell’intervento di proroga (in particolare sono prorogate le graduatorie approvate successivamente al 30.09.2003 tra cui rientrano: quelle vigenti in quanto già oggetto di precedenti proroghe e quelle ordinariamente vigenti anche se in scadenza fino a tutto il 31.12.2012);
le graduatorie devono riguardare concorsi pubblici relativi a procedure per assunzioni a tempo indeterminato: il legislatore non ha inteso prorogare graduatorie relative a concorsi riservati o a procedure per assunzioni a tempo determinato;
le amministrazioni destinatarie devono avere un regime delle assunzioni soggetto a limitazioni:
la finalità della proroga è quella di consentire tempi di utilizzo più ampi delle graduatorie, laddove le esigenze di finanza pubblica impediscono lo scorrimento nell’ottica di limitare i livelli occupazionali nella pubblica amministrazione.
L’articolo 1, comma 388, della legge 24.12.2012, n. 228 sposta al 30.06.2013 il termine di scadenza previsto dall’articolo 1, comma 4, del decreto legge n. 216/2011.
Quanto detto in merito alle graduatorie in scadenza si sposta temporalmente fino al 30.06.2013. In ragione di ciò sono ricomprese nella proroga anche le graduatorie oggetto del quesito, purché concorrano le altre condizioni sopra evidenziate.
Si ricorda che l’articolo 1, comma 394, della legge n. 228/2012 prevede che con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, da adottare di concerto con il ministro dell’Economia e delle finanze, può essere disposta l’ulteriore proroga fino al 31.12.2013 del termine del 30.06.2013 di cui al comma 388
(Guida al Pubblico Impiego n. 4/2013).

NEWS

CONDOMINIO: Dall'amministratore al bilancio. Riforma del condominio al via. In vigore dal 18 giugno la legge n. 220/2012. Formazione e nuovi adempimenti.
Al via la riforma del condominio. Trascorso il periodo di sei mesi dalla pubblicazione in G.U. della legge n. 220/2012, questa settimana entrano in vigore le modifiche apportate agli articoli 1117 e seguenti del codice civile e delle relative disposizioni di attuazione.
Le novità principali riguardano le nuove attribuzioni dell'amministratore, che di fatto deve tornare sui banchi di scuola. Chi si dedicherà per la prima volta a questa attività dovrà infatti essere in possesso di un diploma di scuola secondaria di secondo grado e avere svolto un corso di formazione in materia di amministrazione condominiale. Solo chi potrà dimostrare di avere già esercitato detta attività per almeno un anno a partire dal giugno 2010 potrà invece fare a meno di detti requisiti, salvo l'obbligo di frequentare i corsi di formazione periodica. Saranno invece esentati da qualsiasi obbligo formativo, tanto iniziale quanto periodico, quei condomini che si assumano l'onere di amministrare il proprio condominio.
Quanto sopra rischia però di rimanere sulla carta, almeno fino a che non si stabilisca come debbano essere organizzati i corsi di formazione: su quali materie debbano vertere, quale sia il monte ore minimo da rispettare, chi possa organizzarli. Il controllo sul possesso dei requisiti di legge da parte dell'amministratore rimane comunque demandato agli stessi condomini: dovrà essere infatti l'assemblea a verificare, prima della nomina e durante lo svolgimento del mandato, se il candidato possa o meno aspirare a svolgere e/o a continuare detta attività.
I requisiti che devono essere posseduti dall'amministratore condominiale. La legge n. 220/2012, oltre a rafforzare prerogative e obblighi dell'amministratore condominiale, ha voluto anche restringere le modalità di accesso a detta attività, pur senza giungere all'istituzione di un vero e proprio registro.
Oltre ai requisiti di formazione, il nuovo art. 71-bis disp. att. c.c. ha quindi previsto che possano svolgere detta attività soltanto quei soggetti che abbiano il godimento dei diritti civili, non siano stati condannati per alcuni specifici delitti, non siano stati sottoposti a misure di prevenzione divenute definitive, salvo che non sia intervenuta la riabilitazione, non siano interdetti o inabilitati, non siano stati inseriti nell'elenco dei protesti cambiari.
La perdita dei predetti requisiti comporta la cessazione ex lege dall'incarico, con la conseguenza che i condomini dovranno attivarsi (anche uno solo di essi) per convocare l'assemblea e provvedere alla nomina di un nuovo amministratore.
I nuovi compiti dell'amministratore. Vediamo allora di sintetizzare i nuovi compiti attribuiti all'amministratore dalla nuova legge di riforma (si veda anche la tabella relativa alle nuove attribuzioni di cui all'art. 1130 c.c.).
   a) Obblighi di comunicazione ai condomini: in caso di nomina e per ogni successivo mandato, vi è l'obbligo di comunicare ai condomini i propri dati anagrafici e professionali, il proprio codice fiscale e, qualora si tratti di società, la denominazione e la sede legale della stessa, l'indirizzo dei locali in cui si trovano i registri obbligatori, nonché dei giorni e delle ore nelle quali ciascun condomino interessato può accedere a detti locali ed estrarre copia della documentazione.
   b) Obbligo di stipulare apposita polizza assicurativa per la responsabilità professionale e di comunicarne gli estremi ai condomini: l'amministratore, al momento dell'accettazione della nomina, se previsto dall'assemblea, deve presentare ai condomini una polizza individuale di responsabilità civile per gli atti compiuti nell'esercizio del mandato.
   c) Obbligo di affiggere le generalità dell'amministratore in un luogo di pubblico accesso: si tratta di una norma di civiltà, il cui adempimento era rimasto fino a oggi legato alla correttezza dell'amministratore o alle disposizioni regolamentari di qualche ente locale più illuminato. È infatti evidente come sia di pubblico interesse poter risalire con immediatezza al nominativo e al recapito del soggetto chiamato per legge a rappresentare il condominio nei rapporti con i terzi.
   d) Obbligo di aprire un conto corrente condominiale e di far transitare esclusivamente su quest'ultimo le entrate e le uscite condominiali: anche questa disposizione risponde a un'esigenza di elementare trasparenza nell'amministrazione delle somme di denaro di proprietà altrui. Tuttavia, a oggi, detto fondamentale obbligo di diligenza era rimesso al buon cuore dell'amministratore condominiale o a specifiche indicazioni del regolamento o di deliberazioni assembleari.
   e) Obbligo di consegna della documentazione condominiale o di singoli condomini alla cessazione dell'incarico: viene ulteriormente ribadito, anche in sede normativa, l'obbligo dell'amministratore di passaggio delle consegne alla cessazione dell'incarico. Detto obbligo potrà essere assolto mediante consegna della documentazione condominiale o di singoli condomini sia a questi ultimi sia al nuovo amministratore designato dall'assemblea. Viene poi ulteriormente specificato che l'amministratore dimissionario resta comunque tenuto ad adottare eventuali interventi urgenti nell'interesse delle parti comuni anche dopo la cessazione dell'incarico, qualora non possa utilmente attivarsi il nuovo amministratore (ad esempio perché non ancora nominato dall'assemblea), senza diritto a ulteriore compenso.
   f) Obbligo di riscuotere le somme dovute dai condomini: viene introdotto l'obbligo dell'amministratore di riscuotere quanto dovuto dai condomini alle casse comuni entro il termine di sei mesi dalla chiusura dell'esercizio contabile nel quale è compreso il credito vantato. L'intervento dell'assemblea, lungi dal costituire una condizione per il recupero forzoso dei crediti condominiali, può invece sollevare l'amministratore da detto obbligo normativo. Detto obbligo va altresì correlato a quanto specificamente previsto in tema di morosità condominiale dall'art. 63 Disp. att. c.c.
   g) Obbligo di specificare l'ammontare del compenso al momento della nomina: per evitare possibili contenziosi in materia, il legislatore ha anche deciso di obbligare l'amministratore a dichiarare espressamente, a pena di nullità della nomina stessa, l'ammontare del compenso richiesto sia in occasione della prima nomina sia per i successivi rinnovi del mandato biennale.
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La gestione diventa trasparente.
Con la legge n. 220/2012 si è voluta rendere più trasparente e professionale la gestione del condominio, incidendo soprattutto sulla figura dell'amministratore. Formazione iniziale e periodica, esercizio dell'attività in forma societaria, conto corrente condominiale, polizza assicurativa, divieto di accettare deleghe per l'assemblea, obbligo di mettere i condomini in grado di visionare e fare copia della documentazione, obbligo di provvedere in tempi certi al recupero della morosità, delineano infatti una nuova forma di gestione del condominio, più aperta alle esigenze dei comproprietari.
La legge di riforma ha quindi operato un riordino generale della disciplina del condominio, uniformandosi alle soluzioni individuate dalla più recente giurisprudenza di legittimità, rimettendo mano alle disposizioni che regolano il funzionamento dell'assemblea (con un generale abbassamento delle maggioranze necessarie per l'adozione delle deliberazioni e una serie di utili chiarimenti sulle modalità di convocazione e partecipazione, diretta e delegata), la contabilità condominiale (per garantire una maggiore trasparenza, anche avvalendosi di un revisore dei conti), l'impugnazione giudiziale delle deliberazioni assembleari, l'applicazione delle sanzioni previste dal regolamento per i condomini che non ne rispettino il contenuto, la revisione e la modifica delle tabelle millesimali.
L'intervento di riforma non è certo andato esente da critiche e richieste di chiarimenti (si pensi alla questione della natura parziaria o solidale delle obbligazioni condominiali e alla nuova disciplina della modificazione d'uso delle parti comuni, così come al diritto del singolo condomino di distaccarsi dall'impianto comune di riscaldamento e all'approvazione degli interventi di manutenzione straordinaria e delle innovazioni con obbligatoria costituzione di un fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori). Tuttavia esso ha rappresentato il frutto di un intenso lavoro di mediazione tra esigenze diverse e, soprattutto, ha il merito di avere aggiornato una normativa per molti versi anacronistica (articolo ItaliaOggi Sette del 17.06.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: P.a. e impresa, etica d'obbligo. Più trasparenza e standard di qualità nei rapporti. Il nuovo codice deontologico dei dipendenti pubblici disciplina contratti e appuntamenti.
Il bon ton d'obbligo nei rapporti tra imprese e pubblici funzionari. La nuova versione del codice deontologico dei dipendenti pubblici (dpr 16-4-2013 n. 62, regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell'articolo 54 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 04.06.2013, n. 129) aggrava i rischi giuridici per chi non si adegua alle norme etiche, che toccano l'attività contrattuale, la trasparenza e anche le relazioni interpersonali.

Partiamo da contratti stipulati dagli enti pubblici, per i quali agiscono i dirigenti.
Contratti. Innanzitutto il dipendente non deve concludere, per conto dell'amministrazione, contratti di appalto, fornitura, servizio, finanziamento o assicurazione con imprese con le quali abbia stipulato contratti a titolo privato o ricevuto altre utilità nel biennio precedente. Fanno eccezione i contratti conclusi mediante formulari (ad esempio utenze domestiche). L'impresa deve fare attenzione a chi firma il contratto per la pubblica amministrazione committente e rifiutare la sottoscrizione del contratto pubblico, quando la p.a. è rappresentata da un dirigente con cui ha già avuto a che fare nel biennio precedente. Per la pubblica amministrazione deve intervenire un soggetto terzo. Poiché la violazione della norma riveste carattere di particolare illiceità, non possono escludersi effetti sul contratto, con la conseguenza che è anche interesse dell'impresa evitare inconvenienti.
Lo stesso dipendente, già interlocutore contrattuale dell'impresa, non può nemmeno svolgere compiti partecipare all'adozione delle decisioni ed alle attività relative all'esecuzione del contratto, redigendo verbale scritto di tale astensione da conservare agli atti dell'ufficio. In sostanza non basta astenersi dal partecipare alla sottoscrizione, ma anche dagli sviluppi successivi. Riguarda sempre l'attività contrattuale la regola per cui nella conclusione di accordi e negozi e nella stipulazione di contratti per conto dell'amministrazione, e nella fase di esecuzione degli stessi, il dipendente non ricorre a mediazione di terzi, né corrisponde o promette ad alcuno utilità a titolo di intermediazione, né per facilitare o aver facilitato la conclusione o l'esecuzione del contratto la regola, naturalmente, non si applica ai casi in cui l'amministrazione abbia deciso di ricorrere all'attività di intermediazione professionale.
Sempre a tutela dell'imparzialità soccorre la norma per cui il dipendente non deve accettare incarichi di collaborazione da soggetti privati che abbiano, o abbiano avuto nel biennio precedente, un interesse economico significativo in decisioni o attività inerenti all'ufficio di appartenenza.
Trasparenza. Un versante opposto è quello dell'impresa per cui l'ente pubblico è assolutamente sconosciuto. L'impresa potrebbe avere, quindi, l'esigenza di conoscere il proprio interlocutore nella p.a. Il codice deontologico rafforza la regola per cui il dipendente in rapporto con il pubblico si deve fare riconoscere. Lo strumento da utilizzare è l'esposizione in modo visibile del badge o di altro supporto identificativo messo a disposizione dall'amministrazione.
Per derogare alla regola di trasparenza ci vogliono disposizioni di servizio, anche in considerazione della sicurezza dei dipendenti. Conseguenza della trasparenza è l'obbligo in capo al dipendente pubblico di operare con spirito di servizio, correttezza, cortesia e disponibilità e, nel rispondere alla corrispondenza, a chiamate telefoniche e ai messaggi di posta elettronica, opera nella maniera più completa e accurata possibile. Nel caso in cui sia competente qualcun altro il dipendente non deve limitarsi a protestare la propria estraneità, ma deve indirizzare l'interessato al funzionario o ufficio competente della medesima amministrazione.
Appuntamenti da rispettare. Il dipendente deve fornire le spiegazioni in ordine al comportamento proprio e di altri dipendenti dell'ufficio dei quali ha la responsabilità od il coordinamento. Inoltre il criterio da rispettare nell'evasione delle pratiche deve essere oggettivo ed imparziale. In ogni caso non si devono rifiutare prestazioni a cui sia tenuto con motivazioni generiche. Bisogna rispettare gli appuntamenti con i cittadini e rispondere senza ritardo ai loro reclami.
Standard di qualità. Il codice deontologico ripropone sugli altari le carte dei servizi. Contengono standard di efficacia e di efficienza, soprattutto nel settore dei servizi pubblici locali. Lo standard quali-quantitativo previsto dalle carte diventa nel codice deontologico un parametro cui deve ispirarsi il dipendente: deve svolgere la sua attività lavorativa curando il rispetto degli standard di qualità e di quantità fissati dall'amministrazione anche nelle apposite carte dei servizi.
Non solo: il dipendente opera al fine di assicurare la continuità del servizio, di consentire agli utenti la scelta tra i diversi erogatori e di fornire loro informazioni sulle modalità di prestazione del servizio e sui livelli di qualità. Il problema delle carte dei servizi è che a volte sono un complesso di clausole generiche ed astratte non ancorate a specifici indicatori. Nei rapporti con le imprese vi sarebbe, invece, gran bisogno di costruire unità di misura della efficienza del settore pubblico (articolo ItaliaOggi Sette del 17.06.2013).

TRIBUTI: La Ctr Lombardia sull'imposta sulla prima casa. Ici soft per i single. Benefici pure con famiglia divisa.
In materia di Ici, i benefici legati all'abitazione principale spettano anche se l'immobile è dimora del solo proprietario, mentre la famiglia risiede altrove. La qualifica di «abitazione principale» deve essere riconosciuta anche nel caso in cui vi sia una scissione del nucleo familiare, tale che il proprietario dell'immobile risieda nella prima casa e la famiglia dimori invece in una diversa abitazione.

Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza 05.02.2013 n. 13/63/13 della Ctr Lombardia con le quali il collegio tributario ha accolto l'appello presentato da un contribuente, ribaltando la decisione di prime cure favorevole all'amministrazione.
La rettifica prendeva le mosse da un accertamento Ici emesso da un comune della Lombardia, il quale contestava l'indebito godimento dei benefici connessi all'abitazione principale (prima casa), forte dell'interpretazione fornita dalla Cassazione. Per ritenersi «abitazione principale», infatti, l'immobile deve essere adibito a «residenza di famiglia», ossia, secondo la Suprema corte, «luogo di abitazione della casa coniugale».
Nel caso di specie, il proprietario dell'immobile risiedeva nell'abitazione adibita a prima casa, mentre la sua famiglia aveva la residenza in un altro comune. L'amministrazione riteneva, pertanto, che, stante la disgiunzione della famiglia, non si potesse attribuire all'immobile la qualifica di abitazione principale; in primo grado, la commissione provinciale confermava la bontà della verifica. Di diverso tenore la decisione di secondo grado, in commento, che ha esteso il beneficio anche in caso di assenza del nucleo familiare.
«Del resto», si legge nella sentenza, «diversamente argomentando, si arriverebbe alla aberrante conclusione che tizio, proprietario di due immobili, in uno dei quali risiede personalmente ma senza la famiglia, e nell'altro la sua famiglia, non potrebbe fruire del beneficio per nessuno dei due immobili, perché il primo non sarebbe la così detta residenza familiare e nel secondo non vi sarebbe la sua residenza abituale».
Pertanto, indipendentemente dalla nozione di abitazione principale fornita dalla Cassazione, i benefici spettano anche nel caso in cui l'immobile sia dimora del solo proprietario e non della sua famiglia.
«La presenza o meno di una famiglia», prosegue la Ctr, «lungi dal costituire un motivo di esclusione del beneficio, ne dovrebbe semmai rappresentare la condizione per l'estensione». Una diversa interpretazione della fattispecie, secondo cui il beneficio spetterebbe solo in presenza di un nucleo familiare, darebbe adito, secondo il collegio lombardo, a forti dubbi di costituzionalità delle norme in questione.
Il concetto affermato dalla Ctr, reso nella specie in ambito di Ici, è parimenti estendibile all'Imu (articolo ItaliaOggi Sette del 17.06.2013).

VARI: Ciclisti maldestri. Scappa e cade, ma il vigile non ha colpa.
Non ha nessuna responsabilità il poliziotto municipale che cercando di trattenere un ciclista negligente contribuisce suo malgrado alla rovinosa caduta del trasgressore. Anche i vigili infatti possono alzare un po' il tono almeno nei controlli stradali e se del caso aggrapparsi al portapacchi della bicicletta per identificare il ciclista indisciplinato.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. IV penale, con la sentenza 09.05.2013 n. 20118.
Una vigilessa altoatesina ha fermato un'anziana ciclista che invece di fermarsi per conciliare ha tentato di scappare provocando la reazione dell'agente che ha immediatamente afferrato il retro del velocipede contribuendo a provocare la caduta della signora.
Contro la conseguente assoluzione per il reato di lesioni colpose a danno del vigile gli eredi dell'energica ciclista hanno proposto ricorso in Cassazione ma senza successo. L'identificazione anche forzata dei responsabili delle infrazioni stradali è una competenza propria della polizia municipale che a parere del collegio deve ritenersi dotata dei poteri strettamente funzionali a questo tipo di controlli stradali.
Tale attività può comportare, se necessario, anche lo stop fisico del trasgressore. In pratica, prosegue il collegio, la polizia municipale «deve reputarsi dotata, in ragione dei propri fini istituzionali, dei poteri strettamente funzionali al compimento dell'attività di accertamento delle infrazioni. Tale attività può estrinsecarsi anche, ove necessario, nell'atto di fermare i trasgressori al fine di procedere alla contestazione delle violazioni».
In buona sostanza, trattenere un velocipede per impedire al trasgressore di scappare a parere della Corte risulta un'attività proporzionata rispetto al fine istituzionale perseguito (articolo ItaliaOggi Sette del 17.06.2013).

PUBBLICO IMPIEGOPubblica amministrazione. I procedimenti disciplinari nel 2012.
Dipendenti ma con il doppio lavoro.
NASCOSTI AL FISCO/ Ammontano a 5 milioni gli stipendi in nero scoperti dalle Fiamme Gialle e a 13 milioni gli importi evasi dai committenti dell'impiego.

Il doppio lavoro dei dipendenti pubblici (che poi è soprattutto lavoro nero) non conosce sosta. È vero che la crisi morde e c'è la necessità di arrotondare lo stipendio, ma quegli 879 casi messi sotto controllo dalla Guardia di finanza nel 2012, su input dell'Ispettorato per la funzione pubblica, hanno ben poco di lecito. Più che di arrotondare, si tratta di un'altra vera e propria entrata non autorizzata che il dipendente pubblico incamera magari lavorando durante l'orario d'ufficio.
Basta vedere gli importi per capire l'entità del fenomeno: le 362 indagini concluse l'anno scorso hanno permesso di accertare ai dipendenti 5 milioni di euro percepiti indebitamente perché frutto del doppio lavoro. Il che significa che, in media, ogni doppiolavorista ha incamerato di nascosto dal Fisco uno stipendio di oltre 14mila euro. L'anno prima era quasi il doppio (31mila euro), a parità di verifiche. Si deve, però, considerare che ci sono ancora più di 500 indagini riferite al 2012 da concludere.
Le somme contestate ai dipendenti dal doppio lavoro dovranno essere recuperate dalle amministrazioni di appartenenza, che dovranno destinarle al fondo di produttività o a fondi equivalenti riservati al personale. Ben più significative sono, però, le cifre che le Fiamme gialle hanno contestato ai committenti del doppio lavoro e che questi ultimi dovranno versare al Fisco: l'anno scorso si sono oltrepassati i 13 milioni di euro. Se si sommano gli importi frutto del doppio lavoro non dichiarati dai dipendenti negli ultimi tre anni a quelli evasi dai datori di lavoro, si superano gli 85 milioni di euro. Non proprio briciole.
Uno spaccato del lato oscuro della pubblica amministrazione che fa il paio con le altre istantanee scattate dall'Ispettorato della Funzione pubblica nella relazione sull'attività del 2012 che sta per arrivare in Parlamento. A cominciare dai procedimenti disciplinari. L'anno scorso ne sono stati avviati più di 5mila, che hanno coinvolto in particolare i ministeri e la sanità. La gran parte delle istruttorie (oltre 4mila) sono state portate a termine in tempi brevi –la media della durata del procedimento è stata di quasi 77 giorni– con l'irrogazione di sanzioni nei confronti del lavoratore indisciplinato: in 167 casi si è arrivati al licenziamento, in 872 alla sospensione dal servizio.
Più nel dettaglio, il licenziamento è scattato in 79 casi perché il lavoratore aveva commesso reati; in 48 casi perché il dipendente si era assentato dal lavoro senza giustificazioni o aveva eluso il sistema elettronico delle presenze; 34 licenziamenti sono stati conseguenza dell'inosservanza delle disposizioni di servizio o di un comportamento scorretto nei confronti dei colleghi o degli utenti; 6 volte la sanzione massima è stata comminata a chi svolgeva un doppio lavoro non autorizzato. Pressoché analoghi i motivi che hanno portato alla sospensione dal lavoro, anche se in questo caso ci sono da aggiungere 43 dipendenti che non si sono fatti trovare a casa quando è arrivato il medico fiscale.
Il rapporto dell'Ispettorato dedica una parte anche ai costi occulti della politica, ossia a incarichi e consulenze che rimangono sottotraccia, nonostante le vecchie e nuove regole sulla trasparenza impongano alle amministrazioni di darne notizia sul sito web istituzionale. Il canale è duplice, perché oltre alla messa in rete degli incarichi e delle consulenze, con relativi importi e nomi dei beneficiari, le amministrazioni devono comunicare il dato al Dipartimento della funzione pubblica, che tiene l'Anagrafe delle prestazioni. Ebbene, anche nel 2012 –nonostante il gran parlare di trasparenza– le indagini a campione dell'Ispettorato, in collaborazione con la Guardia di finanza, hanno permesso di cogliere in fallo diverse amministrazioni.
Per esempio, il comune di Rieti ha tenuto nascosto 1.297 tra incarichi e consulenze, per un valore di quasi 5 milioni di euro; la Asl di Roma F di Civitavecchia si è ben guardata dal far sapere che ne aveva assegnato 967, pagandoli complessivamente 3,2 milioni di euro. In totale, sono stati oscurati da diverse amministrazioni 4.698 incarichi o consulenze, per quasi 11,5 milioni di euro. In questi casi, le carte vengono trasferite ai giudici contabili, che devono accertare se c'è stato danno erariale, mentre al dirigente preposto alla trasparenza che non ha pubblicato i dati sul web viene contestata la retribuzione di risultato che ha percepito pur essendo inadempiente. Nel 2012 il totale di tali somme contestate è stato di 676mila euro.
Riuscirà il nuovo codice di comportamento dei dipendenti pubblici in vigore da mercoledì prossimo –si tratta del Dpr 62/2013– a porre un argine a comportamenti simili? C'è poco da sperarci, visto che il codice c'era anche prima e ora è stato solo aggiornato (articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Le novità sulla casa. Iter e requisiti sono diversi, ma spesso la detrazione per il recupero edilizio compete con quella per il risparmio energetico.
Il bonus del 65% pianifica gli interventi. All'esame dei professionisti limite di spesa, confronto con il 50%, capienza e data dei pagamenti.

Limite massimo di spesa, scelta tra i bonus, capienza fiscale e calendario dei lavori: sono i quattro passaggi con cui devono misurarsi i contribuenti e i loro consulenti per "fare i conti" con la detrazione del 50% sulle ristrutturazioni e il 65% per il risparmio energetico.
- L'importo totale. La prima verifica riguarda l'importo su cui calcolare il bonus. La detrazione del 50% si applica su una spesa massima di 96mila euro per unità immobiliare. E il limite vale in due direzioni:
- quando uno stesso intervento dura per più anni. Ad esempio, un contribuente che ha pagato 40mila euro il 01.09.2012 e altri 40mila il 01.04.2013, può applicare il bonus solo su altri 16mila euro;
- quando in uno stesso anno vengono effettuati più interventi, avviati in base a diversi provvedimenti edilizi. Ad esempio, un contribuente che ha sistemato il bagno versando 20mila euro il 01.04.2013 e adesso inizia il rifacimento del tetto, per questo secondo intervento potrà calcolare la detrazione su altri 76mila euro nel 2013. Se però quest'anno spendesse solo 20mila euro e i lavori proseguissero l'anno prossimo, nel 2014 potrebbe spendere altri 28mila euro (dopo questa data, infatti, si torna alla detrazione del 36% su una spesa massima di 48mila euro). Se, invece, nel 2014 inizia un nuovo intervento, il limite dei 48mila euro opera autonomamente.
- La scelta tra i bonus. Il secondo passaggio chiave è "quale" agevolazione scegliere. Di fatto, tutti gli interventi con il 65% possono avere anche il 50 per cento.
L'esempio classico sono le finestre. Posto che le performance migliori si pagano a un prezzo maggiore –e che va fatta la pratica online con l'Enea– i vantaggi sono il risparmio sulla bolletta energetica e il comfort di vivere in una casa meno rumorosa. Ma ci sono anche ragioni "fiscali" da valutare: il 65% ha un proprio tetto di spesa –variabile a seconda dei lavori– e consente di non intaccare quello del 50 per cento.
Inoltre, le due detrazioni, che non si possono cumulare sulla stessa spesa, possono coesistere nello stesso intervento. Ad esempio, si può fare il 65% per il cambio del generatore termico con caldaia a condensazione e il 50% per le opere murarie di sistemazione del locale caldaia.
- La capienza. Il terzo passaggio chiave è quello sulla capienza fiscale. Entrambe le detrazioni si recuperano in dieci anni, ed è su questo periodo che il contribuente deve avere la ragionevole aspettativa di mantenere un'imposta lorda superiore al bonus.
Quando le detrazioni superano l'imposta, la parte di bonus non usata non può essere né chiesta a rimborso, né riportata negli anni a venire, neppure dalle imprese che beneficiano del 65 per cento. In alcuni casi, potrebbe essere interessante il conto termico (si veda l'altro articolo).
- Il calendario. Pianificando gli interventi, infine, bisogna tener conto dell'evento che condiziona l'accesso al bonus:
- per i lavori su singole unità immobiliari, vale la data di effettuazione del bonifico;
- per i lavori su parti comuni condominiali, vale la data del bonifico effettuato dall'amministratore (non rilevano i pagamenti delle quote dei condòmini);
- per i lavori agevolati al 65% effettuati dai titolari di reddito di impresa su immobili strumentali non serve il bonifico, in quanto vale il criterio di competenza e il momento di imputazione dei costi si verifica alla data in cui sono ultimate le prestazioni. La detrazione quindi si applica per le spese sostenute fino al periodo d'imposta in corso al 31.12.2013, a condizione che i lavori siano ultimati a tale data (se l'esercizio coincide con l'anno solare).
Infatti, il bonus Irpef/Ires del 65%, così come il 55%, spetta anche ai titolari di reddito d'impresa –comprese le società di capitali– se gli interventi sono eseguiti su fabbricati strumentali utilizzati nell'esercizio dell'attività imprenditoriale. Sono esclusi i beni merce e gli immobili locati a terzi. In quest'ultimo caso, però, i lavori possono essere eseguiti direttamente dall'affittuario che quindi può ottenere il bonus (articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2013).

CONDOMINIO: Le novità sulla casa. Adempimenti subito operativi
Registri, deleghe e polizze: il «nuovo» amministratore. Da domani la riforma del condominio impone ai professionisti di adeguarsi.

Pronti, via. Parte domani la rivoluzione in condominio, veicolata dalla riforma approvata alla fine dell'anno scorso, con la legge 220/2012, che entra in vigore il 18 giugno, dopo una vacatio di sei mesi. Debuttano così le regole "corrette" per le assemblee, le maggioranze e i lavori. E arrivano una serie di nuovi vincoli per gli amministratori, che devono rivedere da subito le loro prassi operative per far fronte alle richieste fatte dalla riforma, spesso in nome della trasparenza e di una maggiore tutela dei condòmini.
I requisiti
A cambiare, innanzitutto, sono le condizioni per ricoprire l'incarico di amministratore: tra l'altro, occorre rispettare i requisiti di onorabilità, godere dei diritti civili, avere il diploma di scuola secondaria di secondo grado, frequentare un corso di formazione e seguire l'aggiornamento periodico. E se i nuovi obblighi del titolo di studio e della formazione iniziale risparmiano chi ha fatto l'amministratore per almeno un anno negli ultimi tre, agli altri devono adeguarsi anche i professionisti già in carica: chi perde (o ha perso) i requisiti di onorabilità e i diritti civili decade immediatamente dall'incarico.
I nuovi obblighi
Da domani, poi, diventa un obbligo generalizzato in tutta Italia quella che, finora, è stata una misura operativa solo in alcuni Comuni: nell'androne del condominio (o comunque nel luogo di accesso o di maggiore uso comune) deve essere affissa una targa con le generalità, il domicilio e i recapiti dell'amministratore.
Ma apporre una targa nei condomini amministrati non è certo l'adempimento più oneroso imposto dalla riforma. Recependo un orientamento consolidato della Cassazione –e una buona norma di prassi già diffusa tra i professionisti– la legge impone di avere un conto corrente condominiale (bancario o postale) dedicato per ogni edificio, su cui devono transitare i contributi dei condòmini e le somme ricevute da terzi, oltre ai pagamenti fatti per conto del condominio. Da domani, per chi non rispetta il nuovo obbligo, la sanzione è pesante: la mancata apertura e il mancato uso del conto costituiscono «grave irregolarità», che giustifica la revoca dell'incarico, anche da parte del giudice su ricorso di un condòmino.
Non solo. Con l'entrata in vigore della riforma, l'amministratore deve iniziare a curare una serie di registri: in molti casi sono già utilizzati, ma, da domani, chi non li istituisce e aggiorna può incappare anche in una revoca giudiziale per «grave irregolarità». Si tratta del registro dei verbali, dove annotare le mancate costituzioni dell'assemblea, le deliberazioni e le dichiarazioni dei condòmini, con, in allegato, il regolamento di condominio. Poi, il registro di nomina e revoca degli amministratori, dove devono essere indicate, in ordine cronologico, le date di nomina e di revoca di ciascun amministratore e gli estremi del decreto di revoca giudiziaria se è intervenuto il giudice. Infine, l'amministrazione deve istituire (anche in modalità informatica) il registro di contabilità, dove annotare tutte le operazioni in ordine cronologico ed entro 30 giorni da quando vengono effettuate.
I rapporti con i condòmini
La riforma interviene anche sulle relazioni tra l'amministratore e i condòmini. Intanto, per le assemblee che si terranno da domani in poi, qualsiasi sia l'ordine del giorno, i condòmini che non parteciperanno non potranno più delegare l'amministratore, ma dovranno incaricare un altro condòmino o un terzo. Inoltre, l'amministratore deve diventare il "controllore" delle posizioni dei condòmini. La riforma tiene infatti a battesimo il registro di anagrafe condominiale, in cui l'amministratore deve raccogliere le generalità dei proprietari –con codice fiscale, residenza e domicilio– e i dati catastali di ogni unità immobiliare. Molti professionisti si sono già attivati nelle scorse settimane, ma è solo da domani che, in caso di mancata risposta per più di 30 giorni, si possono reperire le informazioni addebitando i costi ai proprietari (articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Contenzioso. Con la crisi si punta a costruire in base alle richieste dell'acquirente.
Sugli edifici «su misura» pesa il rischio di ricorsi. Il termine per impugnare decorre dalla fine dei lavori.

Quanto incide l'incertezza generata dai ricorsi giurisdizionali in materia edilizia sull'attuale crisi del mercato immobiliare? Probabilmente poco, la crisi è generata da fattori diversi. Ma forse quel poco è comunque troppo.
Quando l'economia era favorevole, il mercato immobiliare era pronto ad accogliere pressoché tutte le tipologie edilizie e le diverse destinazioni funzionali realizzabili. Il mercato era push, la domanda era pronta a sostenere la spinta dell'offerta. La crisi ci ha ora condotto in un mercato pull, nel quale l'offerta è tirata dalla domanda: si vende solo quello che è stato costruito "su misura" (il cosiddetto "chiavi in mano"), assecondando le esigenze specifiche dell'acquirente.
In questo quadro, chi compra non è assolutamente disposto a correre il rischio del contenzioso amministrativo, che potrebbe portare alla demolizione dell'edificio taylor made. Peccato però che quando si negozia la vendita di un bene che ancora non c'è (e che normalmente viene pagato "a Sal", in base allo stato di avanzamento lavori, vale a dire in corso d'opera), il pericolo del contenzioso sia un'eventualità lontana nel tempo. Il ricorso al Tar può infatti giungere anche a cantiere aperto da tempo e fino al momento dell'ultimazione dei lavori (si veda l'articolo a fianco), vale a dire anche a distanza di tre o quattro anni dalla stipula del contratto. Infatti, la giurisprudenza amministrativa è stabile nel ritenere che la «piena conoscenza» del titolo edilizio non si forma al momento dell'apposizione del cartello di cantiere e neppure con l'inizio dei lavori. Per contro, è necessario che le lavorazioni abbiano raggiunto un avanzamento tale da svelare gli eventuali profili di contrasto con la disciplina urbanistica dell'area.
Di regola, dunque, il termine per impugnare il permesso di costruire da parte del proprietario confinante o dell'interessato decorre dalla data di ultimazione dei lavori, o comunque dal momento in cui i lavori manifestino le caratteristiche essenziali dell'opera (si veda la pronuncia 1904 del 05.04.2013 del Consiglio di Stato). Il principio subisce un'eccezione nei casi in cui il ricorrente non contesti il profilo quantitativo o qualitativo dell'opera, ma la sua stessa fattibilità in relazione alla supposta inedificabilità dell'area interessata. In questi casi, gli elementi cognitivi necessari all'impugnazione sono già contenuti nel cartello di cantiere, con l'effetto che il termine per impugnare il titolo decorre dalla data di apposizione dello stesso (Consiglio di Stato, pronuncia 365 del 22.01.2013).
In relazione alle modalità per l'impugnativa dei titoli, occorre invece distinguere tra l'azione esperibile contro i permessi di costruire e quella prevista per contestare le lavorazioni oggetto di Dia o Scia.
Nei confronti del permesso di costruire, si può esperire l'ordinaria azione di annullamento davanti al Tar competente.
Per le lavorazioni oggetto di Dia e Scia, il rimedio è invece meno diretto. L'articolo 19, comma 6-ter, della legge 241/1990, introdotto dal decreto legge 138/2011, prevede infatti che gli interessati abbiano l'onere di sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e che, in caso di inerzia, possano solo esperire l'azione contro il silenzio. La norma è stata introdotta con buona pace dell'adunanza plenaria del Consiglio di Stato che, qualche giorno prima dell'entrata in vigore del decreto, aveva stabilito che l'interessato, anche in caso di Dia e Scia, avrebbe direttamente potuto esperire l'azione di annullamento, agendo contro il provvedimento tacito formatosi con l'inerzia protratta dell'amministrazione oltre al termine previsto dalla legge per inibire le lavorazioni (Consiglio di Stato, adunanza plenaria 15 del 29.07.2011).
Non solo. L'adunanza plenaria aveva anche apertamente contestato il sistema di tutela che, dopo qualche giorno, è stato introdotto nell'ordinamento, affermando, in particolare, che «la ricostruzione che (...) reputa praticabile il rimedio avverso il silenzio non significativo mantenuto dall'amministrazione a fronte dell'istanza proposta dal terzo al fine di eccitare l'esercizio del potere di autotutela (...) non è idonea a tutelare in modo efficace la sfera giuridica del terzo».
Secondo i giudici, il terzo «avrebbe l'onere, prima di agire in giudizio, di presentare apposita istanza sollecitatoria alla Pa, così subendo una procrastinazione del momento dell'accesso alla tutela giurisdizionale, e, quindi, specie con riguardo alla Dia a efficacia immediata, un'incisiva limitazione dell'effettività della tutela giurisdizionale in spregio ai principi di cui agli articoli 24, 103 e 113 della Costituzione».
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I rimedi. La conoscenza legale. Regole da rivedere con i progetti nell'albo pretorio.
È difficile distribuire tra le parti il "rischio ricorso". Chi compra, infatti, non intende certo correrlo, tanto che potrebbe voler inserire nel contratto una clausola che prevede che in caso di notifica del ricorso i lavori e i pagamenti si fermino e che, decorso qualche mese, se il contenzioso non si chiude, il rapporto si risolva con l'obbligo per il costruttore-venditore di restituire gli acconti ricevuti. Ma anche chi vende non accetta facilmente di mettere a rischio il proprio investimento, perdendo il cliente a cui si era legato quasi indissolubilmente costruendo un bene su misura, a causa di un ricorso che potrebbe poi essere rigettato fuori tempo massimo. Perché, in aggiunta al fatto che i ricorsi possono giungere a distanza di anni, i giudizi al Tar e al Consiglio di Stato difficilmente durano meno di 18 mesi.
Per garantire la certezza dei diritti connessi alle edificazione, è necessario rivedere le regole sulle impugnazioni in materia edilizia, che permettono ai terzi di contestare il manufatto in via di edificazione sul terreno confinante sino al momento in cui l'edificio raggiunge la sua conformazione pressoché definitiva, perché solo in quel momento l'interessato è in grado di apprezzarne compiutamente la lesività. Si tratta però di un impianto oggi superato: l'obiettivo potrebbe essere conseguito in modo semplice e conforme allo sviluppo tecnologico, dando valore di conoscenza legale alla pubblicazione sull'albo pretorio informatizzato comunale del titolo edilizio e degli elaborati progettuali.
Gli estremi della pubblicazione online potrebbero essere richiamati sul cartello con gli estremi del titolo edilizio che già oggi deve essere esposto in cantiere. E le parti potrebbero introdurre nei loro contratti una clausola di "stand still" che prevede che il contratto venga ridiscusso oppure che abbia piena efficacia (e che quindi i lavori possano partire) solo dopo aver verificato se il rischio ricorso si avvera o no.
Un intervento normativo sarebbe auspicabile non solo per le operazioni immobiliari più rilevanti, ma anche per gli interventi di riqualificazione del patrimonio edilizio esistente. È anzi con riferimento alle opere minori che l'esperienza evidenzia come il ricorso al Tar sia sovente promosso a ridosso della fine dei lavori di ristrutturazione o di ampliamento non tanto per inibirli, quanto per negoziare il ritiro dell'azione sfruttando la debolezza del vicino, dato che non può più esercitare l'opzione di non dar corso ai lavori ormai finiti e pagati (articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2013).

APPALTII pagamenti della Pa. A ogni creditore va indicata la somma da pagare e i tempi del versamento – Verifica retrodatata sul Durc
Debiti da comunicare al 30 giugno. Sanzione di 100 euro al giorno e taglio degli «incentivi» per chi non adempie.
IL «FILTRO»/ La norma non disciplina i controlli sulla fedeltà fiscale previsti dal Dpr 602/1973 che possono bloccare il pagamento all'impresa.

L'accertamento della regolarità contributiva in caso di pagamento dei debiti pregressi della Pubblica Amministrazione deve essere effettuato con riferimento alla data di emissione della fattura o del documento equivalente.
La disposizione in questione, contenuta nella legge di conversione del decreto «sblocca-debiti» (Dl 35/2013 convertito con modificazioni nella legge 64/2013) integra le misure volte a favorire l'assolvimento delle obbligazioni pregresse da parte di Comuni e Province, ai quali vengono accordati importanti spazi finanziari per il calcolo dei saldi del Patto di stabilità interno e rilevanti anticipazioni di cassa al fine di allentare le tensioni di liquidità.
Numerosi sono però gli oneri imposti agli enti locali e le sanzioni che vengono disposte in caso di inadempimento o ritardo.
Tra le scadenze fissate dalla legge, occorre ricordare quella del 30 giugno, data entro la quale scatta l'obbligo di comunicare ai creditori, tramite Pec, l'importo e la data di pagamento delle somme maturate al 31.12.2012; l'omessa comunicazione rileva ai fini della responsabilità per danno erariale a carico del responsabile dell'ufficio competente.
La comunicazione deve essere sottoscritta dal dirigente incaricato con firma elettronica o digitale idonea a garantirne l'integrità e immodificabilità e deve essere pubblicata, entro il 5 luglio, nel sito internet dell'ente, per ordine cronologico di emissione della fattura o della richiesta equivalente di pagamento.
La mancata pubblicazione è rilevante ai fini della misurazione e della valutazione della performance individuale dei dirigenti, che sono inoltre assoggettati ad una sanzione pecuniaria pari a 100 euro per ogni giorno di ritardo nella certificazione del credito.
L'indicazione dell'importo e scadenza del credito non sempre però è possibile; la comunicazione deve infatti essere riferita a tutti i debiti previsti dal primo comma dell'articolo 1 del decreto, cioè anche ai debiti in conto capitale per i quali sia stata emessa fattura o richiesta equivalente di pagamento, ma che non risultano ancora liquidati al 30.06.2013.
Oltre alla verifica contributiva (Durc) è infatti indispensabile, in sede di liquidazione del credito, effettuare una serie di altre verifiche, quali, ad esempio, il corretto assolvimento da parte dei fornitori delle obbligazioni contrattuali o del pagamento di eventuali subappaltatori, l'assenza di morosità fiscali, di sequestri conservativi o pignoramenti presso terzi.
Se, da un lato, il Legislatore ha provveduto a far retroagire l' obbligo di accertamento contributivo alla data di emissione del documento fiscale, dall'altro nulla dice in merito agli adempimenti di cui all'articolo 48-bis del Dpr 602/1973, in base al quale le amministrazioni pubbliche sono tenute a verificare, per tutti i i pagamenti di importo superiore a diecimila euro, l'assenza in capo al creditore di inadempienze derivanti dalla notifica di cartelle di pagamento scadute.
Al fine di poter ottemperare agli obblighi di legge, si ritiene indispensabile effettuare la comunicazione al creditore anche in assenza di elementi certi, provvedendo tuttavia a descrivere eventualmente le cause per le quali non si può procedere al pagamento.
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Doppia verifica
01 | DURC
Il controllo della regolarità contributiva va effettuato in relazione alla data della fattura, e non a quella del pagamento
02 | FILTRO FISCALE
Per pagamenti sopra i 10mila euro, è obbligatoria la verifica della fedeltà fiscale del creditore, perché se esistono cartelle almeno di pari importo il pagamento va bloccato. La norma è in vigore, e lo «sblocca-debiti» non dispone nulla al riguardo, per cui nella comunicazione vanno indicati gli eventuali ostacoli al pagamento (articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2013).

ENTI LOCALI: Corte dei conti. La stretta. Aziende speciali, stipendi bloccati.
Anche per il personale delle aziende speciali vale il blocco degli aumenti disposti dai contratti collettivi. La posizione, espressa dalla Corte dei Conti del Piemonte con la delibera n. 181/2013, si colloca in un orientamento ormai consolidato che opta per un'interpretazione restrittiva. L'approccio non è formale, perché l'esperienza degli enti locali insegna che la riduzione della spesa di personale si concretizza in una serie di specifici interventi e vincoli.

I magistrati contabili hanno ribadito a più riprese che la Pa deve vigilare su tutte le proprie articolazioni organizzative, società o altro. Prima l'articolo 3-bis, comma 6, del Dl 138/2011 e poi l'articolo 4, comma 11, del Dl 95/2012 hanno imposto l'estensione alle partecipate dei vincoli esistenti per la Pa di riferimento in materia di personale e trattamenti economici. Ne consegue che anche gli aumenti previsti dai contratti collettivi applicabili alle società restano al palo.
In tal senso si era già espressa la Corte dei Conti Toscana (delibera n. 140/2013), che si era concentrata sulle strumentali.
Al contrario, Federutility ha fatto quadrato in tema di spesa di personale delle aziende partecipate pubbliche, in particolare per le società in house. La federazione delle società pubbliche, nella circolare dello scorso 29 maggio (si veda Il Sole 24 Ore del 30 maggio), fa il punto sulla «congerie di norme» che hanno tentato di bloccare il costo dei dipendenti, in continuo aumento, spinto anche dai vincoli gravanti sugli enti proprietari.
Il fulcro è individuato nell'articolo 76, comma 7, del Dl 112/2008, considerato quale unica norma che esplicita direttamente un vincolo finanziario a livello di gruppo locale. Tutte le altre disposizioni di dettaglio, che vanno dal contenimento delle assunzioni ai tetti in materia di trattamenti economici dei dipendenti mal si conciliano con la natura industriale dell'attività esercitata e il carattere privatistico del rapporto di lavoro. Le politiche di gestione delle risorse umane sono determinate, in via prevalente, dalle norme di settore, dalle convenzioni e dai contratti di servizio nonché dai Ccnl e dagli accordi aziendali, che, pertanto, non possono essere soggetti a restrizioni.
Quindi, anche in caso di mancato rispetto del tetto di spesa, sarà il gruppo ente locale che dovrà decidere dove e con quali strumenti intervenire, escludendo l'applicazione diretta ed immediata delle norme previste per l'ente controllante, che limitano le assunzioni e le retribuzioni dei dipendenti. Chissà come si esprimeranno i giudici del lavoro (articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2013).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 32 legge n. 47 del 1985, nell’introdurre la possibilità di condonare opere abusive realizzate prima del 01.10.1983 su aree sottoposte al vincolo, subordina il rilascio della concessione edilizia al parere dell’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo stesso.
Tale parere ha natura giuridica di condizione ostativa e di presupposto indefettibile per la concessione edilizia in sanatoria e comporta la verifica della compatibilità dell’intervento con gli interessi paesaggistici e ambientali dell’area sottoposta a tutela.
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In materia di tutela delle bellezze panoramiche, l’esistenza di una anteriore lesione arrecata alla zona non rappresenta, da sola, un motivo sufficiente a dispensare dalla verifica riguardante la realizzabilità o la sanabilità di un’opera; anzi, l’eventuale danno progressivo produce la necessità di una indagine ancora più accurata, per scongiurare un maggiore, più grave e definitivo turbamento dei valori tipici dei luoghi: la situazione di compromissione della bellezza naturale da parte di preesistenti realizzazioni, anziché impedire, maggiormente richiede, quindi, che ulteriori costruzioni non deturpino irreversibilmente l’ambiente protetto.
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A prescindere dal momento di introduzione del vincolo stesso, ai fini del parere di cui all’art. 32 della legge 47 del 1985 rileva la data di valutazione della domanda di sanatoria, e non quella di costruzione dell’immobile.
Deve escludersi una disparità di trattamento sotto il profilo che per edifici insistenti nella medesima zona la Soprintendenza avrebbe autorizzato la sanatoria e altri sarebbero stati condonati. Infatti, per giurisprudenza costante, il vizio considerato non viene in evidenza in tutti i casi in cui non risulti dimostrata l’assoluta identità di situazioni, e comunque la legittimità dell’operato della pubblica Amministrazione non può essere inficiata dall’eventuale illegittimità compiuta in altra situazione.
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I provvedimenti sanzionatori in materia edilizia sono atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico che si intendono tutelare, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può legittimare.
La legislazione di settore esclude che si formi un legittimo affidamento, quando è realizzato un immobile abusivo e l’Amministrazione non esercita il suo potere-dovere di emanare l’ordine di demolizione, in quanto il decorso del tempo dalla data dell’abuso –per il principio di legalità– può avere rilievo giuridico solo quando la normativa ammetta in via eccezionale il condono di quanto illecitamente realizzato
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L’art. 32 legge n. 47 del 1985, nell’introdurre la possibilità di condonare opere abusive realizzate prima del 01.10.1983 su aree sottoposte al vincolo, subordina il rilascio della concessione edilizia al parere dell’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo stesso.
Come ha osservato il Consiglio di Stato nel parere reso dalla seconda sezione nell’adunanza del 09.03.2011, n. 2404/2011, sul ricorso straordinario proposto da alcuni proprietari di immobili siti nella stessa zona del Comune di Ardea interessata dalla vicenda in esame, tale parere ha natura giuridica di condizione ostativa e di presupposto indefettibile per la concessione edilizia in sanatoria e comporta la verifica della compatibilità dell’intervento con gli interessi paesaggistici e ambientali dell’area sottoposta a tutela.
Nel caso di specie, il Comune di Ardea ha valutato che l’edificio in esame “fa parte di una serie dì costruzioni, realizzate tra la spiaggia e il lungomare, le quali compromettono sia l’accessibilità che la fruizione del panorama marino”. Esso ha inoltre rilevato che tali edifici costituiscono un “grave danno paesaggistico in quanto alterano le caratteristiche morfologiche e naturali del luogo, facendogli perdere la propria identità fisica. L’impatto della realizzazione edilizia, nel contesto disturbante di diffusa fabbricazione, ha carattere invasivo tanto da determinare la compromissione non solo della percezione paesaggistica da parte della collettività, ma anche lo stravolgimento dell’armonia e naturale bellezza del paesaggio e dell’ambiente circostante”.
L’ente locale ha quindi valutato le caratteristiche morfologiche e paesaggistiche dell’area tutelata ed ha considerato che l’edificio in questione contribuisce ad alterare proprio quelle caratteristiche meritevoli di salvaguardia.
Tale modo di agire dell’amministrazione è conforme ai principi più volte affermati dalla giurisprudenza, secondo la quale, in materia di tutela delle bellezze panoramiche, l’esistenza di una anteriore lesione arrecata alla zona non rappresenta, da sola, un motivo sufficiente a dispensare dalla verifica riguardante la realizzabilità o la sanabilità di un’opera; anzi, l’eventuale danno progressivo produce la necessità di una indagine ancora più accurata, per scongiurare un maggiore, più grave e definitivo turbamento dei valori tipici dei luoghi (cfr. per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 27.09.2002, n. 4971): la situazione di compromissione della bellezza naturale da parte di preesistenti realizzazioni, anziché impedire, maggiormente richiede, quindi, che ulteriori costruzioni non deturpino irreversibilmente l’ambiente protetto.
Nella fattispecie in esame il Comune, in particolare, ha provveduto a sanzionare la maggior parte degli edifici che versano nelle medesime condizioni giuridiche di quello di proprietà dei ricorrenti e si propone dichiaratamente di ripristinare in maniera generale ed organica il naturale contesto ambientale e paesaggistico, ripristino che appare, dalla documentazione versata in atti, concretamente attuabile.
Il motivo di ricorso, riproposto in appello, che fa perno sulla diffusa edificazione che ha interessato l’area, con gli effetti invasivi e deturpanti evidenziati dal Comune, non ha quindi pregio.
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L’art. 7 della legge n. 1497 del 1939 imponeva già la necessità, per gli interventi da effettuarsi in zone paesaggisticamente vincolate, del previo assenso, che nella specie non solo non è stato emanato, ma non è stato neppure chiesto. Non è, quindi, la generale legge sull’edificazione che doveva costituire il parametro per l’azione dell’Amministrazione nel rispondere all’istanza dell’interessata, ma la particolare disciplina relativa alla tutela delle aree riconosciute di pregio paesaggistico, vale a dire, trattandosi di condono, l’art. 32 della legge n. 47 del 1985, che postula lo specifico assenso da parte dell’autorità competente, preposta alla difesa del vincolo.
In primo luogo l’intervento edilizio è stato realizzato, per esplicita ammissione contenuta nella istanza di condono, nel 1976 e quindi dopo l’apposizione, con decreto ministeriale 22.10.1954, del vincolo ai sensi dell’allora vigente legge 29.06.1939 n. 1497; in ogni caso, è pacifico l’orientamento di questo Consiglio, secondo cui, a prescindere dal momento di introduzione del vincolo stesso, ai fini del parere di cui all’art. 32 della legge 47 del 1985 rileva la data di valutazione della domanda di sanatoria, e non quella di costruzione dell’immobile (per tutte, Cons. St., Ad. plen., 07.06.1999, n. 20 e Sez. VI, 11.12.2001, n. 6210).
Deve, poi, escludersi, una disparità di trattamento sotto il profilo che per edifici insistenti nella medesima zona la Soprintendenza avrebbe autorizzato la sanatoria e altri sarebbero stati condonati. Infatti, per giurisprudenza costante, il vizio considerato non viene in evidenza in tutti i casi in cui non risulti dimostrata l’assoluta identità di situazioni, e comunque la legittimità dell’operato della pubblica Amministrazione non può essere inficiata dall’eventuale illegittimità compiuta in altra situazione (per tutte Consiglio Stato, Sez. VI, 22.11.2010, n. 8117).
Quanto alla censura relativa all’omessa considerazione del lungo tempo intercorso dalla realizzazione dell’immobile, e del conseguente consolidamento dell’interesse dei privati proprietari, va considerato che:
- i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia sono atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico che si intendono tutelare, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può legittimare (v., per tutte, Cons. Stato, Sez. V, 11.01.2011, n. 79);
- la legislazione di settore esclude che si formi un legittimo affidamento, quando è realizzato un immobile abusivo e l’Amministrazione non esercita il suo potere-dovere di emanare l’ordine di demolizione, in quanto il decorso del tempo dalla data dell’abuso –per il principio di legalità– può avere rilievo giuridico solo quando la normativa ammetta in via eccezionale il condono di quanto illecitamente realizzato;
- nella specie, poiché le ragioni del diniego e della conseguente ingiunzione di demolizione sono state ampiamente e sufficientemente esplicitate nella necessità di provvedere al recupero ambientale del territorio compromesso, e dei valori ambientali che vi si devono esprimere, non rileva esaminare la correttezza dell’ulteriore ed autonoma ragione posta a base del diniego, relativa al mancato rilascio del nulla osta previsto dall’art. 55 del codice della navigazione, che gli appellanti, con ulteriore mezzo del gravame, affermano sia stata rilasciata: trattasi, infatti, di motivazione ultronea per provvedimenti che, come si è rilevato, si sorreggono su diverse e legittime motivazioni
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.06.2013 n. 3367 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il voto numerico attribuito dalla commissione di un concorso pubblico esprime e sintetizza in modo adeguato il giudizio tecnico-discrezionale della commissione.
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a) la valutazione delle prove dei candidati rientra nella discrezionalità della commissione, non censurabile in giudizio se non per illogicità o altri vizi estrinseci, che nella fattispecie non è dato riscontare;
b) è legittima la determinazione dei criteri di valutazione delle prove concorsuali anche dopo la loro effettuazione, purché prima della loro concreta valutazione, essendo il precetto stabilito dall’art. 12, comma 1, d.P.R. 09.05.1994, n. 487 (Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi) volto a eliminare il sospetto che i criteri stessi siano preordinati a favorire o sfavorire alcuni concorrenti.
Come più volte ha osservato questo Consiglio di Stato (per tutte, Cons. Stato, V, 13.02.2013, n. 866), alla stregua della propria e prevalente e condivisibile giurisprudenza, il voto numerico attribuito dalla commissione di un concorso pubblico esprime e sintetizza in modo adeguato il giudizio tecnico-discrezionale della commissione (cfr. anche, ex plurimis, Cons. Stato, IV, 02.11.2012, n. 5581).
Dall’esame dei documenti di causa si ricava che i criteri di valutazione si appalesano ampiamente e dettagliatamente sufficienti a orientare l'operato della commissione, il cui giudizio, espresso nel codice numerico, rappresenta appunto l’applicazione coerente di tali criteri alla valutazione delle prove dei candidati.
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Devono essere esaminati gli appelli incidentali proposti dai vincitori in primo grado.
Essi sono infondati, alla luce delle seguenti considerazioni:
a) la valutazione delle prove dei candidati rientra nella discrezionalità della commissione, non censurabile in giudizio se non per illogicità o altri vizi estrinseci, che nella fattispecie non è dato riscontare;
b) è legittima la determinazione dei criteri di valutazione delle prove concorsuali anche dopo la loro effettuazione, purché prima della loro concreta valutazione, essendo il precetto stabilito dall’art. 12, comma 1, d.P.R. 09.05.1994, n. 487 (Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi) volto a eliminare il sospetto che i criteri stessi siano preordinati a favorire o sfavorire alcuni concorrenti (per tutte, Cons. Stato, V, 25.05.2012, n. 3062): nella fattispecie in esame, tale determinazione è, appunto, avventa prima della effettiva correzione e valutazione delle prove scritte;
c) la traccia delle prove è coerente sia con il contenuto indicato dal bando, sia con i criteri di giudizio determinati dalla commissione, attinenti alla correttezza formale e al contenuto degli elaborati, poiché, in generale, la coerenza dei criteri di valutazione con i contenuti delle tracce proposte ai candidati risiede, come ha rilevato il Tribunale amministrativo, al di là di singoli e non significativi particolari, nella considerazione che criteri, descrittori e contenuti sono compresi in problematiche e concetti propri dell’istruzione e della formazione;
d) la difformità con le tracce e i criteri di valutazione scelti da altre regioni è conseguente e corrisponde alla dimensione regionale impressa alla procedura concorsuale dall’art. 3 del d.P.R. 10.07.2008, n. 140 (Regolamento recante la disciplina per il reclutamento dei dirigenti scolastici, ai sensi dell'articolo 1, comma 618, della legge 27.12.2006, n. 296) e non è, quindi, apprezzabile in termini di disparità di trattamento;
e) i parametri fissati dalla commissione appaiono del tutto congrui e adeguati;
f) dalla riforma delle sentenze impugnate per effetto dell’accoglimento degli appelli principali, e dalla conseguente reiezione dei ricorsi di primo grado deriva l’improcedibilità degli appelli incidentali per la parte relativa all’individuazione dell’obbligo per l’Amministrazione di dare adempimento alle sentenze stesse
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.06.2013 n. 3365 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIIl provvedimento del Sindaco, che opera una vera e propria compressione dell’esercizio del diritto di accesso (dei consiglieri comunali) al di fuori dei giorni in cui è consentito l’accesso agli uffici, esorbita dalla sua competenza, strettamente limitata alla verifica di funzionalità degli uffici ed alla introduzione di accorgimenti atti a scongiurare l’intralcio alla loro operatività, per cui lo stesso va annullato per incompetenza dell’organo a disciplinare le modalità del diritto di accesso riservato ai consiglieri comunali.
Invero, solo il Consiglio comunale (mediante il potere regolamentare) ha competenza per la disciplina generale.
D’altra parte è razionale che della materia si occupi un organo che costituisce espressione di tutte le parti politiche, tenuto conto che il potere di informazione è uno dei tratti caratteristici del controllo affidato alla minoranza politica.

I ricorrenti, in qualità di consiglieri comunali del Comune di S. Giuseppe Vesuviano, censurano l’atto con cui il Sindaco ha disciplinato le modalità di esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali previsto dall’art. 43 del t.u.e.l., prescrivendo che gli stessi possano chiedere gli atti solo il lunedì dalle 9:00 alle 13:00 ed il mercoledì dalle 16:00 alle 18:00, fatta eccezione per gli argomenti all’ordine del giorno delle sedute del Consiglio comunale.
I ricorrenti deducono in primo luogo la carenza di competenza del sindaco in materia, nonché la mancanza di congrua motivazione e la violazione delle norme che garantiscono il pieno diritto di accesso agli atti del comune (art. 43 t.u.e.l., violazione dello Statuto e del regolamento comunale).
Si è costituito in giudizio il Comune di S. Giuseppe, che eccepisce la inammissibilità del ricorso e conclude per la reiezione dello stesso.
La controversia può essere decisa in forma semplificata poiché il ricorso è evidentemente meritevole di accoglimento.
Vale premettere che non può dubitarsi di un interesse attuale e concreto dei ricorrenti –consiglieri comunali– a censurare le modalità di regolamentazione di tale potestà pubblicistica. I modi di esercizio di una facoltà giuridicamente riconosciuta sono suscettibili di incidere pesantemente sulla sua fruibilità in concreto, onde non può disconoscersi un interesse alla decisione della presente controversia.
Nel merito assume rilievo preminente la censura di incompetenza del sindaco a regolamentare la materia.
Il quadro delle fonti è costituito dalla legge sull’ordinamento degli enti locali (t.u.e.l.) e, a cascata, dallo Statuto comunale e dal relativo regolamento.
L’art. 43, comma 2, del t.u.e.l. riconosce in capo ai consiglieri comunali il diritto di accedere e prendere visione degli atti del Comune che rappresentano, senza particolari limitazioni, anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale, di talché, a differenza dei soggetti privati, il consigliere non è tenuto ad una particolare motivazione della richiesta, né l’amministrazione ha titolo per sindacare il rapporto tra la richiesta di accesso e l’esercizio del mandato, altrimenti gli organi dell’amministrazione sarebbero arbitri di stabilire essi stessi l’ambito del controllo sul proprio operato.
L’ampiezza del diritto di accesso dei consiglieri comunali trova specifica conferma nella disciplina statutaria (art. 12, comma 5) e nel regolamento comunale (art. 28) che non pongono limitazioni al diritto di accesso dei consiglieri.
La cornice normativa descritta scandisce con precisione gli ambiti di competenza di ciascun organo del Comune in materia, confermando che solo il Consiglio comunale (mediante il potere regolamentare) ha competenza per la disciplina generale.
D’altra parte è razionale che della materia si occupi un organo che costituisce espressione di tutte le parti politiche, tenuto conto che il potere di informazione è uno dei tratti caratteristici del controllo affidato alla minoranza politica.
In virtù delle considerazioni esposte il provvedimento del Sindaco, occupandosi in linea generale della materia (con una vera e propria compressione dell’esercizio del diritto di accesso al di fuori dei giorni in cui è consentito l’accesso agli uffici), esorbita dalla sua competenza, strettamente limitata alla verifica di funzionalità degli uffici ed alla introduzione di accorgimenti atti a scongiurare l’intralcio alla loro operatività, per cui lo stesso va annullato per incompetenza dell’organo a disciplinare le modalità del diritto di accesso riservato ai consiglieri comunali (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 19.06.2013 n. 3154 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon può configurarsi come elemento meramente accessorio dell'edificio la realizzazione di una canna fumaria, che, pur non consistendo in opere murarie, in quanto realizzata in metallo od altro materiale, vada a soddisfare esigenze non precarie del costruttore, ciò comportando una modifica del prospetto e della sagoma del fabbricato cui inerisce, riconducendosi tale intervento nell'ambito delle opere di ristrutturazione edilizia di cui all'art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), realizzate mediante inserimento di nuovi elementi ed impianti, assoggettato al regime del permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso D.P.R..
Nel settimo e ottavo motivo si sostiene la “piccola entità” delle opere in relazione alle quali il Comune ha ordinato la demolizione, in quanto suscettibili di rientrare nell’ambito dell’edilizia residenziale libera.
L’argomentazione non è condivisibile.
Sul punto va ricordato come la realizzazione dei camini sia avvenuta in difformità di un precedente permesso di costruire, circostanza che ha reso indispensabile l’esperimento della procedura di cui all’art. 36 del Dpr 380/2001.
E’, allora, applicabile quell’orientamento giurisprudenziale (TAR Campania Napoli Sez. VIII, 01.10.2012, n. 4005) nell’ambito del quale si è sancito che “non può configurarsi come elemento meramente accessorio dell'edificio la realizzazione di una canna fumaria, che, pur non consistendo in opere murarie, in quanto realizzata in metallo od altro materiale, vada a soddisfare esigenze non precarie del costruttore, ciò comportando una modifica del prospetto e della sagoma del fabbricato cui inerisce, riconducendosi tale intervento nell'ambito delle opere di ristrutturazione edilizia di cui all'art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), realizzate mediante inserimento di nuovi elementi ed impianti, assoggettato al regime del permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso D.P.R.”.
I camini di cui si tratta non sono suscettibili nemmeno di rientrare nella disciplina della c.d. DIA e, ciò, considerando come con gli stessi si sia posta in essere una modifica dei prospetti dell’edificio e delle parti comuni (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 13.06.2013 n. 825 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’onere motivazionale che grava in capo alla p.a. rinviene la sua giusta misura nell’esigenza che il destinatario del provvedimento sia messo in grado di percepire quali siano le ragioni che hanno portato al diniego dell’istanza proposta.
Pertanto, se non risulta sufficiente il generico richiamo alla norma di legge, è consentito adoperare una motivazione che, sia pure in modo sintetico ovvero attraverso un meccanismo motivazionale che utilizza il rinvio per relationem al contenuto di atti endoprocedimentali, esterni le ragioni che ostano all’accoglimento dell’istanza (di sanatoria), così da consentire al privato di valutare l’opportunità di un’eventuale reazione giurisdizionale.
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E' legittimo il diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria.
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L’attività sanzionatoria della P.A. sull’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni , non è affatto connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto. Pertanto , il giudice può verificare la correttezza di tale attività accertativa svolta dalla P.A., non diversamente da quanto avviene allorché controlla l’esattezza di accertamenti tecnici condotti dalla P.A. in altri contesti.
L'ordine di demolizione di opere edilizie abusive è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare. Del resto, un eventuale affidamento a favore dell’amministrato potrebbe solo sorgere all’indomani della conoscenza che l’amministrazione abbia dell’esistenza del manufatto, rispetto alla quale mantenga una colpevole inerzia e non come nel caso di specie dove l’intervento repressivo è stato disposto dopo pochi giorni il diniego di sanatoria.

Quanto alle residue censure le stesse appaiono tutte infondate. Ed infatti, corretta è la pronuncia gravata nella parte in cui esclude che il diniego di sanatoria sia inficiato da un difetto motivazionale. Appare evidente che l’onere motivazionale che grava in capo alla p.a. rinviene la sua giusta misura nell’esigenza che il destinatario del provvedimento sia messo in grado di percepire quali siano le ragioni che hanno portato al diniego dell’istanza proposta (Cons. St., Sez. II, 24.05.2006, n. 7681; Id. 05.02.1997, n. 336).
Pertanto, se non risulta sufficiente il generico richiamo alla norma di legge (Cons. St., Sez. V, 04.04.2006, n. 1750), è consentito adoperare una motivazione che sia pure in modo sintetico ovvero attraverso un meccanismo motivazionale che utilizza il rinvio per relationem al contenuto di atti endoprocedimentali, come nella fattispecie, esterni le ragioni che ostano all’accoglimento dell’istanza, così da consentire al privato di valutare l’opportunità di un’eventuale reazione giurisdizionale.
Nel caso in esame, quindi, il rinvio alla relazione del responsabile del procedimento e della Commissione edilizia, unitamente alla contrarietà derivante dalla circostanza che l’opera sananda comportava un incremento volumetrico non consentito, anche perché non riconducibile nell’ambito dell’ipotesi di adeguamento igienico-sanitario, risulta soddisfare il precetto contenuto nell’art. 3, l. n. 241/1990.
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In ordine alla seconda censura, appare condivisibile la premessa giuridica da cui parte, e rispetto alla quale non si registra alcuna difformità con la sentenza gravata, circa la necessità della conformità del manufatto oggetto di sanatoria con la disciplina urbanistica vigente al momento della realizzazione dell’opera, con quella vigente al momento della presentazione dell’istanza e con quella al tempo dell’adozione del provvedimento.
Non condivisibile, è invece, la conclusione raggiunta dall’appellante circa il soddisfacimento della regola in esame da parte della richiesta dell’interessato. Infatti, la giurisprudenza di questo Consiglio ha da tempo chiarito che ai sensi dell'art. 13 L. 28.02.1985 n. 47, è legittimo il diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria (Cons. St., sez. IV, 26.04.2006, n. 2306; sez. IV, n. 6474 del 2006; sez. V, n. 1126 del 2009; sez. V, 17.09.2012, n. 4914).
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Infine, quanto all’ultima delle censure in esame, incentrata sulla presunta illegittimità dell’ordine di demolizione per difetto di motivazione, appare sufficiente richiamare il consolidato orientamento di questo Consiglio in merito alla natura vincolata dell’ordine di demolizione: “L’attività sanzionatoria della P.A. sull’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni , non è affatto connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto. Pertanto , il giudice può verificare la correttezza di tale attività accertativa svolta dalla P.A., non diversamente da quanto avviene allorché controlla l’esattezza di accertamenti tecnici condotti dalla P.A. in altri contesti” (Cons. St., Sez. IV, 17.05.2010, n. 3126), per escludere la sussistenza del supposto vizio motivazionale atteso che: “L'ordine di demolizione di opere edilizie abusive è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare” (Cons. St., Sez. V, 11.01.2011, n. 79).
Del resto, un eventuale affidamento a favore dell’amministrato potrebbe solo sorgere all’indomani della conoscenza che l’amministrazione abbia dell’esistenza del manufatto, rispetto alla quale mantenga una colpevole inerzia e non come nel caso di specie dove l’intervento repressivo è stato disposto dopo pochi giorni il diniego di sanatoria (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 5523 del 2012; VI, n. 7129 del 2010)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.06.2013 n. 3235 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Non sussiste l'onere di immediata impugnazione delle clausole del bando di gara che non impediscano la partecipazione, o non risultino manifestamente incomprensibili o sproporzionate rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, manifestando un'efficacia lesiva solo a seguito dell'espletamento della gara e mediante l'applicazione che ne faccia l'Amministrazione.
Per esse, infatti, vale il principio della loro impugnazione unitamente agli atti che ne costituiscono specifica attuazione, dal momento che sono questi ultimi ad identificare in concreto il soggetto interessato ed a rendere attuale la lesione della sua sfera giuridica.
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La presentazione della domanda di partecipazione ad una procedura concorsuale non implica certamente di per sé acquiescenza alle clausole del relativo bando, le quali anzi possono di regola essere impugnate solo dopo avere concretamente dimostrato, non solo la volontà di partecipare alla procedura selettiva, ma anche la lesione attuale e concreta dell'interesse legittimo azionato considerato, d'altro canto, che la presentazione della domanda è un atto normalmente necessario proprio per radicare l'interesse al ricorso.

Ed invero, è pacifico insegnamento giurisprudenziale quello per cui non sussiste l'onere di immediata impugnazione delle clausole del bando di gara che non impediscano la partecipazione, o non risultino manifestamente incomprensibili o sproporzionate rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, manifestando un'efficacia lesiva solo a seguito dell'espletamento della gara e mediante l'applicazione che ne faccia l'Amministrazione.
Per esse, infatti, vale il principio della loro impugnazione unitamente agli atti che ne costituiscono specifica attuazione, dal momento che sono questi ultimi ad identificare in concreto il soggetto interessato ed a rendere attuale la lesione della sua sfera giuridica (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. III, 18.01.2013, n. 293).
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Né può ritenersi che la partecipazione alla gara a mezzo della presentazione della richiesta di DURC abbia costituito acquiescenza al bando, impedendone la successiva impugnazione.
La presentazione della domanda di partecipazione ad una procedura concorsuale, infatti, non implica certamente di per sé acquiescenza alle clausole del relativo bando, le quali anzi possono di regola essere impugnate solo dopo avere concretamente dimostrato, non solo la volontà di partecipare alla procedura selettiva, ma anche la lesione attuale e concreta dell'interesse legittimo azionato considerato, d'altro canto, che la presentazione della domanda è un atto normalmente necessario proprio per radicare l'interesse al ricorso (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21.11.2011, n. 6135)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.06.2013 n. 3231 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare, responsabile del procedimento.
Il Consiglio di Stato ha affermato quali sono le competenze del seggio di gara e quelle del responsabile unico del procedimento (cd. RUP) : i giudici amministrativi nel respingere il ricorso di una società partecipante all'affidamento hanno confermato la sentenza del Tribunale amministrativo regionale .
Il ricorso al TAR
Una SPA ha impugnato davanti al TAR il provvedimento con il quale una azienda sanitaria locale ha aggiudicato ad una ditta concorrente , capogruppo mandataria di un RTI, la gara per l’affidamento, per 12 mesi, prorogabili per altri 6, del servizio di ristorazione. I giudici di prime dopo aver ricordato che i servizi alberghieri e di ristorazione rientrano nell’All. II B del Codice degli Appalti, con la conseguenza che per le relative gare si applicano solo alcune disposizioni del Codice stesso di cui al D.Lgs. 163/2006 e s.m.i., ha rilevato che la ricorrente si era classificata al quarto posto nella graduatoria di merito ed ha ritenuto infondati i motivi riguardanti la regolarità della procedura di gara.
Avverso tale sentenza la SPA si è appellata al Consiglio di Stato.
Le fasi dell’aggiudicazione di gara nelle offerte economicamente più vantaggiose
Il procedimento seguito dall’amministrazione appaltante per l’aggiudicazione della gara, nel caso di selezione delle offerte da svolgersi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (artt. 83 e segg. del Codice dei contratti pubblici), si svolge, normalmente, in tre fasi: in due fasi sono necessarie prevalenti competenze amministrative ed in una fase sono necessarie prevalenti competenze tecniche.
Dopo aver ricevuto le offerte, nel termine indicato dal bando, l’amministrazione in una prima fase svolge diverse operazioni preliminari alla valutazione delle offerte: verifica la regolarità dell’invio dell’offerta e il rispetto delle disposizioni generali e di quelle speciali contenute nel bando (o nella lettera di invito) e nel disciplinare di gara (e l’osservanza delle regole sulla produzione dei documenti).
La stazione appaltante provvede quindi, in seduta pubblica, all’apertura dei plichi delle diverse offerte che (di norma) contengono tre buste: 1) la busta A (documentazione amministrativa); 2) la busta B (documentazione tecnica); 3) la busta C (offerta economica).
La stazione appaltante, disposta l’idonea conservazione delle buste (C) contenenti le offerte economiche, procede quindi all’apertura delle buste (A) contenenti la documentazione amministrativa per verificarne il contenuto e per consentire la successiva verifica dei requisiti generali previsti dalla normativa sugli appalti pubblici (artt. 38 e 39 del Codice degli Appalti) e dei requisiti speciali, dettati dagli atti di gara (artt. 41 e 42 del Codice degli Appalti), nonché di tutte le altre condizioni dettate per la partecipazione alla gara.
L’amministrazione procede poi, sempre in seduta pubblica all’apertura delle buste (B), contenenti la documentazione tecnica, per prendere atto del relativo contenuto e per verificare l’effettiva presenza dei documenti richiesti nel bando (o nella lettera di invito) e nel disciplinare di gara (schede tecniche, relazioni tecniche illustrative, certificazioni tecniche etc.).
Anche tale documentazione è poi conservata in plico sigillato.
Il responsabile del procedimento unico: il RUP
Le attività indicate nel paragrafo precedente sono eseguite dal seggio di gara o direttamente dal responsabile del procedimento unico (RUP), che in linea generale è il dirigente preposto alla competente struttura organizzativa della stazione appaltante (che si avvale anche dei funzionari del suo ufficio), che, ai sensi dell’art. 10, comma 2 del Codice degli Appalti svolge tutti i compiti relativi alle procedure di affidamento previste dal Codice stesso, compresi gli affidamenti in economia, e alla vigilanza sulla corretta esecuzione dei contratti, che non siano specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti e cura il corretto e razionale svolgimento delle procedure.
Dopo la preliminare fase di verifica dei contenuti dell’offerta, si passa alla seconda fase di valutazione delle offerte tecniche.
A tale seconda fase provvede l’apposita Commissione tecnica che è nominata ai sensi dell’art. 84 del Codice degli Appalti e dell’art. 283, comma 2, del Regolamento di cui al D.P.R. n. 207/2010.
In una o più sedute riservate, la Commissione verifica quindi la conformità tecnica delle offerte e valuta le stesse, assegnando i relativi punteggi sulla base di quanto previsto dal disciplinare di gara.
In seguito l’amministrazione appaltante procede, nuovamente in seduta pubblica, ad informare i partecipanti delle valutazioni compiute, a dare notizia di eventuali esclusioni e a dare lettura dei punteggi assegnati dalla Commissione sulle offerte tecniche dei concorrenti non esclusi.
Quindi, verificata l’integrità del plico contenenti le buste con le offerte economiche (e l’integrità delle singole buste), l’amministrazione procede all’apertura delle stesse con la lettura delle singole offerte, con l’indicazione dei ribassi offerti e dei conseguenti prezzi netti e la determinazione (matematica) dei punteggi connessi ai prezzi.
Il seggio di gara formula, quindi, la graduatoria finale sulla base della somma dei punteggi assegnati per l’offerta tecnica e per l’offerta economica e procede all’aggiudicazione provvisoria in favore dell’offerta che ha raggiunto il maggiore punteggio complessivo.
Per quanto riguarda, in particolare, il procedimento per la verifica dell’anomalia, l’art. 284 del D.P.R. n. 207/2010, nel dare attuazione all’art. 88 del Codice degli Appalti in relazione agli appalti di servizi, rinvia all’art. 121 del D.P.R. n. 207 che, al comma 10, per le gare da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, prevede espressamente che, qualora vi siano offerte da sottoporre alla verifica di congruità, ai sensi dell’art. 86, comma 2, del Codice «(…..) qualora il punteggio relativo al prezzo e la somma dei punteggi relativi agli altri elementi di valutazione delle offerte siano entrambi pari o superiori ai limiti indicati dall'articolo 86, comma 2, del Codice, il soggetto che presiede la gara chiude la seduta pubblica e ne dà comunicazione al responsabile del procedimento, che procede alla verifica delle giustificazioni presentate dai concorrenti ai sensi dell'articolo 87, comma 1, del Codice avvalendosi degli uffici o organismi tecnici della stazione appaltante ovvero della commissione di gara, ove costituita».
Da tali disposizioni si evince che è il responsabile del procedimento ad essere investito anche della funzione di svolgere la verifica dell’anomalia, potendosi avvalere, ove costituita, della apposita Commissione (o della stessa Commissione tecnica).
La sentenza del Consiglio di Stato
I giudici del Consiglio di Stato, in primo luogo, esaminano la censura della SPA ricorrente secondo la quale l’offerta della Capogruppo aggiudicataria dell’affidamento era stata sottoposta a verifica di anomalia, ai sensi dell’art. 86, comma 2, del Codice degli Appalti, in quanto i punteggi assegnati superavano i quattro quinti del punteggio massimo attribuibile sia per l’elemento qualità, sia per l’elemento prezzo.
Per il Consiglio di Stato la motivazione è infondata.
La Commissione Tecnica, ha comunicato che l’offerta risultava “nel suo complesso attendibile, non ravvisandosi elementi che possono compromettere la corretta esecuzione dell’appalto” ed ha quindi invitato il RUP alla formalizzazione dell’aggiudicazione alla quale questi ha provveduto.
La SPA ricorrente, tuttavia, non si è lamentata dell’anomalia dell’offerta ma ha contestato la mancata convocazione di una (ulteriore) seduta pubblica per la comunicazione dell’esito della verifica di anomalia e della conseguente aggiudicazione provvisoria.
Per i giudici del Consiglio di Stato la mancanza di una (ulteriore) seduta pubblica per tale comunicazione deve ritenersi del tutto irrilevante.
Per il Consiglio di Stato la conseguenza che la mancata comunicazione formale in seduta pubblica anche dell’esito della verifica di anomalia (con la conseguente aggiudicazione provvisoria) non costituisce un vizio capace di inficiare la procedura, né da tale mancanza può essere derivato alcun danno alla SRL ricorrente che ha avuto modo, anche a seguito delle comunicazioni effettuate dall’amministrazione, di far valere le sue ragioni nei confronti delle valutazioni effettuate dall’amministrazione.
In secondo luogo la SPA ricorrente ha, inoltre, censurato la violazione dell’art. 84 del Codice degli Appalti perché la Commissione di gara, prevista nel caso di aggiudicazione di gara con l’offerta economicamente più vantaggiosa, non aveva svolto le attività di valutazione ed ammissione dei concorrenti e di graduazione dei punteggi ma aveva lasciato tali attività al RUP, il cui nome era peraltro già conosciuto prima del termine di presentazione delle offerte, o addirittura ad un suo delegato.
Per il Consiglio di Stato anche il questo caso il motivo è infondato.
In particolare non ha rilievo la circostanza che tali atti non siano stati compiuti dalla commissione in composizione plenaria, né ha rilievo la circostanza che il RUP si è fatto assistere da diversi soggetti posto che, nelle operazioni che procedono la valutazione tecnica delle offerte, il RUP è assistito da testimoni, uno dei quali con il ruolo di segretario verbalizzante. Ma, in ogni caso, né i testimoni né il segretario partecipano alla formazione delle decisioni adottate dal presidente di seggio in ordine alle modalità di gestione delle sedute di gara; né può avere alcun rilievo la circostanza che il nome del RUP fosse già conosciuto prima del termine di presentazione delle offerte trattandosi di circostanza ordinaria. Mentre è la commissione giudicatrice che, a garanzia della regolarità della gara, deve essere nominata solo dopo lo scadere del termine ultimo di presentazione delle offerte (art. 84, comma 10, del Codice).
E nella fattispecie, come ricordato anche dal TAR, la Commissione tecnica è stata nominata dopo la scadenza del termine di presentazione delle offerte (commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 11.06.2013 n. 3228 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Approvazione di progetti di opere pubbliche - Non conformi alle specifiche destinazioni di piano - Principio di fungibilità delle opere pubbliche - Art. 1 Legge n. 1/1978 - Art. 5 D.M. n. 1444/1968 - Art. 44, c. 1, lett. a) e b), D.P.R. 380/2001.
L’approvazione di progetti di opere pubbliche, anche se non conformi alle specifiche destinazioni di piano e purché lo strumento urbanistico vigente contenga destinazioni specifiche di aree per la realizzazione di servizi pubblici, non necessita l’adozione di varianti allo strumento urbanistico (c.d. principio di fungibilità delle opere pubbliche - Art. 1 Legge n. 1/1978 ).
Nella specie, la realizzazione di un centro di raccolta materiali asservito all’attività di gestione dei rifiuti urbani, è stato ritenuto compatibile con la destinazione dell’area a standard (“verde pubblico” e/o “parcheggi”) nell’ambito del P.I.P. comunale, essendo, lo stesso, qualificabile come servizio pubblico anche quando le prestazioni siano effettuate da un gestore privato rientrando, ex art. 5 D.M. n. 1444/1968, nel novero delle c.d. “attività collettive” (TRIBUNALE di Brindisi, Sez. penale riesame, ordinanza 06.06.2013 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Zonizzazione - Realizzazione piazzola ecologica - Uso flessibile del territorio - D.M. n.1444/1968.
La disciplina imposta dal D.M. 1444/1968 deve interpretarsi in favore di un uso flessibile del territorio, prevedendo la compresenza, nell’ambito della stessa zona, di usi promiscui.
Nella specie, se è ritenuta attività collettiva quella a servizio di una limitata porzione del territorio (si pensi al parcheggio realizzato in zona PIP e destinato al traffico veicolare presente nell’area), tanto più deve essere ritenuta attività collettiva l’attività di raccolta, trasporto e smaltimento di rifiuti solidi urbani, qualificabile come servizio pubblico, anche quando le prestazioni siano effettuate dal privato gestore essendo esse destinate palesemente in modo generalizzato a favore della collettività locale (sul punto Consiglio di stato, sez. V - 30/04/2002 n. 2294) (TRIBUNALE di Brindisi, Sez. penale riesame, ordinanza 06.06.2013 - link a www.ambientediritto.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Conseguenze dell'instaurazione di rapporti di lavoro a tempo determinato in violazione di norme di legge.
La Corte di Cassazione ribadisce che:
- "Come questa S.C. ha già avuto modo di notare in analogo precedente (v. Cass. 15.06.2010 n. 14350) l'incipit del D.Lgs. n. 165 del 2001, cit. art. 36, comma 5 ('In ogni caso ...') è categorico e non consente eccezioni là dove afferma che nell'area del lavoro pubblico non può operare il principio della trasformazione dei rapporti a termine in rapporti a tempo indeterminato. Se sono state violate norme imperative che regolano i lavori a tempo determinato il lavoratore potrà, se del caso, chiedere il risarcimento dei danni subiti e le amministrazioni avranno l'obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili se vi è stato dolo o colpa grave. Ma il lavoratore non potrà, per questa via, instaurare con l'amministrazione un rapporto di lavoro a tempo indeterminato";
- "A ciò si aggiunga che la giurisprudenza di questa S.C. -cui va data continuità- è costante nello statuire che, in tema di assunzioni temporanee alle dipendenze di pubbliche amministrazioni, anche per i rapporti di lavoro di diritto privato da esse instaurati valgono le discipline specifiche che escludono la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato (ribadite in sede di disciplina generale dal D.Lgs. 165 del 2001, cit. art. 36), senza che trovi applicazione la L. n. 230 del 1962, atteso che l'art. 97 Cost., che pone la regola dell'accesso al lavoro nelle pubbliche amministrazioni mediante concorso, ha riguardo non già alla natura giuridica del rapporto, ma a quella dei soggetti, salvo che una fonte normativa non disponga diversamente in casi eccezionali, con il limite della non manifesta irragionevolezza della discrezionalità del legislatore (cfr. Cass. 30.06.2011 n. 14433; Cass. 22.08.2006 n. 18276; Cass. 24.02.2005 n. 3833)" (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 28.05.2013 n. 13247 - tratto da www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le opere di recinzione del terreno non si configurano come nuova costruzione, per la quale è necessario il previo rilascio di permesso di costruire, quando, per natura e dimensioni, rientrino tra le manifestazioni del diritto di proprietà, comprendente lo ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione e l'assetto delle singole proprietà.
Tale è il caso della recinzione eseguita senza opere murarie, costituita da una semplice rete metallica sorretta da paletti in ferro, la quale costituisce installazione precaria e non incide in modo permanente sull'assetto edilizio del territorio.
Diversamente, è invece richiesto il permesso di costruire quando la recinzione determina una irreversibile trasformazione dello stato dei luoghi, come nel caso di recinzione costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica o addirittura inferriata sovrastante il muro al quale poi s'incardinano cancelli.

La prima argomentazione a supporto del provvedimento impugnato fa riferimento al mancato rispetto delle formalità previste dal t.u. edilizia n. 380 del 2001 e al mancato rilascio del titolo abilitativo (autorizzazione) asseritamente occorrente per l'intervento.
Tali considerazioni non valgono a fondare la legittimità del provvedimento impugnato.
La mancanza di autorizzazione edificatoria non costituisce, in ogni caso, valida giustificazione dell'impugnato ordine di rimozione.
Le opere di recinzione del terreno non si configurano, infatti, come nuova costruzione, per la quale è necessario il previo rilascio di permesso di costruire, quando, per natura e dimensioni, rientrino tra le manifestazioni del diritto di proprietà, comprendente lo ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione e l'assetto delle singole proprietà.
Tale è il caso della recinzione eseguita senza opere murarie, costituita da una semplice rete metallica sorretta da paletti in ferro, la quale costituisce installazione precaria e non incide in modo permanente sull'assetto edilizio del territorio (cfr., fra le ultime, Tar Liguria I, 20.09.2010 n. 1174; Tar Toscana III, 09.06.2011 n. 1005, Tar Piemonte I, 15.02.2010 n. 950; TAR Lazio, Roma, sez. II, 11.09.2009, n. 8644).
L'intervento in questione rientra, piuttosto nella portata residuale degli interventi realizzabili con il regime semplificato della d.i.a., a mente dell'art. 22 del t.u. dell'edilizia, la cui mancanza non è sanzionabile con la rimozione o la demolizione, previsti dall'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, per l'esecuzione di interventi in assenza del permesso di costruire, in totale difformità del medesimo, ovvero con variazioni essenziali, ma con l'applicazione della sanzione pecuniaria prevista dal successivo art. 37 per l'esecuzione di interventi in assenza della prescritta denuncia di inizio di attività.
Diversamente, è invece richiesto il permesso di costruire quando la recinzione determina una irreversibile trasformazione dello stato dei luoghi, come nel caso di recinzione costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica o addirittura inferriata sovrastante il muro al quale poi s'incardinano cancelli.
Nel caso di specie l’intervento si sostanzia esclusivamente nell’apposizione di una rete metallica con paletti di ferro e senza alcun tipo di opera muraria, con caratteristiche di precarietà e senza trasformazione effettiva dello stato dei luoghi.
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Un secondo ordine di considerazioni fa riferimento alla mancanza di autorizzazione paesaggistica.
Si osserva preliminarmente che non è contestata l'esistenza del vincolo.
Ciò premesso, appare irrilevante che la recinzione in esame (costituita, si ribadisce, da una semplice rete metallica e da paletti infissi nel terreno e senza opere murarie) sia stata eseguita senza nulla osta in area vincolata, trattandosi di opera priva di apprezzabile impatto ambientale (cfr., in analoga fattispecie, Tar Piemonte I, 15.02.2010 n. 950; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 08.05.2007, n. 4821)
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 27.05.2013 n. 5276 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Ai fini della declaratoria di incompatibilità ex art. 90, comma 8, d.lgs. n. 163 del 2006, la giurisprudenza nazionale e comunitaria richiede la presenza di indizi seri, precisi e concordanti sulla circostanza che il partecipante alla gara, o il soggetto a questo collegato, abbia rivestito un ruolo determinante nell'indirizzo delle scelte dell'Amministrazione o ne abbia ricevuto un tale flusso di informazioni riservate da falsare la concorrenza.
Tali indizi non devono necessariamente riguardare soltanto situazioni limite, ovvero l'essersi determinata, nel passato o nel presente, una situazione di influenza sulle scelte dell'Amministrazione o una situazione di connivenza, con conseguente flusso di informazioni, dall'Amministrazione all'impresa che pretenda di partecipare alla gara. Ciò in quanto le norme sulla incompatibilità ed i connessi divieti agiscono in prevenzione, ovvero sono norme che tendono a prevenire il pericolo di pregiudizio e, verificato il caso di incompatibilità, tendono a salvaguardare la genuinità della gara attraverso la prescrizione del divieto di partecipazione.
Di talché le stesse non presuppongono né intervenuta la lesione, né la sussistenza di un concreto tentativo di compromissione. È, dunque sufficiente che gli indizi (ferma la loro serietà, precisione e concordanza) riguardino situazioni che, oggettivamente, pongono un determinato concorrente in una posizione di squilibrio (per sé favorevole) nei confronti degli altri concorrenti e tale da determinare -indipendentemente dal concretizzarsi del vantaggio- una violazione della par condicio.
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La condizione ostativa alla partecipazione alle gare di cui all'art. 90, comma 8, d.lgs. n. 163/2006, viene posta non solo nei confronti del soggetto affidatario dell'incarico di progettazione, ma anche nei confronti di quei soggetti che possano ritenersi a vario titolo compartecipi dell'attività di progettazione (dipendenti; collaboratori; responsabili di attività di supporto a quella di progettazione) e che siano ricollegabili all'affidatario medesimo, nei termini normativamente previsti.
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La disciplina contenuta nell'art. 90, comma 8, c. contr. pubbl. va reputata quale espressione di un principio generale, in forza del quale ai concorrenti ad una procedura di scelta del contraente da parte della pubblica amministrazione deve essere riconosciuta un'omogenea posizione, "ex se" implicante la più rigorosa parità di trattamento, dovendo comunque essere valutato se lo svolgimento di pregressi affidamenti presso la stessa stazione appaltante possa aver creato, per taluno dei concorrenti stessi, degli speciali vantaggi incompatibili con i principi -propri non soltanto dell'ordinamento italiano, ma anche di quello comunitario- di libera concorrenza e di parità di trattamento. Conseguentemente, la valutazione di incompatibilità deve essere effettuata in concreto dalla stazione appaltante.

Il Collegio condivide la premessa dalla quale muove la difesa della ricorrente Lo Prete Group, secondo cui l’art. 90 cit. è espressione di un principio generale (Cons. Stato, IV, 23.04.2012, n. 2402; Cons. Stato, IV, 03.05.2011, n. 2647; Cons. Stato, V, 19.03.2007, n. 1302; Cons. Stato, VI, 02.10.2007, n. 5088), come tale posto a presidio degli indefettibili ed ineluttabili principi di imparzialità e di parità in fase di gara, e pertanto suscettibile di applicazione anche nei casi in cui un soggetto abbia in qualunque modo contribuito, attraverso la propria attività professionale, a determinare i contenuti, le linee programmatiche e gli obiettivi che l’Amministrazione intende perseguire con l’affidamento, oggetto della procedura di gara.
A tale proposito, secondo la giurisprudenza “Ai fini della declaratoria di incompatibilità ex art. 90, comma 8, d.lgs. n. 163 del 2006, la giurisprudenza nazionale e comunitaria richiede la presenza di indizi seri, precisi e concordanti sulla circostanza che il partecipante alla gara, o il soggetto a questo collegato, abbia rivestito un ruolo determinante nell'indirizzo delle scelte dell'Amministrazione o ne abbia ricevuto un tale flusso di informazioni riservate da falsare la concorrenza. Tali indizi non devono necessariamente riguardare soltanto situazioni limite, ovvero l'essersi determinata, nel passato o nel presente, una situazione di influenza sulle scelte dell'Amministrazione o una situazione di connivenza, con conseguente flusso di informazioni, dall'Amministrazione all'impresa che pretenda di partecipare alla gara. Ciò in quanto le norme sulla incompatibilità ed i connessi divieti agiscono in prevenzione, ovvero sono norme che tendono a prevenire il pericolo di pregiudizio e, verificato il caso di incompatibilità, tendono a salvaguardare la genuinità della gara attraverso la prescrizione del divieto di partecipazione. Di talché le stesse non presuppongono né intervenuta la lesione, né la sussistenza di un concreto tentativo di compromissione. È, dunque sufficiente che gli indizi (ferma la loro serietà, precisione e concordanza) riguardino situazioni che, oggettivamente, pongono un determinato concorrente in una posizione di squilibrio (per sé favorevole) nei confronti degli altri concorrenti e tale da determinare -indipendentemente dal concretizzarsi del vantaggio- una violazione della par condicio”. (TAR Roma Lazio sez. I, 18.10.2012 n. 8595)
La stessa giurisprudenza ha altresì chiarito che “La condizione ostativa alla partecipazione alle gare di cui all'art. 90, comma 8, d.lgs. n. 163/2006, viene posta non solo nei confronti del soggetto affidatario dell'incarico di progettazione, ma anche nei confronti di quei soggetti che possano ritenersi a vario titolo compartecipi dell'attività di progettazione (dipendenti; collaboratori; responsabili di attività di supporto a quella di progettazione) e che siano ricollegabili all'affidatario medesimo, nei termini normativamente previsti”.
Inoltre, è stato anche affermato che “La disciplina contenuta nell'art. 90, comma 8, c. contr. pubbl. va reputata quale espressione di un principio generale, in forza del quale ai concorrenti ad una procedura di scelta del contraente da parte della pubblica amministrazione deve essere riconosciuta un'omogenea posizione, "ex se" implicante la più rigorosa parità di trattamento, dovendo comunque essere valutato se lo svolgimento di pregressi affidamenti presso la stessa stazione appaltante possa aver creato, per taluno dei concorrenti stessi, degli speciali vantaggi incompatibili con i principi -propri non soltanto dell'ordinamento italiano, ma anche di quello comunitario- di libera concorrenza e di parità di trattamento. Conseguentemente, la valutazione di incompatibilità deve essere effettuata in concreto dalla stazione appaltante.” (Consiglio di Stato, Consiglio di Stato sez. IV 23.04.2012, n. 2402) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 24.05.2013 n. 347 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La decisione 07.06.2012 n. 21 dell’Adunanza Plenaria ha statuito che nel caso di incorporazione o fusione societaria, sussiste in capo alla società incorporante o risultante dalla fusione l’onere di presentare la dichiarazione relativa al requisito di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006 anche con riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici che hanno operato presso la società incorporata o le società fusesi nell’ultimo triennio, ovvero che sono cessati dalla relativa carica in detto periodo (dopo il d.l. n. 70 del 2011, nell’ultimo anno). Resta ferma la possibilità di dimostrare la c.d. dissociazione.
L’art. 38, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006, sia prima che dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 70 del 2011, pertanto, impone la presentazione di una dichiarazione sostitutiva completa, a pena di esclusione, anche per gli amministratori delle società che partecipano ad un procedimento di incorporazione o di fusione.
L’Adunanza Plenaria, tenuto conto della precedente incertezza giurisprudenziale, giunge alla conclusione che i concorrenti che omettono la dichiarazione possono essere esclusi dalle gare -in relazione alle dichiarazioni rese ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. c)- fino alla data di pubblicazione della decisione medesima (07.06.2012) solo se il bando espliciti tale onere di dichiarazione e la conseguente causa di esclusione; in caso contrario, l’esclusione può essere disposta solo ove vi sia la prova che gli amministratori per i quali è stata omessa la dichiarazione hanno pregiudizi penali.

La decisione dell’Adunanza Plenaria n. 21 intervenuta in data 07.06.2012 ha statuito che nel caso di incorporazione o fusione societaria, sussiste in capo alla società incorporante o risultante dalla fusione l’onere di presentare la dichiarazione relativa al requisito di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006 anche con riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici che hanno operato presso la società incorporata o le società fusesi nell’ultimo triennio, ovvero che sono cessati dalla relativa carica in detto periodo (dopo il d.l. n. 70 del 2011, nell’ultimo anno). Resta ferma la possibilità di dimostrare la c.d. dissociazione.
L’art. 38, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006, sia prima che dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 70 del 2011, pertanto, impone la presentazione di una dichiarazione sostitutiva completa, a pena di esclusione, anche per gli amministratori delle società che partecipano ad un procedimento di incorporazione o di fusione.
L’Adunanza Plenaria, tenuto conto della precedente incertezza giurisprudenziale, giunge alla conclusione che i concorrenti che omettono la dichiarazione possono essere esclusi dalle gare -in relazione alle dichiarazioni rese ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. c)- fino alla data di pubblicazione della decisione medesima (07.06.2012) solo se il bando espliciti tale onere di dichiarazione e la conseguente causa di esclusione; in caso contrario, l’esclusione può essere disposta solo ove vi sia la prova che gli amministratori per i quali è stata omessa la dichiarazione hanno pregiudizi penali.
Nel caso in esame, il punto 13.1 del bando (requisiti generali) prevede che siano attestate da tutti i soggetti che intendono partecipare l’assenza delle condizioni di cui all’art. 38 cit., specificamente elencate.
Il punto 3 del disciplinare di gara prevede espressamente che tutti i soggetti componenti il raggruppamento (soggetto finanziatore, soggetto realizzatore e progettista) devono dichiarare di non trovarsi in una delle condizioni previste dall’art. 38, comma 1, del d.l.vo 163/2006.
In particolare, al punto 3d) è specificato che deve essere dichiarato da tutti i soggetti indicati dall’art. 38, comma 1, lett. b e c, (ossia per le società per azioni, da amministratori muniti di potere di rappresentanza e direttori tecnici) se risultano (o non risultano, alternativamente),per ciascuno dei componenti del raggruppamento, soggetti cessati dalla carica nel triennio antecedente la data di pubblicazione del bando.
In tale ipotesi, il capitolato prevede ulteriormente (in neretto) che per i soggetti cessati dalla carica “in caso di pronuncia di condanne penali di cui alla lett. b) l’impresa potrà essere ammessa a gara solo presentando a corredo della dichiarazione la documentazione idonea e sufficiente a dimostrare di aver adottato atti e misure di completa dissociazione dalla condotta penalmente sanzionata.”.
Ritiene il Collegio, pertanto, che sia evidente come la lex di gara abbia previsto, pena l’esclusione, l’obbligo di rendere la dichiarazione ex art. 38 cit. per gli amministratori con potere di rappresentanza cessati dalla carica nel triennio (tra questi, va incluso anche il Vice Presidente del Consiglio di Amministrazione, in quanto soggetto titolare, a norma di statuto, degli stessi poteri di amministrazione e di rappresentanza spettanti al Presidente in caso di assenza o di impedimento dello stesso – cfr. Consiglio di Stato sez. V, 08.11.2012, n. 5693).
La lex di gara, tuttavia, non ha previsto espressamente il medesimo obbligo a carico degli amministratori di società fuse per incorporazione; essi, però, ad avviso del Collegio, debbono ritenersi inclusi tra gli “amministratori cessati nel triennio” considerato il profilo della sostanziale continuità del soggetto imprenditoriale risultante dalla fusione societaria a cui si riferiscono, sicché l’amministratore cessato dalla carica appartenente alla società incorporata è identificabile come interno al concorrente.
Come evidenzia la stessa Adunanza Plenaria n. 21/2012, difatti, nelle ipotesi di fusione o di incorporazione di società, ancorché venute in essere antecedentemente all'avvio della gara, si realizza, anche se non la fattispecie di successione a titolo universale, “l'integrazione reciproca delle società partecipanti all'operazione, ossia una vicenda meramente evolutiva del medesimo soggetto, che conserva la propria identità pur in un nuovo assetto organizzativo (Cass. civ. sez. un., 08.02.2006, n. 2637).” Ritenuta la continuità nel nuovo soggetto, perdura, per le società che proseguono sotto la nuova identità della società incorporante l'onere di rendere la dichiarazione relativa ai propri amministratori cessati.
In altri termini, la società incorporante o risultante dalla fusione, non è un soggetto "altro" e "diverso", ma semmai un soggetto composito in cui proseguono la loro esistenza le società partecipanti all'operazione di incorporazione e, per l'effetto, non si possono considerare "altrui" gli amministratori che sono amministratori di un soggetto che è parte del tutto e che conserva la sua identità originaria sotto una diversa forma giuridica.
Diversamente opinando, le operazioni di fusione tra società finirebbero per prestarsi alla elusione dello scopo perseguito con la preclusione di cui all’art. 38 cit., da individuarsi sicuramente in quello di impedire anche solo la possibilità di inquinamento dei pubblici appalti, derivante dalla partecipazione alle relative procedure di soggetti di cui sia accertata la non affidabilità sul piano morale e professionale (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 08.03.2013 n. 1411 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICICostituisce buona regola che nel progetto dell'opera pubblica, recante la dichiarazione di pubblica utilità, l'espropriante è tenuto a redigere il piano particellare degli immobili da espropriare, operandone la distinzione con tutti quelli che nel prosieguo della realizzazione dell'opera potranno risultare necessari per la corretta esecuzione dei lavori previsti, e perciò costituire oggetto di occupazione temporanea ex art. 49 d.P.R. n. 327 del 2001.
In ordine alla questione della occupazione temporanea dei beni ai sensi dell’art. 49 T.U. espropri, va osservato quanto segue.
La sezione, già in sede cautelare, ha osservato come gli immobili di titolarità della ricorrente originaria fossero ricompresi nel piano particellare di esproprio e ciò costituiva sufficiente ragione per ritenere legittimo e corretto il procedimento di occupazione temporanea contestato.
L’art. 49 su citato prevede al primo comma che “L'autorità espropriante può disporre l'occupazione temporanea di aree non soggette al procedimento espropriativo anche individuate ai sensi dell'articolo 12, se ciò risulti necessario per la corretta esecuzione dei lavori previsti”. Per il comma 5 “Le disposizioni di cui ai precedenti commi si applicano, in quanto compatibili, nel caso di frane, alluvioni, rottura di argini e in ogni altro caso in cui si utilizzano beni altrui per urgenti ragioni di pubblica utilità”.
Si è affermato (e quindi costituisce buona regola) che nel progetto dell'opera pubblica recante la dichiarazione di pubblica utilità l'espropriante è tenuto a redigere il piano particellare degli immobili da espropriare, operandone la distinzione con tutti quelli che nel prosieguo della realizzazione dell'opera potranno risultare necessari per la corretta esecuzione dei lavori previsti, e perciò costituire oggetto di occupazione temporanea ex art. 49 d.P.R. n. 327 del 2001 (così Cassazione civile sez. un., 06.05.2009, n. 10362).
Nella specie, risulta incontestato che i terreni oggetto della occupazione temporanea, di titolarità della ricorrente originaria, fossero ricompresi nel piano particellare, ricompreso a sua volta nell’approvazione del progetto definitivo.
Ad opinione di questo Giudicante non rileva in alcun modo, in tale sede, che vi fosse stata o meno l’approvazione del progetto esecutivo.
La parte appellata si duole del difetto di motivazione, che invero deve ritenersi soddisfatto dalle evidenziate esigenze di cantierizzazione dell’area, come desumibile per relationem rispetto alla motivazione del progetto definitivo approvato.
La problematica della occupazione temporanea è stata in qualche modo risolta dalla nuova normativa del testo unico.
In precedenza, dalle leggi precedenti (art. 65, l. fond.) si desumeva che il potere di occupazione temporanea, per esempio a fini di cantiere, potesse ritenersi svincolato dalla previa valutazione e dichiarazione di pubblica utilità, con un procedimento indipendente e deformalizzato corrispondente a quello del decreto di esproprio.
Le opere pubbliche debbono essere oggetto di una previa e distinta dichiarazione di pubblica utilità, recante un giudizio sulla loro ottimale localizzazione e soggetta ai principi di imparzialità e proporzionalità dell'azione amministrativa, oltre che alle garanzie pubblicitarie e partecipative in favore dei privati; l’ideale è che tale valutazione sia estesa per le occupazioni temporanee di aree strumentali alla realizzazione dell'opera pubblica, legate alla stessa da un vincolo di accessorietà.
Si è osservato come in molti casi (si pensi a reti infrastrutturali, strade, ferrovie, linee elettriche e di distribuzione del gas) le aree da espropriare possano essere di entità comparativamente assai ridotta rispetto a quelle da sottoporre ad occupazione per cantieri, asservimenti temporanei od opere provvisionali, che rappresentano la vera e più importante interferenza con la proprietà privata.
Il testo unico afferma all’art. 49 che le aree da occupare temporaneamente possono "anche" essere individuate nel progetto dichiarativo della pubblica utilità.
Anche se per l’art. 33, comma 1, d.p.r. n. 554/1999, sui requisiti dei progetti di opere pubbliche, il piano particellare deve censire solo le aree da espropriare o asservire è buona regola, pienamente osservata nella specie, che già nel progetto approvato siano individuate le aree di cantiere e le ragioni della occupazione, anche per relationem.
D’altronde, l’occupazione di cui alla ordinanza impugnata evidenzia in modo dettagliato i provvedimenti a suo fondamento e cioè:
1) la deliberazione CIPE di approvazione del progetto definitivo;
2) il progetto definitivo approvato e pubblicato, che comporta dichiarazione di pubblica utilità e contiene il piano particellare degli espropri (in cui sono indicate tutte le zone da espropriare e da occupare e i soggetti proprietari, come le aree di proprietà della Cascina Pagnana);
3) l’istanza di occupazione temporanea presentata dal Consorzio TEEM.
E’ vero in giurisprudenza si è anche affermato che le occupazioni temporanee sono svincolate dal procedimento di dichiarazione di pubblica utilità (per esempio, in tal senso TAR Puglia, Bari, Sez. III, 17.12.2008 n. 2891, secondo cui "Il piano particellare da allegare al progetto definitivo dell'opera pubblica, ai sensi dell'art. 16 d.p.r. n. 327 del 2001 e dell'art. 13 dell'Allegato al d.lgs. n. 163 del 2006, deve indicare i terreni di cui si prevede l'espropriazione o l'asservimento, non anche le aree da sottoporre ad occupazione temporanea ai sensi dell'art. 49 del d.p.r. n. 327 del 2001"); nel precedente su richiamato (Cassazione sez. un., 06.05.2009, n. 10362) la Suprema Corte, dopo aver ricordato la imprescindibile necessità della dichiarazione di pubblica utilità, quale fase preliminare e distinta dal potere coattivo di spossessamento di cui è anzi presupposto fondante, ribadisce che tale fase di ponderazione del pubblico interesse deve riguardare –e questo è proprio l’ideale modo di procedere, rispettato nella fattispecie- non solo le aree coinvolte a fini espropriativi, ma anche quelle interessate da un vincolo di occupazione temporanea "ai sensi dell'art. 49" del testo unico.
Il progetto definitivo deve dunque farsi carico di identificarle motivatamente al pari delle prime, a pena di illegittimità.
Il significato dell'art. 49 del testo unico, disegnato dalle Sezioni Unite, è dunque quello di un istituto necessariamente connesso all'opera pubblica (e quindi al progetto definitivo) a cui è strumentale. La previsione secondo cui le aree da occupare sono "anche" indicate nella d.p.u., non può insomma significare che l'amministrazione ha il potere di occupare aree non previste nel progetto; essa va invece interpretata, in modo conforme a Costituzione, nel senso che, ogni qualvolta l'occupazione sia funzionalmente connessa ad un'opera pubblica, la decisione di ricorrervi dovrà, secondo buona amministrazione, necessariamente essere assunta a monte, nel progetto dichiarativo della pubblica utilità, nel quale dovranno anche essere identificate le aree da occupare ed è ciò che è avvenuto nella specie.
Pertanto, che la scelta di provvedere alla occupazione temporanea sia assunta in occasione della approvazione del progetto definitivo, comprensivo della dichiarazione di pubblica utilità, piuttosto che in occasione del progetto esecutivo -a differenza di quanto ha ritenuto il primo giudice, che ha tratto argomentazione sulla illegittimità dell’operato amministrativo, basandosi sul fatto che il progetto esecutivo non era ancora stato approvato- è situazione fisiologica e anche corretta per l’operato dell’amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.02.2013 n. 1184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAl fine di verificare se una determinata opera abbia carattere precario (condizione per l'accertamento della non necessarietà del rilascio della relativa concessione edilizia), occorre verificare la destinazione funzionale e l'interesse finale al cui soddisfacimento l'opera stessa è destinata.
Pertanto, solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una esigenza oggettivamente temporanea -destinata a cessare dopo il tempo, normalmente non lungo, entro cui si realizza l'interesse finale- possono ritenersi prive di minima entità ovvero di carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti la concessione edilizia.
Di conseguenza non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante.

Viene impugnata l’ordinanza 03.02.2011 n. 1/III che dispone la rimozione/demolizione delle seguenti opere realizzate senza titolo e non destinate a soddisfare esigenze meramente temporanee:
- casa mobile (su ruote) di dimensioni ml. 8,68 x 3,78 e h. alla gronda ml. 2,86;
- box prefabbricato in lamiera di dimensioni ml. 6,00 x 2,70 e h. al colmo ml. 2,35.
Avverso detto provvedimento viene dedotta violazione dell’art. 10 del DPR n. 380/2001 nonché eccesso per travisamento dei fatti. Secondo il ricorrente si tratterebbe di opere temporanee realizzate in attesa di completare i lavori di recupero dell’edificio esistente. In un secondo momento la “casa mobile” sarà poi utilizzata come residenza secondaria da trasferire nelle varie località turistiche di villeggiatura.
Il Collegio, ad un più approfondito esame della vicenda proprio dell’odierna fase di merito, ritiene di non poter confermare l’orientamento espresso in sede cautelare relativamente al fumus boni iuris.
Al riguardo si oppongono le seguenti circostanze:
- agli atti non risulta alcuna richiesta di permesso di costruire per il recupero dell’edificio esistente, ma solo un’istanza preventiva presentata in data 11.06.2009 e riscontrata positivamente dal Comune con nota del 17.07.2009 recante l’espresso avvertimento che la stessa non costituisce titolo per l’inizio dell’attività edilizia;
- ad oggi non è ancora dato comprendere se il permesso di costruire sia stato poi chiesto e rilasciato;
- alla data del sopralluogo (30.09.2010) veniva accertato che non vi erano lavori in corso e che la “casa mobile” risultava tutt’altro che semplicemente parcheggiata in attesa di utilizzo (come potrebbe essere una normale roulotte in rimessaggio), poiché dotata di allacciamento idrico ed elettrico (con tanto di contatori), impianto di condizionamento dell’aria e impianto televisivo con antenna satellitare. L’interno risultava completamente arredato e pronto per l’uso abitativo.
Come è noto, al fine di verificare se una determinata opera abbia carattere precario (condizione per l'accertamento della non necessarietà del rilascio della relativa concessione edilizia), occorre verificare la destinazione funzionale e l'interesse finale al cui soddisfacimento l'opera stessa è destinata; pertanto, solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una esigenza oggettivamente temporanea -destinata a cessare dopo il tempo, normalmente non lungo, entro cui si realizza l'interesse finale- possono ritenersi prive di minima entità ovvero di carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti la concessione edilizia. Di conseguenza non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 12.09.2012 n. 4850; Sez. VI, 16.02.2011 n. 986; Sez. IV, 15.05.2009 n. 3029).
Nel caso in esame non emergono quindi elementi per affermare che la “casa mobile” fosse destinata ad assolvere esigenze meramente temporanee di breve durata ma, al contrario, emergono elementi per supporre che fosse preordinata a soddisfare esigenze prolungate e a scadenza del tutto incerta.
Tale conclusione riguarda indubbiamente anche la seconda costruzione (box prefabbricato in lamiera), priva di ogni riferimento temporale che possa dimostrarne la natura precaria nei termini anzidetti.
Il ricorso va quindi respinto (TAR Marche, sentenza 11.02.103 n. 136 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa Corte di Cassazione da tempo afferma che nella categoria degli interventi di restauro o di risanamento conservativo, per i quali non occorre il permesso di costruire, possono essere annoverate soltanto le opere di recupero abitativo le quali conservano le preesistenti strutture, provvedendo a consolidarle ovvero a rinnovarne gli elementi costitutivi anche attraverso l'inserimento di aspetti nuovi, sempreché siano complessivamente rispettate tipologia, forma e struttura dell'edificio.
Per questo, la demolizione o il crollo totale, ancorché imputabili non ai lavori ma alla vetustà del fabbricato, consentono la ricostruzione del manufatto a condizione che l’autorità amministrativa possa verificare nuovamente, in presenza dei fatti sopravvenuti, il rispetto della normativa urbanistica vigente al momento del rilascio del provvedimento abilitativo.
Anche la giurisprudenza amministrativa ha chiarito di recente che, allorché nel corso di un intervento autorizzato di manutenzione, un edificio venga demolito o crolli per cause naturali, l’originario titolo autorizzatorio perde efficacia e, per il nuovo intervento ricostruttivo, occorre il rilascio del permesso di costruire.

Infondato è il secondo motivo con il quale i ricorrenti si dolgono della circostanza secondo cui l’amministrazione comunale avrebbe attribuito agli interventi in questione una nuova qualificazione giuridica.
La censura non è condivisibile. Già al momento dell’accertamento degli abusi, l’amministrazione comunale aveva chiaramente posto in evidenza che gli interventi riscontrati erano riconducibili alla categoria della ristrutturazione edilizia, stante la demolizione integrale e la ricostruzione del preesistente; circostanza questa riconosciuta dagli stessi interessati, come emerge dall’istanza da loro presentata per la sanatoria edilizia, ai sensi dell’art. 36 d.p.r. 380/2001.
D’altronde, la Corte di Cassazione da tempo afferma che nella categoria degli interventi di restauro o di risanamento conservativo, per i quali non occorre il permesso di costruire, possono essere annoverate soltanto le opere di recupero abitativo le quali conservano le preesistenti strutture, provvedendo a consolidarle ovvero a rinnovarne gli elementi costitutivi anche attraverso l'inserimento di aspetti nuovi, sempreché siano complessivamente rispettate tipologia, forma e struttura dell'edificio. Per questo, la demolizione o il crollo totale, ancorché imputabili non ai lavori ma alla vetustà del fabbricato, consentono la ricostruzione del manufatto a condizione che l’autorità amministrativa possa verificare nuovamente, in presenza dei fatti sopravvenuti, il rispetto della normativa urbanistica vigente al momento del rilascio del provvedimento abilitativo (Cassazione penale, sez. III, 13.10.1997, n. 10392).
Anche la giurisprudenza amministrativa ha chiarito di recente che, allorché nel corso di un intervento autorizzato di manutenzione, un edificio venga demolito o crolli per cause naturali, l’originario titolo autorizzatorio perde efficacia e, per il nuovo intervento ricostruttivo, occorre il rilascio del permesso di costruire (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 01.04.2011, n. 2020 che conferma Tar Lombardia, Milano, sez. II, n. 433 del 1998) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 21.01.2013 n. 161 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAGli abusi in materia di distanze non sono condonabili.
In particolare, si è statuito che:
- l’amministrazione, nel concedere il titolo abilitativo in sanatoria, può e deve considerare i limiti (per così dire, interni) rivenienti dall’esistenza di diritti soggettivi dei terzi alla distanza legale;
- per sostenere che, all’esito di siffatta verifica, l’amministrazione comunale debba negare il condono richiestole, occorre inferire che la norma attributiva di potere di sanatoria, lungi dall’essere indifferente ai diritti dei terzi, vieti di rilasciare un titolo edilizio in contrasto con questi ultimi; la tesi opposta –che predica l’estraneità dei diritti dei terzi alla norma attributiva del potere di sanatoria– vincolerebbe il comune al rilascio del titolo edilizio pur nella consapevolezza che la realizzazione del manufatto legittimato integra un illecito civile (per violazione delle distanze); ma, in un sistema di responsabilità civile che ha ormai riconosciuto la possibilità di convenire in giudizio l’amministrazione finanche per i danni cagionati dall’omessa vigilanza, la condotta del comune che abbia consapevolmente agevolato la lesione del diritto di proprietà di un terzo, sanando l’edificazione del manufatto, è suscettibile di essere considerata fonte di danni in quanto concausa dell’illecito civile; cosicché l’amministrazione, da un lato, sarebbe obbligata dalla norma attributiva del potere al rilascio del titolo abilitativo e, d’altro lato, rischierebbe di dover rispondere di tale comportamento a titolo di responsabilità civile; di qui la ritenuta esclusione –da parte della giurisprudenza– della condonabilità di opere abusive eseguite in violazione delle distanze legali, trattandosi di ipotesi esulante dalla norma attributiva del potere di sanatoria;
- la condonabilità delle opere lesive delle distanze dai confini e dagli edifici limitrofi, va, vieppiù, esclusa, anche, e soprattutto, perché la disciplina urbanistica locale in materia di distanze non è derogabile, essendo diretta non già alla tutela di interessi privati, bensì alla tutela di interessi generali e pubblici in materia urbanistica, nonché ad evitare la creazione di intercapedini antigieniche e pericolose.

Innanzitutto, è incontroverso che le opere condonate siano state realizzate in violazione delle distanze minime che il p.d.f. e il p.r.g. del Comune di Succivo impongono siano rispettate tra gli edifici, nonché tra questi ultimi e i confini.
Ebbene, a fronte di una simile fattispecie, il Collegio ritiene di non doversi discostare dall’orientamento già invalso presso la Sezione, secondo cui gli abusi in materia di distanze non sono condonabili (cfr. TAR Campania, Napoli, Sezione VIII, 14.03.2011, n. 1458; 06.11.2012, n. 4410).
In particolare, si è statuito che:
- l’amministrazione, nel concedere il titolo abilitativo in sanatoria, può e deve considerare i limiti (per così dire, interni) rivenienti dall’esistenza di diritti soggettivi dei terzi alla distanza legale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.12.2006 n. 8262);
- per sostenere che, all’esito di siffatta verifica, l’amministrazione comunale debba negare il condono richiestole, occorre inferire che la norma attributiva di potere di sanatoria, lungi dall’essere indifferente ai diritti dei terzi, vieti di rilasciare un titolo edilizio in contrasto con questi ultimi; la tesi opposta –che predica l’estraneità dei diritti dei terzi alla norma attributiva del potere di sanatoria– vincolerebbe il comune al rilascio del titolo edilizio pur nella consapevolezza che la realizzazione del manufatto legittimato integra un illecito civile (per violazione delle distanze); ma, in un sistema di responsabilità civile che ha ormai riconosciuto la possibilità di convenire in giudizio l’amministrazione finanche per i danni cagionati dall’omessa vigilanza, la condotta del comune che abbia consapevolmente agevolato la lesione del diritto di proprietà di un terzo, sanando l’edificazione del manufatto, è suscettibile di essere considerata fonte di danni in quanto concausa dell’illecito civile; cosicché l’amministrazione, da un lato, sarebbe obbligata dalla norma attributiva del potere al rilascio del titolo abilitativo e, d’altro lato, rischierebbe di dover rispondere di tale comportamento a titolo di responsabilità civile; di qui la ritenuta esclusione –da parte della giurisprudenza– della condonabilità di opere abusive eseguite in violazione delle distanze legali, trattandosi di ipotesi esulante dalla norma attributiva del potere di sanatoria (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 02.11.2010, n. 4524);
- la condonabilità delle opere lesive delle distanze dai confini e dagli edifici limitrofi, va, vieppiù, esclusa, anche, e soprattutto, perché la disciplina urbanistica locale in materia di distanze non è derogabile, essendo diretta non già alla tutela di interessi privati, bensì alla tutela di interessi generali e pubblici in materia urbanistica, nonché ad evitare la creazione di intercapedini antigieniche e pericolose (TAR Campania, Napoli, Sezione VIII, 14.03.2011, n. 1458) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 17.01.2013 n. 369 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 17.06.2013

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BRUCIARE RIFIUTI ALL'ARIA APERTA E' REATO!!
E si badi bene che per "rifiuti" si intendono anche, per esempio, la paglia, gli sfalci, le potature del proprio orto e/o campo ...

     Non c'è comune, piccolo o grande che sia, non interessato dallo sbarbatello piromane, dal lavoratore (improvvisato) contadino nel weekend, dal pensionato agreste (e non solo) che si dilettano a bruciare, ad ogni ora del giorno, sterpaglie, erba sfalciata, potature varie per tener ben pulito il proprio orto e/o campo dove coltivare i (costosi) ortaggi e frutti che, sempre più gente, non può permettersi il lusso di comprarli in negozio.
     Se fosse solo materiale vegetale a bruciare si potrebbe anche chiudere un okkio (si fa per dire ...), ma spesso e volentieri insieme a tale materiale si brucia di tutto e di più: plastica (liberandosi nell'aria la diossina), carta/cartone, ecc. ... insomma, veri e propri rifiuti di ogni genere. Invero, già a marzo/aprile 2011 davamo notizia di una nota ministeriale che già, in un certo qual modo, ci faceva capire come fosse non conforme alla legge tale comportamento, la cui nota (commentata) è di seguito riproposta.

AMBIENTE-ECOLOGIA: SFALCI E POTATURE: RIFIUTI O NON RIFIUTI?
Con la nota 18.03.2011 prot. n. 8890, il Ministero dell'Ambiente tenta di risolvere l'enigma interpretativo della disposizione, introdotta con il IV correttivo, di cui all'art. 185, co. 2, D.Lgs. 152/2006, norma dedicata alle esclusioni dall'ambito di applicazione della Parte IV del TUA.
Il punto controverso e sul quale interviene il Ministero è costituito dalla (infelice) formulazione contenuta nella lettera f) dell'articolo predetto, secondo cui sono esclusi: "le materie fecali, se non contemplate dal paragrafo 2, lettera b), paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati."
Il Ministero, riportando la norma sulla classificazione dei rifiuti (art. 184, co. 2, lett. e) ricorda come i rifiuti vegetali provenienti da aree verdi quali giardini, parchi e aree cimiteriali, sono (per l'appunto) rifiuti urbani. Così che, al contrario, sfalci e potature per poter essere escluse dalla normativa sui rifiuti devono necessariamente provenire da attività agricola o forestale.
Tertium non datur.
Provando a leggere la norma e analizzandola da un punto di vista meramente sintattico, sembrerebbe che la congiunzione "nonché" metta sì in correlazione, quasi come fosse un'elencazione, "paglia, sfalci e potature" con "altro materiale agricolo o forestale naturale", ma non anche qualifichi la prima parte (paglia, sfalci e potature) come materiale agricolo o forestale naturale o, secondo le parole utilizzate dal Ministero, come "materiali che provengono da attività agricola o forestale". Sembrerebbe quasi, dunque, quella fornita dal Ministero, un'interpretazione che si discosta dal dato letterale della norma e che probabilmente tiene conto della ratio sottesa alla stessa. A ben guardare gli "sfalci e le potature" non sono contemplate dalla Direttiva 2008/98/Ce nell'articolo 2. Esso parla di: "paglia e altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati".
É stato il Legislatore nazionale a trasporre la vecchia disposizione di cui all'art. 185, co. 2 ("possono essere sottoprodotti materie fecali e vegetali provenienti da attività agricole") nel nuovo testo, utilizzando tuttavia una formula che certo non può dirsi spiccare per chiarezza. Ora, la nota ministeriale in oggetto, nell'intento di fornire un'interpretazione che tolga qualche ombra, sembrerebbe restare intrappolata nella stessa ratio che ha portato a quella formulazione, con un evidente risultato difforme dal testo normativo e che comunque non ha carattere vincolante, trattandosi di una nota ministeriale.
Si segnala inoltre che "gli sfalci e le potature provenienti dal verde pubblico e privato" ritornano in altro testo normativo, il D.Lgs. 03.03.2011, n. 28 sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili, dove, nuovamente discostandosi dalla corrispondente Direttiva che si recepiva, entrano a far parte della definizione di biomasse, accanto "alla parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani" (quest'ultima contenuta anche nel testo della Direttiva 2009/28/Ce). (M.A.L.) (commento tratto dalla newsletter di www.tuttoambiente.it).

     Ora, se la nota ministeriale ha ingenerato alcuni dubbi nel commentatore, recentemente è stata pubblicata una sentenza della Cassazione penale che non lascia scampo: bruciare rifiuti all'aria aperta è reato!! Di seguito la sentenza.

AMBIENTE-ECOLOGIA: A norma dell'art. 183, co. 1, lett. g), D.L.vo 152/2006 per "smaltimento" deve intendersi "ogni operazione finalizzata a sottrarre definitivamente una sostanza, un materiale o un oggetto dal circuito economico e/o di raccolta e, in particolare, le operazioni previste nell'allegato B alla parte quarta del presente decreto" (e tale allegato alla lett. D10 fa espresso riferimento all'attività di "Incenerimento a terra").
Quindi, bruciare a terra rifiuti è attività illecita di smaltimento degli stessi e per rifiuti sono da intendere anche, per esempio, la paglia, gli sfalci, le potature.

L'art. 256 coi D.L.vo 152/2006 sanziona chiunque effettua un'attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione; il medesimo articolo 256 al comma 2 stabilisce, poi, che le pene di cui ai comma 1 si applicano al titolari di imprese ed ai responsabili di enti che abbandonano o depositano in modo incontrollato i rifiuti ovvero li immettono nelle acque superficiali o sotterranee in violazione del divieto di cui all'art. 192, commi 1 e 2.
I destinatari della norma di cui al comma 2 sopra richiamata sono, quindi, esclusivamente i "titolari di impresa" ed i "responsabili di enti", come è confermato dall'art. 255 D.L.vo cit. che prevede soltanto una sanzione amministrativa per chiunque abbandoni o depositi rifiuti, facendo però "salvo quanto disposto dall'art. 256, co. 2.".
La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente ribadito che il reato di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti di cui all'art. 256, comma secondo, del D.L.vo n. 152 del 2006 ha natura di reato proprio, richiedendo, quale elemento costitutivo, la qualità dì titolare di impresa o di responsabile di ente in capo all'autore della violazione (cfr. Cass. pen. Sez. 3 n. 5042 del 17.10.2012, secondo cui non era configurabile detto reato, bensì l'illecito amministrativo di cui all'art. 255, comma primo, nella condotta del proprietario di un autoveicolo di abbandono dello stesso in un parcheggio pubblico; conf. Cass. Sez. 3 n. 33766 del 10.05.2007).
Nel caso di specie, invece, era ipotizzato a carico dell'indagato l'ipotesi di cui al co. 1 del D.L.vo per aver posto in essere un'attività di smaltimento illecito di rifiuti.
E tale condotta, secondo quanto disposto dalla norma che fa riferimento a "chiunque", integra un'ipotesi di reato comune che può essere commessa anche da soggetti non titolari di impresa (dr. ex multis Cass. pen. sez. 3 n. 7462 del 15.01.2008; sez. 3 n. 24431 del 25.05.2011).
Come ha correttamente rilevato il ricorrente P.M., a norma dell'art. 183, co. 1, lett. g), D.L.vo 152/2006 per "smaltimento" deve intendersi "ogni operazione finalizzata a sottrarre definitivamente una sostanza, un materiale o un oggetto dal circuito economico e/o di raccolta e, in particolare, le operazioni previste nell'allegato B alla parte quarta del presente decreto" (e tale allegato alla lett. D10 fa espresso riferimento all'attività di "Incenerimento a terra") (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.04.2013 n. 15641).

     Se ciò non bastasse a convincere i refrattari (del caso) che la fattispecie di che trattasi ha anche risvolti penali, il Comando del Corpo Forestale della Regione Sicilia ha detto la propria (in tempi non sospetti) in conformità ai su indicati principi. Di seguito la nota regionale.

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Art. 185 del D.Lgs. 03.04.2006 n. 152, così come modificato dall'art. 13 del D.Lgs. 03.12.2010 n. 205 - Comunicazioni (Regione Sicilia, Assessorato Territorio e Ambiente, Comando del Corpo Forestale della Regione Siciliana, Servizio Ispettorato Rip.le delle Foreste di Messina, nota 18.06.2011 n. 7570 di prot.).

     Non siete ancora convinti?? Allora, si legga pure la risposta ad uno specifico quesito pubblicato sul sito del Corpo Forestale dello Stato di seguito riproposto.

AMBIENTE-ECOLOGIA: E' possibile effettuare l'abbruciamento in campo di residui vegetali derivanti da lavorazione agricola e forestale?
Una pratica particolarmente diffusa in campo agricolo, a seguito delle recenti modiche introdotte dall'art. 13 del D.Lgs. 205/2010, (che ha modificato l'art. 185 del D.Lgs. 152/2006), non può essere più realizzata. Infatti, la norma ha stabilito che "paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericolosi", se non utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia mediante processi o metodi che non danneggiano l′ambiente o mettono in pericolo la salute umana devono essere considerati rifiuti e come tali devono essere trattati.
La combustione sul campo dei residui vegetali derivanti da lavorazione agricola e forestale si configura, quindi, come illecito smaltimento di rifiuti, sanzionabile penalmente oltre che amministrativamente, ai sensi dell'art. 256 del D.Lgs. 152/2006.
Si riporta per maggior completezza il testo del sopra menzionato articolo (attività di gestione di rifiuti non autorizzata):
"Chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 e' punito:
a) con la pena dell'arresto da tre mesi a un anno o con l'ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti non pericolosi;
b) con la pena dell'arresto da sei mesi a due anni e con l'ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti pericolosi. [...]
".
Mentre in precedenza, quindi, i regolamenti dei fuochi controllati in agricoltura prevedevano il divieto di accendere fuochi solamente durante il periodo compreso tra il 15 giugno e 15 ottobre di ogni anno e, per i trasgressori stabilivano una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra € 51,00 ed € 258,00, adesso il divieto di bruciare sterpaglie, ramaglie e vegetazione secca in genere è valido sempre ed è diventato reato penale oltre a prevedere una sanzione amministrativa minima di € 2.600,00.
Le tre attuali possibilità consentite dalla legge per potere pulire i terreni e "smaltire i rifiuti" senza incorrere in sanzioni sono:
1 - Depositarli nei contenitori, se in piccole quantità;
2 - Conferirli nelle discariche pubbliche;
3 - Acquistare un trituratore degli scarti vegetali e spargerli poi sul terreno rendendoli così un composto organico concimante.
Le amministrazioni comunali sono tenute a mettere in atto, attraverso i vari canali a disposizione (incontri pubblici, manifesti, programmi radiofonici, siti telematici, etc.), un'opera di informazione sulle nuove disposizioni di legge e, soprattutto, a creare le isole ecologiche comunali dove conferire e raccogliere i residui vegetali per il successivo corretto e legale smaltimento (tratto da www3.corpoforestale.it).

MORALE ??

     E' meritoria l'attività di pensionati/volontari della "domenica" di tenere pulito orti e/o campi che, altrimenti, sarebbero abbandonati a sé stessi con gli inevitabili problemi di incuria, degrado in termini anche igienico-sanitari. Ma è altrettanto vero che si riesce ugualmente a raggiungere l'obiettivo senza dover bruciare all'aria aperta di tutto e di più, inquinando oltre misura questo nostro fragile pianeta Terra, sul baratro del non ritorno in termini di eco-sostenibilità e sopravvivenza per chi verrà dopo di noi ...
     Detto altrimenti, basta fare una buca più o meno grande (in funzione delle proprie esigenze) nel proprio orto/campo e buttarvi dentro tutto ciò che di vegetale ci si vuol disfare: il mucchio di materiale ivi allocato piano piano fermenta, si riduce notevolmente in termini di massa e si crea un più che ottimo concime naturale (e la cosa funziona davvero poiché sperimentata, da chi scrive, ormai da parecchi anni a questa parte ...).
     Quindi, cerchiamo di cambiare queste usanze "contadine" (nel senso più nobile del termine) di un tempo che fu perché, volenti o nolenti, oggi bisogna fare i conti con l'inesorabile progresso della civiltà (ammesso che ci sia "vero" progresso ...)
e se non facciamo una inversione di marcia di 180° stiamo andando, dritti dritti, verso l'autodistruzione ...
     E se il vicino di casa rombe le balle, il sabato sera o la domenica mattina, col fumo che entra in casa (adesso -più che mai- che abbiamo le finestre socchiuse per il caldo estivo) perché sta bruciando le foglie dell'orto non resta altro da fare che telefonare: alla POLIZIA LOCALE oppure al CORPO FORESTALE DELLO STATO oppure alla ASL di competenza territoriale oppure, in estrema ratio, ai CARABINIERI.

Parola d'ordine: SALVAGUARDARE IL PIANETA TERRA, iniziando dalle piccole cose ... perché qui siamo tutti solo di passaggio!!

17.06.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Problematiche che attengono sia alla corretta definizione ed estensione del parere contabile, sia in ordine alla variegata casistica di atti (rectius: di proposte di deliberazione) da sottoporre al suddetto parere di regolarità contabile.
Il Comune di Castelfidardo, con nota a firma del suo Sindaco, ha formulato una articolata richiesta di parere, ai sensi dell’art. 7, comma 8, l. 05.06.2003, n. 131, in ordine alla corretta interpretazione dell’art. 49, d.lgs. 18.08.2000, n. 267 recante il testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, come modificato dall’art. 3, comma 1, lett. b), d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito in l. 07.12.2012, n. 213.
Dopo avere riportato la disposizione previgente e quella risultante a seguito della novella legislativa, il Comune evidenzia “come la novella legislativa abbia apportato rilevanti novità in tema di parere (di regolarità) contabile, laddove si precisa che esso deve essere espresso, da parte del responsabile del servizio finanziario, qualora la proposta di deliberazione ‘comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente’.
Le problematiche che il Comune si pone attengono sia “alla corretta definizione ed estensione del parere contabile, sia in ordine alla variegata casistica di atti (rectius: di proposte di deliberazione) da sottoporre al suddetto parere di regolarità contabile.”
In ordine al primo aspetto, la richiesta di parere evidenzia le “difficoltà di esprimere un corretto e congruo parere di regolarità contabile su atti le cui decisioni si ripercuotono solo indirettamente e con cadenze differite nel tempo (in maniera quindi ampiamente posticipata rispetto al momento decisionale dell’organo di vertice) su aspetti economico-finanziari o patrimoniali dell’ente locale (non sempre esattamente determinati o determinabili nel momento iniziale)”.
In ordine al secondo aspetto, si citano invece le “deliberazioni di approvazione di strumenti urbanistici (attuativi) e relative varianti, ovvero i piani (rectius: convenzioni) di lottizzazione, ovvero il piano triennale di razionalizzazione delle dotazioni strumentali dell’ente, gli atti di indirizzo di programmazione della dotazione organica etc.” Si richiamano inoltre i “molteplici atti di indirizzo dell’organo politico le cui ripercussioni sono solo indirette (o mediate) perché rimesse all’attuazione dei funzionari mediante atti di gestione autonomi e successivi.”
Ricordata la complessità (e talvolta l’impossibilità) della esatta determinazione dei riflessi indiretti sulla situazione economico-finanziaria o patrimoniale dell’ente, si chiede “quale dovrebbe essere la corretta formulazione, dal punto di vista giuscontabile, delle proposte di deliberazione aventi i suddetti effetti indiretti, e quale la valutazione del responsabile del servizio finanziario in ordine al dovuto parere di regolarità contabile” e “quali aspetti e quali limiti il suddetto parere può (ovvero deve) incontrare nelle nuove fattispecie delineate dall’art. 49 del d.lgs. n. 267/2000.
In sintesi, il parere pone le seguenti puntuali questioni:
1) Cosa si intende (dal punto di vista giuscontabile) per ‘riflessi sulla situazione economico finanziaria e/o sul patrimonio dell’ente’;
2) cosa si intende (dal punto di vista giuscontabile) per ‘riflessi diretti’ e (soprattutto) per ‘riflessi indiretti’, e quale ne sia l’estensione (ovvero la più o meno ampia portata giuscontabile);
3) nel caso di riflessi indiretti, quali siano gli oneri (in termini di completezza ed ampiezza dell’istruttoria e di corretta e legittima motivazione dell’atto) del responsabile del servizio proponente (ovvero del relativo responsabile del procedimento) nella formulazione della proposta di deliberazione (di Giunta o di Consiglio comunale), e cioè come debba quantificare e qualificare tali riflessi economico-finanziari e patrimoniali;
4) nel caso di riflessi indiretti, come debba correttamente e legittimamente esprimersi (dal punto di vista giuscontabile) il responsabile del servizio finanziario nell’espressione del suo parere, e cioè quale contenuto e portata deve avere il giudizio di conformità (contabile) da formalizzare sulla proposta dell’atto;
5) nel caso di atto di indirizzo avente effetti economico-finanziari e/o patrimoniali indiretti (cioè di atto espresso dall’organo politico che ponga obiettivi da seguire, fini da attuare e modalità di azione ritenute congrue, demandate a successivi atti esecutivi di natura gestionali), come possa conciliarsi il dettato del nuovo articolo 49 del D.Lgs. n. 267/2000 sul ‘nuovo’ parere di regolarità contabile con la disposizione del medesimo articolo che esclude l’espressione dei pareri (tecnici e contabili) sugli atti di indirizzo
.”
...
Passando al merito, l’articolo 49 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 nella nuova formulazione dettata dall’art. 3, comma 1, lett. b), del d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito dalla l. 07.12.2012, n. 213, così dispone: “(Pareri dei responsabili dei servizi).
1. Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell’ente, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione.
2. Nel caso in cui l’ente non abbia i responsabili dei servizi, il parere è espresso dal segretario dell’ente, in relazione alle sue competenze.
3. I soggetti di cui al comma 1 rispondono in via amministrativa e contabile dei pareri espressi.
4. Ove la Giunta o il Consiglio non intendano conformarsi ai pareri di cui al presente articolo, devono darne adeguata motivazione nel testo della deliberazione
.”
Tale nuova formulazione sostituisce la precedente versione del citato articolo (in vigore fino al 07/12/2012) secondo cui: “(Pareri dei responsabili dei servizi)
1. Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla giunta ed al consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere in ordine alla sola regolarità tecnica del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti impegno di spesa o diminuzione di entrata, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione.
2. Nel caso in cui l’ente non abbia i responsabili dei servizi, il parere è espresso dal segretario dell’ente, in relazione alle sue competenze.
3. I soggetti di cui al comma 1 rispondono in via amministrativa e contabile dei pareri espressi
.”
L’art. 151, comma 5, TUEL rinvia al regolamento di contabilità per la disciplina delle modalità con le quali il parere di regolarità contabile deve essere reso (mentre per quanto attiene al parere di regolarità tecnica, ben può provvedere il regolamento di organizzazione degli uffici e dei servizi).
Quanto all’ambito applicativo della norma in esame, va ricordato che la richiesta di parere è obbligatoria solo in presenza di una proposta di deliberazione sottoposta al Consiglio o alla Giunta comunale che non sia “mero atto di indirizzo”.
Il giudice amministrativo, nel valutare la fondatezza di motivi di ricorso incentrati sulla violazione dell’art. 49 del TUEL, ha affermato che
nel concetto di “mero atto di indirizzo” rientrano le scelte di programmazione della futura attività, che “necessitano di ulteriori atti di attuazione e di recepimento” da adottarsi da parte dei dirigenti preposti ai vari servizi, secondo le proprie competenze (cfr. TAR Piemonte, sez. II, sent. 14.03.2013, n. 326).
D’altro canto, quale criterio discretivo, si è rilevato il “contenuto dispositivo puntualmente determinato che non lascia alcun margine valutativo al susseguente atto di esecuzione” (TAR Lombardia, sede di Milano, sez. III, sent. 10.12.2012, n. 2991 in fattispecie relativa a delibera consiliare di acquisizione sanante ex art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001).
In definitiva, “hanno natura di indirizzo gli atti che, senza condizionare direttamente la gestione di una concreta vicenda amministrativa, impartiscono agli organi all’uopo competenti le direttive necessarie per orientare l’esercizio delle funzioni ad essi attribuite in vista del raggiungimento di obiettivi predefiniti.” (così TAR Campania, Salerno, sez. II, sent. 12.04.2005, n. 531).
Il significato del concetto di “mero atto di indirizzo” viene altresì desunto dalle affermazioni giurisprudenziali in ordine ai profili processuali dell’interesse a ricorrere connessi alla lesività dell’atto. Anche per questi aspetti, si è sottolineato che
l’atto di indirizzo politico “potrebbe consistere, nel caso, nella manifestazione di una volontà tesa a porre obiettivi per l’attività di livello normativo spettante ad organi comunali” e che dirimente “è il rilievo che il contenuto dell’atto consiste nella pretesa e conclamata volontà di tutelare un interesse pubblico specifico con riferimento ad un caso concreto, con un’integrale corrispondenza alla tipologia dell’atto amministrativo provvedimentale (così Cons. Stato, sez. VI, dec. 10.10.2006, n. 6014).
Sotto questo profilo, la novella del 2012 non ha inciso. Il problema segnalato dalla richiesta di parere (e puntualizzato al n. 5 della elencazione finale) è quindi di mero fatto e va risolto applicando i principi dianzi ricordati alla concreta formulazione e portata della proposta di deliberazione.
La novità precettiva che l’art. 3, comma 1, lett. b), del d.l. n. 174 del 2012 ha apportato all’art. 49 del TUEL consiste essenzialmente nell’avere sostituito l’espressione “qualora comporti impegno di spesa o diminuzione di entrata” con “qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell’ente”.
Il significato da dare a tale scelta del legislatore è certamente quello di un ampliamento dei casi in cui è necessario il parere di regolarità contabile, con l’assegnazione al responsabile di ragioneria di un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di bilancio dell’ente. Tale interpretazione è rafforzata dall’introduzione del comma 4 che, ferma rimanendo la valenza non vincolante del parere (e non potrebbe essere altrimenti, pena l’esercizio sostanziale da parte della struttura burocratica di competenze attribuite ad organi diversi), ha significativamente previsto un onere di motivazione specifica del provvedimento approvato in difformità dal parere contrario reso dai responsabili dei servizi.
La predetta scelta del legislatore è, infine, coerente con l’ampliamento delle ipotesi di parere che l’organo di revisione deve rendere, unito alla previsione espressa del loro contenuto e dei criteri da seguire (cfr. art. 239, commi 1 e 1-bis, TUEL).
La nuova formulazione dell’art. 49 consente di ritenere che
nel concetto di “riflessi diretti” siano ricompresi certamente gli effetti finanziari già descritti nella disposizione previgente (“impegno di spesa o diminuzione di entrata”), ma anche le variazioni economico-patrimoniali conseguenti all’attuazione della deliberazione proposta (come già suggerito dal punto 65 del principio contabile n. 2).
Quanto all’espressione “riflessi indiretti”, non vi è dubbio che questa possa ingenerare problemi applicativi, sotto il profilo della estensione del rapporto “causa-effetto” astrattamente ipotizzabile tra il contenuto della proposta di deliberazione sottoposta a parere e la situazione economico-finanziaria o patrimoniale dell’ente.
Il criterio interpretativo deve pertanto essere incentrato sulla probabilità che certe conseguenze si verifichino nell’esercizio finanziario in corso o nel periodo considerato dal bilancio pluriennale. Ulteriore criterio utile a definire l’ambito di applicazione della norma è il vincolo del rispetto dell’equilibrio del bilancio, oggi costituzionalizzato nel novellato art. 119, comma 1, Cost.
(in vigore dal 2014).
Quanto alle modalità di espressione del parere, il Comune di Castelfidardo richiama la variegata casistica di deliberazioni che un ente locale può adottare, interrogandosi sul contenuto e la portata che i pareri di cui all’art. 49 TUEL debbono avere con riferimento ai riflessi indiretti. Appare difficile indicare un criterio uniforme, poiché il tema della quantificazione degli oneri o delle conseguenze economico-patrimoniali conseguenti all’esecuzione di un provvedimento amministrativo risente dell’applicazione della normativa di natura sostanziale disciplinante una determinata materia e, soprattutto, risente dell’ineliminabile scostamento tra la mera previsione e la realizzazione effettiva di un dato fenomeno incidente sugli equilibri di bilancio o patrimoniali.
Occorre comunque ricordare che
l’accuratezza dell’istruttoria tecnica costituisce un elemento da verificare e riscontrare ai fini del rilascio di parere positivo, sia di regolarità tecnica che di regolarità contabile. Infatti, il punto 65 del principio contabile n. 2 si esprime nel senso che il parere di regolarità contabile dovrà tener conto, in particolare, delle conseguenze rilevanti in termini di mantenimento nel tempo degli equilibri finanziari ed economico-patrimoniali. Si deve pertanto ritenere, anche alla luce dei rafforzati vincoli di salvaguardia degli equilibri di bilancio, che il responsabile del servizio interessato avrà l’onere di valutare gli aspetti sostanziali della deliberazione dai quali possano discendere effetti economico-patrimoniali per l’ente. Il responsabile di ragioneria, pur senza assumere una diretta responsabilità in ordine alla correttezza dei dati utilizzati per le predette valutazioni, dovrà verificare che il parere di regolarità tecnica si sia fatto carico di compiere un esame metologicamente accurato.
Sotto questo profilo, si segnala la portata delle modifiche che, con lo stesso d.l. n. 174 del 2012, sono state apportate all’art. 153, commi 4 e 6, TUEL volte a rafforzare il ruolo del responsabile del servizio finanziario. Ulteriori spunti ricostruttivi possono ricavarsi dal comma 1-bis dell’art. 239 TUEL, introdotto dal d.l. n. 174 del 2012, nella parte in cui richiama i concetti di congruità, coerenza e attendibilità delle previsioni di bilancio e dei programmi e progetti (almeno per alcune significative tipologie di provvedimenti che di regola producono riflessi indiretti, quali quelle di cui alla lett. b), nn. 3 e 5).
A fini di completezza, infine, è opportuno ricordare che
la formulazione del parere è necessaria non soltanto sulla proposta di deliberazione, ma anche sugli emendamenti che alla stessa vengano presentati nel corso dell’esame da parte dell’organo deliberante. Infatti, “se si accedesse alla tesi … per cui la presentazione di emendamenti esime dalla formulazione del parere, la portata precettiva del citato art. 53 (oggi art. 49 TUEL) sarebbe stata agevolmente aggirabile (e, dunque, vanificata), mediante il ricorso ad un diverso procedimento di formazione della decisione amministrativa. In realtà, se è vero che la presentazione dell’emendamento strutturalmente si colloca in una fase procedimentale di norma successiva alla conclusione dell’iter svolto dagli uffici, è altrettanto vero che … la proposta di deliberazione e l’emendamento sono, da un punto di vista funzionale, atti di iniziativa procedimentale del tutto identici, differenziandosi solo quanto alla provenienza, sicché sarebbe artificioso, e irragionevolmente discriminatorio, ritenere assoggettata all’obbligo del parere preventivo solo la prima e non anche il secondo.” (così TAR Sicilia, Palermo, sez. II, sent. 28.12.2007, n. 3507, para 3., confermata con motivazione conforme da Cons. Giust. Amm. Siciliana, sent. 04.02.2010, n. 105, para 1.1) (Corte dei Conti, Sez. controllo Marche, parere 05.06.2013 n. 51).

ATTI AMMINISTRATI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Indirizzi inerenti il riassetto del sistema dei controlli interni degli EE. LL. conseguenti all'art. 3, comma 2, del D.L. n. 174/2012 e relativa legge di conversione (Corte dei Conti, Sez. controllo Lazio, deliberazione 06.03.2013 n. 25).
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L’art. 3, comma 2, del d.l. n. 174/2012, nel contesto della disciplina di riordino e riassetto del sistema dei controlli interni presso gli Enti Locali prevede l’adozione di norme regolamentari da parte dei Consigli comunali atte a definire “gli strumenti e le modalità” di tale sistema, da adottare entro il termine di mesi tre dalla data di entrata in vigore della norma, “dandone comunicazione al Prefetto ed alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti”.
Venuto a scadenza in data 10 gennaio u.s. il predetto termine, appare opportuno definire le linee operative con le quali la Sezione procederà a vigilare sull’osservanza dell’adempimento di cui trattasi, nonché a curarne il seguito. (... CONTINUA).

UTILITA'

CONDOMINIO18.06.2013: inizia il conto alla rovescia per la riforma del condominio! Per i lettori di BibLus-net lo Speciale con tutte le novità.
E’ ufficialmente partito il conto alla rovescia per l’entrata in vigore della riforma del condominio.
La riforma (Legge 220/2012) attesa da oltre 70 anni entra in vigore il prossimo 18 giugno.
Tante sono le novità introdotte, tra cui nuovi requisiti e obblighi per l’amministratore, ridefinizione dei quorum per le assemblee, obbligo del conto corrente, decreto ingiuntivo per condomini morosi, apertura del sito internet condominiale.
Dal 18 giugno, dunque, cambiano le regole!
Allo scopo di fornire ai lettori una guida con le novità contenute nella legge 220/2012, la redazione di BibLus-net ha realizzato uno speciale interamente dedicato alla Riforma del Condominio.
Il documento allegato a questo articolo propone un’ampia e agile sintesi della Riforma ed è divisa in quattro sezioni:
L’amministratore
i requisiti, la nomina e la revoca, la polizza assicurativa, il sito web, il conto corrente condominiale, la tenuta dei registri, la riscossione forzosa dei crediti
Le parti comuni
la modifica della destinazione d’uso, l’installazione di antenne e pannelli solari, il distacco dall’impianto centralizzato, le innovazioni agevolate, la videosorveglianza
Il regolamento e l’assemblea
i quorum, le sanzioni, gli animali domestici, la delega, la convocazione
Il bilancio, le tabelle e le spese
il rendiconto annuale e il registro di contabilità, la revisione delle tabelle, il recupero dei crediti, la solidarietà passiva
Sono presenti, inoltre, 4 utilissime Appendici che contengono:
◾ Tavola sinottica degli adempimenti dell’amministratore
◾ Tabella delle nuove maggioranze assembleari
◾ Tavole sinottiche delle modifiche normative
◾ Tutta la disciplina del condominio dopo la riforma (13.06.2013 - link a www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 12.06.2013, "Criteri e modalità per l’anno 2013 per l’erogazione dei contributi agli enti locali ed agli enti gestori delle aree regionali protette per l’esercizio delle funzioni paesaggistiche loro attribuite (art. 79, l.r. 12/2005)" (decreto D.S. 06.06.2013 n. 4841).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 10.06.2013, "Quarto aggiornamento 2013 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r 12/2005, art. 80)" (deliberazione D.G. 06.06.2013 n. 4842).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 10.06.2013, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 31.05.2013, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 03.06.2013 n. 69).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: F. Venturi, Limiti alla potestà regolamentare comunale in tema di inquinamento elettromagnetico (04.06.2013 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: S. Pollastrini e L. Ruggeri, La concessione in sanatoria e gli orientamenti della giurisprudenza (Il Tecnico Legale n. 6/2013).

EDILIZIA PRIVATA: G. V. Tortorici, I vizi di costruzione (Il Tecnico Legale n. 6/2013).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ L'assessore non decade. È revocabile se viene meno il legame fiduciario. La protratta assenza dalla giunta può essere valutata dal sindaco.
Qual è l'applicabilità, nell'ambito del vigente ordinamento, dell'art. 289 del rd n. 148 del 1915 che prevede l'istituto della decadenza dalla carica di assessore per ingiustificata assenza a tre sedute consecutive della giunta comunale?

Il legislatore statale prevede l'ipotesi della decadenza per mancata partecipazione alle sedute con esclusivo riferimento alla carica di consigliere all'art. 43, ultimo comma, del Tuel n. 267/2000; tale norma va letta in combinato disposto con l'art. 273, co. 6 del medesimo Tuel n. 267 in base al quale, nelle more dell'adozione della prescritta disciplina statutaria, trova applicazione, per il profilo considerato, il disposto dell'art. 289 del Tulcp n. 148/1915.
Nulla di analogo si prevede, alla stregua del vigente ordinamento, per la carica di assessore, a differenza di quanto previsto dal pregresso ordinamento (v. art. 289, co. 2, del citato Tulcp n. 148/1915).
Tale circostanza è da imputarsi alla configurazione della giunta quale organo fiduciario, di diretta collaborazione con il sindaco che dispone, fra l'altro, del potere di revoca dell'assessore allorché venga meno il rapporto di fiducia alla base dell'investitura a tale carica per le più svariate cause, ivi compresa la protratta e ingiustificata assenza alle sedute.
Ai sensi dell'art. 46, comma 4, del dlgs n. 267 del 2000, è previsto che «il sindaco e il presidente della provincia possano revocare uno o più assessori, dandone motivata comunicazione al consiglio».
Secondo una consolidata giurisprudenza, «la valutazione degli interessi coinvolti nel procedimento di revoca di un assessore è rimessa in via esclusiva al titolare politico dell'amministrazione, cui competono in via autonoma la scelta e la responsabilità della compagine di cui avvalersi per l'amministrazione dell'ente nell'interesse della comunità locale» (Consiglio di stato, V sez, n. 803 del 16.02.2012) (articolo ItaliaOggi del 14.06.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Sospensione del sindaco.
Il sindaco di un comune è stato sospeso dalle sue funzioni a seguito di un apposito provvedimento del prefetto e successivamente ha rassegnato le proprie dimissioni.
Il vicesindaco, che ne ha assunto i poteri ai sensi dell'art. 53, comma 2, del dlgs n. 267 del 2000, può esercitare il diritto di voto nell'ambito del consiglio comunale nel caso in cui il comune abbia una popolazione maggiore di 15 mila abitanti?

La tematica inerente il perimetro dei poteri del vicesindaco è stata oggetto di due pareri del Consiglio di stato il n. 94/96 del 21/02/1996 e n. 501, del 14.06.2001.
Nel primo, il Consiglio di stato ha ritenuto che nei comuni con popolazione superiore a 15 mila abitanti, in cui vige la regola dell' incompatibilità tra la carica di assessore e quella di consigliere, il vicesindaco non può far parte del consiglio, con diritto di voto.
Ciò in quanto non pare concepibile che tali funzioni «vengano esercitate di volta in volta dal sindaco o da chi ne fa occasionalmente le veci, in pratica da un delegato. Nel nostro ordinamento, infatti, non è ammessa delega o sostituzione nelle funzioni di componente delle assemblee elettive».
Il successivo parere del Consiglio di stato, intervenuto nuovamente sulla medesima tematica dei poteri del vicesindaco, non ha contraddetto la precedente pronuncia, pur non soffermandosi sulla specifica questione.
Pertanto, non può che confermarsi l'orientamento secondo il quale il vicesindaco non può esercitare le funzioni di componente, con diritto di voto, del consiglio comunale (articolo ItaliaOggi del 14.06.2013).

APPALTI: Avvalimento in materia di gare pubbliche, quale la finalità dell'istituto?
Domanda
In materia di gare di appalto l'istituto dell'avvalimento (art. 49, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 - Codice degli appalti) è di immediata e generale applicazione. L'istituto, di matrice comunitaria, è finalizzato a consentire in concreto la concorrenza aprendo il mercato ad operatori economici di per sé privi di requisiti di carattere economico-finanziario, tecnico-organizzativo, consentendo di avvalersi dei requisiti di capacità di altre imprese.
Risposta
La finalità dell'avvalimento non è quella di arricchire la capacità (tecnica o economica che sia), del concorrente, ma quella di consentire a soggetti che ne siano privi di concorrere alla gara ricorrendo a requisiti di altri soggetti se e in quanto da questi integralmente e autonomamente posseduti, in coerenza con la normativa comunitaria sugli appalti pubblici che è volta in ogni sua parte a far si che la massima concorrenza sia anche condizione per la più efficiente e sicura esecuzione degli appalti.
La formulazione dell'art. 49, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice degli appalti) è molto ampia e non prevede alcun divieto, sicché ben può l'avvalimento riferirsi anche alla certificazione di qualità di altro operatore economico, attenendo essa ai requisiti di capacità tecnica.
Nelle gare d'appalto, l'avvalimento deve essere reale e non formale, nel senso che non può considerarsi sufficiente "prestare" la certificazione posseduta, giacché in questo modo verrebbe meno la stessa essenza dell'istituto, finalizzato, come si è detto, a consentire a soggetti che ne siano sprovvisti di concorrere alla gara ricorrendo ai requisiti di altri soggetti, garantendo nondimeno l'affidabilità dei lavori, dei servizi o delle forniture appaltati.
Ne consegue, per la giurisprudenza (TAR Lazio-Roma Sez. III-quater, 05.02.2013, n. 1258) che, perché il ricorso all'istituto dell'avvalimento sia legittimo, occorre l'espresso impegno da parte dell'impresa ausiliaria, nei confronti dell'impresa ausiliata e della stazione appaltante, di mettere a disposizione per tutta la durata dell'appalto le risorse necessarie di cui è carente il concorrente (10.06.2013 - tratto da www.ispoa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAAUA: Quale è la procedura per il rilascio? (10.06.2013 - link a www.ambientelegale.it).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: LA DISCIPLINA DELLE ASSUNZIONI NEGLI ENTI LOCALI  - ovvero il rischio che le procedure per assumere il personale costituiscano una vera e propria fatica di Sisifo (CGIL-FP di Bergamo, Il foglio dei lavoratori della Funzione Pubblica numero speciale giugno 2013).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Decreto Legge 04.06.2013 n. 63: recepita la Direttiva 2010/31/UE (ANCE Bergamo, circolare 14.06.2013 n. 140).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Decreto Legge n. 63 del 04.06.2013 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 130 – Modifiche alla disciplina della detrazione IRPEF del 36% per interventi di recupero e alla disciplina della detrazione di imposta del 55% per interventi di riqualificazione energetica (ANCE Bergamo, circolare 14.06.2013 n. 139).

EDILIZIA PRIVATA: Termoregolazione, sanzioni sospese fino al 2016.
L'applicazione delle sanzioni per chi non ha installato i dispositivi per la termoregolazione e la contabilizzazione del calore è sospesa fino al 31.12.2016.
Lo rende noto l'assessore regionale all'Ambiente, Energia e Sviluppo sostenibile Claudia Maria Terzi, spiegando che la deroga è contenuta nella proposta di Progetto di legge sull'assestamento al bilancio per l'esercizio finanziario 2013 e al bilancio pluriennale 2013/2015 approvata dalla Giunta regionale.
"L'obbligo dell'installazione resta -precisa l'assessore-, ma con questo intervento lasceremo più tempo alle famiglie per adeguarsi. I costi di installazione delle valvole termostatiche, infatti, sono molto onerosi, così come le sanzioni".
UNA DECISIONE MOTIVATA ANCHE DALLA CRISI - Una decisione che va incontro alla richiesta avanzata dal Consiglio regionale, che, l'8 maggio 2012, aveva approvato una mozione in cui era contenuta l'indicazione di tener conto delle specifiche condizioni ambientali locali, dell'attuale crisi occupazionale e della gravosità finanziaria di tali nuove spese anche per differire nel tempo l'applicazione della norma.
"Tornare indietro -continua Terzi- non sarebbe stato praticabile, né tantomeno opportuno. Differire l'applicazione della norma avrebbe infatti significato semplicemente spostare in là un problema che invece va affrontato in ottemperanza alle norme nazionali sulla riduzione dell'inquinamento. Inoltre, chi nel frattempo si è già adeguato si sarebbe trovato beffato".
I VANTAGGI DELLA TERMOREGOLAZIONE - "La soluzione individuata -conclude Terzi- non deroga affatto sulla necessità di installare le termovalvole, che peraltro comportano notevoli vantaggi in termini economici e ambientali grazie a un risparmio energetico medio del 20 per cento, con un conseguente rientro dell'investimento in circa 6 anni. I costi di un'applicazione immediata però sarebbero stati davvero pesanti in un momento come questo per le famiglie, che già devono sostenere l'Imu. Ora sarà possibile adeguarsi in tempi più distesi e senza il pericolo di multe".
Sulla base dei dati rilevati dal Catasto regionale degli impianti termici la disposizione coinvolge oltre 181.000 impianti e 1,9 milioni di utenze (13.06.2013 - link a www.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Legge 07.08.1990, n. 241 e successive modificazioni, artt. 14 ss. - Disciplina della conferenza dei servizi (Ministero per i Beni e delle Attività Culturali, Segretariato generale, circolare 29.05.2013 n. 26).
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M. Acquasaliente, Come si coordina l’autorizzazione paesaggistica con la conferenza di servizi?
Il Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Segretariato Generale, con la circolare n. 26 del 29.05.2013, coordina le norme degli artt. 14 e ss. della l. n. 241/1990 (concernenti al conferenza di servizi) con la normativa prevista dall’art. 146 del D. Lgs. n. 42/2004 (riguardante l’autorizzazione paesaggistica).
In particolare la circolare recepisce il parere dell’Ufficio legislativo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali del 23.04.2013 laddove afferma che: “l’amministrazione procedente (Regione o Comune subdelegato) può indire la conferenza di servizi, per un intervento richiedente l’autorizzazione paesaggistica, solo se, richiesto il parere vincolante della Soprintendenza, questa non lo ha pronunciato nel termine di quarantacinque giorni (ai sensi dell’art. 146, comma 8, del Codice di settore, che prevale, in quanto norma speciale, sulla previsione generale di trenta giorni contenuta nel ripetuto articolo 14 della legge generale sul procedimento amministrativo), oppure quando, nel termine suddetto la Soprintendenza ha espresso un parere negativo”.
Le medesime considerazioni valgono anche per lo Sportello Unico delle Attività Produttive (SUAP) e per lo Sportello Unico per l’Edilizia (SUE) per i quali: “resta ius receptum il principio per cui gli sportelli unici svolgono funzioni esclusivamente di front office con i cittadini, ma non alterano il quadro distributivo delle competenze”. Con riferimento al SUAP il parere sottolinea che: “presupposto perché l’amministrazione procedente, ai fini dell’autorizzazione paesaggistica, vada avanti prescindendo dal parere del Soprintendente, è che sia “scaduto il termine previsto per le altre amministrazioni per pronunciarsi sulle questioni di loro competenza”, mentre in relazione al SUE si legge: “nel secondo caso (sportello unico per l’edilizia), l’articolo 5 del d. P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) recepisce ed esplica anch’esso i due principi fondamentali già sopra evidenziati: a) lo sportello unico è solo un ufficio di smistamento di atti nei confronti dell’utenza, ma non sostituisce, né assorbe le competenze ordinarie delle altre amministrazioni coinvolte; b) la conferenza di servizi è solo eventuale e può essere indetta unicamente dopo l’inutile decorso dei termini per l’acquisizione del parere vincolante del Soprintendente, ai sensi dell’articolo 146 del Codice di settore, secondo le modalità e le regole generali degli articoli 14 e seguenti della legge n. 241 del 1990”.
Riassumendo quanto esposto: “
a) non è possibile indire validamente la conferenza di servizi se non dopo l’inutile decorso del termine di quarantacinque giorni previsto dal comma 9 dell’articolo 146 cit. per l’espressione del parere del Soprintendente, ivi previsto (e ciò in ogni caso, anche allorquando al conferenza di servizi sia indetta dallo sportello unico per le attività produttive o dallo sportello unico per l’edilizia, atteso che le relative discipline speciali non derogano, ma rinviano alle norma comuni di cui agli articoli 14 e seguenti della legge n. 241 del 1990);
b) non può ritenersi validamente acquisito, ai sensi del comma 7 dell’articolo 14-ter cit., il parere favorevole della Soprintendenza ove la conferenza di servizi sia stata indetta in assenza dell’apposito calendario almeno trimestrale previsto o sia stata celebrata in una data non inclusa nel predetto calendario
” (tratto da e link a http://venetoius.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Oggetto: progetto di ricerca "Le terre da esplorare. Interventi di trasformazione del territorio - individuazione delle misure necessarie per il corretto inserimento", da inquadrarsi fra le attività di competenza della Direzione generale PaBAAC con finalità di indirizzo della pianificazione paesaggistica e di carattere propedeutico alla definizione delle linee guida per l'assetto del territorio ex art. 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio - Rapporto intermedio (Fase II) (Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione generale per il paesaggio, le belle arti, l'architettura e l'arte contemporanee, circolare 08.02.2013 n. 8).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Approvazione dello schema generale di convenzione con le Regioni ai sensi dell'art. 156, comma 2, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio" - D.M. 26.05.2011 (Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione generale per il paesaggio, le belle arti, l'architettura e l'arte contemporanee, circolare 24.01.2013 n. 5).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI: Obblighi di trasmissione delle informazioni all’Avcp.
Posticipato al 31.01.2014 il termine previsto per la trasmissione all’Autorità dei dati e delle informazioni (art. 1, c. 32, L. n. 190/2012).
Emanato il comunicato 13.06.2013 del Presidente “Chiarimenti in merito alla deliberazione n. 26 del 22.05.2013 (Prime indicazioni sull’assolvimento degli obblighi di trasmissione delle informazioni all’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, ai sensi dell’art. 1, comma 32, della legge n. 190/2012).
Il Comunicato sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale (link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: Modificati i termini di decorrenza dell’obbligo di verifica dei requisiti attraverso il sistema AVCPASS.
Al fine di consentire agli Operatori Economici e alle Stazioni Appaltanti di adeguarsi gradualmente alle nuove modalità di verifica dei requisiti attraverso l’utilizzo del sistema AVCPASS, l’Autorità ha accolto le richieste, ricevute dal mercato, rimodulando il regime transitorio previsto dalla Deliberazione n. 111/2012.
Per questo motivo i termini di decorrenza dell’obbligo di verifica dei requisiti attraverso il sistema AVCPASS sono stati modificati.
I nuovi termini sono contenuti nel comunicato 12.06.2013 del Presidente dell’Autorità: "Modifiche alla deliberazione n. 111 del 20.12.2012 per l’“Attuazione dell’art. 6-bis del d.lgs. 163/2006 introdotto dall'art. 20, comma 1, lettera a), legge n. 35 del 2012”  (link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTILa scadenza. Le istruzioni dell'Avcp. Online in settimana i dati sugli appalti.
Le Pa, le partecipate e controllate devono entro il 15 giugno pubblicare i dati di sintesi su tutti gli appalti del 2012 e comunicare l'avvenuto adempimento all'Autorità sui contratti.

L'Autorità ha definito con la deliberazione 22.05.2013 n. 26 le informazioni essenziali che ogni stazione appaltante pubblica dovrà pubblicare sulla sezione «amministrazione trasparente» del proprio sito (articolo 1, comma 32, della legge 190/2012). L'operazione andrà effettuata a regime entro il 31 gennaio di ogni anno per gli appalti dell'anno precedente (ferma restando la pubblicazione progressiva delle informazioni relative a ciascun appalto).
La tabella riassuntiva individua per ogni affidamento, indipendentemente dal valore, gli elementi che lo identificano (facendo leva sul Cig) e che ne delineano il percorso di aggiudicazione (procedura, elenco concorrenti, aggiudicatario, importo appalto, ecc.). Nella tabella vanno indicati anche i tempi di completamento del l'appalto e l'importo pagato. La pubblicazione deve essere in XML e la licenza d'uso non potrà prevedere limitazioni rispetto a quanto stabilito dalla legge 190/2012: per i fruitori, quindi, dovrà esservi la possibilità si scaricare liberamente i documenti e di rielaborare i dati. L'Autorità effettuerà verifiche-test tra il 1° gennaio e il 30 aprile di ogni anno con accessi a breve distanza. Qualora gli accessi non consentano la disponibilità dei dati, la stazione appaltante sarà considerata inadempiente, con conseguente segnalazione alla Corte dei conti.
Insieme alla pubblicazione sul sito, le amministrazioni devono comunicare le informazioni alla stessa Autorità, ma l'adempimento è assolto con le comunicazioni obbligatorie al l'Osservatorio previste dal l'articolo 7 del Codice contratti per gli affidamenti sopra 40mila euro. Per quelli inferiori, la comunicazione è assolta con la pubblicazione sul profilo di committente e i dati per l'acquisizione del Cig. Per assicurare l'effettività dell'adempimento, le stazioni appaltanti dovranno inviare via Pec all'Autorità, sempre entro il 15 giugno, un attestato della pubblicazione delle schede sugli affidamenti, comprensiva del l'indicazione dell'url del sito, inoltrandola mediante posta elettronica certificata.
L'Autorità precisa come i soggetti che abbiano già effettuato comunicazioni finalizzate a dare esecuzione alle norme della legge anticorruzione debbano adeguarsi alle nuove modalità sempre entro il 15 giugno (articolo Il Sole 24 Ore del 10.06.2013).

CORTE DEI CONTI

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Deliberazione Corte dei conti: bene i risparmi, ma troppe ritrosie.
P.a., l'e-market non va. Forniture lente e pochi servizi postvendita.

L'introduzione dell'obbligo di effettuare gli acquisti sul mercato elettronico ha certamente portato giovamenti gestionali alla pubblica amministrazione, ma è innegabile che ancora oggi si nota una certa ritrosia ad avvalersi di tale sistema. Infatti, se da un lato sono stati ridotti i costi sotto il profilo del risparmio di risorse nel processo di acquisizione ed è stata data la possibilità di confrontare i prezzi e scegliere il prodotto più aderente alla proprie necessità, dall'altro si nota in alcuni casi, l'attuazione di veri e propri «sotterfugi» per sottrarsi alle regole del mercato elettronico.
Molti anche i problemi rilevati nelle procedure di acquisto. Tra questi, la presenza di beni con un prezzo superiore a quello rilevabile sul mercato libero e l'imposizione, a volte, di lotti minimi di acquisto eccedenti i fabbisogni effettivi delle amministrazioni.

Queste considerazioni emergono dalla lettura della deliberazione 06.06.2013 n. 3 della Corte dei conti - Sezione centrale di controllo sulle amministrazioni statali sullo stato degli strumenti di acquisto informatici.
L'indagine ha evidenziato che il ricorso al Me.Pa. (acronimo di Mercato elettronico per la Pubblica amministrazione), introdotto ormai da dieci anni, non è avvenuto nella stessa misura da parte di tutte le amministrazioni, nonostante l'obbligo di acquistare su tale mercato beni e servizi inferiori alla soglia comunitaria sia in vigore dal 2007 e reso più stringente dalle disposizioni introdotte con il dl n. 95/2012. Tranne i casi «eccezionali» legati alla particolarità del settore merceologico di interesse, la Corte ha rimarcato sull'inderogabilità delle disposizioni in materia di ricorso a tutti gli strumenti informatici di acquisto.
In particolare, si legge, con oltre un milione di prodotti disponibili sul mercato, è avvenuto che il rifiuto posto da alcune amministrazioni ad acquistare telematicamente, adducendo motivazioni «irrilevanti» quali l'esteticità del bene o la mancanza di fiducia sul fornitore, siano da ritenere delle vere e proprie «clausole di stile» addotte per ricorrere al mercato libero. La raccomandazione, quindi, è quella di acquisire il bene sul libero mercato, solo dopo aver condotto una ricerca presso tutti i bandi aperti sul mercato, al fine di accertarsi dell'esistenza del bene o del servizio richiesto.
Altra nota dolente rilevata dai magistrati contabili è quella riferita alla cronica mancanza di fondi che alcuni dicasteri hanno fornito durante l'istruttoria. In particolare, i ministeri dello sviluppo economico, della giustizia, delle politiche agricole, infrastrutture e trasporti e quello della giustizia, hanno lamentato la difficoltà di programmare annualmente i propri fabbisogni a causa delle limitate risorse disponibili. Per la Corte, però, questo non può impedire la programmazione degli acquisti. Anzi, vista l'aria che tira, è sempre preferibile l'avvio di una oculata programmazione, in quanto, in caso contrario, la spesa potrebbe aumentare proprio a causa del ricorso al libero mercato per gli acquisti in urgenza.
Infine, la Corte ha riscontrato che molte P.a. hanno lamentato che sul Me.Pa. i fornitori talvolta impongano lotti minimi di acquisto per quantità che superano gli effettivi fabbisogni. Il suggerimento dei magistrati contabili, su questo versante, è che le amministrazioni potrebbero costituirsi in «gruppi di acquisto», con la funzione di aggregare la domanda così da acquistare i beni che effettivamente necessitano.
Infine, alcune P.a. hanno lamentato che alcuni beni, a parità di qualità, sul mercato elettronico hanno un prezzo superiore a quello del mercato libero. La soluzione? Per la Corte occorre procedere all'acquisto non con un ordine diretto, ma con una richiesta di offerta. In pratica, le amministrazioni dovrebbero contrattare con il fornitore, accordandosi per un prezzo inferiore a quello di listino. Senza dimenticare che in molti casi le amministrazioni vengono lasciate al loro destino nella delicata fase del postvendita, in particolare, nel mancato rispetto dei tempi di consegna del bene (articolo ItaliaOggi del 12.06.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Effetto prenotativo ai fini dell'art. 1, comma 557, legge 296/2006.
La Corte dei Conti, sezione regionale Lombardia, sull'aspetto in contesto, richiama il parere della sezione Basilicata n. 2 del 23.02.2012 secondo la quale: "... la programmazione di nuove assunzioni con avvio delle relative procedure determina un 'effetto prenotativo' nella stesso anno sulle relative somme ai soli fini del disposto di cui all'art. 1, comma 557, della legge 27.12.2006, n. 296, senza che ciò comporti una prenotazione d'impegno in senso contabile. Ne consegue che quando e se nell'anno successivo le assunzioni verranno concretamente effettuate con impegno delle relative spese, si dovrà tener conto, ai fini del raffronto con le spese dell'anno precedente ai sensi del predetto comma 557, delle spese che seppur non impegnate risultato prenotate nel precedente esercizio ...".
La sezione lombarda aggiunge questa precisazione: "Ne deriva che, nei sopracitati limiti, possono rilevare -ai soli fini del confronto ex art. 1, comma 557, l. n. 296/2006- le spese 'che decorrono' dal momento dell'avvio delle procedure di assunzione, purché la singola procedura di reclutamento sia sfociata nell'assunzione del dipendente quale unitaria concatenazione di atti prodromici all'impegno contabile in senso proprio. Non rilevano, dunque, quale dies a quo della rilevanza 'virtuale' della spesa ex art. 1, comma 557, l. n. 296/2006, meri atti programmatori oppure pregresse procedure non conclusesi utilmente per mancanza di aspiranti o per altre ragioni (ed a fortiori per fatto imputabile all'ente medesimo)" (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 03.06.2013 n. 235 - tratto da www.publika.it).

ENTI LOCALI: Omissioni sul bilancio, revisori in Procura. La stretta in una deliberazione della corte dei conti dell'Abruzzo.
Se l'organo di revisione omette, senza fornire alcuna giustificazione in merito, la trasmissione alla Corte dei conti del questionario relativo alle risultanze indicate nel bilancio di previsione (così come quello relativo al rendiconto), le conseguenze non saranno di poco conto. In primo luogo, scatta la segnalazione al Consiglio comunale per l'eventuale rimozione dalla funzione per intervenuta inadempienza, quella alla Procura contabile per la disamina di profili di responsabilità, ma anche l'inoltro del carteggio alla Procura della Repubblica affinché questa valuti e accerti eventuali responsabilità per omissione di atti d'ufficio ai sensi dell'articolo 328 del codice penale.

L'interessante conclusione perviene dalla lettura della deliberazione 31.05.2013 n. 43 della sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Regione Abruzzo, con cui è stato accertato il mancato invio telematico, tramite il sistema SIQUEL, dei questionari relativi al bilancio di previsione 2012 e al rendiconto 2011 da parte dell'Organo di revisione del comune di Villalago (AQ).
Non sono bastate, a tal fine, le note di sollecito inviate in questi mesi sia allo stesso organo di revisione che, per conoscenza, al Sindaco della cittadina aquilana. Dall'altra parte, ai magistrati contabili è arrivato solo un pervicace silenzio. Pertanto, il collegio della Corte ha deciso di passare all'azione, decidendo che sulla vicenda si dovesse dare un segnale forte.
Innanzitutto, ha dichiarato «non conforme a legge» il comportamento omissivo dell'organo di revisione del comune, in quanto non ha adempiuto all'obbligo di trasmissione delle relazioni ex comma 166 della legge n. 266/2005 e, a maggior ragione, senza sollevare idonee ragioni giustificative.
Poi, ha provveduto a segnalare al consiglio comunale dell'ente l'inadempimento grave da parte dell'organo di revisione, per le valutazioni e iniziative che lo stesso vorrà intraprendere, prima tra tutte la rimozione degli attuali componenti del collegio di revisione, così come previsto dall'articolo 235 del Tuel ove si statuisce che l'incarico di revisore è revocabile solo per inadempienza (articolo ItaliaOggi dell'11.06.2013).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Mentre sul piano dell’obbligazione giuridica rimane chiarito che l’Irap grava sull’amministrazione, su un piano strettamente contabile, tenuto conto delle modalità di copertura di “tutti gli oneri”, l’amministrazione non potrà che quantificare le disponibilità destinabili ad avvocati e professionisti, accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l’onere Irap, come avviene anche per il pagamento delle altre retribuzioni del personale pubblico.
Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l’Irap) si riflette, in sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la progettazione e per l’avvocatura interna ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante sull’amministrazione.

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... richiesta di parere formulata dal Presidente della Provincia di Grosseto in cui si chiede la corretta interpretazione della delibera della Corte dei conti, Sezioni Riunite, n. 33/2010 e successiva delibera della Sezione Toscana 24/2011, in contrasto con recente giurisprudenza (Corte d’Appello Palermo, sentenza n. 879/2012) in materia di Irap su prestazione fornita dagli avvocati interni dell’ente.
In particolare si chiede se possa interpretarsi la normativa vigente nel senso di quantificare i fondi per la progettazione e l’avvocatura interna considerando tali somme come la provvista delle risorse finanziarie per far fronte a tutti gli oneri del personale e quindi anche dell’Irap.
...
Nel merito, l’art. 1, comma 208, della legge 23.12.2005, n. 266, prevede che “Le somme finalizzate alla corresponsione di compensi professionali comunque dovuti al personale dell’avvocatura interna delle amministrazioni pubbliche sulla base di specifiche disposizioni contrattuali sono da considerare comprensive degli oneri riflessi a carico del datore di lavoro”.
Le Sezioni Riunite, con deliberazione n. 33 del 30.05.2010 resa in funzione nomofilattica ai sensi dell’articolo 17, comma 31, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 03.08.2009, n. 102, hanno trattato l’argomento soffermandosi sulle modalità di determinazione del compenso spettante al dipendente avvocato in caso di vittoria in sede giudiziale.
In tale deliberazione, dopo aver ripercorso le contrapposte posizioni interpretative -sia tra le diverse sezioni regionali di controllo della Corte dei conti che tra l’Agenzia delle Entrate e la Ragioneria Generale dello Stato– le Sezioni Riunite hanno concluso: “
Può concludersi nel senso che, mentre sul piano dell’obbligazione giuridica, rimane chiarito che l’Irap grava sull’amministrazione (secondo blocco delle citate disposizioni), su un piano strettamente contabile, tenuto conto delle modalità di copertura di “tutti gli oneri”, l’amministrazione non potrà che quantificare le disponibilità destinabili ad avvocati e professionisti, accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l’onere Irap, come avviene anche per il pagamento delle altre retribuzioni del personale pubblico (primo blocco delle citate disposizioni). Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l’Irap) si riflette, in sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la progettazione e per l’avvocatura interna ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante sull’amministrazione”.
La Sezione non ritiene sussistenti ragioni per discostarsi dalla deliberazione adottata dalle Sezioni Riunite, ai sensi dell'art. 17, comma 31, della legge 03.08.2009, n. 102, in sede di nomofilachia.
Nelle sopra esposte considerazioni è il parere della Corte dei conti –Sezione regionale di controllo per la Toscana- in relazione alla richiesta formulata dal Consiglio delle autonomie con nota Prot. n. 7702/1.13.9 del 02.05.2013 (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 30.05.2013 n. 146).

PATRIMONIOVia libera agli affitti delle sedi giudiziarie
I comuni possono stipulare nuove locazioni passive per le necessità conseguenti alla riforma delle sedi giudiziarie, in deroga al generale divieto imposto alle pubbliche amministrazioni dalle disposizioni contenute nella legge di stabilità 2013.

È quanto ha messo nero su bianco la sezione regionale di controllo della Corte dei conti Umbria, nel testo del parere 30.05.2013 n. 111, rispondendo a un preciso quesito posto dal comune di Perugia.
Se da un lato, il dlgs n. 155/2012 ha disegnato un nuovo assetto degli uffici giudiziari (tra cui il distretto di Perugia) prevedendo l'accorpamento delle sezioni distaccate e degli uffici del giudice di pace, come si concilia l'esigenza di reperire i necessari e ulteriori spazi immobiliari per tali uffici, con il divieto a stipulare contratti di locazione passiva, imposto dall'articolo 1, comma 138, della legge n. 228/2013.
A questa domanda, il collegio della Corte umbra ha risposto positivamente. In primo luogo, si osserva che il comune è tenuto a soddisfare le accresciute esigenze allocative degli uffici giudiziari, in adempimento a un preciso obbligo di legge. Il riferimento, rileva il collegio, è alla legge n.392/1942 che impone ai comuni nei quali hanno sede gli uffici giudiziari, l'obbligo di provvedere a determinate spese, tra cui quelle di illuminazione, riscaldamento, pulizia e custodia. In questo quadro normativo, il legislatore con una mano impone ai comuni di provvedere alle esigenze della macchina giudiziaria e, con l'altra, impone limiti rigorosi all'utilizzo della locazione passiva.
La soluzione del caso si trova rilevando che sia il dlgs n.155/2012 che la legge di stabilità per il 2013 perseguono lo stesso obiettivo, ovvero ottenere risparmi dalla spesa pubblica. Prevedendo la soppressione di piccoli uffici giudiziari, il legislatore realizza un risparmio e quindi, senza oneri aggiuntivi per il bilancio statale, i comuni possono stipulare contratti di locazione passiva.
In definitiva, il comune di Perugia può stipulare locazioni passive per reperire immobili da destinare alle nuove esigenze degli uffici giudiziari, a condizioni più vantaggiose rispetto alle spese che l'amministrazione giudiziaria sosteneva per la disponibilità degli immobili destinati ai piccoli uffici giudiziari oggi soppressi (articolo ItaliaOggi del 14.06.2013).

ENTI LOCALIPersonale, la spesa può dribblare i tetti. Corte dei conti. Sempre più eccezioni.
Gli enti locali devono ancora ridurre le spese di personale? Diversi interventi interpretativi stanno rivedendo le regole, creando di eccezioni legittimanti lo sforamento dei tetti. L'articolo 1, comma 557, della legge 296/2006, costringe gli enti soggetti al Patto a ridurre le spese di personale rispetto all'anno corrente; il comma 562 chiede agli enti non soggetti al Patto di non superare le spese 2008.

La Corte dei conti del Veneto, con il parere 28.05.2013 n. 139, ha ritenuto che se la violazione del tetto di spesa è conseguente a scelte non discrezionali un ente non può ritenersi inadempiente, e quindi ricevere sanzioni.
È un caso particolare, ma che avrà una risonanza ampia sui contesti in cui il principio potrebbe essere esportato. A causare il mancato rispetto della norma è stata la modifica legislativa sull'anno da prendere a riferimento -per gli enti non soggetti a Patto- con spostamento dal 2004 al 2008; ciò è avvenuto nel 2012, compromettendo le scelte precedenti dell'amministrazione.
La Corte non ha dubbi nel ritenere "giustificato" l'ente, per avere concesso una trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno di un dipendente sforando il tetto di spesa. Non è dato però sapere se davvero non fosse possibile nessun'altra azione sui compensi (trattamento accessorio del personale, riduzioni del fondo di parte variabile, revisione delle posizioni organizzative, retribuzione di risultato, ecc.), ma il dato è chiaro: la Corte dei conti del Veneto "salva" dalle sanzioni il piccolo ente.
Ed è successa, più o meno, la stessa cosa in Campania, laddove la Procura della Corte dei conti ha ritenuto non sussistenti i presupposti dell'azione di responsabilità di un ente che aveva assunto nonostante il rapporto tra spese di personale e spese correnti fosse superiore al 50% (si veda Il Sole 24 Ore del 31 maggio).
In questo caso, la Corte ha affermato che le norme sul contenimento della spesa di personale non possono comprimere diritti infungibili e funzioni fondamentali come l'istruzione pubblica. Il giudizio prende lo spunto dalla delibera 46/2011 delle Sezioni riunite della Corte, che aveva introdotto «eccezioni» evidenziando che si potessero superare i limiti in presenza di interventi di somma urgenza e lo svolgimento di servizi essenziali.
L'apertura della Procura contabile della Campania si estende però alle "funzioni fondamentali" che, come noto, sono undici. Non è così impossibile ipotizzare, ora, i tentativi dei Comuni nell'individuare ulteriori spazi di manovra (articolo Il Sole 24 Ore del 10.06.2013).

INCARICHI PROFESSIONALI: Incarichi ex art. 90 TUEL.
La Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione siciliana, condanna il Presidente della Provincia di Palermo al risarcimento del danno erariale subito dall'ente, nella misura corrispondente alle retribuzioni erogate a soggetti esterni all'amministrazione assunti -a tempo determinato- per le funzioni di segreteria e diretta collaborazione del vertice politico.
Il danno patrimoniale è ravvisato nell' illegittimità degli atti adottati in violazione della normativa vigente ed in contrasto con i principi di efficacia ed economicità dell'azione amministrativa.
La magistratura contabile:
- rammenta le condizioni che legittimano la costituzione degli uffici di staff ai sensi dell'art. 90 del TUEL e la necessità che la prescritta previsione regolamentare (ROUS) abbia contenuti specifici ed analatici, con l'indicazione del numero dei componenti (dette strutture) e, soprattutto, delle modalità di conferimento dei relativi incarichi;
- evidenzia i limiti che la giurisprudenza ha individuato in materia di assunzione/utilizzo di soggetti estranei alla pubblica amministrazione che si desumono, in primo luogo, dal principio secondo il quale le pubbliche amministrazioni devono, di norma, svolgere i compiti istituzionali avvalendosi del proprio personale; la conferma risiede anche nell'art. 7, comma 6, d.lgs. 165/2001 che legittima gli incarichi individuali ad esperti di provata competenza solo per esigenze cui gli enti non possono far fronte con il personale in servizio, per giustificati motivi e per una effettiva utilità;
- sottolinea che occorre collocare la facoltà in contesto (affinché sia corretta e legittima) "... nel solco dell'orientamento giurisprudenziale tracciato dalla Corte di cassazione in relazione ai principi di legalità, di economicità ed efficacia - affermati dal primo comma dell'art. 1 della legge 07/08/1990, n. 241, e strettamente collegati con il fondamentale principio di buona amministrazione di cui all'art. 97 della Costituzione"; pertanto, "il potere discrezionale di ricorrere a professionalità esterne da abidire ad uffici di staff e di diretta collaborazione, anche con esperti o consulenti, del vertice politico non può ritenersi svincolato dal rispetto dei principi enunciati dal citato primo comma dell'art. 1 della legge n. 241/1990".
L'inosservanza della normativa e dei sopracitati principi generali è riscontrata dalla Corte in relazione al fatto che gli incarichi esterni conferiti:
- non facevano alcun riferimento a concrete esigenze dell'ufficio di supporto agli organi politici; la motivazione riportata negli atti era una semplice ed astratta affermazione dell'utilità di migliorare il grado di efficienza dell'ufficio;
- non erano stati preceduti dalla preventiva verifica dell'insussistenza di professionalità interne da adibire ai compiti richiesti, così come mancanti anche della sola indicazione delle ragioni di preferenza delle professionalità esterne rispetto al personale in servizio; in particolare "Questo principio del preventivo utilizzo delle risorse già disponibili all'interno dell'Amministrazione, affermato dalla giurisprudenza contabile in relazione al conferimento di incarichi di consulenza o di alta professionalità, assume una maggiore valenza per l'attribuzione di compiti di Segreteria, rispetto ai quali, nonostante l'indubbio carattere fiduciario, può ragionevolmente presumersi la presenza all'interno dell'Ente di soggetti in grado di assicurare lo svolgimento di queste attività di assistenza del vertice politico dell'Ente, che in astratto richiedono un normale livello di competenze professionali e di diligenza, reperibile senza particolari difficoltà tra i numerosi dipendenti della Provincia di Palermo" (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Sicilia, sentenza 16.05.2013 n. 1953 - tratto da www.publika.it).

NEWS

APPALTIIL PACCHETTO SVILUPPO / FOCUS / Appalti senza responsabili in solido. Cancellata la disposizione del 2006 - Addio anche alla dichiarazione mensile sulle ritenute.
Abrogazione della responsabilità solidale negli appalti, eliminazione del modello 770 mensile (di fatto un adempimento mai diventato operativo) e modifiche alla disciplina sul rilascio del Durc.
Sono alcuni degli interventi di semplificazione adottati nel decreto legge passato ieri al vaglio del Consiglio dei ministri.
Con la la soppressione all'articolo 35 del Dl n. 223/2006 (commi da 28 a 28-ter), viene meno la discussa disciplina che prevede la responsabilità solidale dell'appaltatore e la responsabilità "sanzionatoria" del committente (da 5mila a 200mila euro) per il versamento all'Erario delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente e dell'Iva dovuta dal subappaltatore o dall'appaltatore.
Per non far scattare queste forme di responsabilità l'appaltatore/committente è obbligato ad acquisire una documentazione da cui emerga che il subappaltatore/appaltatore, alla data del pagamento del corrispettivo, abbia effettuato regolarmente i versamenti fiscali. L'agenzia delle Entrate aveva già tentato di alleggerire gli adempimenti con le circolari 40/12 e 2/13 concedendo all'appaltatore e al subappaltatore la chance di fornire la prova di aver versato le ritenute fiscali sui redditi da lavoro dipendente e l'Iva con un'autocertificazione oppure mediante l'asseverazione rilasciata da un professionista abilitato o dal responsabile del Caf. Le complicazioni e i costi derivanti da questo regime avevano provocato le critiche delle aziende e la richiesta di una revisione radicale.
Semplificazioni rilevanti in arrivo anche per il Durc, il documento unico di regolarità contributiva. In questa prospettiva viene modificato il Codice degli appalti. Le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori dovranno acquisire d'ufficio Durc (in formato elettronico) anche per gli eventuali subappaltatori sia per l'accertamento delle clausole di esclusione sia ai fini del pagamento delle prestazioni. Il documento unico di regolarità contributiva rilasciato per i tutti i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture avrà validità di 180 giorni dalla data di emissione e non più quindi di soli tre mesi. La validità semestrale ha un'unica eccezione, in quanto per il pagamento del saldo finale «in ogni caso necessaria l'acquisizione di un nuovo Durc», a prescindere da quando sia stato rilasciato il precedente.
Sempre per tutti i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, si stabilisce poi che «ai fini della verifica amministrativo-contabile, i titoli di pagamento devono essere corredati dal documento unico di regolarità contributiva anche in formato elettronico». Il Durc una volta rilasciato avrà efficacia per tutti gli appalti promossi da una determinata stazione appaltante.
Infine, sarà codificata la norma di prassi che oggi prevede, in caso di mancanza dei requisiti, l'obbligo per gli enti autorizzati al rilascio (casse edili, Inps, Inail) di invitare mediante posta elettronica certificata o con lo stesso mezzo per il tramite del consulente del lavoro «a regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le cause della irregolarità».
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L'ANALISI
Una mossa corretta per cancellare la confusione.

La solidarietà negli appalti perde, con il decreto legge approvato ieri dal Consiglio dei ministri, la componente fiscale. In pratica l'appaltatore non risponderà più con il subappaltatore del versamento all'Erario delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e sull'Iva per le prestazioni collegate ai lavori.
La norma, introdotta dal decreto legge 83/2012, aveva provocato gravi problemi operativi per l'impossibilità delle parti solidali di verificare la corretta esecuzione degli obblighi di versamento da parte deil subappaltatore. La norma interessa, in generale, le attività rilevanti ai fini Iva ed era stata inserita nell'articolo 35 del Dl 223/2006. La testimonianza della confusione collegata all'obbligo della solidarietà fiscale tra appaltatore e subappaltatore è stata raccolta nei mesi scorsi dalla casella di posta elettronica normeetributi.ilmiogiornale@ilsole24ore.com. Nei mesi scorsi sono arrivate centinaia di quesiti da parte dei lettori per capire l'ambito soggettivo e oggettivo della norma e le modalità per evitare la "brutta" sorpresa della solidarietà. Solo un riflesso della confusione tra imprese e fornitori e prestatori di servizi, con le prime alla ricerca di pezze d'appoggio sulla regolarità dei versamenti.
La solidarietà fiscale costituisce solo un esempio di quanto negativa possa essere la negligenza del legislatore, indifferente alle conseguenze di una norma, al di là delle buone intenzioni. Non è infatti in discussione la bontà dell'obiettivo, quello di evitare che negli appalti ritenute e Iva si disperdano in fiumi carsici. Tuttavia, la modalità –l'affidare la verifica alle parti contraenti dell'appalto– costituisce la resa da parte dell'amministrazione rispetto alle funzioni di controllo, caricando sul privato oneri non commisurati al rischio dell'attività economica.
La norma si applica(va) ai contratti di appalto stipulati dal 12.08.2012 e solo il 01.03.2013 l'agenzia delle Entrate ne ha chiarito (circolare 2/2013) l'ambito operativo. Non solo edilizia, hanno detto le Entrate, come invece poteva far pensare la collocazione, all'interno della disciplina sull'Iva immobiliare. La solidarietà si estende(va) a tutti gli appalti dove prevale il servizio, esclusi quelli di fornitura di beni e i contratti d'opera. Per sette mesi, le imprese hanno dovuto fare i conti con l'incertezza. Poco aiuto, vista la mancanza di chiarezza rispetto al perimetro oggettivo, aveva infatti portato la prima istruzione dell'Agenzia (circolare 40/2012), dove si era specificata la possibilità di evitare la solidarietà con un'autocertificazione sul versamento regolare delle ritenute.
La solidarietà tra committente e appaltatore –va ricordato– non sparisce ma sopravvive per quanto riguarda retribuzioni e contributi previdenziali e assicurativi (per due anni), così come stabilisce il decreto legislativo 276/2003. La possibilità di porre un argine è affidata alla contrattazione collettiva o agli accordi di prossimità in base all'articolo 8 del decreto legge 138/2011. Anche in questo campo, però, è necessario fare un po' di chiarezza: per esempio occorre capire se la deroga alla responsabilità può interessare solo le retribuzioni e come si intersecano contrattazione collettiva nazionale e contratti di prossimità (articolo Il Sole 24 Ore del 16.06.2013).

SICUREZZA LAVORO: Sicurezza lavoro. Possibile la redazione di un unico documento. Valutazione dei rischi al committente.
Il decreto legge ieri all'esame di Palazzo Chigi modifica diversi aspetti del testo unico della sicurezza sul lavoro (Dlgs 09.04.2008, n. 81).
Si prevede, tra le altre cose, che nell'ambito degli appalti il datore di lavoro committente promuove la cooperazione e il coordinamento elaborando un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare o, dove ciò non sia possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze.
Limitatamente ai settori di attività a basso rischio infortunistico sempre il datore di lavoro committente, in alternativa può individuare un proprio incaricato, in possesso di formazione, esperienza e competenza professionali, tipiche di un preposto, nonché di periodico aggiornamento e di conoscenza diretta dell'ambiente di lavoro, per sovrintendere a tali cooperazione e coordinamento. Nel caso in cui si opti per la redazione del documento lo stesso va allegato al contratto di appalto o di opera e deve essere adeguato in funzione dell'evoluzione dei lavori, servizi e forniture.
Questo obbligo non si applica ai servizi di natura intellettuale, alle mere forniture di materiali o attrezzature, ai lavori o servizi la cui durata non è superiore ai dieci "uomini-giorno", sempre che essi non comportino rischi derivanti dalla presenza di agenti cancerogeni, biologici, atmosfere esplosive o dalla presenza dei rischi particolari indicati nell'allegato XI.
Con decreto del ministro del Lavoro, inoltre, dovranno essere individuati settori di attività a basso rischio infortunistico, sulla base di criteri e parametri oggettivi, desunti dagli indici infortunistici di settore dell'Inail.
Vengono poi riviste le regole sulle notifiche all'organo di vigilanza competente per territorio in caso di costruzione e realizzazione di edifici o locali da adibire a lavorazioni industriali, nonché nei casi di ampliamenti e di ristrutturazioni di quelli esistenti e quelle sulle verifiche periodiche volte a valutarne l'effettivo stato di conservazione e di efficienza ai fini di sicurezza delle attrezzature riportate nell'allegato VII (articolo Il Sole 24 Ore del 16.06.2013).

ATTI AMMINISTRATIVIIL PACCHETTO SVILUPPO / FOCUS / Lo Stato pagherà se ritarda. Date fisse (1° luglio e 1° gennaio) per i nuovi adempimenti amministrativi.
L'INDENNIZZO/ Per il mancato rispetto dei termini 50 euro per ogni giorno di ritardo Il tetto massimo fissato a duemila euro.

L'indennizzo in denaro per il ritardo nella conclusione di un procedimento e la data unica di efficacia degli obblighi amministrativi. Ecco i due provvedimenti più importanti, anche sotto il profilo simbolico, per i cittadini. Il decreto entrato in consiglio dei ministri ieri li conteneva entrambi, nonostante la discussione sia rimasta apertissima e, soprattutto sulla prima misura, il ministero dell'Economia ha mantenuto le sue riserve fino all'ultimo.
Con il varo dell'indennizzo il cittadino o l'impresa potranno contestare un rimborso al responsabile unico del procedimento di ogni amministrazione, ottenendo un ristoro in denaro per il mancato rispetto dei termini di 50 euro al giorno per ogni giorno di ritardo, per un massimo di 2.000 euro. Lo strumento sarà avviato in via sperimentale per le imprese per poi essere esteso ai cittadini.
Le date uniche per l'efficacia dei procedimenti amministrativi, misura già adottata in diversi Paesi europei, viene confermato il 1° luglio e il 1° gennaio per qualsiasi adempimento che comporti informative e produzione di documenti da parte di cittadini e imprese nei confronti della Pa. Le nuove date entrano in vigore a partire dal 2 luglio prossimo e il ministro per la Pa e la Semplificazione entro 90 giorni dall'entrata in vigore del decreto che dovrà definire le modalità attuative.
Per il settore pubblico, poi, sono stati prorogati i termini per la scadenza delle attività delle società partecipate dalla Pa che erano previste dalla spending review, una misura che consentirà di gestire la posizione contrattuale di circa 200mila dipendenti di oltre 3.200 aziende multiservizi.
Il Consiglio dei ministri ha rinviato a mercoledì prossimo l'esame di un corposo disegno di legge che contiene cinque nuove deleghe per il riordino della legislazione e la semplificazione di procedimenti amministrativi di competenza del ministro per la Pa e in diversi settori specifici come l'ambiente, i beni culturali, la scuola, l'università e la ricerca. L'obiettivo del Governo è di far viaggiare questo testo parallelamente al decreto, tentando nell'iter di approvazione il massimo di coordinamento con il Parlamento. Tra le misure più rilevanti per i cittadini c'è l'invio telematico dei certificati medici di gravidanza e la possibilità di richiedere qualsiasi titolo di studio in lingua inglese oltre a un'ulteriore semplificazione sul cambio di residenza.
Diventerà inoltre più facile acquistare la cittadinanza italiana per chi ha genitori stranieri ma è nato nel nostro Paese: compiuti i 18 anni il diritto sarà maturato anche in casi di inadempimenti amministrativi, non imputabili all'interessato, se viene dimostrata con altra documentazione la sua dimora in Italia fin dalla nascita (come i certificati di frequenza scolastica).
Per migliorare i servizi amministrativi e assicurare l'efficienza dell'attività amministrativa, nasce poi presso gli sportelli unici per le attività produttive (Suap) il tutor d'impresa: il suo compito sarà quello di assistere le imprese dall'avvio alla conclusione dei procedimenti, assicurando l'osservanza delle migliori prassi amministrative. Rivolta anche agli imprenditori è la norma che li equipara alle persone giuridiche per l'applicazione del codice sulla privacy. Novità anche in materia fiscale: meno adempimenti relativi alle comunicazioni al fisco da parte delle imprese, nonché in materia di operazioni intercomunitarie. Vengono infine introdotte norme per accelerare l'utilizzo dei fondi Ue da parte delle pubbliche amministrazioni.
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L'ANALISI
Due passi importanti per dare certezze.

Si tratta sicuramente di due misure dal forte impatto simbolico, oltreché pratico. L'indennizzo in denaro per il ritardo nella conclusione di un procedimento e la data unica di efficacia degli obblighi amministrativi. Il cittadino saprà ora che che rivolgendosi al responsabile unico delle procedure di un'amministrazione potrà ottenere un risarcimento in denaro in caso di mancato rispetto dei termini. Non si tratta di cifre enormi: 50 euro per ogni giorno di ritardo fino a un massimo di 2mila euro.
Ma è un fato che questa sanzione certa per gli uffici ritardatari è finalmente arrivata. Se ne parlava da anni, fin dai tempi della legge 59, quando ministro della Pa e era Franco Bassanini, e se ne ritornò a parlare fino a pochi anni fa, con il ministro Nicolais (Governo Prodi). A stoppare sempre l'iniziativa è stato il ministero dell'Economia, preoccupato per uno strumento per il quale non si possono prevedere coperture certe. Su un indennizzo per i ritardi della Pa si erano pronunciati a più riprese anche diversi presidenti dell'Antitrust e, da ultimo, persino i saggi del Colle l'avevano indicata come strategica nella loro Agenda delle misure possibili per il rilancio dell'economia.
Anche l'altra novità è importante: le date uniche per l'osservanza degli obblighi amministrativi. L'Europa la auspica da tempo e Paesi come la Francia, il Regno Unito e l'Olanda la stanno sperimentando già. Ancora qualche settimana fa questa misura di certezza dell'azione amministrativa indicata come strategica nello Small business act della Commissione europea è stata rilanciata dal Consiglio per la competitività: garantisce una certezza giudicata importante non solo per i cittadini ma anche per le imprese che intendono effettuare investimenti.
Ora si tratta di difendere fino in fondo la portata di queste due misure e farle decollare il prima possibile. La tecnica adottata anche questa volta dal legislatore, ovvero un decreto omnibus, non lascia ben sperare. Ma è importante che il ghiaccio si sia rotto. Ieri il ministro per la Pa e la Semplificazione, Gianpiero D'Alia, ha parlato di misura rivoluzionaria facendo riferimento all'indennizzo. L'obiettivo è quello di innescare un circuito virtuoso tra Pa e cittadini per garantire tempi certi di chiusura delle procedure.
Abbiamo visto in passato che "norme-stimolo" come questa hanno funzionato. Deve accadere anche questa volta per l'indennizzo, che arriva proprio mentre lo Stato ha iniziato a rimborsare vecchi debiti ai fornitori. Le aspettativa cambiano, in meglio, proprio con misure come queste, che ora vanno difese fino in fondo
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.06.2013).

ATTI AMMINISTRATIVISEMPLIFICAZIONI/ Ora la burocrazia paga il conto. Per i ritardi nelle pratiche 50 euro di indennizzo al giorno. Per il Fascicolo sanitario elettronico c'è tempo fino al 2014.
La burocrazia salderà il conto per la lentezza delle pratiche. Scaduto il termine per l'adozione del provvedimento (normalmente 30 giorni salvo espresse eccezioni) più l'extra time (15 giorni) a disposizione del funzionario che esercita il potere sostitutivo, i cittadini potranno ricevere un indennizzo pari a 50 euro per ogni giorno di ritardo fino a un massimo di 4.000 euro.
E se la p.a. continuerà a fare orecchie da mercante gli interessati potranno ricorrere al Tar che deciderà non solo sul merito del procedimento, ma anche sull'indennizzo.

Il pacchetto semplificazioni che andrà oggi all'esame del Consiglio dei ministri interviene a completare il ventaglio di tutele contro le lentezze burocratiche introdotte nel testo della legge 241/1990 sul procedimento amministrativo. Nel 2009, la legge di semplificazione (n. 69) aveva previsto il diritto al risarcimento del danno «per inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento». Al risarcimento, il pacchetto semplificazione aggiunge anche l'indennizzo che scatterà per il mero ritardo nella definizione della pratica.
La bozza di provvedimento messa a punto dai tecnici del governo inchioda gli enti pubblici alle proprie responsabilità in caso di ritardo: pagare l'indennizzo entro cinque giorni oppure iniziare un contenzioso davanti al Tar a conclusione del quale la p.a. potrà essere condannata a risarcire il dovuto senza ulteriori dilazioni.
Inoltre, in caso di accoglimento della domanda, gli atti dovranno essere trasmessi alla procura della Corte dei conti perché avvii il procedimento di responsabilità nei confronti dei pubblici dipendenti.
Nelle comunicazioni di avvio del procedimento, il diritto all'indennizzo dovrà essere espressamente menzionato e portato a conoscenza degli utenti assieme a modalità e termini per conseguirlo. Dovrà inoltre essere espressamente indicato il soggetto a cui è attribuito il potere sostitutivo.
Slitta il Fascicolo sanitario elettronico. Il Fascicolo sanitario elettronico, che consentirà a tutti i pazienti di conservare e visualizzare in ogni momento accertamenti diagnostici ed esami, slitta al 2014. Le regioni avranno tempo fino alla fine dell'anno prossimo per istituirlo, ma entro il 31 dicembre 2013, dovranno già presentare un piano all'Agenzia per l'Italia digitale. Sarà questa a curare la progettazione e la realizzazione del Fascicolo sulla base delle esigenze dei governatori.
L'Agenzia collaborerà con il ministero della salute. Insieme, per le parti di rispettiva competenza, dovranno valutare e approvare, entro 60 giorni, i piani di progetto presentati dalle regioni e monitorare la realizzazione del Fascicolo. L'operazione Fascicolo elettronico avrà a disposizione un finanziamento di 10 milioni di euro per il 2014 e 5 a decorrere dal 2015 (articolo ItaliaOggi del 15.06.2013).

EDILIZIA PRIVATAAl comune il compito di recuperare i pareri per la Scia. Lo sportello unico dovrà acquisire gli atti presupposti all'inizio dei lavori.
Al comune il compito di recuperare i pareri necessari per la Scia, agibilità edilizia parziale e semplificazioni nella comunicazione di inizio attività per l'attività di edilizia libera.
Sono queste alcune delle novità in materia edilizia della bozza di decreto legge sulle semplificazioni, che va oggi in Consiglio dei ministri. Partiamo proprio dai pareri per esaminare le possibili innovazioni al Testo unico per l'edilizia.
Pareri. Allo sportello unico andrebbe il compito di acquisire i pareri anche prima della presentazione della Scia. Il Testo unico edilizia non disciplina l'acquisizione, da parte dello sportello unico per l'edilizia (Sue), degli atti di assenso presupposti all'inizio dei lavori nel caso in cui l'intervento edilizio sia soggetto alla presentazione della comunicazione di inizio lavori di attività edilizia libera o della Scia edilizia. Il decreto estenderebbe la disciplina prevista oggi solo per il permesso di costruire.
Il provvedimento, infatti, propone che l'interessato possa, prima di presentare la comunicazione o la Scia, richiedere allo sportello unico l'acquisizione di tutti gli atti di assenso necessari per l'intervento edilizio. Lo sportello si deve attivare, come nel caso di richiesta di permesso di costruire, ma con termini ridotti alla metà: se entro 30 giorni dalla domanda non sono stati rilasciati gli atti di assenso delle altre amministrazioni pubbliche, o è intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni interpellate, il responsabile dello sportello unico indice la conferenza di servizi per acquisirli.
In dettaglio si propone l'inserimento nel Testo unico dell'edilizia di un nuovo articolo che prevede che nei casi in cui si applica la disciplina della segnalazione certificata di inizio attività prima della presentazione della segnalazione, l'interessato potrà richiedere allo sportello unico di provvedere all'acquisizione di tutti gli atti di assenso, comunque denominati, necessari per l'intervento edilizio, o presentare istanza di acquisizione dei medesimi atti di assenso contestualmente alla segnalazione.
Lo sportello unico comunicherà tempestivamente all'interessato l'avvenuta acquisizione degli atti di assenso. In caso di presentazione contestuale della segnalazione certificata di inizio attività e dell'istanza di acquisizione di tutti gli atti di assenso, comunque denominati, necessari per l'intervento edilizio, l'interessato potrà dare inizio ai lavori solo dopo la comunicazione da parte dello sportello unico dell'avvenuta acquisizione dei medesimi atti di assenso o dell'esito positivo della conferenza di servizi. Le novità proposte si applicheranno anche alla comunicazione dell'inizio dei lavori per l'attività di edilizia libera qualora siano necessari atti di assenso, comunque denominati, per la realizzazione dell'intervento edilizio.
Agibilità parziale. Il decreto modificherebbe la disciplina del certificato di agibilità, consentendone la richiesta anche per singoli edifici o singole porzioni di uno stesso stabile. Questo a condizione che le unità siano funzionalmente autonome, e sempre che siano state realizzate e collaudate le opere di urbanizzazione primaria relative all'intero intervento edilizio e siano state completate le parti comuni relative al singolo edificio o singola porzione della costruzione.
L'agibilità parziale potrebbe essere richiesta anche per singole unità immobiliari (se complete delle opere strutturali, impianti, parti comuni e opere di urbanizzazione primarie ultimate o dichiarate funzionali rispetto all'edificio oggetto di agibilità parziale). Nei casi di rilascio del certificato di agibilità parziale prima della scadenza del termine entro il quale l'opera deve essere completata, lo stesso è prorogato per una sola volta di tre anni.
Attività edilizia libera. Una dichiarazione in meno per la comunicazione di inizio lavori. Il Testo unico per l'edilizia prevede per l'attività edilizia libera l'invio di una comunicazione dell'inizio dei lavori, a cui deve essere allegata una relazione asseverata firmata da un tecnico abilitato, che dichiari di non avere rapporti di dipendenza con l'impresa né con il committente.
Il decreto propone di eliminare tale dichiarazione da parte del tecnico abilitato, consentendo di conseguenza di rimuovere l'obbligo di assumere un tecnico indipendente: la prescrizione che non trova riscontro nelle altre procedure edilizie (Scia, Dia in alternativa al permesso di costruire, permesso di costruire) (articolo ItaliaOggi del 15.06.2013).

APPALTISEMPLIFICAZIONI/ Stop agli adempimenti extra a carico di committenti e appaltatori.
Gare, responsabilità solidale ko. E a partire dal 2014 va in soffitta il mod. 770 mensile. Stop alla responsabilità solidale fiscale negli appalti e al futuro invio (a partire dal 2014) del 770 mensile.

Queste alcune novità introdotte all'interno del pacchetto di semplificazioni, all'esame oggi del Consiglio dei ministri.
Responsabilità solidale. Si fa riferimento a quelle disposizioni attraverso le quali il committente o l'appaltatore hanno l'obbligo di verificare, di fatto in surroga all'amministrazione finanziaria, l'esecuzione del versamento delle ritenute e dell'Iva da parte dell'appaltatore e/o del subappaltatore; detta disciplina si applica ai contratti di opere e servizi, di cui all'art. 1655 c.c., con esclusione degli appalti riferibili alle forniture di beni, ai contratti d'opera e a quelli di trasporto.
La normativa pende, attualmente, sui soggetti che operano nel campo di applicazione dell'Iva, con la conseguenza che restano escluse, oltre alle stazioni appaltanti e ai condomini, le persone fisiche private, senza esclusione di alcun settore merceologico (tutti i settori e non solo l'edilizia).
Sul tema è intervenuta a più riprese anche l'Agenzia delle entrate (circolari n. 2/E/2013 e n. 40/E/2012), cercando di limitare al massimo il perimetro applicativo e precisando che l'applicazione resta limitata ai contratti stipulati a partire dal 12/08/2012.
Peraltro, la norma ha previsto, in assenza del possesso di un'idonea documentazione, attestante la correttezza dei versamenti all'erario (Iva e ritenute), l'applicazione di una sanzione da 5 a 200 mila euro, qualora il committente o l'appaltatore esegua il pagamento delle prestazioni in assenza di detti documenti, sostituibili anche mediante la ricezione di un'asseverazione sottoscritta da un Caf o da un professionista.
Con il provvedimento in commento si prende atto, preliminarmente, dell'inefficacia della disciplina al contrasto dell'evasione fiscale, con particolare riferimento alla presenza di lavoratori in nero e, soprattutto, dell'eccessiva produzione di documentazione, con aggravio di oneri posti a carico dell'impresa, e dell'inutilità dello stesso adempimento, per l'assenza di un vero e proprio controllo a cura di chi riceve la documentazione prescritta.
Inoltre si da atto di una giurisprudenza comunitaria (su tutte, Corte di giustizia Ue, sentenza 21/06/2012, cause riunite C-80/11 e C-142/11) con la quale si sta consolidando un indirizzo attraverso il quale «spetta (_) in linea di principio, alle autorità fiscali effettuare i controlli necessari presso i soggetti passivi al fine di rilevare irregolarità e evasioni in materia di Iva nonché infliggere sanzioni al soggetto passivo che ha commesso dette irregolarità o evasioni».
Pertanto, stante la sussistente discriminazione in atto nei confronti dei committenti e degli appaltatori con sede sul territorio nazionale rispetto ai medesimi soggetti collocati negli altri paesi comunitari, con il pacchetto semplificazioni in commento, si prevede la soppressione dei commi da 28 a 28-ter, dell'art. 35, dl n. 223/2006, convertito nella legge 248/2006, con la conseguente abrogazione della disciplina sulla responsabilità solidale fiscale negli appalti.
Modello 770 mensile. L'adempimento, introdotto dal comma 1, dell'art. 44-bis, del dl n. 269/2003, prevede «al fine si semplificare la dichiarazione annuale presentata dai sostituti d'imposta» di comunicare, necessariamente ogni mese, i dati retributivi e le informazioni utili per il calcolo delle ritenute fiscali e dei relativi conguagli.
I commi 122 e 123, dell'art. 1, della legge 244/2007 hanno disposto che, con decreto del ministro dell'economia e delle finanze, emanato di concerto con il ministro del lavoro e della previdenza sociale, devono essere definite le modalità attuative della comunicazione e stabilite le modalità di condivisione dei dati tra l'Agenzia delle entrate e l'Inps, provvedendo alla semplificazione e all'armonizzazione degli adempimenti, di cui all'art. 4, dpr n. 322/1998 (modelli sostituti, ex 770).
La citata comunicazione deve essere presentata esclusivamente in via telematica, direttamente o tramite gli intermediari incaricati di cui ai commi 2-bis e 3, dell'art. 3, dpr n. 322/1998 (dottori commercialisti, esperti contabili, consulenti del lavoro, Caf e altri, comprese le società del gruppo), entro l'ultimo giorno del mese successivo a quello di riferimento.
Peraltro, detto adempimento doveva entrare in vigore a decorrere dal 2011 ma, per effetto di alcune proroghe (da ultimo, per effetto del comma 7, dell'art. 29, del dl n. 216/2011, convertito nella legge n. 14/2012), è stata prevista la messa a regime solo a partire dall'01/01/2014. Di conseguenza, la prima presentazione del 770 mensile, a cura del sostituto d'imposta, dovrebbe avvenire entro il 28/02/2014, facendo riferimento alle retribuzioni erogate nel mese di gennaio 2014, ma il pacchetto di semplificazioni in commento ne ha previsto l'abrogazione totale (articolo ItaliaOggi del 15.06.2013).

LAVORI PUBBLICIRipartono gli espropri per pubblica utilità. Pa. Possibilità riaperta dal Dl 35/2013 dopo i limiti posti dai vincoli sulle spese.
LE INDICAZIONI/ L'unico elemento da tenere presente è il rispetto del patto di stabilità interno.

Ripartono gli espropri per pubblica utilità, che erano stati frenati dalla legge e da interpretazioni della Corte dei conti: ciò è possibile grazie all'articolo 10-bis del decreto legge 35/2013 in vigore dall'8 giugno.
Nel periodo tra il gennaio 2013 (articolo 12, comma 1-quater, Dl 98/2011) e il giugno di quest'anno (articolo 10-bis Dl 35/2013) le norme sul contenimento delle spese hanno impedito qualsiasi acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni da parte di soggetti pubblici. Vi è stata quindi una paralisi nelle compravendite, negli espropri, nelle permute e financo, per analogia, nelle locazioni.
La Corte dei conti, poi, aveva aggravato il divieto con una serie di delibere delle sezioni locali (Toscana, Piemonte e Liguria, nn. 125, 52 e 9 del 2013) ipotizzando responsabilità erariali. Dall'8 giugno, quindi, sono di nuovo possibili espropri, cessioni bonarie, vendite finalizzate all'esecuzione di opere dichiarate di pubblica utilità ai sensi del Testo unico sull'espropriazione (327/2001); sono anche stipulabili permute (ma solo a parità di prezzo, quindi senza conguaglio) deliberate prima del 31.12.2012.
Via libera anche alle cessioni attuative di convenzioni urbanistiche, cioè alle cessioni di strade, verde, aree per servizi pubblici che i piani regolatori prevedono come corrispettivo dell'edificabilità. L'unico limite da tener presente, secondo l'articolo 10-bis del Dl 35/2013, è un generico «rispetto del patto di stabilità interno», la cui violazione tuttavia non ha conseguenze dirette sui contratti che risultino squilibrati rispetto al predetto accordo (al più, vi può essere una responsabilità del dirigente).
In questi mesi di difficoltà negli espropri per pubblica utilità, si è assistito all'incremento degli accordi di pianificazione, con ricorso a circuiti di scambio diversi da quelli che per 150 anni (dalla legge 2359/1865) hanno reso possibile l'esproprio per pubblica utilità. È stata proprio la Corte dei conti, nelle delibere del 2013, a suggerire agli enti locali di ricorrere, invece che a espropri, ad accordi, perequazioni, transazioni, senza movimentazioni finanziarie. La Corte ha infatti stimolato la crescita di accordi di diritto pubblico, di traslazioni di edificabilità, permute tra edificabilità e opere pubbliche, premi di volumetria che evitassero pagamenti in moneta e contestazioni.
Sul valore venale dei beni espropriati, si è sempre discusso perché prima di giungere al valore venale (oggi imposto dalla Corte di Strasburgo) ci si è sempre affidati a espressioni generiche quali il “giusto prezzo in libera contrattazione”, indennizzo “serio” e “non irrisorio”, con una serie di brutte figure europee. Ad esempio, l'esproprio Scordino (dal nome dell'ex proprietario, in lite dagli anni '90) è costato all'Erario diversi milioni di euro invece del previsto indennizzo di pochi milioni di lire: il debito, causato dalle sentenza della Corte dei diritti dell'uomo, causa oggi il dissesto del Comune (Tar Reggio Calabria 378/2012), cioè dell'ente espropriante cui lo Stato ha chiesto il rimborso in rivalsa (articolo 43 legge 234/2012) per gli importi pagati per ordine dei giudici di Stasburgo.
Avanzano quindi nuove forme di partenariato pubblico privato, ad esempio nel social housing, con presenza di fondi immobiliari e associazioni di imprese con soci di solo capitale (Consiglio di Stato, 2059/2013), ripensando alla possibilità di utilizzare la vendita o la locazione di cosa futura, o i contratti di disponibilità, eseguendo opere o servizi in cambio di volumi o concessioni (articolo Il Sole 24 Ore del 15.06.2013).

CONDOMINIO: In condominio anche criceti, pesci rossi e passerotti. Circolare del notariato sulle novità introdotte dalla riforma.
In condominio anche i criceti, i pesci rossi e i passerotti. Non solo cani e gatti. E questo da subito, anche se il vecchio regolamento di condominio lo vietava espressamente.
L'interpretazione della riforma del condominio (legge 220/2012), data dallo studio 23.05.2013 n. 320-2013/C del Consiglio nazionale del notariato, mette in evidenza l'immediata incidenza delle nuove disposizioni in vigore dal 18.06.2013. Questo vale anche per la disciplina dei subentri nella proprietà degli appartamenti condominiali e per le sanzioni a carico di chi viola il regolamento.
Vediamo, dunque, i passaggi salienti dello studio dei notai.
ANIMALI - Durante l'iter parlamentare si è passati dall'ammettere in condominio gli animali da compagnia agli animali domestici. Lo scopo è stato quello di tenere fuori gli animali pericolosi, gli animali da fattoria e tutti gli animali che non hanno consuetudini familiari. Ma la disposizione deve essere interpretata con ragionevolezza e, quindi, sono da ammettere non solo cani e gatti (che possono anche fruire degli spazi comuni), ma anche pesci, criceti e cavie e uccellini da gabbia (che stanno dentro la casa del padrone). Questa nuova regola si applica automaticamente, senza bisogno di modificare la difforme clausola del regolamento condominiali, automaticamente sostituito.
SUBENTRI - La riforma del condominio ha previsto la nuova regola per cui chi vende rimane responsabile delle spese condominiali se non invia all'amministratore una copia autentica dell'atto di vendita. Considerata la vessatorietà della norma, lo studio notarile cerca, per lo meno, di attenuarne il rigore, considerando che il venditore possa far avere all'amministratore o la copia autentica o un documento equivalente, come ad esempio una dichiarazione di avvenuta vendita rilasciata dal notaio subito dopo il rogito.
La riforma ripete invece la regola della responsabilità di chi acquista anche per le spese condominiali relative all'anno in corso e a quello precedente. Lo studio notarile ricorda che per anno si intende l'anno di gestione e non l'anno solare o civile. Lo studio fa un esempio: se l'alienante di una unità immobiliare trasferisce la stessa il 18.04.2013 e ha debiti condominiali risalenti al mese di maggio 2011, l'acquirente può essere chiamato a risponderne solidalmente se l'esercizio condominiale si chiude il 30 aprile di ogni anno, mentre non lo sarà se la gestione del condominio ha come termine di chiusura annuale il 31 marzo. In ogni caso lo studio notarile consiglia a chi vende e a chi acquista di disciplinare espressamente in apposite clausole dell'atto notarile i rispettivi carichi delle spese condominiali.
SANZIONI - Chi viola il regolamento condominiale rischia una multa fino a 200 euro e in caso di recidiva fino a 800 euro. Chissà, si legge nel documento, che questo non basti a rivitalizzare l'istituto.
REGOLAMENTO - Secondo le nuove norme il regolamento, una volta approvato dall'assemblea, deve essere allegato al registro dei verbali delle assemblee. Secondo i notai sarebbe opportuno estendere l'obbligo di allegazione, introdotto dalla nuova norma, anche al regolamento contrattuale: così si potrebbero superare le frequenti difficoltà nel reperimento di quest'ultimo regolamento, che deve essere allegato negli atti di trasferimento (articolo ItaliaOggi del 14.06.2013).

APPALTI: Appalti, obbligo di verifica slittato a fine 2013.
Confermato lo slittamento a fine 2013 dell'obbligo di verifica dei requisiti dichiarati in gara, tramite Avcpass.

Con il comunicato 13.06.2013 pubblicato sul proprio sito l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, conferma la proroga a fine anno delle scadenze previste dalla delibera 111 del 2012, così come anticipato da ItaliaOggi, lo scorso 12 giugno.
In sostanza per gli appalti di lavori oltre i 20 milioni di euro, sarà possibile procedere alla verifica documentale in via transitoria, fino al 31.12.2013. Analogo discorso per tutti gli appalti di importo a base d'asta pari o superiore a 40 mila euro, con esclusione di quelli svolti attraverso procedure interamente gestite con sistemi telematici, sistemi dinamici di acquisizione o mediante ricorso al mercato elettronico, nonché quelli relativi ai settori speciali per i quali una nuova delibera stabilirà il regime.
Dal giorno successivo, le dichiarazioni relative agli appalti di importo a base d'asta pari o superiore a 40 mila euro dovranno obbligatoriamente essere verificate tramite Avcpass (articolo ItaliaOggi del 14.06.2013).

CONDOMINIOCondominio solare. Il fotovoltaico, se c'è maggioranza. La riforma (in vigore dal 18/6) apre al bonus del 65%.
Sarà più semplice installare impianti per la produzione di energia rinnovabile sulle parti comuni dell'edificio: si abbassa infatti il quorum delle assemblee di condominio. La legge di riforma del condominio, al countdown per l'entrata in vigore dal 18 giugno prossimo, prescrive infatti che con la maggioranza dei presenti all'assemblea e la metà del valore dell'edificio si possa decidere sulle innovazioni che riguardano gli impianti fotovoltaici.
Ora, va ricordato che l'articolo 14 del decreto legge 63/2013, prevede che siano agevolati con detrazione fiscale del 65% fino al 30/6/2014 gli interventi di riqualificazione energetica su parti comuni dei condomini, o su tutte le unità immobiliari del condominio. Dunque, l'agevolazione c'è, ma ne restano esclusi impianti di riscaldamento, impianti geotermici e scaldacqua a pompa di calore, già agevolati dal conto termico.
Cosa cambia. Dal 18 giugno con decisione a maggioranza sarà possibile installare impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili sul lastrico solare negli edifici condominiali o nella parti private dei singoli condomini. Condomini che potranno deliberare la realizzazione di interventi per la riduzione dei consumi energetici dell'edificio e la produzione di energia. Sia attraverso impianti di cogenerazione sia attraverso fonti rinnovabili.
A prevederlo è l'art. 7 della legge 220/2012 (che, come detto, entra in vigore il 18 giugno prossimo, decorsi sei mesi di tempo per prepararsi alle novità).
La legge riforma l'intera disciplina del condominio. E l'art. 7 introduce un nuovo articolo nel codice civile: dopo l'articolo 1122 inserisce il 1122-bis. Questo dispositivo consente l'installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili destinati al servizio di singole unità del condominio sul lastrico solare, su ogni altra idonea superficie comune e sulle parti di proprietà individuale dell'interessato. Qualora si rendano necessarie modifiche di parti comuni, l'interessato ne dovrà dare comunicazione all'amministratore indicando il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli interventi.
L'assemblea potrà anche stabilire modalità alternative di esecuzione o imporre cautele a salvaguardia di stabilità, sicurezza o decoro architettonico dell'edificio stesso.
E, ai fini dell'installazione degli impianti di risparmio energetico, la stessa assemblea provvederà, dietro richiesta degli interessati, a ripartire l'uso del lastrico solare e delle altre superfici comuni, salvaguardando diverse forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio (articolo ItaliaOggi del 14.06.2013).

TRIBUTIIl verde edificabile. Aree e parcheggi, si può costruire. Una sentenza della Ctr Lazio va contro la Cassazione.
In tema di edificabilità dei terreni, il terreno inserito in una zona destinata a verde pubblico e parcheggi può essere ritenuto edificabile; infatti la capacità edificatoria della superficie può essere trasferita su altre aree contigue nella medesima sottozona, ivi utilizzandone, a potenziali fini edificatori complessivi, la pur limitata volumetria.
Queste motivazioni si leggono nella sentenza 04.04.2013 n. 147/38/13 emessa dalla Sez. XXXVIII della Commissione tributaria regionale del Lazio.
L'Agenzia delle entrate di Roma 5, aveva emesso un avviso di liquidazione e rettifica relativamente alla compravendita di un terreno avente una destinazione urbanistica inserita in zona F sottozona F/5 «spazi pubblici riservati alle attività collettive, a verde pubblico e a parcheggi». A parere delle Entrate, quindi, essendo il terreno edificabile, la base imponibile ai fini dell'imposta di registro, doveva essere quantificata in base al valore di mercato. I contribuenti ricorrevano contro questo atto sostenendo che al terreno non poteva essere attribuito alcun maggior valore; il terreno, infatti, non era edificabile e per di più era di soli mq 915 precludendo ogni possibile attività edificatoria.
La Commissione provinciale rigettava il ricorso.
La decisione è stata confermata dai colleghi di seconda istanza, che condannando i ricorrenti alle spese, hanno stabilito che, secondo un consolidato orientamento giurisdizionale, in ordine alla definizione di area edificabile, è sufficiente l'inserimento in uno strumento urbanistico generale anche soltanto adottato e non ancora approvato; «si deve osservare» osservano i giudici romani d'appello, «che la zona in cui è ubicato il terreno oggetto della compravendita risulta inserita nel piano regolatore generale adottato dal comune ed approvato dalla regione già al momento del negozio traslativo». Da considerare che la possibilità di trasferire la capacità edificatoria sopra un area contigua, è stato determinante ai fini della decisione.
Di diverso parere la Corte di cassazione. I giudici di piazza Cavour nella Sentenza n. 25522/2011 hanno invece stabilito che, «ai fini fiscali, la destinazione di un terreno ad attrezzature sportive prevista dal piano regolatore comunale con l'attribuzione di un indice di edificabilità minimo funzionale alla realizzazione di strutture collegate a tale destinazione, impedisce la qualificazione dell'area come «suscettibile di utilizzazione edificatoria», e comporta la definizione della base imponibile con il criterio tabellare ai sensi della previsione di cui all'articolo 52, comma 4, del dpr n. 131/1986» (articolo ItaliaOggi del 14.06.2013 - tratto da www.fiscooggi.it).

APPALTILa Centrale unica può attendere. Slitta il nuovo sistema di acquisizione di lavori e servizi. Un emendamento approvato al senato proroga l'entrata in vigore al 31 dicembre.
Differita al 31.12.2013 l'entrata in vigore della Centrale unica di committenza per i comuni con popolazione non superiore a 5 mila abitanti.

Lo stabilisce un emendamento approvato dal senato al disegno di legge n. 576, di conversione del decreto legge 26.04.2013, n. 43.
La disposizione, introdotta dal decreto legge 201/2011 (articolo 23, comma 5) sarebbe dovuta entrare in vigore per i bandi pubblicati dopo il 31.03.2013, sono quindi fatti salvi i bandi e gli avvisi di gara pubblicati a far data dal 01.04.2013 fino alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge.
«La previsione della costituzione obbligatoria, entro il 31.03.2013, della Centrale unica di committenza per l'acquisizione di lavori, servizi e forniture, prevista per i comuni con popolazione inferiore ai 5 mila abitanti, rischiava di determinare un ulteriore elemento di incertezza e di blocco degli investimenti locali», afferma il coordinatore nazionale Anci dei piccoli comuni, Mauro Guerra.
«L'attuazione della Centrale unica di committenza sta già provocando notevoli difficoltà attuative e interpretative nelle imprese operanti nei territori dei piccoli comuni che amministrano il 54% del territorio nazionale», aggiunge Guerra, evidenziando la forte e diffusa preoccupazione di un sistema imprenditoriale in palese sofferenza.
La proroga dell'entrata in vigore della Centrale unica di committenza è destinata a semplificare la vita a molte amministrazioni locali sotto i 5 mila abitanti alle prese con gli obblighi di gestione associata che impongono la cogestione delle nove funzioni fondamentali indicate dalla spending review entro il 01.01.2014.
«Migliaia di piccoli comuni, pur nella difficoltà del quadro attuale, si stanno adoperando per cercare di adempiere, entro la fine del 2013, al complesso degli obblighi di gestione associata delle funzioni fondamentali in Unione o convenzione. L'affidamento obbligatorio a un'unica Centrale di committenza avrebbe complicato le cose», sottolinea il parlamentare del Pd.
«È evidente l'irrazionale difformità dei termini previsti per entrambi gli adempimenti con l'aggravio della previsione della Centrale unica di committenza associata prima ancora che i piccoli comuni abbiano definito i loro nuovi assetti di cooperazione intercomunale», ha aggiunto Guerra.
L'Anci era più volte intervenuta chiedendo almeno una proroga al 31/12/2013, in allineamento con la definizione delle gestioni associate obbligatorie delle funzioni fondamentali, oltre a sollecitare ogni possibile chiarimento rispetto alle corrette modalità attuative di tale obbligo.
«Auspichiamo quindi», conclude Guerra, «che tale differimento venga confermato nei successivi passaggi parlamentari» (articolo ItaliaOggi del 14.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Bollo più caro. Per l'Abruzzo. L'imposta aumenta per coprire 1,2 miliardi di euro. È quanto prevede un emendamento al decreto emergenze approvato ieri dal senato.
Un miliardo e 200 milioni di euro in più per la ricostruzione in Abruzzo. A pagare saranno i contribuenti attraverso l'aumento dell'imposta di bollo in misura fissa. La marca da bollo da 1,81 e quella da 14,62 euro, a prescindere dal contesto di utilizzo, diventeranno rispettivamente di 2 di 16 euro.
Così facendo lo stato potrà assicurare tra il 2014 e il 2019 circa 197 milioni annui per la riparazione di immobili danneggiati o l'acquisto di nuove abitazioni sostitutive.
È quanto prevede uno degli emendamenti al dl n. 43/2013, approvato ieri dal senato in prima lettura.
Ma arrivano pure nuove agevolazioni alle imprese emiliane colpite dal sisma del 2012: dalla facoltà di «congelare» civilisticamente per cinque anni le perdite di esercizio maturate lo scorso anno (senza quindi dover ricapitalizzare la società) alla possibilità di ricostruire gli immobili strumentali danneggiati con un bonus volumetrico fino al 20%, previo assenso del comune.
Una nuova tornata di misure interessa pure gli enti locali coinvolti dai terremoti del 2002, del 2009 e del 2012. A cominciare dalla deroga al patto di stabilità, i cui obiettivi saranno ammorbiditi con le procedure previste per il patto regionale verticale per 50 milioni di euro in Emilia-Romagna, per 5 milioni in Lombardia e in Veneto, per 30 milioni in Abruzzo e per 15 milioni in Molise.
Terremoto Emilia. Vengono concessi sei mesi in più per completare le verifiche di sicurezza su capannoni ed edifici prefabbricati, volte al rilascio della certificazione di agibilità sismica: il termine, già prorogato dalla legge n. 213/2012, era in scadenza il 07.06.2013, ma ora ci sarà tempo fino a dicembre. Autorizzata fino a tutto il 2014 l'assunzione di personale extra con contratti flessibili per fronteggiare situazioni emergenziali. A beneficiare del permesso saranno i comuni colpiti dal sisma (che si spartiranno l'80% del budget, pari nel triennio a circa 24 milioni di euro), la struttura commissariale istituita presso la regione Emilia-Romagna (16% delle risorse) e le prefetture delle province di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia (4%).
Con effetto già sull'esercizio in corso al 31.12.2012, per le imprese che hanno sede o unità locali nei comuni terremotati le perdite accumulate non rileveranno per cinque anni ai fini degli artt. 2446, 2447, 2482-bis, 2482-ter, 2484, 2545-duodecies c.c. Si tratta delle disposizioni che disciplinano la riduzione del capitale sociale per perdite e le connesse ipotesi di scioglimento o trasformazione societaria. Precisato inoltre che i finanziamenti agevolati per la ricostruzione non concorrono alla formazione del reddito d'impresa né ai fini Irap.
Terremoto Abruzzo. Stanziati 1,8 milioni di euro a favore della provincia de L'Aquila per il pagamento dei canoni di locazione nel 2013 delle sedi istituzionali, in attesa della ricostruzione. Arrivano criteri standard per l'assegnazione degli alloggi nel capoluogo aquilano: il sindaco dovrà dare precedenza, tra gli altri, alle nuove coppie formate dopo il sisma o ai nuovi nuclei monoparentali di cui almeno un componente abbia la casa inagibile. Concessa la proroga ai contratti a tempo determinato dei lavoratori assunti dal municipio sulla base della normativa emergenziale (dirigenti inclusi).
Varata dal senato anche la modifica secondo cui i pagamenti degli stati di avanzamento lavori (Sal) degli edifici privati successivi al primo Sal sono effettuati solo a fronte di autocertificazione rilasciata dall'amministratore di condominio o dal proprietario beneficiario: il documento deve attestare l'avvenuto pagamento di tutte le fatture dei fornitori relative ai lavori effettuati fino a quel momento. Garantita infine la prosecuzione delle attività di rimozione delle macerie, anche attraverso l'impiego di vigili del fuoco e forze armate. Semplificata la disciplina per la gestione delle terre e rocce da scavo.
Turismo. Le competenze statali sul turismo passano di mano. Con una disposizione introdotta ex novo nel ddl di conversione, le funzioni esercitate da palazzo Chigi in materia di turismo vengono trasferite al ministero dei beni culturali. Con un apposito dpcm saranno spostate anche le relative risorse umane, strumentali e finanziarie, senza alcun aggravio per la finanza pubblica (articolo ItaliaOggi del 13.06.2013).

EDILIZIA PRIVATAL'attestato energetico va inserito anche nelle locazioni. Nuovi obblighi. Il Dl 63/2013 uniforma le regole sui certificati green.
Accelera la certificazione energetica degli edifici. Cambiano le regole per il rilascio degli attestati, che dovranno essere allegati sia ai contratti di vendita che ai nuovi contratti di locazione, con pesanti sanzioni per chi non rispetterà le nuove regole.
Sono in vigore dal 6 giugno scorso le nuove disposizioni introdotte dal Dl 63/2013, che recepisce la direttiva 2010/31/Ue. In risposta alla procedura di infrazione avviata lo scorso settembre dalla Commissione Ue, il Governo ha scelto di fissare nuovi requisiti e uniformarli a livello nazionale. L'attestato, rilasciato da un professionista abilitato, avrà una durata di 10 anni dal momento del rilascio e dovrà essere aggiornato ad ogni ristrutturazione o riqualificazione che interviene sulle performance energetiche dell'immobile.
Negli edifici pubblici con superficie maggiore ai 500 mq (250 mq dal 2015) dovrà essere esposto «in un luogo ben visibile». Durante le trattative private, invece, venditori e locatari dovranno «renderlo disponibile» e nei contratti dovrà essere inserita un'apposita clausola di "presa visione". Se si tratta di una nuova costruzione, la futura prestazione energetica dovrà essere messa in «evidenza» e l'attestato dovrà essere prodotto congiuntamente alla dichiarazione di fine lavori.
A coinvolgere i certificatori, che finora hanno operato facendo lo slalom tra le differenti disposizioni regionali, è la promessa di un decreto che definirà un modello unico sul territorio nazionale per i contenuti dell'attestato: a definirlo sarà il ministero dello Sviluppo Economico e diventerà obbligatorio in tutte le Regioni e Province autonome. Per quanto riguarda gli annunci commerciali di vendita o locazione, tramite qualsiasi mezzo di comunicazione, dovranno tutti riportare l'Indice di prestazione (Ipe) dell'involucro edilizio e quello globale dell'edificio o dell'unità immobiliare, e la classe energetica corrispondente. Altrimenti, «il responsabile dell'annuncio» è punito con una sanzione amministrativa non inferiore a 500 euro e non superiore a 3mila.
Inoltre, la sanzione amministrativa per i proprietari che non si doteranno dell'attestato nell'ambito di una trattativa di compravendita va da 3mila a 18mila euro; nel caso di nuova locazione, invece, da 300 a 1.800 euro. «In questo momento –ha ricordato il presidente della Confedilizia, Corrado Sforza Fogliani– se c'è una cosa che non ha bisogno di essere ulteriormente scoraggiata, con l'imposizione di nuovi oneri, è la locazione e in particolare quella dei proprietari diffusi. La direttiva europea prevede che gli Stati membri possano rinviare fino al 31.12.2015 l'applicazione delle disposizioni. Auspichiamo che il Parlamento si avvalga di questa facoltà» (articolo Il Sole 24 Ore - Casa 24 PLUS del 13.06.2013 - tratto da www.fiscooggi.it).

APPALTI: Appalti, rinvio per le verifiche. Solo dal 2014 riscontro dei requisiti tramite Avcpass.  Il consiglio dell'organismo di vigilanza pronto a prorogare la scadenza di ottobre.
Verso la proroga a fine anno dell'obbligo di verifica dei requisiti tramite il sistema informatico dell'Avcpass; è quanto starebbe per deliberare, stando ad alcune dichiarazioni filtrate dalla stessa Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, lo stesso Consiglio dell'organismo di vigilanza.
Finirebbe quindi per entrare in vigore pienamente soltanto ad inizio 2014 l'obbligo per le stazioni appaltanti di verifica dei requisiti dichiarati dai concorrenti attraverso il sistema previsto dall'articolo 6-bis del codice dei contratti pubblici che, in realtà, sarebbe dovuto divenire operativo, per legge, dal primo gennaio 2013, mettendo in linea tutte le banche dati della pubblica amministrazioni e le informazioni fornite in via informatica dagli operatori economici.
A regime il sistema Avcpass dovrebbe snellire gli oneri per gli appaltatori (che caricheranno su un fascicolo virtuale documenti che oggi fotocopiano per ogni gara); e rendere più veloci le verifiche attraverso la consultazione on-line delle banche dati da parte delle stazioni appaltanti. Ad oggi, le scadenze previste dalla delibera n. 111 del 20.12.2012 sarebbero tali da fare scattare, dopo il periodo facoltativo partito a gennaio 2013, in assenza di una proroga, un vero e proprio obbligo di utilizzazione della piattaforma informatica dell'Avcpass dal primo luglio 2013 per gli appalti oltre i 150.000 euro e dal primo ottobre 2013 per i contratti di valore superiore a 40.000 euro.
L'ipotesi, stando alle voci che circolano in questi giorni, danno per scontato uno slittamento a fine anno della scadenza del primo ottobre (contratti oltre 40.000 euro). Diverse le ragioni che porterebbero allo slittamento dei termini; in primis la difficoltà di completare i test sul sistema in tempo utile date la complessità delle procedure e le diverse tipologie di contratti coinvolti (lavori, forniture e servizi), ognuno con le sue ulteriori tipicità.
Anche dagli incontri che la stessa Autorità sta organizzando in queste ultime settimane con operatori pubblici e privati sembrerebbero emergere diversi problemi applicativi tali da suggerire uno slittamento dei termini per avere il tempo di mettere in linea correttamente tutte le banche dati e testare a dovere il sistema (articolo ItaliaOggi del 12.06.2013).

CONDOMINIOLA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Condominio, le maggioranze ora non sono più agevolate. La legge 220/2012 ostacola l'utilizzo delle corsie preferenziali per raggiungere il quorum.
Un vero e proprio giallo sulle maggioranze agevolate. Con la legge n. 220/2012 di riforma della disciplina del condominio negli edifici, che entrerà in vigore la prossima settimana, diventerà per esempio più difficile installare un ascensore in un edificio condominiale giovandosi di quello che fino a oggi era il canale preferenziale dell'abbattimento delle cosiddette barriere architettoniche.
La nuova legge, che pure ha generalmente abbassato i quorum necessari per l'approvazione delle deliberazioni assembleari, anche se nel lodevole intento di far confluire nel codice civile gran parte delle disposizioni speciali che prevedevano maggioranze agevolate per le innovazioni di carattere sociale, ha però comportato, per un probabile errore di coordinamento testuale, un deciso innalzamento di alcune delle predette maggioranze. Tanto da far fortemente dubitare che in questi casi, salvo un auspicabile nuovo intervento legislativo, possa continuarsi a parlare di maggioranze agevolate.
L'efficacia delle deliberazioni assembleari e i criteri per l'individuazione della maggioranza. Il criterio individuato dalla legge per la formazione della volontà del condominio è il c.d. principio maggioritario. In base a esso la volontà della maggioranza vale per tutti i comproprietari, vincolando anche la minoranza dissenziente.
Tuttavia sono numerosi i contrappesi inseriti dal legislatore per equilibrare la posizione della minoranza dei condomini. Innanzitutto a questi ultimi è garantita la possibilità di invertire le sorti della votazione tramite la forza persuasiva delle proprie argomentazioni esposte durante la discussione assembleare. La minoranza, inoltre, ha sempre la possibilità di impugnare le deliberazioni che ritenga illegittime e dunque pregiudizievoli dei propri interessi, come garantito dall'art. 1337 c.c. (si veda l'altro articolo di questa settimana).
Ma una ulteriore e importante contromisura è certamente rappresentata dal sistema di votazione assembleare. Da un primo punto di vista, infatti, il legislatore ha inteso contemperare le maggioranze numeriche frutto del voto espresso da ciascun condomino (c.d. voto per testa) con quelle derivanti dai millesimi di proprietà attribuiti a ciascuno di essi. Il codice civile ha poi individuato in modo preciso le maggioranze necessarie per l'adozione delle varie deliberazioni di competenza dell'assemblea (c.d. quorum), distinguendo quelle necessarie alla costituzione della riunione condominiale (c.d. quorum costitutivo) da quelle richieste per la validità della decisione (c.d. quorum deliberativo). L'indicazione delle maggioranze che, volta per volta, il legislatore ha ritenuto opportune per l'adozione di una determinata deliberazione rappresenta il frutto di una scelta discrezionale compiuta proprio nell'interesse del condominio e dei singoli condomini. In altre parole, esse costituiscono il contemperamento degli opposti interessi della collettività condominiale.
Le maggioranze semplici. Il nuovo art. 1136, comma 1, c.c., prevede ora dei quorum più bassi e richiede, per l'assemblea in prima convocazione, un quorum costitutivo di condomini che rappresentino i due terzi del valore dell'edificio e la maggioranza (non più dei due terzi) dei partecipanti al condominio, e un quorum deliberativo della maggioranza degli intervenuti e di almeno la metà del valore dell'edificio.
Tuttavia è raro che le assemblee si svolgano in prima convocazione, in quanto le maggioranze prescritte dalla legge per le riunioni in seconda convocazione sono molto più basse e, di conseguenza, facilitano il raggiungimento del numero di voti necessario all'adozione delle singole deliberazioni. Il nuovo art. 1136, n. 3, c.c., ha quindi introdotto per la prima volta un quorum costitutivo anche per l'assemblea in seconda convocazione, pari a un terzo dei partecipanti al condominio e a un terzo del valore dell'edificio, mentre il quorum deliberativo è stato diminuito alla maggioranza degli intervenuti che rappresenti un terzo del valore dell'edificio.
Per quanto riguarda le materie per le quali è sufficiente il raggiungimento della maggioranza semplice, in prima o in seconda convocazione, che, facendo applicazione di un criterio di residualità, sono tutte quelle che non rientrino nelle competenze dell'assemblea e per le quali la legge non preveda una maggioranza qualificata o agevolata, si segnalano, a titolo esemplificativo, la manutenzione ordinaria, l'approvazione del bilancio preventivo, la ripartizione del bilancio preventivo tra i condomini, l'approvazione del bilancio consuntivo, l'impiego degli eventuali residui attivi della gestione ecc.
Le maggioranze qualificate. In una serie di casi, invece, il legislatore ha preferito derogare alle maggioranze semplici di cui sopra e ha previsto delle maggioranze qualificate, che richiedono un numero di voti maggiore per l'adozione delle deliberazioni assembleari. Si tratta di numerose disposizioni codicistiche, molte delle quali introdotte proprio dalla legge n. 220/2012, che prevedono dei quorum deliberativi particolari nelle ipotesi di nomina e revoca dell'amministratore, liti attive e passive relative a materie che esorbitano dalle attribuzioni dell'amministratore, ricostruzione dell'edificio, riparazioni straordinarie di notevole entità, approvazione e modifica del regolamento condominiale, scioglimento del condominio, innovazioni dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni, modificazioni e tutela delle destinazioni d'uso, videosorveglianza delle parti comuni, nomina del revisore dei conti del condominio ecc.
Le maggioranze agevolate. La legislazione speciale successiva all'entrata in vigore del codice civile aveva man mano previsto tutta una serie di ipotesi nelle quali, allo scopo di agevolare l'adozione di delibere assembleari per la realizzazione di particolari interventi di interesse sociale, erano state previste delle maggioranze agevolate rispetto a quelle ordinariamente necessarie in caso di innovazioni.
Si pensi alle opere finalizzate all'abbattimento delle c.d. barriere architettoniche (legge n. 13/1989), alla realizzazione dei parcheggi per gli autoveicoli (legge n. 122/89), al riscaldamento (legge n. 10/1991, dlgs n. 311/2006, legge n. 99/2009), alle antenne e agli impianti satellitari (legge n. 249/97, legge n. 66/2001), alle infrastrutture di ricarica elettrica dei veicoli (legge n. 134/2012).
Il nuovo art. 1120 c.c. introdotto dalla legge di riforma del condominio ha però comportato un deciso innalzamento di alcune delle maggioranze previste in precedenza, tanto da far fortemente dubitare che nei casi dell'abbattimento delle barriere architettoniche e dell'installazione delle antenne e degli impianti satellitari, salvo un auspicabile intervento legislativo, possa continuarsi a parlare di maggioranze agevolate. In tema di riscaldamento, invece, il già difficile e articolato quadro normativo sembra essere stato ulteriormente complicato, non essendo del tutto chiaro, dalla lettura combinata degli articoli 5 e 28 della legge n. 220/2012, quali siano le fattispecie realmente prese di mira dal legislatore.
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Delibera invalida con citazione. La riforma detta le regole per l'impugnazione. Atto da indirizzare al giudice competente.
Delibere condominiali da impugnare con atto di citazione. Che di per sé non comporta la sospensione dell'esecuzione della volontà assembleare, salvo che quest'ultima sia richiesta al giudice con apposita istanza, anche precedente all'impugnazione. La nuova legge n. 220/2012 di riforma della disciplina del condominio, che entrerà in vigore la prossima settimana, ha riscritto le regole per l'impugnazione delle deliberazioni assembleari, con importanti chiarimenti sui principali snodi del relativo procedimento.
Le delibere annullabili, in base all'art. 1137 c.c., possono essere impugnate giudizialmente dai condomini dissenzienti e da quelli astenuti, nonché da quelli che non abbiano partecipato all'assemblea, nel termine di decadenza di 30 giorni, decorrente per i primi dalla data dell'assemblea e per questi ultimi dalla data di comunicazione del relativo verbale.
L'invalidità delle deliberazioni assembleari. Quello dell'invalidità delle deliberazioni assembleari costituisce da sempre un tema particolarmente delicato nell'ambito del diritto condominiale. La tradizionale distinzione fra ipotesi di nullità e annullabilità, in mancanza di precise indicazioni da parte del legislatore, ha infatti portato all'elaborazione di una casistica giurisprudenziale quanto mai intricata e, a volte, contraddittoria.
Con il nuovo art. 1137 c.c. il legislatore, facendo propri i più recenti sviluppi giurisprudenziali, ha eliminato alla radice qualsiasi dubbio sull'applicabilità della procedura di impugnazione ivi disciplinata anche ai casi di nullità delle delibere condominiali. Nella nuova disposizione si parla infatti espressamente di annullamento delle deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio da promuovere dinanzi alla competente autorità giudiziaria nel termine perentorio di trenta giorni. Mentre in precedenza si poteva equivocare se l'azione diretta a fare accertare in giudizio l'invalidità delle delibere comprendesse o meno anche i casi di nullità delle stesse, la nuova versione dell'art. 1137 c.c. chiarisce in modo definitivo che la stessa è finalizzata esclusivamente all'accertamento dell'annullabilità della volontà assembleare. Resta quindi inteso che eventuali ragioni di nullità potranno essere contestate, in base alle regole generali, da chiunque vi abbia interesse con un ordinario procedimento giurisdizionale di accertamento da avviare negli ordinari termini di prescrizione del diritto.
La legittimazione all'azione. Per poter impugnare una deliberazione assembleare è necessario che chi agisce in giudizio sia fornito della relativa legittimazione. Anche in questo caso la norma di riferimento è il nuovo art. 1337 c.c., che ha specificato come la stessa spetti tanto ai condomini presenti in assemblea e che abbiano votato in senso contrario all'approvazione della delibera quanto a quelli assenti quanto, infine, a quelli che, pur avendo partecipato alla riunione condominiale, si siano astenuti dal voto. Il termine di decadenza di 30 giorni per l'impugnazione decorre dalla data dell'assemblea per i dissenzienti e gli astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti. A parte le ipotesi di nullità, la legittimazione attiva all'impugnazione delle deliberazioni condominiali spetta di regola solo ai condomini, ovvero ai proprietari delle unità immobiliari site in condominio.
Le modalità dell'impugnazione delle deliberazioni assembleari. Il secondo comma del vecchio art. 1137 c.c., nell'attribuire ai condomini il potere di impugnare le deliberazioni invalide, qualificava come «ricorso» l'atto introduttivo del relativo giudizio. Ciò sembrava comportare un'evidente deroga al sistema ordinario, che prevede che il giudizio civile sia introdotto mediante citazione a udienza fissa. Anche in questo caso è bastato poco al legislatore per risolvere un'annosa questione che, sebbene di recente dipanata dalla giurisprudenza di legittimità, poteva comunque risultare insidiosa dal punto di vista pratico e originare nuovo contenzioso.
Nel nuovo art. 1137 c.c. sparisce quindi la parola «ricorso», risolvendo brillantemente la questione se detto termine dovesse essere inteso in senso tecnico o atecnico e se l'impugnazione delle deliberazioni dovesse quindi avvenire con ricorso o con atto di citazione. La nuova disposizione si limita infatti a enunciare che chi intende impugnare una deliberazione assembleare che si assuma contraria alla legge o regolamento di condominio deve chiederne l'annullamento all'autorità giudiziaria entro il termine di 30 giorni. Se ne deve concludere che, come è naturale, la questione di quale sia il mezzo tecnicamente appropriato per svolgere la suddetta impugnazione in sede giudiziaria sia di tipo squisitamente processuale, come tale da risolvere alla luce dei criteri indicati dal vigente codice di procedura civile. Ora, rientrando il procedimento in questione tra quelli ordinari, non si può che concludere che l'impugnazione giudiziale delle deliberazioni assembleari debba essere introdotta con atto di citazione.
La sospensione dell'efficacia della deliberazione condominiale. Con gli ultimi due commi del novellato art. 1337 c.c. il legislatore ha quindi voluto ulteriormente chiarire la questione della sospensione dell'efficacia della delibera condominiale impugnata. Se, infatti, il vecchio testo della citata disposizione si limitava a prevedere che il ricorso per non sospendeva di per sé l'esecuzione della deliberazione, ma che era comunque necessario uno specifico provvedimento dell'autorità giudiziaria, l'ultimo comma del nuovo art. 1337 c.c. si occupa specificamente di disciplinare, seppure in via soltanto analogica, il procedimento da seguire per richiedere al giudice di pronunciarsi sulla sussistenza o meno delle condizioni per ottenere la sospensione dell'efficacia dell'atto impugnato.
L'istanza di sospensione in questione, secondo i criteri ordinari, può essere proposta tanto in costanza di causa quanto anteriormente alla stessa. Limitatamente a quest'ultimo caso il legislatore ha però inteso specificare che l'istanza di sospensione dell'efficacia di una delibera condominiale proposta autonomamente e anteriormente all'avvio della causa di merito non sospende il termine di decadenza di 30 giorni di cui al medesimo art. 1337 c.c. ovvero, detto in altri termini, non equivale all'atto di impugnazione della volontà assembleare.
A quale giudice rivolgersi. L'atto di citazione per l'impugnazione della deliberazione condominiale sarà volta per volta indirizzato al giudice competente per territorio e per valore. Quanto al primo aspetto occorre evidenziare come l'art. 23 c.p.c., adeguatamente riformulato dal legislatore con la recente legge n. 220/2012, stabilisca espressamente che per le cause tra condomini e tra condomini e condominio sia competente il giudice del luogo in cui si trovano i beni comuni o la maggior parte di essi (articolo ItaliaOggi Sette del 10.06.2013).

EDILIZIA PRIVATAEdilizia, sconti a lunga durata. Per gli interventi importanti incentivi fino a fine 2014. Il dl che proroga la detrazione per le ristrutturazioni e potenzia il bonus energetico.
Rafforzamento degli incentivi edilizi ad appeal progressivo. La proroga della detrazione per le ristrutturazioni e il bonus energetico potenziato al 65% saranno operativi per interventi promossi entro fine anno; tuttavia, per gli interventi di riqualificazione «importanti» lo sconto sconfinerà a tutte le opere poste in essere nel 2014.
Il decreto legge approvato il 31.05.2013 dal Consiglio dei ministri, introduce, accanto al recepimento della direttiva comunitaria 2010/31/Ue, importanti e attesi provvedimenti in tema di incentivi alla riqualificazione, non solo energetica, del patrimonio immobiliare nazionale.
Al di là delle finalità comunitarie, riassunte nella tabella in pagina, l'articolo 14 del decreto potenzia l'attuale regime di detrazioni fiscali del 55% per gli interventi di miglioramento dell'efficienza energetica degli edifici, in scadenza al 30.06.2013; accanto alla proroga dell'incentivo compare l'aumento della percentuale di detrazione al 65%, con una importante differenziazione a favore degli interventi strutturali sull'involucro edilizio, ossia di quelli destinati a ridurre definitivamente il fabbisogno di energia.
La detrazione del 65% si applica sulle spese sostenute dal 01.07.2013 al 31.12.2013 per gli interventi di riqualificazione energetica effettuati sull'involucro dell'edificio o dell'unità immobiliare esistente, ivi comprese le parti comuni degli edifici condominiali ai sensi degli articoli 1117 e 1117-bis del codice civile. Si tratta di interventi concentrati sulla struttura edilizia dell'edificio, con estensione globale o parziale (pavimenti, coperture), e le finestre, comprensive di infissi.
Alcuni interventi restano esclusi dalla misura per il semplice fatto che gli stessi sono ricompresi in diverse norme agevolative. È il caso della spesa per gli impianti di produzione di energia termica (pannelli solari per uso termico e pompe di calore) che gode dello specifico incentivo equivalente o dei costi per l'istallazione e l'acquisto di caldaie a condensazione, ricomprese nelle opere che possono comunque accedere alla detrazione del 50% per ristrutturazioni edilizie.
Come anticipato l'incentivo è incrementato (non quantitativamente ma temporalmente) per gli «interventi di riqualificazione energetica importanti». Vengono così definiti quelli che implicano la riqualificazione di almeno il 25% della superficie dell'involucro. Il tutto con lo scopo di favorire la riqualificazione strutturale e definitiva del patrimonio immobiliare.
Questi interventi necessitano, fisiologicamente, di un periodo più ampio per l'esecuzione dei lavori, anche per la maggiore complessità e per i più lunghi tempi di progettazione e autorizzazione che impedirebbero di completare le opere entro un semestre. In considerazione dei tempi tecnici necessari per assumere le decisioni a livello condominiale e per la realizzazione di interventi sull'involucro edilizio, in particolare per i progetti che riguardano gli edifici plurifamiliari, le detrazioni in questione sono quindi previste per interventi realizzati nel periodo dal 01.07.2013 al 31.12.2014.
In verità il rafforzamento dell'incentivo, per le opere più importanti, non si esaurisce con la maggior durata; per queste ristrutturazioni complete è prevista la possibilità di portare in detrazione anche le spese per l'acquisizione per alcune tipologie di impianti di climatizzazione ad alta efficienza (caldaie a condensazione).
Un ultimo importante intervento attiene alla introduzione di apposite tabelle che individuano i nuovi «tetti» massimi alla spesa detraibile e, soprattutto, parametri di «costo unitario massimo» ammissibile per tipo di intervento, al fine di tenere sotto controllo gli oneri ed evitare traslazioni indebite dell'incentivo sui prezzi di mercato, come verificato nell'esperienza fin qui maturata. In tal modo, i valori di costo massimi sono compatibili con interventi in edifici di media grandezza, costituiti da un numero variabile tra 25 e 35 unità immobiliari indipendenti.
La volontà dichiarata è quella di fornire un forte impulso all'economia di settore e in particolare al comparto dell'edilizia specializzata, caratterizzato da una forte base occupazionale, concorrendo in questo momento di crisi al rilancio della crescita e dell'occupazione e allo sviluppo di un comparto strategico per la crescita sostenibile.
In tale ottica sono altresì importanti gli interventi in materia di prestazione energetica, come illustrati dalla tabella. In particolare importante appare la definizione di «edifici a energia quasi zero» e viene redatta una strategia per il loro incremento. Entro il 31.12.2020 tutti gli edifici di nuova costruzione dovranno essere a «energia quasi zero». Gli edifici di nuova costruzione occupati dalle amministrazioni pubbliche e di proprietà di queste ultime dovranno rispettare gli stessi criteri a partire dal 31.12.2018.
Viene, infine, previsto un sistema di certificazione della prestazione energetica degli edifici che comprenda informazioni sul consumo energetico, nonché raccomandazioni per il miglioramento in funzione dei costi (articolo ItaliaOggi Sette del 10.06.2013).

PUBBLICO IMPIEGOAssistenza ai disabili garantita.
Le ferie non riducono il diritto ai tre giorni di permesso mensili che spetta al lavoratore che presta assistenza a familiari disabili (legge n. 104/1992). Lo stesso per malattia e festività, per maternità e permessi sindacali; in tutte queste ipotesi i tre giorni restano tali.

Il principio fissato dal Ministero del lavoro (
interpello 01.08.2012 n. 24/2012) vuole che il lavoratore conservi il diritto a fruire dei tre giorni di permesso mensili in quanto aventi natura, funzione e caratteri diversi.
Il principio apre a due differenti trattamenti. Da una parte diventa illegittimo riproporzionare i tre giorni di permesso mensili sulla base dell'attività lavorativa effettivamente svolta, qualora il lavoratore abbia legittimamente beneficiato di altre tipologie di permessi o congedi a lui spettanti; d'altra parte diventa legittimo riproporzionare i permessi nei casi in cui ci sia stata riduzione di attività lavorativa per altri motivi.
In tal caso il riproporzionamento del numero dei giorni mensili di permesso disabili è possibile e avviene in base ai criteri indicati dall'Inps, per cui viene concesso un giorno di permesso ogni dieci giorni di assistenza continuativa e, per periodi inferiori a dieci giorni, non si ha diritto a nessuna giornata di permesso (articolo ItaliaOggi Sette del 10.06.2013).

URBANISTICAProcedure. Norme regionali sulla valutazione ambientale strategica - Solo Sicilia e Basilicata hanno regole precedenti la direttiva Ue.
Piani urbanistici, Vas in formato locale. Puglia e Marche esonerano dall'esame di impatto le varianti con scambio di cubature.

È un cantiere aperto quello delle leggi con cui le Regioni recepiscono le norme europee e nazionali sulla valutazione ambientale strategica (Vas) di piani e programmi di intervento. Di recente l'Associazione dei costruttori (Ance) ha fatto il punto con un monitoraggio delle disposizioni delle singole Regioni.
Di fatto solo Sicilia e Basilicata non si sono ancora dotate di una propria regolamentazione della Vas e continuano ad applicare la legge statale oppure norme regionali approvate prima della direttiva europea. Mentre, sul fronte degli aggiornamenti, le ultime novità arrivano dalla Liguria che ha appena fornito le linee guida per applicare la propria legge del 2012 e dalla Puglia che ha individuato a fine 2012 gli ambiti di esclusione dalla Vas. Diverse altre Regioni, comunque, hanno rivisto con aggiornamenti la propria disciplina (si veda la tabella a fianco).
Gli obiettivi
Tra le diverse procedure pubbliche poste a salvaguardia dell'ambiente, gli esiti della Vas offrono un quadro di riferimento per le valutazioni ambientali più di dettaglio.
La Vas deve «garantire un elevato livello di protezione dell'ambiente e contribuire all'integrazione di considerazioni ambientali all'atto del l'elaborazione, dell'adozione e approvazione dei piani e programmi assicurando che siano coerenti e contribuiscano alle condizioni per uno sviluppo sostenibile». Lo svolgimento della procedura è disciplinata dal decreto legislativo 152/ 2006, che ha recepito la direttiva 2001/42/Ce, con la quale la salvaguardia e la tutela ambientale sono state anticipate già alla fase di programmazione e pianificazione.
Le Regioni
Con la delibera della Giunta regionale 331 del 28.03.2013 la Liguria ha fornito gli indirizzi operativi per l'applicazione della Lr 10.08.2012, n. 32.
Sulla scia dell'orientamento di altre Regioni, la Liguria individua l'ambito di applicazione delle norme nei piani e programmi che –per le modificazioni diffuse che possono apportare al territorio– sono suscettibili di produrre impatti rilevanti sull'ambiente. La lista comprende quelli con i quali si interviene nei settori dell'agricoltura, della foresta, della pesca, dell'energia, del turismo, della pianificazione territoriale o della destinazione dei suoli; nel settore dei trasporti, sono compresi anche i piani regolatori dei porti di interesse internazionale.
Niente Vas, invece, per i piani di protezione civile per salvaguardare l'incolumità pubblica, i progetti di piano-stralcio per la tutela dal rischio idrogeologico e quelli operativi dei piani urbanistici comunali.
Con la legge regionale 14.12.2012, n. 44 anche la Puglia si è dotata di una propria disciplina di Vas. Nell'individuare gli ambiti di esclusione da questo livello di valutazione ambientale, il legislatore pugliese ha riservato una particolare attenzione ai piani urbanistici.
Sono escluse le varianti urbanistiche assunte per l'approvazione dei piani di alienazione e valorizzazione immobiliari che riguardano piccole aree locali o modificano marginalmente quelli già sottoposti a Vas.
Non necessitano della valutazione anche gli strumenti attuativi di piani urbanistici già sottoposti a Vas, purché la pianificazione generale definisca già l'assetto localizzativo delle nuove previsioni e delle dotazioni territoriali, gli indici di edificabilità, gli usi ammessi e i contenuti planovolumetrici, tipologici e costruttivi degli interventi.
Anche le Marche sottopongono a condizioni l'esonero dalla Vas delle varianti ai Prg e ai loro strumenti di attuazione. Non devono, tra l'altro, comportare incrementi del carico urbanistico, né prevedere opere per le quali è richiesta la valutazione di impatto ambientale o di incidenza.
Sono escluse anche le varianti che comportano il trasferimento di capacità edificatoria in siti diversi da quelli originari, purché l'incremento della stessa capacità edificatoria per uso residenziale non ecceda il 20% del volume esistente entro il tetto di 200 mc., o la stessa percentuale ma entro il limite dei 400 mq per gli usi non residenziali.
Di recente anche la Regione Veneto (articolo 40 della Lr 13/2012; Dgr 1646 del 07.08.2012) è intervenuta per dettagliare l'applicazione della Vas ai piani urbanistici.
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Le scelte. Riparto in base al principio di sussidiarietà verticale.
Competenze affidate a Province e Comuni.
Nella distribuzione, tra i diversi livelli istituzionali, delle competenze in materia di Vas, le Regioni si sono mosse in prevalenza in base al principio della sussidiarietà verticale, ovvero cercando di affidare la competenza all'ente più direttamente interessato al piano da valutare.
Alcune (Emilia-Romagna, Marche, Sardegna, Umbria) condividono la competenza solo con le Province. A questo schema si è adeguata anche la Liguria con la Lr 32/2012, di regolamentazione della materia, mentre nel Lazio l'autorità competente è individuata, per i piani e programmi relativi a tutti i livelli di governo del territorio, nella struttura regionale dell'assessorato all'Ambiente.
In via generale viene individuato il livello regionale per i piani e programmi la cui paternità è interamente attribuita alla Regione, ma in alcuni casi essa è autorità competente anche per quelli sui quali è tenuta a esprimere anche solo un parere obbligatorio. Per lo svolgimento della valutazione le Regioni si avvalgono delle proprie strutture interne oppure delle agenzie regionali per l'ambiente; la Toscana fa ricorso al nucleo di valutazione degli investimenti pubblici.
Le Province si occupano dei propri piani e programmi o di quelli promossi dagli enti istituzionalmente sotto ordinati: a esse compete quindi la Vas sui piani territoriali di coordinamento territoriale e sui piani urbanistici dei Comuni.
In alcune Regioni (tra le quali Abruzzo, Piemonte e Toscana) i piani regolatori generali vengono sottoposti a Vas dagli stessi Comuni, sulla base del criterio generale che della valutazione debba essere responsabile lo stesso livello istituzionale al quale compete l'approvazione dello strumento di pianificazione o programmazione oggetto di Vas. Questa è la ripartizione delle competenze che opera anche in Lombardia.
Molte Regioni hanno istituito degli uffici tecnici di supporto ai piccoli Comuni. La normativa della Campania (la quale con la delibera n. 63 del 07.03.2013 ha modificato il disciplinare organizzativo della valutazione) specifica che l'ufficio dell'ente preposto alla valutazione ambientale strategica deve obbligatoriamente essere diverso da quello al quale sono attribuite le funzioni in materia urbanistica ed edilizia.
La preoccupazione, di ordine più generale, di evitare che controllato e controllore coincidano è anche di altre Regioni. Lombardia e Toscana disciplinano l'argomento con norme identiche, le quali prevedono che l'autorità competente per la Vas sia individuata sulla base di questi requisiti:
- separazione rispetto all'autorità procedente;
- adeguato grado di autonomia;
- competenza in materia di tutela, protezione e valorizzazione ambientale e di sviluppo sostenibile.
L'autorità alla quale la normativa regionale attribuisce il compito di svolgere la valutazione sull'approvazione dei documenti originari di programmazione, è, ovviamente, la stessa che si occuperà della Vas nel caso ai piani vengano apportate varianti non esenti dalla valutazione.
Le normative regionali hanno posto attenzione a evitare o a contenere l'accavallarsi di valutazioni. Il principio ricorrente è quello di non sottoporre a Vas –o a verifica di assoggettabilità a Vas– i piani e i programmi di rango inferiore a quelli nei cui contesti si sviluppano, a condizione che i piani di rango superiori siano già stati oggetto di valutazione.
La regola non vale, naturalmente, se i piani attuativi prevedono interventi e iniziative che non sono già state oggetto di valutazione nei piani sovraordinati.
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Le leggi
01|I DUE LIVELLI
Alcune Regioni hanno suddiviso le competenze sulla Vas tra Regione stessa e Provincia. Tra queste Emilia Romagna, Sardegna, Marche, Umbria e Liguria. Campania, Puglia e Friuli Venezia Giulia le hanno ripartite tra Regione e Comuni
02|L'ACCENTRAMENTO
Nel Lazio e in Provincia di Bolzano la competenza è unica e affidata all'ente regionale o provinciale. Altre Regioni hanno affidato la Vas allo stesso ente che elabora il piano o il programma (articolo Il Sole 24 Ore del 10.06.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIAPmi. Dal 13 giugno. Arriva l'Aua, da verificare i permessi in scadenza.
Si chiama Aua (autorizzazione unica ambientale) il nuovo strumento amministrativo nato per semplificare i rapporti tra le imprese e la Pubblica amministrazione in materia ambientale.
Oggetto del Dpr 59/2013, la disciplina entra in vigore giovedì 13 giugno. L'autorità competente è la Provincia o quella indicata dalla Regione, ma le imprese dovranno presentare la domanda di autorizzazione esclusivamente al Suap (Sportello unico attività produttive) il quale si interfaccia con l'autorità competente.
L'avvio
Come primo effetto della nuova normativa, occorre chiedersi come dovranno comportarsi le Pmi che da giovedì 13 giugno si troveranno nella condizione di dover richiedere o gestire le autorizzazioni per le numerose aree d'intervento dell'Aua.
L'articolo 10 del Dpr 59/ 2013 dispone che i procedimenti avviati prima della sua entrata in vigore siano conclusi in base alle norme vigenti al momento dell'avvio. Pertanto, la nuova disciplina non tocca le imprese (Pmi) che hanno presentato la domanda per uno degli atti sostituiti prima del 13.06.2013.
Il Dpr 59/2013 chiarisce che l'Aua dura 15 anni e che il rinnovo va richiesto almeno sei mesi prima della scadenza; però, non chiarisce quanto tempo prima della scadenza del primo titolo abilitativo sostituito vada richiesta l'Aua.
È ragionevole ritenere che il termine semestrale si applichi anche alla prima richiesta di Aua; pertanto, è consigliabile che dal 13 giugno le Pmi soggette ad Aua inizino a contare i mesi che mancano alla scadenza del primo tra i titoli abilitativi posseduti e, se del caso, si affrettino a chiederne il rinnovo, tramite Aua presentata al Suap. In questa occasione, l'Aua (in quanto unica) va richiesta per tutti i titoli anche se non tutti sono in scadenza.
In attesa che il ministero dell'Ambiente adotti lo schema unificato per la domanda di Aua, le imprese dovranno presentarla corredata da documenti, dichiarazioni e informazioni previste dalle norme di settore relative agli atti abilitativi sostituiti, indicando gli atti per i quali si chiede l'Aua.
Se la Pa non interviene entro il tempo di vigenza dei titoli abilitativi sostituiti, si ritiene che questi continuino a espletare la loro efficacia (escluso lo scarico di sostanze pericolose, come già previsto dall'articolo 124, Dlgs 152/2006).
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I contenuti
L'Aua sostituisce i seguenti sette titoli abilitativi:
1- autorizzazione agli scarichi idrici;
2- comunicazione preventiva di cui all'articolo 112, Dlgs 152/2006 per l'uso agronomico di effluenti di allevamento, acque di vegetazione dei frantoi oleari e acque reflue provenienti dalle aziende ivi indicate;
3- autorizzazione alle emissioni in atmosfera;
4 autorizzazione generale in deroga per gli impianti a emissioni in atmosfera scarsamente rilevanti;
5 comunicazione o nulla osta per le emissioni sonore delle attività produttive o edilizie;
6- autorizzazione all'uso agricolo dei fanghi di depurazione;
7- comunicazioni e autorizzazioni per autosmaltimento e recupero agevolato di rifiuti.
Destinatarie della nuova disciplina sono solo le Pmi di cui all'articolo 2, Dpr 18.04.2005. Sono esclusi dall'Aua gli impianti soggetti ad Aia (autorizzazioneintegrata ambientale). Il gestore può scegliere di non richiedere l'Aua se l'attività è soggetta solo a comunicazione oppure ad autorizzazione generale per l'atmosfera (articolo Il Sole 24 Ore del 10.06.2013).

CONSIGLIERI COMUNALICon i nuovi sindaci debutta finalmente l'«esame» dei conti.
PER LA PRIMA VOLTA/ I politici usciti vincenti dalle urne dovranno mettere nero su bianco situazione finanziaria e patrimonio.

Il 2013 sarà ricordato per il primo vero esame per sindaci. Gli eletti nella tornata elettorale del 26/27 maggio e quelli usciti dal ballottaggio di ieri e oggi saranno infatti tenuti, entro 90 giorni dalla formalizzazione dell'incarico, a redigere la relazione di inizio mandato.
In tutta Italia sono stati in 719 a votare. Record in Sicilia (141). Meno di tutti in Trentino Alto Adige (1). Non scherzano la Lombardia (95), la Campania (89) e il Piemonte (50). Ma pure Calabria, Lazio, Puglia e Veneto con oltre 40 ciascuna.
Tanti (39) i Comuni al voto interessati dallo scioglimento per mafia. È viva la speranza che i cittadini abbiano saputo scegliere meglio di come hanno fatto ieri. I risultati che sono usciti dalle urne misureranno il grado di civiltà raggiunto dai Comuni afflitti da questo fenomeno nel fare abortire ogni tentativo della "mafia" di reimpossessarsi delle istituzioni.
Cos'è la relazione di inizio mandato? E' uno strumento, introdotto nell'ordinamento con l'articolo 2, comma 3, del Dl 174/2012.
Ogni sindaco eletto deve dar conto di tutto ciò che trova, così come quello uscente deve dare conto di quanto lascia.
Più esattamente, il subentrante -a tre mesi dal suo insediamento- dovrà sottoscrivere la relazione di inizio mandato, predisposta dal responsabile del servizio finanziario o dal segretario generale. Da un tale documento dovrà emergere l'intervenuta verifica della situazione finanziaria e patrimoniale, nonché la misura dell'indebitamento dell'ente, rappresentato nella sua specificità.
Un atto di particolare importanza, dal momento che dai suoi esiti dipenderanno le sorti della gestione del nuovo sindaco, anche in relazione alla scelta di ricorrere o meno alle procedure anti-default. Costituirà lo strumento giuridico-contabile con il quale doversi misurare a fine sindacatura ma anche middle term.
Dunque, un appuntamento importante per i sindaci. Ma anche per i cittadini che avranno, finalmente, la possibilità di conoscere lo stato di salute dei conti del loro comune, in rapporto al quale dovranno o meno pagare le fiscalità più elevate possibili.
«Peccato non averlo saputo prima del voto», è ciò che esclameranno  in tanti.
Certo, perché la quasi totalità dei sindaci uscenti non ha adempiuto a redigere, entro i 90 giorni antecedenti le elezioni, la relazione di fine del mandato perché graziati da una reiterata "disattenzione" nel predisporre il relativo schema (Il Sole 24 Ore del 20 maggio scorso). Un adempimento pensato per due ordini di motivi:
a) avere modo di conoscere le malefatte gestionali dei sindaci uscenti e perseguirli "secondo (de)merito";
b) garantire la consapevolezza ai cittadini, utile a votare meglio e a scegliere chi più merita.
I ritardi nel perfezionare il relativo schema, oggi in Gazzetta Ufficiale (IlSole24Ore dell'1 giugno scorso), hanno fatto sì che ciò non succedesse sia nel 2012 che nel 2013.
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La prima puntata
Sul Sole 24 Ore del 20 maggio è stato sottolineato il fatto che le amministrazioni sono andate per l'ennesima volta al voto senza l'obbligo di redigere la relazione di fine mandato, prevista dal federalismo fiscale ma mai attuata. Il provvedimento attuativo è andato in «Gazzetta Ufficiale» il 29 maggio, giorno del voto (articolo Il Sole 24 Ore del 10.06.2013).

GIURISPRUDENZA

LAVORI PUBBLICIIllegittimi gli albi regionali dei collaudatori. La corte bacchetta il Piemonte: nessun privilegio per i dipendenti.
Costituzionalmente illegittima la creazione di un «albo regionale dei collaudatori», con privilegio nella sua gestione per i dipendenti pubblici regionali. La fissazione di regole di accesso ai collaudi, che di fatto impediscono ai liberi professionisti di svolgere il servizio, contrasta con la normativa contenuta nel codice dei contratti e con le norme costituzionale in tema di potestà legislativa in materia di ordinamento civile e tutela della concorrenza.
La Corte costituzionale, con la sentenza 13.06.2013 n. 137 bolla di incostituzionalità l'articolo 47, commi da 1 a 9, della legge della regione Piemonte 04.05.2012, n. 5, che aveva creato una disciplina regionale sull'affidamento dei servizi di collaudo fortemente in contrasto con le disposizioni del dlgs 163/2006, fondandosi ancora su una malintesa potestà legislativa in tema di appalti che le regioni insistono a ritenere di possedere, nonostante una costante giurisprudenza della Consulta, a partire dal 2007, abbia circoscritto in termini molto restrittivi l'estensione del potere normativo regionale.
L'articolo 47 della legge regionale dichiarato incostituzionale aveva costruito, in Piemonte, un vero e proprio sistema «parallelo» a quello del codice dei contratti, per l'assegnazione degli incarichi di collaudo. Infatti, prevedeva che in prima battuta essi fossero affidati a dipendenti della regione iscritti in un elenco appositamente predisposto. Solo in mancanza di dipendenti idonei la norma incostituzionale consentiva alla regione di affidare i collaudi con procedure ad evidenza pubblica a soggetti esterni, ma in questo caso essi potevano anche non essere iscritti ad albi di collaudatori, a condizione che i provvedimenti indicassero le ragioni di tale scelte; infine, ancora, i collaudi potevano essere affidati a una commissione composta di massimo tre membri; in tali casi, l'appalto di servizio avrebbe potuto essere conferito col criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
Infine, la norma demandava a un regolamento regionale il compito di disciplinare ulteriori aspetti organizzativi, economici e gestionali per la tenuta degli albi dei collaudatori, definendo le categorie di opere e lavori per i quali era possibile chiedere l'iscrizione all'albo per l'effettuazione dei collaudi, i criteri e le modalità per le iscrizioni negli albi, i compensi dei collaudatori e le modalità per l'affidamento dell'incarico, fissando anche alcune incompatibilità a svolgere il compito di collaudatore.
Un insieme di disposizioni vistosamente incidenti sull'ordinamento civilistico, tendenti, nella sostanza, a introdurre vincoli allo svolgimento della professione, creando in provetta un sistema regionale chiuso di collaudatori, per altro caratterizzato da modalità di affidamento molto divergenti da quelle previste dal codice dei contratti.
Sicché, la norma della regione Piemonte non ha superato il vaglio della costituzionalità. Infatti, ricorda la Consulta, le norme riguardanti la fase privatistica dell'esecuzione del contratto rientrano nella materia dell'ordinamento civile, di competenza esclusiva del legislatore statale, a eccezione delle sole disposizioni di tipo meramente organizzativo o contabile, principio peraltro sottolineato proprio con riferimento all'attività di collaudo con la sentenza 431/2007.
La norma regionale piemontese non si è limitata a regolare aspetti meramente organizzativi dell'attività di collaudo, ma si è spinta a regolare la scelta dei collaudatori, a fissarne il compenso e perfino a consentire di selezionare collaudatori non inseriti nell'albo apposito. In tal modo, la legge regionale si è posta in contrasto con l'articolo 117, comma 2, lettere e) (tutela della concorrenza) e l) (potestà legislativa esclusiva dello Stato in tema di ordinamento civile), della Costituzione (articolo ItaliaOggi del 14.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Il principio della cosiddetta "sanatoria giurisprudenziale" è stato disatteso da un diverso e più consolidato orientamento, secondo cui la stessa, poiché introduce un atipico atto con effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione normativa, non può ritenersi ammessa nel nostro ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, secondo il principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e pena l’invasione nelle sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione.
Alla luce di tali argomenti, è evidente che l’eccezione di incostituzionalità della norma di cui all'art. 13, l. 28.02.1985, n. 47, così come dedotta dall’appellante, è manifestamente infondata, poiché sarebbe, semmai, l’eventuale istituto della sanatoria giurisprudenziale ad essere sospetto di compatibilità con il nostro sistema costituzionale.
Peraltro, la norma in esame, richiedente per la sanatoria delle opere realizzate senza concessione e delle varianti non autorizzate, che l'opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione dell'opera, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, è una disposizione la cui ratio è legata al contrasto all'inerzia dell'Amministrazione; ciò significa che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda; tale ratio della norma è del tutto comprensibile, quindi, e compatibile con i precetti costituzionali di cui all’art. 97 Cost.
Pertanto, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, contenente l'accertamento di conformità ai sensi dell'art. 13, l. 28.02.1985, n. 47, l'Autorità amministrativa, che non è chiamata a compiere scelte discrezionali, deve esclusivamente accertare la c.d. doppia conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati.
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Nell'accertamento di conformità ai sensi dell'art. 13, l. 28.02.1985, n. 47, l'Autorità amministrativa non è chiamata a compiere scelte discrezionali, bensì deve esclusivamente accertare la c.d. doppia conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati, rendendo pertanto irrilevante e superflua una fase istruttoria specificamente destinata all’esame di questioni che necessitano di valutazioni tecnico-discrezionali, quali caratterizzano l’attività delle commissioni edilizie.
Ritiene il Collegio che l’appello sia infondato.
Infatti, è pur vero che il principio della cd. “doppia conformità” ex art. 13 1. n. 47 del 1985 può manifestarsi nelle forme, secondo un certo orientamento giurisprudenziale, definite “sanatoria giurisprudenziale”, e può essere riferibile all'ipotesi di specie, in modo da risultare conforme al principio di proporzionalità e ragionevolezza nel contemperamento dell'interesse pubblico e privato, poiché imporre per un unico intervento costruttivo, comunque attualmente conforme, una duplice attività edilizia, demolitoria e poi identicamente riedificatoria, lederebbe lo stesso interesse pubblico tutelato (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835; sez. V, 29.05.2006, n. 3267).
Infatti, sulla base della succitata considerazione, è stato ammesso che la sanatoria edilizia possa intervenire anche a seguito di conformità sopraggiunta dell'intervento in un primo tempo illegittimamente assentito, divenuto cioè permissibile al momento della proposizione della nuova istanza dell'interessato, posto che questa si profila come del tutto autonoma rispetto all'originaria istanza che aveva condotto al permesso annullato in sede giurisdizionale, in quanto basata su nuovi presupposti normativi in materia edilizia; all’opposto, si è ritenuto irragionevole negare una sanatoria di interventi che sarebbero legittimamente concedibili al momento della nuova istanza.
Tale principio, tuttavia, è stato disatteso da un diverso e più consolidato orientamento, secondo cui la “sanatoria giurisprudenziale”, in quanto introduce un atipico atto con effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione normativa, non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, secondo il principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e pena l’invasione nelle sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione.
Alla luce di tali argomenti, è altresì evidente che l’eccezione di incostituzionalità della norma di cui all'art. 13, l. 28.02.1985, n. 47, così come dedotta dall’appellante, è manifestamente infondata, poiché sarebbe, semmai, l’eventuale istituto della sanatoria giurisprudenziale ad essere sospetto di compatibilità con il nostro sistema costituzionale.
Peraltro, la norma in esame, richiedente per la sanatoria delle opere realizzate senza concessione e delle varianti non autorizzate, che l'opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione dell'opera, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, è una disposizione la cui ratio è legata al contrasto all'inerzia dell'Amministrazione; ciò significa che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda; tale ratio della norma è del tutto comprensibile, quindi, e compatibile con i precetti costituzionali di cui all’art. 97 Cost.
Pertanto, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, contenente l'accertamento di conformità ai sensi dell'art. 13, l. 28.02.1985, n. 47, l'Autorità amministrativa, che non è chiamata a compiere scelte discrezionali, deve esclusivamente accertare la c.d. doppia conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; sez. V, 25.02.2009, n. 1126).
Peraltro, giova osservare che l’art. 36 del d.P.R. 06.06.20012, n. 380 - Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, norma attualmente vigente sul medesimo tema, e non innovativa rispetto alla norma anteriormente vigente (l’art. 13 1. n. 47 del 1985), e che disciplina l’accertamento di conformità richiesto dalla ricorrente, recita: “In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire…il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda” (cfr. Consiglio di Stato, sez. I, parere 24.06.2011, n. 4162/2009; sez. V, 25.02.2009, n. 1126; sez. IV, 26.04.2006, n. 2306).
Pertanto, è la stessa norma, che come si ribadisce non ha carattere innovativo, trattandosi di norma raccolta nel predetto T.U. ai fini del coordinamento normativo ex art. 7 Legge 08.03.1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione 1998 – Bassanini Quater), che attualmente conferma l’insussistenza dell’istituto sopra sunteggiato, denominato “sanatoria giurisprudenziale”.
Conclusivamente, dall’art. 13 della l. 28.02.1985, n. 47 non è ricavabile alcun diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l'autorità comunale provvede sulla domanda in sanatoria.
Nel caso di specie (come si evince dalla relazione depositata dal comune intimato in primo grado) risulta che le opere in assenza di concessione, ovvero la sopraelevazione di porzione di edificio fino a mt. 9.50, sono state realizzate nell’agosto 1999 mentre era vigente l’art. 33.3.4. delle N.T.A del P.R.G. che permetteva un’altezza massima di mt. 8.50; solo al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria il suddetto articolo, nel frattempo modificato, autorizzava un’altezza massima di mt. 10.50, così consentendo tale intervento, non però anche l’eventuale sanatoria, che richiedeva la doppia conformità e che è stata dunque legittimamente negata, mancando la conformità originaria dell’opera.
Anche la censura d’appello relativa all’illegittimità del diniego di sanatoria per omessa acquisizione del parere della commissione edilizia è infondata, atteso che, come detto, nell'accertamento di conformità ai sensi dell'art. 13, l. 28.02.1985, n. 47, l'Autorità amministrativa non è chiamata a compiere scelte discrezionali, bensì deve esclusivamente accertare la c.d. doppia conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; sez. V, 25.02.2009, n. 1126; sez. IV, 12.02.2010, n. 772), rendendo pertanto irrilevante e superflua una fase istruttoria specificamente destinata all’esame di questioni che necessitano di valutazioni tecnico-discrezionali, quali caratterizzano l’attività delle commissioni edilizie (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.06.2013 n. 3220 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO La materia dell'inquadramento nel pubblico impiego si connota per la presenza di atti autoritativi e, quindi, ogni pretesa al riguardo, in quanto radicata su posizioni di interesse legittimo, può essere azionata soltanto mediante tempestiva impugnazione dei provvedimenti che si assumono illegittimamente incidenti su tali posizioni; segue da ciò che il pubblico impiegato, che contesti il proprio inquadramento in una data qualifica o con determinate modalità, temporali, giuridiche o patrimoniali che siano, ha l'onere di impugnare il relativo provvedimento entro il termine perentorio di decadenza, anche quando egli assume che gli spetta un determinato inquadramento.
Infatti, i provvedimenti d'inquadramento giuridico ed economico dei dipendenti pubblici non contrattualizzati, così come i provvedimenti d’inquadramento nel pubblico impiego anteriori alla contrattualizzazione, come nella specie, si configurano come atti provvedimentali tout court, soggetti ai comuni termini decadenziali d'impugnazione: pertanto, in siffatta materia non sono proponibili azioni di accertamento, ma domande di impugnazione degli atti autoritativi che assegnano una qualifica funzionale ed un corrispondente livello retributivo, posto che la posizione del dipendente resta quella di un soggetto titolare di interessi legittimi che devono essere fatti valere nei termini decadenziali previsti dalla legge.

Il Collegio osserva, in punto di diritto, che la materia dell'inquadramento nel pubblico impiego si connota per la presenza di atti autoritativi e, quindi, ogni pretesa al riguardo, in quanto radicata su posizioni di interesse legittimo, può essere azionata soltanto mediante tempestiva impugnazione dei provvedimenti che si assumono illegittimamente incidenti su tali posizioni; segue da ciò che il pubblico impiegato, che contesti il proprio inquadramento in una data qualifica o con determinate modalità, temporali, giuridiche o patrimoniali che siano, ha l'onere di impugnare il relativo provvedimento entro il termine perentorio di decadenza, anche quando egli assume che gli spetta un determinato inquadramento (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 15.02.2013, n. 919).
Infatti, i provvedimenti d'inquadramento giuridico ed economico dei dipendenti pubblici non contrattualizzati, così come i provvedimenti d’inquadramento nel pubblico impiego anteriori alla contrattualizzazione, come nella specie, si configurano come atti provvedimentali tout court, soggetti ai comuni termini decadenziali d'impugnazione: pertanto, in siffatta materia non sono proponibili azioni di accertamento, ma domande di impugnazione degli atti autoritativi che assegnano una qualifica funzionale ed un corrispondente livello retributivo, posto che la posizione del dipendente resta quella di un soggetto titolare di interessi legittimi che devono essere fatti valere nei termini decadenziali previsti dalla legge (cfr: Consiglio di Stato, sez. II, 09.10.2012, n. 1121; sez. V, 02.11.2011, n. 5848; sez. V, 28.02.2011, n. 1251; sez. V, 24.09.2010, n. 7104) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.06.2013 n. 3216 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Deve essere esclusa la teoria del “falso innocuo” poiché il falso è innocuo quando non incide neppure minimamente sugli interessi tutelati.
Nelle procedure di evidenza pubblica la completezza delle dichiarazioni, invece, è già di per sé un valore da perseguire perché consente –anche in ossequio al principio di buon andamento dell’amministrazione e di proporzionalità– la celere decisione in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara.
Conseguentemente, una dichiarazione inaffidabile (perché falsa o incompleta) è già di per sé stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma a prescindere dal fatto che l’impresa meriti sostanzialmente di partecipare alla gara.
In altri termini, nel diritto degli appalti occorre poter fare affidamento su una dichiarazione idonea a far assumere tempestivamente alla stazione appaltante le necessarie determinazioni in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara o alla sua esclusione.

La vicenda riguarda il ricorso della società Impresig Srl contro l’aggiudicazione definitiva dell’appalto dei lavori di riqualificazione ambientale del molo Capo S. Giovano e dell’area interessata APQ -interventi su ecomostri- in favore del raggruppamento temporaneo di imprese Kronos s.r.l. - Parasporo ing. Carlo, disposta dalla Stazione Unica appaltante della Provincia di Reggio Calabria, in relazione ad una gara per un importo a base d’asta di euro 740.000,00 oltre IVA (di cui euro 20.000 per oneri della sicurezza non soggetti a ribasso).
La società Impresig Srl ha partecipato alla gara, collocandosi al secondo posto della graduatoria (con un ribasso del 31,7480% a fronte del ribasso del 31,7800 della controinteressata; verbale di gara del 27.06.2011) e ha lamentato l’omessa presentazione, da parte della prima classificata, aggiudicataria, della dichiarazione inerente il possesso dei requisiti ex art. 38 Codice appalti in capo agli amministratori cessati nel triennio, in ossequio a quanto esplicitamente previsto, in merito, dal bando di gara, al punto 16.2.2.
Tale disposizione elenca, tra i documenti necessari alla partecipazione (elencazione che, a pag. 11 del bando, è descritta “a pena di esclusione dalla gara”), le dichiarazioni attestanti o l’insussistenza di soggetti cessati dalle cariche societarie indicate all’art. 38, comma 1, lett. c), del D.Lgs. 163-2006 o l’indicazione di tali soggetti (ai fini della dichiarazione della insussistenza a loro carico di sentenze di condanna o della dissociazione dell’impresa dalla loro condotta), ivi compresi quelli “cessati per acquisizioni, cessioni di azienda o fusioni, rivestenti le qualifiche di cui all’art. 38, comma 1, lett. c)”.
L’aggiudicataria ha dichiarato quale unico soggetto cessato dalla carica nel triennio precedente il sig. Fabio Varacalli (classe 1973), nella qualità di direttore tecnico della “GMC Mediterranea Costruzioni Srl”, società cedente del ramo di azienda alla Kronos s.r.l. che risultava già come direttore tecnico della Kronos s.r.l., e quindi era comunque tenuto in tale veste a rendere le prescritte dichiarazioni ex art. 38 cit., ma non ha reso alcuna dichiarazione relativamente al sig. Luigi Varacalli (classe 1968), amministratore della predetta società “GMC Mediterranea Costruzioni”.
Peraltro, il medesimo sig. Luigi Varacalli figurava anche quale amministratore unico della società N.A.Edil s.r.l. che, in data 19.02.2010, aveva trasferito l’azienda in favore della Kronos s.r.l. mandataria del raggruppamento aggiudicatario dell’appalto.
Il TAR ha dato rilievo alla circostanza che, in giudizio, è stata prodotta da parte della difesa della controinteressata la documentazione inerente l’assenza di condanne in capo al sig. Luigi Varacalli (carichi pendenti e casellario giudiziale), trattandosi, pertanto, di un ipotesi di cd. “falso innocuo”.
Secondo il Collegio, invece, tale circostanza è del tutto influente, poiché altrimenti qualsiasi deficienza delle dichiarazioni ex art. 38 Codice appalti potrebbe essere surrogata in giudizio, in contrasto con il principio della par condicio dei concorrenti che deve essere assicurato nel procedimento amministrativo di selezione e non nell’eventuale procedimento giurisdizionale, a posteriori.
Infatti, deve essere esclusa la teoria del “falso innocuo” poiché il falso è innocuo quando non incide neppure minimamente sugli interessi tutelati. Nelle procedure di evidenza pubblica la completezza delle dichiarazioni, invece, è già di per sé un valore da perseguire perché consente –anche in ossequio al principio di buon andamento dell’amministrazione e di proporzionalità– la celere decisione in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara. Conseguentemente, una dichiarazione inaffidabile (perché falsa o incompleta) è già di per sé stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma a prescindere dal fatto che l’impresa meriti sostanzialmente di partecipare alla gara. In altri termini, nel diritto degli appalti occorre poter fare affidamento su una dichiarazione idonea a far assumere tempestivamente alla stazione appaltante le necessarie determinazioni in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara o alla sua esclusione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 16.03.2012, n. 1471, cui si rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 74 e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.).
Pertanto, la motivazione della sentenza del TAR impugnata non è condivisibile e deve essere corretta.
Nel caso di specie, l’appellante invoca anche i principi autorevolmente sanciti dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio (04.05.2012, n. 10 e 07.06.2012, n. 21), secondo cui, l’art. 38, comma 1, lett. c), codice appalti, presenta un contenuto normativo che già di per sé comprende ipotesi non testuali, ma pur sempre ad essa riconducibili sotto il profilo della sostanziale continuità del soggetto imprenditoriale a cui si riferiscono, quando il soggetto cessato dalla carica sia identificabile come interno al soggetto concorrente.
In tale quadro, la citata adunanza n. 10 del 2012 è stata dell'avviso che sia necessaria la dichiarazione suddetta nelle ipotesi di fusione o di incorporazione di società, ancorché venute in essere antecedentemente all'avvio della gara ove si realizza una successione a titolo universale fra i soggetti interessati ovvero, alla luce della riforma del diritto societario disposta dal d.lgs. 17.01.2003, n. 6, la loro mera trasformazione, lasciando dunque ferma la continuità dell'attività imprenditoriale, ma anche e a maggior ragione nelle ipotesi di cessione di azienda o di ramo di azienda in cui si verifica una vicenda di successione a titolo particolare e si ha comunque il passaggio all'avente causa dell'intero complesso dei rapporti attivi e passivi nei quali l'azienda stessa o il suo ramo si sostanzia; il che rende la vicenda ben suscettibile di comportare pur essa la continuità tra precedente e nuova gestione imprenditoriale.
La plenaria n. 10 del 2012, affermato tale principio, ha osservato che, tuttavia, possa aversi riguardo alla peculiarità dei casi specifici:
a) anzitutto, è comunque dato al cessionario comprovare l'esistenza nel caso concreto di una completa cesura tra vecchia e nuova gestione, tale da escludere la rilevanza della condotta dei precedenti amministratori e direttori tecnici operanti nell'ultimo triennio e, ora, nell'ultimo anno, presso il complesso aziendale ceduto;
b) resta altresì fermo -tenuto anche conto della non univocità delle norme circa l'onere del cessionario- che in caso di mancata presentazione della dichiarazione e sempre che il bando non contenga al riguardo una espressa comminatoria di esclusione, quest'ultima potrà essere disposta soltanto là dove sia effettivamente riscontrabile l'assenza del requisito in questione.
Tale orientamento è stato ribadito dalla menzionata sentenza dell’adunanza plenaria 07.06.2012, n. 21 anche in riferimento al novellato art. 2504-bis cod. civ. che configura le operazioni di trasformazione o fusione societaria non come successione universale, ma come vicenda evolutiva dei medesimi soggetti originari partecipanti alla operazione societaria (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.06.2013 n. 3214 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: E’ noto che i pareri sono da ritenersi atti endoprocedimentali, mentre la valenza lesiva deve attribuirsi soltanto al provvedimento, inteso come atto che costituisce, modifica o estingue posizioni soggettive.
Nel caso di impugnativa di titolo edilizio a favore di altri, la valenza lesiva deve essere attribuita soltanto alla concessione, non sussistendo l’onere (ma solo eventualmente la facoltà) di abbracciare nell’impugnativa (che peraltro implicitamente li comprende quali atti presupposti) i pareri di tenore positivo.
I pareri sono atti non provvedimentali, come tali valutativi e strumentali alla emanazione di un determinato provvedimento.
Gli atti non provvedimentali non sono direttamente impugnabili, perché come tali insuscettibili di produrre effetti lesivi nelle situazioni giuridiche facenti capo a terzi. Fanno eccezione, caso che non rientra nella specie, gli atti endoprocedimentali allorquando assumono carattere di immediata lesività, come nel caso di pareri vincolanti negativi, che non lasciano all’interessato alcun dubbio sul contenuto e sull’esito della decisione finale.

Con il primo motivo l’appello principale e l’appello incidentale deducono l’erroneità della sentenza per inammissibilità del ricorso di primo grado, per mancanza della impugnativa del parere della commissione edilizia comunale, del parere favorevole del Ministero Beni e attività culturali e per mancata notifica alle autorità ministeriali.
In sostanza, viene asserito che il ricorso originario avrebbe dovuto farsi carico della impugnativa anche dei pareri positivi (della commissione edilizia integrata e dell’autorità ministeriale), che avrebbero una autonoma valenza provvedimentale, e quindi in mancanza il primo giudice avrebbe dovuto concludere per l’inammissibilità del ricorso.
Il motivo è infondato.
E’ noto che i pareri sono da ritenersi atti endoprocedimentali, mentre la valenza lesiva deve attribuirsi soltanto al provvedimento, inteso come atto che costituisce, modifica o estingue posizioni soggettive.
Nel caso di impugnativa di titolo edilizio a favore di altri, la valenza lesiva deve essere attribuita soltanto alla concessione, non sussistendo l’onere (ma solo eventualmente la facoltà) di abbracciare nell’impugnativa (che peraltro implicitamente li comprende quali atti presupposti) i pareri di tenore positivo.
I pareri sono atti non provvedimentali, come tali valutativi e strumentali alla emanazione di un determinato provvedimento.
Gli atti non provvedimentali non sono direttamente impugnabili, perché come tali insuscettibili di produrre effetti lesivi nelle situazioni giuridiche facenti capo a terzi. Fanno eccezione, caso che non rientra nella specie, gli atti endoprocedimentali allorquando assumono carattere di immediata lesività, come nel caso di pareri vincolanti negativi, che non lasciano all’interessato alcun dubbio sul contenuto e sull’esito della decisione finale (Cons. Stato, IV, 28.03.2012, n.1829; Consiglio Stato, sez. V, 02.04.2001, n. 1902) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.06.2013 n. 3184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In presenza di una variante di concessione edilizia originaria e recante modifiche di non rilevante consistenza, è inammissibile il ricorso avverso la concessione in variante in mancanza di tempestiva impugnativa della originaria concessione, se la incisione (la lesione) è avvenuta con il primo provvedimento.
E' altresì evidentemente condivisibile il principio secondo cui l’impugnativa della concessione in variante non può certo comportare una rimessione in termini in caso di decadenza per l’impugnativa avverso l’atto originario.

Come ha correttamente osservato il primo giudice, è evidente che vale il principio secondo cui in presenza di una variante di concessione edilizia originaria e recante modifiche di non rilevante consistenza, è inammissibile il ricorso avverso la concessione in variante in mancanza di tempestiva impugnativa della originaria concessione, se la incisione (la lesione) è avvenuta con il primo provvedimento; è altresì evidentemente condivisibile il principio secondo cui l’impugnativa della concessione in variante non può certo comportare una rimessione in termini in caso di decadenza per l’impugnativa avverso l’atto originario.
Nella specie, tuttavia, la vicenda si pone in modo diverso, in quanto dalla relazione tecnica risulta evidente che la concessione in variante apporta un pregiudizio in sé autonomo e diverso rispetto a quanto assentito dalla concessione originaria, perché è essa variante (sul punto è chiara la sentenza appellata) e non già il precedente titolo abilitativo, a consentire la costruzione di un edificio di tre piani fuori terra, in luogo di un edificio di soli due piani fuori terra e cioè comporta la realizzazione di un fabbricato edilizio di maggiore entità sia sotto il profilo volumetrico che di superficie coperta.
A prescindere quindi dall’interesse a contestare da subito in modo ammissibile anche i titoli precedenti, non vi è dubbio che la variante assuma una autonoma valenza lesiva, non potendosi ritenere che l’interesse a ricorrere sussista soltanto per la contestazione in sé dell’intervento –in tal caso sì sarebbe stata condivisibile la prospettazione degli appellanti- in quanto investe anche le modalità, ritenute illegittime (per esempio, per distanze o altezza, certamente mutate con la variante)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.06.2013 n. 3184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il possesso del titolo di legittimazione alla proposizione del ricorso per l'annullamento di una concessione edilizia, che discende dalla c.d. vicinitas, cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato –confinante che contesta la violazione di distanze e altezze- può addirittura esimere da qualsiasi indagine al fine di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione.
Con il terzo motivo gli appelli deducono l’erroneità della sentenza appellata per inammissibilità del ricorso originario, per l’errato rigetto delle eccezioni di difetto di prova circa legittimazione e interesse ad agire in giudizio dei ricorrenti originari (punto 4 della sentenza) e per genericità dei motivi.
Alla luce del consolidato orientamento in tema di condizioni dell’azione dei vicini, non si vede come possano essere degne di positiva valutazione le sopra riportate motivazioni di appello: i ricorrenti originari sono comproprietari di fabbricato con annesso giardino che confina per un lato con via Matese e per un altro con una traversa interna di via Matese, mentre il fabbricato oggetto della concessione in variante sorge proprio al confine con la suddetta traversa interna di via Matese.
E’ evidente l’interesse dei ricorrenti originari a contrastare la costruzione di un fabbricato di tre piani fuori terra, sostenendo essi che gli strumenti urbanistici consentano soltanto la costruzione di un fabbricato di due piani.
Al di là della considerazione che è evidente nella specie il danno temuto dai ricorrenti rispetto al fabbricato di loro proprietà, la giurisprudenza di questo Consesso, in ordine alla impugnativa di titoli edilizi, ha da tempo affermato che il possesso del titolo di legittimazione alla proposizione del ricorso per l'annullamento di una concessione edilizia, che discende dalla c.d. vicinitas, cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato –confinante che contesta la violazione di distanze e altezze- può addirittura esimere da qualsiasi indagine al fine di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione (da ultimo, Consiglio di Stato sez. IV, 29.08.2012, n. 4643)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.06.2013 n. 3184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo è meramente confermativo, e perciò non impugnabile, o di conferma in senso proprio e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini, occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione di interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto a un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, come nella specie, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può dare luogo a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita a un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre, invece, l'atto meramente confermativo (di c.d. conferma impropria) quando l'Amministrazione, a fronte di un'istanza di riesame, si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.
Al fine di stabilire se un atto sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio, occorre verificare se sia stato adottato (o non) senza nuova istruttoria e nuova ponderazione di interessi.

Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo è meramente confermativo, e perciò non impugnabile, o di conferma in senso proprio e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini, occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione di interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto a un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, come nella specie, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può dare luogo a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita a un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre, invece, l'atto meramente confermativo (di c.d. conferma impropria) quando l'Amministrazione, a fronte di un'istanza di riesame, si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.
Al fine di stabilire se un atto sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio, occorre verificare se sia stato adottato (o non) senza nuova istruttoria e nuova ponderazione di interessi (Consiglio di Stato sez. V, 03.10.2012, n. 5196; Consiglio di Stato sez. VI, 31.03.2011, n. 1983)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.06.2013 n. 3184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Laddove lo strumento urbanistico comunale prescriva che, in una certa zona di piano, l'altezza massima degli edifici di nuova costruzione non possa superare la media dell'altezza di quelli preesistenti circostanti, tale media non può che limitarsi ai soli edifici limitrofi a quello costruendo, a rischio altrimenti di svuotare la norma urbanistica di qualunque significato, mentre essa è appunto preordinata ad evitare che fabbricati contigui o vicini presentino altezze marcatamente differenti, considerato, peraltro, che l'assetto edilizio mira a rendere omogenei gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione.
Questo Consesso ha già avuto modo di affermare al riguardo che, laddove lo strumento urbanistico comunale prescriva che, in una certa zona di piano, l'altezza massima degli edifici di nuova costruzione non possa superare la media dell'altezza di quelli preesistenti circostanti, tale media non può che limitarsi ai soli edifici limitrofi a quello costruendo, a rischio altrimenti di svuotare la norma urbanistica di qualunque significato, mentre essa è appunto preordinata ad evitare che fabbricati contigui o vicini presentino altezze marcatamente differenti, considerato, peraltro, che l'assetto edilizio mira a rendere omogenei gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione (così Consiglio Stato sez. V, 21.10.1995, n. 1448)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.06.2013 n. 3184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Pacifica e datata giurisprudenza pone in rilievo il carattere permanente dell’illecito edilizio ed evidenzia come l’interesse pubblico alla repressione dell’abuso risieda nella stessa natura del provvedimento repressivo, essendo, come suol dirsi, “in re ipsa”.
L’applicazione dei due principi preclude che possano aver rilievo, rispettivamente, il lungo lasso di tempo trascorso tra l’epoca dell’abuso e la data del provvedimento repressivo e, sul fronte della posizione incisa, che detto arco temporale obblighi l’Amministrazione a valutare un eventuale affidamento ingeneratosi nel responsabile dell’abuso.
A quest’ultimo riguardo deve peraltro osservarsi che l’affidamento può assumere rilevanza, originando la necessità di un più intenso onere di motivazione, solo in presenza di atti o comportamenti dell’amministrazione dai quali esso possa effettivamente ed attendibilmente trarre fonte.

Il gravame evidenzia in materia principi che da tempo sono stati messi in rilievo da pacifica e datata giurisprudenza e che pongono in rilievo anzitutto il carattere permanente dell’illecito edilizio (cfr. ex multis, Cons. di Stato, sez. V, n. 2544/2000) ed evidenziano come l’interesse pubblico alla repressione dell’abuso risieda nella stessa natura del provvedimento repressivo, essendo, come suol dirsi, “in re ipsa” (v., fra le numerose, Cons. di Stato, sez. V, n. 104/1985).
L’applicazione dei due principi preclude che possano aver rilievo, rispettivamente, il lungo lasso di tempo trascorso tra l’epoca dell’abuso e la data del provvedimento repressivo e, sul fronte della posizione incisa, che detto arco temporale obblighi l’Amministrazione a valutare un eventuale affidamento ingeneratosi nel responsabile dell’abuso. A quest’ultimo riguardo deve peraltro osservarsi che l’affidamento può assumere rilevanza, originando la necessità di un più intenso onere di motivazione, solo in presenza di atti o comportamenti dell’amministrazione dai quali esso possa effettivamente ed attendibilmente trarre fonte.
Ma tali elementi non è dato nella fattispecie reperire; anzi, considerate, da un lato, l’epoca cui risale il titolo edilizio non osservato e nel contempo la mancata presentazione di alcuna istanza di condono o sanatoria dell’abuso, possono semmai individuarsi indici di una volontà di persistenza nella situazione di illegalità (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.06.2013 n. 3183 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: E' ben vero che –a norma dell’art. 2, comma 2, della legge n. 241 del 1990– il procedimento amministrativo deve, di regola, concludersi entro trenta giorni dal suo avvio.
Tuttavia, il mancato rispetto di tale termine non produce l’illegittimità del provvedimento tardivo, per trattarsi di un termine che, non essendo indicato come perentorio, ha funzione solo acceleratoria, cosicché il ritardo nell’adottare il provvedimento non comporta decadenza della potestà amministrativa, né illegittimità del provvedimento conclusivo.

Quanto al termine, è ben vero che –a norma dell’art. 2, comma 2, della legge n. 241 del 1990– il procedimento amministrativo deve, di regola, concludersi entro trenta giorni dal suo avvio e che, nel caso di specie, tale termine risulta ampiamente oltrepassato (il dato non è contestato).
Sennonché, per giurisprudenza costante, il mancato rispetto di tale termine non produce l’illegittimità del provvedimento tardivo, per trattarsi di un termine che, non essendo indicato come perentorio, ha funzione solo acceleratoria, cosicché il ritardo nell’adottare il provvedimento non comporta decadenza della potestà amministrativa, né illegittimità del provvedimento conclusivo (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. VI, 01.12.2010, n. 8371; Id., sez. IV, 12.06.2012, n. 2264).
A questa conclusione non vale opporre –come invece vorrebbe la parte appellata– la circostanza che l’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento può essere fonte di danno ingiusto risarcibile (art. 2-bis della citata legge 241 del 1990). E ciò, sia perché la disposizione ora ricordata è stata introdotta in epoca successiva a quella dei fatti di causa (con legge 18.06.2009, n. 69), sia perché illegittimità dell’atto e illiceità del comportamento discendono da giudizi di valore di segno diverso e si muovono evidentemente su piani differenti quanto a presupposti e conseguenze (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.06.2013 n. 3172 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Il soggetto che intenda partecipare alla gara per l’affidamento di un appalto pubblico deve comunque indicare la ripartizione dei servizi e delle attività oggetto di gara fra le singole imprese affidatarie per consentire all’Amministrazione di verificare se le imprese esecutrici finali delle lavorazioni siano in possesso dei requisiti necessari per lo svolgimento delle stesse, e che non può ragionevolmente pervenirsi ad una conclusione diversa in dipendenza della circostanza per cui l’offerta è stata presentata da un consorzio di cooperative.
Anche di recente è stato del resto affermato che l’obbligo di specificazione delle parti del servizio da eseguire dalle singole imprese raggruppate o consorziate, sancito dall’art. 37 comma 4, del D.L.vo 12.04.2006 n. 163, costituisce espressione di un principio generale che non consente distinzioni legate alla natura morfologica del raggruppamento (“verticale” o “orizzontale”), alla tipologia delle prestazioni (principali o secondarie, scorporabili o unitarie) o al dato cronologico del momento della costituzione del raggruppamento temporaneo di imprese.

In termini generali, inoltre, a ragione il giudice di primo grado ha evidenziato che il soggetto che intenda partecipare alla gara per l’affidamento di un appalto pubblico deve comunque indicare la ripartizione dei servizi e delle attività oggetto di gara fra le singole imprese affidatarie per consentire all’Amministrazione di verificare se le imprese esecutrici finali delle lavorazioni siano in possesso dei requisiti necessari per lo svolgimento delle stesse, e che non può ragionevolmente pervenirsi ad una conclusione diversa in dipendenza della circostanza per cui l’offerta è stata presentata da un consorzio di cooperative.
Anche di recente è stato del resto affermato che l’obbligo di specificazione delle parti del servizio da eseguire dalle singole imprese raggruppate o consorziate, sancito dall’art. 37 comma 4, del D.L.vo 12.04.2006 n. 163, costituisce espressione di un principio generale che non consente distinzioni legate alla natura morfologica del raggruppamento (“verticale” o “orizzontale”), alla tipologia delle prestazioni (principali o secondarie, scorporabili o unitarie) o al dato cronologico del momento della costituzione del raggruppamento temporaneo di imprese (cfr. sul punto Cons. Stato, Sez. V, 18.12.2012 n. 6513) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.06.2013 n. 3152 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTICirca il fatto che la "dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà" presentata sia priva della prima pagina e, come tale, sarebbe nulla o inesistente perché priva di elementi identificativi del soggetto dichiarante oltre che della formula “dichiara”,  tuttavia è vero che le altre due pagine sono state presentate, complete dei dati richiesti e sottoscritte, datate e timbrate dal legale rappresentante, che le ha espressamente qualificate come “dichiarazione” e con allegazione della copia del documento identificativo fronte retro.
Pertanto non si vede come non possano considerarsi atti perfettamente idonei a comprovare le attestazioni in essi contenute risultando del tutto irrilevante che la parola “dichiarazione” e, si badi, il conseguente impegno, sia rinvenibile nella terza pagina, prima della firma, e non anche all’inizio della dichiarazione, quasi a configurare, a pena di inesistenza, una rigidità sacramentale della dichiarazione stessa, comunque sconosciuta al nostro ordinamento.
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Quanto al mancato richiamo delle sanzioni penali previste per il caso di false dichiarazioni, la giurisprudenza ha da tempo osservato che tale adempimento non costituisce un requisito sostanziale per la validità delle dichiarazioni ai sensi del d.P.R. n. 445/2000 in quanto la qualificazione come falso, e le relative conseguenze penali, prescindono dall’avvenuto uso in concreto della formula, mentre la ignoranza della legge penale comunque non scusa il falso dichiarante, sia che abbia invocato per iscritto l’art. 76 del d.P.R. 445/2000, sia che non lo abbia invocato.
In effetti l’art. 48 del t.u. n. 445/2000 non richiede, a pena d’invalidità, che il soggetto si impegni esplicitamente a rendere una dichiarazione veritiera, e neppure che si dichiari consapevole delle sanzioni penali previste per le false dichiarazioni. Al contrario, è la p.a. che deve richiamare le sanzioni penali, nel momento in cui invita il privato a rendere le dichiarazioni e gli fornisce il relativo modello (peraltro facoltativo).

Insiste la appellante, nel secondo motivo, con argomentazione sostenuta anche dalla stazione appaltante, che la dichiarazioni prodotta dalla società Di Betta Giannino, in quanto priva della prima pagina, sarebbe nulla o inesistente perché priva di elementi identificativi del soggetto dichiarante oltre che della formula “dichiara”, da non potere giustificare neppure il soccorso istruttorio di cui all’art. 46 del d.lgs. n. 163/2006.
Sotto un secondo profilo, che il mancato richiamo nella dichiarazione sostitutiva della solenne formulazione di rito e delle sanzioni penali previste per il caso di false dichiarazioni renderebbe insanabilmente invalida la dichiarazione. Si sostiene al riguardo che la possibilità di certificare stati e capacità “in via sostitutiva” ex artt. 38 e 46 del d.P.R. n. 445/2000 sarebbe astretta a precise e solenni formalità che per il loro rigore e per la eccezionalità della previsione non ammettono equipollenti e non consentono emenda, neppure ex art. 46 del d.lgs. 163/2006 non essendo, altrimenti, l’atto in grado di dispiegare gli effetti certificativi per difetto di una forma essenziale prescritta dalla legge, non altrimenti sanabile.
Tali assunti non vengono condivisi dalla Sezione.
Se è vero che la prima pagina del fac simile di dichiarazione risultava mancante, (salvo, come già evidenziato, rinvenire aliunde i dati mancanti, come consentito dalla lettera di invito), è altrettanto vero che le altre due pagine erano senz’altro esistenti, complete dei dati richiesti e sottoscritte, datate e timbrate dal legale rappresentante, che le ha espressamente qualificate come “dichiarazione” e con allegazione della copia del documento identificativo fronte retro; pertanto non si vede come non potessero considerarsi atti perfettamente idonei a comprovare le attestazioni in essi contenute risultando del tutto irrilevante che la parola “dichiarazione” e, si badi, il conseguente impegno, fosse rinvenibile nella terza pagina, prima della firma, e non anche all’inizio della dichiarazione, quasi a configurare, a pena di inesistenza, una rigidità sacramentale della dichiarazione stessa, comunque sconosciuta al nostro ordinamento.
Quanto al mancato richiamo delle sanzioni penali previste per il caso di false dichiarazioni, la giurisprudenza ha da tempo osservato che tale adempimento non costituisce un requisito sostanziale per la validità delle dichiarazioni ai sensi del d.P.R. n. 445/2000 in quanto la qualificazione come falso, e le relative conseguenze penali, prescindono dall’avvenuto uso in concreto della formula, mentre la ignoranza della legge penale comunque non scusa il falso dichiarante, sia che abbia invocato per iscritto l’art. 76 del d.P.R. 445/2000, sia che non lo abbia invocato.
In effetti l’art. 48 del t.u. n. 445/2000 non richiede, a pena d’invalidità, che il soggetto si impegni esplicitamente a rendere una dichiarazione veritiera, e neppure che si dichiari consapevole delle sanzioni penali previste per le false dichiarazioni. Al contrario, è la p.a. che deve richiamare le sanzioni penali, nel momento in cui invita il privato a rendere le dichiarazioni e gli fornisce il relativo modello (peraltro facoltativo) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 10.06.2013 n. 3146 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAppalti segreti, il nulla osta sicurezza può essere girato
In un appalto pubblico «segreto», il nulla osta di sicurezza (Nos) può essere prestato da una impresa a un'altra attraverso l'istituto dell'avvalimento; si tratta di requisito speciale che l'impresa ausiliaria deve però mettere a disposizione assicurando gli indispensabili livelli di segretezza nell'esecuzione dell'appalto.

È quanto afferma la IV Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 04.06.2013 n. 3059 relativa a un appalto bandito dalla Procura della repubblica di Perugia, ai sensi dell'art. 17 del codice dei contratti pubblici, per «la fornitura di apparati per sistema di registrazione intercettazioni telefoniche, telematiche, ambientali e Gps».
Il bando di gara, in particolare, richiedeva per la presentazione dell'offerta, unitamente alla dimostrazione dei requisiti di ordine generale di cui all'articolo 38 del codice dei contratti pubblici, che fosse presentata una copia autenticata o dichiarazione sostitutiva «...di certificazione del nullaosta di sicurezza (Nos) previsto dall'articolo 9 della legge n. 124/2007 e dell'articolo 17, terzo comma del dlgs 163/2006».
Il Consiglio di stato, dovendosi esprimere sull'utilizzabilità dell'avvalimento per provare il possesso del Nos, chiarisce in primo luogo come il nulla osta di sicurezza non concerna affatto un requisito generale di partecipazione alle gare d'appalto. Per i giudici, infatti, sia la «costruzione letterale», sia «la collocazione sistematica della disposizione» rendono chiaro che il legislatore non ha affatto considerato il Nos nell'ambito dei requisiti generali di partecipazione relativi ai c.d. «requisiti morali».
In secondo luogo non si tratta neanche di un generico requisito di capacità tecnica di cui di cui all'art. 42 del codice dei contratti pubblici, all'interno dei quali figurano invece, qualificazioni professionali, risorse umane e attrezzature tecniche, ritenute necessarie per l'esecuzione del contratto tra quelle individuate. Pertanto, considerando la specificità della previsione dell'art. 17, comma 3, del codice dei contratti, «il Nos deve essere configurato come requisito speciale di capacità tecnica, analogamente alla fattispecie di cui all'art. 43 del codice dei contratti relativa al possesso del sistema di qualità».
Il Cds vede nel Nos un «requisito soggettivo speciale» del profilo organizzativo, rientrante fra quelli oggetto di avvalimento ex art. 49 codice contratti pubblici. Quindi, l'impresa ausiliata dovrà avere a disposizione personale e risorse necessari ad assicurare segretezza nell'esecuzione dell'appalto e non potrà limitarsi a «prestare» l'attestato Nos (articolo ItaliaOggi del 14.06.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Le valutazioni espresse dalle Commissioni giudicatrici in merito alle prove di concorso, seppure qualificabili quali analisi di fatti (correzione dell’elaborato del candidato con attribuzione di punteggio o giudizio) e non come ponderazione di interessi costituiscono pur sempre l’espressione di ampia discrezionalità, finalizzata a stabilire in concreto l’idoneità tecnica e/o culturale ovvero attitudinale dei candidati, con la conseguenza che le stesse valutazioni non sono sindacabili dal giudice amministrativo se non nei casi in cui sussistono elementi idonei ad evidenziarne uno sviamento logico o un errore di fatto o, ancora una contraddittorietà ictu oculi rilevabile.
Al riguardo vale qui richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale, pure evocato dal Tar nella sentenza impugnata, e pienamente condiviso da questo Collegio in ordine ai limiti che incontra il sindacato giurisdizionale in subjecta materia .
Più specificatamente, va qui ribadito ancora una volta che le valutazioni espresse dalle Commissioni giudicatrici in merito alle prove di concorso, seppure qualificabili quali analisi di fatti (correzione dell’elaborato del candidato con attribuzione di punteggio o giudizio) e non come ponderazione di interessi costituiscono pur sempre l’espressione di ampia discrezionalità, finalizzata a stabilire in concreto l’idoneità tecnica e/o culturale ovvero attitudinale dei candidati, con la conseguenza che le stesse valutazioni non sono sindacabili dal giudice amministrativo se non nei casi in cui sussistono elementi idonei ad evidenziarne uno sviamento logico o un errore di fatto o, ancora una contraddittorietà ictu oculi rilevabile (tra le tante, Cons. Stato sez. IV n. 3855/2011 già citata; idem 02.03.2011 n. 1350; 03.12.2010 n. 8504; 29.02.2008 n. 774; 22.01.2007 n. 179) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.06.2013 n. 3057 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ove consentito dalle norme di attuazione, la “ristrutturazione edilizia” può essere attuata attraverso la demolizione e la successiva ricostruzione di un fabbricato, ma in tale ipotesi il nuovo edificio deve essere comunque del tutto fedele a quello preesistente, perché in caso contrario infatti si realizza una “nuova costruzione”.
L’obbligo del rispetto delle preesistenze era infatti una espressa prescrizione dell’articolo 31, lett. d), della legge n. 457/1978 e smi. (ed oggi dell’art. 3, 1° co., lett. d) del T.U. di cui al d.P.R. 06.06.2001 n. 380).

Certamente, ove consentito dalle norme di attuazione, la “ristrutturazione edilizia” può essere attuata attraverso la demolizione e la successiva ricostruzione di un fabbricato, ma in tale ipotesi il nuovo edificio deve essere comunque del tutto fedele a quello preesistente, perché in caso contrario infatti si realizza una “nuova costruzione” (cfr. Consiglio di Stato sez. V 07.04.2011 n. 2180; Consiglio di Stato sez. IV 12.02.2013 n. 844).
L’obbligo del rispetto delle preesistenze era infatti una espressa prescrizione dell’articolo 31, lett. d), della legge n. 457/1978 e smi. (ed oggi dell’art. 3, 1° co., lett. d) del T.U. di cui al d.P.R. 06.06.2001 n. 380) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.06.2013 n. 3056 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: L'esercizio dei poteri amministrativi di annullamento in autotutela di precedenti statuizioni illegittime non ha affatto natura eccezionale ma quando -al contrario- sussistono precise esigenze di tutela della civile convivenza e dell’ordinato sviluppo dell’attività edilizia, e della salvaguardia degli insediamenti abitativi, la p.a. ha il potere-dovere di emanare l'atto di annullamento.
E’ dunque legittimo il comportamento dell’Amministrazione che, come qui, emenda la propria precedente condotta conformando seppure tardivamente, la propria azione al rispetto concreto della legge..
Quanto al profilo temporale, l'art. 21-nonies L. 07.08.1990 n. 241 non fissa alcun termine ultimo oltre il quale l'esercizio dell'attività di autotutela risulti illegittima, lasciando all’Amministrazione la valutazione della ragionevolezza in ordine alla tempistica della vicenda.
Pertanto, i lavori eseguiti nell’arco dei tre mesi e mezzo precedenti l’avviso di avvio del procedimento di autotutela non possono certo determinare alcun consolidamento ed alcuna aspettativa giuridicamente tutelata in capo all’appellante. Tutta l’eventuale attività edilizia svolta, successiva all’avvio del procedimento, risulta essere stata incautamente realizzata in base ad un relativo titolo abilitativo in corso di verifica e revisione procedimentale.

Sotto il profilo sostanziale poi, tenendo conto dei valori espressi dall'art. 97 Cost., si deve ricordare che l'esercizio dei poteri amministrativi di annullamento in autotutela di precedenti statuizioni illegittime non ha affatto natura eccezionale ma quando -al contrario- sussistono precise esigenze di tutela della civile convivenza e dell’ordinato sviluppo dell’attività edilizia, e della salvaguardia degli insediamenti abitativi, la p.a. ha il potere-dovere di emanare l'atto di annullamento.
E’ dunque legittimo il comportamento dell’Amministrazione che, come qui, emenda la propria precedente condotta conformando seppure tardivamente, la propria azione al rispetto concreto della legge (arg. ex Consiglio Stato sez. IV, 12.02.2013 n. 834; Consiglio Stato sez. V 24.02.1996 n. 232).
Quanto al profilo temporale, l'art. 21-nonies L. 07.08.1990 n. 241 non fissa alcun termine ultimo oltre il quale l'esercizio dell'attività di autotutela risulti illegittima, lasciando all’Amministrazione la valutazione della ragionevolezza in ordine alla tempistica della vicenda (cfr. Consiglio di Stato sez. VI 27.02.2012 n. 1081).
Nel caso concreto, si rileva anche che:
- i lavori erano iniziati soltanto il 21.03.2000 (v. comunicazione al Comune in atti);
- la voltura della concessione edilizia al Tasselli era datata 24.03.2000;
- il successivo 09.07.2000 il Comune aveva inviato all’appellante la comunicazione di avvio del procedimento relativo agli accertamenti sulla legittimità del titolo rilasciato;
- il 06.03.2001 era stato emesso il provvedimento impugnato in prime cure.
Pertanto, i lavori eseguiti nell’arco dei tre mesi e mezzo precedenti l’avviso di avvio del procedimento di autotutela non potevano certo determinare alcun consolidamento ed alcuna aspettativa giuridicamente tutelata in capo all’appellante. Tutta l’eventuale attività edilizia successiva all’avvio del procedimento svolta era stata incautamente svolta in base ad un relativo titolo abilitativo in corso di verifica e revisione procedimentale.
Sotto il profilo sintomatico, non si ravvisa poi alcuno sviamento di potere nel caso del Comune che, a seguito di un esposto di un controinteressato che fondatamente assume di subire un nocumento alla sua proprietà da un atto illegittimo, annulla in autotutela il provvedimento abilitativo.
Devono perciò condividersi pienamente le conclusioni del TAR circa la sussistenza dei requisiti procedimentali, codificati nell'art. 21-nonies L. 07.08.1990 n. 241, per l’esercizio del potere di annullamento dei titoli edilizi in questione
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.06.2013 n. 3056 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: All'interno del sistema di cui al d.lgs. n. 267/2000 (T.U. enti locali) esiste una netta separazione di ruoli tra organi di governo locale e relativa dirigenza, dove ai primi spettano i compiti di indirizzo (la fissazione delle linee generali cui attenersi e degli scopi da perseguire), e alla seconda quelli di gestione.
Più in particolare, alla Giunta competono tutti gli atti rientranti nelle funzioni "di indirizzo e controllo politico-amministrativo" che non siano assegnati agli altri organi di governo (artt. 48-107 T.U. cit.), e per converso ai dirigenti è attribuita tutta la gestione, amministrativa, finanziaria e tecnica, comprensiva dell'adozione di tutti i provvedimenti, anche discrezionali, incluse le autorizzazioni e concessioni (e quindi anche i loro simmetrici atti negativi), e sugli stessi dirigenti incombe la diretta ed esclusiva responsabilità della correttezza amministrativa della medesima gestione (art. 107, commi 3 e 6, T.U. cit.).
Ne discende, da un lato, che è del tutto fisiologico che la Giunta municipale, verificata la presenza di una eventuale illegittimità dell’atto dirigenziale, esponga il suo avviso compulsando il dirigente competente ad intervenire mercé il potere di autotutela, che è a lui riservato in quanto titolare in materia del potere di amministrazione attiva; dall’altro, che non spetta all’interessato alcuna facoltà di intervento nel procedimento che si conclude con l’adozione da parte della Giunta comunale dell’atto di indirizzo e controllo politico-amministrativo, che non è atto immediatamente lesivo delle ragioni dell’interessato, ma necessita della successiva adozione del provvedimento dirigenziale in autotutela che, ferma restando la correttezza delle ragioni espresse dalla Giunta, potrebbe non seguire a causa della necessità di far prevalere, ad esempio, l’affidamento del privato, dovendosi confrontare l’organo procedente con i limiti fissati dall’art. 21-nonies, l. n. 241/1990; ovvero a causa dei fatti o interessi che potrebbero emergere d’ufficio o su sollecitazione del privato in sede istruttoria.

Come chiarito dalla giurisprudenza di questa Sezione all'interno del sistema di cui al d.lgs. n. 267/2000 (T.U. enti locali) esiste una netta separazione di ruoli tra organi di governo locale e relativa dirigenza, dove ai primi spettano i compiti di indirizzo (la fissazione delle linee generali cui attenersi e degli scopi da perseguire), e alla seconda quelli di gestione.
Più in particolare, alla Giunta competono tutti gli atti rientranti nelle funzioni "di indirizzo e controllo politico-amministrativo" che non siano assegnati agli altri organi di governo (artt. 48-107 T.U. cit.), e per converso ai dirigenti è attribuita tutta la gestione, amministrativa, finanziaria e tecnica, comprensiva dell'adozione di tutti i provvedimenti, anche discrezionali, incluse le autorizzazioni e concessioni (e quindi anche i loro simmetrici atti negativi), e sugli stessi dirigenti incombe la diretta ed esclusiva responsabilità della correttezza amministrativa della medesima gestione (art. 107, commi 3 e 6, T.U. cit.) (Cons. St., Sez. V, 07.04.2011, n. 2154, cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.).
Ne discende, da un lato, che è del tutto fisiologico che la Giunta municipale, verificata la presenza di una eventuale illegittimità dell’atto dirigenziale, esponga il suo avviso compulsando il dirigente competente ad intervenire mercé il potere di autotutela, che è a lui riservato in quanto titolare in materia del potere di amministrazione attiva; dall’altro, che non spetta all’interessato alcuna facoltà di intervento nel procedimento che si conclude con l’adozione da parte della Giunta comunale dell’atto di indirizzo e controllo politico-amministrativo, che non è atto immediatamente lesivo delle ragioni dell’interessato, ma necessita della successiva adozione del provvedimento dirigenziale in autotutela che, ferma restando la correttezza delle ragioni espresse dalla Giunta, potrebbe non seguire a causa della necessità di far prevalere, ad esempio, l’affidamento del privato, dovendosi confrontare l’organo procedente con i limiti fissati dall’art. 21-nonies, l. n. 241/1990; ovvero a causa dei fatti o interessi che potrebbero emergere d’ufficio o su sollecitazione del privato in sede istruttoria.
In definitiva non si ravvisa alcuna lesione del diritto alla partecipazione procedimentale effettiva a carico dell’appellante (cfr., in materia di annullamento di titoli edilizi, i principi sviluppati da Cons. Stato, sez. IV, 27.11.2010, n. 8291 cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.06.2013 n. 3024 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il diritto di accesso –nella misura in cui concerne documenti anche non formati dall’Amministrazione, ma comunque dalla stessa stabilente detenuti– può riguardare anche documentazione archiviata.
L’accesso ai documenti amministrativi, d’altra parte, costituisce “principio generale dell’attività amministrativa, al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza”, pur richiedendosi per l’accesso un “interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”, con inammissibilità delle istanze di accesso “preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”, essendo tale controllo estraneo alle finalità, perseguite attraverso l’istituto di cui trattasi.
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In base all’art. 22, comma 1, lettera d), L. 241/1990 per “documento amministrativo” deve intendersi “ogni rappresentazione grafica, foto cinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie di contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”.
Pertanto, anche atti di natura privatistica, coinvolti in una procedura di amministrazione straordinaria, effettuata nell’interesse pubblico al sostegno delle imprese, va considerata dunque documentazione amministrativa e può essere oggetto di accesso, fino a quando (come dispone lo stesso art. 22 L. n. 241/1990, al sesto comma) l’Amministrazione abbia “l’obbligo di detenere i documenti…ai quali si chiede di accedere”.
Quanto sopra, deve ritenersi, anche ove tale obbligo sia riferibile solo ad attività materiali di passaggio di consegne al termine della procedura, o abbia per oggetto la mera archiviazione dei documenti stessi.

Non può porsi in dubbio, d’altra parte, che il diritto di accesso –nella misura in cui concerne documenti anche non formati dall’Amministrazione, ma comunque dalla stessa stabilente detenuti– può riguardare anche documentazione archiviata.
Non trovano conferma, pertanto, le ragioni poste a base della sentenza di rigetto, mentre appaiono sussistenti anche gli altri requisiti richiesti per la proposizione dell’istanza di cui agli articoli 22 e seguenti della citata legge n. 241/1990, di cui risulta la violazione.
A norma del già ricordato art. 24, comma 7, della legge n. 241/1991, infatti, “deve…essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici” (cfr. al riguardo, per il principio, Cons. St., Ad. Plen. 04.02.1997, n. 5; Cons. St., sez. VI, 24.03.1998, n. 498, 26.01.1999, n. 59, 20.04.2006, n. 2223; 27.10.2006, n. 6440, 13.12.2006, n. 7389; Cons. St., sez. V, 21.10.1998, n. 1529; circa la protezione preminente, accordata dall’ordinamento giuridico all’accesso finalizzato alla tutela in giudizio, rispetto ad eventuali interessi contrapposti ed in particolare all’interesse alla riservatezza di soggetti terzi cfr. anche Cons. St., sez. VI, 03.02.2011, n. 783; Cons. St, sez. V, 17.09.2010, n. 6953; Cons. St., sez. IV, 09.05.2011, n. 2753; sull’obbligo delle autorità amministrative di accogliere le istanze di accesso, quando l’interesse pubblico tutelato dalla divulgazione sia superiore all’interesse tutelato dal rifiuto di divulgare cfr. anche Corte Giustizia CE, sez. IV, 16.12.2010, n. 266).
L’accesso ai documenti amministrativi, d’altra parte, costituisce “principio generale dell’attività amministrativa, al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza”, pur richiedendosi per l’accesso un “interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”, con inammissibilità delle istanze di accesso “preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”, essendo tale controllo estraneo alle finalità, perseguite attraverso l’istituto di cui trattasi (artt. 22, commi 3, 1 lettera b e 24, comma 3, L. n. 241/1990 cit.).
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Quanto alla natura della documentazione richiesta, va osservato che, in base all’art. 22, comma 1, lettera d), per “documento amministrativo” deve intendersi “ogni rappresentazione grafica, foto cinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie di contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”: anche atti di natura privatistica, coinvolti in una procedura di amministrazione straordinaria, effettuata nell’interesse pubblico al sostegno delle imprese, va considerata dunque documentazione amministrativa e può essere oggetto di accesso, fino a quando (come dispone lo stesso art. 22 L. n. 241/1990, al sesto comma) l’Amministrazione abbia “l’obbligo di detenere i documenti…ai quali si chiede di accedere”: quanto sopra, deve ritenersi, anche ove tale obbligo sia riferibile solo ad attività materiali di passaggio di consegne al termine della procedura, o abbia per oggetto la mera archiviazione dei documenti stessi (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 31.05.2013 n. 3012 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’elemento che contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione deve rinvenirsi nella già avvenuta trasformazione del territorio, mediante una edificazione di cui si conservi la struttura fisica, (sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente") ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele" comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente.
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Il concetto di ristrutturazione edilizia comprende la demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma, nel senso che debbano essere rispettate quantomeno le “linee essenziali” della sagoma.
E’ così necessaria l’identità della complessiva volumetria del fabbricato e, per l’area di sedime, il fabbricato deve occupare la stessa area e sorgere sulla stessa superficie utilizzata dal precedente senza compromettere un territorio diverso, coerentemente con la ratio di recupero del patrimonio esistente.
Se anche l’attuale art. 3 DPR 380/2001 non contiene più il riferimento alla “fedele ricostruzione”, occorre però considerare con rigore i criteri della medesima volumetria e sagoma, in virtù della modifica dell’istituto.
Se quindi con la modifica introdotta dal D.Lgs. 301/2002 la nozione di ristrutturazione è stata ulteriormente estesa, al fine di conservare una logica normativa è necessaria una interpretazione rigorosa e restrittiva del mantenimento della sagoma precedente. Proprio perché non vi è più il limite della “fedele ricostruzione” per la ristrutturazione si richiede la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente nel senso che debbono essere presenti le linee fondamentali per sagoma e volumi.
Anche escludendo il superato criterio della fedele ricostruzione, esigenze di interpretazione logico-sistematica della nuova normativa inducono la giurisprudenza a ritenere che la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, debba conservare le caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell'edificio debba riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi.
In caso di ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione, lo scostamento di volumetria non può, dunque, ritenersi ammissibile pena lo sconfinamento nella differente ipotesi della nuova costruzione laddove vada ad incidere sul requisito della identità di sagoma, superfici e volumi richiesto dall'art. 3, d.P.R. n. 380/2001.

In linea generale, l’elemento che contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione deve rinvenirsi nella già avvenuta trasformazione del territorio, mediante una edificazione di cui si conservi la struttura fisica, (sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente") ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele" comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente.
Ai sensi dell'art. 3, c. 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001 sono "interventi di ristrutturazione edilizia" (...) "gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica.".
Il concetto di ristrutturazione edilizia comprende la demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma, nel senso che debbano essere rispettate quantomeno le “linee essenziali” della sagoma.
E’ così necessaria l’identità della complessiva volumetria del fabbricato e, per l’area di sedime, il fabbricato deve occupare la stessa area e sorgere sulla stessa superficie utilizzata dal precedente senza compromettere un territorio diverso, coerentemente con la ratio di recupero del patrimonio esistente.
Se anche l’attuale art. 3 non contiene più il riferimento alla “fedele ricostruzione”, occorre però considerare con rigore i criteri della medesima volumetria e sagoma, in virtù della modifica dell’istituto.
Se quindi con la modifica introdotta dal D.Lgs. 301/2002 la nozione di ristrutturazione è stata ulteriormente estesa, al fine di conservare una logica normativa è necessaria una interpretazione rigorosa e restrittiva del mantenimento della sagoma precedente. Proprio perché non vi è più il limite della “fedele ricostruzione” per la ristrutturazione si richiede la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente nel senso che debbono essere presenti le linee fondamentali per sagoma e volumi (così, Cons. Stato, IV, 28.07.2005, n.4011; Cons. Stato, V, 14.04.2006, n. 2085).
Anche escludendo il superato criterio della fedele ricostruzione, esigenze di interpretazione logico-sistematica della nuova normativa inducono la giurisprudenza a ritenere che la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, debba conservare le caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell'edificio debba riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi (fra le tante Cons. Stato, sez. IV, 18.03.2008, n. 1177).
In caso di ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione, lo scostamento di volumetria non può, dunque, ritenersi ammissibile pena lo sconfinamento nella differente ipotesi della nuova costruzione laddove vada ad incidere sul requisito della identità di sagoma, superfici e volumi richiesto dall'art. 3, d.P.R. n. 380/2001.
Né in senso diverso può essere invocata la normativa regionale, in quanto l'art. 27, comma 1, lett. d), della l.reg. Lombardia 11.03.2005, n. 12 -che ricomprende tra gli interventi di ristrutturazione edilizia quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto della volumetria preesistente- deve interpretarsi nel senso di prescrivere anche il rispetto della sagoma dell'edificio preesistente, in quanto tale requisito, previsto dall'art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. 380/2001 e s.m.i., costituisce espressione di un principio generale che deve orientare anche l'interpretazione della legislazione regionale.
Se anche si era ritenuto in senso contrario rispetto alla sentenza appellata da parte di giudici regionali (in tal senso TAR Brescia Lombardia sez. I, 13.04.2011, n. 552) che il legislatore lombardo ha ritenuto, attraverso l'art. 22, comma 1, l.reg. 05.02.2010 n. 7, di intervenire sull'art. 27 l.reg. n. 12 del 2005 e di adottare in tal modo nel caso di "demolizione e ricostruzione" un concetto di ristrutturazione più ampio di quello accolto nella normativa nazionale, eliminando in buona sostanza la sagoma quale vincolo da rispettare, sul punto è stata fatta definitiva chiarezza. Infatti sul punto è intervenuto il giudice delle leggi, stabilendo che sono principi fondamentali della materia del governo del territorio le disposizioni d.P.R. n. 380 del 2001, testo unico in materia edilizia, che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità di queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali (Corte Costituzionale, 23.11.2011, n. 309).
È costituzionalmente illegittimo l'art. 27, comma 1, lett. d), ultimo periodo, l.reg. Lombardia 11.03.2005 n. 12, nella parte in cui, nel definire come ristrutturazione edilizia interventi di demolizione e ricostruzione senza il vincolo della sagoma, si pone in contrasto con il principio fondamentale stabilito dall'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001, con conseguente violazione dell'art. 117, comma 3, cost., in materia di governo del territorio. Si vedano, in tema di "governo del territorio", le citate sentenze n. 367 del 2007 e n. 303 del 2003, punto 11.2.
Di conseguenza, sono costituzionalmente illegittimi sia l'art. 27, comma 1, lett. d, ultimo periodo, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005, come interpretato dall'art. 22 l.reg. Lombardia n. 7 del 2010, che definisce come "ristrutturazione edilizia" interventi di demolizione e ricostruzione senza il vincolo della sagoma, sia l'art. 103 l. reg. Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui, qualificando come "disciplina di dettaglio" numerose disposizioni legislative statali, prevede la disapplicazione della legislazione di principio in materia di governo del territorio dettata dall'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001 con riguardo alla definizione delle categorie di interventi edilizi (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.05.2013 n. 2972 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'emanazione di un provvedimento espresso (sia positivo che negativo) dopo la proposizione del ricorso giurisdizionale contro il silenzio-rifiuto della P.A., non può non avere effetti estintivi sulla materia del contendere, in quanto il privato ha ottenuto il risultato al quale mira il giudizio, ossia il superamento della situazione di inerzia procedimentale e di violazione/elusione dell'obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso entro i termini all'uopo previsti; nel caso in cui il provvedimento sopravvenuto sia ritenuto illegittimo, per motivi evidentemente diversi dalla mera tardività, il privato deve proporre contro di esso una nuova impugnazione.
Altresì, l'interesse all'impugnazione del silenzio della P.A., perdurante malgrado la sussistenza dell'obbligo di provvedere, e cioè di portare al termine il procedimento amministrativo, non viene meno per il solo fatto che sia stato emesso un atto meramente istruttorio o comunque interno; esso trova invece un limite nell'adozione di un atto che, sebbene endoprocedimentale, provochi un arresto del procedimento. In tale caso, è l'atto endoprocedimentale a dover essere impugnato secondo gli ordinari rimedi, avendo esso un effetto preclusivo lesivo dell'interesse al successivo sviluppo del procedimento
E’ quindi indubbio che l'interesse all'impugnazione del silenzio non viene meno per il solo fatto che sia stato emesso un atto meramente istruttorio o comunque interno.
E’ del pari certo che non basta un qualsiasi atto ad interrompere l'inerzia e tanto meno un atto avente mero contenuto endoprocedimentale, e non già provvedimentale. A diverse conclusioni, invece, si deve giungere laddove ci si trovi al cospetto di un atto che, sebbene endoprocedimentale, provochi un arresto del procedimento.
Ciò in quanto scopo del ricorso avverso il silenzio-rifiuto, è quello di ottenere un provvedimento esplicito dell'amministrazione che elimini lo stato di inerzia e assicuri al privato la definizione della propria pretesa.

Venendo all’esame del merito, infatti, si rimarca che costituisce approdo consolidato in giurisprudenza quello secondo cui (si veda ancora di recente Cons. Stato Sez. IV, 22.01.2013, n. 355) l'emanazione di un provvedimento espresso (sia positivo che negativo) dopo la proposizione del ricorso giurisdizionale contro il silenzio-rifiuto della P.A., non può non avere effetti estintivi sulla materia del contendere, in quanto il privato ha ottenuto il risultato al quale mira il giudizio, ossia il superamento della situazione di inerzia procedimentale e di violazione/elusione dell'obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso entro i termini all'uopo previsti; nel caso in cui il provvedimento sopravvenuto sia ritenuto illegittimo, per motivi evidentemente diversi dalla mera tardività, il privato deve proporre contro di esso una nuova impugnazione.
E’ stato poi correttamente rimarcato, in passato, che (Cons. Stato Sez. V, 17.09.2010, n. 6978) l'interesse all'impugnazione del silenzio della P.A., perdurante malgrado la sussistenza dell'obbligo di provvedere, e cioè di portare al termine il procedimento amministrativo, non viene meno per il solo fatto che sia stato emesso un atto meramente istruttorio o comunque interno; esso trova invece un limite nell'adozione di un atto che, sebbene endoprocedimentale, provochi un arresto del procedimento. In tale caso, è l'atto endoprocedimentale a dover essere impugnato secondo gli ordinari rimedi, avendo esso un effetto preclusivo lesivo dell'interesse al successivo sviluppo del procedimento
E’ quindi indubbio che l'interesse all'impugnazione del silenzio non viene meno per il solo fatto che sia stato emesso un atto meramente istruttorio o comunque interno (Cons. St. Sez. VI 01.03.2010 n. 1168, Sez. IV, 10.04.2009, n. 2241; Cons. St., sez. V, 25.02.2009, n. 1123).
E’ del pari certo che non basta un qualsiasi atto ad interrompere l'inerzia e tanto meno un atto avente mero contenuto endoprocedimentale, e non già provvedimentale. A diverse conclusioni, invece, si deve giungere laddove ci si trovi al cospetto di un atto che, sebbene endoprocedimentale, provochi un arresto del procedimento.
Ciò in quanto scopo del ricorso avverso il silenzio-rifiuto, è quello di ottenere un provvedimento esplicito dell'amministrazione che elimini lo stato di inerzia e assicuri al privato la definizione della propria pretesa (così, Cons. St., sez. IV, 15.09.2010, n. 6892) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.05.2013 n. 2968 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'informativa prefettizia, di cui agli art. 4 d.lgs. 29.10.1994 n. 490 e 10 d.P.R. 03.06.1998 n. 252, è funzionale alla peculiare esigenza di mantenere un atteggiamento intransigente contro rischi di infiltrazione mafiosa, idonei a condizionare le scelte delle imprese chiamate a stipulare contratti con la p.a., determinando l'esclusione dell'imprenditore, sospettato di detti legami, dal mercato dei pubblici appalti e, più in generale, dalla stipula di tutti quei contratti e dalla fruizione di tutti quei benefici, che presuppongono la partecipazione di un soggetto pubblico e l'utilizzo di risorse della collettività.
Di conseguenza, la misura è adottabile sulla base di accertamenti sommari e probabilistici, che non raggiungono, né possono raggiungere, le certezze che scaturiscono dai giudizi penali; ed è irrilevante la preesistenza di pregiudizi penali o procedimenti pendenti per reati di mafia così come sono irrilevanti le risultanze negative dei certificati penali delle persone interessate all’indagine.
Tuttavia, è altrettanto essenziale, in un sistema di legalità, non attribuire valore esclusivo al mero rapporto di parentela con soggetti pregiudicati o contigui ad ambienti criminali; tale elemento, però, unito ad altri può essere idoneo ad integrare il presupposto del tentativo di infiltrazione mafiosa.

Osserva il Collegio che la sentenza appellata ha esaminato puntualmente sia i principi elaborati dalla giurisprudenza al fine di una applicazione garantista delle norme concernenti la materia, sia le risultanze istruttorie del caso in esame, non rilevando vizi di illogicità e superficialità, e concludendo correttamente che “gli accertamenti condotti, pur non facendo palesare situazioni di effettiva e conclamata infiltrazione mafiosa hanno dato conto della presenza di circostanze poste alla soglia, giuridicamente rilevante, dell’influenza e del condizionamento latente dell’attività dell’impresa da parte delle organizzazioni criminali”.
Il Collegio condivide tali conclusioni: valore pregnante nella fattispecie assume il contesto, la compagine familiare sospetta; i fatti esaminati partitamente presentano nel loro insieme una coerenza logica sufficiente a giustificare la misura prefettizia, che, come più volte ribadito in giurisprudenza, ha una forte valenza di anticipazione “della soglia di prevenzione” rispetto ai tentativi di infiltrazione mafiosa nelle attività economiche.
"L'informativa prefettizia, di cui agli art. 4 d.lgs. 29.10.1994 n. 490 e 10 d.P.R. 03.06.1998 n. 252, è funzionale alla peculiare esigenza di mantenere un atteggiamento intransigente contro rischi di infiltrazione mafiosa, idonei a condizionare le scelte delle imprese chiamate a stipulare contratti con la p.a., determinando l'esclusione dell'imprenditore, sospettato di detti legami, dal mercato dei pubblici appalti e, più in generale, dalla stipula di tutti quei contratti e dalla fruizione di tutti quei benefici, che presuppongono la partecipazione di un soggetto pubblico e l'utilizzo di risorse della collettività.” (Consiglio Stato , sez. VI, 17.07.2006, n. 4574).
Di conseguenza, la misura è adottabile sulla base di accertamenti sommari e probabilistici, che non raggiungono, né possono raggiungere, le certezze che scaturiscono dai giudizi penali; ed è irrilevante la preesistenza di pregiudizi penali o procedimenti pendenti per reati di mafia così come sono irrilevanti le risultanze negative dei certificati penali delle persone interessate all’indagine (Consiglio Stato sez. VI, 03.03.2010, n. 1254).
Tuttavia, è altrettanto essenziale, in un sistema di legalità, non attribuire valore esclusivo al mero rapporto di parentela con soggetti pregiudicati o contigui ad ambienti criminali; tale elemento, però, unito ad altri può essere idoneo ad integrare il presupposto del tentativo di infiltrazione mafiosa (Consiglio Stato sez. V, 07.11.2006 n. 6536)
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 30.05.2013 n. 2941 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ai sensi dell'art. 3, l. 07.08.1990 n. 241, in via generale, la motivazione “per relationem” è consentita con riferimento ad altri atti dell'Amministrazione, che devono però essere indicati e resi disponibili, non necessariamente attraverso la materiale allegazione al provvedimento, ma attraverso la loro “accessibilità”.
La motivazione “per relationem” è sufficiente ad assolvere l’obbligo motivazionale specialmente allorquando il provvedimento amministrativo è preceduto da atti istruttori, da pareri, o costituisce espressione sintetica di concrete valutazioni operate da organi altamente qualificati, nell'ambito di appositi sub procedimenti tecnici, a condizione che dal complesso degli atti del procedimento siano evincibili le ragioni giuridiche che supportano la decisione.
Inoltre, sempre in via generale, la motivazione assume connotati di minore pregnanza in caso di adesione alle risultanze di atti presupposti e del complesso dell’istruttoria, mentre richiede una espressione più diffusa e approfondita solo nel caso di discostamento da quelle risultanze.

Innanzitutto, va condiviso che ai sensi dell'art. 3, l. 07.08.1990 n. 241, in via generale, la motivazione “per relationem” è consentita con riferimento ad altri atti dell'Amministrazione, che devono però essere indicati e resi disponibili, non necessariamente attraverso la materiale allegazione al provvedimento, ma attraverso la loro “accessibilità”.
La motivazione “per relationem” è sufficiente ad assolvere l’obbligo motivazionale specialmente allorquando il provvedimento amministrativo è preceduto da atti istruttori, da pareri, o costituisce espressione sintetica di concrete valutazioni operate da organi altamente qualificati, nell'ambito di appositi sub procedimenti tecnici, a condizione che dal complesso degli atti del procedimento siano evincibili le ragioni giuridiche che supportano la decisione (Consiglio di Stato, sez. IV, 27.02.2013, n. 1202 e 31.03.2012, n. 1914; sez. VI, 24.02.2011, n. 1156; sez. V, 15.11.2012, n. 5772).
Inoltre, sempre in via generale, la motivazione assume connotati di minore pregnanza in caso di adesione alle risultanze di atti presupposti e del complesso dell’istruttoria, mentre richiede una espressione più diffusa e approfondita solo nel caso di discostamento da quelle risultanze (Consiglio di Stato, sez. V, 24.01.2013, n. 445; sez. VI, 23.02.2004, n. 685) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 30.05.2013 n. 2941 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nei giudizi sul silenzio dell’Amministrazione, il giudice amministrativo non può andare oltre la declaratoria di illegittimità dell'inerzia e l'ordine di provvedere; gli resta precluso il potere di accertare direttamente la fondatezza della pretesa fatta valere dal richiedente, sostituendosi all'Amministrazione stessa. Le disposizioni relative, ove interpretate diversamente, attribuirebbero illegittimamente, in modo indiscriminato, una giurisdizione di merito.
Pertanto, nell'ambito del giudizio sul silenzio, il giudice potrà conoscere della accoglibilità dell'istanza:
a) nelle ipotesi di manifesta fondatezza, allorché siano richiesti provvedimenti amministrativi dovuti o vincolati in cui non c'è da compiere alcuna scelta discrezionale che potrebbe sfociare in diverse soluzioni e fermo restando il limite della impossibilità di sostituirsi all'Amministrazione;
b) nell'ipotesi in cui l'istanza sia manifestamente infondata, sicché risulti del tutto diseconomico obbligare l’Amministrazione a provvedere laddove l'atto espresso non potrebbe che essere di rigetto.

D’altronde, in linea di massima, nei giudizi sul silenzio dell’Amministrazione, il giudice amministrativo non può andare oltre la declaratoria di illegittimità dell'inerzia e l'ordine di provvedere; gli resta precluso il potere di accertare direttamente la fondatezza della pretesa fatta valere dal richiedente, sostituendosi all'Amministrazione stessa. Le disposizioni relative, ove interpretate diversamente, attribuirebbero illegittimamente, in modo indiscriminato, una giurisdizione di merito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24.05.2010, n. 3270).
Pertanto, nell'ambito del giudizio sul silenzio, il giudice potrà conoscere della accoglibilità dell'istanza:
a) nelle ipotesi di manifesta fondatezza, allorché siano richiesti provvedimenti amministrativi dovuti o vincolati in cui non c'è da compiere alcuna scelta discrezionale che potrebbe sfociare in diverse soluzioni e fermo restando il limite della impossibilità di sostituirsi all'Amministrazione;
b) nell'ipotesi in cui l'istanza sia manifestamente infondata, sicché risulti del tutto diseconomico obbligare l’Amministrazione a provvedere laddove l'atto espresso non potrebbe che essere di rigetto (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2010, n. 1468) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.05.2013 n. 2902 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La notificazione individuale di strumenti urbanistici attuativi è prevista esclusivamente nei confronti dei proprietari direttamente incisi dalla nuova disciplina.
In caso d’impugnazione di strumenti urbanistici attuativi, quali piani di lottizzazione o piani di recupero, da parte di soggetti terzi perché non direttamente contemplati in essi, quali i confinanti, il termine per l'impugnazione decorre dall'ultimo giorno di pubblicazione della deliberazione di approvazione nell'albo del comune.

Osserva il collegio che, in base ad una consolidata giurisprudenza da cui non vi sono ragioni per discostarsi, la notificazione individuale di strumenti urbanistici attuativi è prevista esclusivamente nei confronti dei proprietari direttamente incisi dalla nuova disciplina (cfr. Cons. Stato, sez. IV, sent. 29.12.2010 n. 9537) e che “in caso d’impugnazione di strumenti urbanistici attuativi, quali piani di lottizzazione o piani di recupero, da parte di soggetti terzi perché non direttamente contemplati in essi, quali i confinanti, il termine per l'impugnazione decorre dall'ultimo giorno di pubblicazione della deliberazione di approvazione nell'albo del comune” (Cons. Stato, sez. VI, sent. 10.04.2003 n. 1910, e sez. IV, sent. 25.07.2005 n. 3930) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.05.2013 n. 2848 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La peculiare procedura di convalida di un atto illegittimo per incompetenza è sopravvissuta alla riforma della l. n. 241 del 1990 operata dalla l. n. 15 del 2005.
Sicché, l'illegittimo rilascio della concessione edilizia a firma del sindaco risulta sanato (legittimamente) per effetto della ratifica effettuata con atto adottato dal segretario comunale in ossequio alle coordinate sancite dall’art. 6, l. n. 249/1968, espressione del principio di conservazione degli atti giuridici operante, anche in pendenza di ricorso giurisdizionale, al fine di soddisfare l’interesse pubblico da identificare in re ipsa nell’eliminazione del vizio di incompetenza che affligge l’atto.

Si deve, in particolare, rimarcare che:
a) il difetto di competenza del Sindaco a rilasciare la concessione edilizia impugnata è stato sanato per effetto della ratifica effettuata con atto adottato dal segretario comunale in data del 13.01.1999 in ossequio alle coordinate sancite dall’art. 6, l. n. 249/1968, espressione del principio di conservazione degli atti giuridici operante, anche in pendenza di ricorso giurisdizionale, al fine di soddisfare l’interesse pubblico da identificare in re ipsa nell’eliminazione del vizio di incompetenza che affligge l’atto (in termini, Cons. Stato., ad. plen., 09.03.1984 n. 5); è appena il caso di osservare, inoltre, che tale peculiare procedura di convalida è sopravvissuta alla riforma della l. n. 241 del 1990 operata dalla l. n. 15 del 2005 (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 2894 del 2007) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.05.2013 n. 2782 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAAria. Articolo 674 codice penale e limiti di tollerabilità delle emissioni.
La necessità di accertare il superamento del limiti di tollerabilità delle emissioni ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 674 cod. pen. si pone soltanto per le attività autorizzate in quanto le emissioni di fumo gas o vapori siano una conseguenza diretta dell‘attività; diversamente, nel caso di attività non autorizzata ovvero di emissioni autorizzate, ma che non siano conseguenza naturale dell'attività, in quanto imputabili a deficienze dell'impianto o a negligenza del gestore, ai fini della configurabilità del reato è sufficiente la semplice idoneità a recare molestia alle persone (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.05.2013 n. 21138 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATASviluppo sostenibile. Impianti fotovoltaici ed impatto sull'ambiente ed il paesaggio.
In tema di impianti fotovoltaici, la differenza fra gli impianti minori, realizzabili mediante la presentazione di D.i.a. conforme agli strumenti urbanistici e quelli di maggiori dimensioni, che richiedono la più complessa procedura autorizzatoria prevista dall’art. 12 del d.lgs. 29.12.2003, n. 387, risiede nella diversa incidenza degli interventi sul bene paesaggio e ambiente.
La natura del bene tutelato e le caratteristiche della procedura di autorizzazione rendono evidente come la compromissione del paesaggio e dell’ambiente non si esaurisce con la sola edificazione dell’impianto e danno conto delle ragioni per cui l’art. 12, citato, affermi al comma 4 che l'autorizzazione costituisce «titolo a costruire ed esercire l’impianto in conformità al progetto».
Tale espressione giustifica l'interpretazione secondo cui l’assenza dell’autorizzazione riveste rilevanza anche in corso di esercizio ed esclude che la conclusione delle opere di edificazione comporti il venir meno delle esigenze cautelari che sostengono il provvedimento cautelare (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.05.2013 n. 20403 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATAFotovoltaico compromesso senza l'Aua.
Vi è compromissione ambiente continuata nel caso di installazione di impianto fotovoltaico di grandi dimensioni senza l'autorizzazione unica ambientale (dlgs n. 387/2003). L'autorizzazione unica deve tenere conto infatti delle caratteristiche complessive della zona a vocazione agricola al fine di tutelare il paesaggio rurale.

Questo è quanto afferma la Corte di Cassazione, III Sez. penale, con la sentenza 13.05.2013 n. 20403.
I giudici di cassazione infatti sostengono ai sensi dell'articolo 12 del dlgs n. 387 del 2003 l'autorizzazione unica deve avere come riferimento il rispetto della normativa in tema di ambiente, di paesaggio e di patrimonio storico.
L'autorizzazione unica è «titolo a costruire ed esercire l'impianto in conformità al progetto». Quindi l'assenza dell'autorizzazione è rilevante anche in corso di esercizio escludendo il venir meno delle esigenze cautelari alla base del sequestro (articolo ItaliaOggi del 13.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Responsabilità del muratore o operaio per l'abuso edilizio.
L'esecutore dei lavori, anche se muratore od operaio, ben può rispondere -in applicazione degli ordinari criteri del concorso di persona ex art. 110 cod. pen. ed anche a titolo di colpa quanto alla consapevolezza dell'abusività dei lavori- delle contravvenzioni di cui all'art. 44, lett. b) e c), del T.U. n. 380/2001, qualora sia accertata la sua materiale collaborazione alla realizzazione.
Per la sussistenza dell’elemento soggettivo è sufficiente, quindi, che il comportamento illecito sia derivato da imperizia, imprudenza o negligenza (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.05.2013 n. 20383 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità irrogazione della sanzione amministrativa per concessione in sanatoria di abuso commesso dal proprietario precedente.
L'abuso edilizio costituisce, sotto il profilo amministrativo, un illecito a carattere permanente e pertanto non rileva che l’addizione abusiva sia stata realizzata dal precedente proprietario dell’immobile. Rispetto all’esercizio del potere sanzionatorio e, salva la normativa sulla nullità del contratto in presenza dei relativi presupposti, sono infatti irrilevanti le alienazioni del manufatto, in tutto o in parte abusivo, sotto il profilo privatistico.
Alla luce di ciò neppure è rilevante la tematica dell’affidamento dei privati, peraltro considerata “per taluni orientamenti giurisprudenziali, comunque di frequente contestati” (Cons. Stato, sez. IV, 12.04.2011, n. 2266), avendo invero chiarito questo Consiglio che <<il complesso di norme introdotte ai fini della sanatoria degli abusi edilizi assumono a riferimento le opere in base al loro dato oggettivo (tipologia, consistenza, momento di esecuzione, disciplina della zona interessata dall’abuso) indipendentemente dall’elemento soggettivo (consapevolezza o meno della condotta “contra legem”) che abbia accompagnato la realizzazione delle opere stesse>> (Cons. Stato, sez. VI, 09.07.2012, n. 4013; 02.02.2009, n. 537).
Del resto, “l’abuso edilizio costituisce –sotto il profilo amministrativo– un illecito a carattere permanente e pertanto non rileva che l’addizione abusiva sia stata realizzata dal precedente proprietario dell’immobile” (Cons. Stato, sez. VI, 05.04.2013, n. 1886).
Rispetto all’esercizio del potere sanzionatorio (e salva la normativa sulla nullità del contratto in presenza dei relativi presupposti), sono infatti irrilevanti le alienazioni del manufatto (in tutto o in parte abusivo) sotto il profilo privatistico.
L’acquirente, infatti, subentra nella situazione giuridica del dante causa che –consapevolmente o meno- ha violato la normativa urbanistica ed edilizia e poiché, se ignaro dell’abuso al momento della alienazione, può agire nei confronti del dante causa anche prima dell’esercizio dei poteri repressivi da parte del Comune, a maggior ragione quando riceva (come nella specie, pur nel contesto di un provvedimento favorevole) un pregiudizio in conseguenza dei doverosi atti amministrativi repressivi, può agire sia nei confronti del notaio che in ipotesi non abbia rilevato l’assenza del titolo edilizio, sia nei confronti del dante causa e dell’autore dell’abuso (secondo un principio, ab antiquo affermato dalla giurisprudenza amministrativa e da quella civile) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.04.2013 n. 2363 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIPremesso che l'art. 17 del RD 06.10.1912 n. 1306 include le opere relative ai cimiteri nel novero delle "opere riguardanti la pubblica igiene", è pacifico in giurisprudenza che la progettazione delle opere viarie, idrauliche ed igieniche che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati è di pertinenza esclusiva degli ingegneri.
Appare dirimente, al fine di sostenere l’incompetenza dei geometri alla progettazione delle opere di cui è causa (ndr: nuovi loculi cimiteriali), la considerazione che in base all'art. 16 del RD 11.02.1929 n. 274 la competenza professionale dei geometri in materia di progettazione e direzione dei lavori di opere edili riguarda le costruzioni in cemento armato solo relativamente ad opere con destinazione agricola che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per la incolumità delle persone, mentre per le costruzioni civili che adottino strutture in cemento armato –tale è l’opera oggetto della presente controversia-, sia pure di modeste dimensioni, ogni competenza è riservata ad ingegneri ed architetti ai sensi dell'art. 1 del RD 16.11.1939 n. 2229: né tale disciplina professionale è stata modificata dalla legge 05.11.1971 n. 1086 e dalla legge 02.02.1974 n. 64, le quali si sono limitate, pur senza esplicito richiamo, a recepire la previgente ripartizione di competenze.

... per l'annullamento:
- della delibera n. 18 del 13.02.2013 della Giunta Comunale del Comune di Sona con la quale è stato approvato il progetto definitivo-esecutivo relativo ai lavori di "realizzazione di nuovi loculi presso il cimitero di Lugagnano" redatto dal geom. Alessandro Colognato;
- della determinazione n. 143 dell'08.02.2013 con la quale è stato affidato al geom. Alessandro Colognato l'incarico professionale per la progettazione definitiva ed esecutiva dei lavori di cui sopra;
...
- che nel merito –premesso che l'art. 17 del RD 06.10.1912 n. 1306 include le opere relative ai cimiteri nel novero delle "opere riguardanti la pubblica igiene" e che “è pacifico in giurisprudenza che la progettazione delle opere viarie, idrauliche ed igieniche che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati è di pertinenza esclusiva degli ingegneri” (cfr. CdS, IV, 22.05.2000 n. 2938), sicché in tale contesto va sicuramente esclusa la competenza dei geometri- appare dirimente, al fine di sostenere l’incompetenza dei geometri alla progettazione delle opere di cui è causa, la considerazione che in base all'art. 16 del RD 11.02.1929 n. 274 la competenza professionale dei geometri in materia di progettazione e direzione dei lavori di opere edili riguarda le costruzioni in cemento armato solo relativamente ad opere con destinazione agricola che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per la incolumità delle persone, mentre per le costruzioni civili che adottino strutture in cemento armato –tale è l’opera oggetto della presente controversia-, sia pure di modeste dimensioni, ogni competenza è riservata ad ingegneri ed architetti ai sensi dell'art. 1 del RD 16.11.1939 n. 2229: né tale disciplina professionale è stata modificata dalla legge 05.11.1971 n. 1086 e dalla legge 02.02.1974 n. 64, le quali si sono limitate, pur senza esplicito richiamo, a recepire la previgente ripartizione di competenze (cfr. Cass. civ. II, 02.09.2011 n. 18038; 08.04.2009 n. 8543 e 14.04.2005 n. 7778);
- che, dunque, per le su estese considerazioni
il ricorso è fondato e va accolto, con conseguente annullamento degli atti impugnati e declaratoria di inefficacia del contratto (eventualmente) stipulato: l’Amministrazione, pertanto, si rideterminerà in ordine all’affidamento dei lavori di cui trattasi tenendo conto di quanto stabilito con la presente decisione ... (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 30.04.2013 n. 633 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rilascio di concessione edilizia e limiti civilistici.
Il rispetto dei limiti civilistici e in particolare di eventuali diritti vantati da terzi possono rilevare in senso ostativo al rilascio di concessione edilizia richiesta da chi assume di essere proprietario dell’area o di avere titolo per richiederla solo quando siano immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il controllo si traduca in una semplice presa d’atto.
Al riguardo è il caso di ricordare che per giurisprudenza costante l’amministrazione comunale, nel corso dell’istruttoria sul rilascio della concessione edilizia, deve sicuramente verificare che esista il titolo per intervenire sull’immobile per il quale è richiesta la concessione edilizia, anche se questa è sempre rilasciata facendo salvi i diritti dei terzi; ma deve però “escludersi un obbligo del comune di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità dell’immobile, o di verificare l’inesistenza di servitù o altri vincoli reali che potrebbero limitare l’attività edificatoria dell’immobile, atteso che la concessione edilizia è un atto amministrativo che rende semplicemente legittima l’attività edilizia nell’ordinamento pubblicistico, e regola solo il rapporto che, in relazione a quell’attività, si pone in essere tra l’autorità amministrativa che lo emette e il soggetto a favore del quale è emesso, ma non attribuisce a favore di tale soggetto diritti soggettivi conseguenti all’attività stessa, la cui attività deve essere sempre verificata alla stregua della disciplina fissata dal diritto comune” (Cons. di Stato, Sez. V, 24.03.2011, n.1770).
La giurisprudenza ha avuto anche modo di precisare che il rispetto dei limiti civilistici e in particolare di eventuali diritti vantati da terzi possono rilevare in senso ostativo al rilascio di concessione edilizia richiesta da chi assume di essere proprietario dell’area o di avere titolo per richiederla solo quando “siano immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il controllo si traduca in una semplice presa d’atto” (Cons. di Stato, Sez. IV, n. 6332/2007; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, n. 1165/2011) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Liguria, Sez. I, sentenza 11.04.2013 n. 625 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 10.06.2013

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Abusi edilizi e responsabile dell'UTC.
OKKIO, PAROLA D'ORDINE: DENUNCIARE, DENUNCIARE, DENUNCIARE!!
(se non si vuole essere condannati ...)

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGOUffici tecnici. Abusi edilizi. La denuncia è obbligata.
Il responsabile di un ufficio tecnico ha l'obbligo di denunziare all'autorità giudiziaria gli abusi edilizi da lui stesso riscontrati nel corso di sopralluogo effettuato insieme al comandante della polizia municipale.
L'elemento soggettivo del reato di omissione di denuncia consiste nella consapevolezza e volontarietà dell'omissione della denuncia allorché si sia verificato il presupposto da cui deriva l'obbligo di informare l'autorità giudiziaria, ovvero la conoscenza, da parte del pubblico ufficiale, del fatto costituente reato a causa e nell'esercizio delle sue funzioni.
È irrilevante che il pubblico ufficiale ritenga che l'informativa della «notitia criminis» di cui sia venuto a conoscenza, competa ad altro pubblico ufficiale ovvero supponga che l'informativa medesima sia stata da questi già fornita.

Questo è quanto afferma la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 03.06.2013 n. 23956 (articolo ItaliaOggi del 06.06.2013).

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G.C. è imputato del reato di cui all'art. 361 c.p. per avere, in qualità di geometra dell'Ufficio Tecnico del Comune di (omissis), omesso di denunciare senza ritardo alla Autorità Giudiziaria l'abuso edilizio da lui stesso riscontrato nel corso di sopralluogo effettuato insieme al comandante della Polizia Municipale in data 02.02.2009 presso la proprietà di T.D..
A Z.D. è contestato lo stesso reato per avere, in qualità di responsabile dell'Ufficio Tecnico del Comune di (OMISSIS), omesso di denunciare senza ritardo alla Autorità Giudiziaria l'abuso edilizio di cui era venuto a conoscenza a seguito della ricezione di rapporto di servizio redatto dalla Polizia locale in data 03.12.2009.
Il GUP di Pavia, dopo avere premesso che doveva ritenersi pacifico in punto di fatto che alla segnalazione dell'abuso edilizio ed alla sua constatazione era seguita la totale inerzia degli organi competenti, ha rilevato che tale condotta aveva rilievo penale unicamente a carico degli agenti e degli ufficiali di polizia giudiziaria, in quanto la disposizione di cui all'art. 27, comma 4, DPR 380/2001 costituirebbe norma speciale rispetto all'art. 361 c.p.. In base a tale interpretazione sistematica dall'obbligo di denuncia sarebbero esonerati i dirigenti dell'Ufficio Tecnico e ciò comporterebbe anche una razionalizzazione del sistema, evitando onerose duplicazioni di comunicazioni di reato.
Si tratta di una erronea interpretazione delle disposizioni di legge in questione.
In primo luogo nessun rapporto di specialità sussiste tra le due disposizioni, posto che soltanto l'art. 361 c.p. è norma penale incriminatrice a differenza dell'art. 27 DPR 380/2001, per la cui violazione non è prevista alcuna sanzione penale.
In secondo luogo si tratta di norme con differenti ambiti di applicazione: da un lato la norma penale ha maggiore estensione, rivolgendosi in generale al pubblico ufficiale come soggetto attivo a differenza della norma amministrativa, che limita la propria sfera ai soli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria; dall'altro l'art. 361 c.p. circoscrive l'oggetto dell'obbligo di denuncia ai soli reati, mentre il citato art. 27 estende l'obbligo a tutti gli altri casi di presunta violazione urbanistico - edilizia, anche quando non rivestono carattere penale.
Ne deriva che tra le due disposizioni non intercorre un rapporto di specialità, ma al più di complementarietà, trattandosi di norme che prevedono diversi doveri di comunicazione alla Autorità Giudiziaria nell'ottica di un più accurato controllo dell'assetto urbanistico-edilizio del territorio.
A parte il fatto che l'interpretazione del GUP di Pavia rischia chiaramente di determinare inerzia ed omissioni di denunce nei Comuni privi di corpi di Polizia Municipale, allorquando i dirigenti degli Uffici Tecnici vengano comunque a conoscenza di abusi edilizi penalmente sanzionati, oltre in via più generale a determinare un concreto pericolo di diffusione di inaccettabili prassi di scarico reciproco di responsabilità, come avvenuto nel caso di specie.
Va, infine, ricordato che l'elemento soggettivo del reato di omissione di denuncia consiste nella consapevolezza e volontarietà dell'omissione della denuncia allorché si sia verificato il presupposto da cui deriva l'obbligo di informare l'autorità giudiziaria, ovvero la conoscenza, da parte del pubblico ufficiale, del fatto costituente reato a causa e nell’esercizio delle sue funzioni.
È, invece, estraneo alla nozione del dolo di omissione il motivo che induca il soggetto, su cui grava l'obbligo di informazione, ad astenersene; sicché è irrilevante che il pubblico ufficiale ritenga che l'informativa della "notitia criminis" di cui sia venuto a conoscenza, competa ad altro pubblico ufficiale ovvero supponga che l'informativa medesima sia stata da questi già fornita.
Infatti, l'errore in cui il soggetto possa incorrere, al riguardo, non esclude la volontarietà dell'omissione, ma concerne semmai la sua legittimità ed è, pertanto, penalmente inscusabile (Sez. 6, Sentenza n. 1407 del 05/11/1998, Rv. 212551, Pirari; sez. 6, sentenza n. 9701 del 23.09.1996, RV 206014, Gobbi).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate, maggio 2013).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

TRIBUTI: OGGETTO: Imposta municipale propria (IMU) di cui all’art. 13 del D.L. 06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214. Modifiche recate dall’art. 10, comma 4, lett. b), del D.L. 08.04.2013, n. 35. Quesiti in materia di pagamento dell’imposta relativa all’anno 2013 per gli enti di cui alla lett. i), comma 1, art. 7, del D.Lgs. 30.12.1992, n. 504 (Ministero dell'Economia e delle Finanze, risoluzione 05.06.2013 n. 7/DF).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI: G.U. 07.06.2013 n. 132 "Testo del decreto-legge 08.04.2013, n. 35, coordinato con la legge di conversione 06.06.2013, n. 64, recante: “Disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonché in materia di versamento di tributi degli enti locali. Disposizioni per il rinnovo del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria”".

DOTTRINA E CONTRIBUTI

PUBBLICO IMPIEGO: T. Grandelli e M. Zamberlan, I titolari di posizione organizzativa: il fulcro per molte amministrazioni (Risorse Umane n. 2/2013).

PUBBLICO IMPIEGO: T. Grandelli e M. Zamberlan, Le criticità e le prospettive delle progressioni economiche (Risorse Umane n. 6/2012).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

LAVORI PUBBLICI: Determina dell'Autorità vigilanza sul Codice dei contratti pubblici. Leasing in associazione. Finanziatori raggruppati con i costruttori.
Il leasing finanziario è un unico contratto, di lavori, con prestazione finanziaria accessoria; l'affidamento può avvenire con tutte le procedure previste dal Codice dei contratti pubblici; per la fase progettuale è necessario dimostrare appositi requisiti di progettazione; il contraente generale può partecipare ma in associazione con il soggetto finanziatore.

È quanto afferma l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici con la determinazione 22.05.2013 n. 4 , che detta le linee guida sulle operazioni di leasing finanziario di cui all'articolo 160-bis del Codice dei contratti pubblici, e sul contratto di disponibilità di cui all'articolo 160-ter.
La determina affronta in primis il tema della natura del contratto, considerato come unitario, specificando che il servizio finanziario, accessorio al risultato complessivo dell'operazione, qualificabile come appalto di lavori, in ogni caso non può essere considerato come mera prestazione o assimilato a semplice contratto separato di finanziamento, alternativo, per esempio, a un contratto di mutuo.
Per l'Autorità il leasing in costruendo va inquadrato come complessiva prestazione di risultato, non assimilabile a una mera sommatoria di contratto di finanziamento e di contratto d'appalto di lavori pubblici; è però necessario che siano dettagliatamente disciplinate e distinte le diverse obbligazioni contrattuali delle parti, anche per i profili di responsabilità. Un secondo profilo di interesse riguarda le procedure di affidamento; secondo la determina, data la qualificazione normativa come contratto di appalto di lavori con una componente accessoria di servizi, possono trovare applicazione tutte le procedure contemplate dal Codice (procedura aperta, ristretta, negoziata, dialogo competitivo ecc.).
In relazione alle diverse prestazioni, l'Autorità ritiene che si debba seguire la stessa procedura di qualificazione prevista dal Codice per l'appalto integrato, chiedendo quindi i requisiti progettuali per la redazione della progettazione definitiva ed esecutiva anche all'impresa di costruzioni che, a sua volta, potrà associare o indicare un progettista qualificato. Per quel che riguarda i soggetti ammessi alla gara la determina conferma che il soggetto finanziatore deve rispondere ai requisiti fissati dal dlgs 01.09.1993, n. 385, Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, mentre il costruttore deve essere necessariamente un soggetto qualificato ai sensi dell'art. 40 del Codice e non può essere un finanziatore.
Si chiarisce anche che i contraenti generali possono partecipare ma solo in associazione con soggetti finanziatori, perché, diversamente, vi sarebbero problemi di compatibilità con la disciplina bancaria e creditizia. Molto articolata è la parte sull'aggiudicazione delle offerte attraverso il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, con elementi migliorativi dell'offerta tecnico-progettuale. Per quel che attiene ai parametri di natura finanziaria, la determina suggerisce alle amministrazioni di evidenziare i valori dello spread e del tasso d'interesse fisso di riferimento (Irs) adottati per determinare il canone a base di gara, oltre alla durata del finanziamento (numero delle rate) e al prezzo per il riscatto finale dell'opera.
Per il contratto di disponibilità si chiarisce che stante il carattere privato dell'opera, il contratto di disponibilità non può riguardare opere demaniali o da realizzarsi sul demanio pubblico, quali, per esempio, strade, cimiteri, porti, carceri, mentre risulta compatibile con la realizzazione di aree immobiliari per collocarvi uffici pubblici, complessi direzionali, spazi espositivi, edilizia economica e popolare (articolo ItaliaOggi del 05.06.2013).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Edilizia senza segreti. Permessi di costruire accessibili ai consiglieri. Ma l'utilizzo deve essere limitato alle sole finalità istituzionali.
Il responsabile del servizio che riceve, da parte di un consigliere comunale, la richiesta di accesso agli atti relativi al rilascio di un permesso di costruire è obbligato a comunicarlo al titolare del permesso stesso, in qualità di interessato al procedimento, in virtù dell'asserita natura riservata dei documenti? Sussiste, nel caso di accesso agli atti, un dovere di «astensione», per eventuale conflitto di interesse, in capo al consigliere richiedente?

Come sostenuto dalla commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, il «diritto di accesso» ed il «diritto di informazione» dei consiglieri comunali nei confronti della p.a. trovano la loro disciplina specifica nell'art. 43 del dlgs n. 267/2000, che riconosce ai consiglieri comunali e provinciali il «diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato».
Al consigliere comunale viene, pertanto, riconosciuto un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi, attribuito al cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10, Tuel) sia, più in generale, nei confronti della p.a., quale disciplinato dalla legge n. 241/1990. Ciò in ragione del ruolo di garanzia democratica svolto dal consigliere comunale; del particolare munus espletato, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione; della funzione pubblicistica dallo stesso esercitata (a maggior ragione qualora il consigliere comunale appartenga alla minoranza, istituzionalmente deputata allo svolgimento di compiti di controllo e verifica dell'operato della maggioranza).
Il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, la p.a. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell'organo deputato all'individuazione e al perseguimento dei fini collettivi. Conseguentemente, gli uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato. Ciò, anche nel rispetto della separazione dei poteri sancita per gli enti locali dall'art. 107 del dlgs n. 267/2000 che richiama il principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, essendo riservata ai dirigenti la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica.
La giurisprudenza del Consiglio di stato si è orientata nel senso di ritenere che ai consiglieri comunali spetti un'ampia prerogativa a ottenere informazioni, senza che possano essere opposti profili di riservatezza nel caso in cui la richiesta riguardi l'esercizio del mandato istituzionale, restando fermi, peraltro, gli obblighi di tutela del segreto e i divieti di divulgazione di dati personali secondo la vigente normativa sulla riservatezza. L'eventuale segretezza (delle indagini o professionale) che pure opera nei confronti del consigliere comunale non è quella legata alla natura dell'atto ma al divieto di divulgare, «nei casi specificamente determinati dalla legge», il contenuto degli atti ai quali ha avuto accesso, stante il vincolo previsto in capo al consigliere comunale dal citato art. 43 all'osservanza del segreto d'ufficio nelle ipotesi specificatamente determinate dalla legge nonché al divieto di divulgazione dei dati personali ai sensi del dlgs 196/2003 e successive modificazioni
In merito al caso di specie deve farsi riferimento alla decisione n. 549 del 23.05.1997 con cui, la V sezione del Consiglio di stato ha riconosciuto che «in virtù dell'art. 22 della legge 241 del 1990, qualsiasi soggetto abitante nel comune ha diritto di accesso agli atti relativi ad una concessione edilizia rilasciata dal sindaco». In particolare, trattandosi di diritto del cittadino di accedere ai documenti del proprio comune, la materia è soggetta non alla disciplina generale della legge n. 241/1990 ma a quella particolare della legge 17.08.1942, n. 1150, che all'art. 31, comma 8, stabilisce che «chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali della concessione edilizia e dei relativi atti di progetto», e del dlgs n. 267/2000, art. 10.
I permessi per costruire non sono, pertanto, soggetti a particolare riservatezza, potendo essere conosciuti da qualsiasi cittadino. A maggior ragione, il consigliere comunale, non può essere escluso dall'accesso e conseguentemente ha diritto a ottenere copia di tali atti, fatto salvo il loro utilizzo per finalità esclusivamente istituzionali (articolo ItaliaOggi del 07.06.2013).

TRIBUTI: Area edificabile o fabbricato?
Domanda
Come deve essere trattato ai fini Imu un fabbricato per il quale non sono stati ancora ultimati i lavori nel senso che solo il piano terreno è accatastato e utilizzato, mentre i piani superiori non sono stati ancora completati? Come fabbricato, come area edificabile o in parte l'uno e in parte l'altro?
Risposta
L'interessante questione è stata approfondito in vigenza dell'Ici dalla Corte di cassazione con la sent. n. 23347/2004.
Le considerazioni svolte restano valide anche per l'Imu. Nell'occasione il comune aveva preteso di tassare non solo l'appartamento al piano terra, già accatastato e utilizzato, ma anche di scorporare –per tassarla come area edificabile- la quota dell'area dalla quale si sviluppava la cubatura relativa al secondo appartamento, al 1° piano, non ancora ultimato, né utilizzato, e dichiarato al catasto come fabbricato ancora in corso di costruzione, quindi senza rendita.
La Cassazione, così come la Commissione tributaria di secondo grado di Bolzano, hanno riconosciuto le ragioni del contribuente nel senso che il solo appartamento ultimato deve essere assoggettato a imposizione. Non è infatti possibile individuare astrattamente un'area edificabile ancora tassabile oltre a quella su cui insiste la costruzione, ossia il sedime, mentre il piccolo lembo di terreno residuo circostante alla costruzione è stato censito al Catasto come pertinenza dell'appartamento al piano terra.
Tale conclusione trae origine dalla norma espressa dall'art. 2, 1° c., lettera a) del dlgs n. 504/1992, come già detto applicabile anche all'Imu, ai sensi della quale «Ai fini dell'imposta: a) per fabbricato si intende l'unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta nel catasto edilizio urbano, considerandosi parte integrante del fabbricato l'area occupata dalla costruzione e quella che ne costituisce pertinenza; il fabbricato di nuova costruzione è soggetto all'imposta a partire dalla data di ultimazione dei lavori di costruzione ovvero, se antecedente, dalla data in cui è comunque utilizzato».
Ultimato o comunque utilizzata l'unità al piano terra non si ha più area edificabile tassabile e viene meno la regola di cui all'art. 5, 6° c. del medesimo dlgs n. 504/1992 secondo la quale «in caso di utilizzazione edificatoria dell'area, di demolizione di fabbricato, di interventi di recupero a norma dell'articolo 31, comma 1, lettere c), d) ed e), della legge 05.08.1978, n. 457, la base imponibile è costituita dal valore dell'area, la quale è considerata fabbricabile anche in deroga a quanto stabilito nell'art. 2, senza computare il valore del fabbricato in corso d'opera, fino alla data di ultimazione dei lavori di costruzione, ricostruzione o ristrutturazione ovvero, se antecedente, fino alla data in cui il fabbricato costruito, ricostruito o ristrutturato è comunque utilizzato» (articolo ItaliaOggi Sette del 03.06.2013).

LAVORI PUBBLICI:  Linee guida sponsorizzazioni.
Domanda
Mi dicono dell'approvazione delle linee guida per sponsorizzazioni di beni culturali, ma non riesco a reperirne notizia. Chiedo di avere riferimenti al riguardo.
Risposta
Il decreto del ministero per i beni e le attività culturali 19.12.2012 recante «Approvazione delle norme tecniche e linee guida in materia di sponsorizzazioni di beni culturali e di fattispecie analoghe o collegate» è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 60 del 12.03.2013.
Il decreto si pone come compimento di una serie di atti volti a regolare la prassi di sponsorizzazione di beni culturali (percorso iniziato con l'art. 120 del codice dei beni culturali, proseguito con gli articoli 26 e 27 del dlgs 163/2006 e la legge 35/2012) (articolo ItaliaOggi Sette del 03.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA:  Parcheggi «Tognoli».
Domanda
Ho letto di recente che è stata modificata la disciplina che regolamenta la possibilità di trasferire i parcheggi pertinenziali. Potreste darmi qualche delucidazione?
Risposta
È vero. L'art. 10 del dl «Semplificazione e Sviluppo» n. 5/2012 (conv. dalla legge n. 35/2012) ha sostituito l'art. 9, 5° c. , della legge «Tognoli» n. 122/1989. L'art. 9, 5° c., ora stabilisce che, fermo restando l'art. 41-sexies, legge n. 1150/1942 e l'immodificabilità dell'esclusiva destinazione a parcheggio, la proprietà dei parcheggi realizzati a norma del 1° comma può essere trasferita, anche in deroga a quanto previsto nel titolo edilizio e nei successivi atti convenzionali, solo con contestuale destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso comune mentre i parcheggi realizzati ai sensi del 4° c. del medesimo art. 9 continuano a non poter essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale a pena di nullità dei relativi atti di cessione, a eccezione di espressa previsione contenuta nella convenzione stipulata con il comune, ovvero quando quest'ultimo abbia autorizzato l'atto di cessione.
La modifica riguarda solo i parcheggi di cui all'art. 9, 1° c., legge n. 122/1989 ai sensi del quale: «I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti.
Tali parcheggi possono essere realizzati, a uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici.
Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica e ambientale e i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai ministeri dell'ambiente e per i beni culturali e ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90 giorni.
I parcheggi stessi ove i piani del traffico non siano stati redatti, potranno comunque essere realizzati nel rispetto delle indicazioni di cui al periodo precedente
».
Il 4° c. dell'art. 9 stabilisce invece che i comuni, previa determinazione dei criteri di cessione del diritto di superficie e su richiesta dei privati interessati o di imprese di costruzione o di società anche cooperative, possono prevedere, nell'ambito del programma urbano dei parcheggi, la realizzazione di parcheggi da destinare a pertinenza di immobili privati su aree comunali o nel sottosuolo delle stesse. (_).
La costituzione del diritto di superficie è subordinata alla stipula di una convenzione nella quale siano previsti la durata della concessione del diritto di superficie per un periodo non superiore a novanta anni e altri elementi tra i quali le sanzioni previste per gli eventuali inadempimenti.
Prima della recente modifica normativa, anche i parcheggi di cui al 1° c. dell'art. 9 (quelli, cioè, su proprietà privata) non potevano essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla quale erano legati da vincolo pertinenziale, a pena di nullità dei relativi atti di cessione, preclusione tuttora prevista per i parcheggi realizzati su area comunale di cui al 4° comma dell'art. 9 della legge n. 122/1989 (articolo ItaliaOggi Sette del 03.06.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Assenza per testimonianza e missione.
Nel caso di dipendente chiamato a rendere testimonianza giudiziale, lo stesso deve essere considerato in servizio solo qualora la deposizione sia resa nell'interesse dell'ente di appartenenza, riferendosi a 'fatti inerenti al servizio'. In caso contrario, il dipendente dovrà utilizzare altri istituti, quali ferie o permesso a recupero.
Il Comune chiede un parere in ordine ad una testimonianza, che verrà resa da un agente di polizia municipale, in qualità di agente accertatore di fatto delittuoso, nello svolgimento della normale attività di servizio presso la precedente amministrazione comunale. L'interessato è, infatti, transitato presso il richiedente mediante procedura di mobilità.
Preliminarmente si osserva che la questione prospettata appare alquanto complessa e dibattuta in quanto si insinua in una lacuna normativa e regolamentare, poiché, né nella legislazione nazionale e regionale vigente, né nella contrattazione collettiva è possibile rinvenire una puntuale disciplina della materia. Inoltre, né a livello di pronunce giurisprudenziali, né a livello di contributo di dottrina, si è reperito un orientamento specifico in proposito, che possa fare definitiva chiarezza e fugare alcuni dubbi, atteso che, nel caso concreto, la testimonianza attiene ad attività svolta presso un comune diverso da quello di attuale appartenenza.
Premesso un tanto, sulla scorta degli elementi comunque rinvenuti, si esprimono le seguenti considerazioni.
E' incontestabile il diritto del pubblico dipendente ad assentarsi per rendere testimonianza, diritto che deriva, peraltro, da un preciso dovere in capo al soggetto intimato, cui non è ammissibile sottrarsi. Tale obbligo, infatti, se non adempiuto spontaneamente, può comportare anche l'accompagnamento coattivo, su ordine del giudice.
Come precisato anche dall'ARAN, solo nel caso in cui la testimonianza giudiziale non sia svolta nell'interesse della pubblica amministrazione, l'assenza è imputata, secondo autonomo giudizio del dipendente, a ferie, permesso a recupero o permesso per particolari motivi personali
[1].
Per quanto concerne, nello specifico, l'interpretazione della locuzione 'nell'interesse dell'amministrazione', in merito alla quale la predetta Agenzia non fornisce elementi certi per l'esatta individuazione, si ritiene utile richiamare l'art. 48 del d.p.r. 115/2002, che disciplina il rimborso spese e le indennità spettanti ai dipendenti pubblici chiamati a rendere testimonianza 'per fatti inerenti al servizio'.
La citata disposizione
[2], prevede, nel caso di dipendenti pubblici, la corresponsione del rimborso spese e delle indennità di cui agli artt. 45 e 46 [3] del medesimo decreto (spese di giustizia gravanti sull'amministrazione della giustizia), salva l'integrazione, sino a concorrenza del trattamento di missione, corrisposta dall' 'amministrazione di appartenenza'.
Nel caso prospettato, la particolarità consiste però nel fatto che la testimonianza non è resa nell'interesse dell'attuale amministrazione di appartenenza, ma per un diverso ente, presso cui il dipendente ha in precedenza svolto il proprio servizio.
Al riguardo, non si è avuto riscontro, giurisprudenziale o dottrinale, sul fatto che, qualora un dipendente pubblico renda una testimonianza per un fatto inerente al servizio prestato presso un'amministrazione diversa da quella di appartenenza attuale, debba essere comunque considerato in servizio, intendendo quindi l'accezione 'amministrazione' come pubblica amministrazione in senso lato e non solo riferita a quella d'attuale appartenenza.
Anche se, dal punto di vista della ragionevolezza, può sembrare illogico che un dipendente debba essere costretto ad utilizzare istituti quali le ferie o i permessi orari a recupero per prestare testimonianza su fatti relativi al servizio effettuato, sia pure presso altra amministrazione, resta dubbio se l'amministrazione di attuale appartenenza debba sopportare un onere economico (autorizzazione di missione con relative spese), per una motivazione estranea all'attività prestata presso la medesima.
D'altra parte, non si è rinvenuta alcuna norma (di legge o contrattuale) che preveda l'accollo degli oneri in argomento al comune di provenienza.
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[1] Cfr. RAL 917, consultabile sul sito: www.aranagenzia.it. Si evidenzia peraltro che il ricorso a permessi per particolari motivi personali non è più utilizzabile dal personale del comparto unico, alla luce dell'intervenuta disposizione di cui all'art. 19, comma 3, del CCRL del 07.12.2006, che ha disposto la disapplicazione dell'art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995.
[2] 'Ai dipendenti pubblici, chiamati come testimoni per fatti inerenti al servizio, spettano il rimborso spese e le indennità di cui agli articoli 45 e 46, salva l'integrazione, sino a concorrenza dell'ordinario trattamento di missione, corrisposta dall'amministrazione di appartenenza'.
[3] Nella fattispecie prospettata non si rientra peraltro neanche nell'ipotesi di cui all'art. 43 del d.p.r. n. 115/2002 (compimento di atti del processo penale fuori sede da parte di ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria per atti ad essi direttamente delegati dal magistrato). Ad ogni buon conto, si osserva che le spese, in tale caso, sono a carico dell'Amministrazione giudiziaria
(30.05.2013 - link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: D.Lgs. n. 33/2013. Responsabile per la trasparenza.
Ai sensi dell'art. 43, D.Lgs. n. 33/2013, le funzioni di responsabile in materia di trasparenza sono, di norma, di competenza del responsabile della prevenzione della corruzione. Il responsabile della trasparenza concorre con l'organismo indipendente di valutazione (OIV) alla realizzazione delle attività concernenti la trasparenza nelle p.a., con differenti funzioni. Il legislatore considera, infatti, il responsabile della trasparenza quale organo di controllo dell'applicazione della trasparenza nelle p.a. e di segnalazione alle Autorità previste, tra cui all'OIV, delle eventuali criticità riscontrate, mentre configura l'OIV quale organo che esercita un'attività di impulso ('promuove') e attestazione ('attesta') degli obblighi relativi alla pubblicazione dei dati.
Le disposizioni di cui all'art. 45, D.Lgs. n. 33/2013, disciplinanti i compiti della Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche (CIVIT) in materia di trasparenza, sono applicabili anche agli enti locali del FVG, essendo la CIVIT investita di dette competenze anche nella sua qualità di Autorità nazionale anticorruzione e costituendo le disposizioni del D.Lgs. n. 33/2013, espressione della competenza legislativa statale di cui all'art. 117, secondo comma, lett. m), Cost..

Il Comune chiede un parere in ordine alla figura del responsabile per la trasparenza nei comuni del Friuli Venezia Giulia, in particolare se lo stesso vada individuato nel responsabile della prevenzione della corruzione ai sensi dell'art. 43, D.Lgs. n. 33/2013
[1], ovvero nell'Organismo indipendente di valutazione (OIV), di cui alla L.R. n. 16/2010 [2], che investe tale organo, tra le altre, di funzioni relative alla trasparenza. Il Comune chiede, inoltre, di sapere se le disposizioni relative alle funzioni della CIVIT in materia di trasparenza trovino applicazione anche nella regione FVG.
La disamina della questione rende opportuno delineare le figure del responsabile della trasparenza e dell'OIV nonché i rapporti intercorrenti tra i due organi, avuto riguardo alle attività di rispettiva competenza.
L'art. 43, D.Lgs. n. 33/2013, in vigore dal 20.04.2013, disciplina la figura del responsabile per la trasparenza: all'interno di ogni amministrazione il responsabile per la prevenzione della corruzione, di cui all'art. 1, comma 7, L. n. 190/2012, svolge, di norma, le funzioni di responsabile per la trasparenza e il suo nominativo è indicato nel Programma triennale per la trasparenza e l'integrità
[3] (comma 1); il responsabile per la trasparenza svolge stabilmente un'attività di controllo sull'adempimento da parte dell'amministrazione degli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa vigente, assicurando la completezza, la chiarezza e l'aggiornamento delle informazioni pubblicate, nonché segnalando all'organo di indirizzo politico, all'Organismo indipendente di valutazione (OIV), all'Autorità nazionale anticorruzione e, nei casi più gravi, all'ufficio di disciplina i casi di mancato o ritardato adempimento degli obblighi di pubblicazione (comma 1).
La norma richiamata evidenzia l'attribuzione al responsabile per la trasparenza di un'attività di controllo sull'osservanza delle disposizioni sulla trasparenza nelle pubbliche amministrazioni e di un'attività di segnalazione, tra gli altri, all'OIV, dei casi di mancato o ritardato adempimento
[4].
Per quanto concerne l'OIV, sul piano della normativa statale, lo stesso è previsto dall'art. 14, D.Lgs. n. 150/2009, che lo istituisce in sostituzione del Servizio di controllo interno e ne disciplina le attività, attribuendogli, tra le altre competenze, per quanto qui di interesse, quella di monitorare il funzionamento complessivo della trasparenza [(comma 4, lett. b)] e quelle di promuovere e attestare l'assolvimento degli obblighi relativi alla trasparenza [(comma 4, lett. g)].
Sul piano dell'ordinamento regionale, la regione FVG, nell'ambito della sua autonomia statutaria, ha dettato una propria disciplina dell'Organismo indipendente di valutazione, che ricalca, invero, quella nazionale sopra delineata
[5]. Specificamente, l'art. 6, L.R. n. 16/2010, prevede che ogni amministrazione del comparto unico FVG si doti di un organismo indipendente di valutazione della prestazione, in sostituzione del nucleo di valutazione, che esercita in piena autonomia le attività ivi indicate, tra cui, quella di monitorare il funzionamento complessivo della trasparenza [(comma 6, lett. a)] e quelle di promuovere e attestare l'assolvimento degli obblighi relativi alla trasparenza e all'integrità di cui alle vigenti disposizioni [(comma 6, lett. g)].
Le normative richiamate conducono alle considerazioni che seguono.
Il responsabile per la trasparenza e l'Organismo indipendente di valutazione sono individuati come diversi soggetti coinvolti nella realizzazione delle attività concernenti la trasparenza
[6], distintamente configurati in funzione delle differenti funzioni di propria competenza. Il legislatore considera, infatti, il responsabile della trasparenza quale organo di controllo dell'applicazione della trasparenza nelle p.a. e di segnalazione alle Autorità previste, tra cui all'OIV, delle eventuali criticità riscontrate, mentre considera l'OIV quale organo che esercita un'attività di impulso ('promuove') e attestazione ('attesta') degli obblighi relativi alla pubblicazione dei dati [7]. Sotto tale profilo, un eventuale sovrapporsi dei due organi verrebbe a configurare una situazione per cui il soggetto investito dell'attività di controllo della trasparenza e chiamato a segnalarne le criticità è lo stesso deputato a ricevere le segnalazioni. Pertanto, venendo al quesito posto dal Comune, le funzioni in materia di trasparenza sono, di norma, di competenza del responsabile della prevenzione della corruzione, ai sensi dell'art. 43, D.Lgs. n. 33/2013 [8].
Il Comune pone un'ulteriore questione circa l'applicazione nella regione FVG delle disposizioni di cui all'art. 45, D.Lgs. n. 33/2013, concernenti le funzioni della CIVIT in materia di trasparenza.
Per espressa previsione della legge delega n. 190/2012 (art. 1, comma 36), nonché dell'art. 1, comma 3, D.Lgs. n. 33/2013, le disposizioni di cui al medesimo decreto integrano l'individuazione del livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche a fini di trasparenza, prevenzione, contrasto della corruzione e della cattiva amministrazione, a norma dell'art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, e costituiscono altresì esercizio della funzione di coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale, di cui all'art. 117, secondo comma, lettera r), della Costituzione. Come noto, già per l'art. 11, D.Lgs. n. 150/2009, la trasparenza costituisce livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost..
Inoltre, l'art. 45, D.Lgs. n. 33/2013, attribuisce alla CIVIT i compiti di controllare l'esatto adempimento degli obblighi di pubblicazione inerenti alla trasparenza con riferimento anche alla sua qualità di Autorità nazionale anticorruzione
[9]. La Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche (istituita dall'art. 13, D.Lgs. n. 150/2009), infatti, è individuata ed opera quale Autorità nazionale anticorruzione ai sensi dell'art. 1, comma 1, L. n. 190/2012 [10], applicabile a tutte le p.a., quindi anche agli enti locali, in quanto norma di diretta attuazione del principio di imparzialità di cui all'art. 97 della Costituzione [11].
La combinazione dell'espressa qualificazione delle norme del D.Lgs. n. 33/2013 come attinenti al livello essenziale delle prestazioni (prerogativa dello Stato) e dell'attribuzione alla CIVIT dei compiti in materia di trasparenza anche nella sua qualità di Autorità nazionale anticorruzione (istituita e disciplinata con norme di diretta attuazione dell'art. 97, Cost.) induce a ritenere l'applicabilità delle disposizioni di cui all'art. 45, D.Lgs. n. 33/2013, anche negli enti locali del FVG.
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[1] D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, recante: 'Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni'.
[2] L.R. 11.08.2010, n. 16, recante: 'Norme urgenti in materia di personale e di organizzazione nonché in materia di passaggio al digitale terrestre'.
[3] Con l'emanazione del D.Lgs. n. 33/2013, diventa obbligatoria per tutte le pubbliche amministrazioni, e dunque anche per gli enti locali, l'adozione del programma triennale per la trasparenza e l'integrità (cfr. ANCI, Disposizioni in materia di trasparenza nelle pubbliche amministrazioni, Nota informativa sul D.Lgs. n. 33/2010, Aprile 2013).
Tale strumento era già previsto dall'art. 11, D.Lgs. n. 150/2009, in materia di trasparenza. Tuttavia, Le disposizioni dell'art. 11, non trovando diretta applicazione presso le amministrazioni locali, per effetto dell'art. 16, rimettevano alla volontà degli enti l'adozione degli strumenti indicati dalla norma per garantire l'attuazione della trasparenza, tra cui l'adozione del programma triennale per la trasparenza. Ai sensi dell'art. 16, infatti, solo le disposizioni di cui ai commi 1 e 3 dell'art. 11, qualificate dal legislatore come livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lett. m), Cost., riferite alla definizione della 'trasparenza', alla sua qualificazione come livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche e alla sua determinazione quale obiettivo che deve essere garantito in ogni fase del ciclo di gestione della performance, trovano diretta applicazione negli enti locali (Cfr. ANCI, Linee guida agli enti locali in materia di trasparenza ed integrità, 30.10.2012, p. 4).
[4] Cfr. nota Anci del 12.04.2013.
[5] Ai sensi dell'art. 16 del D.Lgs. n. 150/2009, non trovano diretta applicazione presso le autonomie locali le disposizioni (di dettaglio) recate dall'art. 14 del decreto (caratteristiche e funzioni dell'organismo) (cfr. ANCI, L'applicazione del decreto legislativo n. 150/2009 negli enti locali: Le linee guida dell'Anci in materia di ciclo della performance, p. 36).
[6] Cfr. ANCI, Linee guida agli enti locali in materia di trasparenza ed integrità, p. 12.
[7] Cfr. ANCI, Linee guida agli enti locali in materia di trasparenza ed integrità, p. 12.
[8] Come noto, già la circolare della funzione pubblica n. 1/2013 suggeriva (paragrafo 2.5), valutata la necessità di stabilire un raccordo in termini organizzativi tra il Responsabile della prevenzione della corruzione ed il responsabile della trasparenza, la possibilità di optare per la concentrazione delle responsabilità in capo ad un unico dirigente. In quell'occasione, alla data del 21.01.2013, la Funzione pubblica richiamava la delibera n. 105/2010 della CIVIT che demandava a ciascuna amministrazione il compito di designare il responsabile della trasparenza e riferiva dell'intervenuta approvazione in via preliminare dello schema di decreto legislativo recante 'Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni', evidenziando la previsione contenuta nel decreto secondo cui, di norma, le figure dei responsabili della prevenzione della corruzione e della trasparenza sono accorpate in un unico soggetto. Con l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 33/2013, si osserva che il tenore letterale dell'art. 1, comma 43, rivela che di regola, 'di norma', appunto, il responsabile della trasparenza coincide con quello per la 'prevenzione della corruzione' (nella Relazione illustrativa allo schema del D.Lgs. n. 33/2013 si evidenzia l'obiettivo dell'art. 43 di individuare nel soggetto responsabile della prevenzione della corruzione anche il responsabile della trasparenza e della integrità), ma le amministrazioni potrebbero anche scegliere di distinguere le due figure (Federica Caponi, Trasparenza: dal 20 aprile in vigore i nuovi obblighi di pubblicità e diffusione, su Universopa, n. 4/2013; Antonello Cherchi e Valeria Uva, La Trasparenza nella PA, su Il Sole24 ore, 06.05.2013).
[9] Nella Relazione illustrativa allo schema del D.Lgs. n. 33/2013, in commento all'art. 45, si evidenzia il collegamento tra il dovere di adempimento agli obblighi di trasparenza posti a carico dei dirigenti e gli obiettivi di prevenzione della corruzione voluti dal legislatore.
[10] Con la legge 190 la Civit si sostituisce nel ruolo di Autorità nazionale anticorruzione al Dipartimento della funzione pubblica, che ha ricoperto tale veste sino a quel momento (cfr. Camera dei deputati, Temi dell'attività parlamentare, 'Legge 190/2012 - Misure anticorruzione nella p.a.', 20.02.2013, all'indirizzo web: http://www.camera.it).
[11] Cfr. Dipartimento della funzione pubblica, circolare 25.01.2013, n. 1
(29.05.2013 - link a www.regione.fvg.it).

URBANISTICA: Parere in merito alla procedura ed agli effetti urbanistici della rimozione di un accordo di programma in variante allo strumento urbanistico generale - Comune di Castel Gandolfo (Regione Lazio, parere 17.05.2013 n. 165202 di prot.).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Controllo sulle assenze: Inps o Asl? (Risorse Umane n. 2/2013).

NEWS

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTIIndennizzi per i ritardi della burocrazia. Pronte le semplificazioni: Durc «d'ufficio» - Scadenze unificate per adempimenti amministrativi e fiscali.
MENO ONERI PER LE IMPRESE/ Micro-liberalizzazioni e procedure veloci per edilizia, lavoro, ambiente Sull'opzione dei risarcimenti le perplessità del Tesoro.

Soddisfatti o rimborsati. Per le lentezze della burocrazia cittadini e imprese potrebbero beneficiare, per la prima volta, di un indennizzo, seppure in misura simbolica. Che scatterebbe automaticamente entro 60 giorni dall'accertamento del ritardo, ovvero del mancato rispetto dei termini fissati per la conclusione dei procedimenti amministrativi.
Il nuovo meccanismo, con la funzione di "deterrente" nei confronti della lentocrazia e di incentivo per i comportamenti virtuosi, potrebbe essere attivato dal nuovo piano di semplificazione che dovrebbe essere varato giovedì o venerdì dal Consiglio dei ministri. Anche se la misura sui "risarcimenti" resta a rischio viste le perplessità del Tesoro sui costi. Il piano è comunque a vasto raggio: spazierà dall'edilizia al lavoro passando per gli appalti e l'ambiente. E potrebbe contenere anche un capitolo fiscale.
Tra gli interventi ormai certi, l'accorpamento in due sole scadenze fisse all'anno delle date degli adempimenti amministrativi e fiscali (1° luglio e 1° gennaio successivi all'entrata in vigore dei provvedimenti di legge) per ridurre gli oneri burocratici per cittadini e imprese. E la procedura accelerata per il Durc (il documento di regolarità contributiva).
In particolare, sarà possibile il rilascio d'ufficio del Durc (necessario per gli appalti pubblici). Che avrà una durata di 180 giorni, senza più dover essere richiesto a ogni contratto, come accade attualmente. E che manterrà la propria validità nei confronti di tutte le stazioni appaltanti e degli enti aggiudicatori. Un dispositivo che dovrebbe consentire di accelerare i tempi di pagamento e di ridurre gli oneri a carico delle stesse amministrazioni.
Uno dei pilastri del piano di semplificazione sarà costituito dalle misure in chiave di mini-liberalizzazione per l'avvio delle attività produttive, sulle quali si sta concentrando il tavolo tecnico attivato allo Sviluppo economico dal ministro Flavio Zanonato e seguito in prima persona dal sottosegretario Simona Vicari.
Nel pacchetto verrebbe inserito l'obbligo di rilasciare i titoli di studio anche in lingua inglese.
Dovrebbe poi essere prevista una velocizzazione delle procedure per la dichiarazione per la tassa dei rifiuti e un'ulteriore accelerazione del percorso per il cambio di resistenza, sulla base delle indicazioni che arrivano dallo staff tecnico del ministro della Pubblica amministrazione, Gianpiero D'Alia.
Non dovrebbe mancare poi un nuova fase di delegificazione. I tecnici del ministero della Pubblica amministrazione, in collaborazione con quelli di Palazzo Chigi, dello Sviluppo economico e anche dell'Economia, stanno valutando un intervento di ripulitura definitiva del "bosco e del sottobosco" normativo con l'obiettivo di sopprimere espressamente tutte le disposizioni legislative statali oggetto di abrogazioni tacita o implicita: si tratta di quelle norme considerate obsolete.
A confermare che «il Governo presenterà presto un pacchetto di misure sulle liberalizzazioni» sul fronte burocratico è stato ieri il ministro dell'Economia, Fabrizio Saccomanni. Il punto di partenza è il Ddl semplificazioni bis targato Patroni Griffi che fu lasciato su un binario morto alla fine della scorsa legislatura. Ma con molte integrazioni. L'obiettivo è varate il pacchetto nel prossimo Consiglio dei ministri (v. Il Sole 24 Ore di ieri).
Alcuni nodi devono comunque essere ancora sciolti, a cominciare da quello dell'eventuale capitolo fiscale. E da definire è anche lo strumento legislativo da adottare: sul tavolo ci sono al momento due opzioni: un provvedimento unico oppure un doppio testo. Con il ricorso a un decreto legge per le semplificazioni più urgenti soprattutto sul versante delle imprese, come ad esempio quelle sull'accelerazione del Durc o quelle sul lavoro (che potrebbero anche finire nel Dl sul piano per l'occupazione giovanile su cui sta lavorando il ministro Enrico Giovannini).
In ogni caso il decreto verrebbe accompagnato da un disegno di legge con gli altri interventi anti-burocrazia al quale sarebbe garantita comunque una corsia preferenziale in Parlamento (articolo Il Sole 24 Ore del 09.06.2013).

CONSIGLIERI COMUNALII sindaci faranno testamento politico. Via alla relazione di fine mandato.
Pronti gli schemi su cui si devono fondare le relazioni di fine mandato che sindaci e presidenti di province sono tenuti a redigere secondo le previsioni dell'articolo 4 del decreto legislativo n. 149/2011, istitutivo dei meccanismi sanzionatori e premiali relativi a regioni, province e comuni.

A mettere nero su bianco gli schemi di cui sopra, ci ha pensato il decreto interministeriale 26.04.2013, firmato congiuntamente dal Viminale e dal Mineconomia.
Il dm si compone di tre allegati. Il primo è riservato allo schema tipo di relazione che i presidenti delle province devono sottoscrivere al termine del loro mandato. Il secondo allegato, invece, è riservato allo schema di pertinenza dei sindaci di comuni con popolazione pari o superiore a 5 mila abitanti, mentre l'ultimo allegato, redatto in forma ultra semplificata, è riservato ai primi cittadini dei comuni con meno di 5 mila abitanti.
La forma dei predetti schemi ricalca, nell'ottica di uno snellimento dell'attività amministrativa, la struttura di quelli già utilizzati dagli enti locali per comunicare telematicamente le risultanze del bilancio consuntivo e di quelli con cui, ai sensi della legge finanziaria del 2006, ci si «interfaccia» con la competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti. Le relazioni, poi, dovranno essere inviate alla Conferenza Stato-città (nelle more dell'avvio del Tavolo tecnico interistituzionale previsto dal citato dlgs n. 149/2011) e alla Corte dei conti competente per territorio, entro dieci giorni dalla loro sottoscrizione.
Schema per le province. Dovranno essere indicati gli investimenti per l'edilizia scolastica, quelli per la rete viaria e gli interventi di manutenzione del territorio e ambiente. Si dovrà altresì indicare se durante il mandato, l'ente ha dichiarato o meno il dissesto finanziario o il predissesto previsto dal nuovo articolo 243-bis del Tuel.
Particolare attenzione al Patto di stabilità interno. In caso di mancato rispetto dei vincoli, le sanzioni cui l'ente è stato soggetto nonché gli eventuali rilievi oggetto da parte della Corte dei conti o quelli sollevati dall'organo di revisione contabile. Infine, spazio alle azioni intraprese per contenere la spesa.
Schema per i comuni. Lo schema previsto per le amministrazioni comunali non differisce molto da quello previsto per le amministrazioni provinciali per quanto riguarda le informazioni sull'attività generale. Sotto i riflettori, in questo caso, passa la politica tributaria locale esercitata durante il mandato.
Lo schema, infatti, si propone di acquisire informazioni sulle aliquote Ici o Imu deliberate nel corso del mandato, differenziandole per abitazione principale, altri immobili e fabbricati rurali. Spazio anche all'indicazione delle aliquote delle addizionali Irpef ed eventuali differenziazioni e fasce d'esenzione, così come alla descrizione del tasso di copertura del prelievo sui rifiuti e il suo costo pro capite. Come per le province, la relazione dovrà indicare i principali obiettivi inseriti nel programma di mandato e il livello della loro realizzazione.
Tra questi, il numero delle concessioni edilizie rilasciate, la percentuale della raccolta differenziata registrata all'inizio e al termine del governo della città, la quantificazione dei lavori pubblici. Sul versante del Patto, la musica non cambia. La relazione infatti si propone di sapere se l'ente ha sforato o meno i vincoli e a quali sanzioni è andato incontro (articolo ItaliaOggi dell'08.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Attestati energetici in stand by. Per far scattare il nuovo obbligo serve un dm apposito. L'analisi di Confedilizia sugli adempimenti previsti dal decreto energia (63/2013).
Norma sull'attestato di prestazione energetica non immediatamente operativa. Lo sostiene Confedilizia, in una nota relativa al decreto legge n. 63/2013, recante disposizioni in materia di prestazioni energetiche, in vigore da ieri.
Il provvedimento dispone, su imposizione dell'Unione europea, che, in occasione di trattative per la compravendita o la locazione di unità immobiliari, debba essere reso disponibile per il potenziale acquirente o per il nuovo locatario l'Attestato di prestazione energetica istituito dal nuovo provvedimento, attestato che dovrà essere consegnato alla conclusione delle trattative di cui si è detto (mentre rimane invariata, in materia, la situazione degli edifici storici).
Ma è da ritenersi, a parere dell'Ufficio legale della Confedilizia e nonostante l'equivocità e genericità del testo, che le diposizioni in parola non siano di immediata applicazione, atteso che il nuovo testo di legge prevede l'emanazione di un decreto interministeriale per l'adeguamento del precedente provvedimento sulla documentazione energetica, fissando criteri e contenuti obbligatori del nuovo Attestato di prestazione energetica. Di conseguenza, pur dopo l'emanazione del decreto legge deve ritenersi, secondo Confedilizia, che debbano continuare a osservarsi le previgenti norme nazionali o regionali.
«La direttiva europea prevede che gli stati membri possano rinviare fino al 31.12.2015 l'applicazione delle disposizioni concernenti la messa a disposizione e consegna degli Attestati di prestazione energetica. In questo momento, se c'è una cosa che non ha bisogno di essere ulteriormente scoraggiata, con l'imposizione oltretutto di oneri buroindotti, è la locazione e in particolare quella dei proprietari diffusi, che ci ha finora in gran parte salvati da una più grave emergenza abitativa. Auspichiamo che il parlamento, in sede di conversione del decreto legge imposto dall'Ue, si avvalga di questa facoltà concessa dalla normativa europea», afferma il presidente della Confedilizia, Corrado Sforza Fogliani (articolo ItaliaOggi del 07.06.2013).

ENTI LOCALIPartecipate, la trasparenza paga. Niente fondi se la p.a. omette informazioni sulla governance. L'obbligo previsto dal dlgs 33/2013 deve essere considerato immediatamente operativo.
Niente soldi agli enti di qualsiasi genere partecipati dagli enti pubblici, se non garantiscono la trasparenza.

L'articolo 22, comma 4, del dlgs 33/2013 impone alle amministrazioni ed agli enti partecipati di accelerare in modo bruciante nell'applicazione delle disposizioni contenute nell'articolo 22 stesso, pena l'illegittimità di erogazioni finanziarie.
Il comma 4 citato dispone che nel caso di mancata o incompleta pubblicazione dei dati relativi agli enti partecipati «è vietata l'erogazione in loro favore di somme a qualsivoglia titolo da parte dell'amministrazione interessata».
Poiché nel dlgs 33/2013 non è indicata alcuna disposizione di diritto transitorio, né si prevede per l'adempimento in argomento un termine iniziale, è da ritenere che il divieto posto dall'articolo 22, comma 4, sia immediatamente operante.
L'onere di pubblicare i dati ricade in capo alle amministrazioni pubbliche, chiamate a inserire nel sito istituzionale, nell'apposita sotto sezione della sezione amministrazione trasparente: l'elenco degli enti pubblici (comunque denominati, istituiti, vigilati e finanziati dalla amministrazione medesima ovvero per i quali l'amministrazione abbia il potere di nomina degli amministratori dell'ente); l'elenco delle società di cui detiene direttamente quote di partecipazione anche minoritaria indicandone l'entità; l'elenco degli enti di diritto privato, comunque denominati, in controllo dell'amministrazione.
Per ciascuno di detti enti, inoltre, occorre elencare le funzioni attribuite e le attività svolte in favore dell'amministrazione o le attività di servizio pubblico affidate.
Infine, occorre pubblicare anche una o più rappresentazioni grafiche che evidenziano i rapporti tra l'amministrazione e gli enti partecipati.
Come si nota, la norma coinvolge sostanzialmente qualsiasi soggetto partecipato, qualunque ne sia la natura. Si va, infatti, dagli enti pubblici (nel caso degli enti locali l'esempio è un'azienda speciale) alle società, fino a qualsiasi altro soggetto di diritto privato. L'estensione soggettiva della norma è amplissima. Del resto, è lo stesso articolo 22 a precisare che «ai fini delle presenti disposizioni sono enti di diritto privato in controllo pubblico gli enti di diritto privato sottoposti a controllo da parte di amministrazioni pubbliche, oppure gli enti costituiti o vigilati da pubbliche amministrazioni nei quali siano a queste riconosciuti, anche in assenza di una partecipazione azionaria, poteri di nomina dei vertici o dei componenti degli organi». Basta, dunque, che lo statuto anche di una fondazione o di un'associazione assegnino all'ente pubblico un potere di nomina o prevedano direttamente che un componente dell'ente partecipante faccia parte degli organi di amministrazione, che scatta l'obbligo di pubblicità fissato dalla norma.
Le amministrazioni, dunque, debbono effettuare il più presto possibile una ricognizione accurata di tutti i soggetti ai quali partecipino o rispetto ai quali svolgono funzioni di controllo, nel senso esplicitato dal legislatore.
Nessun provvedimento di erogazione di somme di denaro a vantaggio di detti soggetti può legittimamente essere adottato, se sul sito non siano presenti le informazioni previste.
È, dunque, compito dell'ufficio istruttore curare di verificare che sul sito siano pubblicati i dati come richiesto dall'articolo 22, per poter adottare il provvedimento. E della pubblicazione è opportuno che si dia espresso riscontro nel provvedimento, anche per permettere agli uffici finanziari di effettuare i necessari controlli. In effetti, la pubblicazione richiesta costituisce, anche se il legislatore non lo ha precisato espressamente, condizione di legalità del pagamento delle erogazioni finanziarie.
Poiché dette erogazioni sono vietate «a qualsiasi titolo», se le pubblicazioni non sono rispettate, qualsiasi tipologia di pagamento agli enti è vietato: dal contributo al corrispettivo del contratto di servizio, alla stessa eventuale erogazione di quote associative o di partecipazione (articolo ItaliaOggi del 07.06.2013).

CONDOMINIOLa riforma del condominio. Distacco dall'impianto centralizzato sulla carta.
Il distacco dall'impianto centralizzato di riscaldamento condominiale rischia di rimanere sulla carta. Sebbene il nuovo art. 1118 c.c., introdotto dalla legge n. 220/2012 che entrerà in vigore la prossima settimana, abbia previsto il diritto del singolo comproprietario di rinunciare all'utilizzo dell'impianto comune, il suo esercizio rimane subordinato a una serie di presupposti tecnici di difficile realizzazione, senza per questo esentare il condomino dal pagamento delle spese di manutenzione straordinaria e per la conservazione e messa a norma del medesimo.

La nuova formulazione dell'art. 1118 c.c. conferma che nel condominio la disciplina delle parti comuni si fonda sul principio dell'indivisibilità e del pari utilizzo delle stesse. Scopo della norma è evidentemente quello di impedire che il singolo condomino si sottragga al contributo obbligatorio per le spese relative ai beni e ai servizi comuni, rinunciando al relativo diritto di utilizzo. Anche l'impianto di riscaldamento centralizzato è un bene comune e, come tale, il suo funzionamento dovrebbe essere regolato dai medesimi principi di cui sopra, ivi incluso il divieto di rinunciare al relativo diritto (e di sopportarne gli oneri economici).
Tuttavia, con riferimento a questo specifico impianto (e a quello, simmetrico, di condizionamento), la giurisprudenza di legittimità aveva di fatto elaborato il principio per cui il comproprietario ben poteva operarne il distacco, restando però obbligato a sostenere le spese relative alla sua conservazione (restando pur sempre l'impianto un bene comune). La nuova legge n. 220/2012, volendo in qualche modo asseverare tale orientamento giurisprudenziale, ha quindi previsto espressamente il diritto di distacco del singolo condomino, subordinandolo però alla prova rigorosa del fatto che da tale operazione non derivino notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini.
Tuttavia non sembra che tale operazione sia fattibile dal punto di vista tecnico e che risulti particolarmente appetibile dal punto di vista economico, ferma restando la necessità di operare valutazioni caso per caso. Appare infatti generalmente difficile che il distacco di un condomino possa davvero avvenire senza squilibrio alcuno per l'impianto comune. E che dire, poi, degli eventuali distacchi successivi al primo? Ammesso pure che il distacco originario sia stato valutato tecnicamente fattibile, è di tutta evidenza che quelli che dovessero seguire avrebbero sempre meno possibilità di essere attuabili.
E ciò comporterebbe un'indubbia disparità di trattamento tra il primo condomino che dovesse optare per tale operazione e tutti quelli che dovessero eventualmente decidere in seguito. Dal punto di vista economico è poi tutto da verificare se il distacco possa essere davvero conveniente per il singolo comproprietario. Quest'ultimo, infatti, a parte i costi che dovrebbe sopportare per installare il nuovo impianto esclusivo, rimarrebbe comunque tenuto a concorrere nelle spese per la manutenzione straordinaria dell'impianto condominiale e per la sua conservazione e messa a norma.
Occorre poi evidenziare come in alcune regioni la nuova disposizione di cui all'art. 1118 c.c. potrebbe non essere recepita o addirittura vietata. Poiché, infatti, quello del distacco dall'impianto centralizzato è un argomento connesso alla materia dell'efficienza energetica degli impianti termici, che come tale ricade in un ambito di legislazione concorrente tra stato e regioni, queste ultime potrebbero anche dettare discipline più rigorose rispetto ai criteri nazionali.
Dal punto di vista pratico è utile poi sottolineare come, a stretto rigore, il condomino che voglia distaccarsi dall'impianto comune non sia tenuto ad avvertire preventivamente né l'amministratore né l'assemblea, anche se tale modus procedendi non appare consigliabile. Il condominio, infatti, ove non ritenesse legittimo l'operato del singolo condomino potrebbe chiedergli di provare con una perizia tecnica l'assenza delle predette controindicazioni tecniche e, in ogni caso, potrebbe rivolgersi all'autorità giudiziaria per la tutela dei propri interessi (articolo ItaliaOggi del 06.06.2013).

APPALTIAppalti, bandi senza trucchi. Serve la supervisione di un responsabile del procedimento. Gare d'appalti senza trucchi con la supervisione del Responsabile unico del procedimento (Rup).
Dal Consiglio superiore dei lavori pubblici ok al decreto con osservazioni. Il dm allunga il passo.
È questo in sostanza il rilievo più significativo che il Consiglio superiore dei lavori pubblici esprime nel parere sul decreto che determina «i corrispettivi a base di gare per gli affidamenti di contratti di servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria».
Un passaggio che non compromette il parere di qualche giorno fa (si veda ItaliaOggi del 18/05/2013) sul decreto che resta positivo, né l'iter di un provvedimento atteso da circa un anno dalle professioni di area tecnica. Ma che, secondo il Consiglio superiore dei lavori pubblici, andrebbe meglio esplicitato nel provvedimento in questione. In sostanza, secondo l'organo consultivo del governo, il ministero della giustizia dovrebbe precisare «che compete al responsabile del procedimento accertare che il corrispettivo da porre a base di gara non superi quello derivante dall'applicazione delle tariffe professionali vigenti prima dell'entrata in vigore del provvedimento de quo».
Del resto, come ricorda ancora il Cslp, era stata proprio la norma primaria a prevedere un paletto preciso, cioè che i nuovi parametri non avrebbero dovuto determinare un importo a base di gara superiore a quello che derivava dall'applicazione delle tariffe professionali vigenti prima dell'entrata in vigore dello stesso decreto. E poiché, per il Consiglio superiore, per verificare il vincolo di non superamento delle precedenti tariffe non sono sufficienti le esemplificazioni allegate spetta al Rup «procedere, sempre e comunque, alla verifica, per ogni singola ipotesi di affidamento, del rispetto del calmiere imposto dalla norma primaria». A questo punto ora sta ai ministeri competenti inserire tener conto di questa previsione oppure no.
Il testo ora è sul tavolo dell'ufficio legislativo del ministero delle infrastrutture per il parere di concerto e sarà poi inviato al Consiglio di stato.
Cresce, quindi, l'attesa per le categorie tecniche dopo che lo scorso anno il decreto legge sulle liberalizzazioni (n. 1/12) aveva cancellato ogni riferimento tariffario, privando le stazioni appaltanti di regole certe per calcolare gli importi e per determinare, di conseguenza, le corrette procedure per l'affidamento (articolo ItaliaOggi del 06.06.2013).

INCARICHI PROFESSIONALILa p.a. pagherà i professionisti. Crediti ammessi alla certificazione e cedibili alle banche. Il senato ha approvato il dl 35 che ora torna alla camera per la conversione in legge.
Al banchetto dei pagamenti della p.a. siederanno anche i professionisti. I crediti da loro vantati verso la pubblica amministrazione si affiancano a pieno titolo a quelli per somministrazioni, forniture e appalti che potranno essere oggetto di certificazione da parte delle regioni e degli enti locali per essere poi ceduti a banche e intermediari finanziari.
Doveva essere un passaggio lampo e limitato a poche, fondamentali, modifiche quello del dl 35 al senato. E invece il testo che ieri è stato licenziato con larghissima maggioranza dall'aula di palazzo Madama (247 voti favorevoli, 7 astenuti, tutti del gruppo di Sel e nessun voto contrario) presenta molte sostanziali novità, a cominciare proprio dall'ampliamento della platea dei beneficiari. Che ovviamente non può non piacere ai diretti interessati.
«Si tratta di una boccata d'ossigeno anche per i liberi professionisti, che entrano a pieno titolo tra i beneficiari del decreto», ha commentato il presidente di Confprofessioni, Gaetano Stella. «In una fase economica difficilissima, il provvedimento approvato dal senato potrebbe sbloccare ingenti risorse a favore di migliaia di professionisti, soprattutto dell'area tecnica e sanitaria, che vantano crediti certi, liquidi ed esigibili per svariati milioni di euro nei confronti della pubblica amministrazione centrale e locale».
Anche il Consiglio nazionale degli architetti plaude alle modifiche introdotte dai relatori Antonio D'Alì (Pdl) e Giorgio Santini (Pd) in un momento in cui «gli architetti stanno soffrendo, quanto o più delle imprese, lo scandalo dei ritardati o mai avvenuti pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni che stanno strozzando migliaia di professionisti e le loro famiglie, già colpite duramente dalla crisi».
Tra gli emendamenti approvati a palazzo Madama si segnalano anche quelli presentati in extremis dai relatori e che hanno portato a uno slittamento di un giorno della tabella di marcia, costringendo la camera dei deputati a un vero superlavoro per la definitiva conversione in legge del decreto che dovrà avvenire entro il 7 giugno.
Lunedì sera infatti (si veda ItaliaOggi di ieri) il duo Santini-D'Alì aveva partorito tre sostanziali modifiche in materia di finanza locale, molto attese e richieste dai comuni. Dalla proroga dell'uscita di scena di Equitalia dalla riscossione locale (che è slittata al 2014) a quella dei bilanci comunali (che a causa delle incertezze legate alla sospensione della prima rata dell'Imu potranno essere chiusi solo quando si conoscerà l'esito della riforma dei tributi immobiliari locali e quindi entro la nuova dead line del 30 settembre), passando per la restituzione dei 600 milioni che i sindaci si aspettavano a titolo di rimborso dell'Imu sui fabbricati di proprietà comunale.
Il farraginoso meccanismo messo in piedi dal Mef l'anno scorso prevedeva infatti che i comuni dovessero pagare (per di più a sé stessi) l'Imu sui propri fabbricati. L'equivoco normativo però non si limitava a creare una semplice partita di giro, ma incideva direttamente sui trasferimenti erariali ai comuni ridotti nel 2012 proprio in funzione del gettito Imu potenziale. L'emendamento Santini-D'Alì, su sollecitazione del governo, ha chiuso la partita non senza qualche polemica. Sono stati infatti stanziati 600 milioni di euro, ma 400 di questi sono stati reperiti dai fondi a disposizione delle imprese. Il fondo per pagare i debiti degli enti locali si riduce così di 200 milioni nel 2013 e di altri 200 milioni nel 2014. «È stata una scelta del governo», ha spiegato il relatore Santini, aggiungendo che «il fondo verrà rimpolpato nel 2014».
Approvato infine un emendamento che salva le elezioni per il rinnovo del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria in programma il prossimo 23 giugno. I giudici sovrannumerari che entro quella data non siano stati immessi nelle funzioni giurisdizionali non potranno né votare né essere eletti (articolo ItaliaOggi del 05.06.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Approda sulla Gazzetta Ufficiale il codice di comportamento dei pubblici impiegati. Il Galateo per i dipendenti p.a.. Al bando i regali e le collaborazioni da soggetti privati.
Regali al bando. Divieto di accettare collaborazioni dai privati. Obbligo di segnalare di essere membri di associazioni e, per i dirigenti, di essere in possesso di partecipazioni azionarie. Niente premi a chi viola la deontologia.
Il codice di comportamento dei dipendenti pubblici è stato pubblicato ieri sera in Gazzetta Ufficiale, aggiungendo così un altro tassello alla normativa «anticorruzione», con la riforma che mette in soffitta il dpcm del 28.02.2000 e i codici allegati ai contratti nazionali collettivi.
Ambito
Tra le maggiori novità del codice, l'estensione della sua applicazione che non si ferma ai soli lavoratori subordinati delle pubbliche amministrazioni. Infatti le disposizioni varranno per quanto compatibili, per tutti i collaboratori o consulenti, con qualsiasi tipologia di contratto o incarico e a qualsiasi titolo, per titolari di organi e di incarichi negli uffici di diretta collaborazione delle autorità politiche, e infine anche per collaboratori a qualsiasi titolo di imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell'amministrazione. Di conseguenza, i contratti regolanti i rapporti con questi soggetti dovranno contenere apposite disposizioni o clausole di risoluzione o decadenza del rapporto in caso di violazione degli obblighi derivanti dal codice.
Limite ai regali
Il nuovo codice ribadisce il divieto di chiedere per sé o per altri, regali o altre utilità. Il divieto riguarda anche l'accettazione di regali, ammessa solo per quelli d'uso di modico valore, nell'ambito delle relazioni di cortesia.
I regali o altre utilità di modico valore non possono superare orientativamente i 100 euro, ma i piani di prevenzione della corruzione possono modificare detto limite sia per ridurlo, sia per portarlo a un limite non superiore a 150 euro.
Collaborazioni
Allo scopo di scongiurare conflitti di interesse, si vieta ai dipendenti di accettare incarichi di collaborazione da soggetti privati che abbiano, o abbiano avuto nel biennio precedente, un interesse economico significativo in decisioni o attività inerenti all'ufficio di appartenenza.
Associazionismo
Sempre per contrastare il conflitto di interessi, i dipendenti debbono anche segnalare di essere membri di associazioni i cui ambiti di interessi siano coinvolti o possano interferire con lo svolgimento dell'attività dell'ufficio. Il datore di lavoro potrà valutare l'opportunità dell'appartenenza dei dipendenti a tali soggetti associativi. Il divieto non riguarda l'adesione a partiti politici o sindacati.
Niente incentivo a chi vìola il codice
Non rispettare le previsioni del codice di comportamento può costare caro: chi lo vìola non può aspirare ad avere incentivi individuali.
Infatti, si prevede che la grave o reiterata violazione, debitamente accertata, delle regole contenute nel codice, esclude la corresponsione di qualsiasi forma di premialità comunque denominata, a favore del dipendente.
Per la prima volta si innesta nell'ordinamento giuridico un collegamento diretto tra l'esclusione dalla produttività e i comportamenti. Si tratta di una sorta di responsabilità oggettiva: anche laddove il dipendente abbia espletato la propria attività in modo produttivo, ma in violazione delle regole di comportamento, rimane escluso da qualsiasi tipo di incentivazione.
Dirigenza
Il codice per la prima volta contiene una sezione specificamente dedicata ai dirigenti. Essi debbono dichiarare il possesso di partecipazioni azionarie o, comunque, di interessi anche del coniuge, in società o soggetti che abbiano frequenti relazioni con gli uffici da loro diretti.
I dirigenti sono chiamati a porsi come esempio per il restante personale, e specifici loro obblighi sono garantire il benessere dei dipendenti e un'equa ed efficiente ripartizione dei carichi di lavoro, nella distribuzione delle responsabilità procedimentali (articolo ItaliaOggi del 05.06.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATADecreto «vistato» dalla Ragioneria, oggi in Gazzetta.
LA RELAZIONE TECNICA/ Per i conti dello Stato effetto positivo nel 2013 con l'aumento di Iva, Irpef, Irap e Ires - Copertura necessaria dal 2014.

È prevista sulla «Gazzetta Ufficiale» di oggi (disponibile da stasera) la pubblicazione del decreto-legge che proroga fino alla fine dell'anno in corso i due bonus «lavori in casa» per il risparmio energetico (rafforzato al 65%) e per il recupero edilizio (al 50%), con l'eccezione dello sgravio 65% per i condomini che continuerà fino al 30.06.2014.
Ieri in tarda serata il testo del decreto legge è stato "bollinato" dalla Ragioneria generale e inviato da Palazzo Chigi al Quirinale per la firma.
La relazione tecnica allegato al decreto conferma le anticipazioni del Sole 24 Ore. Sono soltanto due le modifiche ai bonus introdotte dal decreto legge rispetto al passato: l'innalzamento, appunto, dal 55% al 65% del bonus energetico e l'esclusione da questa incentivazione delle spese sostenute per la sostituzione degli scaldacqua tradizionali con «scaldacqua a pompe di calore» (rientrati nelle agevolazioni del conto energia).
Vengono smentite quindi preoccupazioni e notizie affrettate diffuse ieri da alcune associazioni di categoria in merito a forti limitazioni imposte (per esempio in materia di infissi) dalle nuove norme rispetto alle agevolazioni passate.
La relazione tecnica messa a punto dalla Ragioneria utilizza le previsioni già usate dal governo Monti per la precedente proroga al 30.06.2013, con le limitate correzioni dette.
Il Governo stima in 1.065 milioni per il bonus 50% l'incremento degli investimenti indotti dalla conferma dell'agevolazione nel secondo semestre 2013 (2.130 su base annua) e in 270 milioni la stima prudenziale degli investimenti indotti nel semestre dal bonus 65 per cento. Per un totale 1.335 milioni, inferiore alle stime Cresme e Ance (si veda Il Sole 24 Ore di ieri), ma la relazione tecnica non considera per il 65% l'ulteriore elemento incentivante dato dall'aumento del l'aliquota.
Sui conti dello Stato l'effetto prodotto dagli incentivi è positivo per l'anno in corso, a causa dell'incremento di Iva, Irpef, Irap e Ires prodotto dai lavori, mentre l'effetto negativo partirà dal 2014 e toccherà la punta massima nel 2015. Nel primo semestre 2014, infatti, l'agevolazione del 65% si applicherà ancora ai lavori realizzati dai condomìni.
Vediamo nel dettaglio l'impatto sui conti pubblici. Per il bonus 65% la Ragioneria stima un effetto positivo pari +20,4 milioni nel 2013, mentre l'effetto sarà negativo per -43,4 milioni nel 2014, -159,4 milioni nel 2015 per poi scendere a -109,8 milioni nel 2016 e stabilizzarsi a -106,9 milioni dal 2017 al 2023. Per il bonus 50% (solo recupero edilizio senza l'incentivo per l'acquisto di mobili) la previsione è +19,2 milioni nel 2013, -64,1 milioni per il 2014, -172,4 milioni nel 2015, -115,7 milioni dal 2016 al 2023.
Per il «bonus mobili» del 50%, con tetto di spesa agevolabile di 10mila euro e uno sgravio massimo di 5mila euro, il beneficio sui conti pubblici è di 8,2 milioni nel 2013, mentre nel 2014 diventa negativo a -42,3 milioni, nel 2015 a -41,7 milioni, dal 2016 al 2023 a -35,2 milioni (articolo Il Sole 24 Ore 05.06.2013).

PUBBLICO IMPIEGO - VARILavoro. Il Tribunale di Roma ha reintegrato un dipendente che inviava mail volgari ai collaboratori.
Non licenziabile per insulti. Il comportamento non è stato ritenuto offensivo ma goliardico.
LE CONSEGUENZE/ Con il vecchio articolo 18 il lavoratore ha riottenuto il posto ed è stato disposto il risarcimento integrale del danno.

Il dipendente che invia a una propria collaboratrice un'email dai contenuti pornografici, offensivi e lesivi della sua dignità sessuale non merita il licenziamento, se la società non dimostra l'intenzione del dipendente di fare qualcosa di più grave di una semplice goliardata.
Questa la conclusione –per molti versi sconcertante e inaccettabile– cui giunge una recente sentenza 09.05.2013 del TRIBUNALE di Roma, chiamato a giudicare il licenziamento intimato da una compagnia telefonica ai danni di un dipendente cui era stata contestata l'adozione di pratiche commerciali contrarie alle procedure e alle regole aziendali.
Nell'ambito di questi comportamenti illeciti, la società aveva contestato al dipendente anche il fatto di aver sottoposto i propri collaboratori a forti pressioni affinché utilizzassero determinati fornitori. I lavoratori che non avevano seguito tali direttive o, comunque, erano stati ritenuti meno produttivi, avevano ricevuto dal dipendente poi licenziato delle email dai contenuti volgari e offensivi.
La società, in particolare, aveva contestato a questo dipendente l'invio, a una propria collaboratrice, di un file Excel contenente un gioco di parole nel quale le iniziali dei cognomi di altri colleghi formavano un insulto molto pesante e lesivo della dignità sessuale della donna. La sentenza del Tribunale di Roma non ritiene sufficiente questi fatti a giustificare il licenziamento: osserva infatti il giudice che l'email incriminata non conteneva espressioni che potessero ritenersi direttamente offensive per la collaboratrice cui era stata inviata. In particolare, non risulterebbe provato che il testo della mail avesse un contenuto offensivo e discriminatorio, e pertanto il messaggio in essa contenuto era animata soltanto da un «malinteso spirito goliardico».
Il giudice rinforza il concetto, sostenendo che il comportamento del lavoratore licenziato può reputarsi incauto o di cattivo gusto, ma non può essere giudicato come un gesto intenzionalmente offensivo o discriminatorio. Inutile nascondere le grandi perplessità che desta una pronuncia del genere, in quanto scaturisce da un'incomprensibile sottovalutazione di alcuni comportamenti e offese che, invece, posso danneggiare profondamente la dignità personale di chi li riceve.
La sentenza, peraltro, è sorprendente anche in altri passaggi, in quanto il giudice del lavoro annulla tutte le altre contestazioni disciplinari mosse al dipendente, lamentando l'eccessiva genericità della lettera di addebito, anche quando i fatti erano stati descritti in maniera circostanziata.
È utile osservare che il licenziamento è stato intimato quando ancora non era stata approvata la legge Fornero e, quindi, sulla base della vecchia formulazione dell'articolo 18. Per questo motivo, il giudice ha disposto la reintegrazione sul posto di lavoro e il risarcimento del danno integrale.
Se il recesso fosse stato intimato dopo il 18.07.2012, il giudice avrebbe dovuto scegliere se applicare la reintegrazione sul posto di lavoro, più un'indennità risarcitoria non superiore a 12 mesi, oppure riconoscere solo il risarcimento del danno, in misura compresa tra le 12 e le 24 mensilità (articolo Il Sole 24 Ore 05.06.2013).

EDILIZIA PRIVATAEdilizia privata. Si rafforza la tendenza normativa all'autocertificazione ma non senza difficoltà.
Semplificazioni in mezzo al guado. Gli Sportelli unici restano al palo - Il silenzio-assenso è poco usato.
QUESTIONI DA CHIARIRE/ La Scia e il silenzio-assenso, non vengono quasi mai riconosciuti dai notai e dalle banche; resta il nodo delle asseverazioni.

Silenzio-assenso sul permesso di costruire di fatto inutilizzato. Interventi edilizi in autocertificazione che non cancellano del tutto il rischio di un intervento successivo di controllo. Sportello unico edilizia rafforzato, ma il cui successo si infrange sulle inefficienze e le carenze di informatica dei Comuni, specie i piccoli.
L'ultimo Dossier di «Edilizia e Territorio» fa il punto sulle molte novità legislative e giurisprudenziali degli ultimi tre anni in materia di edilizia privata. E quello che emerge è un percorso di riforma ancora accidentato.
La tendenza legislativa è stata di fatto costante negli ultimi 15 anni, con una accelerazione negli ultimi tre, nel senso di ampliare le categorie di interventi realizzabili con semplice autocertificazione "asseverata" dal progettista abilitato (geometra, architetto, ingegnere).
Nel 2010 ha debuttato la "comunicazione di inizio lavori" (Cia), con la quale si possono fare interventi di manutenzione straordinaria (senza incidere su parti strutturali), avviando subito i lavori senza attendere i 30 giorni della Dia.
Poi nel 2011 arriva la Scia in edilizia, con possibilità di avvio immediato del cantiere fino a interventi di ristrutturazione edilizia "minore" (demolizione e ricostruzione con rispetto di volume e sagoma). Restano soggetti al permesso edilizio solo i grandi interventi, quali nuove costruzioni, ampliamenti e ristrutturazioni pesanti. Per i quali nel 2011 arriva il silenzio-assenso: se il Comune non si pronuncia entro i termini di legge il privato può partire con i lavori.
Tutto bene, dunque? Non proprio, perché tutti continuano a preferire i provvedimenti espressi, e di fatto il cittadino fatica a veder riconosciuto quanto fissato dalle leggi. I professionisti sono da sempre molto prudenti nelle asseverazioni (sono responsabili civilmente e penalmente) e finiscono per chiedere sempre l'ok preventivo degli uffici, annullando l'effetto snellimento. Gli stessi tecnici comunali spingono in questa direzione, per non perdere potere discrezionale e controllo sui processi edilizi.
La Scia, d'altra parte, e soprattutto il silenzio-assenso, non vengono quasi mai riconosciuti dai notai, nella trascrizione degli atti, e dalle banche nel concedere mutui per costruzione o ristrutturazione. D'altra parte anche la Corte Costituzionale, con la sentenza 188/2012, ha affermato che il Comune può sempre esercitare i suoi poteri di autotutela anche dopo i 60 giorni di legge dal deposito per controllare la Scia, potendo così annullare la stessa in caso di interventi edilizi illegittimi.
Ci sono dei "paletti", certo (interesse pubblico a intervenire, tempestività), ma resta una "spada di Damocle" che porta incertezza alle autocertificazioni (articolo Il Sole 24 Ore 05.06.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATAPermessi di costruire, monito Ue alle p.a.. Promossa con riserva la norma introdotta dal decreto salva-italia.
Gli uffici della Commissione europea hanno promosso, con qualche riserva, il comma 2-bis dell'art. 16 del Testo unico sull'edilizia, dpr n. 380/2001, approvato con il decreto-legge n. 201/2001 (cosiddetto «salva-Italia», del governo Monti).
La norma esonera dall'obbligo di applicare il codice dei contratti i titolari dei permessi di costruire (che possono realizzare le opere di urbanizzazione, a scomputo dei contributi dovuti per il rilascio del permesso), nel caso in cui il valore economico delle sole opere di urbanizzazione primaria sia inferiore alla soglia comunitaria di 5 milioni di euro.

Pronunciandosi su un reclamo concernente l'incompatibilità della norma col diritto europeo degli appalti pubblici, la Commissione ha deciso di non procedere nei confronti dello stato italiano con motivazioni che è bene siano conosciute soprattutto dalle amministrazioni tenute ad applicare tale disposizione
Il reclamo è stato respinto perché la Commissione afferma che l'obbligo, a carico degli stati membri, di applicare le direttive 2004/17/Ce e 2004/18/Ce vale soltanto per gli appalti d'importo uguale o superiore alle soglie fissate in tali direttive, e non per quelli d'importo inferiore, come quelli disciplinati appunto dall'art. 16, c. 2-bis.
Ma su questo punto la Commissione precisa che, «qualora vi sia un interesse» trans-frontaliero certo nell'esecuzione di opere di urbanizzazione primaria, un affidamento diretto dei lavori «senza alcuna trasparenza ad un soggetto appartenente allo stato membro» può configurarsi come violazione dei princìpi del Trattato.
Il reclamo evidenzia pure la possibilità che la norma riproduca una situazione giuridica (analoga a un'altra, già oggetto di condanna dalla Corte di Giustizia Ue) in base alla quale il valore della soglia comunitaria possa essere calcolato rispetto ai singoli lotti della Convenzione e non rispetto al valore globale dei differenti lavori, eludendo così gli obblighi stabiliti dalle direttive comunitarie. A questo proposito la Commissione ha affermato che il problema non si presenta, dal momento che l'art. 29, c. 7, lett. a), del codice dei contratti pubblici riproduce il testo dell'art. 9, c. 5, lett. a), della direttiva 2004/18/Ch, disponendo che quando un'opera prevista possa dar luogo ad appalti aggiudicati contemporaneamente per lotti distinti, il valore da considerare è quello complessivo stimato della totalità di tali lotti.
All'obiezione mossa sulla base del fatto che il comma 2-bis in questione preveda di disapplicare il codice dei contratti nella sua totalità, e non solo di alcune norme contenute in esso, la Commissione ha risposto dicendo che l'art. 29 del codice, in quanto norma strumentale, si deve applicare a tutti gli appalti pubblici e che (indipendentemente da quanto scritto nell'art. 16, c. 2-bis) il metodo di calcolo fissato da questo articolo deve essere applicato comunque per individuare gli appalti rispetto ai quali trova applicazione il regime derogatorio del comma 2-bis, e quelli rispetto ai quali continuerà a trovare applicazione, integralmente, il codice dei contratti
L'ultima motivazione in base alla quale gli uffici hanno deciso di non avviare una procedura d'infrazione rispetto all'Italia suona come un'accusa nei confronti di questa norma e della tecnica legislativa adottata. Infatti la Commissione scrive: «L'interpretazione della norma non è univoca. In particolare non è chiaro se l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria “a carico” del titolare del permesso di costruire sia complementare o alternativa all'obbligo previsto dal comma 1 dello stesso articolo, e in particolare se anche in tal caso sia prevista la possibilità di scomputo totale o parziale della quota relativa agli oneri di urbanizzazione».
Non si tratta di una formale messa in mora del nostro paese, ma di un invito a parlamento e governo a precisare la norma contenuta nel decreto «salva-Italia» e a vigilare sull'attuazione da parte delle amministrazioni aggiudicatrici (articolo ItaliaOggi del 04.06.201).

EDILIZIA PRIVATA: DECRETO ENERGIA/ La proroga di sei mesi cambia le scelte del mod. 730 e di Unico.
Bonus 50% con vista sul 2014. Per massimizzare lo sgravio meglio non detrarre subito.

Ristrutturazione, la proroga dei maggiori limiti di detrazione cambia le scelte del 730 e di Unico. In caso di prosecuzione dei lavori e di prospettive di spese entro il prossimo 31 dicembre, non conviene detrarre le spese sostenute fino al 25.06.2012: prima è necessario massimizzare la detrazione al 50%.
Di fatto superate le istruzioni di Unico 2013: sussiste la possibilità di recupero massimo della detrazione pari a 6.720 euro. La conferma, prevista dal decreto legge approvato venerdì scorso dal governo, per tutto il 2013 dei maggiori limiti riconosciuti per i lavori di recupero del patrimonio edilizio, agevolati fino ad un importo massimo di spesa di 96 mila euro e nella misura del 50%, alla luce dei chiarimenti forniti nella circolare n. 13 del 2013, obbliga a precisi calcoli di convenienza in sede di dichiarazione per il 2012, in quanto potrebbe essere conveniente addirittura non detrarre per lo scorso anno.
Il tutto nasce dall'analisi delle regole di detrazione e dai citati chiarimenti di prassi che hanno superato le medesime istruzioni ad Unico 2013 (in particolare l'esempio n. 4 in chiusura di pagina 60 di Unico PF1). Come è noto, nelle ipotesi di prosecuzione del medesimo lavoro agevolato, nel conteggio del limite di spesa si tiene conto di quanto speso e detratto negli anni precedenti: nella particolare situazione di pagamenti effettuati entro il 25.06.2012 e dal 26 giugno in poi, proprio l'esempio n. 4 di cui sopra evidenzia che il limite di 96 mila euro deve (o meglio, dovrebbe) essere ridotto delle spese sostenute e detratte in precedenza, incluso quelle fino al 25.06.2012.
Ad esempio, se un soggetto ha speso 50 mila euro entro il 25.06.2012 ed altri 60 mila euro dopo tale data, secondo le istruzioni al modello dovrebbe detrarre il 36% di 48 mila euro (secondo le vecchie regole del 36% fino al 25.06.2012 esistenti) e in relazione alle spese successive dovrebbe calcolare il limite nel seguente modo: 96 mila – 48 mila (ossia non la vera spesa sostenuta in precedenza, pari a 50 mila euro, ma solo quella effettivamente detratta). Così procedendo, le istruzioni ad Unico evidenziano che in dichiarazione, per le spese post 25 giugno, il limite di spesa sarebbe 48 mila euro, con la conseguenza che l'importo di 60 mila euro non sarebbe interamente capiente.
Il condizionale è d'obbligo in quanto le richiamate istruzioni sono state implicitamente superate dai chiarimenti della circolare n. 13 del 2013, secondo cui i contribuenti che nell'anno 2012 si ritrovano nella situazione sopra descritta possono optare per la massimizzazione del beneficio fiscale. Il contribuente del nostro esempio infatti può legittimamente decidere anzitutto di detrarre al massimo la spesa sostenuta nel periodo di vigenza della detrazione al 50%, e poi detrarre la spesa al 36%.
Tornando all'esempio, è possibile adottare il seguente comportamento:
- detrarre al 50% tutta la spesa di 60 mila euro (con indicazione del codice 3 in colonna 2 e riporto della rata di 6 mila euro in colonna 9);
- detrarre al 36% per la differenza. Posto il limite complessivo di 96 mila euro del 2012, il ragionamento sarà il seguente: far residuare la capienza di 60 mila euro per le spese dal 26.06.2012 in poi. In pratica, dei 50 mila euro spesi entro il 25.06.2012, la detrazione deve fermarsi a 36 mila euro (codice 2 in colonna 2 e indicazione della rata di 3.600 euro in colonna 9). In tal modo, il limite per le spese successive sarà pari a 96 mila diminuito di 36 mila, ossia 60 mila, realizzandosi l'intera capienza di 60 mila euro per la spesa successiva al 25.06.2012.
Ciò posto come principio, l'estensione delle regole più favorevoli a tutto il 2013 obbliga ad effettuare precise scelte di convenienza. Ad esempio, se il soggetto in questione ha già speso altri 40 mila euro a gennaio 2013 per il medesimo lavoro, allora conviene detrarre solo i 60 mila euro per il 2012, rinunciare ai 36 mila euro che fruirebbero della detrazione del 36% e conservare tale capienza residuale per i lavori del 2013, fruibili a decorrere di Unico 2014, ma con una detrazione innalzata al 50%: in sostanza, tale comportamento permette di recuperare la detrazione effettiva pari al 14% di 36 mila euro (articolo ItaliaOggi del 04.06.2013).

EDILIZIA PRIVATANel pacchetto del 65% pavimenti, finestre, caldaie.
In caso di ristrutturazioni «importanti» l'eco-bonus del 65% spetterà fino a fine dicembre 2014; compresa, oltre a interventi per isolamento pavimenti, coperture e pareti perimetrali, anche l'installazione di finestre e di caldaie a condensazione.

È quanto previsto nelle nuove norme sui cosiddetti «eco-bonus» di cui all'articolo 14 del decreto-legge approvato dal consiglio dei ministri che prevede la proroga fine 2013 degli incentivi per le spese documentate per interventi su edifici esistenti (fra cui anche le parti comuni degli edifici condominiali e le parti di edifici o unità immobiliari esistenti) che passano dal 55 al 65%.
Si dovrà trattare di interventi che abbiano ad oggetto l'isolamento di strutture opache verticali, strutture opache orizzontali e l'installazione di finestre comprensive di infissi, che delimitino lo spazio interno da uno spazio esterno o non climatizzato. La detrazione sarà estesa, invece, fino alla fine del 2014 laddove si tratti di interventi dello stesso tipo (e con l'aggiunta delle installazione delle caldaie a condensazione), ma con in più l'elemento della «ristrutturazione importante» dell'intero edificio.
A tale proposito è lo stesso decreto a precisare cosa si debba intendere per «ristrutturazione importante»: deve trattarsi di i lavori in qualunque modo denominati (ad esempio lavori di manutenzione ordinaria o straordinaria, lavori di ristrutturazione e di risanamento conservativo) che insistono su oltre il 25% della superficie dell'involucro dell'intero edificio, comprensivo di tutte le unità immobiliari che lo costituiscono. Si tratta quindi, a titolo esemplificativo e non esaustivo, del rifacimento di pareti esterne, di intonaci esterni, del tetto o dell'impermeabilizzazione delle coperture. Sono le tabelle A e B dell'Allegato 1 al decreto-legge a definire nuovi «tetti» massimi alla spesa detraibile e, soprattutto, a indicare i parametri di «costo unitario massimo» ammissibile per tipo di intervento.
Lo scopo, si legge nella relazione tecnica, è quello di tenere sotto controllo gli oneri ed evitare traslazioni indebite dell'incentivo sui prezzi di mercato. Per gli interventi sulle strutture opache orizzontali (isolamento pavimenti, coperture e pareti perimetrali) come requisiti tecnici si confermano i cosiddetti «valori di trasmittanza» del decreto Mise del 28 dicembre 2012 e si prevede un valore massimo detraibile di 400.000 euro con costi unitari massimi di 200 euro/mc per l'isolamento delle coperture e di 120 euro/mc per gli altri due tipi di intervento. Per le finestre e gli infissi, quando installate insieme a sistemi di termoregolazione o quando comunque ci siano già questi sistemi (o valvole termostatiche) variano i «valori di trasmittanza» a seconda delle regioni, mentre è comune il tetto massimo (180 mila euro) e il costo unitario è di 400 euro/mc.
I valori di costo massimi introdotti garantiscono, secondo le stime del Governo, interventi in edifici di media grandezza, costituiti da un numero variabile tra 25 e 35 unità immobiliari indipendenti. Per le caldaie a condensazione, se di potenza inferiore a 35 kW la detrazione massima è di 4 mila euro, con un costo unitario di 120/euro/kWt, mentre per le caldaie dio potenza superiore a 35kW il valore massimo di detrazione è di 60 mila euro con un costo unitario massimo di 100/euro/ kWt (articolo ItaliaOggi del 04.06.2013).

VARICodice strada. Circolare Motorizzazione. Carrelli elevatori vietati su strada.
CONSEGUENZE ARRETRATE/ Le norme sono cambiate dal 22.08.2008: potrebbero cambiare le responsabilità su incidenti del passato.

Le imprese che utilizzano carrelli elevatori per carico e scarico di merci fuori dai loro piazzali sono fuori legge.
Lo ha chiarito, a sorpresa, la Motorizzazione, con la circolare 24.04.2013 n. 4041/Segr/DGT, di cui si è avuta notizia soltanto in questi giorni. Ciò potrebbe anche avere ripercussioni nella determinazione di responsabilità e risarcimenti relativi a incidenti (anche sul lavoro) avvenuti negli anni scorsi.
Infatti, la circolare del 24 aprile si esprime su una realtà che dovrebbe essere acquisita dal 2008, ma che in realtà finora è stata sostanzialmente ignorata.
Tutto nasce con la legge 39/1982, con cui 31 anni fa veniva ammessa la circolazione saltuaria su strade aperte al traffico anche per le macchine operatrici non immatricolate. Il decreto ministeriale del 28.12.1989 dava attuazione a tale previsione, fissando le cautele da adottare affinché anche questi veicoli potessero essere utilizzati su strade aperte al traffico. Poi però la legge 39/1982 è stata superata dal Dl 112/2008, che di fatto avrebbe reso necessario un nuovo Dm. In mancanza di esso, secondo la Motorizzazione, quello del 28.12.1989 è da ritenersi anch'esso superato e quindi non più applicabile.
Il risultato finale è che si applicano le regole generali del Codice della strada. In particolare, c'è il comma 2 dell'articolo 114, che per la circolazione su strada delle macchine operatrici prescrive l'obbligo di immatricolazione, senza distinguere o prevedere eccezioni.
La circolazione senza targa non è un fenomeno raro: basta pensare a cosa accade nei depositi e nei magazzini in cui il carico e lo scarico delle merci avvengono da o verso autocarri parcheggiati in aree aperte al traffico. Peraltro, durante queste operazioni avvengono incidenti, che possono coinvolgere sia gli addetti sia semplici passanti.
Alla luce della circolare del 24 aprile, potrebbero essere riesaminati i sinistri accaduti dal 22.08.2008, data di entrata in vigore del Dl 112/2008: da quel giorno l'utilizzo dei carrelli non immatricolati non era più permesso, anche se all'epoca non se n'era accorto nessuno (articolo Il Sole 24 Ore del 04.06.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: I nuovi illeciti. La relazione del massimario. Reato di induzione: non serve l'incasso.
Il nuovo reato di «induzione a dare o promettere utilità» –previsto dalla legge anticorruzione– scatta anche se non è stato consegnato nulla all'agente pubblico.

Lo ha evidenziato l'ufficio del massimario della Cassazione nella relazione 19 del 03.05.2013. Questa interpretazione, dato che il delitto in questione rappresenta uno dei nuovi reati-fonte per la responsabilità amministrativa delle società, può avere riflessi anche sulla predisposizione e l'aggiornamento dei modelli organizzativi societari in base al decreto legislativo 231/2001.
La legge 190 del 2012 ha modificato vari articoli del Codice penale contenuti nel titolo dedicato ai «Delitti contro la pubblica amministrazione». Si tratta, tra l'altro, dei delitti di corruzione, peculato e concussione.
In particolare, la fattispecie di concussione prevista in precedenza dall'articolo 317 del Codice penale sanzionava la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio, il quale, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringeva o induceva taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità.
Ora, la legge anticorruzione ha eliminato la concussione per induzione, mantenendo solo quella per costrizione. L'attuale articolo 317 del Codice penale, quindi, punisce, con una pena maggiore nel minimo di quella precedente (passa da 4 a 6 anni), il pubblico ufficiale, e non più anche l'incaricato di un pubblico servizio, che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità.
La condotta di induzione, però, non è stata del tutto eliminata. Infatti il nuovo articolo 319-quater («Induzione indebita a dare o promettere utilità») sanziona, con la pena della reclusione da tre a otto anni, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio che, abusando della loro qualità o dei loro poteri, inducono taluno a dare o promettere indebitamente, a loro stessi o a un altro, denaro o altra utilità. Peraltro, questa norma non punisce solo il soggetto che "induce" ma anche il soggetto "indotto", ovvero chi dà o promette il denaro o altra utilità. Quest'ultimo potrà incorrere nella pena della reclusione fino a tre anni.
Con la relazione 19 del 2013, l'ufficio del massimario, della Cassazione ha approfondito, tra l'altro, il tema del momento in cui questo delitto viene consumato. Esso è stato individuato nell'accoglimento da parte del terzo della richiesta del pubblico agente, anche con la sola promessa da parte dell'indotto. A nulla rileva la circostanza che, subito dopo la promessa, il privato si sia rivolto alla polizia perché la consegna dell'utilità avvenga sotto il controllo di essa o che la promessa sia stata fatta con la riserva mentale, fin dall'inizio, di non volere poi effettuare la dazione.
Dato che questa fattispecie rappresenta anche un nuovo reato-fonte per la responsabilità amministrativa degli enti appare opportuno –soprattutto per le società che intrattengono rapporti quotidiani e costanti con la pubblica amministrazione– aggiornare i modelli organizzativi, per monitorare tutti i processi aziendali in cui sia prevedibile, anche astrattamente, una simile condotta. Ciò al fine di prevedere un sistema idoneo a prevenire la commissione dell'illecito ed evitare così le gravi sanzioni che scatterebbero per l'impresa se i manager dovessero commettere il nuovo delitto (articolo Il Sole 24 Ore del 03.06.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sui lavori in corso c'è la chance del 65%. L'elemento decisivo per ottenere il maggior beneficio è rappresentato dalla data di effettuazione della spesa.
Detrazione del 50% sugli interventi edilizi prorogata fino al 31 dicembre di quest'anno. Bonus per il risparmio energetico in edilizia aumentato dal 55 al 65% fino alla stessa data per gli interventi sulle singole unità immobiliari e fino al 30.06.2014 in ambito condominiale.

Richiamando le norme esistenti che disciplinavano le detrazioni fiscali sull'efficienza energetica, il provvedimento varato venerdì scorso dal Governo rinnova e innalza il bonus per la sostituzione di finestre, infissi, coperture, pavimenti, pannelli solari per la produzione di acqua calda, impianti di climatizzazione invernale e così via. Restano invece espressamente escluse dalla proroga le opere per la sostituzione di impianti di riscaldamento con pompe di calore e la sostituzione di scalda-acqua tradizionali.
Più tempo in condominio
Per i lavori sulle parti comuni condominiali –come facciate, tetti e caldaie– la detrazione si applica per sei mesi in più rispetto a quanto accade per gli immobili con un unico proprietario fino al 30.06.2014. Una scelta chiaramente ispirata dalla volontà di lasciare il tempo di discutere e approvare in assemblea di condominio la decisione sui lavori.
Tra l'altro, le maggioranze per la deliberazione degli interventi finalizzati al risparmio energetico verranno modificate dalla legge di riforma del condominio, in vigore a partire dal prossimo 18 giugno. In particolare, in seconda convocazione viene previsto un quorum "leggero" di 334 millesimi e metà più uno degli intervenuti in assemblea per dare il via libera agli interventi finalizzati al risparmio energetico che siano consigliati da una diagnosi o da una certificazione energetica. Senza questo documento tecnico –comunque decisamente consigliabile– i millesimi necessari a decidere salgono invece a 500. Peraltro, la stessa riforma interviene nella legge n. 10/1991 imponendo sempre il quorum "pesante" di 500 millesimi e metà più uno degli intervenuti per deliberare i lavori di termoregolazione e contabilizzazione del calore.
Data e bonifico: la scelta
Dalla lettura della nuova norma, pare di comprendere che l'elemento discriminante per il maggior beneficio, sia la spesa effettuata, a nulla rilevando la data di effettivo inizio delle opere. Tanto più che nel testo varato venerdì scorso, ad eccezione dell'esclusione prima indicata per i lavori diretti all'efficienza energetica, non sono modificate le soglie già previste e la tipologia di intervento per le quali è possibile sfruttare il beneficio.
Da ciò consegue che al contribuente potrebbe convenire posticipare i pagamenti all'impresa fino alla data del 01.07.2013, così da poter portare in detrazione somme maggiori.
Tra l'altro è verosimile, salvo chiarimenti in senso contrario, che in sede di dichiarazione annuale si possa decidere quali bonifici utilizzare ai fini della detrazione. Si pensi ad esempio a un soggetto che abbia iniziato un intervento a gennaio 2013 e lo abbia ultimato a settembre. Fermo restando il limite massimo di spesa previsto, in sede di dichiarazione annuale, questo contribuente potrebbe scegliere di indicare nella propria dichiarazione i bonifici effettuati dopo il 1° luglio, così da poter massimizzare la detrazione.
Va dett0, però, che questo caso sarà piuttosto raro, dal momento che l'importo medio della spesa è ben al di sotto del livello massimo. Inoltre, chi dovesse arrivare al limite massimo di spesa dovrebbe valutare attentamente la propria capienza fiscale, per non trovarsi ad avere una detrazione più alta dell'imposta lorda, perdendo così parte del beneficio.
Vale la pena ricordare che l'agevolazione del 55-65% spetta anche ai soggetti Ires, i quali dovranno dare evidenza delle spesa nel modello Unico presentato.
Lo sconto del 50%
Per le ristrutturazioni troveranno ancora applicazione le disposizioni introdotte il 26.06.2012, che prevedevano una detrazione nella misura del 50% fino ad un limite di spesa di 96mila euro. In questo caso, si tratta di una mera proroga di una disposizione già in corso: nel 2012, infatti, con il Dl 83 si era già innalzata la soglia massima di spesa da 48mila euro a 96mila euro aumentando, contestualmente anche la percentuale di detrazione dal 36% al 50 per cento. Ora, si potranno considerare tutti i bonifici effettuati sino al 31.12.2013.
Nel perimetro dei lavori agevolati rientrano le opere di ristrutturazione e manutenzione straordinaria degli edifici residenziali esistenti, oltre che gli acquisti di box pertinenziali all'abitazione, compresa la manutenzione ordinaria sulle parti comuni degli edifici condominiali (articolo Il Sole 24 Ore del 03.06.2013 - tratto da www.fiscooggi.it).

TRIBUTI: Imu in slalom tra le eccezioni. Le variazioni relative all'immobile incidono sull'importo. Scade il 17 giugno il termine per il versamento dell'acconto 2013: guida ai calcoli.
Scade lunedì 17 giugno il termine per il versamento dell'acconto relativo all'Imu 2013 e per molti contribuenti (cittadini e imprese) le modalità di calcolo sono ancora un rebus. La regola generale, stabilita nella legge di conversione del dl 35/2013, è che l'importo della prima rata è pari alla metà dell'imposta dovuta per l'anno precedente, ma è una regola che conosce non poche eccezioni.
La prima riguarda coloro che avessero già adempiuto all'obbligo applicando le aliquote stabilite dal comune e pubblicate sul sito del Mef entro il 16 maggio (secondo la disciplina dettata dalla versione originaria del dl 35): in tali casi, il pagamento già effettuato rimane valido.
Tale modalità di calcolo, tuttavia, non sarà più ammessa dopo che il dl 35 (il cosiddetto decreto sblocca debiti delle p.a.) sarà stato convertito.
Dal pagamento dell'acconto sono ovviamente esclusi i titolari degli immobili che beneficiano della sospensione disposta dal dl 54/2013, ovvero abitazioni principali (ad eccezione di quelle accatastate in A1, A8 e A9), case popolari appartenenti a Iacp e cooperative edilizie a proprietà indivisa, terreni agricoli e fabbricati rurali strumentali. Anche in tali casi, tuttavia, possono insorgere complicazioni, laddove la situazione immobiliare sia variata nel corso di quest'anno. Per esempio, per l'immobile già posseduto lo scorso anno e divenuto prima casa solo a fine aprile 2013, occorrerà comunque versare un'Imu pari ai 4/12 (e quindi un acconto pari a 2/12) di quella versata nel 2012.
Ciò in quanto, come chiarito dalla circolare del dipartimento delle finanze n. 2/2013, il riferimento all'anno precedente vale solo per le aliquote e le detrazioni, ma non anche per gli altri elementi relativi al tributo, quali il presupposto impositivo e la base imponibile, per i quali, invece, si dive fare riferimento esclusivamente al 2013.
La stessa circolare propone alcuni esempi pratici. Il primo caso è analogo a quello già richiamato: se un immobile dal 01.01.2013 è divenuto prima casa, il versamento della prima rata dell'Imu è sospeso. Viceversa, nel caso opposto di un immobile che quest'anno (a differenza del 2012) non è più adibito ad abitazione principale, l'acconto dovrà essere calcolato applicando l'aliquota prevista lo scorso anno per le seconde case.
Analogamente, nel caso in cui il contribuente possiede un'area fabbricabile che, nel 2013, è divenuta terreno agricolo, il versamento di giugno è sospeso. Se invece un terreno agricolo è divenuto da quest'anno area edificabile, esso sarà soggetto a imposizione e, conseguentemente, la prima rata dovrà essere calcolata applicando l'aliquota prevista per il 2012.
Lo stesso ragionamento si applica ai fabbricati inagibili/inabitabili, per i quali la normativa Imu prevede il dimezzamento della base imponibile limitatamente ai mesi dell'anno in cui tale condizione si protrae: ciò che conta è lo stato attuale dell'immobile, per cui il venire meno dell'inagibilità/inabitabilità eventualmente sussistente nel 2012 determina l'insorgenza dell'obbligo di pagare l'aliquota prevista dell'anno scorso sull'intero valore.
La sospensione dell'acconto riguarda anche le pertinenze delle abitazioni principali richiamate dal dl 54, ma limitatamente a quelle che beneficiano dello stesso regime agevolato previsto per la prima casa.
Quest'ultimo, come noto, può estendersi a un massimo di tre unità, di cui non più di una accatastata in C2 (soffitte, cantine e magazzini), una in C6 (autorimesse) e una in C7 (tettoie e posti auto). Sulle altre eventuali pertinenze l'Imu va pagata applicando le aliquote 2012 e i relativi titolari devono presentarsi alla cassa già a giugno.
La prima rata è congelata anche per gli immobili assimilati dai comuni alle abitazioni principali, ovvero ai fabbricati degli anziani ricoverati in case di riposo e dei residenti all'estero. Ciò sia nel caso in cui l'assimilazione sia avvenuta nel 2013, sia in quello in cui la stessa sia stata disposta nel 2012 e non sia stata modificata.
Della sospensione può beneficiare anche il coniuge separato non assegnatario dell'ex casa coniugale relativamente all'immobile eventualmente adibito ad abitazione principale. Anche in tal caso, l'acconto di giugno non è dovuto.
Ovviamente, come già detto, occorre prestare attenzione ai cambiamenti intervenuti in corso d'anno, rapportando il calcolo ai mesi e alla tipologia di possesso. Anche al riguardo, la circolare offre alcune esemplificazioni. Un contribuente che abbia venduto il proprio immobile (non destinato ad abitazione principale) il 28.03.2013, dovrà versare l'Imu (e quindi il relativo acconto) commisurandolo ai 3/12 dell'importo calcolato sulla base dell'aliquota dei dodici mesi dell'anno precedente. Al contrario, chi ha acquistato una seconda casa il 1° ottobre scorso dovrà calcolare l'Imu dovuta per l'anno 2013 (a partire dalla prima rata) sulla base dell'aliquota 2012, indipendentemente dalla circostanza che in tale anno abbia avuto il possesso per soli tre mesi (articolo ItaliaOggi Sette del 03.06.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIAL'eco-burocrazia è semplificata. Il titolo dello Suap legittimerà emissioni e gestione rifiuti. Operativa dal 13 giugno la nuova procedura di Autorizzazione ambientale unica.
Potranno essere presentate a partire dal prossimo 13.06.2013 ai competenti sportelli unici per le attività produttive (Suap) le domande per ottenere la tanto attesa autorizzazione unica ambientale, ossia il provvedimento che raccoglie in un unico documento le licenze per emettere inquinanti in aria, acqua e suolo e per gestire i rifiuti prodotti.
Con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del 29.05.2013 (S.o. n. 42) del dpr 13.03.2013 n. 59 ha, infatti, acquistato tempi certi l'operatività del nuovo istituto modellato sulla falsariga della (più sofisticata) autorizzazione integrata ambientale e dedicato sia alle piccole e medie imprese sia alle industrie a ridotto impatto sull'ecosistema.
Soggetti interessati. Ad accedere al nuovo istituto saranno in particolare tre categorie: le piccole e medie imprese rientranti nei parametri disegnati dal dm 18.04.2005; le imprese non soggette alla (citata) autorizzazione integrata ambientale; le imprese obbligate a valutazione di impatto ambientale «parziale» (ossia da integrare con altri e necessari atti autorizzatori).
Titoli unificabili. A geometria variabile il novero dei titoli ambientali condensabili nell'autorizzazione unica. Regioni e province autonome avranno, infatti, la facoltà di aggiungere ulteriori titoli al novero dei sette provvedimenti «base» che il dpr 59/2013 indica come concentrabili nell'autorizzazione unica ambientale, ossia: autorizzazione allo scarico nelle acque ex Dlgs 152/2006 (c.d. «Codice ambientale»); comunicazione preventiva per utilizzo agronomico di effluenti di allevamento, acque di vegetazione di frantoi oleari, acque reflue da parte di aziende del settore ex dlgs 152/2006; autorizzazione alle emissioni in atmosfera per gli stabilimenti produttivi ex dlgs 152/2006; autorizzazione generale per le emissioni «scarsamente rilevanti» in aria ex dlgs 152/2006; nulla osta alle emissioni sonore ex legge 447/1995 da parte degli impianti produttivi, sportivi, ricreativi commerciali; autorizzazione per utilizzo fanghi da depurazione in agricoltura ex dlgs 99/1992; comunicazione per auto-smaltimento e/o recupero rifiuti in procedura semplificata ex dlgs 152/2006.
Obbligo della procedura. Il ricorso all'autorizzazione unica ambientale costituirà un obbligo per le imprese interessate al rilascio anche di uno solo dei titoli ambientali previsti dal dpr 59/2013, mentre costituirà una mera facoltà (fermo restando, però, l'obbligo di rivolgersi comunque al Suap) per quelle che dovranno ottenere unicamente la citata autorizzazione generale alle emissioni o effettuare una mera «comunicazione ambientale».
Iter e costi. Oltre alla domanda, unica sarà (come accennato) anche l'interfaccia con l'impresa istante. Il rilascio dell'Aua andrà infatti chiesto allo Sportello unico delle attività produttive (Suap) del comune in cui è collocato l'impianto interessato. Nell'immediato corredando l'istanza di tutti i documenti, le dichiarazioni e le altre attestazioni previste dalla vigente normativa ambientale, in futuro utilizzando invece il «modello semplificato e unificato» di domanda che il MinAmbiente dovrà predisporre in attuazione del nuovo dpr 59/2013. Il costo massimo dell'istruttoria non potrà essere superiore alla somma dei singoli tributi previsti per i diversi provvedimenti ambientali e l'autorizzazione sarà rilasciata entro un termine «standard» compreso (in base alla complessità del procedimento) tra 90 e 120 giorni.
Rinnovo titoli e modifiche impianti. Il rinnovo dell'Aua dovrà essere richiesto allo stesso Suap almeno sei mesi prima della scadenza a pena della sospensione dell'attività. Rispettato tale termine, l'istante potrà proseguire l'attività fino al rilascio del provvedimento di rinnovo. Ancora, una domanda analoga a quella di prima autorizzazione dovrà essere inoltrata allo stesso sportello nel caso di «modifiche sostanziali», ossia di variazioni ad attività o impianti considerate tali dalle norme ambientali di riferimento. Per le «semplici modifiche» sarà invece sufficiente una semplice comunicazione (disciplinata dal meccanismo del «silenzio-assenso») indirizzata direttamente all'Autorità territorialmente competente per il particolare tipo di autorizzazione sottesa.
Regime transitorio. La nuova disciplina varrà unicamente per le domande di autorizzazione presentate dal 13.06.2013. Alle domande presentate prima di tale data si continuerà invece ad applicare la disciplina di genesi, così come alle autorizzazioni già rilasciate nello stesso termine, che dovranno essere rinnovate in base al nuovo regime solo dopo la loro naturale scadenza (articolo ItaliaOggi Sette del 03.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Energia, efficienza da contratto. Riscaldamento senza sprechi e chiarezza nei prezzi. Regolamentazione standard per le relazioni con i fornitori redatta dalla Cciaa di Milano
Stop allo spreco di energia per il riscaldamento e la produzione di acqua calda sanitaria. Diventa, infatti, un onere dell'impresa sorvegliare costantemente l'efficienza dell'impianto nel rispetto dell'ambiente, pena l'addebito dei maggiori costi energetici rilevati alla fine dell'esercizio annuale (salvo che la stessa riesca a giustificarli con oggettive argomentazioni tecniche).

È uno dei passaggi più significativi del contratto tipo per il servizio di energia (Cse) messo a punto da un tavolo di lavoro organizzato dalla Camera di commercio di Milano e che ha visto la partecipazione delle principali associazioni di categoria e delle associazioni dei consumatori.
Il documento si propone come utile strumento di confronto per i proprietari di casa e gli amministratori condominiali che debbano individuare sul mercato un'impresa cui assegnare il servizio di riscaldamento/raffrescamento degli immobili e stilare pertanto il relativo contratto.
Il ruolo svolto dalla Camera di commercio. Per favorire le condizioni di equilibrio in un settore tecnicamente complesso come è quello dei servizi energetici, la Cciaa meneghina, su sollecitazione delle imprese, ha istituito un tavolo di lavoro con le più importanti associazioni di categoria e con le associazioni dei consumatori. Frutto di questo lavoro è un contratto tipo che potrà fungere da punto di riferimento per regolare le operazioni contrattuali tra imprese e consumatori.
Il contratto tipo è stato redatto alla luce delle novità introdotte dal dlgs n. 115/2008 che, in attuazione della direttiva comunitaria n. 226/32/Ce, ha introdotto nell'ordinamento i principi di efficienza energetica e rispetto dell'ambiente nella gestione degli impianti di riscaldamento per le abitazioni private e le aziende, determinando i fabbisogni di energia primaria per la climatizzazione invernale/estiva e per la produzione di acqua calda sanitaria per gli edifici. Il contratto tipo, nelle due versioni base e plus, è consultabile sul sito internet della Camera di commercio, all'indirizzo www.mi.camcom.it.
Il contratto tipo messo a punto dalla Cciaa milanese. Il contratto tipo si compone di una parte relativa alle condizioni generali e di una nella quale sono invece riportate le condizioni particolari. Ecco i punti principali:
a) attenzione alla scelta dell'impresa. Per operare in questo settore è necessario che l'impresa sia in possesso dell'abilitazione professionale all'esecuzione del contratto di erogazione dei servizi di energia richiesta dal dlgs n. 115/2008, la quale deve essere comprovata con l'esibizione (e l'allegazione al contratto) di specifica certificazione rilasciata dalla medesima Camera di commercio. È inoltre necessario possedere i requisiti e quindi attestare l'idoneità ad assumere la qualifica e la mansione di terzo responsabile dell'esercizio e della manutenzione dell'impianto ai sensi del dpr 412/1993;
b) che cosa è compreso nel servizio energia che forma oggetto del contratto? Con la stipula del contratto l'impresa si obbliga a fornire al proprietario dell'immobile una serie di interventi di adeguamento normativo e/o di riqualificazione funzionale degli impianti e la fornitura di servizi energetici con sistema di contabilizzazione a megawattora (MWh) che, nell'osservanza dei criteri dettati dal dlgs n. 115/2008, dovranno consentire la gestione ottimale dell'impianto e il miglioramento del processo di trasformazione e utilizzo dell'energia. L'impresa sarà inizialmente tenuta anche a verificare la validità e l'efficacia dell'attestato di certificazione energetica dell'impianto e, ove questo manchi, a eseguire le attività necessarie per ottenere l'emissione di un valido attestato;
c) basta con lo spreco di energia. Il nuovo impianto di riscaldamento/affrescamento dell'immobile, in adempimento alle prescrizioni del dlgs n. 115/2008, deve condurre a un contenimento dell'utilizzo di energia. Viene quindi contrattualmente stabilito che la quantità massima di energia termica erogata consuntivata a fine esercizio non potrà risultare superiore al valore risultante dalla sommatoria del fabbisogno presunto di energia termica, revisionato in modo proporzionale al variare dei gradi giorno utilizzati, dei giorni di funzionamento dell'impianto e degli orari, somma finale maggiorata però di un'alea tecnica del 10% (si vedano le tabelle A e B). È importante evidenziare come eventuali eccedenze di consumo energetico che l'impresa non riesca a giustificare con oggettive argomentazioni tecniche rimarranno per contratto a carico della stessa;
d) prezzi chiari e trasparenti. Il contratto tipo messo a punto dal tavolo di lavoro istituito dalla Camera di commercio di Milano propone di pattuire distintamente i costi dei singoli servizi che l'impresa è chiamata a garantire per le opere di riqualificazione impiantistica, riassumendoli in un'apposita tabella (si veda la tabella C). Gli stessi criteri di trasparenza valgono poi per il corrispettivo dovuto a fronte del servizio di climatizzazione invernale/estiva e per la produzione di acqua calda (si veda la tabella D) (articolo ItaliaOggi Sette del 03.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA: L'edilizia diventa trasparente. Accesso civico per i permessi di costruire e gli abusi.
Il nuovo strumento introdotto dal dlgs 33/2013 comporta anche la diffusione online.
Accesso civico per i permessi di costruire e per gli abusi edilizi: tutte informazioni che devono andare anche online. Il nuovo strumento di trasparenza per la pubblica amministrazione (introdotto dal D.Lgs. 14.03.2013 n. 33) comporta sia l'obbligo di diffusione dei dati in rete, sia, in caso di dimenticanza dell'ufficio pubblico, la pubblicazione dei dati a richiesta di chiunque.
Deve, comunque, trattarsi di dati per cui una norma prevede l'obbligo di pubblicazione. E questo restringe di molto le possibilità di accesso civico. In ogni caso, l'accesso civico impone di fare una ricognizione di tutte le specifiche disposizioni in cui è previsto un obbligo di pubblicazione. Attenzione, però, al fatto che una volta reperita una disposizione che contiene un obbligo di pubblicazione, bisogna raccordare questa disposizione con lo stesso decreto legislativo 33/2013, che prevede limiti generali (articolo 4) e specifici alla diffusione, e anche con le specifiche disposizioni di legge che vietano la diffusione. Anche questo restringe il campo di applicazione dell'accesso civico, che serve, in sostanza, per sopperire a dimenticanze e per sanzionare il funzionario negligente.
La regola di partenza è, comunque, la possibilità di diffondere attraverso internet documenti, informazioni e dati per cui la legge prevede l'obbligo di pubblicazione, con la eccezione dei dati sensibili e dei dati giudiziari (articolo 4, comma 1). Su questo punto sono due le novità: la prima riguarda la dichiarazione formale dell'abilitazione a pubblicare in rete le informazioni a diffusione obbligatoria; la seconda novità riguarda l'estensione del divieto di diffusione a tutti a dati sensibili e giudiziari. Quest'ultimo divieto era previsto per i dati sanitari dall'articolo 22 del codice della privacy; ora l'articolo 4 del decreto 33/2013 consente la diffusione dei dati attraverso siti istituzionali dell'ente pubblico solo in caso di obbligo di pubblicazione dei dati personali diversi dai dati sensibili e dai dati giudiziari.
Quindi, l'obbligo di pubblicazione significa anche diffusione online, salvo eccezioni. Tra le deroghe più importanti c'è il divieto di pubblicazione dei dati identificativi delle persone fisiche destinatarie di benefici economici, qualora da tali dati sia possibile ricavare informazioni relative allo stato di salute ovvero alla situazione di disagio economico-sociale degli interessati (art. 26). Come si può notare chi riceve un sussidio sociale non deve essere nominato nell'atto da pubblicare; inoltre devono essere omessi non solo dati sensibili e giudiziari, ma anche dati ordinari, se descrivono uno stato di disagio sociale (livello culturale, economico, curriculum scolastico ecc.).
Il decreto 33/2013 si occupa, poi, del caso in cui la pubblica amministrazione ometta la pubblicazione, nonostante sia obbligatoria. A questo proposito scatta l'accesso civico. Accesso, che in effetti, vuole rimediare alla negligenza dell'amministrazione, ma che riguarda solo atti e informazioni a pubblicazione obbligatoria. Per gli altri atti rimane sempre la possibilità di acceso ai sensi dell'articolo 22 della legge 241/1990.
Ad esempio si può prendere l'articolo 10 del Testo unico per l'edilizia (dpr 380/2001), in cui si legge che «dell'avvenuto rilascio del permesso di costruire è data notizia al pubblico mediante affissione all'albo pretorio». Oppure si può richiamare l'articolo 31, sempre del Testo unico per l'edilizia, che prescrive la pubblicazione mensile dei dati relativi agli immobili e alle opere realizzati abusivamente e delle relative ordinanze di sospensione. In caso di omissione scatta il diritto di accesso civico e, quindi, l'obbligo di pubblicazione tardiva.
È chiaro che chi chiede l'accesso civico deve avere notizia dell'atto non diffuso e non può fare richiesta esplorative (alla ricerca di eventuali atti di cui sia stata omessa la pubblicazione). L'obiettivo di chi fa l'istanza sarà, dunque, di poter ottenere la conoscenza generalizzata dell'atto e di attivare le sanzioni disciplinari contro il funzionario pubblico che ha violato l'obbligo di trasparenza (articolo ItaliaOggi Sette del 03.06.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATAApre il registro del conto termico. Da oggi si possono inoltrare in via telematica le prime richieste di contributo.
Il conto alla rovescia è terminato. Da questa mattina, alle 9, apre la possibilità di iscrizione ai registri del conto termico, un passaggio necessario per gli interventi di sostituzione di impianti di climatizzazione invernale esistenti con sistemi dotati di pompa di calore o di generatori di calore alimentati a biomasse, con potenza termica nominale complessiva superiore a 500 kW e fino a 1 MW.
È un primo step sulla strada dell'attuazione dell'intera misura, che discende dal decreto dei ministeri dello Sviluppo economico e dell'Ambiente del 28.12.2012, pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale» del 02.01.2013. L'intero conto termico, gestito dal Gse, mette infatti a disposizione un tesoro di 900 milioni annui (700 per i privati e il resto riservato alla Pa) per il sostegno economico dei piccoli interventi di miglioramento energetico degli immobili.
Per quanto riguarda le opere che devono passare attraverso l'iscrizione al registro, le risorse a disposizione sono di 7 milioni per la Pa e 23 per i privati: le domande dovranno essere trasmesse sul Portaltermico per via telematica e saranno aperte fino alle 21 del 01.08.2013.
Nelle prossime settimane, poi, per gli altri interventi, il Gse renderà disponibile l'applicazione informatica anche per la trasmissione delle richieste di prenotazione (riservate alla Pa) e per l'accesso diretto agli incentivi (Pa e privati). Ma vediamo come funziona l'intera misura, al di là del primo passo operativo.
Che cosa è incentivato
Gli interventi ammessi al contributo sono di due categorie. La prima, riservata all'uso della pubblica amministrazione, comprende azioni per incrementare l'efficienza energetica di edifici esistenti, come l'isolamento e la schermatura solare, la sostituzione di infissi o di vecchi impianti per la climatizzazione invernale con generatori a condensazione. La seconda categoria, aperta ai privati, guarda ai piccoli interventi di sostituzione di impianti obsoleti, sia per il riscaldamento, sia per la produzione di acqua calda sanitaria, con nuovi apparati alimentati da fonti rinnovabili o tramite sistemi ad alta efficienza.
Chi può fare domanda
Il sostegno è aperto sia alle amministrazioni pubbliche sia ai privati (persone fisiche, condomini o soggetti titolari di reddito d'impresa o agrario). Il decreto prevede che a inoltrare domanda e a stipulare il contratto con il Gse sia il soggetto responsabile, cioè colui che ha sostenuto le spese per l'efficientamento. Nel caso in cui i lavori siano stati eseguiti con il supporto di una Esco (Energy service company), è quest'ultima il soggetto responsabile.
L'ammontare degli incentivi
La somma annua a disposizione per il sostegno del conto termico è di 900 milioni. Di questi, 200 milioni sono destinati a coprire gli interventi di categoria 1 (Pa) mentre 700 milioni andranno a incentivare le azioni comprese nella categoria 2 (privati). Il rimborso sarà corrisposto fino all'esaurimento dei fondi. Nel caso della Pa, la copertura massima è fino al 40% delle spese sostenute, compresa diagnosi e certificazione energetica. L'incidenza del rimborso per i lavori effettuati da privati dipende dalla taglia del generatore installato, dall'efficienza in rapporto alla zona climatica in cui è inserito e da altri coefficienti.
Le differenze con il passato
A differenza di altri meccanismi, come la detrazione sull'imposta lorda del 50% e del 55% per chi ristruttura una casa esistente o per chi fa efficienza, il conto termico funziona in modo opposto. Non è infatti un recupero a posteriori, ma prevede un rimborso su conto corrente, da parte del Gse, di una parte delle spese sostenute, suddivisa in rate annuali costanti, da un minimo di due anni, fino a un massimo di cinque anni, a seconda del tipo di intervento.
Il meccanismo ricalca, in parte, quello del conto energia usato per il solare fotovoltaico, anche perché tende a premiare le soluzioni realmente produttive ed efficaci.
Cumulabilità
L'aiuto può essere assegnato solo a chi non accede ad altre forme di sostegno statale (salvo fondi di garanzia, fondi di rotazione o contributi in conto interesse). Per gli edifici a uso pubblico, però, il conto termico è cumulabile con incentivi in conto capitale (articolo Il Sole 24 Ore del 03.06.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI: Più aiuti ai Comuni in difficoltà. Sessanta giorni per rivedere il piano di riequilibrio dopo le anticipazioni dalla Cdp.
Sblocca-debiti. Superato il divieto di acquisto di immobili e l'utilizzo degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente.
Le novità in arrivo nella versione definitiva del decreto sblocca-debiti (decreto legge 35/2013) -che sarà discusso questo pomeriggio al Senato per poi tornare mercoledì alla Camera- mostrano un occhio di favore per gli enti locali in difficoltà, con una serie di interventi che introducono novità e ripristinano vecchi strumenti di flessibilità del bilancio.
Gli enti che hanno deliberato il ricorso alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale (articolo 243-bis del Dlgs 267/2000) e che hanno ottenuto l'anticipazione da parte della Cdp il legislatore concede 60 giorni anziché 30 dalla concessione, per modificare il piano di riequilibrio.
Sempre in tema di procedura anti-dissesto prevista dal decreto legge 174/2012, è cancellata la sottocommissione del Viminale, interna alla Commissione per la finanza e gli organici degli enti locali, composta da rappresentanti dei ministeri dell'Interno, del Tesoro e di Anci. I compiti di istruttoria sul piano restano esclusivamente in capo al ministero dell'Interno.
In tema di dissesto una nuova norma (articolo 250, comma 1, del Dlgs 267/2000) prevede che nei casi in cui la dichiarazione di dissesto sia adottata nel corso del secondo semestre dell'esercizio finanziario, per il quale risulta non essere stato ancora deliberato il bilancio di previsione, o sia adottata nell'esercizio successivo, il consiglio dell'ente locale presenti una ipotesi di bilancio che garantisca l'effettivo riequilibrio entro il secondo esercizio. L'ipotesi va presentata per l'approvazione al ministero dell'Interno entro il termine perentorio di tre mesi dalla data di emanazione del decreto di nomina dell'organo straordinario di liquidazione.
Infine, in tema di vincoli di spesa arriva la norma di interpretazione autentica per il divieto di acquistare immobili a titolo oneroso (articolo 12, comma 1-quater, del Dl 98/2011) per cui esso non si applica: alle procedure relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità; alle permute a parità di prezzo; alle operazioni di acquisto programmate da delibere di Consiglio assunte prima del 31.12.2012 che individuano con esattezza i compendi immobiliari e alle procedure relative a convenzioni urbanistiche previste dalle normative regionali e provinciali.
Anche negli anni 2013 e 2014 i Comuni potranno poi continuare a destinare alle spese correnti i proventi dalle concessioni edilizie e dalle sanzioni. È stata infatti estesa fino al 2014 la disciplina derogatoria in base alla quale, dal 2008 al 2012, è stato possibile destinare fino al 50% degli oneri alla spesa corrente e un ulteriore 25% alle manutenzioni ordinarie del verde, delle strade e del patrimonio comunale (si veda Il Sole 24 del 1° giugno).
Gli enti locali possono chiedere di escludere dal Patto di stabilità interno per l'anno 2013 anche i debiti di parte capitale riconosciuti alla fine del 2012 oppure che avevano i requisiti per il riconoscimento ai sensi della normativa sui debiti fuori bilancio (articolo 194 del Dlgs 267/2000), requisiti che sono certezza, liquidità e esigibilità dell'obbligazione. Per gli enti inadempienti al Patto per il 2012, che non hanno rispettato i vincoli di finanza pubblica per il pagamento dei debiti di parte capitale certi liquidi ed esigibili a fine dicembre 2012, non si applica la sanzione relativa al taglio delle risorse statali per la parte imputabile ai suddetti pagamenti.
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Le misure
01 | ANTI-DISSESTO
Sale da 30 a 60 giorni il tempo concesso per la revisione dei piano di riequilibrio agli enti locali che hanno deliberato il ricorso al fondo di riequilibrio e hanno anche ottenuto anticipazioni dalla Cassa depositi e prestiti per il pagamento dei debiti pregressi. Cancellata la sottocommissione, l'istruttoria sui piani rimane in capo al Viminale
02 | ENTI IN DEFAULT
Se il dissesto è dichiarato nel secondo semestre dell'esercizio finanziario, e non è stato deliberato il bilancio di previsione, l'ente deve elaborare un'ipotesi di bilancio che garantisca l'effettivo riequilibrio entro il secondo esercizio.
03 | ONERI CONCESSORI
Estesa fino al 2014 la possibilità di destinare fino al 50% degli oneri di urbanizzazione alla spesa corrente, e un ulteriore 25% alle manutenzioni ordinarie del verde, delle strade e del patrimonio comunale
04 | SANZIONI
Esclusi dal taglio al fondo di solidarietà i Comuni che nel 2012 non hanno rispettato il Patto di stabilità per effettuare il pagamento di debiti in conto capitale certi, liquidi ed esigibili al 31.12.2012 (articolo Il Sole 24 Ore del 03.06.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: I paradossi del decreto «anticorruzione». Tutti incompatibili tranne i deputati.
Il Dlgs 39/2013 vieta gli incarichi a chi ha contratto il "virus" della politica, e impone a chi la pratica un congruo periodo di quarantena prima di avere un ruolo dirigenziale in una Pa: un anno, se è stato amministratore delegato di una Spa; due anni se è entrato in un consiglio comunale, assai di più se ha preso una condanna per reati contro la Pa (non importa, in quest'ultimo caso, se la condanna è non definitiva o se si tratta di patteggiamento).
Sopra ogni cosa, il decreto punta a impedire che un politico vada a svolgere attività di gestione, o che un dirigente pubblico ambisca a fare politica, senza esitazioni o sottigliezze: è un politico, ad esempio, anche l'ad o il presidente di una società. Nominato, e quindi incompatibile perfino col suo stesso ruolo e con ciò (secondo alcuni) non riconfermabile neppure se ha svolto bene il suo compito, e certo non nominabile in un'altra partecipata, non solo dal Comune "untore" ma da qualsiasi ente della stessa regione. Triste destino anche per i dirigenti delle società pubbliche e per i pochi dirigenti comunali che si erano prestati alla nomina per rispetto dell'articolo 4 della spending review. Credevano di svolgere il loro dovere prestandosi a fare gli amministratori con deleghe di gestione diretta delle aziende controllate. Ingenui: il decreto li costringe a scegliere tra mantenere il posto di lavoro o fare gli amministratori di società.
Le incompatibilità e le inconferibilità colpiscono, come detto, anche la politica (quella vera, quella degli eletti): chi è stato amministratore provinciale o comunale o anche semplice consigliere, per due anni non potrà essere nominato in nessun ente partecipato da Province e Comuni della sua regione. L'ex assessore o consigliere regionale avrà anche lui la sua quarantena biennale, ma limitatamente alle nomine di provenienza regionale. Colta la differenza? Se sei stato assessore a Mirandola devi cercarti un posto in Lombardia a meno che tu non abbia strette amicizie in Regione Emilia Romagna (dove ti possono nominare), mentre se sei uscito dal consiglio regionale puoi farti designare dal sindaco del tuo Comune.
E che sanzione vi aspettereste per chi ha fatto il ministro o il deputato? Semplice: assolutamente nulla. Potrà essere tranquillamente nominato in una società nazionale, regionale o comunale.
L'incompatibilità più divertente? Quella dell'articolo 8: gli incarichi di direttore generale, direttore sanitario e direttore amministrativo nelle Asl non possono essere dati a coloro che nei «cinque anni precedenti siano stati candidati in elezioni europee, nazionali, regionali e locali, in territori che comprendano il territorio della Asl». Candidati, non eletti: chi è stato eletto, si gode il mandato e poi è pronto per fare il direttore generale della Asl sotto casa (articolo Il Sole 24 Ore del 03.06.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPaletti agli staff. Assunzioni entro i limiti di spesa. La Consulta boccia i tentativi di deroga del Piemonte.
Il carattere fiduciario degli uffici di diretta collaborazione, se può autorizzare deroghe al principio del concorso pubblico nella scelta dei collaboratori, non consente eccezioni ai princìpi fondamentali dettati dalla legge statale in materia di contenimento delle spese di personale.
Con la sentenza 07.06.2013 n. 130, depositata ieri in cancelleria, la Corte costituzionale ha bacchettato la regione Piemonte che con una legge del 2011 aveva tentato di aggirare i rigidi paletti in materia di spese per il personale fissati da Giulio Tremonti con il dl 78/2010.
Paletti che, pur non avendo immediata operatività nei confronti delle regioni e degli enti locali, costituiscono per le autonomie norme di principio a cui devono adeguarsi. Si tratta in particolare del limite alle assunzioni parametrato sul 50% della spesa 2009 e al divieto di assumere personale oltre il limite del 20% della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente.
La regione, con la legge n. 7/2011 finita nel mirino della Consulta, aveva tentato di sottrarre dalle tenaglie della manovra Tremonti non solo i contratti che non comportavano un aggravio per il bilancio regionale, ma anche tutta una serie di rapporti contrattuali di diritto privato. Dalle assunzioni finanziate con fondi Ue agli uffici di diretta collaborazione con gli organi politici (comunicazione, portavoce, capo di gabinetto, oltre a svariate professionalità esterne di supporto alla giunta e al consiglio) fino alle sostituzioni di maternità negli enti strumentali.
Ma tutte queste deroghe sono finite nel mirino di palazzo Chigi che vi ha ravvisato un tentativo di aggirare l'art. 117, terzo comma, della Costituzione che affida la materia del coordinamento della finanza pubblica alla competenza concorrente stato-regione, affidando comunque allo stato il compito di dettare i princìpi fondamentali a cui i governatori devono adeguarsi nelle normative di dettaglio. La Consulta ha accolto le tesi del governo, smontando punto per punto la legge piemontese. Le assunzioni finanziate dall'Ue, per esempio, rientrano nei tetti di spesa perché «immancabilnente, impongono un contributo anche a carico dell'ente pubblico beneficiario».
Il limite del 20%, poi, all'epoca dei fatti era riferito anche a tutti i tipi di contratti, anche a quelli a termine (è stata la legge di stabilità 2012 ad aver limitato l'ambito di applicazione della norma taglia-spese ai soli contratti a tempo indeterminato). E quanto agli uffici di diretta collaborazione, conclude la sentenza redatta da Luigi Mazzella, «la particolare rilevanza del carattere fiduciario, non consente deroghe ai princìpi fondamentali dettati dal legislatore statale in materia di coordinamento della finanza pubblica» (articolo ItaliaOggi dell'08.06.2013).

URBANISTICA: Le scelte sottese alla pianificazione urbanistica, al momento dell'adozione del piano regolatore generale o di variante al medesimo, costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato giurisdizionale, salvo che non siano affette da errori di fatto o da abnormi illogicità: ciò implica –quale necessario corollario– che trattandosi di scelte discrezionali in merito alla destinazione di singole aree, queste non necessitano di apposita motivazione oltre a quelle che si possono evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento del progetto di Piano.
A quest’ultimo proposito possono affiorare casi di arbitrarietà, irrazionalità, irragionevolezza ovvero di palese travisamento dei fatti –quali l'incoerenza con l'impostazione di fondo del nuovo intervento pianificatorio o la manifesta incompatibilità con le caratteristiche oggettive del territorio– ovvero carenze nell'istruttoria e nelle conclusioni del procedimento.
Poi, le singole scelte urbanistiche devono soltanto obbedire al superiore criterio di razionalità nella definizione delle linee dell'assetto territoriale, nell'interesse pubblico alla sicurezza delle persone e dell'ambiente, ma non anche a criteri di proporzionalità distributiva degli oneri e dei vincoli.
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In capo ai privati interessati dalle nuove previsioni urbanistiche non è mai configurabile un'aspettativa qualificata alla destinazione edificatoria prevista da precedenti determinazioni dell’amministrazione, ma soltanto un'aspettativa generica sia al mantenimento della destinazione urbanistica "gradita" sia ad una "reformatio in melius", analogamente a quanto si aspetta ogni altro proprietario di aree che aspira a utilizzare più proficuamente i propri immobili.
Va tenuto conto che il generico affidamento alla "non reformatio in pejus" della precedente destinazione richiede solo che una motivazione possa agevolmente evincersi dai criteri seguiti per la redazione del nuovo strumento pianificatorio, in modo che siano chiari ed espliciti le finalità e gli obiettivi che hanno indotto il pianificatore comunale a disattendere precedenti scelte. Ebbene, già alla luce di tali consolidati canoni si può sottolineare come, ove l’amministrazione (respingendo l’istanza di parte ricorrente) avesse rifiutato di introdurre la previsione di un nuovo ambito di trasformazione a destinazione produttiva (e si fosse limitata a confermare la programmazione preesistente) parte ricorrente non avrebbe potuto avanzare obiezioni: sarebbe stata una semplice modalità di esercizio dell’ampia discrezionalità che –come già rilevato– connota le scelte in materia di pianificazione del territorio, non potendo certo il privato vantare alcuna legittima aspettativa ad un regime più favorevole.
Al riguardo, i giudici di Palazzo Spada hanno valorizzato la potestà conformativa in materia del governo del territorio “alla quale è connaturata la facoltà di porre condizioni e limiti al godimento del diritto di proprietà non di singoli individui, ma di intere categorie e tipologie di immobili identificati in termini generali e astratti”.
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Nell’area dei privati ricorrenti la possibilità di beneficiare della trasformazione da “agricola” a “produttiva” è subordinata al concorso alla realizzazione dei servizi di interesse generale riferibili all’intero territorio comunale, da attuare mediante percorsi e modalità da trasfondere nei Piani attuativi in accordo con i soggetti coinvolti.
Da questo punto di vista il ricorso a moduli convenzionali nella fase della pianificazione attuativa è ormai un dato consolidato del sistema ordinamentale urbanistico, e gli strumenti consensuali –utili al perseguimento di finalità perequative– traggono fondamento nel combinato disposto degli artt. 1, comma 1-bis, e 11 della L. 241/1990, con piena fungibilità del modello consensuale rispetto a quello autoritativo, sul presupposto della maggiore idoneità del primo al perseguimento degli obiettivi di pubblico interesse.

Sul punto si richiama il consolidato principio sostenuto dalla costante giurisprudenza, in virtù del quale le scelte sottese alla pianificazione urbanistica, al momento dell'adozione del piano regolatore generale o di variante al medesimo, costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato giurisdizionale, salvo che non siano affette da errori di fatto o da abnormi illogicità: ciò implica –quale necessario corollario– che trattandosi di scelte discrezionali in merito alla destinazione di singole aree, queste non necessitano di apposita motivazione oltre a quelle che si possono evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento del progetto di Piano (cfr. da ultimo Consiglio di Stato, sez. IV – 15/02/2013 n. 921).
A quest’ultimo proposito possono affiorare casi di arbitrarietà, irrazionalità, irragionevolezza ovvero di palese travisamento dei fatti –quali l'incoerenza con l'impostazione di fondo del nuovo intervento pianificatorio o la manifesta incompatibilità con le caratteristiche oggettive del territorio– ovvero carenze nell'istruttoria e nelle conclusioni del procedimento (cfr. TAR Trentino Alto Adige Trento – 11/07/2012 n. 219 e la giurisprudenza ivi richiamata).
Puntualizza poi il Collegio che le singole scelte urbanistiche devono soltanto obbedire al superiore criterio di razionalità nella definizione delle linee dell'assetto territoriale, nell'interesse pubblico alla sicurezza delle persone e dell'ambiente, ma non anche a criteri di proporzionalità distributiva degli oneri e dei vincoli (cfr. sentenza sez. I – 28/11/2012 n. 1859).
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Nell’affrontare il caso in esame, si può premettere ulteriormente che in capo ai privati interessati dalle nuove previsioni urbanistiche non è mai configurabile un'aspettativa qualificata alla destinazione edificatoria prevista da precedenti determinazioni dell’amministrazione, ma soltanto un'aspettativa generica sia al mantenimento della destinazione urbanistica "gradita" sia ad una "reformatio in melius", analogamente a quanto si aspetta ogni altro proprietario di aree che aspira a utilizzare più proficuamente i propri immobili (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV – 12/05/2010 n. 2843; si veda anche sez. IV – 04/12/2008 n. 5988).
Va tenuto conto che il generico affidamento alla "non reformatio in pejus" della precedente destinazione (ipotesi non realizzatasi nella specie) richiede solo che una motivazione possa agevolmente evincersi dai criteri seguiti per la redazione del nuovo strumento pianificatorio, in modo che siano chiari ed espliciti le finalità e gli obiettivi che hanno indotto il pianificatore comunale a disattendere precedenti scelte. Ebbene, già alla luce di tali consolidati canoni si può sottolineare come, ove l’amministrazione (respingendo l’istanza di parte ricorrente) avesse rifiutato di introdurre la previsione di un nuovo ambito di trasformazione a destinazione produttiva (e si fosse limitata a confermare la programmazione preesistente) parte ricorrente non avrebbe potuto avanzare obiezioni: sarebbe stata una semplice modalità di esercizio dell’ampia discrezionalità che –come già rilevato– connota le scelte in materia di pianificazione del territorio, non potendo certo il privato vantare alcuna legittima aspettativa ad un regime più favorevole.
Peraltro, al di là delle possibili conseguenze in rito, ritiene il Collegio di poter evocare le statuizioni elaborate dal Consiglio di Stato (cfr. sentenza sez. IV – 13/07/2010 n. 4542). In particolare i giudici di Palazzo Spada hanno valorizzato la potestà conformativa in materia del governo del territorio “alla quale è connaturata la facoltà di porre condizioni e limiti al godimento del diritto di proprietà non di singoli individui, ma di intere categorie e tipologie di immobili identificati in termini generali e astratti” (cfr. sentenza Corte costituzionale 20/05/1999 n. 179, la quale ha escluso che potessero qualificarsi in termini di vincolo espropriativo tutte le condizioni e i limiti che possono essere imposti ai suoli in conseguenza della loro specifica destinazione, ivi compresi i limiti di cubatura connessi agli indici di fabbricabilità previsti dal PRG per le varie categorie di zone in cui il territorio viene suddiviso).
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Nell’area dei privati ricorrenti la possibilità di beneficiare della trasformazione da “agricola” a “produttiva” è subordinata al concorso alla realizzazione dei servizi di interesse generale riferibili all’intero territorio comunale, da attuare mediante percorsi e modalità da trasfondere nei Piani attuativi in accordo con i soggetti coinvolti.
Da questo punto di vista il ricorso a moduli convenzionali nella fase della pianificazione attuativa è ormai un dato consolidato del sistema ordinamentale urbanistico, e gli strumenti consensuali –utili al perseguimento di finalità perequative– traggono fondamento nel combinato disposto degli artt. 1, comma 1-bis, e 11 della L. 241/1990, con piena fungibilità del modello consensuale rispetto a quello autoritativo, sul presupposto della maggiore idoneità del primo al perseguimento degli obiettivi di pubblico interesse.
Nel premettere quanto appena rilevato, la già citata sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV – 13/07/2010 n. 4542 ha statuito che <<Pertanto, nel caso di specie l’Amministrazione altro non ha fatto che predeterminare le condizioni alle quali potranno attivarsi i ridetti meccanismi convenzionali, solo se e quando i proprietari interessati ritengano di voler avvalersi degli incentivi cui sono collegati (e, cioè, di voler fruire della volumetria aggiuntiva assegnata ai loro suoli dal P.R.G.); ove ciò non avvenga, il Comune che fosse interessato alla realizzazione di opere di urbanizzazione e infrastrutture dovrà attivarsi con gli strumenti tradizionali all’uopo predisposti dall’ordinamento, in primis le procedure espropriative (naturalmente, se del caso, previa localizzazione delle aree su cui operare gli interventi e formale imposizione di vincoli preordinati all’esproprio con apposita variante urbanistica).
È proprio la natura facoltativa degli istituti perequativi de quibus, nel senso che la loro applicazione è rimessa a una libera scelta degli interessati, a escludere che negli stessi possa ravvisarsi una forzosa ablazione della proprietà nonché, nel caso del contributo straordinario, che si tratti di prestazione patrimoniale imposta in violazione della riserva di legge ex art. 23 Cost. Tale rilievo non è scalfito del fatto che la detta facoltatività dovrebbe essere esclusa, a cagione della predeterminazione autoritativa, a livello delle stesse N.T.A. del P.R.G. e quindi in via generale e astratta, dei contenuti essenziali degli accordi che l’Amministrazione e i privati andranno a concludere (e, segnatamente, dell’entità delle cubature da cedere al Comune e della misura del contributo straordinario).
A tale rilievo, è agevole replicare che siffatta predeterminazione è coerente con l’interesse pubblico al cui perseguimento, giusta il citato art. 11 della legge nr. 241 del 1990, gli accordi in questione sono finalizzati: a tale interesse invero, proprio in quanto ricomprende gli obiettivi perequativi più volte richiamati, è intrinsecamente connessa l’esigenza di garantire la par condicio fra i privati proprietari di suoli soggetti a eguale disciplina urbanistica, esigenza che all’evidenza sarebbe frustrata qualora fosse rimesso integralmente al momento della contrattazione privata –quasi che questa fosse espressione di mera autonomia privata, e non coinvolgesse invece interessi di rilevanza pubblicistica- la definizione dei termini e delle modalità della “contropartita” che ciascun privato dovrà assicurare all’Amministrazione in cambio della volumetria edificabile aggiuntiva riconosciutagli dal Piano
>>.
Anche nella fattispecie esaminata, in conclusione, non si registra la violazione dell’art. 23 della Costituzione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 06.06.2013 n. 539 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittima l'ordinanza sindacale che impone lo spostamento di una concimaia troppo vicina alle abitazioni tenuto conto che:
- il provvedimento impugnato non considera che l'attività di allevamento della ricorrente ha acquisito una priorità d'uso rispetto agli edifici residenziali realizzati ad una distanza inferiore a cinquanta metri dalla concimaia di cui si è ordinato lo spostamento;
- il regolamento locale di igiene, nel fissare le distanze tra allevamenti e edifici residenziali, ed il cui scopo è quello di ricercare un equo contemperamento tra le opposte esigenze produttive delle attività di allevamento e che determina l’obliterazione di possibili fonti di inquinamento e pregiudizio per la salubrità delle aree residenziali, va declinato con l’insistenza con lo ius edificandi dei proprietari di immobili posti in prossimità di zone agricole ma, in primo luogo, secondo il principio civilistico della prevenzione temporale;
- pertanto appare incongruo l'ordine di spostamento della vecchia concimaia anziché quello di adottare tutti gli accorgimenti tecnici necessari per la tutela di carattere igienico-sanitario indicati nella relazione agronomica a suo tempo presentata dalla ricorrente o indicati dallo stesso Comune (quali, ad esempio, la sistemazione della concimaia stessa, da realizzare in materiale impermeabile a doppia tenuta con vasca di contenimento del colaticcio; idonea struttura di copertura atta ad impedire la diluizione con le acque meteoriche; aggiunta di additivi di tipo biologico enzimatico atti alla deodorizzazione dei reflui; utilizzo di prodotti moschicidi).

... per l'annullamento dell'ordinanza del Sindaco 08.04.2005 n. 2 che impone al ricorrente di presentare entro 30 giorni un progetto per nuova concimaia da insediare lontano dalle abitazioni circostanti.
...
L’atto di cui in rubrica impone alla parte ricorrente la costruzione di una nuova concimaia a tenuta ed altrimenti da tenersi lontano dalle abitazioni circostanti.
La detta parte, pacificamente impegnata nel settore primario dell’agricoltura, declina al riguardo la priorità temporale d’uso della diversa concimaia in essere ed il travisamento dei fatti per la inesatta percezione della vicenda e per il fatto che la detta attività è presente in loco da moltissimo tempo e perciò ancor prima dell’insediamento progressivo di abitazioni nella zona circostante.
Il Comune non si è costituito in giudizio e, all’Udienza Pubblica del 22/05/2013, la causa è stata spedita a sentenza.
Il Collegio ritiene che il ricorso sia fondato.
Al riguardo richiama le argomentazioni contenute, nella a suo tempo, emessa ordinanza cautelare (911/2005) qui facendole proprie. Ed invero in tale sede si affermava che:
- il ricorso appare assistito dal requisito del fumus boni iuris nella parte in cui censura il provvedimento impugnato per la mancata considerazione che l'attività di allevamento della ricorrente ha acquisito una priorità d'uso rispetto agli edifici residenziali realizzati ad una distanza inferiore a cinquanta metri dalla concimaia di cui si è ordinato lo spostamento;
- il regolamento locale di igiene, nel fissare le distanze tra allevamenti e edifici residenziali, ed il cui scopo è quello di ricercare un equo contemperamento tra le opposte esigenze produttive delle attività di allevamento e che determina l’obliterazione di possibili fonti di inquinamento e pregiudizio per la salubrità delle aree residenziali, va declinato con l’insistenza con lo ius edificandi dei proprietari di immobili posti in prossimità di zone agricole ma, in primo luogo, secondo il principio civilistico della prevenzione temporale;
- pertanto appare incongruo l'ordine di spostamento della vecchia concimaia anziché quello di adottare tutti gli accorgimenti tecnici necessari per la tutela di carattere igienico-sanitario indicati nella relazione agronomica a suo tempo presentata dalla ricorrente o indicati dallo stesso Comune (quali, ad esempio, la sistemazione della concimaia stessa, da realizzare in materiale impermeabile a doppia tenuta con vasca di contenimento del colaticcio; idonea struttura di copertura atta ad impedire la diluizione con le acque meteoriche; aggiunta di additivi di tipo biologico enzimatico atti alla deodorizzazione dei reflui; utilizzo di prodotti moschicidi) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 05.06.2013 n. 524 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALICONSULTA/ Illegittimo l'art. 63 del Tuel. Sindaci-parlamentari incompatibili a 360°.
L'incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di sindaco di un comune con più di 20.000 abitanti diventa la regola. Tanto che anche il Tuel, il Testo unico sugli enti locali (dlgs 267/2000) si dovrà adeguare a questo principio. E soprattutto l'incompatibilità sarà «biunivoca», nel senso che non sarà ammessa al parlamentare la candidatura a sindaco e viceversa.

Lo ha deciso la Corte costituzionale nella sentenza 05.06.2013 n. 120, depositata ieri in cancelleria, che ha ribadito quanto già affermato nel 2011 a proposito dell'incompatibilità del sindaco di Catania Raffaele Stancanelli, costretto alle dimissioni da palazzo Madama, proprio per effetto della sentenza 277/2011.
Ora la Corte, giudicando su un'azione popolare promossa nel 2011 da un elettore del comune di Afragola contro il sindaco del tempo ed ex senatore Pdl Vincenzo Nespoli, è tornata sull'argomento. Questa volta spazzando via non la legge sulle incompatibilità parlamentari (n. 60/1953), come era accaduto nel 2011, ma direttamente il Tuel (art. 63).
La Corte ha riaffermato che è irragionevole non prevedere «una naturale corrispondenza biunivoca» delle cause di ineleggibilità e incompatibilità che per forza di cose devono incidere su entrambe le cariche coinvolte. Diversamente, infatti, se l'esclusione operasse solo in una direzione (come si riteneva prima della sentenza del 2011, ossia solo nel senso di precludere l'elezione a parlamentare di un sindaco, ma non viceversa) verrebbe in concreto fatta dipendere «da una circostanza meramente casuale, connessa alla cadenza temporale delle relative tornate elettorali».
E questo determinerebbe «una lesione non soltanto del canone di uguaglianza e ragionevolezza, ma anche della stessa libertà di elettorato attivo e passivo». Di qui l'illegittimità costituzionale della norma del Tuel nella parte in cui non prevedeva la suddetta causa di incompatibilità (articolo ItaliaOggi del 06.06.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIIncompatibilità. Illegittimo anche il Testo unico. Stop finale ai sindaci-deputati.
Per il Testo unico degli enti locali un sindaco di una città con più di 20mila abitanti che si candida in Parlamento decade dalla carica, mentre un Parlamentare che si candida a sindaco o a un altro vertice amministrativo locale ha via libera.

Tutto questo fino a ieri, quando la sentenza 05.06.2013 n. 120 della Corte costituzionale (presidente Gallo, relatore Grossi) ha bocciato come irragionevole questa incompatibilità a corrente alternata, attenta al «senso di marcia» degli eletti più che alla sostanza delle cariche.
A motivare l'incompatibilità sono infatti i potenziali conflitti di interesse che si possono generare se la stessa persona è impegnata a scrivere le leggi nazionali e ad amministrare una comunità di peso che dalle stesse leggi è regolata.
La questione non è nuova, e aveva già impegnato la Corte due anni fa quando con la sentenza 277/2011 i giudici delle leggi dissero la stessa cosa. All'epoca il tema del contendere erano le incompatibilità disciplinate da una legge del 1953, ritenuta incostituzionale nella parte in cui non prevedeva l'incompatibilità tout court tra la carica di parlamentare e quella di sindaco di un Comune con più di 20mila abitanti.
La sentenza all'epoca aveva spinto alle dimissioni dal Parlamento alcuni sindaci-deputati (per esempio Adriano Paroli di Brescia o Raffaele Stancanelli a Catania), ma non aveva potuto colpire il cuore del problema, che si annida appunto nel Testo unico degli enti locali: che all'articolo 62 fa decadere i sindaci delle città sopra 20mila abitanti che decidono di puntare a Montecitorio o Palazzo Madama, e all'articolo 63, sulle incompatibilità, ignora chi fa il percorso inverso.
Con la nuova sentenza non ci sono più dubbi: peccato però che la decisione della Consulta arrivi proprio quando il caso che l'ha innescata, quello del politico del Pdl Vincenzo Nespoli, sia superato dai fatti, perché Nespoli ha lasciato con le ultime elezioni il Parlamento e non partecipa nemmeno al turno amministrativo che nel ballottaggio di domenica e lunedì prossimo deciderà il nuovo sindaco di Afragola (Napoli), la città di cui Nespoli era primo cittadino e primo deputato (articolo Il Sole 24 Ore del 06.06.2013).

APPALTIAppalti aperti ai debitori a rate. In regola col fisco anche con la dilazione di pagamento. L'adunanza plenaria del Consiglio di stato sui requisiti per la partecipazione alle gare.
Gli appalti aprono le porte alla rateizzazione fiscale. Il contribuente può partecipare alle gare indette dalla pubblica amministrazione anche quando gli è stata accordata la possibilità di pagare a rate il proprio debito con l'erario. Il requisito della regolarità fiscale, necessario per la partecipazione alle gare, sussiste infatti anche con la rateizzazione.
Il tutto purché il parere positivo da parte dell'amministrazione finanziaria, arrivi prima della scadenza dei termini per la presentazione della domanda di partecipazione.

A mettere la parola fine sulla questione, la sentenza 05.06.2013 n. 15, dell'Adunanza plenaria del Consiglio di stato.
Il problema. Si scioglie quindi il nodo relativo al concetto di regolarità fiscale. I giudici di palazzo Spada erano infatti stati chiamati, in più occasioni a trovare una soluzione al problema (si veda ItaliaOggi del 7 marzo e del 7 maggio). In particolare, la decisione doveva sciogliere il dubbio relativo alla possibilità per le imprese di poter partecipare alle gare di appalto anche nel caso in cui versassero in situazione di irregolarità fiscale.
A questo proposito infatti, l'orientamento del Consiglio di stato, a più riprese, era stato nel senso di escludere dalla partecipazione alle gare tutte quelle imprese che non fossero in regola con il versamento dei tributi, comprese quelle che avevano avuto accesso al pagamento rateizzato. Un orientamento in questo senso, per quanto garantisse da un lato la stazione appaltate, non lasciava però possibilità di lavoro a quelle imprese che, per le ragioni più varie, non erano rimaste in pari con il versamento dei tributi.
La sentenza. Un'inversione di rotta quella assunta dall'Adunanza plenaria. In base a quanto stabilito nella sentenza infatti, le imprese possono partecipare alle gare di appalto, anche nel caso in cui l'intero importo dei tributi non sia stato versato.
C'è però un limite temporale da rispettare. È infatti necessario che l'impresa sia stata ammessa alla procedura di rateizzazione del debito prima della scadenza dei termini previsti per depositare la domanda di partecipazione. Il tutto, fermo restando che prima di ogni adempimento in questo senso è necessaria la presentazione dell'autodichiarazione circa il possesso del requisito di regolarità fiscale.
Secondo l'Adunanza plenaria infatti «è inammissibile una dichiarazione che attesti il possesso di un requisito in data futura». Da una pronuncia in questo senso, ne consegue che il contribuente versa in una situazione di irregolarità fiscale solo nel momento in cui, la richiesta di poter accedere alle dilazioni di pagamento, a seguito di un accertamento nei suoi confronti, gli venga negata.
L'accesso alla procedura di rateizzazione infatti, non solo non è un atto dovuto da parte dell'amministrazione finanziaria, ma non è nemmeno un meccanismo del tutto automatico. «La decisione dell'amministrazione finanziaria infatti, non è solo discrezionale», spiega il Consiglio di stato, «ma si basa sulla verifica della sussistenza in capo al contribuente interessato del requisito di obiettiva difficoltà economica».
La ratio. Una decisione quindi, volta ad ampliare quanto più possibile la platea dei partecipanti. Fermo restando però che, come spiega la pronuncia dell'Adunanza «l'ampliamento del novero dei partecipanti non è un valore assoluto ma deve essere ricondotto al suo alveo naturale, dato dalla sua funzione di strumento volto al conseguimento dell'obiettivo di assicurare la scelta del miglior contraente all'interno di una gara».
In quest'ottica quindi, si pone la decisione di stabilire alla scadenza della presentazione delle domande il termine ultimo per essere entrati in possesso del requisito di regolarità fiscale. Per i giudici infatti, il principio della certezza del quadro delle regole e dei tempi delle gare di appalto impone che «i requisiti di partecipazione siano verificati in modo compiuto al momento della scadenza dei termini di presentazione delle domande per impedire che si verifichi un'ammissione condizionata che si rifletterebbe negativamente sui valori dell'efficienza e della tempestività dell'azione amministrativa» (articolo ItaliaOggi dell'08.06.2013).

CONSIGLIERI COMUNALILa tutela del diritto all'informazione e alla conoscenza dei documenti della Pubblica Amministrazione assicurata dal Legislatore al consigliere comunale con le norme sull'accesso non può dilatarsi al punto da imporre alla P.A. un vero e proprio facere, che esula completamente dal concetto di accesso configurato dalla legge, consistente soltanto in un pati, ossia nel lasciare prendere visione ed al più in un facere meramente strumentale, vale a dire in quel minimo di attività materiale che occorre per estrarre i documenti indicati dal richiedente e metterli a sua disposizione.
E’ noto che la materia dell’accesso del consigliere comunale agli atti dell’ente, ex art. 43 del d.lgs. 267/2000, ha trovato un’esaustiva sistemazione giurisprudenziale, i cui capisaldi possono ritenersi, ormai, ius receptum, per la cui illustrazione risulta sufficiente richiamare in questa sede ex multis Cons. St. n. 846 del 12.02.2013, siccome condivisa.
L’art. 43 del TUEL prevede il diritto dei consiglieri comunali di ottenere dagli uffici tutte le notizie e informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del loro mandato.
Pertanto, la ratio della norma è nel principio democratico dell’autonomia locale e della rappresentanza esponenziale, sicché tale diritto è direttamente funzionale non tanto all’interesse del consigliere comunale (o provinciale) ma alla cura dell’interesse pubblico connessa al mandato conferito, controllando il comportamento degli organi decisionali del Comune.
Quanto ai presupposti, si è osservato come non sia necessaria una connessione tra la conoscenza dei dati richiesti con l’attività espletata nel mandato di consigliere.
Il diritto di accesso dei Consiglieri comunali non è soggetto ad alcun onere motivazionale giacché diversamente opinando sarebbe introdotto una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale. Gli unici limiti all'esercizio di tale diritto si rinvengono nel fatto che l’esercizio di tale diritto deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali e che non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazione al diritto stesso (tra tanti, Consiglio di Stato sez. V, 29.08.2011, n. 4829).
I consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere di utilità all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale. Di conseguenza sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che diversamente opinando sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale; dal termine "utili", contenuto nell'articolo 43 del D. Lgs. 18.08.2000, n. 267, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, detto aggettivo garantendo in realtà l’estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio del mandato (così Consiglio Stato sez. V, 17.09.2010, n. 6963).
In base all'art. 43, d.lgs. 18.08.2000 n. 267 i consiglieri comunali, ivi inclusi ovviamente quelli di minoranza, hanno un diritto di accesso incondizionato -purché non invada l'ambito riservato all'apparato amministrativo e non integri però un abuso del diritto- a tutti gli atti che possano essere "utili" all'espletamento del loro mandato, anche al fine di permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale; sul consigliere comunale, inoltre, non può gravare alcun onere di motivare le proprie richieste di accesso atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale.
I consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere di utilità all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale. Sul consigliere comunale, inoltre, non può gravare alcun onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che diversamente opinando sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale; dal termine ««utili», contenuto nell'art, 43, d.lgs. 18.08.2000 n. 267, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, detto aggettivo garantendo in realtà l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato. Dette conclusioni si appalesano stringenti ove ad azionare l'istituto siano consiglieri di minoranza, come nel caso di specie, cui i principi fondanti delle democrazie e la legge attribuiscono compiti di controllo dell'operato della maggioranza e, quindi, dell'esecutivo, qui inteso nella sua più larga accezione di apparato politico ed apparato amministrativo, se pur, si intende, da esplicarsi nel rispetto della legge, ovvero senza indebite incursioni in ambiti riservati all'apparato amministrativo dalla legge stessa e senza porre in essere atti e/o comportamenti qualificabili come abuso del diritto.
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali quindi si atteggia quale latissimo diritto all’informazione al quale si contrappone l’obbligo degli uffici di fornire ai richiedenti tutte le notizie e informazioni in loro possesso, fermo il divieto di perseguire interessi personali o di tenere condotte emulative.

Siffatti principi risultano ormai consolidati in giurisprudenza che ha rimarcato l’impossibilità di utilizzare l’istituto dell’accesso per sconvolgere l’ordinato assetto dell’ente con strategie ostruzionistiche o paralizzanti l’attività degli uffici. Ed infatti, è dato leggere nella citata decisione che “…il riconoscimento da parte dell'articolo 43 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (Testo Unico sugli Enti Locali) di una particolare forma di accesso costituita dall'accesso del consigliere comunale per l'esercizio del mandato di cui è attributario, non può portare allo stravolgimento dei principi generali in materia di accesso ai documenti e non può comportare che, attraverso uno strumento dettato dal legislatore per il corretto svolgimento dei rapporti cittadino-pubblica amministrazione, il primo, servendosi del baluardo del mandato politico, ponga in essere strategie ostruzionistiche o di paralisi dell'attività amministrativa con istanze che a causa della loro continuità e numerosità determinino un aggravio notevole del lavoro negli uffici ai quali sono rivolte e determinino un sindacato generale sull'attività dell'amministrazione oramai vietato dall'art. 24, comma 3 della l. n. 241 del 1990".
Soprattutto, la particolare disposizione del Testo Unico degli Enti Locali va coordinata con la modifica introdotta all'art. 22 della l. n. 241 del 1990, dalla l. n. 15 del 2005, di tal che anche il consigliere comunale deve essere portatore di un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento per il quale richiede l'accesso, aggiungendosi subito dopo che “…non si può pretendere, secondo costante giurisprudenza di questo Consesso, che l’Amministrazione costruisca una documentazione allo stato non ancora esistente. Anche a voler ritenere che la nozione di “notizie e informazioni” sia più lata della nozione di “documenti” ravvisabile nell’art. 22 della l. n. 241 del 1990 –e cioè ogni elemento conoscitivo in possesso dell’amministrazione, anche non riferibile alle competenze del Consiglio Comunale, perché sempre inerente al munus rivestito e non solo i provvedimenti adottati, ma anche gli atti preparatori, anche di provenienza privata-, anche in tale situazione soggettiva speciale non può non valere il principio, affermato dalla Sezione (così Consiglio Stato sez. IV, 30.11.2010, n. 8359), secondo cui il rimedio dell' accesso non può essere utilizzato per indurre o costringere l'Amministrazione a formare atti nuovi rispetto ai documenti amministrativi già esistenti, ovvero a compiere un'attività di elaborazione di dati e documenti, potendo essere invocato esclusivamente al fine di ottenere il rilascio di copie di documenti già formati e materialmente esistenti presso gli archivi dell'Amministrazione che li possiede.”
Nel caso di specie, il punto di diritto che viene in evidenza è proprio quest’ultimo avendo il sindaco, sostanzialmente, opposto l’inesistenza agli atti dell’ente, della documentazione richiesta (contratto di lavoro del segretario comunale; calendario di lavoro settimanale del segretario comunale con indicazione dei giorni e degli orari garantiti su ognuna delle sedei cui presta servizio; report mensili redatti e trasmessi dai Comuni convenzionati per il servizio di segreteria utili alla rendicontazione e controllo dell’attività e propedeutici al calcolo della busta paga; cartellini di presenza), il tutto sulla scorta di argomentazioni esatte e sostanzialmente condivisibili, giusta previsione di cui agli artt. 15 e 19 del C.C.N.L. 16.05.2001.
Non può, infatti, condividersi quanto asserito dal ricorrente che pone a base dell’illegittimità del diniego il “comportamento” dell’ente di non essersi attivato per acquisire tutto quanto richiesto, dal momento che la giurisprudenza amministrativa ha chiarito (cfr. Cons. St. Sezione V, 27.09.2004, n. 6326; 24.05.2004, n. 3364; 01.06.1998, n. 718; 15.06.1998, n. 854; Sezione IV, 17.01.2002, n. 231) che la tutela del diritto all'informazione e alla conoscenza dei documenti della Pubblica Amministrazione assicurata dal Legislatore al consigliere comunale con le norme sull'accesso non può dilatarsi al punto da imporre alla P.A. un vero e proprio facere, che esula completamente dal concetto di accesso configurato dalla legge, consistente soltanto in un pati, ossia nel lasciare prendere visione ed al più in un facere meramente strumentale, vale a dire in quel minimo di attività materiale che occorre per estrarre i documenti indicati dal richiedente e metterli a sua disposizione.
Donde l'inammissibilità di una domanda, quale quella del ricorrente, che comporterebbe l’inevitabile carteggio con i comuni sottoscrittori della convenzione, accompagnato dall’onere per la P.A., di adibire, per un certo periodo di tempo, apposito personale alla effettuazione delle dette operazioni.
Può concludersi per la reiezione del ricorso, non risultando censure in ordine all’ostensione dell’ultima busta paga, evidentemente satisfattiva, nelle modalità utilizzate, della pretesa azionata (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 04.06.2013 n. 1234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione della domanda di sanatoria dell’abuso -successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione o alla notifica del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per gli abusi edilizi- rende inefficaci i precedenti atti sanzionatori.
Sul piano procedimentale il comune è tenuto, innanzi tutto, a esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di sanatoria, effettuando, comunque, una nuova valutazione della situazione, mentre dal punto di vista processuale, la documentata presentazione di detta istanza comporta la improcedibilità del ricorso per carenza di interesse avverso i provvedimenti repressivi.
L’esercizio della facoltà di regolarizzare la propria posizione da parte del privato impedisce, dunque, l'esercizio del potere repressivo dell'amministrazione, in quanto quest’ultima dovrà rideterminarsi in ordine alla sanzione, ma solo dopo il riesame dell’abusività dell’opera ai fini della verifica della sua sanabilità.
L'istanza di sanatoria, infatti, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
L’interesse del responsabile dell’abuso si sposta dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio già adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento (esplicito o implicito) di rigetto.

E’ orientamento consolidato di questo Tribunale quello in forza del quale la presentazione della domanda di sanatoria dell’abuso -successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione o alla notifica del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per gli abusi edilizi- rende inefficaci i precedenti atti sanzionatori (v. anche Consiglio di Stato sez. V 31.10.2012 n. 5553 , sez. V, 08.06.2011, n. 3460; sez. V, 29.12.2009, n. 8935; sez. II, 11.07.2007, n. 624/05, cui si rinvia in forza del combinato disposto degli artt. 74, co. 1, e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.).
Sul piano procedimentale il comune è tenuto, innanzi tutto, a esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di sanatoria, effettuando, comunque, una nuova valutazione della situazione, mentre dal punto di vista processuale, la documentata presentazione di detta istanza comporta la improcedibilità del ricorso per carenza di interesse avverso i provvedimenti repressivi (Così, Consiglio di Stato sez. V, 31.10.2012, n. 5553).
L’esercizio della facoltà di regolarizzare la propria posizione da parte del privato impedisce, dunque, l'esercizio del potere repressivo dell'amministrazione, in quanto quest’ultima dovrà rideterminarsi in ordine alla sanzione, ma solo dopo il riesame dell’abusività dell’opera ai fini della verifica della sua sanabilità.
L'istanza di sanatoria, infatti, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr. ex multis TAR Campania Salerno, sez. I, 22.02.2011 , n. 350 e TAR Campania Napoli, sez. VII, 10.03.2011, n. 1401).
L’interesse del responsabile dell’abuso si sposta dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio già adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento (esplicito o implicito) di rigetto (TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 16.03.1991, n. 67, Palermo, Sez. II, 27.03.2002, n. 826; TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5559, 22.02.2003, n. 1310) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 04.06.2013 n. 1231 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARI: Se l'autovelox è nascosto può scattare la truffa.
Occultare l'autovelox per favorire gli accertamenti sanzionatori a danno degli ignari automobilisti con il piede pesante può costare caro al noleggiatore privato che rischia anche di collezionare una denuncia per truffa.

Lo ha evidenziato la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 23.05.2013 n. 22158.
Una ditta coinvolta in una censurabile vicenda di multe a percentuale per conto di un comune calabrese ha subito il sequestro degli strumenti di controllo elettronico della velocità e per questo ha richiesto ripetutamente la restituzione dei preziosi strumenti sempre negata dall'autorità giudiziaria. Anche i giudici del palazzaccio confermano il sequestro degli autovelox in attesa degli sviluppi processuali.
Posizionare gli autovelox in modo tale da occultare gli strumenti agli automobilisti in transito può anche configurare un reato di truffa «a nulla valendo che la res impiegata per commettere la truffa abbia natura lecita, allorché assolva, nell'ordine truffaldino, una valenza causale ai fini della realizzazione del reato» (articolo ItaliaOggi Sette del 03.06.2013).

ATTI AMMINISTRATIVINiente acqua se c'è la mora. I gestori negano le forniture. Il Tar Puglia sull'utilizzo delle ordinanze extra ordinem da parte del sindaco.
È escluso che il sindaco del Comune possa imporre all'acquedotto di ripristinare la fornitura ai rubinetti di chi non paga la bolletta. Questo, anche se si tratta di interi condomini morosi. O almeno, lo strumento non può essere l'ordinanza contingibile e urgente, se si tratta di intervenire in rapporti fra privati e non si motiva sul rischio per l'incolumità pubblica. È il frutto, amaro per gli amministratori locali, che nasce dalla sentenza 115/2011 della Corte costituzionale, con la bocciatura di una norma del primo pacchetto sicurezza (dl 92/2008), che toglie i superpoteri ai sindaci, costretti a emanare provvedimenti straordinari soltanto di fronte a eventi davvero pericolosi per la collettività.
Questo è quanto emerge dalla sentenza 23.05.2013 n. 1206, pubblicata dal TAR Puglia-Lecce, I Sez..
Fuori dal comune.
Accolto il ricorso della società che garantisce la fornitura idrica nella città. Risulta infatti illegittimo, ed è annullato, il provvedimento del primo cittadino con cui si diffidava il gestore a non staccare l'acqua ai morosi e, anzi, a riallacciarla in caso di sospensione già effettuata. Il punto è che i rubinetti non restano a secco all'improvviso ma all'esito di una trattativa infruttuosa sulle bollette arretrate con tanto di raccomandate dell'azienda che avvisavano dell'imminente stop alla fornitura a chi non avesse regolato le pendenze.
E soprattutto non è il sindaco del Comune che può intervenire a dirimere la controversia sorta fra privati con l'ordinanza extra ordinem. Si tratta infatti, di uno strumento che può essere adottato soltanto quando ne va dell'igiene, della sanità o dell'incolumità pubblica. Risulta tuttavia necessario che si tratti di un pericolo eccezionale, dunque tale da legittimare un provvedimento che, dopo l'intervento demolitorio della Consulta, risulta espressione di un potere residuale in capo al sindaco.
La Corte costituzionale con la sentenza 115/2011 ha infatti escluso l'esistenza di un generale potere del sindaco di emettere ordinanze del genere, dichiarando illegittima la norma su cui si fonda il potere extra ordinem (art. 54, comma 4, dlgs 267/2000 sostituito dall'art. 6 del dl 92/2008) nella parte in cui comprendeva la locuzione «anche» prima delle parole «contingibili e urgenti» (articolo ItaliaOggi del 05.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA: PAESAGGIO/Sentenza del Tar Emilia Romagna. Commissione qualità sempre contestabile.
L'ordine degli architetti è pienamente legittimato a contestare la composizione della Commissione qualità architettonica e paesaggio del comune.

Lo ha sancito il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, con la sentenza 22.05.2013 n. 383.
Nel caso in esame, ai fini del rinnovo della Commissione per la qualità architettonica e il paesaggio, il Comune di Rimini aveva chiesto agli ordini professionali di procedere alle rispettive designazioni nell'ambito delle quali effettuare la scelta dei componenti.
L'Ordine degli architetti di Rimini, quindi, insieme ad altri ordini e collegi interpellati, aveva effettuato le proprie nomine. Dopo averle ricevute, però, l'amministrazione comunale, recependo una proposta dello sportello unico dell'edilizia, che aveva suddiviso per aree tematiche le competenze richieste ai candidati, e dopo aver ritenuto idonee quattro designazione e inidonee cumulativamente tutte le altre, senza altra specificazione né dei nominativi né delle ragioni, emanava un avviso pubblico rivolto ai professionisti per la presentazione delle candidature.
L'Ordine degli architetti, preso atto della dichiarata inidoneità dei propri professionisti designati, aveva impugnato gli atti deducendone l'illegittimità.
Il Tar, nell'accogliere il ricorso, innanzitutto riconosce la legittimazione degli ordini ad agire anche contro procedure di evidenza pubblica, «se l'interesse fatto valere è quello all'osservanza di prescrizioni a garanzia della par condicio dei partecipanti, anche nel caso in cui, dalla procedura selettiva, sia stato avvantaggiato un singolo professionista» (Cons. st., sez. IV, 23.01.2002 n. 391; n. 1339/2001 cit.).
Il Collegio ritiene che questo orientamento ben possa applicarsi anche nel caso in cui le designazioni dell'Ordine professionale, previste per legge, siano state disattese, senza alcuna motivazione, nella composizione della Commissione per la Qualità architettonica e il paesaggio. Per quanto concerne il merito della questione, poi, il regolamento edilizio comunale dispone che la Commissione per la qualità architettonica sia composta da sette membri e non prevede alcuna suddivisione per aree tematiche, ma prevede dei requisiti identici per tutti i membri.
L'inidoneità di quasi tutti i candidati designati, tra l'altro, a esclusione dei quattro individuati, è avvenuta con una dichiarazione cumulativa e neppure nominativa, senza alcuna motivazione e senza alcuna valutazione comparativa rispetto ai quattro candidati prescelti. Per i giudici amministrativi ciò è sufficiente a determinare l'illegittimità degli atti impugnati (articolo ItaliaOggi del 05.06.2013).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Abuso di ufficio ed elemento soggettivo nell'ambito dei reati edilizi.
In tema di abuso di ufficio, per la configurabilità dell’elemento soggettivo è richiesto il dolo intenzionale, ossia la rappresentazione e la volizione dell'evento come conseguenza diretta ed immediata della condotta dell'agente ed obiettivo primario da costui perseguito.
L'elemento soggettivo del delitto di cui all'art. 323 cod. pen., pertanto, nell’ambito dei reati edilizi, consiste nella consapevolezza dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale e nella volontà di agire per procurarlo e può essere desunta anche dalla macroscopica illiceità dell’atto e dai tempi di emanazione dello stesso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.05.2013 n. 20732 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTIEsclusi dalla gara e termini per il ricorso: rilevante come si ''comporta'' chi partecipa all'apertura.
Il Consiglio di Stato afferma che nonostante non vi sia stata formale comunicazione dell’esclusione dalla gara, è indubbio il fatto che la ditta esclusa era perfettamente a conoscenza della decisione della commissione di gara perché, nella seduta di apertura delle offerte, vi erano dei soggetti rappresentanti che erano entrati in contrasto con la commissione stessa per tale motivo.
Nell’ottobre del 2010 una stazione appaltante indiceva una procedura di gara ristretta per la fornitura triennale del servizio di pulizia di autobus, veicoli ausiliari e impianti fissi di proprietà o in uso alla stessa stazione appaltante, da aggiudicare con il metodo dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
Alla gara partecipavano due SRL specializzate nel settore.
Nella seduta pubblica del novembre 2010 la Commissione, sottoponendo a una verifica di congruità le offerte economiche presentate dalle partecipanti, dava comunicazione, in presenza di due delegati di una della due SRL , dell’ esclusione di detta società dalla gara, ritenendo inammissibile l’offerta presentata dalla stessa, alla stregua della normativa dettata dal disciplinare di gara.
Successivamente la stazione appaltante negava la richiesta riammissione in gara, sostenendo, altresì, che la società aveva appreso della propria esclusione, mediante i suoi rappresentanti, durante la seduta di gara.
La ricorrente ha, pertanto, proposto ricorso al TAR che, tuttavia, ha riconosciuto che il decorso del termine decadenziale di trenta giorni, decorreva dalla seduta in cui l’esclusione era stata comunicata ai rappresentanti della società.
La SRL ha impugnato la sentenza del TAR, davanti al Consiglio di Stato.
La comunicazione di esclusione o di aggiudicazione nelle gare di appalto
La stazione appaltante nelle gare di appalto comunica di ufficio:
a) l'aggiudicazione definitiva, tempestivamente e comunque entro un termine non superiore a cinque giorni, all'aggiudicatario, al concorrente che segue nella graduatoria, a tutti i candidati che hanno presentato un'offerta ammessa in gara, a coloro la cui candidatura o offerta siano state escluse se hanno proposto impugnazione avverso l'esclusione, o sono in termini per presentare dette impugnazioni, nonché a coloro che hanno impugnato il bando o la lettera di invito, se dette impugnazioni non siano state ancora respinte con pronuncia giurisdizionale definitiva;
b) l'esclusione, ai candidati e agli offerenti esclusi, tempestivamente e comunque entro un termine non superiore a cinque giorni dall'esclusione;
c) la decisione, a tutti i candidati, di non aggiudicare un appalto ovvero di non concludere un accordo quadro; d) la data di avvenuta stipulazione del contratto con l'aggiudicatario, tempestivamente e comunque entro un termine non superiore a cinque giorni, ai soggetti di cui alla lettera a).
Con il parere n. 181 del 07/11/2012, l’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici ha osservato che ai sensi dell’art. 79, D.Lgs. 163/2006, comma 5, l’amministrazione è tenuta a comunicare d’ufficio a ciascun candidato l’esclusione entro un termine non superiore a cinque giorni dall’esclusione.
La ratio che sorregge la norma è duplice:
1. da un lato, garantire la celere conclusione della procedura ad evidenza pubblica a tutela dell’interesse pubblico, che sorregge indizione della stessa;
2. dall’altro assicurare al concorrente quella piena conoscenza dell’atto lesivo, dalla quale decorre il termine decadenziale per l’impugnazione dinanzi al giudice amministrativo
L’analisi del Consiglio di Stato
I giudici di Palazzo Spada evidenziano che appare evidente dalla documentazione prodotta che, nel verbale alla seduta di gara del novembre 2010, è stata data comunicazione alla ricorrente dell’esclusione; a tale seduta erano presenti due rappresentanti della società ricorrente.
La qualifica di rappresentanti attribuita ai soggetti risulta evidente dal ruolo effettivamente svolto dagli stessi nel corso della seduta in esame, tale da evidenziare, al di là dell’ esistenza di un mandato formale o della specifica carica sociale rivestita, il ruolo “decisionale” che avevano in rappresentanza della società esclusa.
Osserva il Consiglio di Stato che è significativo il fatto che uno dei due rappresentanti non si sia limitato ad assistere alle operazioni di gara, ma vi abbia partecipato attivamente, criticando le decisioni della Commissione ed istituendo un vero e proprio contraddittorio.
Le conclusioni: le conseguenze del comportamento
Per il Consiglio di Stato il ricorso deve essere respinto; il dies a quo per l’impugnazione dell’atto è rappresentato dalla comunicazione di esclusione avvenuta durante la seduta della commissione di gara; il ricorso è stato, pertanto, proposto dalla ditta ricorrente oltre i trenta giorni previsti dalla normativa vigente in materia.
Emerge in maniera evidente dalla sentenza del Consiglio di Stato che le modalità di comportamento tenuta durante la seduta di gara, dai due soggetti incaricati della società ricorrente, fa propendere che non si trattava di due persone “chiamate” ad assistere alle operazioni di apertura delle offerte, ma di veri e propri rappresentanti, legittimati a manifestare la volontà dell’impresa e, conseguentemente, a rappresentarla anche ai fini della piena conoscenza.
La piena conoscenza delle motivazioni dell’atto di esclusione implica la decorrenza del termine decadenziale a prescindere dall’invio di una formale comunicazione ex art. 79, comma 5, del D.Lgs. 163/2006 (commento tratto da www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.05.2013 n. 2614 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: La Polizia locale può essere guidata da un «non» vigile. Consiglio di Stato. Bastano i requisiti.
LA GERARCHIA/ Il comandante risponde direttamente al sindaco e non va messo alle dipendenze di un altro funzionario.

I dirigenti della polizia municipale non devono necessariamente essere vigili, essendo sufficiente che ne abbiano i requisiti; il corpo della polizia locale non si deve occupare di compiti gestionali sui quali è chiamato ad esercitare compiti di controllo; a guidare tali strutture non vi deve essere per forza un dirigente.
Sono queste le principali indicazioni contenute nella sentenza 14.05.2013 n. 2607 della V Sez. del Consiglio di Stato.
La sentenza ha un grande rilievo sia per i principi innovativi che la caratterizzano sia per l'ampiezza delle indicazioni dettate in tema di organizzazione della polizia locale.
La pronuncia in primo luogo fissa i margini di autonomia entro cui le singole amministrazioni locali possono regolamentare la polizia locale: «La disciplina contenuta nella legge 65/1986, vieta che, una volta eretto a corpo, la polizia municipale sia inserita all'interno di un più ampio settore nel quale assuma una posizione intermedia quale un'unità operativa complessa, ma non esclude che il corpo di polizia municipale possa acquisire funzioni ulteriori sempre nell'ambito di quelle di polizia amministrativa, la cui individuazione è rimessa alla legislazione regionale».
Questo principio non si applica nei piccoli Comuni in cui non viene istituito il corpo per il ridotto numero di vigili in servizio.
Le funzioni attribuite ai vigili non devono però determinare un conflitto con le attribuzioni tipiche della polizia amministrativa, per cui il corpo non deve essere chiamato a svolgere funzioni attive di amministrazione in materie per le quali è deve effettuare attività di prevenzione e repressione. In questa ipotesi, infatti, si determina «il pericolo che il ruolo di controllore e di controllato finiscano per sommarsi in un'unica figura».
La sentenza detta poi numerosi principi innovativi che si devono applicare al comandante.
In primo luogo essa ci dice che egli «è responsabile verso il sindaco, il quale a sua volta è l'organo titolare delle funzioni di polizia locale che competono al Comune. Di conseguenza, porre il comandante della polizia municipale alle dipendenze di un funzionario del Comune equivale a trasferire a quest'ultimo funzioni di governo che per legge competono al sindaco. Ma la nomina a comandante del corpo non deve essere necessariamente accompagnata dall'assegnazione di una qualifica dirigenziale».
È questo un principio che si applica anche nei Comuni in cui al vertice della struttura burocratica vi sono i dirigenti. Inoltre, «al vertice del corpo di polizia municipale è posto un comandante, anche egli vigile urbano, che ha la responsabilità del corpo e ne risponde direttamente al sindaco. Tale posizione, deve aggiungersi, non è affidabile ad un dirigente amministrativo che non abbia lo status di un appartenente al corpo di polizia municipale».
La sentenza aggiunge il seguente principio innovativo: «L'individuazione del comandante del corpo deve avvenire tra soggetti dotati di adeguata preparazione professionale attestata da frequenza del corso regionale citato al quale ha partecipato il dr. .. che del pari ha acquisito dal prefetto su richiesta dell'amministrazione comunale la qualità di agente di pubblica sicurezza. Inoltre, il comandante del corpo non può che rivestire anche la qualifica di vigile urbano, ma non appare necessario ai fini della sua nomina il previo possesso di tale qualifica» (articolo Il Sole 24 Ore del 03.06.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOa) in merito alla posizione del Corpo di Polizia Municipale rispetto alle altre strutture amministrative comunali, stante l'ampia discrezionalità di cui dispongono i Comuni in ordine al tipo concreto di organizzazione del corpo dei vigili urbani in virtù dell'art. 7 l. 07.03.1986, n. 65, la circostanza che quest'ultimo sia posto alle dirette dipendenze del sindaco non lo qualifica come struttura di massima dimensione, ben potendo accadere che la mera mancanza di livelli direttivi intermedi tra il sindaco stesso ed il responsabile del servizio di polizia municipale determini il riconoscimento, in capo a detto corpo, di un maggior rilievo rispetto alle altre quanto ad autonomia e dimensione.
Inoltre, il Corpo di polizia municipale rappresenta un'entità organizzativa unitaria ed autonoma da altre strutture organizzative del Comune. Tale Corpo è costituito dall'aggregazione di tutti i dipendenti comunali che esplicano, a vari livelli, i servizi di polizia locale e al cui vertice è posto un comandante, anche egli vigile urbano, che ha la responsabilità del Corpo e ne risponde direttamente al Sindaco. Ciò premesso, la polizia municipale, una volta eretta in Corpo, non può essere considerata una struttura intermedia inserita in una struttura burocratica più ampia; né attraverso un simile incardinamento, può essere posta alle dipendenze del dirigente amministrativo che dirige tale più ampia struttura.
Pertanto, è a seguito dell’elezione della Polizia municipale a Corpo che si determina l’impossibilità di determinarne l’inserimento quale struttura intermedia (come Sezione) in una struttura burocratica più ampia (in un Settore amministrativo) né, per tale incardinamento, può essere posta alle dipendenze del dirigente, amministrativo che dirige tale più ampia struttura. Mentre nel caso in cui il servizio di Polizia municipale non sia eretto a Corpo, considerato che l’art. 3, l. n. 65/1986 ha valore programmatico e demanda al regolamento comunale di polizia municipale la concreta attuazione del principio in virtù del quale al relativo servizio è attribuita una posizione particolare, piuttosto che un'altra, nell'ambito dell'organizzazione comunale, ben può essere realizzata l'incardinazione del servizio medesimo all'interno di una struttura dirigenziale più ampia, senza che ciò elida la relazione diretta che deve essere assicurata tra il Sindaco e il Comandante;
   b) quanto, invece, al ruolo e all’autonomia del Comandante del Corpo l'art. 9 l. n. 65/1986, prevede che il comandante della polizia municipale è responsabile verso il sindaco, il quale a sua volta è l'organo titolare delle funzioni di polizia locale che competono al Comune (artt. 1 e 2); conseguentemente porre il comandante della polizia municipale alle dipendenze di un funzionario del Comune equivale a trasferire a quest'ultimo funzioni di governo che per legge competono al sindaco. Ma la nomina a Comandante del Corpo non deve essere necessariamente accompagnata dall’assegnazione di una qualifica dirigenziale;
   c) in ordine alla natura della relazione tra Sindaco e Comandante, l’art. 9 l. n. 65/1986 istituzionalizza una diretta relazione tra il sindaco ed il comandante della polizia municipale, finalizzata ad assicurare, all’autorità posta al vertice dell’Amministrazione ed in relazione ai poteri ed ai compiti ad essa conferiti dai precedenti articoli 2 e 3, il diretto controllo dei profili organizzativi e funzionali del servizio (addestramento, disciplina, impiego tecnico-operativo) che presentano la maggiore specificità e delicatezza, proprio indipendentemente dalla collocazione del servizio stesso all’interno del modello organizzativo prescelto dall’Ente nell’esercizio del suo potere di autorganizzazione;
   d) quanto, invece, alla provenienza del Comandante, al vertice del Corpo di Polizia municipale è posto un comandante, anche egli vigile urbano, che ha la responsabilità del Corpo e ne risponde direttamente al Sindaco. Tale posizione, deve aggiungersi, non è affidabile ad un dirigente amministrativo che non abbia lo status di un appartenente al Corpo di polizia municipale.

Residua a questo punto l’esame delle censure relative al corretto inquadramento nell’ambito dell’amministrazione comunale del Corpo di Polizia municipale secondo la disciplina nazionale e regionale vigente. Il loro esame deve essere preceduto sia da una precisazione in merito alla disciplina applicabile, che da una rassegna dei principi elaborati dal Consiglio di Stato, che possa fungere da guida nel prosieguo della motivazione.
La normativa di riferimento è rappresentata dalla l. 07.03.1986, n. 65 e dalla l.r. Toscana, 03.04.2006, n. 12. I rapporti tra le due discipline sono fissati dall’art. 6, l. n. 65/1986, sicché nel rispetto dei principi dalla legislazione statale, la legge regionale provvede a:
a) stabilire le norme generali per la istituzione del servizio tenendo conto della classe alla quale sono assegnati i comuni;
b) promuovere servizi ed iniziative per la formazione e l'aggiornamento del personale addetto al servizio di polizia municipale;
c) promuovere tra i comuni le opportune forme associative con idonee iniziative di incentivazione;
d) determinare le caratteristiche delle uniformi e dei relativi distintivi di grado per gli addetti al servizio di polizia municipale dei comuni della regione stessa e stabilire i criteri generali concernenti l'obbligo e le modalità d'uso; le uniformi devono essere tali da escludere la stretta somiglianza con le uniformi delle Forze di polizia e delle Forze armate dello Stato;
e) disciplinare le caratteristiche dei mezzi e degli strumenti operativi in dotazione ai Corpi o ai servizi, fatto salvo quanto stabilito dal comma 5 dell’articolo 5 della stessa legge.
La compresenza di fonti di livello territoriale diverso (statale e regionale), si spiega alla luce delle funzioni che sono attribuite alla Polizia municipale:
f) compiti di “polizia di sicurezza”, consistenti in misure preventive e repressive dirette al mantenimento dell'ordine pubblico, inteso come il complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l'ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale, nonché alla sicurezza delle istituzioni, dei cittadini e dei loro beni;
g) compiti di “polizia amministrativa”, consistenti in attività di prevenzione o di repressione dirette a evitare danni o pregiudizi che possono essere arrecati alle persone o alle cose nello svolgimento delle materie sulle quali si esercitano le competenze regionali, senza che ne risultino lesi o messi in pericolo i beni o gli interessi tutelati in nome dell'ordine pubblico (Corte cost., 09.02.2011, n. 35). La disciplina dei primi rientra nella competenza legislativa statale esclusiva ex art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., quella dei secondi, invece, rientra nella competenza legislativa regionale (Corte cost., 06.05.2010, n. 167).
Quanto ai principi cardini della materia, elaborati dal Consiglio di Stato, va rammentato che:
a) in merito alla posizione del Corpo rispetto alle altre strutture amministrative comunali, stante l'ampia discrezionalità di cui dispongono i Comuni in ordine al tipo concreto di organizzazione del corpo dei vigili urbani in virtù dell'art. 7 l. 07.03.1986, n. 65, la circostanza che quest'ultimo sia posto alle dirette dipendenze del sindaco non lo qualifica come struttura di massima dimensione, ben potendo accadere che la mera mancanza di livelli direttivi intermedi tra il sindaco stesso ed il responsabile del servizio di polizia municipale determini il riconoscimento, in capo a detto corpo, di un maggior rilievo rispetto alle altre quanto ad autonomia e dimensione (Cons. St., Sez. V, 17.05.2012, n. 2817; 24.10.2001, n. 5598).
Inoltre, il Corpo di polizia municipale rappresenta un'entità organizzativa unitaria ed autonoma da altre strutture organizzative del Comune. Tale Corpo è costituito dall'aggregazione di tutti i dipendenti comunali che esplicano, a vari livelli, i servizi di polizia locale e al cui vertice è posto un comandante, anche egli vigile urbano, che ha la responsabilità del Corpo e ne risponde direttamente al Sindaco. Ciò premesso, la polizia municipale, una volta eretta in Corpo, non può essere considerata una struttura intermedia inserita in una struttura burocratica più ampia; né attraverso un simile incardinamento, può essere posta alle dipendenze del dirigente amministrativo che dirige tale più ampia struttura (Cons. St., Sez. V, 27.08.2012, n. 4605).
Pertanto, è a seguito dell’elezione della Polizia municipale a Corpo che si determina l’impossibilità di determinarne l’inserimento quale struttura intermedia (come Sezione) in una struttura burocratica più ampia (in un Settore amministrativo) né, per tale incardinamento, può essere posta alle dipendenze del dirigente, amministrativo che dirige tale più ampia struttura (Cons. St., sez. V, 17.02.2006, n. 616; sez. V, 04.09.2000, n. 466). Mentre nel caso in cui il servizio di Polizia municipale non sia eretto a Corpo, considerato che l’art. 3, l. n. 65/1986 ha valore programmatico e demanda al regolamento comunale di polizia municipale la concreta attuazione del principio in virtù del quale al relativo servizio è attribuita una posizione particolare, piuttosto che un'altra, nell'ambito dell'organizzazione comunale, ben può essere realizzata l'incardinazione del servizio medesimo all'interno di una struttura dirigenziale più ampia, senza che ciò elida la relazione diretta che deve essere assicurata tra il Sindaco e il Comandante (Cons. St., sez. V, 12.03.1996, n. 262);
b) quanto, invece, al ruolo e all’autonomia del Comandante del Corpo l'art. 9 l. n. 65/1986, prevede che il comandante della polizia municipale è responsabile verso il sindaco, il quale a sua volta è l'organo titolare delle funzioni di polizia locale che competono al Comune (artt. 1 e 2); conseguentemente porre il comandante della polizia municipale alle dipendenze di un funzionario del Comune equivale a trasferire a quest'ultimo funzioni di governo che per legge competono al sindaco (Cons. St., sez. V, 17.05.2012, n. 2817). Ma la nomina a Comandante del Corpo non deve essere necessariamente accompagnata dall’assegnazione di una qualifica dirigenziale (Cons. St., sez. V, 14.11.1997, n. 1303);
c) in ordine alla natura della relazione tra Sindaco e Comandante, l’art. 9 l. n. 65/1986 istituzionalizza una diretta relazione tra il sindaco ed il comandante della polizia municipale, finalizzata ad assicurare, all’autorità posta al vertice dell’Amministrazione ed in relazione ai poteri ed ai compiti ad essa conferiti dai precedenti articoli 2 e 3, il diretto controllo dei profili organizzativi e funzionali del servizio (addestramento, disciplina, impiego tecnico-operativo) che presentano la maggiore specificità e delicatezza, proprio indipendentemente dalla collocazione del servizio stesso all’interno del modello organizzativo prescelto dall’Ente nell’esercizio del suo potere di autorganizzazione (Cons. St., Sez. V, 07.02.2003, n. 644);
d) quanto, invece, alla provenienza del Comandante, al vertice del Corpo di Polizia municipale è posto un comandante, anche egli vigile urbano, che ha la responsabilità del Corpo e ne risponde direttamente al Sindaco. Tale posizione, deve aggiungersi, non è affidabile ad un dirigente amministrativo che non abbia lo status di un appartenente al Corpo di polizia municipale (Cons. St., sez. V, 27.08.2012, n. 4605; sez. V, 04.09.2000, n. 4663) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.05.2013 n. 2607 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Prescrizione del reato urbanistico ed onere probatorio.
In tema di decorrenza della data di prescrizione del reato edilizio e di spostamento di essa ad una data diversa da quella dell'accertamento -fermo restando l'onere incombente sull'accusa di fornire la prova dell'inizio della decorrenza del termine in oggetto- non è sufficiente la semplice e diversa affermazione da parte dell’imputato per ritenere che il reato si sia realmente estinto per prescrizione, o quanto meno per ritenere incerta la data con conseguente ricorso al principio “in dubio pro reo".
Invero, in base alla regola iuris secondo la quale chiunque affermi un fatto o una circostanza determinati è tenuto a darne prova, è preciso onere dell'imputato che voglia avvalersi della invocata causa estintiva, in contrasto o in aggiunta a quanto già risulta in proposito dagli atti di causa, quello di allegare gli elementi in suo possesso, dei quali è il solo a potere concretamente disporre, onde determinare la data di inizio del decorso del termine di prescrizione.
In assenza di una prova siffatta non può che valere la diversa data prospettata dall'accusa e coincidente con la data di accertamento della condotta illecita (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.05.2013 n. 20381 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abuso edilizio e conseguenze dannose per il proprietario dell’immobile confinante.
L'abuso edilizio può integrare un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose per il proprietario dell’immobile confinante, sia per i problemi statici e di sicurezza sia poiché un aumento di volumetria dell’immobile limitrofo è idoneo a comportare una diminuzione di amenità del luogo a causa dell'aumento della rumorosità e di ogni altro fenomeno collegato alla possibilità di maggiore utilizzazione ed all'incremento abitativo per la destinazione residenziale (fattispecie relativa ad incremento di volumetria residenziale di vani sottotetto) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.05.2013 n. 20378 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Omessa bonifica e responsabilità per il reato.
L’art. 239, lett. D), del D.Lgs. n. 152/2006 definisce bonifica “l'insieme degli interventi atti ad eliminare le fonti di inquinamento e le sostanze inquinanti o a ridurre le concentrazioni delle stesse presenti nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee ad un livello uguale o inferiore ai valori della concentrazione soglia di rischio”. Il livello di concentrazione soglia di rischio (CSR) è un livello superiore a quelli della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) nonché al livelli di accettabilità già definiti dal DM. 25.10.1999, n. 471.
Del reato di omessa bonifica risponde solo il responsabile e il superamento delle concentrazioni soglia di rischio (CSR) costituisce in ogni caso il presupposto per la configurabilità del reato medesimo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2013 n. 19962 - tratto da www.lexambiente.it).

URBANISTICA: Lottizzazione: confisca e posizione dell'erede.
Un erede subentra nella stessa posizione di fatto e di diritto del suo dante causa, per cui non può far valere una posizione di terzo estraneo in buona fede rispetto alla commissione del reato (fattispecie relativa ad opposizione all'esecuzione con la quale si chiedeva la revoca della confisca di terreni oggetto di lottizzazione abusiva) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2013 n. 19959 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Attività di recupero soggette e procedura semplificata.
Il decreto ministeriale del 05.02.1998 è riferibile esclusivamente alle attività di recupero soggette a procedura semplificata, come è indicato nel titolo e come si rileva dall'esame del preambolo, dall'articolato e dal richiamo ad esso effettuato dall'articolo 214 d.lgs. 152/2006. Tali attività riguardano esclusivamente il recupero di materia (riciclaggio) e non anche il recupero di energia.
Le prescrizioni apposte all'autorizzazione devono ritenersi vincolanti per il soggetto autorizzato non soltanto quando traggano origine da specifiche disposizioni normative che l'atto autorizzatorio semplicemente recepisce, ma anche quando siano apposte direttamente dall'amministrazione che le rilascia nell'esercizio del suo potere discrezionale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2013 n. 19955 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti. Inerti e terre e rocce da scavo.
La non assimilazione degli inerti derivanti da demolizione di edifici o da scavi di strade alle terre e rocce da scavo è stata ribadita con il decreto legislativo n. 152 del 2006.
Però anche lo smaltimento delle sole terre e rocce da scavo, prive dei requisiti previsti per essere esonerate dal regime dei rifiuti, conserva rilevanza penale ex art. 256 D.L.vo 152/2006 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2013 n. 19942 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Inottemperanza all'ordinanza di rimozione e reato permanente.
Il reato di mancata ottemperanza all'ordine sindacale di rimozione dei rifiuti, di cui all'art. 255, comma terzo, D.Lgs. n. 152 del 2006, ha natura di reato permanente, nel quale la scadenza del termine per l'adempimento non indica il momento di esaurimento della fattispecie, bensì l'inizio della fase di consumazione che si protrae sino al momento dell'ottemperanza all'ordine ricevuto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.05.2013 n. 19461 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti. Raccolta e trasporto di rifiuti in forma ambulante.
L'applicazione della disciplina derogatoria in materia di raccolta e trasporto di rifiuti effettuate in forma ambulante non può prescindere dal contenuto letterale dell'art. 266, comma 5, d.lgs. 152/2006 e, segnatamente, dell'ultima parte della disposizione, laddove l'esonero dall'osservanza della disciplina generale è chiaramente circoscritta ai soli rifiuti che formano oggetto del commercio del soggetto abilitato. La verifica del settore merceologico entro il quale il commerciante è abilitato ad operare deve essere pertanto oggetto di adeguata verifica, così come la riconducibilità del rifiuto trasportato con l'attività autorizzata.
E' peraltro evidente che l'attività espletata resta sottratta alla disciplina generale dei rifiuti avendo il legislatore considerato la minima pericolosità per la salute e per l'ambiente di un'attività pacificamente riconducibile a quella dei c.d. robivecchi. Per tale ragione deve invece escludersi che la disciplina in esame possa essere utilizzata per legittimare attività diverse che richiedono, invece, il rispetto delle disposizioni di carattere generale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.05.2013 n. 19111 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Comunicazioni di inizio e fine lavori.
Le comunicazioni di inizio e fine lavori hanno lo scopo evidente di agevolare l'accertamento, da parte dell'amministrazione comunale, dell'inizio e del completamento dell'intervento edilizio nei termini e consentire una tempestiva verifica sull'attività posta in essere e non rappresentano, quindi, una semplice formalità amministrativa, bensì di un adempimento strettamente connesso ai contenuti ed alle finalità del permesso di costruire ed agli obblighi di vigilanza imposti dall'art. 27 e segg. del Testo Unico.
E' tuttavia evidente che la comunicazione è comunque un atto del privato senza alcuna valenza probatoria privilegiata ed il cui contenuto può essere oggetto di specifica verifica sulla effettiva situazione di fatto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.05.2013 n. 19110 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATAOrdine di demolizione e morte del reo.
L'ordine, disposto con sentenza di condanna per reato edilizio, non si estingue per la morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della sentenza, a motivo della sua natura di sanzione amministrativa accessoria (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.05.2013 n. 19077 - tratto da www.lexambiente.it).

AGGIORNAMENTO AL 06.06.2013

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06.06.2013: IL P.R.G. E' RISUSCITATO!!

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 23 del 05.06.2013, "Disposizioni transitorie per la pianificazione comunale. Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)(L.R. 04.06.2013 n. 1).

     Quindi, quei comuni che non hanno adottato il P.G.T. entro il 31.12.2012 da oggi si vedono risuscitato il vecchio e caro P.R.G. e "tirano una boccata d'ossigeno" per le esangui casse comunali essendo ora possibile sbloccare quelle poche (o tante, non si sa) pratiche edilizie "onerose" sino al 05.06.2013 non assentibili.
     Ma c'è un cruccio (ovviamente solo per chi è sensibile e odora la "strizza" del verosimile danno contabile ...) e cioè che
dall'01.01.2013 al 05.06.2013 l'I.M.U. sui terreni fabbricabili NON E' DOVUTA dai relativi proprietari, con relativo mancato introito nelle casse comunali e felicità alle stelle del ragioniere capo.

E chi paga?? Chi rifonde il danno erariale?? Il Sindaco?? La Giunta Comunale?? Il responsabile dell'UTC??

     Invero, l'ignavia dell'amministratore locale nell'aver NON adottato il P.G.T. entro il 31.12.2012, dopo numerose proroghe regionali del termine ultimo, non può trovare scusanti di sorta.
     Allora, non ci resta che aspettare l'anno prossimo e vedere se la Corte dei Conti "batterà un colpo" -o meno- quando spulcerà il conto consuntivo 2013 e constaterà il ragguardevole "buco di cassa" rispetto agli anni passati ...
06.06.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

UTILITA'

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOManuale: il ciclo della performance nei comuni (maggio 2013 - tratto da www.qualitapa.gov.it).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

LAVORI PUBBLICI: Linee guida sulle operazioni di leasing finanziario e sul contratto di disponibilità (determinazione 22.05.2013 n. 4 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 05.06.2013 n. 130 "Disposizioni urgenti per il recepimento della Direttiva 2010/31/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19.05.2010, sulla prestazione energetica nell’edilizia per la definizione delle procedure d’infrazione avviate dalla Commissione europea, nonché altre disposizioni in materia di coesione sociale" (D.L. 04.06.2013 n. 63).

PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 04.06.2013 n. 129 "Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30.03.2001 n. 165" (D.P.R. 16.04.2013 n. 62).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 04.06.2013, "Sostegno finanziario agli enti locali ed agli enti gestori delle aree regionali protette per l’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 79) - Determinazioni per l’anno 2013" (deliberazione G.R. 31.05.2013 n. 206).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: A. Gustapane, SCIA edilizia e responsabilità penale dei funzionari comunali (maggio 2013 - tratto da www.filodirittto.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Tapetto, INTERMEDIAZIONE E COMMERCIO DI RIFIUTI - Nuove considerazioni alla luce della normativa vigente (31.05.2013 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: S. Deliperi, Il residence non può essere una villa privata (interessante pronuncia del Tribunale penale di Reggio Emilia in materia di abusivismo edilizio in conseguenza della violazione del vincolo di destinazione alberghiera ...) (27.05.2013 - link a www.lexambiente.it).

APPALTI: M. Belli, Responsabilità precontrattuale della p.a. nella fase antecedente all’aggiudicazione del contratto - Nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 25.07.2012 n. 4236 (24.05.2013 - link a www.filodirittto.com).

APPALTI: F. Di Chio, Esclusione dalla gara d’appalto per deficit di fiducia: rilevanza dell’onere motivazionale (21.05.2013 - link a www.filodirittto.com).

PUBBLICO IMPIEGO: F. V. Rinaldi, Costrizione e induzione nella nuova legge anticorruzione: il recente dibattito giurisprudenziale (15.05.2013 - link a www.filodirittto.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: R. Musone, Concezioni del potere di riesame e tutela del legittimo affidamento (15.05.2013 - link a www.filodirittto.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: E. Gregoraci, (In)Sindacabili le valutazioni numeriche della Commissione giudicatrice fondate su criteri analitici predeterminati - Nota a Consiglio di Stato, sentenza del 15.04.2013 n. 2034 (08.05.2013 - link a www.filodirittto.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: M. Sanna, I trattamenti delle terre da scavo ed il D.M. 161/2012 (maggio 2013 - link a www.industrieambiente.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Dalla Regione 200.000 euro per la tutela del paesaggio.
Regione Lombardia ha deciso di destinare 200.000 euro agli Enti locali e agli Enti gestori delle aree protette regionali per la gestione delle competenze paesaggistiche.
A darne notizia è l'assessore regionale all'Ambiente, Energia e Sviluppo sostenibile. "Il provvedimento è stato approvato durante la Giunta dello scorso 31 maggio -ha spiegato-, per sostenere gli Enti nel dotarsi degli strumenti necessari a esercitare funzioni in materia di tutela dei beni paesaggistici, come previsto dalla legge. In questo modo confermiamo il nostro impegno a favore dell'azione di responsabilità condivisa per la valorizzazione del territorio e dei paesaggi lombardi, compito delle istituzioni, ma anche di tutti i cittadini".
A usufruire dei contributi saranno gli Enti che abbiano rilasciato almeno 30 provvedimenti paesaggistici nel periodo compreso tra il 1° gennaio e il 31.12.2012 con parere della Commissione per il Paesaggio. Il bando attuativo verrà pubblicato a giorni (05.06.2013 - link a www.regione.lombardia.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Cosa è la White list? (27.05.2013 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: La “pollina” è rifiuto, sottoprodotto di origine animale o biomassa? (13.05.2013 - link a www.ambientelegale.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso a registri scolastici.
L’istituto scolastico in indirizzo ha rappresentato che -pur avendo ottemperato alla decisione di questa Commissione, che ha accolto un ricorso presentato da un genitore di una alunna avverso il diniego di accesso ai registri dei professori, concedendo la visione ed estrazione di copia dei citati documenti, mediante oscuramento dei nominativi degli altri alunni- tuttavia non intende concedere l’accesso ai registri in originale essendovi il rischio di pregiudicare l’anonimato degli altri alunni. Al fine di dirimere la questione segnalata, ha chiesto un parere a questa Commissione.
La documentazione a suo tempo richiesta dal genitore dell’alunna risulta fornita in copia dall’amministrazione scolastica, con contestazioni ormai limitate agli originali dei registri di classe, per la parte riferita ad alunni diversi dalla figlia dell’istante. Anche in relazione a tali soggetti, come già indicato nella decisione di questa Commissione del 13.09.2011 e in conformità alla giurisprudenza amministrativa (cfr CdS Sez. VI Sent., 11.11.2008, n. 5626), non pare elusivo della menzionata decisione il comportamento dell'Istituto scolastico che, fornendo in copia la documentazione richiesta dal genitore di una alunna, l'abbia condizionata all'oscuramento dei nominativi degli altri alunni.
Infatti -tenuto conto che ai sensi dell’art. 24, comma 7, della legge n. 241/1990 "nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile"- pare a questa Commissione che la verifica della correttezza dell’operato degli insegnanti nella valutazione dei singoli allievi, onde appurare eventuali disparità di trattamento nei confronti della figlia dell’istante, possa essere effettuata anche indipendentemente dai nominativi di ciascun alunno.
Pertanto, la Commissione ritiene che un genitore abbia diritto di ottenere copia dei registri personali dei docenti al fine di poter giudicare la legittimità delle valutazioni e degli scrutini, mentre non pare possa consentirsi con riguardo al nome degli alunni diversi dal proprio figlio, essendo necessario tutelare la loro riservatezza per i possibili pregiudizi morali ed anche materiali. Pertanto, i registri potranno recare l’oscuramento dei nomi degli alunni e non dei voti
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 28.02.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Chiarimenti in tema di diritto di accesso del cittadino residente.
L’ente in indirizzo, a fronte di un parere reso da questa Commissione sul tema in oggetto (parere plenum 20.12.2011), chiede un chiarimento sull’ammissibilità di un generalizzato diritto di accesso del cittadino alle delibere comunali ai sensi dell’art. 10 del TUEL anche “al di fuori del quadro normativo di cui alla legge n. 241/1990”.
In conformità all’orientamento già espresso da questa Commissione (e da cui non v’è motivo di discostarsi), si precisa che la diversità di posizione tra cittadino residente e quello non residente nel Comune dà luogo ad un doppio regime del diritto di accesso secondo quanto disposto dall’art. 10 del d.lgs. n. 267/2000 che ha presupposti diversi dal diritto di accesso previsto dalla normativa generale di cui all’art. 22 della l. n. 241/1990 (arg. ex TAR Puglia Lecce Sez. II, 12.04.2005, n. 2067; TAR Marche, 12.10.2001, n. 1133).
Si chiarisce, pertanto, che nel caso in cui l’istante sia un cittadino residente nel comune, il diritto di accesso non è soggetto alla disciplina dettata dalla legge n. 241/1990 -che richiede la titolarità di un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento richiesto- bensì alla speciale disciplina di cui all’art. 10, co. 1, del d.lgs. n. 267/2000, che sancisce espressamente ed in linea generale il principio della pubblicità di tutti gli atti ed il diritto dei cittadini di accedere agli atti ed alle informazioni in possesso delle autonomie locali, senza fare menzione alcuna della necessità di dichiarare la sussistenza di tale situazione al fine di poter valutare la legittimazione all’accesso del richiedente
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 28.02.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso del consigliere comunale.
Un consigliere comunale ha chiesto a questa Commissione se il comune sia tenuto al rilascio della documentazione inerente all’incarico professionale conferito ad un legale dallo stesso ente civico, il quale ha negato l’accesso ai documenti poiché riguardano un procedimento penale ove il consigliere istante risulta indagato ed il Comune è parte offesa.
Per orientamento consolidato, la Commissione ritiene che il diritto di accesso riconosciuto ai consiglieri degli organi elettorali locali ex art. 43 d.lgs. n. 267/2000 è strettamente funzionale all'esercizio del proprio mandato, alla verifica e al controllo del comportamento degli organi istituzionali decisionali dell'ente territoriale, ai fini della tutela degli interessi pubblici, e si configura come peculiare espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività (arg. ex CdS, Sez. V, 08.11.2011, n. 5895).
In tale ottica, al consigliere comunale -che esercita il diritto di accesso dichiarando all’amministrazione che i documenti richiesti sono utili all’espletamento del mandato, piuttosto che ad interessi privati e personali- non può essere opposto alcun diniego, altrimenti gli organi di governo dell'ente sarebbero arbitri di stabilire essi stessi l'estensione del controllo sul proprio operato
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 28.02.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Diritto di accesso ad esposto.
Un cittadino ha chiesto a questa Commissione un parere sull’accessibilità di eventuali esposti presentati alle forze dell’ordine nei suoi confronti da privati (ignoti o vicini di casa) al fine di innescare controlli nella propria abitazione o nella sua attività imprenditoriale.
La Commissione ribadisce il proprio costante orientamento secondo cui - poiché nell'ambito dell'ordinamento giuridico generale non è riconosciuto il diritto all'anonimato di colui che rende una dichiarazione a carico di terzi - ogni soggetto deve poter conoscere con precisione i contenuti e gli autori di segnalazioni, esposti o denunce che, fondatamente o meno, possano costituire le basi per l'avvio di un procedimento ispettivo, di controllo o sanzionatorio nei suoi confronti, non potendo in proposito la Pubblica Amministrazione procedente opporre all’interessato esigenze di riservatezza (così TAR Lombardia Brescia, sez. I, 29.10.2008, n. 1469, nello stesso senso cfr., CdS, Sez. V 19.05.2009 n. 3081; Sez. V, 27.05.2008 n. 2511; Sez. VI, 23.10.2007 n. 5569; Sez. VI, 25.06.2007 n. 3601; Sez. VI, 12.04.2007, n. 1699)
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'01.02.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Richiesta di parere in ordine al diritto di accesso dei consiglieri comunali cessati dalla carica per scioglimento del consiglio comunale.
A fronte della sospensione del Consiglio Comunale, adottata con decreto prefettizio e nelle more dell’emanazione del decreto presidenziale di scioglimento del Consiglio, il segretario comunale di Cerveteri chiede a questa Commissione se -stante la perdita dell’effettivo esercizio della funzione di consigliere comunale e del relativo status- permanga in capo all’ente civico l’obbligo di rilasciare i documenti richiesti dai consiglieri e/o di completare l’istruttoria della pratica di accesso.
L’adozione di provvedimenti cautelari o definitivi, che incidano sull’esercizio della funzione di consigliere comunale, esclude senza dubbio l’accoglibilità delle istanze di accesso già formulate dai consiglieri alla stregua del regime ex art. 43 TUEL, essendo venute meno le funzioni politiche cui detta norma ricollega l’esercizio della prerogativa dell’accesso, fatti salvi gli altri regimi giuridici in tema di accesso ai documenti amministrativi (ex art. 22 e ss legge n. 241/1990 o art. 10 d.lgs. n. 267/2000)
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'01.02.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Diritto di accesso ad atti in materia edilizia.
A fronte dell’istanza di un cittadino per l’accesso alla pratica edilizia in sanatoria di opere realizzate da un confinante, quest’ultimo si è opposto all’accesso, difettando -a suo dire- un interesse qualificato alla conoscenza degli atti. Pertanto, il Comune ha chiesto alla Commissione di esprimere un parere sulla legittimità dell’opposizione all’accesso manifestata dal controinteressato.
Come già indicato in precedenza da questa Commissione (cfr. plenum 15.03.2011 in relazione ad analoga richiesta di codesto ente), qualora -come nella specie- l’accedente risieda nel territorio comunale, egli può conoscere tutti i documenti inerenti la pratica edilizia del vicino ai sensi dell’art. 10, co. 1, d.lgs. n. 267/2000, senza necessità di motivare la sua istanza con riferimento ad uno specifico interesse all’accesso.
Ed a nulla può valere l’opposizione manifestata dal controinteressato, dal momento che nella fattispecie non si applica l’art. 3 del d.P.R. n. 184 del 2006, la cui applicazione anche all’ambito delle autonomie locali finirebbe per operare un’indebita compressione dei più ampi diritti riconosciuti dalla disciplina speciale in favore dei cittadini residenti
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'01.02.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Accesso di un consigliere comunale ai verbali dell'Organismo Indipendente di Valutazione.
Il Segretario Generale del Comune di Imperia chiede se vi siano eventuali limiti o vincoli all’accesso del Consigliere comunale ai verbali dell’Organismo Indipendente di Valutazione tenuto conto che la lett. b) dell’art. 14, IV comma, del D.lgs. n. 150 del 2009 prevede che tale Organismo –al di là della relazione annuale sicuramente accessibile– comunichi eventuali criticità e/o disfunzioni riscontrate all’organo Esecutivo, alla Corte dei Conti, all’Ispettorato della Funzione Pubblica e alla Civit, esprimendo quindi anche eventuali valutazioni inerenti aspetti e profili squisitamente personali, anche potenzialmente soggetti alla legge sulla privacy.
Questa Commissione, nella scia di una ormai consolidata giurisprudenza del Giudice amministrativo, ha avuto più volte occasione di riaffermare che il “diritto di accesso” e il “diritto di informazione" dei Consiglieri comunali sono specificatamente disciplinati dall’art. 43 del d.lgs. n. 267 del 2000 (T.U. Enti locali) che riconosce loro (e ai Consiglieri provinciali) il diritto di ottenere dagli Uffici tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del loro mandato.
Si tratta, all’evidenza, di un diritto dai confini più ampi del diritto di accesso riconosciuto al cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10 T.U. Enti locali) o, più in generale, nei confronti della P.A., disciplinato dalla legge n. 241 del 1990.
Tale maggiore ampiezza trova la propria giustificazione nel particolare “munus” espletato dal Consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata.
Per queste ragioni il Consigliere comunale non deve neppure motivare la propria richiesta di informazioni, perché altrimenti la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi, con la conseguenza che gli uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste d’informazione e le modalità di esercizio della funzione esercitata dal Consiglio comunale.
Tutte queste considerazioni valgono anche per ciò che concerne, come nel caso di specie, l’esercizio del diritto di accesso del Consigliere comunale ai verbali dell’’Organismo Indipendente di Valutazione, che sicuramente costituiscono documentazione amministrativa detenuta dall’Amministrazione civica. Ed invero, al di là dell’obbligo imposto a tale Organismo dall’art. 14, IV comma, del d.lgs. n. 150/2009 richiamato nella richiesta di parere, eventuali criticità o disfunzioni desumibili dai suddetti verbali possono costituire un valido elemento di conoscenza che permetta al Consigliere comunale, per il tramite e nell’ambito della competenza dell’organo collegiale cui appartiene, di poter ovviare alle disfunzioni stesse con opportuni atti di indirizzo politico–amministrativo.
Sottolinea infine la Commissione che anche nel caso di specie, il diritto di accesso agli atti del Consigliere comunale non può subire compressioni per pretese esigenze di ordine burocratico dell’Ente, tali da ostacolare l’esercizio del suo mandato istituzionale; l’unico limite è rappresentato dal fatto che il Consigliere comunale non può abusare del diritto all’informazione riconosciutagli dall’ordinamento, interferendo pesantemente sulla funzionalità e sull’efficienza dell’azione amministrativa dell’Ente civico (nel caso di specie sulle funzioni dell’Organismo Indipendente di Valutazione), con richieste che travalichino i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 17.01.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Richieste di parere sull’obbligo di notifica ai controinteressati in caso di accesso a dati personali da parte di soggetti terzi.
Il responsabile del Centro per l’Impiego della provincia di Piacenza chiede se -a fronte delle richieste di accesso formulate da parte di rappresentanti di creditori al fine di conoscere i dati identificativi del datore di lavoro relativi a dipendenti insolventi- sia corretto o meno l’obbligo, per i Centri, di notifica dell’istanza di accesso ai controinteressati, così come previsto dall’art. 3, d.P.R. n. 184/2006.
Questa Commissione ha già avuto modo di affrontare la problematica relativa all’accesso di soggetti terzi ai dati in possesso dei Centri per l’Impiego e relativi ai dati identificativi del datore di lavoro, precisando (cfr. parere Plenum 17.06.2010), nei limiti di quanto qui interessa, che ai sensi dell’art. 3, d.P.R. n. 184/2006, al controinteressato, e dunque anche nella fattispecie in esame, dovrà essere comunicata la richiesta di accesso formulata dal terzo, anche se la sua eventuale probabile opposizione dovrà essere riconosciuta recessiva di fronte al diritto di tutela giudiziaria dell’accedente
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 17.01.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Diritto di accesso dei consiglieri comunali. Modifiche al Regolamento del Comune di Selvazzano (PD). Richiesta parere.
Alcuni consiglieri comunali chiedono parere in ordine alle modifiche che il Consiglio comunale ha apportato con delibera n. 54 del 30.09.2011 al Regolamento per la disciplina del diritto di accesso, segnalando l’aumento del termine per evadere le richieste da 5 a 30 gg., con facoltà dell’amministrazione di superare il termine di 30 gg. in caso di quantità del materiale o per complessità del provvedimento. Gli istanti, ritenendo le modifiche contrarie agli orientamenti di questa Commissione (in particolare parere plenum 12.10.2010), chiedono il ripristino delle disposizioni antecedentemente adottate.
La Commissione è del parere che:
-) l’innalzamento del termine di conclusione da 5 a 30 gg. -pur nel rispetto dell’obbligo generale di cui all’art. 25, co. 4, della legge n. 241/1990- potrebbe in concreto generare una lesione delle prerogative del consigliere comunale, in quanto l’accesso ai documenti deve comunque essere concesso prima possibile in modo tale da consentire, mediante una valutazione caso per caso, il concreto espletamento del mandato da parte del consigliere ex art. 43 TUEL, fatti salvi i casi di abuso del diritto all’informazione, attuato con richieste non contenute entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza e che determini un ingiustificato aggravio dell’ente;
-) la facoltà dell’ente di superare, pur motivando, il termine di 30 gg. in caso di complessità o quantità dei documenti richiesti non pare giustificato. Infatti, da un lato il diritto al rilascio delle copie dei documenti al consigliere comunale non può comunque essere ritardato per esigenze di natura burocratica dell’ente che, al pari di tutte le pubbliche amministrazioni, deve dotarsi di mezzi (personale, strumentazioni tecniche e materiali vari) necessari all'assolvimento dei loro compiti (CdS, Sez. V, 04.05.2004, n. 2716; TARVeneto, II, n. 770/2005). Dall’altro, la facoltà del responsabile del procedimento dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle copie, salva sempre la facoltà del consigliere di prendere visione degli atti, va comunque contenuta nell’ambito del termine generale di cui all’art. 25 citato.
Il rimedio per rimuovere le predette illegittimità è solo il ricorso al Tar (avverso l’eventuale diniego opposto dall’amministrazione ad una richiesta specifica, atteso che il termine per ricorrere direttamente avverso la delibera di modifica del Regolamento è maturato), fatto salvo il maturare di una nuova delibera consiliare nell’ambito del circuito politico istituzionale locale 
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 17.01.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Diritto di accesso dei consiglieri comunali. Modifiche al Regolamento del Comune di Castelli Caleppio (BG). Richiesta parere.
Un consigliere comunale chiede a questa Commissione un parere in ordine alle modifiche che il Consiglio comunale vorrebbe apportare al Regolamento per la disciplina del diritto di accesso approvato. In particolare, rappresenta che con o.d.g. del 29.11.2011 il Comune vorrebbe cancellare il termine di 5 gg. per l’evasione delle richieste di accesso (art. 20, co. 1) nonché l’obbligo di motivare per iscritto i ritardi nella consegna della documentazione; aggiunge che alcune delibere, specificamente indicate, sono state consegnate e/o pubblicate dopo molti mesi dalla richiesta o dall’adozione. L’istante chiede pertanto di conoscere se le variazioni adottande siano legittime.
La Commissione ribadisce che -fermo restando l’obbligo generale, in difetto di diversa e specifica norma regolamentare, di conclusione nel termine di gg. 30 dalla richiesta (ex art. 25, co. 4, della legge n. 241/1990)- l’accesso ai documenti debba essere concesso nei tempi più celeri e ragionevoli possibili in modo tale da consentire il concreto espletamento del mandato da parte del consigliere ex art. 43 TUEL, fatti salvi i casi di abuso del diritto all’informazione, attuato con richieste non contenute entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza e che determini un ingiustificato aggravio dell’ente.
Nel caso che ne occupa -più che la cancellazione del termine di 5 gg. e dell’obbligo di motivazione dei ritardi che di per sé non sembra contenere irregolarità, tenuto conto che nell’ambito delle due disposizioni è previsto comunque che l’istanza deve essere evasa “senza ritardi ingiustificati” e “prima possibile” - si stigmatizzano i notevoli ritardi con cui l’amministrazione provvede in concreto alla pubblicazione (anche superiori al semestre) o sulle istanze di accesso (oltre i due mesi), con probabile ed illegittima compressione delle prerogative dei consiglieri.
Pertanto, al di là della legittimità delle adottande modifiche regolamentari, è necessario che il Comune garantisca l’accesso al consigliere comunale nell’immediatezza, e comunque nei tempi più celeri e ragionevoli possibili (soprattutto nei casi di procedimenti urgenti o che richiedano l’espletamento delle funzioni politiche). Qualora l’accesso non possa essere garantito subito (per eccessiva gravosità della richiesta), rientrerà nelle facoltà del responsabile del procedimento dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle copie, ferma restando la facoltà del consigliere comunale di prendere visione, nel frattempo, di quanto richiesto negli orari stabiliti presso gli uffici comunali competenti, anche con mezzi informatici 
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 17.01.2012 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Richiesta di parere in ordine all’acquisizione di documenti ed informazioni nel corso di indagini di polizia giudiziaria.
Il Segretario comunale del Comune di Cernusco Lombardone (LC) fa presente che tra il Responsabile del servizio di polizia locale ed il Commissario aggiunto suo collaboratore esiste da tempo uno stato di tensione sfociato in vari procedimenti disciplinari, ed in numerose missive indirizzate al Sindaco ed al Segretario comunale.
Da ultimo il Commissario aggiunto con nota indirizzata al Sindaco e al Segretario, in qualità di ufficiale di Polizia giudiziaria, chiede di conoscere se il Responsabile del servizio di polizia locale sia stato preventivamente autorizzato a frequentare un “Corso” e se lo abbia concretamente frequentato nel 2005; se in alcuni giorni del 2005 abbia prestato servizio presso il Comune svolgendo attività di controllo del territorio comunale con la cosiddetta “pattuglia serale” e, in caso affermativo se abbia percepito un compenso e in che forma.
A tal fine il Commissario aggiunto ha chiesto il rilascio di copia autentica della preventiva autorizzazione rilasciata al Responsabile del Servizio di polizia locale per la frequenza del “Corso”; copia autentica dell’ordine di servizio adottato dal Responsabile del Servizio, riguardante i turni e gli orari di servizio degli operatori della polizia locale relativi ad alcuni mesi del 2005; copia autentica dei cartellini segnatempo/presenza in servizio del responsabile riguardanti il suddetto periodo, anche nella versione appositamente predisposta per evidenziare all’Ufficio ragioneria i servizi rientranti nel c.d. “Progetto finalizzato” retribuito in modo del tutto particolare; copia autentica di ulteriori documenti quali l’eventuale lettera di iscrizione al corso di cui trattasi e l’eventuale diploma all’uopo rilasciato.
Tutto ciò premesso, il Segretario del Comune di Cernusco Lombardone chiede di conoscere se sia possibile, obbligatorio o vietato evadere la richiesta di documenti avanzata dal Commissario aggiunto.
Ad avviso della Commissione l’istanza di accesso presentata dal Commissario aggiunto, per come è stata formulata e per le ragioni che espressamente la sostengono non può trovare accoglimento.
L’interessato, invero, non intende esercitare il diritto di accesso alla documentazione amministrativa, detenuta dal proprio Comune per tutelare interessi propri, ma, al contrario, quale ufficiale di polizia giudiziaria, chiede documenti ed informazioni al dichiarato fine “di eseguire una indagine conoscitiva volta a poter escludere oppure documentare la possibilità che sussistano o meno violazioni di legge”.
All’evidenza una tale ipotesi è fuori dall’ambito di applicazione delle norme sul diritto di accesso, per la decisiva ragione che le modalità di acquisizione di documenti ed informazioni nel corso di indagini di polizia giudiziaria sono disciplinate da norme tutt’affatto diverse
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 20.12.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Richiesta di parere sulla accessibilità delle videoispezioni fognarie, quali documenti amministrativi ai sensi dell’articolo 22, comma 1, lettera d).
La ASSM, società per azioni a totale partecipazione pubblica operante nel Comune di Tolentino (MC) nei settori acqua, gas, energia elettrica, ecc. premesso che effettua ispezioni negli impianti di sua proprietà o affidatile in gestione anche mediante realizzazione di filmati della condotta fognaria, chiede se tali videoispezioni possano essere oggetto di diritto di accesso.
Al riguardo ritiene questa Commissione che tali videoispezioni debbano essere qualificati documenti amministrativi detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse -ai sensi dell’articolo 22, comma 1, lettera d)- come tali accessibili nelle forme della visione e della estrazione di copia da parte di soggetti che dimostrino un interesse qualificato, in mancanza di pregresse norme regolamentari che disciplinino il diritto di accesso anche ai fini di “mantenere la segretezza aziendale
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 20.12.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso ad una relazione ispettiva.
L’istante, quale partecipante ad una selezione per l’attribuzione di incarichi di insegnamento presso un istituto comprensivo statale, ha rappresentato che -a fronte dell’istanza presentata all’Ufficio scolastico regionale della Campania di acquisire copia di una relazione ispettiva redatta per la verifica di eventuali irregolarità della procedura- l’amministrazione l’aveva rigettata per inesistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale all’accesso, preordinato, secondo l’ente, soltanto ad un mero controllo generalizzato della p.a..
Viene pertanto chiesto alla Commissione un parere sulla legittimità del diniego di accesso, rappresentando l’istante di avere personalmente segnalato le irregolarità commesse nella gestione della gara e di voler valutare eventuali ricorsi.
La Commissione ritiene che sia illegittima la motivazione addotta dalla p.a. per negare l’accesso.
Infatti, l’istante, come partecipante alla gara ed autrice delle segnalazioni di irregolarità a base del procedimento ispettivo, ha indubbiamente un interesse giuridicamente rilevante a verificare, mediante l’esame della documentazione richiesta, la correttezza dello svolgimento della procedura da parte dell’Istituto scolastico, tanto più che deve essere garantito l’accesso agli atti relativi a procedimenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 20.12.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Interrogazione parlamentare.
Il Ministero dell’Istruzione chiede se un professore universitario possa accedere ad una relazione predisposta per rispondere ad un’interrogazione parlamentare formulata da un senatore della Repubblica.
A dire dell’amministrazione, la relazione sarebbe inaccessibile, costituendo un atto non di natura amministrativa ma politica e comunque non relativo ad un procedimento amministrativo. La p.a. istante segnala che il professore ha chiesto l’accesso per tutelare il proprio diritto al corretto inquadramento professionale e pensionistico.
Come affermato dal TAR Lazio Roma Sezione prima, con la decisione n 9637 del 2008 il diritto di accesso, disciplinato dall’art. 22, lett. d), della legge n 241/1990, dopo la modifica apportata dalla legge n 15/2005, prescinde sia dalla “natura” dei documenti richiesti sia, soprattutto, dalla loro pertinenza ad un “determinato” procedimento.
Tale interpretazione -che la Commissione condivide- trova conferma nella ampia formulazione dell’attuale art. 22 lett d) -il quale definisce “documento amministrativo” ogni atto “concernente attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”- rispetto a quella del testo originario (ante novella del 2005) che, invece, definiva “documento amministrativo” ogni atto formato dalla p.a. o, comunque, utilizzato ai fini dell'attività amministrativa.
La sostituzione dell’espressione “attività amministrativa” con “attività di pubblico interesse” nonché l’eliminazione del termine “utilizzato ai fini dell’attività amministrativa” conferma l’assoluta irrilevanza, ai fini dell’accesso, sia della connessione fra atto detenuto e procedimento amministrativo sia della finalità e natura dell’atto che si chiede di conoscere.
Alla luce di quanto sopra, pare sussistere l’obbligo del Ministero di consentire l’accesso dell’interessato alla documentazione richiesta
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 20.12.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Diritto di accesso agli atti relativi ad una concessione cimiteriale.
Il Comune istante chiede quali siano le modalità più opportune per individuare eventuali controinteressati all’accesso ad una concessione cimiteriale intestata ad un soggetto deceduto, sottolineando come il richiedente sia una nipote non erede del de cuius e sia in atto una disputa familiare per l’utilizzo dello spazio cimiteriale oggetto di concessione.
La Commissione rappresenta che se l’istante fosse un cittadino residente nel comune, sarebbe applicabile la speciale disciplina dell’art. 10 TUEL che non fa menzione alcuna della necessità di individuare controinteressati, con la conseguenza che sarebbe ultronea la ricerca di controinteressati, imperniata su disposizioni normative che non si applicano.
Anche nel caso in cui l'istanza provenisse da cittadino non residente nel Comune -con applicazione della disciplina generale ex lege n 241/1990 e conseguente obbligo della p.a. di valutare di volta in volta eventuali controinteressati all’accesso in base alla natura del documento richiesto, tenendo anche conto del contenuto di atti connessi (ex art. 22, co. 1, lett. c) legge n. 241/1990, art, 3 e 7 dpr n 184/2006)- prevarrebbe comunque il diritto di accesso rispetto alla riservatezza opposta da terzi controinteressati, quando (come pare nella specie) il diritto di accesso sia esercitato per la cura o la difesa di un interesse giuridico ai sensi dell'art. 24, co. 7, della legge n. 241/1990 
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 20.12.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso a delibere comunali.
Un cittadino residente nel comune di Nocera Inferiore chiede se il diritto di accesso ad una delibera comunale sia assoggettata al regime giuridico previsto dalla legge n. 241/1990 ovvero a quello contenuto nell’art. 10 del d.lgs. n 267/2000 poiché l’ente acceduto lo aveva invitato a specificare l’interesse diretto, concreto ed attuale all’accesso.
A parere della Commissione l’istanza di accesso è indubbiamente assoggettata, provenendo da un cittadino residente nel comune destinatario della richiesta, alla disciplina dell’art. 10 del TUEL che configura il diritto di accesso alla stregua di un’azione popolare.
Pertanto, va garantito il diritto all’accesso al cittadino istante, senza la dimostrazione di alcuno specifico interesse
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 20.12.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Il Comune di Cropani chiede se un candidato ad un concorso pubblico, bandito ed espletato dallo stesso Comune, possa avere accesso, con estrazione di copia, ai verbali della Commissione esaminatrice ed agli elaborati degli altri candidati.
Al riguardo questa Commissione, nella scia di una copiosa giurisprudenza del giudice amministrativo, in tema di concorsi pubblici ha avuto più volte occasione di affermare la pressoché totale accessibilità dei documenti formati dalla Commissione esaminatrice e prodotti dagli altri candidati Chiara ed esaustiva, in materia, la pronuncia della III Sezione del Tar Lazio, n. 6450 dell’08.07.2008, secondo cui “Le domande ed i documenti prodotti dai candidati, i verbali, le schede di valutazione e gli stessi elaborati costituiscono documenti rispetto ai quali deve essere esclusa in radice l’esigenza di riservatezza a tutela dei terzi, posto che i concorrenti, prendendo parte alla selezione, hanno evidentemente acconsentito a misurarsi in una competizione di cui la comparazione dei valori di ciascuno costituisce l’essenza.
Tali atti, quindi, una volta acquisiti alla procedura, escono dalla sfera personale dei partecipanti che, pertanto, non assumono la veste di controinteressati in senso tecnico nel presente giudizio
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 29.11.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Il sig. Massimiliano ..., consigliere di opposizione del Comune di Massalengo (LO), premesso che da un paio di anni effettua controlli sugli atti e documenti dell’amministrazione comunale relativi ad appalti di lavori pubblici al fine di verificare ed assicurare la regolarità degli atti stessi, fa presente che questo suo comportamento ha urtato la suscettibilità sia dell’organo politico che del segretario comunale, il quale gli ha comunicato che ogni sua richiesta di visionare atti e documenti dovrà essere formulata per iscritto ed esaminata prima di fornire le conseguenti disposizioni al personale degli uffici.
Il sig. ... fa ancora presente che gli sono stati forniti dei moduli di richiesta e che sulle sue istanze gli sarà data risposta nei termini di legge; nel rappresentare che ormai gli viene negato ogni contatto con il personale dell’Ufficio Tecnico o del RUP, chiede di conoscere se un tale atteggiamento dell’amministrazione civica costituisca un ostacolo all’espletamento del suo mandato di consigliere comunale.
Ritiene questa Commissione che il comportamento ostruzionistico assunto dal Comune di Massalengo nei confronti del sig. ... non possa essere condiviso.
La Commissione invero, nella scia di una ormai consolidata giurisprudenza del Giudice amministrativo, ha avuto più volte occasione di affermare che il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali sono specificamente disciplinati dall’art. 43 del d.lgs. 267/2000 (T.U. Enti locali) che riconosce loro (e ai consiglieri provinciali) il diritto di ottenere dagli uffici tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del loro mandato.
Si tratta, all’evidenza, di un diritto dai confini più ampi del diritto di accesso riconosciuto al cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10 T.U. Enti locali) o, più in generale, nei confronti della P.A., disciplinato dalla legge n. 21 del 1990.
Tale maggiore ampiezza trova la propria giustificazione nel particolare “munus” espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata, soprattutto se, come nel caso di specie, il consigliere comunale appartenga alla minoranza, istituzionalmente deputata allo svolgimento di compiti di controllo e verifica dell’operato della maggioranza.
Per queste ragioni il consigliere comunale non deve neppure motivare la propria richiesta di informazioni, perché altrimenti la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi, con la conseguenza che gli uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazione e le modalità di esercizio della funzione esercitata dal consigliere comunale.
Va infine sottolineato che, per antico principio giurisprudenziale, il diritto di accesso agli atti di un consigliere comunale non può subire compressioni per pretese esigenze di ordine burocratico dell’Ente, tali da ostacolare l’esercizio del suo mandato istituzionale; l’unico limite è rappresentato dal fatto che il consigliere comunale non può abusare del diritto all’informazione riconosciutagli dall’ordinamento, interferendo pesantemente sulla funzionalità e sull’efficienza dell’azione amministrativa dell’Ente civico, con richieste che travalicano i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza 
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 29.11.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Richiesta di parere concernente il diritto di accesso dei consiglieri comunali di minoranza.
Un consigliere comunale ha chiesto parere in ordine alla legittimità del Regolamento per il diritto di accesso dei consiglieri comunali, approvato con delibera consiliare del 30.09.2011, lamentando la lesione delle prerogative in materia di accesso stabilite per i consiglieri comunali, secondo quanto previsto dall’art. 43 TUEL.
In particolare, l’istante segnala che:
a) l’art. 3, co. 6, non ammette richieste di accesso che riguardino intere aree di attività o intere materie perché incoerenti con i compiti del consigliere che non riguarda il controllo specifico ma il controllo politico generale;
b) l’art. 4, co. 3, prevede limiti all’accesso per il trattamento dei dati riservati ai sensi del d.lgs. n 196/2003;
c) l’art. 5, co. 2, prevede il differimento dell’accesso per gli atti legali o tecnici afferenti liti in atto o in potenza;
d) l’art. 5, co. 3, rinvia al D.Lgs. n 163/2006 per l’accesso alle procedure di affidamento di contratti pubblici;
e) l’art. 5, co. 4, subordina al nulla osta dell’autorità competente l’accesso dei consiglieri per atti coperti da segreto;
f) l’art. 6, co 2 (secondo, terzo e quarto capoverso), non consente l’accesso a tutti gli atti adottatati dopo una certa data, o se l’accesso riguardi atti ancora da adottare o intere categorie di atti;
g) l’art. 7, commi 2, 6, 7 prevedono per l’amministrazione termini di 5, 10 o 30 gg. per concedere l’accesso, con necessità che il consigliere formuli l’istanza personalmente;
h) l’art. 8 prevede un’istanza di riesame al segretario comunale in caso di diniego di accesso con termine di 15 gg. per la pronuncia.
Preliminarmente, la Commissione rileva che il regolamento Comunale non risulta a suo tempo trasmesso a questa Commissione, in contrasto con quanto stabilito dal dPR 12.04.2006 n. 184, art. 11, commi 1 e 3. Si segnala pertanto l’esigenza che a ciò venga provveduto.
La disposizione sub a), così come formulata, potrebbe dare adito a qualche dubbio di legittimità, ponendo una limitazione dell’accesso funzionale al controllo di intere attività o materia. Infatti, l’oramai consolidato orientamento giurisprudenziale amministrativo e di questa Commissione riconosce ai consiglieri comunali alla stregua dell’art. 43 del D.Lgs n. 267/2000 un diritto ampio e non comprimibile all’informazione finalizzato, nell’esercizio del munus del consigliere comunale, al controllo sulla legalità ed economicità nella gestione dell’ente civico da esercitarsi in tutti gli ambiti dei compiti di indirizzo e controllo riservati al Consiglio comunale (cfr Consiglio di Stato, Sez. V, 02.09.2005, n. 4471; TAR Liguria, Sez. I, 01/07/2003, n. 827).
La disposizione sub b) non appare legittima. Infatti, l’art 59 del Codice di protezione dei dati personali fa salve espressamente le disposizioni relative all’accesso ai documenti amministrativi contenenti dati personali e, quindi, fa salva anche la specifica disposizione dell’art. 43, comma 2, TUEL prevista per l’accesso dei consiglieri ai quali non possono essere opposti limiti per esigenze di tutela della riservatezza dei terzi, essendo i consiglieri comunali tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge (cfr. Consiglio di Stato n 5879/2005; Cons. Stato, Sez. V, 04.05.2004 n 2716; Tar Sardegna, sez. II, 30.11.2004 n 1782).
La disposizione sub c) non pare legittima perché il potere di differimento previsto dalla generale disciplina della legge n. 241/1990 (art. 24) e del DPR n 184/2006 (art. 9) risulta incompatibile con l’ampio e speciale diritto di accesso dei consiglieri comunali ex art. 43 TUEL che non tollera limitazioni. Altrimenti, gli Uffici comunali potrebbero sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato, in tal modo pregiudicando la cura di un interesse pubblico connesso al mandato conferito.
La disposizione sub d) che rinvia al codice dei contratti pubblici è fuori luogo in quanto l’accesso dei consiglieri comunali è regolato esclusivamente dall’art. 43 TUEL e non anche dall’art 13 del d.lgs. n 163/2006.
Quanto alla disposizione sub e) si rammenta che la segretezza che pure opera nei confronti del consigliere comunale è disciplinata dalle singole leggi speciali in materia.
Le disposizioni sub f) non paiono conformi a legge in quanto la limitazione dell’accesso:
-) in caso di atti ancora da adottare, confligge con l’ampiezza del diritto di accesso come riconosciuto dall’art 43 TUEL che oltre a ricomprendere le informazioni, determina, di riflesso, un vis espansiva verso tutti gli atti non ancora formalmente emanati, e cioè atti interni preparatori, relazioni o pareri informali anche se non hanno una autonoma rilevanza, bozze o a brogliacci;
-) in caso di atti adottati successivamente ad una certa data o intere categorie di documenti, è ingiustificata. Infatti, se anche le richieste di accesso ai documenti avanzate dai Consiglieri comunali ai sensi dell’art. 43, co. 2, d.lgs. n. 267/2000 debbano rispettare il limite di carattere generale -valido per qualsiasi richiesta di accesso agli atti- della non genericità della richiesta medesima (cfr. C.d.S., Sez. V, n. 4471 del 02.09.2005 e n. 6293 del 13.11.2002), non è generica l’istanza relativa all’accesso a tutti gli atti precedenti e successivi a quelli specificamente indicati qualora nell’istanza siano indicati gli elementi necessari e sufficienti alla puntuale identificazione dei documenti richiesti.
La disposizione sub g) potrebbe in astratto determinare la concreta soppressione delle prerogative del consigliere nei casi di procedimenti urgenti o discussioni in corso che richiedano l’espletamento delle funzioni politiche entro un termine inferiore a quello previsto. Onde scongiurare tale pericolo, è necessario che l’ente garantisca l’accesso al consigliere comunale nell’immediatezza, e comunque nei tempi più celeri e ragionevoli possibili da valutare caso per caso in funzione delle diverse esigenze del mandato (ad es. consentendo al consigliere nei casi di urgente necessità o gravosità della richiesta di prendere subito visione degli atti, anche con mezzi informatici, dilazionando nel tempo il rilascio delle copie).
Diversamente, la disposizione potrebbe dare adito a qualche dubbio di legittimità in quanto motivazioni di carattere meramente organizzatorio o economico non possono impedire di per sé l’esercizio del diritto di accesso, essendo obbligo dell'amministrazione di dotarsi, per quanto possibile, di un apparato comunque in grado di soddisfare gli adempimenti di propria competenza (arg. ex TAR Veneto Venezia Sez. I Sent., 15.02.2008, n. 385).
Quanto alla norma sub h), si osserva che è pienamente ammissibile, come indicato dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato n. 2938/2003) l’introduzione di una sorta di ricorso amministrativo comunque configurato o denominato avverso il rigetto dell’istanza di accesso e comunque pare opportuna la scelta del segretario comunale (organo non politico) quale soggetto destinatario.
Appare poi eccessiva la previsione che obblighi il consigliere a presentare personalmente l’istanza di accesso, tenuto conto che appare compatibile con la specificità dell’accesso dei consiglieri comunali la generale facoltà di legittimare terzi a formulare la richiesta di accesso ai documenti amministrativi
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 29.11.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

APPALTIOGGETTO: richiesta di parere sull’accessibilità di informazioni relative alla certificazione antimafia ai sensi del d.lgs. n 490/1994 e DPR n 252/1998.
La Prefettura in indirizzo ha rappresentato che -a seguito della richiesta di certificazione antimafia da parte di un’autorità portuale- aveva interdetto (ex art. 10 DPR n. 252/1998 e art. 4 d.lgs. n. 490/1994) dai rapporti con la p.a. una ditta individuale il cui titolare era amministratore unico di un consorzio stabile di cui facevano parte due soggetti contigui alla criminalità organizzata. Rilasciata copia dell’informativa antimafia (con mascheramento dei nominativi dei soci del consorzio), la Prefettura aveva ricevuto dal titolare della ditta un’istanza di accesso per conoscere l’identità dei soci consorziati appartenenti al sodalizio mafioso, al fine di provvedere alla loro immediata esclusione.
Tanto premesso, l’amministrazione ha chiesto di conoscere se il principio di inaccessibilità degli atti rientranti nelle categorie indicate dall’art. 3 del D.M. n. 415/1994 a tutela della prevenzione e repressione della criminalità organizzata debba o meno ritenersi prevalente rispetto al diritto di accesso a fini di difesa ai sensi dell'art. 24, co. 7, legge n. 241/1990.
La Commissione ritiene di dover preliminarmente richiamare sinteticamente il quadro normativo di riferimento.
L'art. 24 della legge n. 241/1990 prevede una serie di esclusioni all'esercizio del diritto di accesso, alcune obbligatorie, precisamente quelle elencate al comma 1, altre facoltative e da individuare con regolamenti, in riferimento agli interessi elencati al comma 6. Il successivo comma 7 dispone che "deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati sensibili o giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall'articolo 60 del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute la vita sessuale".
Tale ultimo disposto non pare riferibile a tutti i casi di esclusione dell'accesso previsti dalla normativa vigente, e in particolare a quelli previsti dall’art 3 del D.M. 10.05.1994 n. 415 (modificato con il D.M. 17.11.1997 n. 508) che alla lett. b), per quanto qui rileva, sottrae all’accesso "relazioni di servizio, informazioni ed altri atti o documenti inerenti ad adempimenti istruttori relative a licenze, concessioni od autorizzazioni comunque denominate o ad altri provvedimenti di competenza di autorità o organi diversi, compresi quelli relativi al contenzioso amministrativo, che contengono notizie relative a situazioni di interesse per l'ordine e la sicurezza pubblica e all'attività di prevenzione e repressione della criminalità, salvo che, per disposizione di legge o di regolamento, ne siano previste particolari forme di pubblicità o debbano essere uniti a provvedimenti o atti soggetti a pubblicità".
Infatti, se, prima facie, l’art. 24, co. 7, sembra riferito a tutti gli interessi indicati nel comma 6 (e nel comma 1) della citata disposizione, tuttavia è significativo che esso preveda alcune eccezioni al generale principio di accessibilità dei documenti “riservati”, qualora il richiedente ne abbia necessità per difendersi in giudizio, laddove negli stessi siano presenti altrui informazioni personali qualificabili come dati sensibili o giudiziari, con una tutela particolarmente accentuata per quelli idonei a rivelare l'altrui stato di salute o vita sessuale.
In tale ottica, la norma in questione è “figlia” del vecchio testo dell'art. 24, co. 2, lett. d), della legge n 241/1990 che escludeva l'accesso nei casi, previsti da regolamento, in cui risultasse necessario tutelare la "riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese, garantendo peraltro agli interessati la visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i loro interessi giuridici".
La ratio della norma era quella di contemperare l'esercizio dell'accesso a fini di difesa con la tutela della riservatezza dei terzi, bilanciando la posizione dell’accedente con uno solo degli interessi contrapposti (appunto la riservatezza): non era invece riferibile agli altri interessi, la cui salvaguardia poteva giustificare il diniego dell'accesso. Ciò induce a ritenere che anche il nuovo comma 7 dell'art. 24, legge 241/1990 (modificato dall’art. 16 della legge n. 15/2005) sia riferibile solo ai conflitti tra diritto d'accesso a fini di difesa e tutela della riservatezza, e non sia invece destinato a risolvere situazioni nelle quali il primo confligga con gli altri interessi elencati al comma 6 (o comma 1) dell'art. 24. Si noti, in tal senso, anche la relazione di accompagnamento alla legge n. 15/2005, modificativa della legge 241/1990, che riferisce il nuovo comma 7 dell'art. 24 unicamente all'esigenza di tutelare la riservatezza dei terzi.
D’altro canto, se così non fosse, l’art. 24, comma 7, si esporrebbe a censure di incostituzionalità in quanto garantirebbe maggiormente la riservatezza delle persone -che può costituire un limite all'accesso ove i documenti richiesti contengano dati sensibili o giudiziari di terzi- mentre non riserverebbe un'eguale protezione ai pur preminenti interessi alla tutela dell'ordine pubblico e della prevenzione e repressione della criminalità, non essendo previsti analoghi limiti all’accesso. Non si giustificherebbe però il differente trattamento riservato alla tutela della riservatezza rispetto agli altri interessi della prevenzione della criminalità. Anche tali interessi, infatti, assumono preminente rilevanza costituzionale e dunque debbono trovare analoga tutela legislativa rispetto alla riservatezza.
Alla luce di quanto sopra, la Commissione ritiene che, alla stregua di un'interpretazione costituzionalmente orientata del nuovo testo dell'art. 24, comma 7, legge n. 241/1990, siffatta disposizione debba ritenersi applicabile unicamente alla risoluzione dei conflitti tra diritto di accesso e tutela della riservatezza altrui.
Pertanto, non venendo nella fattispecie in rilievo un conflitto di tal genere, essendo i dati sottratti all’accesso motivati dalla esigenza di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica o della prevenzione e repressione della criminalità, si ritiene che i nominativi richiesti dall’istante non siano conoscibili, quand’anche il richiedente ne abbia necessità per difendere i propri interessi giuridici
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 29.11.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Richiesta di parere concernente il diritto di accesso dei consiglieri comunali di minoranza.
Un consigliere comunale ha chiesto parere in ordine alla legittimità della modifica del Regolamento per il diritto di accesso agli atti, approvato con delibera consiliare del 04.10.2011, lamentando che le modifiche lederebbero le prerogative in materia di accesso stabilite per i consiglieri comunali, secondo quanto previsto dall’art. 43 TUEL.
In particolare, l’istante segnala:
a) art. 14, co. 2, secondo cui l’accesso del consigliere non può configurarsi come “generalizzato ed indiscriminato”;
b) art. 14, co. 3, che prevede l’obbligo in ogni caso di dare “..idonea comunicazione preventiva al soggetto….controinteressato”;
c) art. 15, co. 3, che prevede l’inammissibilità di “…richieste generalizzate relative ad intere pratiche”;
d) art. 15, co. 11, relativo ai criteri di contemperamento del diritto di accesso del consigliere con le esigenze di funzionamento degli uffici.
Preliminarmente, la Commissione rileva che il regolamento Comunale non risulta a suo tempo trasmesso a questa Commissione, in contrasto con quanto stabilito dal dPR 12.04.2006 n. 184, art. 11, commi 1 e 3. Si segnala pertanto l’esigenza che a ciò venga provveduto.
Quanto al punto sub a) la Commissione ritiene opportuno rammentare che l’art. 43 del TUEL riconosce ai consiglieri comunali un diritto pieno e non comprimibile “all’informazione”. Tuttavia, il diritto di accesso del consigliere comunale non ha carattere generalizzato ed indiscriminato in quanto vanno rispettate alcune forme e modalità di esercizio, tra cui la necessità che l’interessato alleghi la sua qualità, posto che l’accesso è funzionale ad acquisire notizie ed informazioni connesse all'esercizio del proprio munus ed è attribuito al fine di compiere, attraverso la visione dei provvedimenti adottati, una compiuta valutazione della correttezza e dell'efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale.
E comunque occorre valutare di volta in volta se le istanze di accesso siano irragionevoli, sproporzionate e come tali se abbiano o meno aggravato gli uffici pregiudicandone la funzionalità. In questi ristretti limiti, la declaratoria di principio dell’inammissibilità di un “accesso indiscriminato e generalizzato” di per sé non costituisce un limite alle prerogative del consigliere.
Quanto al punto sub b) si segnala che alla fattispecie normativa delineata dall'art. 43 del d.lgs. n. 267/2000 non pare compatibile la regola procedimentale che prevede l’obbligo di notifica ai controinteressati ex art. 3, d.p.r. n. 184/2006 (arg. ex Cons. Stato Sez. V, 02.09.2005, n. 4471) in quanto contrastante con l’ampiezza del diritto soggettivo pubblico riconosciuto ai consiglieri comunali, di fronte al quale recede ogni altro interesse, ivi inclusa la riservatezza di eventuali contro interessati. Quindi, l’obbligo di notifica ai contro interessati appare illegittimo in quanto volta a costituire un ingiustificato limite all’accesso.
Quanto al punto sub c), si rammenta che, seppur anche le richieste di accesso ai documenti avanzate dai Consiglieri comunali ai sensi dell’art. 43, co. 2, d.lgs. n. 267/2000 debbano rispettare il limite di carattere generale –valido per qualsiasi richiesta di accesso agli atti- della non genericità della richiesta medesima (cfr. C.d.S., Sez. V, n. 4471 del 02.09.2005 e n. 6293 del 13.11.2002), non è generica l’istanza relativa all’accesso agli atti inerenti a intere pratiche, qualora nell’istanza siano indicati gli elementi necessari e sufficienti alla puntuale identificazione dei documenti richiesti.
Quanto al punto sub d) si rammenta che il contemperamento tra esigenze di accesso e funzionalità degli uffici non potrà mai tradursi in limitazioni o impedimenti di fatto dell’esercizio del diritto del consigliere. Infatti, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che il diritto di accesso del consigliere comunale non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell’Ente, tali da ostacolare l’esercizio del suo mandato istituzionale, con l’unico limite di poter esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità sia organizzativa che economica per gli uffici comunali) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione alle altre attività di tipo corrente (cfr., fra le molte, Cons. Stato, sez. V, 22.05.2007 n. 929).
Rientrerà nelle facoltà del responsabile del procedimento dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle copie richieste, al fine di contemperare tale adempimento straordinario con l’esigenza di assicurare il normale funzionamento dell’attività ordinaria degli uffici comunali, ma giammai potrà essere negato l’accesso. Inoltre, non può essere giustificato un diniego di accesso con l'impossibilità di rilasciare l'eccessiva documentazione richiesta, in quanto è obbligo dell'amministrazione di dotarsi di un apparato burocratico in grado di soddisfare gli adempimenti di propria competenza (cfr. TAR Veneto Venezia Sez. I Sent., 15.02.2008, n. 385).
Proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio della ordinaria attività amministrativa dell’ente locale, la Commissione per l’accesso ha riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche contabile) dell’ente attraverso l’uso di password di servizio e, più recentemente, anche al protocollo informatico
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 29.11.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

APPALTI: OGGETTO: Richiesta di parere concernente il diritto di accesso ai documenti relativi a gara telematica per appalto del servizio di manovalanza relativo ai trasporti per esigenze del Ministero della Difesa.
Il Ministero istante riferisce che, dopo aver indetto una gara d’appalto per il servizio di manovalanza connesso ai trasporti relativi ad esigenze centrali e periferiche ministeriali, un consorzio stabile, classificatosi al secondo posto nella graduatoria della pubblica gara citata in oggetto, aveva richiesto di accedere ai sensi della legge n. 241/1990 a tutti gli atti di gara, ivi compresi quelli relativi all’offerta di una cooperativa risultata aggiudicataria dell’appalto, al fine di verificare il possesso da parte di quest’ultima dei requisiti di partecipazione ed eventualmente di valutare ipotesi di invalidità del contratto d’appalto ormai stipulato. L’amministrazione istante precisa che l’aggiudicataria controinteressata aveva espresso la propria opposizione all’accesso ad atti contenenti dati sensibili e riservati (relativi a contratti, progetti base ed altre informazioni concernenti il know how aziendale).
L’amministrazione, esprimendo dubbi sull’utilità dell’istanza di accesso, in quanto sarebbero decorsi i termini per impugnare l’aggiudicazione definitiva e difetterebbe la legittimazione dell’impresa partecipante, non aggiudicataria ad intentare azione di annullamento del contratto, chiede a questa Commissione se debba prevalere il principio di trasparenza amministrativa ovvero se l’accesso vada negato essendo finalizzato ad un controllo generalizzato sull’operato della p.a., tenuto anche conto della motivata opposizione del controinteressato per esigenze di riservatezza a tutela di segreti industriali.
Il primo tema al quale il Ministero ha fatto cenno nella richiesta di parere è precisamente quello dell’utilità dell’accesso ai documenti richiesti. Univoca è la giurisprudenza del G.A., alla quale anche questa Commissione si è uniformata, secondo cui l’Amministrazione, in sede di esame della istanza di accesso, non deve svolgere
nessun apprezzamento sull’utilità di detto accesso, ovvero in ordine alla fondatezza o alla ammissibilità della domanda che si intenda proporre a difesa della propria posizione posta a base della relativa istanza (cfr., Cons. Stato, sez. IV, 15.11.2004 n. 7349).
Il secondo tema riguarda il “contemperamento” fra l’esercizio del diritto all’accesso e la tutela della riservatezza. Anche in tal caso, è costante nella giurisprudenza amministrativa il principio generale secondo cui il diritto d’accesso ai documenti amministrativi prevale sull’esigenza di riservatezza del terzo, ogniqualvolta l’accesso venga in rilievo per la cura o la difesa di interessi giuridici del richiedente (fra le molte, cfr. Cons. Stato, sez. VI 26.04.2005 n. 1896). Con particolare riguardo al caso in esame, l’articolo 13, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006 stabilisce che, anche in caso di segreti industriali o commerciali "è comunque consentito l'accesso al concorrente che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto nell'ambito della quale viene formulata la richiesta di accesso".
Seppur in astratto non paiono configurabili segreti di sorta, tenuto conto della natura del servizio appaltato (servizio di manovalanza connessa a trasporti), tuttavia, al più, l'Amministrazione potrà intervenire con opportuni accorgimenti (cancellature o omissis) in relazione alle eventuali parti dell'offerta idonee a rivelare i segreti industriali a condizione che queste ultime "non siano state in alcun modo prese in considerazione in sede di gara" (Consiglio Stato, sez. VI, 07.06.2006, n. 3418 e Consiglio Stato, sez. VI, 20.04.2006, n. 2223)
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 29.11.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Richiesta di parere inerente i rapporti tra accesso ai documenti amministrativi e ricorso gerarchico amministrativo.
Con e-mail del 31.10.2011 l’istante ha chiesto di conoscere se il ricorso proposto a questa Commissione avverso un diniego di accesso a curriculum personali da parte di una fondazione interrompa o meno i termini per proporre il ricorso gerarchico avverso provvedimenti amministrativi adottati in pregiudizio dell’accedente.
La questione inerisce al coordinamento tra la disciplina dell’esercizio del diritto di accesso, nella parte in cui attribuisce la possibilità di ricorrere in via amministrativa alla Commissione avverso i dinieghi di accesso e le regole vigenti in tema di ricorsi gerarchici avverso i provvedimenti lesivi degli interessi dell’accedente.
Ciò premesso, la Commissione, pur comprendendo l’importanza e la delicatezza del problema prospettato, non si ritiene competente ad esprimere un parere ai sensi dell’art. 27 legge n 241/1990, inerendo ad una materia diversa da quella strettamente concernente l’esercizio del diritto di accesso.
Compito della Commissione è infatti quello di garantire la trasparenza dell'attività delle pubbliche amministrazioni, provvedendo anche a dare impulso al governo per modificare il tessuto normativo vigente in tema di accesso ai documenti amministrativi, ma senza poter entrare in altri ambiti, pur connessi, come quello del coordinamento tra la tutela giustiziale amministrativa in materia di accesso e quello della tutela, sempre amministrativa, avverso provvedimenti lesivi degli interessi degli amministrati
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 29.11.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Accesso dei consiglieri comunali agli elenchi delle cancellazioni anagrafiche predisposti dal Sindaco quale Ufficiale del Governo.
Il Sindaco del Comune istante manifesta dubbi sul diritto di accesso di un consigliere comunale agli elenchi anagrafici dei cittadini in quanto si tratta di atti che, essendo compiuti dal Sindaco quale Ufficiale del Governo, sarebbero esclusi, a dire dell’amministrazione, dal diritto riconosciuto ai consiglieri.
Si ritiene superfluo ricordare che, secondo l’orientamento giurisprudenziale (del Giudice amministrativo e della Commissione) in tema di diritto di accesso dei consiglieri comunali, ex art. 43, co. 2, TUEL è riconosciuta al consigliere comunale e provinciale un’ampia potestà di accesso a tutte le notizie ed informazioni, non comprimibile in nessun caso e per alcun motivo, essendo sufficiente che la richiesta di accesso attenga a informazioni inerenti allo svolgimento del mandato consiliare.
Né, tantomeno, rileva in senso contrario il fatto che le informazioni richieste concernano dati riservati trattati dal Sindaco nell’esercizio delle funzioni di Ufficiale di Governo (ai sensi dell’art. 54, comma 3, TUEL in materia di tenuta dei registri di stato civile e di popolazione). Infatti, ai sensi dell’art. 43, comma 2, TUEL ai consiglieri comunali è imposto l’obbligo di non divulgare il contenuto delle informazioni e degli atti segreti o riservati ai quali ha avuto accesso, incorrendo in caso negativo in responsabilità personale, ma nessun documento o atto può essere loro sottratto in ragione della sua eventuale segretezza o riservatezza.
Alla luce di quanto esposto, la Commissione ritiene sussistere il diritto del consigliere comunale di accedere agli elenchi e alle cancellazioni anagrafiche richieste al fine di esercitare le prerogative connesse all’esercizio del proprio mandato politico 
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 29.11.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Pagamento dell'imposta di bollo sull'istanza di accesso alle copie di documenti amministrativi.
L’amministrazione istante chiede se sia o meno “confermato” quanto previsto nella direttiva di questa Commissione n 27720/1749 del 28.02.1994 che ha escluso l’obbligo di pagamento dell’imposta di bollo sulla istanza di accesso e sulla copia informe rilasciata. Il dubbio che l’amministrazione si pone nascerebbe dal fatto che, diversamente dalla citata direttiva, una recente rivista di aggiornamento per enti locali ricomprenderebbe tra gli atti soggetti ad imposta di bollo anche l’istanza di accesso ai documenti amministrativi.
Questa Commissione ribadisce il contenuto della direttiva citata, rammentando che l’amministrazione non può sentirsi “vincolata” ad un non meglio precisato orientamento espresso in una rivista del settore enti locali
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 29.11.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CORTE DEI CONTI

INCARICHI PROFESSIONALI: Ritiene questo Collegio che, con riferimento all’incarico conferito ad un libero professionista, avvocato esterno all’Amministrazione, destinato sostanzialmente a sfociare in un parere legale, questo rientra sicuramente nell’ambito di previsione dell’art. 3, commi da 54 a 57, della legge finanziaria per il 2008.
Peraltro,
appare possibile ricondurre solo la rappresentanza/patrocinio legale nell’ambito dell’appalto di servizi, dovendosi fare in generale riferimento alla tipologia dei “servizi legali” di cui all’allegato 2B del d.lgs. n. 163/2006, che costituisce, ai sensi dell’art. 20 del decreto, uno dei contratti d’appalto di servizi cosiddetti “esclusi”, assoggettato alle sole norme del codice dei contratti pubblici richiamate dal predetto art. 20, nonché i principi indicati dal successivo art. 27 (trasparenza, efficacia, non discriminazione).
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Con la richiamata nota il Sindaco del Comune di Nocciano (PE) sottopone al parere della scrivente Sezione diversi quesiti:
1. se al servizio di consulenza legale, consistente nella redazione di pareri, in valutazioni, in espressione di giudizi utili per orientare le scelte dell'amministrazione su problematiche in materia amministrativa, civile o penale, debba applicarsi la normativa di cui all'art. 7, comma 6 e ss., del D.lgs 165/2001 o se invece debba applicarsi la normativa di cui al D.lgs 263/2006, allegato 118 ed in particolare quella sul cottimo fiduciario (art. 125, comma 11) mediante affidamento diretto;
2. se qualora la normativa applicabile risulti essere quella sugli incarichi esterni, l'ente sia tenuto alla liquidazione delle spettanze in favore del professionista e debba successivamente, -posto che la norma statuisce che in caso di omessa pubblicazione la liquidazione del corrispettivo per gli incarichi di collaborazione o consulenza di cui al presente comma costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale del dirigente preposto- attivare procedura di rivalsa nei confronti di chi, in assenza della pubblicazione, ha dato seguito ad un contratto inefficace, o se invece l'inosservanza di quanto stabilito dall'art. 3, comma 18, legge 244/2007 determina l'assoluta impossibilità dell'ente a provvedere alla liquidazione del compenso in favore del professionista che ha reso la propria prestazione professionale sulla base di un contratto valido ma inefficace.
In particolare, il Sindaco fa presente che,
• con delibera G.C. n. 29/2009 veniva affidato ad avvocato il servizio di assistenza legale in merito a problematiche, di diritto amministrativo, civile e penale, che non abbiano assunto la forma di contenzioso, per 1 anno, al fine di fornire un supporto sia agli amministratori che ai funzionari, con la stessa delibera veniva approvato apposito disciplinare di incarico;
• con successiva determina il responsabile competente provvedeva ad assumere impegno di spesa per € 5.000 oltre iva e cap;
• allo scadere del primo anno con delibera di G.C. n. 35/2010 veniva affidato, per un ulteriore anno, il servizio di assistenza legale al medesimo professionista;
In ottemperanza a detto incarico il professionista forniva la propria prestazione professionale rilasciando pareri sia scritti che verbali sia su richiesta degli organi politici che dei responsabili di servizio, per i periodi stabiliti e richiedeva il pagamento del corrispettivo pattuito.
L'attuale responsabile, nell'eseguire l'istruttoria per la liquidazione delle spettanze del prefato professionista, e ritenendo applicabile alla fattispecie la normativa sugli incarichi ad esterni, rileva quanto segue:
1. il conferimento dell'incarico in oggetto sembrerebbe avvenuto in assenza di procedura comparativa in ossequio dei principi di pubblicità, trasparenza e obiettività e comunque senza confronto fra più curricula.
2. L'attività di cui è stato incaricato il professionista, oggetto dell'incarico, non ha un contenuto dettagliato.
3. Non risulta adottata dall'ente una disciplina regolamentare della materia ai sensi dei commi 55 e ss. dell'art. 3 della Legge finanziaria 2008.
4. risulta una inosservanza dell'obbligo di pubblicazione sul sito web del provvedimento di incarico, secondo quanto stabilito dall'art. 3, comma 18, legge 244/2007, in forza del quale: "I contratti relativi a rapporti di consulenza con le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, sono efficaci a decorrere dalla data di pubblicazione del nominativo del consulente, dell'oggetto dell'incarico e del relativo compenso sul sito istituzionale dell'amministrazione stipulante."
La norma in esame non specifica quando deve essere pubblicato l'incarico sul sito internet, ma di fatto rende inefficace un contratto che (pur giuridicamente valido) non è stato ancora reso pubblico, tuttavia nel caso di specie non è stato provveduto ad inserire sul proprio sito web nominativo, oggetto e compenso previsto per l'incarico né prima della stipula del disciplinare né dopo.
...
L’art. 3, commi da 54 a 57, della legge 24.12.2007, n. 244 ha fissato regole di carattere procedimentale e sostanziale alle quali gli enti locali debbono conformarsi per il conferimento di incarichi di collaborazione, di studio e di ricerca nonché di consulenze a soggetti estranei all’amministrazione.
Il dato di maggiore rilievo della disciplina dettata dalla legge finanziaria 2008 è, da una parte, l’obbligo di normazione regolamentare dei limiti, criteri e modalità di affidamento degli incarichi di cui sopra nonché del tetto di spesa annua, dall’altro la subordinazione del conferimento dell’incarico e delle consulenze ad un documento programmatico approvato dal Consiglio.
Le disposizioni operano su piani diversi.
Le norme regolamentari dettano una disciplina generale ed astratta per l’affidamento dell’incarico, disciplina alla quale deve uniformarsi ciascun provvedimento in concreto adottato dall’amministrazione.
Il primo contenuto precettivo del comma 56 dell’art. 3 della legge finanziaria per il 2008 è l’obbligo, posto in capo all’ente locale, di dettare norme regolamentari compiute in materia (debbono essere infatti fissati limiti, modalità e criteri per l’affidamento dell’incarico o della consulenza).
Prima della emanazione del citato comma 56, art. 3, legge 244/2007 non necessariamente l’ente locale era munito di una disciplina regolamentare degli incarichi. E’ sufficiente ricordare in proposito il quarto comma dell’art. 89 del T.U.E.L.
L’adozione delle norme regolamentari deve avvenire nel rispetto delle competenze e delle procedure previste dal T.U.E.L.
Va allora posta in evidenza l’autonomia statutaria degli enti locali, con la conseguenza che lo statuto è il punto di riferimento primario nell’adozione dei regolamenti, sia per quanto riguarda la dislocazione delle competenze per la loro emanazione, sia per quanto riguarda i principi ai quali deve conformarsi il testo normativo.
In mancanza di norme statutarie derogatorie la competenza ad adottare regolamenti degli uffici e dei servizi appartiene alla Giunta, nel rispetto però dei criteri generali stabiliti dal consiglio (art. 48, terzo comma, ed art. 42, secondo comma, lett. a, del T.U.E.L.)
Altro punto di riferimento relativamente al contenuto delle norme regolamentari sono i criteri generali fissati dal Consiglio. Il testo del comma 56 citato sembra in ogni caso presupporre la necessità di comunque rivalutare in sede regolamentare la materia degli incarichi e delle consulenze per stabilire più stringenti criteri ed in ogni caso il limite massimo della spesa (complessiva).
Può, pertanto, affermarsi che, sia nella ipotesi in cui non siano state precedentemente inserite nel regolamento di organizzazione disposizioni sul conferimento di incarichi e consulenze, sia nella ipotesi in cui sia necessario modificare “in parte qua” detto regolamento, il Consiglio comunale deve previamente fissare i criteri ai quali la Giunta dovrà attenersi nell’adozione delle norme regolamentari.
Le attività da regolamentare secondo le disposizioni contenute nell’art. 3, commi 54-57, della legge finanziaria per il 2008 riguardano una pluralità di ipotesi non omogenee, in quanto la disciplina ivi prevista si applica sia agli incarichi di collaborazione sia a quelli di studio e ricerca, sia alle consulenze.
In particolare gli incarichi di collaborazione attengono a due finalità diverse, e cioè integrare gli organi di staff del sindaco o degli assessori ovvero supportare l’attività degli ordinari uffici dell’ente. Le differenze non sono irrilevanti.
Nella prima ipotesi gli incarichi di collaborazione possono essere conferiti dal Sindaco o dagli assessori competenti “intuitu personae” a soggetti che rispondono a determinati requisiti di professionalità entro i limiti, anche di spesa, secondo i criteri e con le modalità previste nel regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi e fermo restando il limite massimo di durata dell’incarico da conformarsi alla permanenza in carica del soggetto competente.
Nella seconda ipotesi il discorso è più complesso.
Va innanzitutto ricordato che le norme regolamentari intese a disciplinare detti incarichi debbono adeguarsi, in forza dell’art. 34, comma 6-ter, della legge n. 248/2006 di conversione del D.l. n. 223/2006, ai principi contenuti nell’art. 32 della medesima legge, dettati a fini di contenimento della spesa e del coordinamento della finanza pubblica. La vicenda, peraltro, si inserisce nel più complesso discorso della provvista di personale a tempo determinato per lo svolgimento dell’attività dell’ente. Le disposizioni regolamentari vanno, pertanto, coordinate con le norme di cui all’art. 3, commi da 90 a 96, dell’art. 3 della legge finanziaria 2008.
In ogni caso qualsiasi contratto di lavoro a tempo determinato o di collaborazione coordinata e continuativa deve essere preceduto da procedure selettive di natura concorsuale in forza dei noti principi costituzionali, oltre che delle specifiche disposizioni da ultimo richiamate (cfr., sulla esigenza di rispettare i principi costituzionali di organizzazione, la sentenza della Corte Cost. n. 27 del 21.02.2008), senza far riferimento alle soglie di ricorso alle procedure selettive previste in materia di lavori pubblici, del tutto estranee alla materia.
L’organo competente a conferire l’incarico è il dirigente preposto al settore, secondo il normale ordine delle attribuzioni.
Più ampi sono gli adempimenti previsti per l’affidamento di incarichi di studio o di ricerca, ovvero di consulenze a soggetti estranei all’amministrazione.
Infatti ai sensi dell’art. 3, comma 55, della legge finanziaria per il 2008 “l’affidamento da parte degli enti locali di incarichi di studio o di ricerca, ovvero di consulenze, a soggetti estranei all’amministrazione può avvenire solo nell’ambito di un programma approvato dal Consiglio ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. b), T.U.E.L.
La norma da ultimo citata comprende un’ampia tipologia di documenti programmatici di competenza del Consiglio; di conseguenza gli incarichi di cui si parla debbono essere previsti nel loro oggetto da documenti programmatici, che scontino con adeguata motivazione la necessità/opportunità di ricorrere all’incarico. La spesa prevista dovrà poi essere inserita, concorrendo al limite massimo fissato nel regolamento, nell’apposito stanziamento del bilancio annuale. Va, peraltro, precisato che il limite massimo di spesa indicato nel regolamento deve essere fissato discrezionalmente dall’ente secondo criteri di razionalità e rapportato alle dimensioni dell’ente con particolare riguardo alla spesa per il personale.
Infatti, secondo giurisprudenza amministrativa consolidata (cfr. Cons. di St., sez. IV, sentenza n. 263/2008)
l’incarico professionale (di consulenza, studio o ricerca) in linea generale si configura come contratto di prestazione d’opera ex artt. 2222-2238 c.c. riconducibile al modello della locatio operis, rispetto al quale assume rilevanza la personalità della prestazione resa dall’esecutore. Concettualmente distinto rimane, pertanto, l’appalto di servizi, il quale ha ad oggetto la prestazione imprenditoriale di un risultato resa da soggetti con organizzazione strutturata e prodotta senza caratterizzazione personale. Ciò fatto salvo quanto disposto dall’art. 91 D.Lgs. n. 163/2006 per gli incarichi di progettazione.
Esemplificativamente
con riferimento all’incarico conferito ad un libero professionista avvocato esterno all’Amministrazione, va distinta l’ipotesi della richiesta di una consulenza, studio o ricerca, destinata sostanzialmente a sfociare in un parere legale, rispetto alla rappresentanza e patrocinio giudiziale.
La prima ipotesi rientra sicuramente nell’ambito di previsione dell’art. 3, commi da 54 a 57, della legge finanziaria per il 2008.
La seconda, invece, esorbita concettualmente dalla nozione di consulenza, e quindi ad essa non potrà applicarsi la disciplina della legge finanziaria per il 2008 sopra indicata.

Peraltro, appare possibile ricondurre la rappresentanza/patrocinio legale nell’ambito dell’appalto di servizi, dovendosi fare in generale riferimento alla tipologia dei “servizi legali” di cui all’allegato 2B del D.Lgs. n. 163/2006, che costituisce, ai sensi dell’art. 20 del decreto, uno dei contratti d’appalto di servizi cosiddetti “esclusi”, assoggettato alle sole norme del codice dei contratti pubblici richiamate dal predetto art. 20, nonché i principi indicati dal successivo art. 27 (trasparenza, efficacia, non discriminazione ecc.).
Va affermato che
il legislatore, positivizzando principi di origine pretoria, segnatamente della giurisprudenza contabile, all’art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001 ha indicato i presupposti essenziali per il ricorso agli incarichi esterni:
- l’oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall’ordinamento all’amministrazione conferente e ad obiettivi e progetti specifici e determinati;
- l’amministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno;
- la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata;
- devono essere preventivamente determinati durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione.

Inoltre è previsto che le amministrazioni pubbliche disciplinino e rendano pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure comparative per il conferimento degli incarichi e che i regolamenti di cui all’art. 110, co. 6, del D.Lgs. n. 267/2000 si adeguino ai principi suindicati.
Le leggi finanziarie, oltre a fissare precisi limiti di spesa per gli incarichi esterni, hanno rafforzato il regime di trasparenza degli stessi, attraverso l’obbligo della pubblicità e dell’adeguata motivazione, ed il controllo sui medesimi in capo agli organi interni e alla Corte dei conti (L. n. 662/1996, D.l n. 168/2004, L. n. 311/2004, L. n. 266/2005).
Com’è noto
il D.L. n. 168/2004 ha distinto tre tipologie di incarichi esterni: di studio, di ricerca, di consulenza.
La Corte dei conti SS.RR. in sede di controllo (delib. n. 6 del 15.02.2005) ne ha fornito una definizione:
per gli incarichi di studio il riferimento è all’art. 5 D.P.R. n. 338/1994 che richiede sempre la consegna di una relazione scritta; gli incarichi di ricerca presuppongono la preventiva definizione del programma da parte dell’amministrazione; le consulenze si sostanziano nella richiesta di un parere ad un esperto esterno.
Il tratto che accomuna le differenti tipologie è, secondo le SS.RR., la sostanziale riconducibilità di tali fattispecie alla categoria del contratto di lavoro autonomo, più precisamente il contratto di prestazione d’opera intellettuale ex artt. 2229-2239 c.c.

Restano esclusi, quindi, da questo ambito i “rapporti di collaborazione coordinata e continuativa”, che, com’è noto, rappresentano una posizione intermedia fra il lavoro autonomo, proprio dell’incarico professionale, e il lavoro subordinato (art. 409, n. 3 c.p.c.). Gli incarichi di collaborazione coordinata e continuativa, infatti, per la loro stessa natura, che prevede la continuità della prestazione ed un potere di direzione dell’amministrazione, in via concettuale apparirebbero incompatibili con gli incarichi esterni, caratterizzati (di norma) dalla temporaneità e dall’autonomia della prestazione.
Resta fermo peraltro, secondo le SS.RR., che, qualora un atto rechi il nome di collaborazione coordinata e continuativa, ma, per il suo contenuto, rientri nella categoria degli incarichi di studio o di ricerca o di consulenza, il medesimo sarà soggetto al limite di spesa, alla motivazione, ai controlli ed alle altre prescrizioni imposte dalla normativa generale sugli incarichi esterni.
In particolare gli incarichi di studio possono essere conferiti a soggetti particolarmente qualificati nella materia. Essi debbono avere ad oggetto materie di interesse del soggetto che li conferisce, avere durata certa e concludersi con la presentazione di elaborati espositivi dei risultati dello studio o della ricerca. Tutti questi elementi debbono risultare dall’atto di conferimento dell’incarico di studio, che regola il rapporto tra soggetto conferente ed incaricato.
Il comma 56 dell’art. 3 della legge finanziaria per il 2008 sottopone alla dettagliata disciplina regolamentare, oltre che gli incarichi di “studio o di ricerca ovvero di consulenze”, anche quelli di “collaborazione”.
Del tutto al di fuori dell’ambito di applicazione del comma 56 risultano essere gli incarichi conferiti ex art. 90 del TUEL (Uffici di supporto agli organi di direzione politica), ossia le cosiddette “collaborazioni di staff”. Infatti l’art. 90 TUEL fa espresso riferimento a dipendenti dell’ente ovvero a “collaboratori assunti con contratto a tempo determinato” (collocati, se dipendenti da una pubblica amministrazione, in aspettativa senza assegni), cui si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali e, quindi, a figure professionali sostanzialmente riconducibili al rapporto di lavoro subordinato.
Più complesso è il discorso relativo all’esatta delimitazione delle cosiddette “collaborazioni coordinate e continuative” (ex art. 409 n. 3 c.p.c.) e alla loro distinzione rispetto agli incarichi di consulenza.
Costituisce ormai un principio condiviso (cfr. Corte dei conti delib. SS.RR. n. 6/2005 nonché circolare Dip. Funz. Pubbl. 15.03.2005) quello secondo cui dalla lettura sistematica delle disposizioni delle leggi finanziarie più recenti (cfr. legge n. 311/2004 finanziaria per il 2005 e legge n. 266/2005 finanziaria per il 2006 le quali fissano tetti di spesa separati per incarichi di consulenza e co.co.co., in particolare conglobando contratti a termine e co.co.co. in un unico tetto di spesa) emerge l’intenzione del legislatore di stabilire una linea di demarcazione tra le collaborazioni ad alto contenuto professionale e le altre “semplici” collaborazioni coordinate e continuative. Le prime hanno ad oggetto prestazioni implicanti un’alta specializzazione (non rinvenibile nelle normali competenze del personale della P.A.) e una correlativa attività lavorativa sostanzialmente autonoma. Le altre co.co.co. sono state spesso utilizzate negli ultimi anni (analogamente ai contratti di lavoro a tempo determinato e a fronte dei tagli o blocchi delle assunzioni di lavoratori subordinati nella P.A.) per l’espletamento di prestazioni ordinarie non richiedenti un elevato grado di autonomia organizzativa.
Pertanto, il criterio per distinguere le collaborazioni ad alto contenuto professionale dalle semplici co.co.co. va ravvisato in un canone di sostanzialità, in base al contenuto della prestazione ed alle modalità di svolgimento della stessa (cfr. anche Corte conti sez. giur. reg. Umbria n. 447/2005).
Questa logica distintiva appare ancora attuale nell’impianto della legge finanziaria per il 2008, ed anzi è portata all’estreme conseguenze.
Da un lato l’utilizzo delle “ordinarie” co.co.co. appare attualmente fortemente ristretto: la logica della legge finanziaria per il 2008 è, infatti, quella di evitare il formarsi di precariato nella P.A., anche attraverso un rigido contenimento del lavoro flessibile (cfr. art. 3, comma 79), con la conseguenza che per l’espletamento delle ordinarie attività amministrative varrà il principio generale “dell’autosufficienza”.
Dall’altro lato, vengono ulteriormente fissati i limiti alle collaborazioni esterne ad elevata professionalità prevedendo, per queste ultime, gli adempimenti di cui ai commi 53-57 dell’art. 3.
L’individuazione dell’alta professionalità risulta peraltro subordinata al requisito della “particolare e comprovata specializzazione universitaria” di cui al comma 76 dell’art. 3 della legge finanziaria per il 2008.
Le collaborazioni ad elevata professionalità, pertanto, rientrano nell’ambito di applicazione del comma 56 dell’art. 3 legge finanziaria per il 2008 e quindi necessitano della disciplina ad opera del regolamento dell’ente locale. Le altre “semplici” co.co.co., al contrario, ne sono escluse; peraltro l’utilizzo di quest’ultime non risulta conforme alla logica sottostante alla legge finanziaria 2008, che è quella di limitare l’instaurazione di rapporti di lavoro parasubordinato e/o flessibile per l’esercizio di attività amministrative ordinarie.
Conseguentemente,
ritiene questo Collegio, così come previsto nelle “Linee di Indirizzo e criteri interpretativi dell’art. 3, commi 54-57 della l. 244/2007 in materia di regolamento degli enti locali per l’affidamento di incarichi di collaborazione, studio, ricerca e consulenza” emanate dalla Sezione Autonomie nell’Adunanza del 14.03.2008, che, con riferimento all’incarico conferito ad un libero professionista, avvocato esterno all’Amministrazione, destinato sostanzialmente a sfociare in un parere legale, questo rientra sicuramente nell’ambito di previsione dell’art. 3, commi da 54 a 57, della legge finanziaria per il 2008.
Peraltro,
appare possibile ricondurre solo la rappresentanza/patrocinio legale nell’ambito dell’appalto di servizi, dovendosi fare in generale riferimento alla tipologia dei “servizi legali” di cui all’allegato 2B del d.lgs. n. 163/2006, che costituisce, ai sensi dell’art. 20 del decreto, uno dei contratti d’appalto di servizi cosiddetti “esclusi”, assoggettato alle sole norme del codice dei contratti pubblici richiamate dal predetto art. 20, nonché i principi indicati dal successivo art. 27 (trasparenza, efficacia, non discriminazione).
Per ciò che concerne la richiesta relativa al comportamento del Comune ed in particolare se “l'ente sia tenuto alla liquidazione delle spettanze in favore del professionista e debba successivamente, attivare procedura di rivalsa nei confronti di chi, in assenza della pubblicazione, ha dato seguito ad un contratto inefficace, o se invece l'inosservanza di quanto stabilito dall'art. 3, comma 18, legge 244/2007 determina l'assoluta impossibilità dell'ente a provvedere alla liquidazione del compenso in favore del professionista che ha reso la propria prestazione professionale sulla base di un contratto valido ma inefficace” si ricorda che l’attività consultiva di cui all’art. 7, comma 8, della Legge 131/2003, intestata alle Sezioni regionali di controllo della Corte, non può riferirsi a scelte o a comportamenti amministrativi specifici, riconducibili all’ambito di esercizio della discrezionalità amministrativa del singolo ente.
Nei documenti d’indirizzo sopra richiamati, viene infatti precisato che possono rientrare nella funzione consultiva della Corte dei Conti le sole “questioni volte ad ottenere un esame da un punto di vista astratto e su temi di carattere generale”, dovendo quindi ritenersi inammissibili le richieste concernenti valutazioni su casi o atti gestionali specifici.
Per questo motivo,
il Collegio ritiene di non poter effettuare una valutazione sulla correttezza del comportamento dell’Ente per non incorrere nel coinvolgimento diretto di questa Sezione nell’amministrazione attiva di competenza dell’Ente interessato, non rientrante nei canoni dalla funzione consultiva demandata alla Corte dei conti (Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo, parere 30.04.2013 n. 25).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA Permesso di costruire - Annullamento in autotutela poi annullato in giudizio: chi decide sulla restituzione dell'oblazione?
Applicando alla controversia sottoposta alla sua cognizione principi già elaborati in caso di domanda di restituzione dell’oblazione corrisposta per la sanatoria di un immobile abusivo, la Suprema Corte pone un limite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in ipotesi di controversia attinente ad un provvedimento di annullamento in autotutela del permesso di costruzione, a sua volta successivamente annullato in sede giurisdizionale.
L’interpretazione costituzionalmente orientata, alla luce dell’art. 103, primo comma, della Costituzione, il quale richiede che la P.A. abbia agito nella veste di autorità, dell’art. 38 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, al pari di quella del D.lgs. 31.03.1998, n. 80, art. 34, comma 1, che ha devoluto alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto l’attività delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti alle stesse equiparati in materia di urbanistica ed edilizia (come sostituito dalla legge 21.07.2000, n. 205, art. 7, lett. b), e quale risulta dalla declaratoria della sua parziale illegittimità costituzionale con sentenza n. 281/2004), non consente di ricomprendere nella giurisdizione esclusiva attribuita al Giudice amministrativo in tema di sanzione pecuniaria le controversie nelle quali, essendo assente ogni profilo riconducibile all’esercizio dei poteri autoritativi, le parti vengono a porsi in una posizione sostanzialmente paritaria.
In particolare, mentre rientrano nella giurisdizione esclusiva quelle concernenti la regolarità del procedimento di sanatoria dell’abuso edilizio, e quelle aventi ad oggetto il diritto dell’interessato a giovarsi del procedimento ex art. 38 citato ed a ottenere il rimborso delle somme di cui risulta creditore a seguito della determinazione definitiva dell’importo della sanzione pecuniaria da parte del dirigente dell’ufficio competente, diversamente deve essere affermato quanto alle somme versate, nel caso in cui sia divenuta definitiva la sentenza di annullamento del provvedimento in autotutela, che annullava il permesso di costruzione, e sul quale ultimo si fondava il procedimento di cui all’art. 38 T.U. n. 380/2001 e la conseguente sanzione pecuniaria irrogata.
In tale ipotesi, infatti, l’atto di irrogazione della sanzione è sine causa, sia pure non originaria ma sopravvenuta, e quindi nullo, con la conseguenza che l’interessato ha diritto di ripetere a titolo di indebito la somma versata.
Tuttavia, alla parte che agisce per la restituzione dell’indebito si contrappone una pubblica amministrazione che, esaurito il procedimento sanzionatorio di cui al citato art. 38, non è qualificata in ordine ai tempi ed ai modi del pagamento delle somme richieste da alcun residuo potere, che valga a ricomprendere la controversia relativa al diritto alla restituzione nella materia attribuita alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo soltanto in ragione dell’originario esercizio rispetto ad essa di una attività discrezionale dell’amministrazione, coinvolgente anche i diritti soggettivi dell’interessato.
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La decisione in sintesi
● Esito del ricorso:
- Cassa con rinvio, Consiglio di Stato, sentenza 15.12.2011, n. 6613
● I precedenti giurisprudenziali:
- Cassazione civile, Sez. Un, sentenza 31.05.2011, n. 11965
- Cassazione civile, Sez. Un, sentenza 15.12.2008, n. 29291
- Corte costituzionale, sentenza 28.07.2004, n. 281
● Riferimenti normativi:
- Cod. Civ. art. 2033 Cost.
- art. 103 Cost. art. 111
- D.P.R. 06/06/2001 num. 380
- art. 38 D.lgs. 31/03/1998 num. 80 art. 34
(Corte di Cassazione civile, sentenza 24.05.2013 n. 12899 - tratto da www.ispoa.it).

AGGIORNAMENTO AL 03.06.2013

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IN EVIDENZA

APPALTI - LAVORI PUBBLICIAnche dopo le modifiche introdotte dal c.d. decreto sviluppo di cui al d.l. n. 70/2011, è rimasta inalterata la facoltà delle amministrazioni aggiudicatrici di richiedere, a pena di esclusione, tutti i documenti e gli elementi ritenuti necessari o utili per identificare e selezionare i partecipanti ad una procedura concorsuale nel rispetto del principio di proporzionalità, ai sensi degli art. 73 e 74 del Codice dei contratti.
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Con riferimento all’attestazione del r.u.p. di presa visione dei luoghi dove devono eseguirsi i lavori, imposta dal disciplinare di gara, un orientamento ha affermato che con il richiedere tale attestazione “la stazione appaltante pone a carico dell'appaltatore un preciso dovere cognitivo, cui corrisponde una altrettanto precisa responsabilità contrattuale di quest’ultimo. La provenienza di detto documento dall’amministrazione aggiudicatrice assicura a quest’ultima maggiore tutela, a presidio dell'interesse, di ordine imperativo, all’individuazione del contraente più idoneo nonché alla correttezza e regolarità della gara, in un ottica dunque di rafforzamento degli adempimenti dichiarativi imposti dall'art. 71, comma 2, del D.P.R. n. 554/1999 e dunque in coerenza con l'interesse pubblico sotteso a tale norma di azione”.
Tuttavia, nel caso di specie, il Comune ha introdotto un requisito di partecipazione ingiustamente limitativo della concorrenza in quanto ha imposto alle imprese di partecipare ad un sopralluogo prima della scadenza del termine di presentazione delle istanza di partecipazione.
In questo modo le imprese che hanno conosciuto all’ultimo momento il bando od hanno deciso di partecipare alla gara nel periodo intercorrente tra il giorno del sopralluogo e la scadenza del termine per la partecipazione, erano in sostanza già escluse dalla gara in quanto non in grado di presentare la suddetta attestazione del r.u.p.
L’adempimento richiesto viola quindi il principio di proporzionalità ed il termine di partecipazione alla gara, in quanto imponendo l’obbligo di maturare requisiti di partecipazione alla gara in data anteriore al termine finale di partecipazione, ha sostanzialmente ridotto i termini di partecipazione ed ha introdotto un adempimento non assolvibile dalle imprese che venivano a conoscenza del bando in data successiva alla data del sopralluogo ma prima della scadenza dei termini di partecipazione alla gara.
A ciò si aggiunge che l’attestazione del r.u.p. di presa visione dei luoghi dove devono eseguirsi i lavori è requisito che non trova adeguato supporto normativo in quanto l’art. 106 del D.P.R. 207/2010, nell’intento evidente di semplificare le modalità di partecipazione alla gara, si limita a prevedere la dichiarazione di sopralluogo a cura del partecipante e la richiede esclusivamente per gli appalti e le concessioni di lavori pubblici.
Occorre rammentare in merito che lo scopo della riforma delle cause di esclusione è stata quella di porre un freno al proliferare delle cause di esclusione inventate dall’amministrazione e giungere a rendere più omogenei e prevedibili i bandi, ottenendo così un freno al proliferare della litigiosità giudiziaria.
Con riferimento alla conoscenza dei luoghi occorre rammentare che la giurisprudenza amministrativa precedente la riforma considerava generalmente sufficiente ai fini dell’ammissione alla gara la dichiarazione di sopralluogo a prescindere dalle modalità con cui esso sia stato eseguito, a meno che non fosse espressamente richiesto anche uno specifico verbale di sopralluogo sulle relativa modalità.
La prescrizione del bando di gara che richiede, tra i documenti da allegare all’offerta, la certificazione, con la quale la stazione appaltante, e per essa il responsabile del procedimento, attesti l'effettiva presa visione del progetto e dei luoghi in cui debbono eseguirsi i lavori, è stata sempre considerata una previsione derivante da una scelta discrezionale della stazione appaltante ispirata all’intento di integrare e rafforzare, ma soprattutto verificare, con apposita certificazione del responsabile del procedimento, la dichiarazione prevista dall’art. 71, comma 2, del D.P.R. n. 554/1999 già resa dai concorrenti.
Si tratta quindi in sostanza dell’introduzione di un adempimento formale, privo di base normativa e con funzione esclusivamente rafforzativa delle garanzie di legge, che si pone in contrasto con le esigenze di semplificazione e standardizzazione dei bandi perseguita dal c.d. decreto sviluppo e da altre disposizioni normative, quali quelle introduttive dei bandi tipo.
Ne consegue che deve ritenersi sufficiente ai fini dell’ammissione ad una gara la dichiarazione di sopralluogo a prescindere dalle modalità con cui esso sia stato eseguito, e deve escludersi che la mancanza dell’attestazione del r.u.p. possa costituire causa di esclusione, avendo il legislatore già disciplinato la materia della conoscenza dei luoghi senza prevedere tale adempimento meramente formale.

In merito ai requisiti richiesti dal bando di gara per la partecipazione, la giurisprudenza ha già avuto modo di precisare come anche dopo le modifiche introdotte dal c.d. decreto sviluppo di cui al d.l. n. 70/2011, sia rimasta inalterata la facoltà delle amministrazioni aggiudicatrici di richiedere, a pena di esclusione, tutti i documenti e gli elementi ritenuti necessari o utili per identificare e selezionare i partecipanti ad una procedura concorsuale nel rispetto del principio di proporzionalità, ai sensi degli art. 73 e 74 del Codice dei contratti (cfr. Cons. Stato, Sez, V, 12.06.2012, n. 3884).
Con riferimento in particolare all’attestazione del r.u.p. di presa visione dei luoghi dove devono eseguirsi i lavori, imposta dal disciplinare di gara, un orientamento ha affermato che con il richiedere tale attestazione “la stazione appaltante pone a carico dell'appaltatore un preciso dovere cognitivo, cui corrisponde una altrettanto precisa responsabilità contrattuale di quest’ultimo. La provenienza di detto documento dall’amministrazione aggiudicatrice assicura a quest’ultima maggiore tutela, a presidio dell'interesse, di ordine imperativo, all’individuazione del contraente più idoneo nonché alla correttezza e regolarità della gara, in un ottica dunque di rafforzamento degli adempimenti dichiarativi imposti dall'art. 71, comma 2, del D.P.R. n. 554/1999 e dunque in coerenza con l'interesse pubblico sotteso a tale norma di azione”.
Venendo al caso in questione occorre rilevare che il Comune di Canegrate ha introdotto un requisito di partecipazione ingiustamente limitativo della concorrenza in quanto ha imposto alle imprese di partecipare ad un sopralluogo prima della scadenza del termine di presentazione delle istanza di partecipazione.
In questo modo le imprese che hanno conosciuto all’ultimo momento il bando od hanno deciso di partecipare alla gara nel periodo intercorrente tra il giorno del sopralluogo e la scadenza del termine per la partecipazione, erano in sostanza già escluse dalla gara in quanto non in grado di presentare la suddetta attestazione del r.u.p.
L’adempimento richiesto viola quindi il principio di proporzionalità ed il termine di partecipazione alla gara, in quanto imponendo l’obbligo di maturare requisiti di partecipazione alla gara in data anteriore al termine finale di partecipazione, ha sostanzialmente ridotto i termini di partecipazione ed ha introdotto un adempimento non assolvibile dalle imprese che venivano a conoscenza del bando in data successiva alla data del sopralluogo ma prima della scadenza dei termini di partecipazione alla gara.
A ciò si aggiunge, secondo il Collegio, che l’attestazione del r.u.p. di presa visione dei luoghi dove devono eseguirsi i lavori è requisito che non trova adeguato supporto normativo in quanto l’art. 106 del D.P.R. 207/2010, nell’intento evidente di semplificare le modalità di partecipazione alla gara, si limita a prevedere la dichiarazione di sopralluogo a cura del partecipante e la richiede esclusivamente per gli appalti e le concessioni di lavori pubblici.
Occorre rammentare in merito che lo scopo della riforma delle cause di esclusione è stata quella di porre un freno al proliferare delle cause di esclusione inventate dall’amministrazione e giungere a rendere più omogenei e prevedibili i bandi, ottenendo così un freno al proliferare della litigiosità giudiziaria.
Con riferimento alla conoscenza dei luoghi occorre rammentare che la giurisprudenza amministrativa precedente la riforma considerava generalmente sufficiente ai fini dell’ammissione alla gara la dichiarazione di sopralluogo a prescindere dalle modalità con cui esso sia stato eseguito, a meno che non fosse espressamente richiesto anche uno specifico verbale di sopralluogo sulle relativa modalità (Cons. St., sez. V, 07.07.2005 n. 3729).
La prescrizione del bando di gara che richiede, tra i documenti da allegare all’offerta, la certificazione, con la quale la stazione appaltante, e per essa il responsabile del procedimento, attesti l'effettiva presa visione del progetto e dei luoghi in cui debbono eseguirsi i lavori, è stata sempre considerata una previsione derivante da una scelta discrezionale della stazione appaltante ispirata all’intento di integrare e rafforzare, ma soprattutto verificare, con apposita certificazione del responsabile del procedimento, la dichiarazione prevista dall’art. 71, comma 2, del D.P.R. n. 554/1999 già resa dai concorrenti (TAR Lazio, Latina, 24.10.2003 n. 868; cfr., altresì, Cons. St., sez. IV, 13.09.2001 n. 4805; TAR Basilicata, Potenza, 05.11.2004 n. 742).
Si tratta quindi in sostanza dell’introduzione di un adempimento formale, privo di base normativa e con funzione esclusivamente rafforzativa delle garanzie di legge, che si pone in contrasto con le esigenze di semplificazione e standardizzazione dei bandi perseguita dal c.d. decreto sviluppo e da altre disposizioni normative, quali quelle introduttive dei bandi tipo.
Ne consegue che deve ritenersi sufficiente ai fini dell’ammissione ad una gara la dichiarazione di sopralluogo a prescindere dalle modalità con cui esso sia stato eseguito, e deve escludersi che la mancanza dell’attestazione del r.u.p. possa costituire causa di esclusione, avendo il legislatore già disciplinato la materia della conoscenza dei luoghi senza prevedere tale adempimento meramente formale (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 31.05.2013 n. 1434 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Disposizioni transitorie per la pianificazione comunale. Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) (LCR n. 1 approvata nella seduta del 28.05.2013 in attesa di pubblicazione sul BURL - tratto da www.consiglio.regione.lombardia.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - VARI: G.U. 21.05.2013 n. 117 "Regole tecniche in materia di generazione, apposizione e verifica delle firme elettroniche avanzate, qualificate e digitali, ai sensi degli articoli 20, comma 3, 24, comma 4, 28, comma 3, 32, comma 3, lettera b) , 35, comma 2, 36, comma 2, e 71" (D.P.C.M. 22.02.2013).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L. Spallino, Proroga dei termini per l'approvazione dei PGT: cosa cambia per chi ha adottato ma non ancora approvato (30.05.2013 - link a http://studiospallino.blogspot.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Oggetto: Lavori pubblici e iscrizioni a piattaforme telematiche (ANCE Bergamo, circolare 31.05.2013 n. 132).

UTILITA'

SICUREZZA LAVOROTesto Unico della Sicurezza sul Lavoro, ecco la versione aggiornata a maggio 2013 con note e commenti.
Il Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, in vigore dal 15.05.2008 (D.Lgs. 81/2008), nel corso del tempo ha subito diverse modifiche ed integrazioni.
In allegato a questo articolo proponiamo la versione aggiornata a maggio 2013 pubblicata sul sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Il testo, corredato da allegati, note e commenti e da un’ampia appendice normativa, è coordinato con le più recenti disposizioni integrative e correttive:
Decreto Interministeriale 04.03.2013: criteri generali di sicurezza relativi alle procedure di revisione, integrazione e apposizione della segnaletica stradale destinata alle attività lavorative che si svolgono in presenza di traffico veicolare;
Decreto Interministeriale 06.03.2013: criteri di qualificazione della figura del formatore per la salute e sicurezza sul lavoro;
Circolare n. 9/2013 del 05/03/2013: D.M. 11.04.2011 – chiarimenti;
Circolare n. 12/2013 del 11/03/2013: accordo 22.02.2012 in attuazione dell’articolo 73, comma 5, del decreto legislativo 09.04.2008, n. 81 – chiarimenti.
Decreto Interministeriale del 27.03.2013: semplificazione in materia di informazione, formazione e sorveglianza sanitaria dei lavoratori stagionali del settore agricolo;
Decreto Legislativo 13.03.2013, n. 32 che modifica l’art. 6, comma 8;
Interpelli dal n. 1 al 7 del 2013;
sostituzione del Decreto Dirigenziale del 19.12.2012 con il Decreto Dirigenziale del 24.04.2013 dei soggetti abilitati per l’effettuazione delle verifiche periodiche di cui all’art. 71, comma 11 (30.05.2013 - link a www.acca.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA- SICUREZZA LAVORODall’INAIL la guida su come valutare il rischio biologico nella bonifica dei siti contaminati.
Il problema dell’inquinamento dei suoli e delle falde acquifere da parte dei contaminanti organici di svariata natura chimica (idrocarburi, naftoli, pesticidi) è particolarmente rilevante in numerose zone dell'Italia e molto spesso è aggravato dalla elevata persistenza e tossicità di questi composti.
In base a quanto disposto dal Titolo X del D.Lgs. 81/2008, il rischio biologico per i lavoratori deve essere valutato al pari degli altri rischi al fine di definirne le corrette modalità di gestione e controllo alla luce delle più aggiornate conoscenze scientifiche in materia.
Allo scopo di offrire agli operatori coinvolti in questo tipo di attività precisi indirizzi in materia di prevenzione, valutazione e gestione dei rischi lavorativi, l’INAIL ha realizzato la pubblicazione “Il rischio biologico nel settore della bonifica dei siti contaminati”.
La monografia fornisce importanti indicazioni per le diverse fasi operative, dal sopralluogo conoscitivo alla fase di allestimento del cantiere ed alle operazioni di bonifica vera e propria.
Di particolare interesse le sezioni del documento dedicate ai seguenti argomenti:
classificazione degli agenti biologici (infettività, patogenicità, trasmissibilità, neutralizzabilità)
criteri di individuazione, identificazione, la valutazione e la gestione del rischio
tipi di esposizione nelle varie tecniche di bonifica
casistica epidemiologica
sorveglianza sanitaria (30.05.2013 - link a www.acca.it).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli, permessi limitati. Assenze dal lavoro per la durata della seduta. Ma se la riunione va oltre la mezzanotte si ha diritto a un giorno di riposo
Quale disciplina è prevista a favore dei lavoratori dipendenti, pubblici o privati, componenti dei consigli comunali e provinciali, in merito ai permessi di cui all'art. 79 del Tuel?

Con la modifica del primo periodo del comma 1 dell'art. 79 del Tuel, disposta dal comma 21 dell'art. 16 dl 13/08/2011, n. 138, convertito nella legge 14/09/2011, le parole «per l'intera giornata in cui sono convocati i rispettivi consigli» sono state sostituite dalle seguenti: «per il tempo strettamente necessario per la partecipazione a ciascuna seduta dei rispettivi consigli e per il raggiungimento del luogo di suo svolgimento».
La parte rimanente del comma citato, rimasta invariata, prevede che «nel caso in cui i consigli si svolgano in orario serale, i predetti dipendenti hanno diritto di non riprendere il lavoro prima delle ore 8 del giorno successivo; nel caso in cui i lavori dei consigli si protraggano oltre la mezzanotte, hanno diritto di assentarsi dal servizio per l'intera giornata
» (articolo ItaliaOggi del 31.05.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Costituzione dei gruppi.
È consentita a un consigliere, dissociatosi dal gruppo di appartenenza originario, la possibilità di costituire un nuovo gruppo consiliare composto da un unico consigliere?
La materia dei gruppi consiliari è regolata dalle apposite norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli, riconosciuta espressamente agli stessi dall'art. 38, comma 3, del Tuel n. 267/2000.
In linea di principio, sono ammissibili i mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari, ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti.
Tali mutamenti sono ammissibili secondo un principio fondamentale del nostro ordinamento, confermato dalla giurisprudenza (vedi Tar Lazio, sentenza n. 649/2004) per il quale non è configurabile alcun obbligo giuridico che vincoli l'eletto al proprio partito ovvero ai propri elettori, sicché «nulla impedisce che, nel corso della consiliatura, uno o più consiglieri abbandonino la coalizione d'origine e transitino in altra coalizione».
Sono i singoli enti locali, nell'ambito della propria potestà di organizzazione, i titolari della competenza a dettare norme, statutarie e regolamentari nella materia; pertanto le relative problematiche dovrebbero trovare adeguata soluzione nella specifica disciplina di cui l'ente stesso si è dotato.
Nel caso di specie, sia la normativa statutaria sia quella regolamentare dell'ente non contengono disposizioni che prescrivono un numero minimo di consiglieri per la costituzione di nuovi gruppi consiliari.
In particolare, il regolamento del consiglio comunale prevede che «nel caso in cui una lista abbia avuto eletto un solo consigliere, allo stesso sono riconosciuti i diritti e la rappresentanza di un gruppo consiliare».
Il fatto che tale disposizione preveda espressamente la possibilità per il consigliere unico eletto nell'ambito di una lista di costituire un gruppo uni personale non sembra preclusiva del riconoscimento di tale opzione anche al consigliere dissociatosi, in corso di consiliatura, dal gruppo di riferimento originario.
Il regolamento dispone, altresì, che «il consigliere che vuole dissociarsi dal proprio gruppo o non intende appartenere a un gruppo già costituito può aderire a un gruppo indipendente o misto o di nuova formazione».
Tale disposizione sembrerebbe consentire anche al consigliere fuoriuscito da un gruppo consiliare la possibilità di costituire un gruppo, anche unipersonale, «di nuova formazione».
Tuttavia, soltanto il consiglio comunale, nella sua autonomia e in quanto titolare della competenza a dettare le norme cui conformarsi in tale materia, è abilitato a fornire un'interpretazione autentica delle norme statutarie e regolamentari di cui l'ente è dotato. Nel caso in questione, il regolamento del consiglio comunale attribuisce alla conferenza dei capigruppo la competenza a proporre soluzioni ai problemi relativi all'interpretazione ed applicazione del regolamento stesso (articolo ItaliaOggi del 31.05.2013).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONel Patto le assunzioni over quota di disabili. Escluse solo le spese per la dotazione minima di 15 unità
Le spese relative alle assunzioni di personale appartenente alle categorie protette non rientrano nel computo delle spese di personale e non rilevano ai fini dei vincoli imposti dal Patto di stabilità solo ed esclusivamente in presenza dello specifico obbligo previsto dal legislatore, relativo alla dotazione organica minima di quindici unità del soggetto che vuole procedere alle predette assunzioni.

È quanto ha precisato la sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la regione Veneto, nel testo del parere 28.05.2013 n. 143, fornendo un'interessante precisazione in merito agli stretti rapporti tra vincoli di finanza pubblica e spese per assunzioni di lavoratori appartenenti alle categorie protette.
Nei fatti oggetto del parere, il comune di Pozzoleone ha posto un quesito in ordine alla possibilità per l'ente locale, soggetto al patto di stabilità a decorrere dal 2013, di non conteggiare tra la spesa di personale le assunzioni effettuate per il personale ex lege n. 68/1999 nonostante non ricorra, per l'ente in questione, l'obbligo giuridico di procedere all'assunzione, in quanto la dotazione di personale fosse inferiore a quindici unità.
L'ente ha motivato l'assunzione in eccedenza di tale personale come «aiuto nel recupero di soggetti altrimenti inoccupati, principio, questo, particolarmente rilevante in momenti di crisi occupazionale». Il collegio della Corte veneta ha preliminarmente osservato che le disposizioni della richiamata legge n. 68/1999 impongono l'assunzione di lavoratori appartenenti alle categorie protette da parte di datori di lavoro pubblici o privati. Ma che tale obbligo, per espressa previsione, non su sussiste nel caso in cui il numero delle unità lavorative già in organico sia inferiore a quindici.
Sul punto, la giurisprudenza consultiva della Corte è intervenuta più volte (da ultimo Corte conti Emilia-Romagna, parere n. 60/2013), sostenendo che le spese sostenute dall'ente locale per il personale appartenente alle «categorie protette» vanno escluse dal computo della spesa di personale. E per rafforzare il concetto di obbligatorietà delle assunzioni, il legislatore non è certo andato con la mano leggera, prevedendo che la mancata copertura della quota d'obbligo riservata alle categorie protette, viene espressamente sanzionata sul piano penale, amministrativo e disciplinare (ex art. 15, comma 3, della legge 68/1999).
Tuttavia, sia nei pareri Corteconti che nei documenti di prassi ministeriale (su tutte, la circolare n. 9/2006 della Ragioneria generale dello stato e la circolare n. 6/2009 della funzione pubblica) è stato sempre ribadito e precisato che tale esclusione opera esclusivamente nei confronti del personale appartenente alle categorie protette rientranti nell'obbligo assunzionale, vale a dire solo con riferimento al personale assunto nell'ambito della percentuale d'obbligo o quota di riserva, stabilita dal legislatore in funzione del numero dei dipendenti dell'ente procedente alle assunzioni.
La ratio di tale esclusione dal computo della spesa di personale, pertanto, non può che ravvisarsi nell'obbligatorietà di tali assunzioni, non lasciando alcun margine di discrezionalità al datore di lavoro. Da ciò, conclude la Corte nel parere in osservazione, ne consegue che l'assunzione di personale appartenente alle categorie protette effettuata in eccedenza alla quota di riserva o in assenza dello specifico obbligo previsto dal legislatore, rientra nel computo delle spese di personale rilevante ai fini del rispetto del Patto di stabilità (articolo ItaliaOggi dell'01.06.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI: Vincolati i fondi anti dissesto. Le anticipazioni ricevute vanno accantonate in bilancio. I chiarimenti della Corte conti. Dismissioni immobiliari solo per finanziare investimenti.
L'importo dell'anticipazione concesso a valere sul fondo di rotazione previsto dal decreto legge salva enti, deve essere iscritto in bilancio in un apposito fondo vincolato dell'entrata. Negli esercizi successivi, tale fondo sarà progressivamente ridotto dell'importo pari alle somme che annualmente l'ente locale rimborserà al mininterno.
Inoltre, i proventi da beni patrimoniali disponibili devono essere destinati, in generale, alla copertura di spese di investimento. Fanno però eccezione i casi di dissesto dell'ente e di accesso al predetto fondo di rotazione, in cui detti proventi concorrono al ripiano dell'intera massa passiva.

Sono questi gli importanti chiarimenti forniti dalla Sezione autonomie della Corte dei conti, nel testo della delibera 20.05.2013 n. 14, con cui sono state messe nero su bianco rilevanti questioni di massima scaturenti dalle disposizioni contenute nel dl n. 174/2012
Fondo vincolato
Un primo quesito di rimessione è fondato sulla corretta allocazione in bilancio delle somme che l'ente locale riceve in virtù dell'accesso al fondo di rotazione previsto dal decreto legge n. 174/2012. Sul punto, la Corte ha ricordato come la natura di tale fondo, alla stessa stregua dell'anticipazione di tesoreria prevista dal recente decreto sblocca pagamenti della pubblica amministrazione, sia quella di permettere agli enti locali di far fronte a momentanee carenze di liquidità e di favorire il ripristino di una normale liquidità di bilancio. Sotto il profilo contabile, l'imputazione dell'anticipazione nelle entrate di bilancio, pone il problema della corretta allocazione della corrispondente voce di uscita. Ciò in quanto tale anticipazione, una volta acquisita, viene restituita in un arco temporale massimo di dieci anni.
Con il rischio, ammette la Corte, che la quota delle risorse acquisite e non immediatamente impegnate per la restituzione, andrebbero a fornire copertura per nuove e maggiori spese, arrecando distorsioni sul risultato di amministrazione effettivo. In tal modo, verrebbero irrimediabilmente vanificate le finalità della disposizione contenuta nel citato decreto legge n. 174/2012.
Occorre pertanto, che si sterilizzino gli effetti sul versante della spesa, a partire dal primo anno di attivazione dell'anticipazione e sino alla completa restituzione dell'anticipazione ottenuta.
L'obiettivo, a detta dei magistrati contabili, viene conseguito iscrivendo, nei fondi vincolati dell'esercizio di accertamento, una somma pari all'importo dell'anticipazione assegnata dal Fondo di rotazione, e rubricandola come «Fondo destinato alla restituzione dell'anticipazione ottenuta del fondo di rotazione per assicurare la stabilità finanziaria dell'ente». Negli esercizi successivi al primo, pertanto, questo neonato fondo sarà progressivamente ridotto dell'importo pari alle somme che l'ente locale rimborserà annualmente con rate semestrali. La soluzione portata dalla Corte, in pratica, si allinea alle previsioni impartite dal dlgs n. 118/2011 in materia di armonizzazione dei sistemi contabili, in cui tutte le obbligazioni, attive e passive, giuridicamente perfezionate, sono imputate all'esercizio nel quale vengono a scadenza.
Proventi delle alienazioni immobiliari
Sulla corretta destinazione dei proventi da alienazioni immobiliari, la Corte, dopo aver svolto un excursus sulla normativa in vigore, ha chiarito che la volontà del legislatore è di rafforzare la virtuosità nella gestione del bilancio degli enti locali, ponendo il divieto della destinazione di risorse provenienti dal patrimonio al finanziamento della spesa corrente.
Così, ha ammesso che i proventi da alienazione di beni patrimoniali disponibili, non possono avere destinazione diversa da quella indicata all'articolo 1, comma 443 della legge di stabilità 2013, ovvero la destinazione alla copertura delle spese di investimento o alla riduzione del debito (solo in assenza delle prime). L'eccezione è altresì riservata ai casi in materia di dissesto dell'ente e di accesso al fondo di rotazione. In questi casi, i predetti proventi concorreranno a finanziare l'intera massa passiva (articolo ItaliaOggi del 31.05.2013).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI: Prevenzione e repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione.
In una delibera e in un comunicato le prime indicazioni per l’adempimento agli obblighi di pubblicazione e trasmissione all’Avcp dei dati inerenti la trasparenza dell’azione amministrativa.

Per dare seguito alla norma che dispone che le pubbliche amministrazioni devono assicurare livelli essenziali di trasparenza in merito ai procedimenti di scelta del contraente per l’affidamento di lavori, servizi e forniture, inclusa la modalità di selezione prescelta (Art. 1, comma 32, Legge n. 190/2012 recante ‘Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione’), l’Autorità ha emanato la Deliberazione n. 26 del 2013, che fornisce le prime indicazioni sull’assolvimento degli obblighi di pubblicazione e trasmissione delle informazioni all’Avcp.
Contestualmente Sono state emanate, con il Comunicato del Presidente del 22 maggio, le specifiche tecniche per l’adempimento degli obblighi di pubblicazione.
Nella sezione Modulistica del sito è disponibile il modulo per la dichiarazione di adempimento agli obblighi di pubblicazione dei dati (30.05.2013).
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Prime indicazioni sull’assolvimento degli obblighi di trasmissione delle informazioni all’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, ai sensi dell’art. 1, comma 32, della legge n. 190/2012 (deliberazione 22.05.2013 n. 26 - link a www.autoritalavoripubblici.it)
e correlate
Indicazioni operative per l’attuazione della Deliberazione n. 26 del 22.05.2013 (comunicato del Presidente del 22.05.2013 - link a www.autoritalavoripubblici.it)
e correlato
Modulo per la dichiarazione di adempimento agli obblighi di pubblicazione dei dati ai sensi dell’art. 1, comma 32, Legge 190/2012 conforme alle disposizioni di cui alla Deliberazione n. 26 del 22.05.2013 e al Comunicato del Presidente dell’Autorità del 27.05.2013 (dichiarazione adempimento Legge 190/2012 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: Anagrafe unica delle stazioni appaltanti.
Il Comunicato del presidente riguarda gli adempimenti transitori relativi alla Anagrafe Unica delle Stazioni Appaltanti (art. 33-ter, decreto legge n. 179/2012 convertito con legge n. 221/2012).
Le amministrazioni appaltanti già registrate presso la Banca Dati Nazionale dei Contratti Pubblici sono tenute ad acquisire sul sito dell'Autorità, a partire dal 10.07.2013, l'Attestato di iscrizione all'Anagrafe Unica delle Stazioni Appaltanti, che avrà validità per tutto il 2013.
Dal 1° settembre prossimo ed entro il 31.12.2013, le stazioni appaltanti dovranno comunicare il nominativo del responsabile che provvederà alla iniziale verifica o compilazione ed al successivo aggiornamento delle informazioni nell’Anagrafe Unica delle Stazioni Appaltanti. Il Comunicato sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 28 maggio prossimo (comunicato del presidente 16.05.2013 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

INCARICHI PROGETTUALIAVCP: i bandi con affidamento di incarichi a titolo gratuito sono sempre irregolari!
I bandi di gara contenenti affidamenti di incarichi “a titolo gratuito” sono irregolari.

Lo ha ribadito l’AVCP (Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori) con la nota 10.05.2013 n. 44496 di prot..
L’AVCP ha stabilito l’irregolarità di un bando del Comune di Brolo (Messina) riguardante il “conferimento di incarico a titolo gratuito per la redazione dello studio geologico relativo al piano particolareggiato di recupero del centro storico”.
Nel testo del bando si rilevava esplicitamente la gratuità della prestazione professionale, salvo un “rimborso forfettario di 15.000 euro per le spese necessarie alla produzione degli elaborati tecnici”!
L’Autorità ricorda che la Normativa vigente in tema di affidamenti di servizi non prevede la possibilità di prestazione professionale gratuita a favore di una Stazione Appaltante.
Gli importi di tali prestazioni devono essere sempre determinati dalla Stazione Appaltante, al fine di stabilire la procedura di affidamento da eseguire ex artt. 91 e 92 del Codice Appalti.
L’eventuale gratuità della prestazione costituisce un “indebito arricchimento da parte della S.A.”.
Infine, l’AVCP ha precisato che la gratuità di questa prestazione è in contrasto col principio stabilito dall’art. 2233 del Codice Civile secondo cui il compenso “deve essere commisurato ed adeguato all’importanza dell’opera e al decoro professionale” (30.05.2013 - link a www.acca.it).

NEWS

EDILIZIA PRIVATAEco-bonus, premi a largo raggio. L'aumento del beneficio al 65% conviene sempre anche se scende l'importo agevolabile.
IL PROBLEMA/ L'agevolazione passa al 65% dal 1° luglio L'unica incognita deriva dalle conseguenze del possibile aumento Iva.
L'ATTENUANTE/ In molti casi l'imposta sul valore aggiunto resterà al 10% Impatto negativo per le spese più elevate.

L'aumento dal 1° luglio della detrazione Irpef ed Ires dal 55% al 65% per le spese sul risparmio energetico qualificato degli edifici rende il regime più conveniente rispetto all'attuale, nonostante la diminuzione dei tetti per la spesa agevolata. L'unica incognita è l'aumento dell'Iva dal 21 al 22%, in programma anch'esso per il 1° luglio se il Governo non riuscirà a posticiparlo nuovamente, che potrebbe "mangiarsi" una quota dei risparmi aggiuntivi.
La maggiore convenienza rispetto al regime attuale emerge chiara da alcuni esempi pratici. Se devono essere spesi importi inferiori ai vecchi limiti (ad esempio, per la coibentazione dell'edificio fino a 109.090,91 euro), il costo dell'investimento netto (cioè "pulito" dalla detrazione da ripartire comunque in dieci anni) è sempre inferiore se si sposta il pagamento delle fatture dopo il 1° luglio. Nel caso in cui, invece, la spesa supera i nuovi tetti, il costo finale è uguale, a prescindere dalla data del pagamento.

Il decreto approvato dal Consiglio dei ministri venerdì, con la proroga fino a fine anno e l'innalzamento al 65% del scaldacqua a pompa di calore), nel caso di persone fisiche o lavoratori autonomi (professionisti). Per le imprese, invece, vale il periodo di competenza economica del costo, che coincide con il momento dell'ultimazione dell'intervento per le prestazioni (difficilmente è agevolato il solo acquisto del bene, senza la sua installazione).
Di conseguenza, l'aumento della detrazione dal 55% al 65% solo da luglio 2013 può comportare un ritardo dei pagamenti da parte di persone fisiche e professionisti, e un ritardo della fine dei lavori per gli interventi commissionati dalle imprese. Un effetto recessivo (per il solo mese di giugno) che poteva essere evitato, copiando quanto fatto nel precedente aumento dell'agevolazione sulle ristrutturazioni edilizie: in quel caso, l'aumento dal 36% al 50% è partito il 26.06.2012, cioè il giorno di pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» del decreto che l'ha previsto (articolo 11, comma 1, del decreto-legge 22.06.2012, n. 83).
Nella tabella a lato sono stati riportati i quattro interventi agevolati (manca solo quello per i condomini), ipotizzando i tre possibili importi di spesa: sotto il nuovo limite (inferiore al vecchio), tra il nuovo e il vecchio e superiore al vecchio limite. Nei primi due casi, si nota la convenienza a posticipare la spesa dopo il 30.06.2013, mentre se la spesa da fare supera i vecchi limiti (terzo caso), la data è indifferente (i limiti sono però molto alti e difficilmente vengono superati.
In tutti i casi, non è stato calcolato l'effetto dell'aumento dell'Iva dal 21% al 22%, previsto dal 01.07.2013, anche perché la tabella vale anche per i soggetti Iva, che possono detrarre l'imposta; in ogni caso, conviene comunque posticipare la spesa, perché l'eventuale maggiore Iva che colpirà solo le persone fisiche (è in generale detraibile per imprese e professionisti) è ampiamente coperto dalla minore Irpef (pari al 10% della spesa sostenuta).
Solo per il privato che supera i vecchi limiti di spesa, l'aumento dell'Iva dal 21% al 22% potrebbe nuocere, perché anche senza considerare l'Iva il costo netto è uguale qualunque sia la data di sostenimento della spesa. In questi casi, se proprio volesse sterilizzare l'aumento dell'Iva, potrebbe chiedere al fornitore di emettere la fattura anticipata dei lavori, prima del primo luglio 2013, applicando l'Iva al 21 per cento.
Sono comunque poche le spese agevolate per cui non si applica l'Iva del 10%, non interessata dall'aumento in programma a luglio. Ad esempio, per gli interventi agevolati, rientranti tra i restauri e risanamenti conservativi e le ristrutturazioni edilizie (su qualunque fabbricato, abitativo e non), l'aliquota Iva del 10% si applica alle prestazioni dipendenti da contratti di appalto o d'opera (voce n. 127-quaterdecies, Parte III, Tabella A, allegata al dpr 633/1972) e all'acquisto di beni, escluse le materie prime e semilavorate (voce n. 127-terdecies, Parte III, Tabella A, allegata al Dpr 633/72).
Si applica l'Iva ordinaria del 21% (22% dal primo luglio), invece, alle prestazioni rese dai professionisti (ingegneri, architetti, geometri, eccetera) o alla parte del valore dei beni significativi (ad esempio, infissi) che eccedono il valore della prestazione (posa in opera o manodopera), delle materie prime e semilavorate, nell'ambito dell'agevolazione Iva del 10%, prevista dall'articolo 7, comma 1, lettera b), legge 23.12.1999, n. 488.
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Pressing per estendere lo sconto a opere antisismiche
L'INDICAZIONE/ Per il presidente della commissione Ambiente della Camera, Realacci, «necessario intervenire in Parlamento».

«La proroga e l'innalzamento al 65% dello sgravio fiscale per il risparmio energetico sono davvero un punto di svolta nelle politiche per la crescita che forse Palazzo Chigi avrebbe potuto comunicare meglio. Senza togliere importanza al disegno di legge sui partiti, penso che queste siano le prime vere misure per la crescita e, aggiungo, per una crescita che va nella direzione giusta della sostenibilità e della qualità edilizia».
Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente della Camera, capofila storico dell'ala ambientalista del Pd e ora vicino a Matteo Renzi, non fa mistero della soddisfazione per il varo del bonus potenziato. È la sua battaglia da anni, convinto com'è che lo sgravio del 55%, ora 65%, sia il tipo di politica economica necessaria all'Italia per rilanciare e riconvertire l'industria in chiave verde e di qualità, decisiva anche per il medio-lungo periodo. Un rammarico, tuttavia, Realacci c'è l'ha: che nel nuovo sgravio al 65% non siano rientrati gli investimenti per la prevenzione antisismica: «Prendo atto –spiega– delle dichiarazioni del governo che la prevenzione sismica è una priorità ma allora non possiamo prendere in giro gli italiani riconfermando lo sgravio del 50% che c'era già. Dobbiamo intervenire in Parlamento estendendo il 65% agli interventi di prevenzione sismica. Lo sgravio del 50% si è dimostrato insufficiente per farli decollare».
Realacci è ottimista sulla possibilità di intervenire nella fase di conversione del decreto. «Credo ci siano margini. Questa è comunque la mia posizione e ho già cominciato a lavorare perché diventi largamente condivisa. D'altra parte, la commissione che presiedo ha già votato una risoluzione che chiedeva due cose: la stabilizzazione del bonus e l'estensione agli interventi di prevenzione antisismica. Ora che c'è anche il rafforzamento al 65%, stiamo creando un'occasione che non possiamo sprecare».
Realacci aggiunge di aver trovato disponibilità nel ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi. Un'apertura esplicita in questo senso è venuta anche dal ministro dell'Ambiente, Andrea Orlando, che in questa partita ha sposato in pieno le tesi di Realacci, anche quando venerdì ha detto che era necessario allargare la forbice fra il bonus energetico e quello per le ristrutturazioni per creare un maggiore incentivo all'investimento più sostenibile sul piano energetico e ambientale.
Per Realacci il completamento dell'operazione 65% contribuirebbe «a riorientare i cittadini a una nuova idea di casa, considerando che fra una casa ben fatta e una fatta male passa anche una differenza di bolletta energetica di 1.500 euro annui. C'è un gran discutere di Imu che pesa meno di 500 euro su gran parte delle famiglie e dobbiamo imparare a cogliere queste altre opportunità». Il 65% «può contribuire anche a rilanciare il settore dell'edilizia dandogli competitività nella direzione giusta della qualità e della bellezza». A patto che si pensi fin da ora «a una qualche forma di stabilizzazione, tale da consentire una politica che duri negli anni».
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Nuova certificazione. Le penalità per il proprietario. Sanzione fino a 18mila euro se manca l'attestato.
TRASPARENZA/ I parametri energetici vanno riportati anche negli annunci di vendita/affitto Multa da 3mila euro per chi non adempie.

Compravendite di immobili e locazioni con Ape (attestato di prestazione energetica) al posto dell'Ace (attestato di certificazione energetica): è quanto dispone il decreto legge sul bonus energia.
Il nuovo attestato Ape (che avrà vigore solo dal momento in cui ne verrà apprestato lo schema dal ministro dello Sviluppo economico, come previsto dall'articolo 6 del decreto) dovrà essere rilasciato da esperti qualificati e indipendenti, dovrà attestare la prestazione energetica di un edificio attraverso l'utilizzo di specifici descrittori e fornirà raccomandazioni per il miglioramento dell'efficienza energetica.
L'Ace non andrà del tutto in pensione, ma potrà continuare a essere «predisposto al fine di semplificare il successivo rilascio della prestazione energetica»; inoltre, è precisato che l'obbligo di dotare l'edificio di un Ape non sussiste «ove sia già disponibile un attestato in corso di validità, rilasciato conformemente alla direttiva 2002/91/CE».
L'Ape (che avrà una validità temporale di dieci anni e che comunque perderà vigore per effetto di qualsiasi intervento di ristrutturazione o riqualificazione che modifichi la classe energetica dell'immobile) dovrà essere rilasciato al termine dei lavori e a cura di chi li ha effettuati, per gli edifici di nuova costruzione o fatti oggetto di lavori di ristrutturazione "importante" (e cioè quando i lavori in questione insistano su oltre il 25% della superficie dell'involucro dell'intero edificio). Anche il proprietario dell'immobile è però tenuto, in caso di vendita o locazione, a rendere disponibile l'Ape al potenziale acquirente o al nuovo locatario fin dall'avvio delle trattative, e consegnarlo alla fine delle medesime. Se a essere venduto o locato è un edificio ancora non costruito, il venditore o il locatore dovrà fornire evidenza della futura prestazione energetica dell'edificio e dovrà produrre l'Ape insieme alla dichiarazione di fine lavori.
Nei contratti di vendita o nei nuovi contratti di locazione andrà inoltre inserita una clausola con la quale l'acquirente o il conduttore diano atto di aver ricevuto le informazioni e la documentazione, comprensiva dell'Ape, sull'attestazione della prestazione energetica degli edifici. La prestazione energetica è rilevante anche prima della stipula di questi contratti, poiché è prescritto che nel caso di offerta di vendita o di locazione, gli annunci (contenuti in qualsiasi mezzo di comunicazione) debbano riportare «l'indice di prestazione energetica dell'involucro edilizio e globale dell'edificio o dell'unità immobiliare e la classe energetica corrispondente».
Tutte queste prescrizioni sono assistite da sanzioni non lievi. Se non vengano dotati di Ape gli edifici nuovi o ristrutturati oppure oggetto di vendita, il costruttore o il proprietario sono puniti con la sanzione amministrativa non inferiore a 3mila euro e non superiore a 18mila euro. Se di Ape non sia dotato un edificio oggetto di un nuovo contratto di locazione, il proprietario è punito con la sanzione amministrativa da 300 a 1800 euro. In caso di violazione dell'obbligo di riportare i parametri energetici nell'annuncio di offerta di vendita o locazione, il responsabile dell'annuncio è punito con la sanzione amministrativa non inferiore da 500 a 3mila euro.
Di Ape dovranno essere dotati anche gli edifici utilizzati da Pubbliche amministrazioni e aperti al pubblico: il proprietario dovrà produrlo e affiggerlo con «con evidenza all'ingresso dell'edificio stesso o in altro luogo chiaramente visibile al pubblico»
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.06.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATACONSIGLIO DEI MINISTRI/Incentivi fiscali più ampi. Estesi all'arredo e ai lavori antisismici.
L'edilizia spinta a colpi di sgravi. Il bonus energetico al 65%, per le ristrutturazioni al 50%.

Il bonus per gli interventi di riqualificazione energetica sale al 65%, mentre la detrazione al 50% vale sia per le ristrutturazioni sia per l'arredo degli immobili oggetto dell'intervento. Sono stati così prorogati al 31.12.2013 i termini per fruire delle due detrazioni. Mentre, una nuova agevolazione, accessibile fino al 31/12/2014, consentirà di incassare un bonus fiscale del 65% per gli interventi di risparmio energetico eseguiti sull'intero edificio.
Queste le novità rilevabili dal decreto legge licenziato dal Consiglio dei ministri di ieri, per recepire la direttiva comunitaria 2010/31/Ue sulle prestazioni energetiche in edilizia, per cui l'Italia è soggetta a procedure di infrazione Ue.
Il dl prevede una proroga al 31/12/2013 di quanto disposto dal comma 1, dell'art. 11, dl 83/2012 che aveva innalzato, fino al prossimo 30 giugno, la detrazione sulle ristrutturazioni edilizie dal 36% al 50%, raddoppiando il tetto da 48 mila a 96 mila euro.
Di fatto, per le spese sostenute (vale la data del bonifico) dal prossimo 1° luglio e fino alla fine dell'anno, la detrazione sarà pari al 50% su un tetto di spesa di 96 mila euro, per quelle relative alle ristrutturazioni edilizie, e del 65% da tarare su un tetto (soglia) variabile per tipologia di spesa (riqualificazione per euro 100 mila, sostituzione impianti di climatizzazione invernale per euro 30.000 e quant'altro) per quelle destinate al risparmio energetico, con obbligo di ripartizione in 10 quote annuali, a prescindere dall'età del beneficiario.
Come si evince dal testo e dagli allegati (A e B), sono state inserite alcune nuove tipologie come quelle dell'isolamento delle coperture, dei pavimenti e delle pareti perimetrali (euro 400 mila), delle finestre e degli infissi, se installate con sistemi di termoregolazione (euro 180.000), e dell'installazione di caldaie a condensazione (per potenza fino a 35 kW, euro 4.000 e per quelle di potenza superiore, euro 60 mila).
La proroga è stata estesa, inoltre, all'acquisto di mobili per l'arredo dell'immobile oggetto di ristrutturazione fino a 10 mila euro (bonus di 5.000 euro). E le detrazioni del 50% copriranno anche gli interventi di ristrutturazione inerenti all'adozione di misure antisismiche e alla messa in sicurezza statica delle parti strutturali degli edifici (lett. i, c. 1, art. 16-bis, Tuir). Si ricorda che, con decorrenza dall'01/01/2012, il legislatore ha messo a regime le detrazioni sulle ristrutturazioni e sul risparmio energetico, introducendo, nel dpr n. 917/1986, l'art. 16-bis, che prevede l'incorporazione (lett. h, c. 1) delle spese destinate alla seconda tipologia e la detrazione (comma 1) del 36% su un tetto di spesa fissata a 48 mila euro.
La proroga è stabilita fino alla fine di quest'anno (a partire dall'01/07/2013) per le detrazioni fruibili sugli interventi per l'efficienza energetica eseguiti su edifici esistenti, comprese le parti a comune degli edifici, di cui agli artt. 1117 e 1117-bis c.c., che abbiano anche per oggetto l'isolamento di strutture opache, verticali, orizzontali e l'installazione di finestre e infissi e di caldaie a condensazione. Mentre il lasso di tempo per accedere al beneficio fiscale risulta più ampio (31/12/2014) per gli interventi degli edifici e parti a comune che implicano la riqualificazione di almeno il 25% della superficie dell'involucro, secondo i criteri definiti dalla direttiva richiamata (2010/31/Ue). Restano esclusi, a quanto si evince dalla relazione illustrativa, le spese inerenti agli impianti di produzione di energia termica (pannelli solari per uso termico e pompe di calore) oggetto di altro incentivo, di cui al dm 28/12/2012.
Dopo la soppressione dell'obbligo di comunicazione di inizio lavori al Centro operativo di Pescara (Cop) e di indicazione separata della manodopera in fattura, gli adempimenti si sono notevolmente ridotti, dovendo solo tenere a disposizione la documentazione relativa (Agenzia delle entrate, provvedimento 02/11/2011), indicando taluni dati in dichiarazione (dati catastali ed estremi dell'atto che costituisce il titolo per la detenzione, in particolare). Il contribuente che intenda fruire dell'agevolazione per gli interventi, di cui all'art. 1 della legge n. 449/1997, è tenuto al rispetto delle disposizioni, di cui al decreto ministeriale n. 41/1998, con riguardo alle modalità di pagamento con utilizzo del bonifico bancario dal quale risulti la causale del versamento, il codice fiscale del beneficiario della detrazione e il numero di partita Iva ovvero il codice fiscale del soggetto a favore del quale il bonifico è effettuato. Infine, si ricorda la possibilità (comma 8, art. 16-bis, Tuir) di mantenere la detrazione non utilizzata in capo al venditore in caso di trasferimento (a titolo gratuito o oneroso) dell'unità abitativa, con la possibilità di far detrarre il bonus anche dal subentrante di un contratto di locazione, al decesso del conduttore (circ. 13/E/2013).
Reazioni. Per Rete Imprese Italia, la proroga del bonus del 50% per le ristrutturazioni con l'estensione agli arredi « è un importante sostegno alla ripresa». Il sodalizio delle imprese chiosa: «Questa agevolazione, insieme all'ecobonus, portato al 65% ed esteso a privati cittadini e condomini, darà slancio al settore edilizio. E auspica: «Il provvedimento venga esteso anche a tutto il 2014 e sia ridotto il numero degli anni su cui ripartire il beneficio del credito d'imposta, al fine di amplificarne gli effetti sull'economia» (articolo ItaliaOggi dell'01.06.2013).

ENTI LOCALIIl mattone paga le spese. Oneri urbanistici per coprire le uscite correnti. Un emendamento al dl pagamenti proroga la chance fino al 2014.
Fino al 2014 i comuni potranno continuare a utilizzare gli oneri di urbanizzazione per finanziare le proprie spese correnti.
Lo prevede uno degli emendamenti al decreto «sblocca debiti» presentati in commissione bilancio al senato. Se passerà questa modifica al dl 35/2013 (che a questo punto dovrà tornare alla Camera per il via libera definitivo), i sindaci recupereranno un'importante leva per far quadrare i propri bilanci.
Come in passato, gli oneri (ovvero, più correttamente, i proventi dei permessi di costruire e delle sanzioni previste dal Testo unico dell'edilizia) potranno coprire, per una quota non superiore al 50%, spese correnti indifferenziate e, per una quota non superiore ad un ulteriore 25%, spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale.
Tecnicamente, la nuova norma interviene sull'art. 2, comma 8, della legge 244/2007, che nel testo attualmente vigente (quale risultante dalle modifiche apportate dall'art. 2, comma 41, del dl 225/2009) consente tale possibilità solo fino al 2012.
Ora, come detto, la dead line dovrebbe spostarsi nuovamente in avanti di 24 mesi, coprendo anche il secondo anno del triennio oggetto del bilancio pluriennale 2013-2015.
Tale intervento era stato richiesto da diversi comuni (anche di grandi dimensioni) fortemente in difficoltà nel compensare i ripetuti tagli alle spettanze subiti negli ultimi anni. Esso sgombra anche il campo dai dubbi interpretativi che erano sorti in diversi operatori a causa della presenza nell'ordinamento di alcune norme che sembravano ancora ammettere la deroga (si veda ItaliaOggi del 24.05.2013).
Oltre all'alleggerimento delle sanzioni per chi non ha rispettato il Patto 2012 (si veda ItaliaOggi di ieri), palazzo Madama ha introdotto altre rilevanti novità per gli enti locali.
Innanzitutto, le amministrazioni beneficiarie delle anticipazioni erogate dalla Cassa depositi e prestiti che dovessero avanzare delle somme dopo aver pagato tutti i propri debiti dovranno destinarle all'estinzione anticipata del prestito alla prima scadenza di pagamento della rata prevista dal relativo contratto. L'eventuale inadempimento peserà sulla valutazione delle performance individuali e sarà causa di responsabilità dirigenziale e disciplinare per dirigenti e funzionari. Tale eccesso di liquidità potrebbe essere causato dai pagamenti che le regioni effettueranno grazie alle iniezioni di cassa a loro volta ottenute grazie all'art. 2 del dl 35 e che esse devono destinare prioritariamente a province e comuni. Il relativi piani di pagamenti, prevede un altro emendamento, dovranno essere definiti dai governatori di concerto con le Anci e le Upi regionali.
Da segnalare, infine, l'introduzione di deroghe al divieto di acquistare immobili a titolo oneroso previsto dall'art. 12, comma 1-quater, del dl 98/2011. Fermo restando il rispetto dei vincoli di finanza pubblica, la tagliola non scatterà per gli acquisti a titolo oneroso effettuati per pubblica utilità ai sensi del dpr 327/2001, per le permute a parità di prezzo, per le operazioni programmate da delibere assunte prima del 31.12.2012 e per le procedure relative a convenzioni urbanistiche previste dalle normative regionali e provinciali (articolo ItaliaOggi dell'01.06.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTIAcconto. La legge di stabilità ha cancellato l'esenzione. Il Comune paga allo Stato per la palestra.
LE CONSEGUENZE/ Gli enti locali devono versare la quota erariale per gli immobili di categoria D, come stadi, teatri e campi sportivi.

L'incertezza delle norme crea problemi di versamenti dell'acconto Imu anche per i Comuni. Succede per gli immobili di categoria D (produttivi) e, in particolare, per l'aliquota del 7,6 per mille che su tali edifici spetta allo Stato.
L'aliquota dovrebbe essere pagata anche dai Comuni per stadi, teatri, arene e campi sportivi di loro proprietà che appunto rientrano nella predetta categoria D.
Il problema si pone per la seconda volta, poiché già per il 2012, quando l'aliquota per lo Stato era del 3,8 per mille, i Comuni hanno rischiato di dover pagare all'Erario l'Imu per i propri fabbricati di categoria D.
Il panico, all'epoca, è durato pochi mesi perché al momento di istituire, nel 2011, la quota Imu di competenza statale, non era stata prevista alcuna esenzione per gli immobili di proprietà comunale: l'esenzione è sopravvenuta con l'articolo 4, comma 5, del decreto legge 16/2012, che riguarda gli immobili posseduti dai Comuni nel loro territorio. Il Dl 16/2012 ha modificato a posteriori il decreto legge 201/2011 all'articolo 13, comma 11.
La questione si ripropone oggi perché l'articolo 1, comma 380 lettera h) della legge 228/2012 istituisce l'aliquota statale del 7,6 per mille, abrogando tutto ciò che era stato prima previsto per assicurare allo Stato un gettito e cioè abrogando sia l'aliquota per l'Erario (del 2011) che l'esenzione per le proprietà comunali (del 2012).
L'articolo 1. comma 380, lettera h), prevede oggi un'aliquota del 7,6 per mille a favore dello Stato, senza esenzioni per i Comuni.
Se non sopravverrà una modifica normativa che introduca un'esenzione simile a quella prevista dall'articolo 13, comma 11 del decreto legge 201/2011, i Comuni saranno obbligati a pagare il 7,6 per mille per stadi, teatri, arene e campi sportivi di loro proprietà: ogni ente locale dovrebbe prevedere in questi giorni un capitolo di uscita, conteggiando l'imposta da versare entro il 17.06.2013 come acconto.
Se non si paga e non sopravviene una norma che reintroduca il beneficio di esenzione per i manufatti D del Comune, gli enti locali dovranno prepararsi a un ravvedimento operoso per l'imposta che spetta allo Stato.
Lo scenario è paradossale, in quanto lo Stato ha calcolato proprie entrate sulla base del 7,6 per mille sugli immobili di categoria catastale D a sua conoscenza, ma se dovesse effettuare accertamenti o recuperi non riuscirebbe a distinguere, tra tutti i fabbricati "D", quelli di proprietà dei Comuni. Lo Stato, infatti, non possiede elenchi o banche dati specifiche, ma dovrebbe rivolgersi, per accertare evasioni, ai Comuni stessi (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTI:  Le risposte ai temi dei lettori. Il caso di un fabbricato oggetto di conversione e riaccatastamento
Imu legata alla nuova rendita. L'obbligo dalla data di presentazione della denuncia Docfa.
L'ECCEZIONE/ Con le modifiche a destinazione o consistenza viene meno il principio del valore risultante al Catasto il 1° gennaio.
Gli immobili d'impresa che subiscono una trasformazione strutturale e vengono conseguentemente riaccatastati devono pagare l'Imu considerando la nuova rendita a partire dalla data di presentazione del Docfa.

Questa è la risposta al quesito posto da Gianandrea Todesco, riguardante un immobile industriale di categoria D1, originariamente composto da fabbricati e piazzali asserviti, poi riconvertito per usi logistici attraverso la demolizione di alcuni impianti presenti nei fabbricati. Viene conseguentemente avviata la procedura di riaccatastamento presentando a dicembre 2012 il nuovo "tipo mappale" e a febbraio 2013 il Docfa con la proposta di rendita.
Sorge tuttavia il dubbio sulla base imponibile da utilizzare per il calcolo dell'Imu 2013, in particolare riguardo alla possibilità di pagare considerando solo la rendita proposta e ritenendo che l'avvio della pratica di riaccatastamento (richiesta tipo mappale) comporti la "perdita" della vecchia rendita catastale.
Sul punto va preliminarmente evidenziato il principio contenuto nell'articolo 5, comma 2, del Dlgs 504/1992, in forza del quale devono assumersi le rendite risultanti in catasto al 1° gennaio dell'anno di imposizione. Con la conseguenza che le risultanze catastali definitive sono efficaci a decorrere dall'anno d'imposta successivo a quello nel corso del quale sono state annotate negli atti catastali (cosiddetta "messa in atti").
Si tratta tuttavia di una regola generale che ammette alcune eccezioni, tra cui l'ipotesi in cui la nuova rendita sia conseguente a modificazioni della consistenza o della destinazione dell'immobile dichiarate dallo stesso contribuente, dovendo in questi casi trovare applicazione dalla data della denuncia. In tal senso si è espressa la Cassazione con alcune pronunce, tra cui la 17863/2010, la 18023/2004 e la 20854/2004. Stesso orientamento si è affermato anche in ordine al passaggio dal criterio del valore contabile alla rendita catastale per i fabbricati D, che attribuisce rilevanza alla presentazione della richiesta (Cassazione 3160/2011).
Nel caso in questione la nuova rendita proposta con il Docfa dovrebbe quindi avere efficacia solo a partire dalla domanda, presentata a febbraio 2013, trattandosi di sopravvenuto mutamento dello stato o della destinazione del fabbricato.
Non si ritiene invece possibile aderire integralmente alla soluzione proposta dal lettore, considerando cioè il momento di avvio della pratica di riaccatastamento, in quanto il "tipo mappale" ha la funzione di inserire sulla cartografia catastale i nuovi fabbricati edificati sul territorio o i fabbricati esistenti che abbiano subito modifiche di sagoma. Ma il "tipo mappale" non agisce sulla base imponibile dei fabbricati, che viene determinata solo in sede di presentazione della denuncia, avvenuta nel caso in questione con il Docfa. Peraltro la Cassazione ha chiarito che in questi casi il fatto che la situazione materiale risalga a data anteriore non ne giustifica un'applicazione retroattiva rispetto alla denuncia.
Conseguentemente l'Imu 2013 andrebbe calcolata considerando la vecchia rendita per i primi due mesi dell'anno (se il Docfa è stato presentato nella seconda metà di febbraio), mentre si dovrà utilizzare la nuova rendita per il periodo residuo dell'anno, salvo conguaglio da effettuare all'esito delle verifiche. Va infatti ricordato che l'eventuale rettifica della rendita da parte dell'agenzia del Territorio ha efficacia retroattiva, quindi il nuovo valore sarebbe applicabile sin dalla presentazione del Docfa e imporrebbe di rifare i calcoli (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2013).

ENTI LOCALIOneri di urbanizzazione «liberi». Nuova deroga biennale per l'uso del 75% delle entrate per coprire le uscite correnti.
Debiti della Pa. Torna l'obbligo di segnalazione dai revisori per il taglio di due stipendi ai funzionari che non pagano.

Gli oneri di urbanizzazione tornano liberi, e anche quest'anno (e il prossimo) possono essere destinati dai Comuni per tre quarti alla copertura delle spese correnti: la deroga, avviata nel 2008 e tramontata a fine 2012, consente di utilizzarne il 50% per spese correnti indifferenziate, e un altro 25% per le uscite (sempre di parte corrente) destinate a «spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale».
La riesumazione dell'articolo 2, comma 8, della legge 244/2007, operata con gli emendamenti dei relatori all'articolo 10 del decreto «sblocca-pagamenti» approvati al Senato (l'Aula se ne occuperà lunedì, per poi ripassare il testo alla Camera per la conversione definitiva) è una spia ulteriore delle difficoltà finanziarie in cui versano i Comuni.
La deroga estesa al 2013-2014 va infatti in netta controtendenza rispetto all'obbligo di utilizzare le entrate straordinarie solo per finanziare uscite altrettanto extra, obbligo rafforzato da ultimo con la legge di stabilità (articolo 1, comma 443, della legge 228/2012) che ha imposto di destinare solo a spese di investimento o abbattimento del debito le risorse raccolte dai Comuni attraverso le operazioni di alienazione di beni patrimoniali disponibili.
Negli anni "d'oro", gli oneri concessori hanno avuto un ruolo cruciale nel garantire gli equilibri dei bilanci, al punto che i soli capoluoghi di Provincia destinavano nel complesso oltre un miliardo di euro annui di questi proventi straordinari per finanziare spese correnti stabili. Con la crisi dell'edilizia, e il conseguente crollo delle entrate comunali, questa voce sarà in grado di dare un contributo molto più contenuto: essenziale, però, nella fase complicatissima che stanno vivendo i bilanci locali (ancora in attesa dell'ufficializzazione dell'ennesima proroga per i preventivi 2013).
Lo stesso decreto sblocca-debiti, del resto, è già intervenuto nello stesso senso aumentando del 66% (da tre a cinque dodicesimi delle entrate) la possibilità per i Comuni di attingere alle «anticipazioni di cassa», cioè gli "aiuti" statali per chi non ha liquidità, da ripagare con gli interessi.
Sempre sul versante delle «anticipazioni» è poi intervenuto il decreto «sblocca-Imu» (Dl 54/2013), che ha utilizzato questo strumento per compensare i Comuni dei 2,4 miliardi di mancata entrata per lo stop all'acconto relativo ad abitazioni principali, edilizia sociale e fabbricati e terreni agricoli.
Questa pioggia di interventi tampona l'emergenza, ma rischia di crearne una nuova a breve per una ragione semplice: in attesa di approvare i preventivi, le amministrazioni locali viaggiano «in dodicesimi», cioè con la possibilità di spendere ogni mese non più di un dodicesimo degli stanziamenti di spesa complessivi nell'ultimo bilancio approvato. Quest'anno, però, le risorse totali dovrebbero diminuire di circa il 10% rispetto al 2012 per effetto della sola spending review, che chiede ai Comuni un taglio (per ora fondato sui livelli dei consumi intermedi di ogni ente) da 2,25 miliardi di euro.
Un'altra novità spuntata negli emendamenti dei relatori al Senato riguarda il taglio di due mensilità di stipendio ai responsabili dei servizi (in particolare i servizi finanziari) negli enti che non chiedono abbastanza bonus sul Patto entro il 5 luglio o che non pagano entro l'anno una somma pari almeno al 90% degli "incentivi" ottenuti.
Torna l'obbligo di segnalazione da parte dei revisori dei conti, previsto dal decreto originario e scomparso provvisoriamente alla Camera, e viene prevista una nuova normativa di trasparenza: le somme dei due stipendi, dopo che la sezione giurisdizionale della Corte dei conti ha irrogato la sanzione, vengono iscritte nel bilancio dell'ente, ma fino a che non sono recuperate integralmente vanno pubblicati sul sito istituzionale del Comune gli estremi della sentenza e gli importi da recuperare (tacendo per ragioni di privacy i nomi dei funzionari sanzionati) (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIIn «Gazzetta» la relazione di fine mandato. Federalismo attuato fuori tempo massimo.
Dopo infinita gestazione, è sbarcato sulla «Gazzetta Ufficiale» il decreto di Viminale ed Economia che fissa le regole per la «relazione di fine mandato» in cui sindaci e presidenti di Provincia devono mettere in chiaro i numeri della loro gestione e farli giudicare ai cittadini.

L'arrivo in Gazzetta è avvenuto con una tempistica perfetta, giusto pochi giorni dopo che 719 Comuni sono andati al voto senza la relazione perché il decreto, pronto da mesi, sulla Gazzetta non era ancora arrivato.
All'appello mancano solo i Comuni della Sicilia, tra cui città importanti come Catania e Messina, dove si voterà il 9 e 10 giugno: ma la Sicilia è a Statuto speciale, e nelle regioni autonome la relazione non c'è. Niente di nuovo, per carità: anche il 6 e 07.05.2012 andarono alle urne 942 Comuni disinteressandosi del nuovo strumento di trasparenza, previsto per legge da un anno ma all'epoca privo dei provvedimenti attuativi.
Peccato, perché la relazione doveva rappresentare uno strumento di svolta nel rapporto fra politici locali ed elettori secondo i fan del federalismo fiscale. A introdurla è stato il decreto «premi e sanzioni» (Dlgs 149/2011), che ha attuato la «legge Calderoli» prevedendo anche il fallimento politico: cioè l'incandidabilità degli amministratori responsabili dei dissesti che il decreto salva-enti dell'ottobre scorso ha evitato a decine e decine di enti.
Nella relazione, certificata dai revisori, dovrebbero trovar posto i dati chiave di bilancio e patrimonio, gli esiti dei controlli e gli ammonimenti della Corte dei conti. Lo scopo, evidente, sarebbe di puntare le campagne elettorali sullo stato del Comune anziché su Berlusconi o i «comunisti». Nel 2014 si voterà in 4mila Comuni: sarà la volta buona? (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2013).

VARIGUARDIE MEDICHE/ Rifiuto di visita punibile come omissione.
Omissione di atti d'ufficio e lesioni colpose per il medico di guardia che rifiuta la visita domiciliare.

La Corte di Cassazione (sentenza n. 23817/2013) punisce la condotta del camice bianco che, nella sua qualità di pubblico ufficiale, durante il turno di guardia deve fare tutti gli interventi richiesti dall'utente o, quando c'è, dalla centrale operativa. Se non lo fa il reato di omissione di atti d'ufficio scatta anche se si verifica che il paziente non era grave.
Nel caso esaminato erano state invece sottovalutate le indicazioni date dalla moglie del malato nelle numerose chiamate. In ospedale all'uomo era stata diagnosticata una polmonite. E all'omissione di atti d'ufficio si è unito il reato di lesioni colpose (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2013).

TRIBUTIPer l'Imu versamento unificato. Non necessario separare quota statale e comunale tranne che per i capannoni. Le risposte ai temi dei lettori. Come pagare l'imposta municipale nel caso in cui non si possa usufruire del rinvio
IL CALCOLO/ Sulla base del decreto legge sulla Pa l'acconto può essere determinato sulla base di quanto versato l'anno scorso.

Rispetto al 2012 sono molti meno i codici tributo da indicare nel modello F24 per pagare l'Imu del 2013: non va più calcolata la quota per lo Stato (tranne per i fabbricati produttivi). Inoltre si può versare la prima rata 2013 calcolando l'imposta con le aliquote e le detrazioni del 2012 (non la base imponibile), quindi indipendentemente dalla pubblicazione o meno delle delibere comunali nel sito delle Finanze.
Il ritardo nella consegna della versione definitiva del programma per gli studi di settore (Gerico 2013), però, ha ritardato la predisposizione delle dichiarazioni dei redditi e il calcolo di eventuali crediti compensabili col pagamento della prima rata Imu, in scadenza il 17 giugno. L'eventuale proroga all'08.07.2013 solo dei versamenti di Unico 2013 e non dell'Imu, quindi, renderà impossibile utilizzare in compensazione coi debiti Imu eventuali crediti generati dalla dichiarazione dei redditi.
La legge di stabilità 2013 (la 228/2012) ha previsto che, per gli anni 2013 e 2014, non spetti allo Stato la metà dell'Imu, calcolata con l'aliquota standard dello 0,76% (articolo 1, comma 380, lettera h): è stata temporaneamente soppressa la disposizione che per tutti gli immobili (tranne l'abitazione principale, le sue pertinenze e i fabbricati rurali a uso strumentale), riservava allo Stato parte dell'imposta. Da quest'anno, quindi, in F24 non occorre più suddividere l'importo da pagare tra il codice tributo destinato al Comune e quello destinato allo Stato.
Un'unica eccezione è costituita dall'Imu dovuta per gli immobili ad uso produttivo classificati nel gruppo catastale D. La legge di stabilità 2013, infatti, sempre per gli anni 2013 e 2014 (ed erroneamente «al fine di assicurare la spettanza ai Comuni del gettito» dell'Imu), ha previsto che spetti allo Stato l'Imu, calcolata con l'aliquota standard dello 0,76%, sugli immobili di categoria D. Va usato il codice tributo 3925 per la quota statale e 3930 per l'eventuale maggiorazione comunale.
Dopo la semplificazione dell'unico codice tributo per gli immobili non produttivi, sta per arrivare anche la possibilità di pagare la prima rata Imu, applicando le aliquote e le detrazioni in vigore lo scorso anno, senza dover controllare le delibere comunali pubblicate nel sito delle Finanze al 16.05.2013. Entro il 07.06.2013, infatti, al Senato dovrà essere convertito il decreto legge 35/2013 e «il versamento della prima rata» dell'Imu sarà «eseguito sulla base dell'aliquota e delle detrazioni dei dodici mesi dell'anno precedente», indipendentemente, quindi, dalla pubblicazione o meno delle delibere nel sito delle Finanze (articolo 9, comma 3 del Dlgs 23/2011).
Secondo il dipartimento delle Finanze (circolare 23 maggio 2013, n. 2/DF), comunque, anche «prima della citata conversione» è possibile pagare la prima rata Imu considerando queste novità. Infatti, in caso di accertamento da parte del Comune potrà essere applicato l'articolo 10, comma 3 della legge 212/2000, che prevede la disapplicazione delle sanzioni «quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione della norma tributaria» (articolo Il Sole 24 Ore del 31.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATARisposta del ministero dell'economia a un'interrogazione parlamentare sul dl 83. Solidarietà negli appalti a 360°. Applicazione in tutti i settori e non solo nell'edilizia.
La solidarietà a favore del fisco vige in tutti gli appalti, e non solo nell'edilizia.

L'articolo 35 del decreto legge 223/2206 (modificato dal decreto legge 83/2012) va interpretato in senso estensivo, in quanto ispirato all'obiettivo della lotta all'evasione fiscale, che vale per tutti i settori merceologici.
È quanto chiarito in una risposta del Mef a un'interrogazione parlamentare in commissione finanze alla camera, che ha sollevato il dubbio dell'ambito di applicazione dell'obbligo solidale.
Ma partiamo dall'esame della disciplina. Nei contratti di appalto e di subappalto l'appaltatore risponde in solido con il subappaltatore del versamento all'Erario delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e del versamento dell'Iva dovuta dal subappaltatore all'Erario. Questo significa che l'appaltatore deve pagare le ritenute e l'Iva dovuta dal subappaltatore, anche se la responsabilità è contenuta nei limiti dell'ammontare del corrispettivo dovuto.
Per non incorrere nella responsabilità l'appaltatore deve acquisire la documentazione relativa all'avvenuta esecuzione degli obblighi fiscali (anche mediante una attestazione asseverata di soggetto abilitato). Tra l'altro si può sospendere il pagamento del corrispettivo fino a che non sia esibita la documentazione sulla regolarità tributaria: questo vale sia per l'appaltatore nei confronti del subappaltatore, sia per il committente nei confronti dell' appaltatore (se non osserva gli obblighi a suo carico).
Il problema interpretativo affrontato dall'interrogazione parlamentare è se la speciale procedura riguardi solo il settore dell'edilizia o si estenda ad altri campi. La risposta del Mef parte dallo scopo della normativa: contrastare l'evasione. Dunque il «nero» va combattuto, creando conflitti di interesse, non solo nel settore edile, ma in tutti gli appalti e subappalti a prescindere dal settore economico.
Altro tema è la definizione dei contratti di appalto e di subappalto coinvolti. L'articolo 28 citato si riferisce ai contratti di appalto di opere e servizi. A questo proposito si segnala che la risposta all'interrogazione elenca i contratti esclusi dalla procedura di solidarietà, individuandoli nei contratti diversi da quello tipico previsto dall'articolo 1655 del codice civile.
Rimangono, dunque, esclusi il contratto di opera, il contratto di trasporto, il contratto di subfornitura e le prestazioni rese nell'ambito di un rapporto consortile. Quanto agli appalti di fornitura dei beni, questi sono menzionati espressamente dal comma 28-ter dell'articolo 35 del decreto legge 223/2006, che dettaglia il campo di applicazione; tuttavia i precedenti commi 28 e 28-bis (dedicati alla descrizione dell'istituto della responsabilità solidale e dei suoi effetti) non ne parlano e si limitano a citare solo gli appalti di opere e servizi.
Per questa asimmetria l'agenzia delle entrate ha ritenuto gli appalti di fornitura di beni estranei alla disciplina della solidarietà. Disciplina che, dove applicabile, vige sia nei rapporti trilaterali (committente, appaltatore e subappaltatore) sia nei rapporti bilaterali (committente e appaltatore) (articolo ItaliaOggi del 31.05.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Rinnovabili, ciambella ai tecnici. Un anno in più per abilitarsi. E l'esperienza maturata vale. Nel decreto legge sull'efficienza energetica, oggi in Cdm, una norma salva installatori.
Proroga di un anno della scadenza per abilitarsi (01.08.2014) come installatore e manutentore di impianti da fonti rinnovabili e possibilità di qualificarsi utilizzando l'esperienza lavorativa già maturata. Potranno infatti svolgere attività di installazione e manutenzione straordinaria anche i soggetti che hanno già lavorato, per almeno tre anni, alle dipendenze di una impresa abilitata nel ramo degli impianti da fonti rinnovabili.
Sono queste alcune delle importanti novità contenuta nello schema di decreto legge di recepimento della direttiva 2010/31/Ue che il governo dovrebbe approvare domani. Novità che vanno incontro all'allarme lanciato il 16/05/2013 da ItaliaOggi e che ha innescato la mobilitazione di Cna, Confartigianato e Casartigiani.
Nell'articolo 16 dello schema di decreto legge viene esaminata infatti un'importante questione che rischiava di togliere dal mercato, da agosto, 80 mila imprese di installazione impianti, con circa 200 mila addetti nel campo delle energie rinnovabili (fotovoltaico, a biomasse, solare termico, pompe di calore e geotermia). Una modifica all'articolo 15 del dlgs 03.03.2011 n. 28 (il cosiddetto decreto rinnovabili) riconosce l'attività di installatore già svolta e dà più tempo agli stessi di partecipare ai corsi di formazione.
Questi soggetti dovranno anche conseguire la qualifica di installatori e manutentori, ma avranno tempo fino al 31.03.2014 per iscriversi agli appositi corsi di formazione e fino al 01.08.2014 per conseguire il relativo attestato. I corsi di formazione dovranno essere attivati dalle regioni e province autonome entro il 31.10.2013.
L'articolo 15 del dlgs 03.03.2011 n. 28 stabilisce che per svolgere l'attività di installazione e manutenzione straordinaria di impianti da fonti rinnovabili (caldaie, caminetti e stufe a biomassa, sistemi fotovoltaici e termici su edifici, sistemi geotermici a bassa entalpia e pompe di calore), è necessario essere in possesso di almeno uno dei seguenti requisiti: diploma di laurea in materia tecnica specifica; diploma o qualifica di scuola superiore con specializzazione relativa al settore degli impianti, seguiti da un periodo di inserimento in un'impresa del settore; titolo o attestato di formazione professionale, previo periodo di inserimento in un'impresa del settore (articolo ItaliaOggi del 31.05.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Dal 13/06 l'Aua è in vigore Stop a sette autorizzazioni.
Al via, dal 13 giugno, l'autorizzazione unica ambientale, che sostituirà sette provvedimenti autorizzativi; durerà 15 anni e dovrà essere richiesta allo sportello unico ambientale; riguarderà gli impianti non soggetti a autorizzazione integrale ambientale.

Sono questi i punti principali del corposo (380 pagine)
D.P.R. 13.03.2013 n. 59, pubblicato sul supplemento ordinario alla gazzetta ufficiale n. 124 del 29.05.2013.
Il provvedimento, in vigore dal prossimo 13 giugno e previsto dall'art. 23 del decreto legge 5/2012 (il cosiddetto «decreto Semplificazioni»), procede alla semplificazione degli adempimenti amministrativi in materia ambientale per le imprese e gli impianti non soggetti ad autorizzazione integrata ambientale. L'autorizzazione unica ambientale (Aua) attua una prima fase di semplificazione delle procedure di autorizzazione, già previste nel decreto semplificazioni e sostituisce fino a sette procedure diverse che prima dovevano essere ottenute singolarmente (per esempio: l'autorizzazione allo scarico di acque reflue industriali, l'autorizzazione alle emissioni in atmosfera, la documentazione previsionale di impatto acustico ecc.).
Dal 13.06.2013 basterà quindi un'unica domanda da presentare per via telematica allo Sportello Unico per le attività produttive (Suap) per richiedere l'unica autorizzazione necessaria. Le Regioni potranno estendere ulteriormente il numero di atti compresi nell'Aua. Il regolamento, semplifica la vita delle imprese di piccole dimensioni («pmi») e degli impianti di dimensioni diverse da quelle per le quali è previsto che si debba procedere alla richiesta di Aia (autorizzazione integrata ambientale, ai sensi dell'articolo 29-ter e seguenti, dlgs 152/200. Saranno quindi interessate le microimprese, le piccole e medie imprese di cui all'articolo 2 del decreto del ministro delle attività produttive 18.04.2005.
L'autorizzazione unica, che avrà la durata di 15 anni, non sarà necessaria per i progetti sottoposti alla valutazione di impatto ambientale, se la normativa statale e regionale dispone che il provvedimento di Via comprende e sostituisce tutti gli altri atti di assenso, comunque denominati, in materia ambientale. In un unico procedimento verranno raccolte fino a sette autorizzazioni ambientali che prima dovevano essere ottenute singolarmente. Si prevede anche che le regioni possano aumentare l'elenco delle autorizzazioni ambientali.
Il dpr stabilisce anche tempi certi per il rilascio: entro trenta giorni occorrerà verificare il contenuto della domanda; entro 90 o 120 giorni dalla presentazione della domanda deve essere adottato il provvedimento. Sono previsti poteri sostitutivi in caso di inerzia dell'amministrazione, sarà poi l'autorità competente a trasmettere in modalità telematica ogni comunicazione al gestore tramite lo sportello unico. Si ricorda che l'autorizzazione unica ambientale non è applicabile ai progetti sottoposti a valutazione di impatto ambientale. In quel caso è la Via a essere il provvedimento che comprende e sostituisce tutti gli altri atti di assenso, comunque denominati, in materia ambientale.
Dal punto di vista della disciplina transitoria il decreto stabilisce che i procedimento avviati prima del 13 giugno si concludano secondo le norme vigenti al momento della presentazione della domanda. Con successivo dm dell'ambiente, verrà messo a punto un modello semplificato e unificato per la richiesta di Aua. Che può essere richiesta alla scadenza del primo titolo abilitativo da essa sostituito (articolo ItaliaOggi del 31.05.2013).

ENTI LOCALI - TRIBUTIDoppia proroga per i comuni. Bilanci in autunno, l'addio di Equitalia slitta a fine anno. L'ok all'incontro dell'Anci con Saccomanni. Cattaneo: spending review insostenibile per il 2013.
Riforma dell'Imu già entro giugno e slittamento di almeno sei mesi dell'addio di Equitalia ai comuni (la proroga è stata inserita nel decreto sui debiti della p.a. all'esame del senato, si veda altro pezzo in pagina). Il governo è intenzionato a fare presto e a non arrivare con l'acqua alla gola alla dead line per la riforma della fiscalità locale fissata per fine agosto.
Lo chiedono i sindaci, che hanno bisogno di certezze per chiudere i bilanci (e a questo punto pare certo l'ulteriore proroga del termine per l'approvazione dei preventivi che potrebbe essere spostato al 30 settembre). E lo vuole lo stesso esecutivo guidato da Enrico Letta, intenzionato a gestire il capitolo Imu assieme a quello della Tares, in una prospettiva unitaria che potrebbe portare alla nascita di un nuovo tributo legato all'insediamento residenziale e ai servizi resi, come richiesto dall'Anci.
Una timida apertura verso la service tax? È ancora troppo presto per dirlo. Perché nell'incontro di ieri tra i rappresentanti dell'associazione dei comuni e il ministro dell'economia Fabrizio Saccomanni si è parlato sì di futuro, ma soprattutto di passato. I comuni hanno infatti molti contenziosi ancora in essere col Mef e l'obiettivo dell'Anci è chiuderli il prima possibile in modo da facilitare l'approvazione dei bilanci.
Il primo riguarda i tagli della spending review lasciata in eredità da Mario Monti che per il 2013 chiede ai municipi un sacrificio di 2 miliardi e 250 milioni calcolati sui consumi intermedi e non sui fabbisogni standard come vorrebbero i sindaci. L'anno scorso l'Anci riuscì a spuntare in extremis una sterilizzazione dei tagli, convincendo il governo Monti a dirottare una cifra equivalente sulla riduzione dell'indebitamento. Ma quest'anno il problema si ripropone in tutta la sua gravità. «Calcolare i tagli sui consumi intermedi significa penalizzare le amministrazioni più virtuose perché si tratta di un criterio che non distingue tra spesa buona e spesa cattiva», ha osservato il sindaco di Livorno Alessandro Cosimi, presente all'incontro.
Saccomanni ha assicurato l'impegno del governo a risolvere il capitolo spending assieme alle altre criticità in materia di fiscalità locale che per i comuni valgono circa 900 milioni di euro. Il riferimento è ai disallineamenti tra le stime comunali e quelle governative sull'Imu 2012, ma anche al capitolo ancora aperto dell'Ici 2010, per non parlare del nodo dell'Imu sugli immobili comunali che i sindaci sono costretti a pagare. «Il governo ha ammesso che il problema esiste e si è impegnato a risolverlo in tempo utile per l'approvazione dei bilanci», ha commentato il presidente dell'Anci e sindaco di Pavia, Alessandro Cattaneo. «Per il momento l'80% dei comuni non è in grado di chiudere i preventivi», ha proseguito, «e questo rende necessaria una proroga che non avremmo mai voluto chiedere, perché varare i bilanci 2013 quasi con un anno di ritardo è una sconfitta per tutti, ma purtroppo è il governo ad averci messo in questa condizione».
Nell'incontro di ieri con Saccomanni l'Anci ha anche incassato il nullaosta politico alla proroga di sei mesi dell'uscita di scena di Equitalia dalla riscossione locale, prevista a partire dal 1° luglio. E subito dopo l'ok di via XX Settembre, lo slittamento è stato messo nero su bianco in un emendamento al decreto sui pagamenti della p.a. (dl 35/2013) presentato dai relatori, Giorgio Santini (Pd) e Antonio D'Alì (Pdl) e approvato in commissione bilancio del senato. Tutto a rimandato a fine 2013, dunque, in attesa che giunga a compimento la riforma della riscossione locale. Una riforma attesa invano da oltre due anni (articolo ItaliaOggi del 31.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI: Sfori il Patto per pagare i debiti? Niente tagli ai trasferimenti. Gli emendamenti dei relatori al dl 35 all'esame del senato.
In arrivo una boccata d'aria fresca per i comuni. All'interno del decreto pagamenti, sono confluiti, infatti, gli emendamenti relativi sia alla proroga al mandato di Equitalia, sia all'allentamento delle sanzioni per quei comuni che, per pagare i debiti in conto capitale, hanno sforato il patto di stabilità.

Questo è quanto emerso ieri, a termine delle votazioni degli emendamenti al dl 35, presentati in Commissione bilancio al Senato. Il testo definitivo, arriverà in aula lunedì, giusto in tempo per poter rispettare la scadenza del 7 giugno, termine ultimo entro cui il decreto può essere convertito in legge.
Equitalia. La proroga a Equitalia diventa realtà. La scadenza del mandato dell'ente di riscossione, era infatti stabilita per il 30 giugno. Molte però, sono state le richieste di proroga, avanzate da quei comuni che, al 30 giugno, non sarebbero stati in grado di gestire il servizio di riscossione in modo autonomo o tramite l'affidamento del servizio a soggetti terzi o a apposite società in house. Tanto hanno chiesto, tanto hanno ottenuto.
Allo scadere del termine del 30 giugno, quei comuni sprovvisti di una soluzione per la gestione del servizio, potranno avvalersi dei servizi forniti da Equitalia (si veda ItaliaOggi del 10 maggio) per altri sei mesi «nella speranza» ha dichiarato il relatore Giorgio Santini «che questo sia un tempo sufficiente affinché i comuni trovino una soluzione». La proroga però, che ha la scadenza fissata per il 31 dicembre, non sarà vincolante. Quei comuni pronti a gestire in modo autonomo il servizio di riscossione, saranno infatti liberi di iniziare la gestione in proprio, dal 1 luglio.
Patto di stabilità. Un piccolo spiraglio anche sul fronte patto di stabilità. È infatti stato accolto l'emendamento che prevede l'allentamento delle sanzioni per quei comuni che per restare in regola con i pagamenti verso le imprese, o per saldare debiti precedenti, hanno sforato il patto di stabilità. Per questi enti, che in Italia sono poco meno di un centinaio, verrà interdetta la sanzione relativa al blocco dei trasferimenti. Restano ferme però, le altre tipologie di sanzione, come quella del blocco delle assunzioni.
I professionisti. Novità anche per i professionisti. Per quanto i mancati pagamenti da parte della p.a. nei confronti di questi, siano considerati debiti a tutti gli effetti, agli albori del decreto pagamenti, non erano stati annoverati nell'elenco previsto dall'art. 5, rubricato pagamento dei debiti delle amministrazioni dello stato.
A dichiararsi soddisfatto, ma solo parzialmente, il presidente nazionale della Cna professioni (Confederazione nazionale dell'artigianato e della piccola e media impresa), Giorgio Berloffa, secondo cui «per quanto i professionisti siano stati inclusi nell'elenco dell'art. 5, restano ancora esclusi dall'art. 9 relativo alla possibilità che le prestazioni professionali possano accedere alle compensazioni». I professionisti quindi, con l'approvazione dell'emendamento, hanno ottenuto solo una virtuale possibilità di avere quanto gli è dovuto.
Gli intermediari finanziari. Via libera poi anche all'emendamento che autorizza l'individuazione di intermediario finanziari, che possano essere incaricati di gestire i fondi che lo stato dovrà mettere a disposizione nel 2014, per finire di saldare i debiti che le pubbliche amministrazioni hanno maturato entro il 31.12.2012.
Una vera e proprio garanzia da parte dello stato, per rendere più cogente l'impegno a svuotare nel 2014 il plafond di crediti che le aziende hanno maturato nei confronti della pubblica amministrazione.
L'ordine dei pagamenti. Nessuna novità invece sul fronte delle priorità dei pagamenti. Le prime infatti, ad aver diritto al pagamento del quantum, resteranno le imprese che non hanno effettuato operazioni di cessione dei crediti nei confronti delle banche. «Le imprese», ha concluso il relatore Santini «avranno la priorità su tutti i pagamenti» (articolo ItaliaOggi del 31.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La p.a. nasconde? Class action. Non adempiere agli obblighi di trasparenza costerà caro. La legge anticorruzione affida a successivi dm la definizione delle informazioni essenziali.
La poca trasparenza farà scattare la class action. Una volta approvati i decreti ministeriali previsti dall'articolo 1, comma 31, della legge anticorruzione, potrebbe costare caro alle pubbliche amministrazioni non adempiere agli obblighi di pubblicità, previsti dalla legge 190/2012 e dal dlgs 33/2013: infatti, l'inciampo sull'opacità dei dati è causa dell'azione collettiva di risarcimento del danno.
Per i cittadini singoli o associati, la possibilità di ricorrere contro le amministrazioni poco propense a rispettare gli obblighi di trasparenza è fissato dall'articolo 1, comma 33, della legge 190/2012, ai sensi del quale «la mancata o incompleta pubblicazione, da parte delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni di cui al comma 31 costituisce violazione degli standard qualitativi ed economici ai sensi dell'articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 20.12.2009, n. 198, ed è comunque valutata ai sensi dell'articolo 21 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni.
Eventuali ritardi nell'aggiornamento dei contenuti sugli strumenti informatici sono sanzionati a carico dei responsabili del servizio
».
Il dlgs 198/2009 è, appunto, la norma che regola la class action, che può scattare proprio quando un'amministrazione pubblica gestisca le proprie attività violando obiettivi di qualità minimi inderogabili, cioè gli standard previsti dall'articolo 1, comma 1, del medesimo decreto.
L'articolo 1, comma 31, della legge anticorruzione rinvia ad uno o più decreti ministeriali il compito di determinare le informazioni rilevanti ai fini dell'applicazione delle norme sulla trasparenza, in particolare riferite agli ambiti operativi a maggior rischio di corruzione: procedimenti di autorizzazione/concessione, appalti, concessione di sovvenzioni e contributi, concorsi.
I decreti fisseranno anche le relative modalità di pubblicazione, nonché le indicazioni generali per l'applicazione dei commi 29 e 30 sempre della legge anti corruzione, commi che specificano le modalità con le quali i cittadini, sia mediante la posta elettronica, sia attraverso l'utilizzo dei portali, potranno relazionarsi con le amministrazioni per avere notizie o addirittura gestire i procedimenti amministrativi di loro interesse.
Le amministrazioni, dunque, debbono stare sull'avviso. La normativa anticorruzione e sulla trasparenza non ha dato ai cittadini che pretendono la pubblicità dei dati obbligatoriamente pubblici solo l'arma dell'accesso civico, previsto dall'articolo 5 del dlgs 33/2013.
L'accesso civico è stato da molti considerato e presentato come uno sviluppo o potenziamento del diritto di accesso già regolato dalla legge 241/1990. Nulla di tutto questo. Le due fattispecie restano autonome e distinte. L'articolo 5 del dlgs 33/2013 è semplicemente un sistema non contenzioso, col quale qualsiasi cittadino può chiedere per le vie brevi (mail) alle amministrazioni di pubblicare informazioni, documenti e dati che dovrebbero essere contenute nei siti istituzionali, ma che risultino assenti.
Nel caso dell'accesso civico, il responsabile della trasparenza deve rispondere entro 30 giorni, accogliendo la richiesta o chiarendo che l'informazione era già presente.
Il dlgs 33/2013 non prevede espressamente rimedi contro l'eventuale inerzia dell'amministrazione. Ma il rimedio è appunto previsto dall'articolo 1, comma 33, della legge anticorruzione, che qualificando gli obblighi di trasparenza come standard qualitativi ed economici, permette di attivare l'azione di risarcimento conto le amministrazioni inadempienti.
In sintesi, i cittadini possono diffidare l'amministrazione, invitandoli alla pubblicazione entro il termine di novanta giorni. La diffida è notificata all'organo di vertice dell'amministrazione, che dovrebbe individuare il settore in cui si è verificata la violazione: nel caso di specie, ovviamente, il carico di responsabilità incomberà sul responsabile della trasparenza, che negli enti locali coincide (salvo motivate ragioni) col segretario comunale.
Il responsabile, di conseguenza, stabilirà come procedere per rimediare alla diffida e scongiurare il ricorso al Tar, proponibile se, decorso il termine di 90 giorni perduri la violazione alle regole sulla trasparenza.
Il giudice può ordinare, accogliendo il ricorso, l'adempimento e dalla decisione debbono derivare le conseguenze sanzionatorie a carico dei soggetti responsabili (articolo ItaliaOggi del 31.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI: Conti locali a rischio. La sanatoria dei debiti fuori bilancio non paga. L'emendamento al dl 35 penalizza le amministrazioni più virtuose.
Dagli emendamenti al dl 35/2013 sullo sbocco dei pagamenti della p.a. spunta una sanatoria generalizzata per i debiti fuori bilancio maturati al 31/12/2012 e riconoscibili dal consiglio degli enti locali, ai sensi dell'art. 194 del dlgs 267/2000.
In pratica, con la nuova formulazione dell'art. 1, comma 1, sarà possibile conteggiare anche i debiti fuori bilancio relativi a spese in conto capitale, ai fini della distribuzione degli «spazi finanziari» esclusi dai vincoli del patto di stabilità interno e, quindi, consentirne il pagamento in deroga agli obiettivi stabiliti dagli artt. 30 e seguenti della legge 183/2011, circ. 5 del 07/02/2013 e dm 14/05/2013.
Però, il lodevole intento di procedere all'immediato pagamento di tutti i debiti scaduti della p.a., rischia di fare d'ogni erba un fascio; infatti, così facendo si considerano irrazionalmente allo stesso modo sia i debiti regolarmente contabilizzati da parte di enti virtuosi che hanno comunque adeguato i loro investimenti alle restrizioni del patto di stabilità ed ai vincoli dell'indebitamento, sia i debiti generati da comportamenti non conformi alla legge, definiti per l'appunto «debiti fuori bilancio» dall'art. 194 del Tuel e dal principio contabile n. 2 dell'Osservatorio per la finanza locale.
Si tratta, ad esempio, di palesi violazioni delle procedure di trasparenza nella scelta del contraente, delle norme sulla programmazione di bilancio, progettazione ed esecuzione dei lavori pubblici, indebitamento e così via, senza contare la pratica (purtroppo) diffusa di realizzare opere pubbliche fuori da qualsiasi regola nella consapevolezza di avviare in un secondo momento il riconoscimento della spesa quale debito fuori bilancio.
La nuova formulazione dell'art. 1, fa saltare anche il pesante sistema sanzionatorio previsto per gli enti che non rispettano i vincoli di finanza pubblica: taglio trasferimenti pari allo sforamento dell'obiettivo, blocco assoluto delle assunzioni di personale e dell'indebitamento, contenimento delle spese correnti, riduzione del 30% indennità e gettoni degli amministratori (art. 1, comma 439, legge 228/2012).
Di fatto, vengono premiati gli enti meno virtuosi e, contemporaneamente, penalizzati quelli che hanno rispettato le regole, perché non avendo questi ultimi debiti da pagare né debiti fuori bilancio, non possono richiedere «spazi ulteriori» ai fini del patto di stabilità.
D'altro canto, un simile ragionamento vale anche per i fornitori degli enti locali che vantano crediti inevasi: sono posti tutti sullo stesso piano, sia quelli risultanti i migliori offerenti a seguito di regolari gare pubbliche sia quelli assegnatari di lavori/forniture in assenza di un analogo percorso di trasparenza amministrativa.
Inoltre, non si dispone al momento attuale di nessuna stima sull'entità del fenomeno dei debiti fuori bilancio che potrebbero rientrare nella fattispecie considerata dalla nuova riformulazione dell'art. 1 anche in relazione alla possibilità di riformulare la richiesta di spazi finanziari entro il 05/07/2013.
In ultima analisi, si pone un grande problema di disparità di trattamento tra enti e tra fornitori della p.a., che comunque potrebbe essere ancora corretto prima della conversione in legge del dl 35/2013 (articolo ItaliaOggi del 31.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAAmbiente. Nell'«Aua» potranno essere assorbiti atti degli enti. L'Autorizzazione unica darà spazio alle Regioni.
IL PASSAGGIO/ Nuove disposizioni in vigore dal 13 giugno Le procedure in corso continueranno con le vecchie modalità.

Dalla comunicazione d'impatto acustico alle autorizzazioni per inquinamento atmosferico poco significativo, l'Autorizzazione unica ambientale (Aua) gioca a tutto campo nel sistema delle autorizzazioni ambientali delle Pmi.
La nuova disciplina è contenuta nel
D.P.R. 13.03.2013 n. 59, pubblicato nella Gazzetta ufficiale numero 42 del 29 maggio scorso (si veda Il Sole 24 Ore di ieri) e, finalmente, grazie a essa il rapporto tra le imprese e l'amministrazione pubblica in materia di autorizzazioni ambientali dovrebbe diventare meno complicato.
Il sistema (previsto dall'articolo 23 della legge 35/2012) entrerà in vigore il prossimo 13 giugno, ma i procedimenti iniziati prima saranno conclusi in base alle norme vigenti all'atto del loro avvio. La platea interessata è quella delle Pmi di cui all'articolo 2 del Dm attività produttive 18.04.2005 e degli impianti non soggetti ad Autorizzazione integrata ambientale (Aia), di cui alla parte II del Dlgs 152/2006 (Codice ambientale). Quindi, attenzione a non confondere nomi e acronimi, poiché a ciascuno di essi sottendono procedimenti amministrativi molto diversi.
Grazie all'Aua, un unico procedimento riunirà ora fino a sette autorizzazioni ambientali. Ma non finisce qui, perché le Regioni potranno anche individuare ulteriori atti di comunicazione, notifica e autorizzazione in materia ambientale da far confluire nell'Autorizzazione unica ambientale. Inoltre, in caso di inerzia di uno degli enti coinvolti, è previsto l'esercizio di poteri sostitutivi, il che induce maggiore certezza sui tempi di rilascio.
L'Aua non si applica agli impianti soggetti ad Aia, né ai progetti sottoposti a Via (Valutazione impatto ambientale) se le norme statali e regionali dispongano che il provvedimento finale di Via comprende e sostituisce tutti gli altri atti di assenso, comunque denominati, in materia ambientale, ai sensi dell'articolo 26, comma 4, del Dlgs 152/2006. Se il progetto è sottoposto a screening per la Via, l'Aua può essere richiesta solo dopo l'esito negativo di tale screening.
L'Aua dura 15 anni ed è rilasciata dal Suap, lo Sportello unico per le attività produttive di cui al Dpr 160/2010. Essa sostituisce più atti di comunicazione, notifica ed autorizzazione in materia ambientale (anche in ordine ai rinnovi). Si tratta dell'autorizzazione agli scarichi; della comunicazione preventiva per l'uso agronomico di effluenti di allevamento, di acque di vegetazione dei frantoi oleari e di acque reflue provenienti dalle aziende di cui all'articolo 112, del Codice ambientale; dell'autorizzazione alle emissioni in atmosfera; dell'autorizzazione generale per gli impianti con emissioni scarsamente rilevanti agli effetti dell'inquinamento atmosferico di cui all'articolo 272 del Dlgs 152/2006 (salva la facoltà del gestore di aderire tramite il Suap a tale autorizzazione generale). Sostituisce, inoltre, la comunicazione o nulla osta di cui all'articolo 8 della legge 447/1995 per l'impatto acustico; l'autorizzazione all'uso agronomico dei fanghi di depurazione di cui al Dlgs 92/1999; le comunicazioni in materia di autosmaltimento e recupero agevolato di rifiuti pericolosi e non pericolosi.
Sul fronte procedurale, la domanda per il rilascio dell'Aua (completa di documenti, dichiarazioni e altre attestazioni previste dalle norme di riferimento) si presenta al Suap, che la trasmette in via telematica alle amministrazioni che intervengono nei procedimenti sostituiti dall'Aua.
L'eventuale richiesta d'integrazione documentale è comunicata al Suap entro 30 giorni dalla presentazione della domanda. Se l'impresa non deposita la documentazione richiesta entro il termine fissato dall'autorità competente, l'istanza è archiviata a meno che l'impresa non richieda una proroga in ragione della complessità della documentazione da presentare.
Se l'Aua sostituisce le autorizzazioni per le quali la conclusione del procedimento è fissata in un termine inferiore o pari a 90 giorni, l'autorità competente adotta il provvedimento entro 90 giorni dalla presentazione della domanda e lo trasmette al Suap. che rilascia l'Aua. Un Dm introdurrà un modello unificato per la richiesta di Aua. Gli oneri istruttori sono a carico delle imprese richiedenti (articolo Il Sole 24 Ore del 31.05.2013).

EDILIZIA PRIVATAFittasi con attestato. Certificato energetico per locazioni. L'obbligo è nel dl in arrivo sul risparmio energetico.
Il nuovo «attestato di prestazione energetica» è vincolante anche per le locazioni di edifici o unità immobiliari.
Il vincolo delle attestazioni di prestazioni energetiche anche per le locazioni viene previsto con l'articolo 6 dello schema di decreto legge, rubricato «recepimento della direttiva 2010/31/Ue del Parlamento europeo e del consiglio del 19.05.2010, n. 31 sulla prestazione energetica nell'edilizia», che dovrebbe essere approvato al prossimo consiglio dei ministri.
Questo articolo, nello schema di decreto, va a sostituire integralmente l'art. 6 del dlgs 19.08.2005, n. 192 e stabilisce, quanto segue: l'attestato di certificazione energetica degli edifici è denominato «attestato di prestazione energetica» ed è rilasciato per gli edifici o le unità immobiliari costruiti, venduti o locati a un nuovo locatario e per gli edifici utilizzati da pubbliche amministrazioni e aperti al pubblico con superficie utile totale superiore a 500 m2; nel caso di vendita o di nuova locazione di edifici o unità immobiliari, ove l'edificio o l'unità non ne sia già dotato, il proprietario è tenuto a produrre l'attestato di prestazione energetica; nei contratti di vendita o nei nuovi contratti di locazione di edifici o di singole unità immobiliari deve essere inserita apposita clausola con la quale l'acquirente o il conduttore danno atto di aver ricevuto le informazioni e la documentazione, comprensiva dell'attestato, in ordine all'attestazione della prestazione energetica degli edifici.
L'attestato di prestazione energetica ha una validità temporale massima di dieci anni a partire dal suo rilascio ed è aggiornato a ogni intervento di ristrutturazione che modifichi la classe energetica dell'edificio o dell'unità immobiliare. La validità temporale massima è subordinata al rispetto delle prescrizioni per le operazioni di controllo di efficienza energetica degli impianti termici, comprese le eventuali necessità di adeguamento.
È necessario ricordare che il decreto legge interviene per porre rimedio alla procedura d'infrazione aperta da parte della Commissione europea nei confronti dell'Italia (articolo ItaliaOggi del 30.05.2013).

TRIBUTIStop ai pagamenti anche se il conduttore non è rurale. E anche l'impianto solare schiva l'onere.
I campi senza Imu. Prima rata sospesa su tutti i terreni.

Non sono soggetti al pagamento dell'acconto Imu, la cui scadenza è fissata per il prossimo 17 giugno, i terreni agricoli anche se non condotti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali.
Questa interpretazione si ricava dalla formulazione letterale dell'articolo 1 del dl 54/2013 che concede la sospensione del pagamento richiamando l'articolo 13, comma 5 del dl «salva Italia» (201/2011), in base al quale il valore dei terreni agricoli su cui calcolare l'imposta è ottenuto moltiplicando il reddito dominicale risultante in catasto, vigente al 1° gennaio dell'anno di imposizione, rivalutato del 25%, per 135.
Per i coltivatori diretti e gli imprenditori professionali iscritti nella previdenza agricola, invece, il moltiplicatore è ridotto a 110. La norma, quindi, ricomprende nella nozione di terreno agricolo anche quello che non viene condotto direttamente da un coltivatore o imprenditore agricolo professionale. L'articolo 1 si limita però a concedere la sospensione dal pagamento dell'imposta solo per i terreni agricoli, mentre sono tenuti a passare alla cassa i titolari di terreni incolti, a meno che non siano posseduti e condotti da un agricoltore. Dal 2012, infatti, sono soggetti al pagamento dell'Imu anche i terreni incolti che prima erano esclusi dal campo di applicazione dell'Ici.
Va ricordato che i benefici fiscali sui terreni agricoli non sono più limitati alle persone fisiche, ma si estendono anche alle società agricole. Per la qualificazione di coltivatore diretto o imprenditore agricolo professionale occorre fare riferimento all'articolo 1 del decreto legislativo 99/2004 e non più, come avveniva per l'Ici, all'articolo 58 del decreto legislativo 446/1997.
Quest'ultima disposizione qualificava coltivatori diretti e imprenditori agricoli solo le persone fisiche iscritte negli elenchi comunali e soggette alla contribuzione obbligatoria per invalidità, vecchiaia e malattia. Dunque, escludeva le aziende agricole (società di persone, cooperative e di capitali, anche a scopo consortile). Tra l'altro, con le modifiche apportate alla disciplina Imu dall'articolo 4 del dl 16/2012, il trattamento agevolato per i terreni non è più circoscritto alla finzione giuridica di non edificabilità del suolo, ma abbraccia anche le riduzioni d'imposta.
In particolare, i terreni agricoli posseduti e condotti da coltivatori diretti o da imprenditori agricoli sono soggetti all'Imu limitatamente alla parte di valore eccedente 6 mila euro e con le seguenti riduzioni: a) del 70% dell'imposta gravante sulla parte di valore eccedente i 6 mila euro e fino a 15. 500; b) del 50% di quella gravante sulla parte di valore eccedente 15.500 euro e fino a 25.500; c) del 25% sulla parte di valore eccedente 25.500 euro e fino a 32 mila (articolo ItaliaOggi del 30.05.201).

TRIBUTICosì il fotovoltaico dribbla l'imposta.
Imu sospesa anche per i fabbricati rurali in cui sono installati impianti fotovoltaici. La sospensione, prevista dal dl n. 54/2013 entrato in vigore il 22.05.2013, infatti riguarda anche agli impianti fotovoltaici connessi all'attività agricola.

Con nota dell'agenzia del territorio del 06.06.2012 n. 3189, infatti, viene previsto che «agli immobili ospitanti le installazioni fotovoltaiche, censiti autonomamente e per i quali sussistono i requisiti per il riconoscimento del carattere di ruralità, nel caso in cui ricorra l'obbligo di dichiarazione in catasto (...) è attribuita la categoria D/10 - fabbricati per funzioni produttive connesse ad attività agricole».
Dalla nota del Territorio pertanto possiamo dedurre che gli impianti fotovoltaici connessi ad attività agricole, accatastati nella categoria D/10 (immobili strumentali per le attività agricole), rientrino tra le categorie di immobili ammessi alla sospensione della rata Imu di giugno.
Ricordiamo che il decreto legge 21.05.2013, n. 54 (articolo 1, comma 1, lettera c), ha stabilito che la sospensione della prima rata di giugno vale anche per i «terreni agricoli e fabbricati rurali di cui all'articolo 13, commi 4, 5 e 8, del decreto-legge 06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214, e successive modificazioni». In seguito il ministero dell'economia e delle finanze ha diramato la circolare del 23.05.2013 n. 2/DF al fine chiarire i numerosi dubbi sorti in capo ai contribuenti in merito al versamento della prima rata Imu 2013.
Tra i dubbi chiariti vi è quello riguardante la sospensione dell'acconto 2013 dell'Imu relativa ai terreni agricoli e i fabbricati rurali. Pertanto dal combinato esame della nota del territorio e della circolare delle finanze possiamo ritenere valida la sospensione della prima rata Imu per gli impianti fotovoltaici connessi alle attività agricole. Nell'ottica dell'incentivazione della produzione di energia elettrica mediante fonti rinnovabili, il legislatore ha introdotto, negli ultimi anni, disposizioni di carattere fiscale volte a promuovere l'esercizio di tali attività da parte degli imprenditori agricoli.
Infatti la produzione e la cessione di energia elettrica e calorica da fonti rinnovabili agroforestali e fotovoltaiche nonché di carburanti ottenuti da produzioni vegetali provenienti prevalentemente dal fondo e dì prodotti chimici derivanti da prodotti agricoli provenienti prevalentemente dal fondo effettuate dagli imprenditori agricoli, costituiscono attività connesse ai sensi dell'articolo 2135, terzo comma, del codice civile (articolo 1, comma 423, della legge 23.12.2005, n. 266) (articolo ItaliaOggi del 30.05.2013).

PUBBLICO IMPIEGOInps-inail. Ex Inpdap, call center unico.
Dal 1° giugno anche gli iscritti alle gestioni pensionistiche dei lavoratori dello spettacolo (ex Enpals) e dei dipendenti pubblici (ex Inpdap) potranno chiamare, per avere informazioni telefoniche, il Contact Center Multicanale Inps-Inail.
Si tratta, spiega una nota Inps, un ulteriore passo verso la completa integrazione degli enti soppressi, che permetterà agli utenti (lavoratori assicurati e pensionati) ex Enpals ed ex Inpdap di ricevere informazioni componendo:
• il numero verde gratuito 803.164 per le chiamate da telefono fisso;
• il numero 06.164164 per le chiamate da telefono cellulare (in questo caso la chiamata è a pagamento e il costo dipende dal piano tariffario applicato dai gestori telefonici ai cittadini che chiamano il Contact Center).
Il servizio è attivo dal lunedì al venerdì dalle 8 alle 20 e il sabato dalle 8 alle 14. Nelle restanti ore (e nei giorni festivi) rimane attivo un servizio automatico di risposta in funzione 24 ore su 24 (articolo ItaliaOggi del 30.05.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIAAmbiente. In Gazzetta il Dpr 59/2013. Dal 13 giugno parte l'autorizzazione unica ambientale.
SEMPLIFICAZIONI/ In un unico procedimento fino a sette provvedimenti Certezze sui tempi grazie a poteri sostitutivi in caso di inerzia degli enti.

Dopo un lungo limbo rispetto alla delibera del Consiglio dei ministri del 15.02.2013, è finalmente approdato alla Gazzetta Ufficiale di ieri (S.o. n. 42) il
D.P.R. 13.03.2013 n. 59 che riporta la disciplina dell'autorizzazione unica ambientale (Aua) e la semplificazione di adempimenti amministrativi in materia ambientale gravanti sulle pmi e sugli impianti non soggetti all'autorizzazione integrata ambientale (Aia). Il decreto entrerà in vigore giovedì 13 giugno, i procedimenti avviati prima di tale data saranno conclusi in base alle norme vigenti al momento del loro avvio.
Grazie all'Aua, ora un unico procedimento riconduce da una fino a sette autorizzazioni ambientali. Inoltre, poiché ora è previsto l'esercizio di poteri sostitutivi in caso di inerzia di uno degli enti coinvolti, le imprese avranno maggiore certezza sui tempi di rilascio.
L'Aua può essere richiesta alla scadenza del primo titolo abilitativo sostituito, un futuro Dm individuerà un modello unificato per la sua richiesta. Fino ad allora per le domande valgono le attuali procedure. La domanda va presentata al Suap (Sportello unico attività produttive) di cui al Dpr 160/2010 che la trasmette telematicamente alle autorità competenti.
L'Aua non si applica agli impianti soggetti ad Aia né ai progetti sottoposti a Via (Valutazione impatto ambientale) ove le norme statali e regionali dispongano che il provvedimento finale di Via comprende e sostituisce tutti gli altri atti di assenso, comunque denominati, in materia ambientale, ai sensi dell'articolo 26, comma 4, Dlgs 152/2006. Se il progetto è sottoposto a "screening" per la Via, l'Aua può essere richiesta solo dopo che l'autorità competente per tale "screening" abbia valutato di non assoggettare il progetto a Via.
L'Aua sostituisce i seguenti atti di comunicazione, notifica ed autorizzazione in materia ambientale (anche per quanto riguarda i rinnovi): autorizzazione agli scarichi; comunicazione preventiva per l'uso agronomico di effluenti di allevamento, di acque di vegetazione dei frantoi oleari e di acque reflue provenienti dalle aziende di cui all'articolo 112, Codice ambientale; autorizzazione alle emissioni in atmosfera; autorizzazione generale per gli impianti con emissioni scarsamente rilevanti agli effetti dell'inquinamento atmosferico di cui all'articolo 272, Dlgs 152/2006 (salva la facoltà del gestore di aderire tramite il Suap a tale autorizzazione generale); comunicazione o nulla osta di cui all'articolo 8, commi 4 o 6, legge 447/1995 per l'impatto acustico; autorizzazione all'uso agronomico dei fanghi di depurazione di cui al Dlgs 92/1999; comunicazioni in materia di autosmaltimento e recupero agevolato di rifiuti pericolosi e non pericolosi.
Tuttavia, la semplificazione potrà essere ancora maggiore ove si consideri che le Regioni hanno la facoltà di individuare ulteriori atti di comunicazione, notifica e autorizzazione in materia ambientale da far confluire nella nuova tipologia autorizzatoria (articolo Il Sole 24 Ore del 30.05.2013).

ENTI LOCALIDopo Corte conti. Le indicazioni. L'«in house» evita il blocco in busta.
LE ISTRUZIONI/ Per Federambiente e Federutility alle aziende non si applica lo stop ai contratti.
Le società affidatarie in house di servizi pubblici locali devono adottare i criteri del pubblico impiego per il reclutamento e disciplinare, con un proprio provvedimento interno, il loro contributo al rispetto dei limiti previsti per assunzioni e spesa di personale dell'ente controllante, ma non sono obbligate al congelamento di contratti e retribuzioni individuali che riguarda le amministrazioni pubbliche e le società inserite nell'elenco Istat per il consolidato della Pa. I contratti nazionali di settore continuano ad applicarsi, mentre i decentrati devono essere compatibili con i vincoli finanziari.

Con queste indicazioni una circolare firmata da Federambiente e Federutility prova a sbrogliare la matassa delle norme che estendono alle in house i vincoli previsti per il personale delle amministrazioni controllanti: questa estensione, sancita da ultimo con l'articolo 3-bis, comma 6, del Dl 138/2011, si articola in una serie di regole spesso non lineari e non coordinate con i principi di diritto privato che regolano i rapporti di lavoro nelle società, e hanno dato luogo a frequenti e contrastanti interpretazioni della Corte dei conti.
Di qui la nuova circolare, che prova a fare chiarezza indicando in chiave operativa obblighi e possibilità di azione all'interno dell'autonomia contrattuale e gestionale che caratterizza le società. Sul congelamento di contratti e stipendi, che nelle Pa sarà esteso a tutto il 2014, la circolare sostiene l'esclusione delle società di servizi pubblici locali, che non trovano spazio nell'elenco Istat richiamato nella norma con cui si è introdotto il blocco (articolo 9 del Dl 78/2010, comma 29 per le società). Ciò non cancella però gli altri obblighi a carico delle aziende affidatarie dirette, che in base al Dl 138/2011 si vedono estendere lo stop alle assunzioni quando le spese di personale del gruppo formato da ente e società superano il 50% delle spese correnti.
Sul tema sono ancora numerose le incertezze che circondano i parametri di calcolo e di consolidamento, ma la circolare mette dei punti fermi, anche per superare controversie già emerse in alcune città: l'eventuale superamento del limite, prima di tutto, deve essere segnalato dall'ente locale, perché la singola società non è naturalmente in grado di sapere in modo autonomo se il gruppo si mantiene o meno nei limiti di spesa dettati dalla legge.
Insieme alla segnalazione, è sempre l'amministrazione locale a dover impartire direttive alle società nella sua qualità di azionista unico, meglio se «operando le opportune distinzioni» fra le aziende in equilibrio e quelle che pesano sui conti del gruppo. Dal canto suo, l'azienda deve assumere i propri provvedimenti in campo assunzionale tenendo conto dei vincoli "piovuti" dall'ente, ma anche degli obblighi di servizio pubblico: tra gli strumenti a disposizione dell'azienda, la circolare ricorda la rinegoziazione degli accordi collettivi, il freno ai bonus e l'eventuale attivazione di contratti di solidarietà o altri ammortizzatori sociali.
Dalle regole sono escluse le quotate, le società di gas ed energia e quelle miste che hanno scelto il socio con gara a doppio oggetto, perché non rientrano nella definizione di in house (articolo Il Sole 24 Ore del 30.05.2013).

GIURISPRUDENZA

INCARICHI PROFESSIONALILa parcella vistata non è intangibile. Avvocati. Il giudice può diminuirla.
Il visto di conformità dell'Ordine non è vincolante nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo sull'ammontare della parcella del legale.

Lo ha stabilito la II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 31.05.2013 n. 13858.
La controversia riguardava la liquidazione delle spettanze di un professionista che aveva patrocinato un comune laziale davanti al Consiglio di Stato, compenso ridotto della metà (circa 45mila euro), rispetto a quanto "vistato" dal consiglio dell'ordine, in sede di opposizione al decreto ingiuntivo da lui stesso richiesto, decisione poi confermata dalla Corte d'appello di Roma.
Proprio questa Corte, nel disattendere le conclusioni del professionista, aveva stabilito che il parere dell'associazione professionale sul quantum è vincolante soltanto per la pronuncia del decreto ingiuntivo e non anche del giudizio di opposizione, e che in questo contesto non è rilevante il fatto che il comune avesse chiesto il parere per avviare la procedura di liquidazione della parcella. A giudizio della Cassazione, che ha avallato questa tesi, la richiesta di preventivo al consiglio dell'ordine non perfeziona in alcun caso un accordo contrattuale fuori e prima del giudizio, e meno ancora rappresenta l'individuazione di un terzo super partes cui rimettere la valutazione dell'ammontare della parcella.
Un ulteriore motivo di ricorso era relativo all'individuazione del momento di cessazione dell'incarico professionale, considerato che anche dopo la rinuncia al mandato il legale aveva svolto altre attività di difesa, compresa la partecipazione a un'udienza in regime di prorogatio. In sostanza, secondo il professionista, la rinuncia al mandato sarebbe una fattispecie a formazione progressiva che si completerebbe solo con l'atto di nomina di un nuovo difensore, «persistendo il dovere del rinunciante a compiere atti nell'interesse della parte» fino a quel momento.
Ma secondo la Cassazione la rinuncia al mandato è un atto a effetto immediato anche se il difensore conserva, fino alla sua sostituzione, la legittimazione a ricevere gli atti indirizzati dalla controparte al suo assistito, e nulla più. Quindi nel calcolo della parcella si potrò semmai tener conto, secondo tariffe, della sola attività di ricezione degli atti (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2013).

APPALTI FORNITURE: Sul divieto di introdurre nelle clausole contrattuali specifiche tecniche che indicano prodotti di una determinata fabbricazione o provenienza.
Le specifiche tecniche devono consentire pari accesso agli offerenti e non devono comportare la creazione di ostacoli ingiustificati all'apertura dei contratti pubblici alla concorrenza.

In materia di gare d'appalto opera il principio della libera concorrenza, che trova applicazione in primo luogo nella fase della determinazione del contenuto del contratto oggetto di gara, con particolare riferimento alla individuazione delle prestazioni richieste; quindi, in caso di gara per l'affidamento di un appalto di fornitura, sussiste il divieto di introdurre nelle clausole contrattuali specifiche tecniche che indicano prodotti di una determinata fabbricazione o provenienza (art. 68, c. 3, lett. a), del d.lgs. n. 163/2006) ed esso può essere derogato inserendo nel bando la menzione "o equivalente", che è però autorizzata solo quando le Amministrazioni non possano fornire una descrizione dell'oggetto dell'appalto mediante specifiche tecniche sufficientemente precise, o formulando la "lex specialis" in termini funzionali (art. 68, c. 3, lett. b e lett. c, del d.lgs. n. 163/2006).
In tal senso, è stato ritenuto che, qualora le specifiche tecniche siano plasmate su quelle del prodotto coperto da brevetto e sia, altresì, carente la indicazione della menzionata espressione, ha luogo una evidente violazione dei principi in materia di par condicio e di non discriminazione nelle gare, con conseguente annullamento, per illegittimità, del provvedimento di esclusione della concorrente il cui prodotto non possegga quelle esatte e specifiche caratteristiche menzionate.
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L'art. 68 del d.lgs. n. 163/2006 (Codice dei contratti) intende tutelare la concorrenza e la par condicio dei partecipanti alle gare fin dalla determinazione del contenuto del contratto, ed è proprio a tal fine che (c. 2) "le specifiche tecniche devono consentire pari accesso agli offerenti e non devono comportare la creazione di ostacoli ingiustificati all'apertura dei contratti pubblici alla concorrenza".
In questo senso, il divieto di "menzione" o comunque di "riferimento" (o utilizzazione comparativa) a "un marchio, a un brevetto o a un tipo, a un'origine o a una produzione specifica che avrebbero come effetto di favorire o eliminare talune imprese o taluni prodotti", si pone come attuativo del principio generale di cui al c. 2 dell'art. 68.
In altre parole, il legislatore -nel prevedere come regola il citato divieto (costituendo la possibilità di menzione o di riferimento una espressa eccezione)- afferma appunto che la menzione o il riferimento ad un tipo o a una produzione specifica costituiscono ex se un "ostacolo ingiustificato" alla concorrenza, ed in particolare alla par condicio dei concorrenti, posto che uno di essi (anche solo potenzialmente) beneficia nella partecipazione alla gara di una posizione di vantaggio.
Né è sufficiente la mera menzione della possibilità di presentare tipi o prodotti "equivalenti" a giustificare la menzione o il riferimento suddetti (ed in via generale vietati) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.05.2013 n. 2976 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAE' legittima un’ordinanza di rimozione, comunicata al destinatario, senza che sia materialmente allegato il verbale di accertamento della violazione, ancorché esso contenga l’esplicitazione della motivazione sottesa all'irrogazione della sanzione, poiché il concetto di disponibilità di cui all'art. 3 L. n. 241/1990 non comporta che l'atto amministrativo richiamato “per relationem” debba essere unito a pena d'illegittimità al provvedimento che lo evoca, essendo invece sufficiente che l'atto sia reso disponibile a norma della stessa legge, cioè che esso possa essere acquisito utilizzando il procedimento di accesso ai documenti amministrativi.
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Il provvedimento demolitorio di abusi edilizi costituisce atto doveroso e vincolato nel contenuto, per cui la sua adozione non abbisogna di essere preceduta dall'avviso di avvio del relativo procedimento.
Anche l’omessa indicazione del responsabile del procedimento non integra un vizio di illegittimità dell’atto, ma una mera irregolarità, dovendosi considerare responsabile del procedimento il funzionario preposto alla struttura amministrativa, da cui promana l’atto.

Sotto un primo profilo la ricorrente lamenta il difetto di motivazione del provvedimento impugnato, il quale farebbe un mero riferimento ad un precedente verbale di sopralluogo, redatto in data 06.07.1996.
Il motivo è infondato poiché, per giurisprudenza pacifica, è legittima un’ordinanza di rimozione, comunicata al destinatario, senza che sia materialmente allegato il verbale di accertamento della violazione, ancorché esso contenga l’esplicitazione della motivazione sottesa all'irrogazione della sanzione, poiché il concetto di disponibilità di cui all'art. 3 L. n. 241/1990 non comporta che l'atto amministrativo richiamato “per relationem” debba essere unito a pena d'illegittimità al provvedimento che lo evoca, essendo invece sufficiente che l'atto sia reso disponibile a norma della stessa legge, cioè che esso possa essere acquisito utilizzando il procedimento di accesso ai documenti amministrativi (TAR Campania, Napoli, Sez. IV 16.12.2011 n. 5912).
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Con un ulteriore argomento la ricorrente deduce la violazione dell’art. 7 L. n. 241/1990, in conseguenza della mancata comunicazione di avvio del procedimento.
La censura è infondata poiché, per giurisprudenza unanime, il provvedimento demolitorio di abusi edilizi costituisce atto doveroso e vincolato nel contenuto, per cui la sua adozione non abbisogna di essere preceduta dall'avviso di avvio del relativo procedimento (TAR Campania, Napoli, Sez. VII 11.01.2013 n. 255).
Anche l’omessa indicazione del responsabile del procedimento non integra un vizio di illegittimità dell’atto, ma una mera irregolarità, dovendosi considerare responsabile del procedimento il funzionario preposto alla struttura amministrativa, da cui promana l’atto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 29.05.2013 n. 1412 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAQualora l'entità di un deposito di materiali su un fondo, e la stabilità di tale utilizzazione dell’area, emergano con una certa evidenza, è da ritenersi realizzata una trasformazione permanente dell'assetto edilizio del territorio, come tale necessitante di concessione edilizia.
In base a quanto disposto dall’art. 7 L. n. 47/1985, applicabile rationae temporis, le opere realizzate in assenza di concessione edilizia, tra le quali vanno ricomprese quelle insistenti sull’area di che trattasi, devono essere rimosse, e non semplicemente sanzionate con un’ammenda.

Preliminarmente, in linea generale, deve prendersi atto che la giurisprudenza amministrativa ha costantemente affermato che, qualora l'entità di un deposito di materiali su un fondo, e la stabilità di tale utilizzazione dell’area, emergano con una certa evidenza, è da ritenersi realizzata una trasformazione permanente dell'assetto edilizio del territorio, come tale necessitante di concessione edilizia (TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 20.12.2011 n. 3307; id., sez. II, 11.03.2010 n. 583).
In relazione a quanto precede, il Collegio prende atto che la ricorrente non ha contestato il fatto che la concreta entità dei materiali fosse effettivamente tale da dare luogo ad una trasformazione del suolo, limitandosi invece a censurare il provvedimento sotto il profilo giuridico, ciò che consente di ritenere acquisita la valutazione effettuata dall’Amministrazione sul punto.
Il motivo va pertanto rigettato poiché, in base a quanto disposto dall’art. 7 L. n. 47/1985, applicabile rationae temporis, le opere realizzate in assenza di concessione edilizia, tra le quali vanno ricomprese quelle insistenti sull’area di che trattasi, devono essere rimosse, e non semplicemente sanzionate con un’ammenda, come invece erroneamente sostenuto dalla ricorrente
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 29.05.2013 n. 1412 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIL’art. 6 della L. 24/12/1993, n. 537, pur escludendo la legittimità di ogni rinnovo tacito dei contratti di acquisito di beni o servizi stipulati da pubbliche amministrazioni, prevedeva la possibilità che queste, nei tre mesi precedenti alla scadenza, dovessero accertare la eventuale sussistenza di ragioni di convenienza e di pubblico interesse per la rinnovazione espressa dei contratti medesimi, comunicando al contraente l’esito di tale valutazione.
Il secondo periodo del comma 2 della richiamata norma, che accordava alle amministrazioni la suddetta facoltà, è stato, tuttavia, abrogato dall’art. 23 della L. 18/04/2005, n. 62 (legge comunitaria per il 2004) il quale prevede soltanto una facoltà di ”proroga” dei contratti scaduti per il tempo necessario per espletare le gare ad evidenza pubblica per il nuovo affidamento a condizione che la proroga non superi comunque i sei mesi.
La richiamata disposizione è stata intesa dalla giurisprudenza come ostativa ad ogni possibilità di rinnovo contrattuale espresso.

In ordine al preteso diritto al rinnovo il Collegio deve osservare che l’art. 6 della L. 24/12/1993, n. 537, pur escludendo la legittimità di ogni rinnovo tacito dei contratti di acquisito di beni o servizi stipulati da pubbliche amministrazioni, prevedeva la possibilità che queste, nei tre mesi precedenti alla scadenza, dovessero accertare la eventuale sussistenza di ragioni di convenienza e di pubblico interesse per la rinnovazione espressa dei contratti medesimi, comunicando al contraente l’esito di tale valutazione (sul punto si veda Cons. Stato, V, 11/05/2004, n. 2961).
Il secondo periodo del comma 2 della richiamata norma, che accordava alle amministrazioni la suddetta facoltà, è stato, tuttavia, abrogato dall’art. 23 della L. 18/04/2005, n. 62 (legge comunitaria per il 2004) il quale prevede soltanto una facoltà di ”proroga” dei contratti scaduti per il tempo necessario per espletare le gare ad evidenza pubblica per il nuovo affidamento a condizione che la proroga non superi comunque i sei mesi.
La richiamata disposizione è stata intesa dalla giurisprudenza come ostativa ad ogni possibilità di rinnovo contrattuale espresso (Cons. Stato, V, 08.07.2008. n. 3391; Cons. Stato, V, 07/04/2011, n. 6724).
La gara indetta dal Conservatorio con bando pubblicato nel luglio 2005, ricadendo ratione temporis sotto la disciplina introdotta dalla richiamata legge comunitaria, non poteva discostarsene, introducendo disposizioni ad essa difformi, sicché nulla può imputarsi all’Amministrazione, che alla scadenza del rapporto contrattuale, anziché addivenire ad un illegittimo rinnovo, ha ritenuto di bandire una nuova procedura competitiva per l’affidamento del servizio (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 29.05.2013 n. 1401 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa mancata impugnazione del diniego di accesso nel termine prescritto non consente la reiterabilità dell'istanza, né la conseguente impugnazione del successivo diniego qualora esso sia meramente confermativo del primo, potendo l'interessato riproporre la domanda di accesso e pretendere riscontro alla stessa solo in presenza di fatti nuovi, sopravvenuti o meno, non rappresentati nell'originaria istanza o anche a fronte di una diversa prospettazione dell'interesse giuridicamente rilevante, cioè della posizione che legittima all'accesso.
Il ricorso è inammissibile.
L’istanza di accesso del 06.11.2012 è meramente confermativa di quella presentata in data 05.06.2012: l’unico fatto nuovo od elemento sopravvenuto rispetto ad essa è costituito dal diniego di accesso alle condizioni economiche di ciascun affidamento, nel frattempo manifestato dall’Autorità Portuale con la nota 06.09.2012, prot. 20631 (doc. 2 delle produzioni 21.02.2013 di A.P.G.).
Sennonché, tale (parziale) diniego non è stato tempestivamente impugnato.
Orbene, “la mancata impugnazione del diniego di accesso nel termine prescritto non consente la reiterabilità dell'istanza, né la conseguente impugnazione del successivo diniego qualora esso sia meramente confermativo del primo, potendo l'interessato riproporre la domanda di accesso e pretendere riscontro alla stessa solo in presenza di fatti nuovi, sopravvenuti o meno, non rappresentati nell'originaria istanza o anche a fronte di una diversa prospettazione dell'interesse giuridicamente rilevante, cioè della posizione che legittima all'accesso” (così TAR Puglia-Lecce, II, 08.03.2012, n. 453; nello stesso senso cfr. Cons. di St., IV, 24.01.2013, n. 428; id., V, 26.03.2012, n. 1724) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 29.05.2013 n. 852 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di tempestività dell’impugnazione di titoli edilizi da parte di terzi, la giurisprudenza è ferma nel ritenere che la piena conoscenza dalla quale decorre il termine decadenziale per la proposizione dell'impugnazione va riferita al momento dell'ultimazione dei lavori, ovvero al momento nel quale la costruzione realizzata riveli in modo inequivoco le caratteristiche essenziali dell'opera agli effetti della sua eventuale difformità rispetto alla disciplina urbanistico edilizia vigente, fermo (altresì) restando che la prova della tardività dell'impugnazione deve essere fornita rigorosamente e incombe, secondo le regole generali, alla parte che la deduce.
In materia di tempestività dell’impugnazione di titoli edilizi da parte di terzi, la giurisprudenza –anche della Sezione– è ferma nel ritenere che la piena conoscenza dalla quale decorre il termine decadenziale per la proposizione dell'impugnazione va riferita al momento dell'ultimazione dei lavori, ovvero al momento nel quale la costruzione realizzata riveli in modo inequivoco le caratteristiche essenziali dell'opera agli effetti della sua eventuale difformità rispetto alla disciplina urbanistico edilizia vigente, fermo (altresì) restando che la prova della tardività dell'impugnazione deve essere fornita rigorosamente e incombe, secondo le regole generali, alla parte che la deduce (Cons. di St., IV, 07.11.2012, n. 5657; TAR Liguria, I, 24.04.2013, n. 719)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 29.05.2013 n. 851 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’installazione dell’ascensore può certamente ricondursi al novero degli interventi di manutenzione straordinaria, a patto che non siano alterati i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari.
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La disposizione di cui all’art. 10 del D.P.R. n. 380/2001 costituisce un principio fondamentale dell’ordinamento che determina l’abrogazione, ex art. 10 della legge 10.02.1953, n. 62, delle eventuali disposizioni regionali previgenti difformi, potendo le regioni soltanto ampliare –e non ridurre– il catalogo degli interventi sottoposti al preventivo rilascio del permesso di costruire.

Ai fini della corretta qualificazione dell’intervento occorre fare riferimento all’art. 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, il quale, alle lettere b) e d), chiarisce cosa debba intendersi –rispettivamente- per interventi di manutenzione straordinaria e di ristrutturazione.
In particolare, si intendono per "interventi di manutenzione straordinaria" le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso.
Dunque, l’installazione dell’ascensore può certamente ricondursi al novero degli interventi di manutenzione straordinaria, a patto che non siano alterati i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari.
Nel caso di specie, invece, è pacifico e non contestato che vi sia stato un innalzamento della parete perimetrale (immediatamente apprezzabile dalla documentazione fotografica di cui ai docc. 16 e 19 delle produzioni 22.03.2013 di parte ricorrente, oltreché dalla tavola “superficie di riferimento per calcolo oneri” allegata al doc. 12 delle produzioni 21.07.2010 di parte comunale), con conseguente incremento volumetrico dell’unità immobiliare sottostante, sicché l’intervento non è qualificabile come “manutenzione straordinaria”.
Come correttamente rilevato dalla difesa del ricorrente, la errata qualificazione dell’intervento rileva ai fini del titolo necessario alla sua realizzazione, posto che, ai sensi dell’art. 10, comma 2, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001, sono soggetti a permesso di costruire –e dunque non sono realizzabili mediante D.I.A.– gli interventi di ristrutturazione così detta “pesante”, cioè quelli che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino –come nel caso di specie- modifiche del volume, della sagoma e dei prospetti.
Ed è appena il caso di precisare che la disposizione di cui all’art. 10 del D.P.R. n. 380/2001 costituisce un principio fondamentale dell’ordinamento (cfr. C. cost., 23.11.2011, n. 309), che determina l’abrogazione, ex art. 10 della legge 10.02.1953, n. 62, delle eventuali disposizioni regionali previgenti difformi (Cons. di St., Ad. Plen., 07.04.2008, n. 2; TAR Liguria, I, 14.12.2012, n. 1658), potendo le regioni soltanto ampliare –e non ridurre– il catalogo degli interventi sottoposti al preventivo rilascio del permesso di costruire
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 29.05.2013 n. 851 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa convalida di un provvedimento amministrativo impugnato in sede giurisdizionale determina l'improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza d'interesse.
Occorre innanzitutto dare atto che, con l’adozione del provvedimento di convalida n. 168/2010, è venuto meno l’interesse all’impugnazione del provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo.
Difatti, la convalida di un provvedimento amministrativo impugnato in sede giurisdizionale determina l'improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza d'interesse (TAR Lombardia, III, 12.12.2011, n. 3144; TAR Marche, 05.04.1995, n. 170) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 29.05.2013 n. 850 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria, ex art. 13 L. n. 47 del 1985 (ora art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, che si riferisce agli interventi “realizzati” in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso), relativa soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati, ovvero parziale, o subordinata alla esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica.
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Le opere di sistemazione esterna strumentali ad un edificio principale abusivo ripetono le caratteristiche di illegittimità dall'opera principale alla quale ineriscono, sicché –attesa la loro unitarietà funzionale, attestata anche dalla presentazione di un’unica istanza di sanatoria– non sono autonomamente sanabili se, rispetto all’edificio principale, difetta il requisito della doppia conformità.
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L'obbligo di esame ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. b), l. n. 241 del 1990 delle memorie procedimentali presentate dal privato non impone un'analitica confutazione in merito ad ogni argomento utilizzato dalle parti stesse, essendo sufficiente un iter motivazionale che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell'azione amministrativa alle deduzioni difensive del privato stesso.
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La presentazione di un’istanza di accertamento di conformità condiziona al più l’efficacia della precedente ordinanza di demolizione, ma non può giammai -per il principio tempus regit actum- costituire parametro della sua legittimità (viepiù se non impugnata, come nel caso di specie), sicché l'amministrazione è tenuta a mandare ad esecuzione l’ordine di demolizione non appena abbia rigettato tale domanda.
Più precisamente, la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità determina un arresto dell’efficacia della misura ripristinatoria, nel senso che questa è soltanto sospesa, determinandosi uno stato di temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell’istanza, la demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente.
Ne consegue che, in caso di accoglimento della domanda di sanatoria, l’ordine di demolizione viene inevitabilmente meno per il venir meno del suo presupposto, vale a dire del carattere abusivo dell’opera realizzata, in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda.
In caso di rigetto, invece, il provvedimento sanzionatorio a suo tempo adottato riacquista la sua efficacia –che non era definitivamente cessata ma solo sospesa in attesa della conclusione del nuovo iter procedimentale– con la sola specificazione che il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione decorre dal momento in cui il diniego perviene a conoscenza dell’interessato, che non può rimanere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di legge e deve, pertanto, poter usufruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso.

Quanto al primo motivo si osserva che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale il collegio non vede motivo per discostarsi, non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria, ex art. 13 L. n. 47 del 1985 (ora art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, che si riferisce agli interventi “realizzati” in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso), relativa soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati, ovvero parziale, o subordinata alla esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica (Cass. Pen., III, 14.06.2007, n. 23129).
Quanto all’estensione del diniego impugnato anche ad opere (percorso di accesso, cancello, recinzione, muri di fascia e scavo per la piscina) che non fanno volume né superficie, è dirimente il rilievo che le opere di sistemazione esterna strumentali ad un edificio principale abusivo ripetono le caratteristiche di illegittimità dall'opera principale alla quale ineriscono (in tal senso cfr. TAR Toscana, III, 12.06.2012, n. 1124; id., 11.01.2012, n. 25), sicché –attesa la loro unitarietà funzionale, attestata anche dalla presentazione di un’unica istanza di sanatoria– non sono autonomamente sanabili se, rispetto all’edificio principale, difetta il requisito della doppia conformità.
Quanto al secondo motivo, è sufficiente richiamare il costante orientamento della giurisprudenza, secondo il quale l'obbligo di esame ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. b), l. n. 241 del 1990 delle memorie procedimentali presentate dal privato non impone un'analitica confutazione in merito ad ogni argomento utilizzato dalle parti stesse, essendo sufficiente un iter motivazionale che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell'azione amministrativa alle deduzioni difensive del privato stesso (cfr., per tutte, Cons. di St., VI, 11.3.2010, n. 1439).
Il ricorso per motivi aggiunti è invece inammissibile per difetto di interesse, attesa l’inoppugnabilità della precedente provvedimento di ingiunzione della demolizione delle medesime opere abusive 04.05.2007, n. 50 prot. 20907, espressamente richiamata nel preambolo dell’atto impugnato.
Difatti, la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità condiziona al più l’efficacia della precedente ordinanza di demolizione, ma non può giammai -per il principio tempus regit actum- costituire parametro della sua legittimità (viepiù se non impugnata, come nel caso di specie), sicché l'amministrazione è tenuta a mandare ad esecuzione l’ordine di demolizione non appena abbia rigettato tale domanda (così TAR Lazio, I, 09.07.2012, n. 6197; TAR Liguria, I, 11.07.2011, n. 1084).
Più precisamente, la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità determina un arresto dell’efficacia della misura ripristinatoria, nel senso che questa è soltanto sospesa, determinandosi uno stato di temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell’istanza, la demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente (cfr., tra le tante, TAR Campania, II Sezione, 04.02.2005, n. 816 e 13.07.2004, n. 10128).
Ne consegue che, in caso di accoglimento della domanda di sanatoria, l’ordine di demolizione viene inevitabilmente meno per il venir meno del suo presupposto, vale a dire del carattere abusivo dell’opera realizzata, in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda.
In caso di rigetto, invece, il provvedimento sanzionatorio a suo tempo adottato riacquista la sua efficacia –che non era definitivamente cessata ma solo sospesa in attesa della conclusione del nuovo iter procedimentale– con la sola specificazione che il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione decorre dal momento in cui il diniego perviene a conoscenza dell’interessato, che non può rimanere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di legge e deve, pertanto, poter usufruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso (così TAR Campania-Napoli, II, 02.03.2010, n. 1259; TAR Liguria, I, 05.02.2011, n. 226) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 29.05.2013 n. 848 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel nostro ordinamento, ai sensi del noto art. 19 della Costituzione, nessun soggetto può ordinare ad altro, in sintesi estrema, di non pregare a casa propria.
Identico precetto, va aggiunto per completezza, si desume dall’ordinamento europeo, cui ai sensi degli artt. 11 e 117 Cost. il nostro si conforma: in primo luogo, la libertà di religione e di culto è riconosciuta anche dall’art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, esecutiva in Italia per la l. 04.08.1955 n. 848; in secondo luogo, la libertà di religione è riconosciuta anche dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, o Carta di Nizza, 07.12.2000, che come è noto ha ora il medesimo valore giuridico dei Trattati europei, ai sensi dell’art. 6 del Trattato di Lisbona 13.12.2007.
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Il Comune è senz’altro titolare dell’astratto potere di sanzionare l’uso di un locale difforme dalla destinazione, ma che nel caso di specie l’uso difforme non può essere identificato con il mero fatto che nel locale si svolga la preghiera, del venerdì o di altra ricorrenza. Infatti, come risulta dalla giurisprudenza già richiamata e dalla prassi, per ravvisare la presenza di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco, dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri, l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o sciita, o nazionalità essi siano”.
Allo stesso modo, si ribadisce, una chiesa consacrata nei termini della religione cattolica, e anche di altri culti, può esistere anche all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle cappelle gentilizie, di conventi o di istituti, dove è ben possibile dir regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei fedeli. Pertanto, l’uso incompatibile potrebbe verificarsi nel caso in cui l’accesso per la libera attività di preghiera fosse non riservato ai membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di costruire, fermo che ciò dovrebbe essere in concreto accertato dall’autorità, attraverso una corretta e completa istruttoria.

... per l’annullamento, previa sospensione, del provvedimento 24.09.2012 prot. n. 3329 e n. 54/2012 del registro ordinanze, notificato il 01.10.2012, con il quale il Responsabile dell’area tecnica del Comune di Cologne ha ingiunto all’Associazione Dialogo e Convivenza il divieto di effettuare attività di culto (preghiera del venerdì) presso il locale seminterrato del condominio Edera, sito in Cologne alla via ..., a decorrere dalla data di notifica;
...
Ciò posto, va ribadito il rilievo valorizzato per cui nel nostro ordinamento, ai sensi del noto art. 19 della Costituzione, nessun soggetto può ordinare ad altro, in sintesi estrema, di non pregare a casa propria. Identico precetto, va aggiunto per completezza, si desume dall’ordinamento europeo, cui ai sensi degli artt. 11 e 117 Cost. il nostro si conforma: in primo luogo, la libertà di religione e di culto è riconosciuta anche dall’art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, esecutiva in Italia per la l. 04.08.1955 n. 848; in secondo luogo, la libertà di religione è riconosciuta anche dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, o Carta di Nizza, 07.12.2000, che come è noto ha ora il medesimo valore giuridico dei Trattati europei, ai sensi dell’art. 6 del Trattato di Lisbona 13.12.2007.
In tal senso, la difesa del Comune intimato ha continuato a fondarsi su un presupposto diverso, che però all’evidenza non può ricavarsi a fronte di un dispositivo del provvedimento che dice altro. Il Comune deduce infatti che il locale per cui è causa, legittimamente adibito a sede dell’associazione ricorrente, sarebbe in fatto adibito ad altro uso, a sede dedicata di culto islamico ovvero a moschea, uso per il quale, a differenza che per la sede di una associazione, è richiesto il permesso di costruire ai sensi dell’art. 52, comma 3-ter, della l.r. Lombardia 12/2005, nella specie mancante.
In tal senso, deve allora osservarsi che il Comune è senz’altro titolare dell’astratto potere di sanzionare l’uso di un locale difforme dalla destinazione, ma che nel caso di specie l’uso difforme non può essere identificato con il mero fatto che nel locale si svolga la preghiera, del venerdì o di altra ricorrenza. Infatti, come risulta dalla giurisprudenza già richiamata e che qui si riproduce –in tal senso C.d.S., sez. IV, 28.01.2011, n. 683- e dalla prassi, che pure si torna a citare –in tal senso il parere al Ministero dell’Interno espresso il 27.01.2011 dal Comitato per l’Islam italiano- per ravvisare la presenza di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco, dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri, l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o sciita, o nazionalità essi siano” (così il parere stesso).
Allo stesso modo, si ribadisce, una chiesa consacrata nei termini della religione cattolica, e anche di altri culti, può esistere anche all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle cappelle gentilizie, di conventi o di istituti, dove è ben possibile dir regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei fedeli. Pertanto, l’uso incompatibile potrebbe verificarsi nel caso in cui l’accesso per la libera attività di preghiera fosse non riservato ai membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di costruire, fermo che ciò dovrebbe essere in concreto accertato dall’autorità, attraverso una corretta e completa istruttoria.
Va quindi accolta la domanda di annullamento del provvedimento 24.09.2012 prot. n. 3329 per cui è causa, e rimane da scrutinare se vada accolta la contestuale domanda risarcitoria, che è espressamente qualificata (ricorso, p. 9 settimo rigo dal basso) come relativa a un danno non patrimoniale da liquidare secondo equità (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 29.05.2013 n. 522 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: CONSULTA/ Illegittime le soglie dell'art. 15 della Comunitaria 2009. Case, rumore off-limits. Requisiti acustici obbligatori per i costruttori.
Case al riparo dall'inquinamento acustico. Bocciata la norma che neutralizzava retroattivamente, nei rapporti tra privati, la conformità degli edifici ai requisiti previsti dalla normativa anti-rumore.

È quanto deciso dalla Corte costituzionale con la
sentenza 29.05.2013 n. 103 che ha dichiarato l'illegittimità dell'articolo 15, comma 1, lett. c), della legge comunitaria 2009.
La norma, sostituendo l'articolo 11, comma 5, della legge comunitaria 2008, ha stabilito che, in attesa dell'emanazione dei decreti legislativi attuativi della legge 447/1995, legge quadro sull'inquinamento acustico, l'articolo 3, comma 1, lett. e), della medesima legge 447 (relativa ai requisiti acustici degli edifici), doveva essere interpretata nel senso che la disciplina relativa ai requisiti acustici passivi degli edifici e dei loro componenti non trovava applicazione nei rapporti tra privati e, in particolare, nei rapporti tra costruttori anche venditori e acquirenti di alloggi.
In un primo momento l'azzeramento della rilevanza dei requisiti tra privati, era stata stabilita solo per il futuro (articolo 11 della legge comunitaria del 2008), ma successivamente l'articolo 15 della legge comunitaria del 2009 ha esteso a ritroso l'inapplicabilità ai privati. Quindi, con la normativa del 2009 non è stato più possibile continuare a pretendere dai costruttori il rispetto dei requisiti acustici.
Il problema di costituzionalità è emerso, non a caso, proprio nel corso di una causa tra un costruttore e l'acquirente di una abitazione. Quest'ultimo ha fatto causa all'appaltatore per ottenere i risarcimento del danni per il difetto dell'immobile, consistente proprio nel mancato rispetto dei requisiti acustici passivi degli edifici fissati dal dpcm sulla determinazione dei requisiti acustici passivi degli edifici, risalite al 05.12.1997.
Questo decreto ha determinato i requisiti acustici passivi e quelli delle sorgenti sonore interne agli edifici, al fine di ridurre l'esposizione umana al rumore. Prescrive inoltre, i limiti espressi in decibel, che gli edifici costruiti dopo la sua entrata in vigore devono rispettare. La norma della legge del 2009, oggetto della verifica di costituzionalità, ha bloccato retroattivamente, autodefinendosi di interpretazione autentica, l'applicazione del dpcm 05.12.1997 nei rapporti tra privati. Il mancato rispetto dei valori di isolamento acustico quindi, di cui al dpcm citato, non ha più potuto essere invocato a sostegno di una richiesta di risarcimento dei danni.
La disposizione è stata portata al vaglio della consulta perché, tra le altre cose, pur dichiarandosi interpretativa è, in realtà, innovativa. Inoltre, viola il principio di uguaglianza, in quanto produce una ingiustificata disparità di trattamento tra coloro che hanno già conseguito un risarcimento a fronte dell'acquisto di un immobile acusticamente viziato e coloro che, pur trovandosi nella stessa situazione, non possano, invece, più conseguirlo. Tra l'altro non si capisce perché la norma in questione, pur non abrogando il dpcm 05.01.1997 nei rapporti pubblicistici, nello stesso tempo lo disapplica ai rapporti tra privati. La conseguenza, è infatti che non vengono tutelati i diritti del cittadino che acquista l'unità abitativa.
La consulta, nel dichiarare incostituzionale la norma, ha anche rilevato che la stessa incide su rapporti ancora in corso e vanifica il legittimo affidamento di coloro che hanno acquistato beni immobili nel periodo nel quale vigeva ancora la norma della Comunitaria del 2008, la quale specificava che la sospensione dell'applicazione nei rapporti tra privati delle norme sull'inquinamento acustico degli edifici valesse per il futuro, in riferimento agli alloggi sorti successivamente (articolo ItaliaOggi del 30.05.2013).

EDILIZIA PRIVATA: La svolta. La Consulta. Il costruttore paga l'edificio rumoroso.
STOP ALLA RETROATTIVITÀ/ Per la Consulta è illegittima la legge che aveva sanato gli immobili realizzati tra il 1997 e il 2009.
Via libera alla responsabilità del costruttore per gli edifici "rumorosi" realizzati tra la fine del 1997 e il luglio del 2009.

La Corte Costituzionale, con la sentenza 29.05.2013 n. 103 ha infatti dichiarato l'illegittimità della Comunitaria per il 2009 (legge 96/2010) nella parte in cui sanava gli immobili non in linea con i parametri di isolamento acustico edificati prima dell'entrata in vigore della legge 88/2009 (Comunitaria per il 2008).
La questione era stata rimessa alla Consulta dal Tribunale di Busto Arsizio, che nel febbraio dello scorso anno aveva rilevato varie ipotesi di iniquità nella causa per «difetti di immobili» (articolo 1669 del Codice civile) intentata all'immobiliare venditrice dall'acquirente di un appartamento. In particolare, la controversia riguardava il mancato isolamento acustico della facciata –o meglio, il mancato rispetto dei parametri tecnici del Dpcm 05.12.1997– visto che tutti gli altri limiti di rumorosità dell'edificio, compresi quelli interni dei servizi e delle parti confinanti, non erano mai stati in discussione.
Dal punto di vista legislativo, la vicenda risultava complicata dall'intervento "interpretativo" della Comunitaria per il 2009 (legge 96/2010), che tornando a un anno di distanza a regolamentare la "questione rumore", aveva specificato che l'esclusione dei parametri di silenziosità nei contratti tra privati (già prevista dalla Comunitaria per il 2008, legge 88/2009) era da considerarsi «retroattiva». Con questo intervento autodefinito «interpretativo» il legislatore aveva sanato tutte le compravendite tra privati concluse tra il dicembre del 1997 e il 20.07.2009.
Ma è proprio sul carattere «interpretativo» della legge 96/2010 che si è abbattuta la scure costituzionale, perché «la norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica –scrive il redattore della sentenza, Sergio Mattarella– non può dirsi costituzionalmente illegittima qualora si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario». In sostanza, la legge interpretativa ha lo scopo di chiarire «situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo», in ragione di «un dibattito giurisprudenziale irrisolto» (sentenza 311 del 2009), o di «ristabilire un'interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore». L'articolo in questione, invece, aveva di fatto introdotto una retroattività che non solo non era prevista in alcuna parte, ma di cui non c'era traccia nemmeno nei lavori parlamentari né era rinvenibile «dal suo intrinseco contenuto normativo».
Non ultimo –considerato che è poi la ragione giuridica della incostituzionalità– la Comunitaria 2010 aveva creato una ingiustificata disparità tra chi aveva già ottenuto con sentenza definitiva (come tale intangibile) il risarcimento "per rumorosità" dal costruttore e chi invece ne veniva privato con una legge retroattiva.
Resta invece fuori dal perimetro della sentenza –e quindi fuori discussione– che la legge antirumore non si applica ai contratti tra privati stipulati dopo il luglio del 2009 e fino all'atteso riordino della materia (articolo Il Sole 24 Ore del 30.05.2013).

EDILIZIA PRIVATA: INQUINAMENTO ACUSTICO – Procedimento di formazione delle leggi – Divieto di retroattività – Norme di interpretazione autentica – Principi giustificativi della retroattività.
Il divieto di retroattività della legge, previsto dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, pur costituendo valore fondamentale di civiltà giuridica, non riceve nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25 Cost. (sentenze n. 78 e n. 15 del 2012, n. 236 del 2011, e n. 393 del 2006); il legislatore –nel rispetto di tale previsione– può emanare norme retroattive, anche di interpretazione autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti «motivi imperativi di interesse generale», ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).
La norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica, quindi, non può dirsi costituzionalmente illegittima qualora si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario (ex plurimis: sentenze n. 271 e n. 257 del 2011, n. 209 del 2010 e n. 24 del 2009). In tal caso, infatti, la legge interpretativa ha lo scopo di chiarire «situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo», in ragione di «un dibattito giurisprudenziale irrisolto» (sentenza n. 311 del 2009), o di «ristabilire un’interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore» (ancora sentenza n. 311 del 2009), a tutela della certezza del diritto e dell’eguaglianza dei cittadini, cioè di principi di preminente interesse costituzionale.
INQUINAMENTO ACUSTICO – Art. 3, c. 1, lett. e) L. n. 447/1995 – Requisiti acustici passivi degli edifici – Art. 15, c. 1, lett. c), L. n. 96/2010 – Norma di interpretazione autentica – Illegittimità costituzionale.
L’art. 15, c. 1, lettera c), della legge 04.06.2010, n. 96, sostitutivo dell’art. 11, comma 5, della legge 07.07.2009, n. 88, seppure formulato quale norma di interpretazione autentica dell’art. 3, c. 1, lett. e), della L. n. 447/1995, non interviene ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in questa contenuto, «riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario», al fine di chiarire «situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo» in ragione di «un dibattito giurisprudenziale irrisolto» o di «ristabilire un’interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore» a tutela della certezza del diritto e degli altri principi costituzionali richiamati.
La norma “interpretata” disciplina infatti la modalità di esercizio della competenza statale nella individuazione dei requisiti acustici degli edifici, regolando il procedimento per l’adozione del relativo d.P.C.M., ma non considera in alcun modo i riflessi di tali disposizioni nei rapporti tra privati. La retroattività della disposizione impugnata non trova inoltre giustificazione nella tutela di «principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti “motivi imperativi di interesse generale”, ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)».
Al contrario, la norma, oltre a ledere il legittimo affidamento sorto in coloro che hanno acquistato beni immobili nel periodo nel quale vigeva ancora la norma “sostituita”, di cui all’art. 11, comma 5, della legge n. 88 del 2009, contrasta con il principio di ragionevolezza, in quanto produce disparità di trattamento tra gli acquirenti di immobili in assenza di alcuna giustificazione, e favorisce una parte a scapito dell’altra, incidendo retroattivamente sull’obbligo dei privati, in particolare dei costruttori-venditori, di rispettare i requisiti acustici degli edifici stabiliti dal d.P.C.M. 02.12.1997, di attuazione dell’art. 3, comma 1, lettera e), della legge n. 447 del 1995. La norma deve quindi essere dichiarata costituzionalmente illegittima (Corte Costituzionale, sentenza 29.05.2013 n. 103 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Illegittime le soglie dell'art. 15 della Comunitaria 2009. Case, rumore off-limits. Requisiti acustici obbligatori per i costruttori.
Case al riparo dall'inquinamento acustico. Bocciata la norma che neutralizzava retroattivamente, nei rapporti tra privati, la conformità degli edifici ai requisiti previsti dalla normativa anti-rumore.
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, comma 1, lettera c), della legge 04.06.2010, n. 96 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee. Legge comunitaria 2009), sostitutivo dell’art. 11, comma 5, della legge 07.07.2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee. Legge comunitaria 2008).
Nel merito, la questione è fondata.
Questa Corte ha ripetutamente affermato che il divieto di retroattività della legge, previsto dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, pur costituendo valore fondamentale di civiltà giuridica, non riceve nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25 Cost. (sentenze n. 78 e n. 15 del 2012, n. 236 del 2011, e n. 393 del 2006), e che «il legislatore –nel rispetto di tale previsione– può emanare norme retroattive, anche di interpretazione autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti «motivi imperativi di interesse generale», ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). La norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica, quindi, non può dirsi costituzionalmente illegittima qualora si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario (ex plurimis: sentenze n. 271 e n. 257 del 2011, n. 209 del 2010 e n. 24 del 2009). In tal caso, infatti, la legge interpretativa ha lo scopo di chiarire «situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo», in ragione di «un dibattito giurisprudenziale irrisolto» (sentenza n. 311 del 2009), o di «ristabilire un’interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore» (ancora sentenza n. 311 del 2009), a tutela della certezza del diritto e dell’eguaglianza dei cittadini, cioè di principi di preminente interesse costituzionale. Accanto a tale caratteristica, questa Corte ha individuato una serie di limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi, attinenti alla salvaguardia, oltre che dei principi costituzionali, di altri fondamentali valori di civiltà giuridica, posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (sentenza n. 209 del 2010, citata, punto 5.1, del Considerato in diritto).
La norma impugnata nel presente giudizio travalica i limiti individuati dalla giurisprudenza della Corte ora richiamata.
Innanzitutto, seppure formulata quale norma di interpretazione autentica, essa non interviene ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in questa contenuto, «riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario», al fine di chiarire «situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo» in ragione di «un dibattito giurisprudenziale irrisolto» o di «ristabilire un’interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore» a tutela della certezza del diritto e degli altri principi costituzionali richiamati.
La ricostruzione del quadro normativo nel quale si inserisce la disposizione censurata conferma questa conclusione. La norma “interpretata” [art. 3, comma 1, lettera e), della legge n. 447 del 1995] disciplina infatti la modalità di esercizio della competenza statale nella individuazione dei requisiti acustici degli edifici, regolando il procedimento per l’adozione del relativo d.P.C.M., ma non considera in alcun modo i riflessi di tali disposizioni nei rapporti tra privati. La successiva disposizione innovativa contenuta nell’art. 11, comma 5, della legge n. 88 del 2009, ha stabilito che «In attesa del riordino della materia, la disciplina relativa ai requisiti acustici passivi degli edifici e dei loro componenti di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), della legge 26 ottobre 1995, n. 447, non trova applicazione nei rapporti tra privati e, in particolare, nei rapporti tra costruttori-venditori e acquirenti di alloggi sorti successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge». Infine, la norma impugnata, sostituendo quest’ultima disposizione, è formulata quale norma interpretativa, ad effetto retroattivo, dell’art. 3, comma 1, lettera e), della legge n. 447 del 1995, che, come si è visto, attiene all’attribuzione della competenza statale nella materia, ma non riguarda i rapporti tra privati.
In particolare, questa Corte ha affermato che «per quanto attiene alle norme che pretendono di avere natura meramente interpretativa, la palese erroneità di tale auto-qualificazione, ove queste non si limitino ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto e riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario, potrà costituire un indice di manifesta irragionevolezza» (ex plurimis, sentenze n. 41 del 2011, n. 234 del 2007, n. 274 del 2006).
In secondo luogo, la retroattività della disposizione impugnata non trova giustificazione nella tutela di «principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti “motivi imperativi di interesse generale”, ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)».
Una tale finalità della disposizione censurata non emerge né dai lavori parlamentari, né dal suo intrinseco contenuto normativo. Tale contenuto viene ad incidere su rapporti ancora in corso, vanificando il legittimo affidamento di coloro che hanno acquistato beni immobili nel periodo nel quale vigeva ancora la norma “sostituita”, di cui all’art. 11, comma 5, della legge n. 88 del 2009, che, a tutela di tale affidamento e della certezza del diritto, specificava che la sospensione dell’applicazione nei rapporti tra privati delle norme sull’inquinamento acustico degli edifici valesse per il futuro, in riferimento agli «alloggi sorti successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge».
Al contrario, la norma impugnata, oltre a ledere il legittimo affidamento sorto nei soggetti suddetti, contrasta con il principio di ragionevolezza, in quanto produce disparità di trattamento tra gli acquirenti di immobili in assenza di alcuna giustificazione, e favorisce una parte a scapito dell’altra, incidendo retroattivamente sull’obbligo dei privati, in particolare dei costruttori-venditori, di rispettare i requisiti acustici degli edifici stabiliti dal d.P.C.M. 02.12.1997, di attuazione dell’art. 3, comma 1, lettera e), della legge n. 447 del 1995.
Di conseguenza la questione sollevata è fondata, e la norma censurata deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima, a causa della violazione dell’art. 3 Cost., restando assorbite le censure prospettate in riferimento agli altri parametri costituzionali invocati.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, comma 1, lettera c), della legge 04.06.2010, n. 96 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee. Legge comunitaria 2009), sostitutivo dell’art. 11, comma 5, della legge 07.07.2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee. Legge comunitaria 2008) (Corte Costituzionale, sentenza 29.05.2013 n. 103).

URBANISTICA: L’art. 14 della legge reg. Lombardia n. 5 del 2007 −nel prevedere misure di salvaguardia per la zona dell’aeroporto di Montichiari in contrasto con il principio fondamentale stabilito al riguardo dall’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001− è costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. in materia di governo del territorio.
Va dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 14 della legge della Regione Lombardia 27.02.2007, n. 5 (Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2007), come risultante a seguito delle modifiche introdotte, successivamente, dall’art. 1, comma 8, lettera a), della legge della Regione Lombardia 31.03.2008, n. 5 (Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2008), dall’art. 4 della legge della Regione Lombardia 23.12.2008, n. 33, recante «Disposizioni per l’attuazione del documento di programmazione economico-finanziaria regionale, a sensi dell’articolo 9-ter della legge regionale 31.03.1978, n. 34 (Norme sulla procedura della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della Regione – Collegato 2009)», e dall’art. 23 della legge della Regione Lombardia 05.02.2010, n. 7 (Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2010).
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Relativamente all’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che la disciplina sulle misure di salvaguardia di cui al citato art. 12, comma 3, del T.U. edilizia, abbia una valenza mista: edilizia, in quanto è volta ad incidere sui tempi dell’attività edificatoria, ed urbanistica, in quanto finalizzata alla salvaguardia, in definiti ambiti temporali, degli assetti urbanistici in itinere e, medio tempore, dell’ordinato assetto del territorio.
Si tratta di una valutazione condivisibile, da cui consegue, secondo consolidata giurisprudenza costituzionale, che l’urbanistica e l’edilizia devono essere ricondotte alla materia «governo del territorio», di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., materia di legislazione concorrente in cui lo Stato ha il potere di fissare i principi fondamentali, spettando alle Regioni il potere di emanare la normativa di dettaglio.
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L’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 avendo recepito i contenuti sostanziali dell’articolo unico della legge 03.11.1952, n. 1902 (Misure di salvaguardia in pendenza dell’approvazione dei piani regolatori), esprime il principio secondo cui le amministrazioni debbono definire in tempi congrui l’iter procedimentale conseguente all’adozione degli strumenti urbanistici generali con il loro tempestivo invio agli organi deputati alla loro approvazione.
In conseguenza, quindi, di quanto questa Corte ha affermato con la sentenza n. 402 del 2007, ed a prescindere dall’autodefinizione (in questo caso corretta) di norme di principio che le disposizioni del Testo unico dell’edilizia danno della normativa in esso contenuta, anche all’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 deve essere riconosciuto il valore di norma statale di principio in materia di governo del territorio, di cui all’art. 117, terzo comma, Cost..
3.– Nel merito, in relazione alla violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., la questione è fondata.
3.1.– Come già ricordato, il TAR per la Lombardia ritiene che la norma regionale denunciata –emanata dal legislatore regionale nell’esercizio della competenza concorrente in materia di governo del territorio– prevedendo una durata temporale delle misure di salvaguardia eccedente quella fissata dalla norma nazionale (art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001), violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost.
3.1.1.– L’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, infatti, stabilisce che: «In caso di contrasto dell’intervento oggetto della domanda di permesso di costruire con le previsioni di strumenti urbanistici adottati, è sospesa ogni determinazione in ordine alla domanda. La misura di salvaguardia non ha efficacia decorsi tre anni dalla data di adozione dello strumento urbanistico, ovvero cinque anni nell’ipotesi in cui lo strumento urbanistico sia stato sottoposto all’amministrazione competente all’approvazione entro un anno dalla conclusione della fase di pubblicazione».
La ratio della normativa statale, quindi, è quella di evitare che la non ancora intervenuta approvazione da parte della Regione, o comunque di altra autorità competente, di eventuali previsioni di non edificabilità previste dal piano in vigore consenta ai proprietari delle aree interessate di realizzare nuove costruzioni nel periodo intercorrente tra la predisposizione di un nuovo piano e l’approvazione di questo da parte della Regione, in tal modo eludendo, durante tale fase, le stesse previsioni contenute nel progettato nuovo piano. L’adozione del piano, pertanto, ha funzione cautelativa nei riguardi di quei progetti che non si conformano allo stesso: da ciò deriva che l’effetto di salvaguardia previsto dal comma 3 dell’art. 12 del d.P.R. n. 380 del 2001, è strettamente collegato all’adozione del piano, cioè dello strumento urbanistico modificativo della precedente previsione.
4.– Lo stesso legislatore regionale, con l’art. 36, comma 4, della legge reg. n. 12 del 2005, ha modificato il termine massimo di efficacia delle misure di salvaguardia adeguandolo a quello previsto dal legislatore statale (tre anni dall’adozione dello strumento urbanistico, ovvero cinque anni nell’ipotesi in cui questo sia stato sottoposto all’amministrazione competente per la approvazione entro un anno dalla conclusione della fase di pubblicazione), seguendo, peraltro, l’orientamento stabilito dalla giurisprudenza amministrativa, la quale, pronunciandosi in casi analoghi, ha ritenuto che dovrebbero trovare applicazione in via residuale «gli stessi limiti di validità temporanea del potere di salvaguardia fissati, in sede nazionale, dall’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001» (Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza n. 3834 del 2005).
Infatti, con il sopra citato art. 36, comma 4, si è stabilito che «Sino all’adozione degli atti di PGT secondo quanto previsto nella parte prima della presente legge, in caso di contrasto dell’intervento oggetto della domanda di permesso di costruire con le previsioni degli strumenti urbanistici adottati, è sospesa ogni determinazione in ordine alla domanda stessa. La misura di salvaguardia non ha efficacia decorsi tre anni dalla data di adozione dello strumento urbanistico, ovvero cinque anni nell’ipotesi in cui lo strumento urbanistico sia stato sottoposto all’amministrazione competente per la approvazione entro un anno dalla conclusione della fase di pubblicazione».
4.1. – Relativamente all’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, è opportuno sottolineare che la giurisprudenza amministrativa (in particolare il Consiglio di Stato, Ad. Plenaria, con la sentenza n. 2 del 2008) ha ritenuto che la disciplina sulle misure di salvaguardia di cui al citato art. 12, comma 3, del T.U. edilizia, abbia una valenza mista: edilizia, in quanto è volta ad incidere sui tempi dell’attività edificatoria, ed urbanistica, in quanto finalizzata alla salvaguardia, in definiti ambiti temporali, degli assetti urbanistici in itinere e, medio tempore, dell’ordinato assetto del territorio.
Si tratta di una valutazione condivisibile, da cui consegue, secondo consolidata giurisprudenza costituzionale, che l’urbanistica e l’edilizia devono essere ricondotte alla materia «governo del territorio», di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., materia di legislazione concorrente in cui lo Stato ha il potere di fissare i principi fondamentali, spettando alle Regioni il potere di emanare la normativa di dettaglio (da ultimo, ordinanza n. 314 del 2012; sentenza n. 309 del 2011, vedi anche sentenze n. 362 e n. 303 del 2003).
4.1.1.– Nella sentenza di questa Corte n. 402 del 2007 si è precisato come il d.P.R. n. 380 del 2001 –in relazione a quanto disposto dall’art. 1, comma 1, nonché dai commi 1 e 3 dell’art. 2 del medesimo d.P.R.– costituisca disciplina recante i principi fondamentali e generali in materia di attività edilizia, ai quali il legislatore regionale deve attenersi.
Infatti, l’art. 1, comma 1, del T.U. dell’edilizia, prevede che: «il presente testo unico contiene i principi fondamentali e generali e le disposizioni per la disciplina dell’attività edilizia»; mentre i commi 1 e 3 dell’art. 2, rispettivamente, stabiliscono che: «le regioni esercitano la potestà legislativa concorrente in materia edilizia nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale desumibili dalle disposizioni contenute nel testo unico» e che «le disposizioni, anche di dettaglio, del presente testo unico, attuative dei principi di riordino in esso contenuti, operano direttamente nei riguardi delle regioni a statuto ordinario, fino a quando esse non si adeguano ai principi medesimi».
Inoltre, l’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 –come puntualizza anche il Consiglio di Stato nella ricordata sentenza– avendo recepito i contenuti sostanziali dell’articolo unico della legge 03.11.1952, n. 1902 (Misure di salvaguardia in pendenza dell’approvazione dei piani regolatori), esprime il principio secondo cui le amministrazioni debbono definire in tempi congrui l’iter procedimentale conseguente all’adozione degli strumenti urbanistici generali con il loro tempestivo invio agli organi deputati alla loro approvazione.
In conseguenza, quindi, di quanto questa Corte ha affermato con la sentenza n. 402 del 2007, ed a prescindere dall’autodefinizione (in questo caso corretta) di norme di principio che le disposizioni del Testo unico dell’edilizia danno della normativa in esso contenuta, anche all’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 deve essere riconosciuto il valore di norma statale di principio in materia di governo del territorio, di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.
L’illegittimità della legislazione regionale, quando la stessa viola i principi fondamentali espressi dalla legislazione statale nella materia governo del territorio, è stata più volte dichiarata da questa Corte (sentenze n. 309 del 2011, n. 341 del 2010, n. 340 del 2009 e n. 271 del 2008).
4.1.2.– La disposizione regionale impugnata –pur perseguendo finalità proprie delle misure di salvaguardia, cioè impedire quei cambiamenti degli assetti urbanistici ed edilizi, che potrebbero contrastare con le nuove previsioni pianificatorie, in pendenza della loro approvazione– si discosta da quanto previsto dall’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001. Essa non correlerebbe l’applicazione di misure di salvaguardia all’intervenuta adozione di un piano urbanistico, essendo la deliberazione della Giunta regionale della Lombardia n. IX/1812, avente ad oggetto l’«Adozione della proposta di Piano territoriale regionale d’area “Aeroporto di Montichiari”» (ex artt. 20 e 21 della legge reg. n. 12 del 2005) intervenuta in periodo notevolmente successivo all’entrata in vigore della normativa impugnata.
Inoltre, la stessa, come già sottolineato, in luogo di una mera sospensione della decisione in ordine al rilascio dei permessi edificatori, come stabilito dall’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, prevede un vero e proprio divieto di realizzazione di nuovi interventi edificatori.
Ed infine, tale divieto –in forza di successive proroghe del termine finale di efficacia della norma in esame, disposte con leggi regionali successive– è stato protratto per un periodo di tempo ben superiore a quello stabilito dall’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, realizzando, come sottolineato nell’ordinanza di rimessione, «un congelamento di aree, […] classificate come edificabili dal PRG, per una durata superiore ai 7 anni».
4.2.– Nella fattispecie di cui trattasi, dunque, devono riscontrarsi i seguenti vizi: a) la violazione dei principi fondamentali dettati dalla legislazione statale in materia di attività edilizia (nel caso di specie il differimento temporale dello ius aedificandi, riconosciuto per un periodo di anni ben superiore a quello fissato dalla legislazione statale); b) l’indeterminatezza dei tempi dell’iter procedimentale (dato che i differimenti a volta a volta operati hanno indicato dei termini finali che venivano successivamente prorogati); c) l’adozione di misure non meramente sospensive, ma di divieto all’attività edificatoria.
4.3.– Sotto altro profilo, si deve sottolineare che la norma impugnata, costituendo una surrettizia violazione del principio della ragionevole temporaneità delle misure di salvaguardia, si pone anche in contrasto con altro principio reiteratamente affermato dalla giurisprudenza costituzionale, precisamente quello del necessario indennizzo nel caso di reiterazione di vincoli urbanistici che comportino l’inedificabilità (sentenze n. 243 del 2011; n. 314 del 2007; n. 167 del 2009; n. 179 del 1999 e n. 262 del 1997).
Né si può ritenere –come sostenuto dalla Regione– che la scelta del legislatore regionale di prorogare le disposizioni di salvaguardia sia stata necessitata stante la complessità e l’articolazione delle procedure volte all’approvazione del piano territoriale regionale d’area, misure dettate dalla esistenza di interessi di natura nazionale e non solo strettamente regionali, quali, ad esempio, il dover tener conto delle osservazioni espresse dall’ENAC e dal Ministero della difesa.
Al di là della considerazione che tali circostanze sono riconducibili a meri inconvenienti di fatto che non possono incidere sul piano della valutazione di legittimità della norma, è proprio per ovviare a tali possibili inconvenienti che la norma di principio in esame àncora la possibilità di prevedere misure di salvaguardia all’adozione dello strumento urbanistico (nel caso di specie il PTRA), elemento questo, come già sottolineato, non previsto dalla norma regionale censurata.
Inoltre, è senz’altro esatto che la giurisprudenza costituzionale citata dalla Regione (sentenze n. 344 del 1995 e n. 575 del 1989) si è espressa negativamente circa le proroghe dei vincoli sine die o «quando il limite temporale sia, indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro», mentre ha ritenuto che «la proroga in via legislativa o la particolare durata dei vincoli […] non sono fenomeni di per sé inammissibili» se ancorati a date certe e mantenuti «entro i limiti della non irragionevolezza e non arbitrarietà», ma sono proprio queste ultime condizioni che, nel caso in esame, non si sono verificate. Infatti, il sopravvenire, dopo l’iniziale imposizione delle misure di salvaguardia per un periodo che non doveva superare i quindici mesi (disposta con l’art. 14 della legge regionale n. 5 del 2007), di ben quattro ulteriori provvedimenti legislativi che ne hanno prorogato la durata fino al 31.12.2011, determina che il termine finale fissato dalla legge n. 5 del 2007 «non sia (stato) certo, preciso e sicuro» e che, proprio ai sensi della citata giurisprudenza, ricorrano le condizioni per dichiararne l’illegittimità costituzionale.
Restano assorbiti i restanti profili di illegittimità costituzionale dedotti dal rimettente.
5.– Conclusivamente, l’art. 14 della legge reg. n. 5 del 2007 −come risultante per effetto delle modifiche apportate successivamente dalle sopra ricordate leggi regionali, nel prevedere misure di salvaguardia per la zona dell’aeroporto di Montichiari in contrasto con il principio fondamentale stabilito al riguardo dall’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001− è costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. in materia di governo del territorio.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 14 della legge della Regione Lombardia 27.02.2007, n. 5 (Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2007), come risultante a seguito delle modifiche introdotte, successivamente, dall’art. 1, comma 8, lettera a), della legge della Regione Lombardia 31.03.2008, n. 5 (Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2008), dall’art. 4 della legge della Regione Lombardia 23.12.2008, n. 33, recante «Disposizioni per l’attuazione del documento di programmazione economico-finanziaria regionale, a sensi dell’articolo 9-ter della legge regionale 31.03.1978, n. 34 (Norme sulla procedura della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della Regione – Collegato 2009)», e dall’art. 23 della legge della Regione Lombardia 05.02.2010, n. 7 (Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2010) (Corte Costituzionale, sentenza 29.05.2013 n. 102).

EDILIZIA PRIVATA: Il rilascio della sanatoria ex art. 36 dpr 380/2001 presuppone la "doppia conformità" anche per il rispetto delle norme tecniche previste per le zone sismiche.
Va dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 5, commi 1, 2 e 3, 6 e 7 della legge della Regione Toscana 31.01.2012, n. 4 (Modifiche alla legge regionale 03.01.2005, n. 1 «Norme per il governo del territorio» e della legge regionale 16.10.2009, n. 58 «Norme in materia di prevenzione e riduzione del rischio sismico»).
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Il principio della doppia conformità è previsto dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che così recita: «1. In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di denuncia di inizio attività nelle ipotesi di cui all’articolo 22, comma 3, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
2. Il rilascio del permesso in sanatoria è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall’articolo 16. Nell’ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, l’oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso.
3. Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende respinta.»
Come è evidente dal contenuto letterale della norma, tale principio risulta finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della «disciplina urbanistica ed edilizia» durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità.
Il rigore insito nel principio in questione trova conferma anche nell’interpretazione della giurisprudenza amministrativa, la quale afferma che, ai fini della concedibilità del permesso di costruire in sanatoria, di cui all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, è necessario che le opere realizzate siano assentibili alla stregua non solo della disciplina urbanistica vigente al momento della domanda di sanatoria, ma anche di quella in vigore all’epoca di esecuzione degli abusi.
In tal senso, la stessa giurisprudenza afferma che la sanatoria in questione –in ciò distinguendosi da un vero e proprio condono– è stata deliberatamente circoscritta dal legislatore ai soli abusi «formali», ossia dovuti alla carenza del titolo abilitativo, rendendo così palese la ratio ispiratrice della previsione della sanatoria in esame, «anche di natura preventiva e deterrente», finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture «sostanzialiste» della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della presentazione dell’ istanza per l’accertamento di conformità.
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In particolare, il capo IV della parte II del testo unico di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, reca il titolo «Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche». Il termine «particolari» indica evidentemente che si tratta di prescrizioni aggiuntive, e non alternative, a quelle generali per l’edilizia, come è confermato dall’inserimento del citato capo IV nell’ambito della Parte II dello stesso testo unico, dedicata alla «Normativa tecnica per l’edilizia».
Pertanto, le «particolari prescrizioni» antisismiche sono parte della normativa tecnica generale sull’edilizia e non ne sono separate o autonome, come invece sostiene la Regione Toscana.
In secondo luogo, dall’esame delle norme statali di principio e financo da quelle regionali, traspare evidente il necessario collegamento tra i vari accertamenti concernenti il rispetto delle normative di settore e il rilascio dell’accertamento di conformità in sanatoria di cui all’art. 36 del testo unico. In riferimento alle prime, l’art. 20, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, che disciplina il procedimento per il rilascio del permesso di costruire, prevede che la relativa domanda sia accompagnata dalla dichiarazione del progettista che asseveri la conformità del progetto oltre che agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi, anche alle altre normative di settore, tra le quali la disposizione statale, significativamente, richiama «in particolare» le «norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie».
Parimenti, l’art. 23, comma 1-bis, dello stesso decreto, collocato nel capo III, concernente la denuncia di inizio attività, esclude che l’autocertificazione consentita in tali casi possa estendersi al rispetto, tra le altre, della «normativa antisismica». Inoltre, l’art. 94, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, dispone che «Fermo restando l’obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio, nelle località sismiche […] non si possono iniziare i lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione», e questa Corte ha ritenuto illegittima la sostituzione dell’autorizzazione con un semplice preavviso.
Se pertanto, nel sistema dei principi delineati dalla normativa statale, sia gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, sia quelli consentiti a seguito di denuncia, presuppongono sempre la previa verifica del rispetto delle norme sismiche, non pare possa dubitarsi che la verifica della doppia conformità, alla quale l’art. 36 del testo unico subordina il rilascio dell’accertamento di conformità in sanatoria, debba riferirsi anche al rispetto delle norme sismiche, da comprendersi nelle norme per l’edilizia, sia al momento della realizzazione dell’intervento che al momento di presentazione della domanda di sanatoria.
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L’accertamento del rispetto delle specifiche norme tecniche antisismiche è sempre un presupposto necessario per conseguire il titolo che consente di edificare, al quale si riferisce il criterio della doppia conformità.
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Quanto alla ratio del principio statale sul quale si fonda la previsione della sanatoria di cui all’art. 36 dpr 380/2001, deve osservarsi che il requisito della doppia conformità risulta strettamente correlato alla natura della violazione edilizia sottostante, che come si è visto deve essere di tipo «puramente formale».
Questa Corte ha ritenuto che tale intento è «palesemente orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui ugualmente compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali».
La Corte ha anche affermato che le norme sismiche dettano «una disciplina unitaria a tutela dell’incolumità pubblica, mirando a garantire, per ragioni di sussidiarietà e di adeguatezza, una normativa unica, valida per tutto il territorio nazionale».

3.— Nel merito, la questione è fondata.
Al fine di individuare la materia nella quale rientrano le disposizioni impugnate, è opportuno premettere che l’accertamento di conformità in sanatoria per le opere edilizie è stato previsto, per la prima volta, dall’art. 13 della legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), e successivamente è stato recepito dalla più recente e completa regolazione prevista dal testo unico approvato con d.P.R. n. 380 del 2001 che, all’art. 1, comma 1, qualifica le norme in esso contenute come «principi fondamentali e generali […] per la disciplina dell’attività edilizia».
In particolare, si osserva che le norme censurate intervengono nell’ambito della disciplina delle costruzioni nelle zone sismiche, dettando specifiche disposizioni ai fini del conseguimento del suddetto accertamento di conformità nei casi di interventi edilizi realizzati nelle zone sismiche e nelle zone a bassa sismicità, o in corso di realizzazione in tali zone.
Questa Corte si è, in più occasioni, pronunciata con riguardo alla legittimità di disposizioni regionali intervenute nella disciplina delle costruzioni nelle zone sismiche, valutandone la coerenza con le norme statali di principio contenute nel richiamato testo unico di cui al d.P.R. n. 380 del 2001. Nella sentenza n. 182 del 2006, la Corte ha dichiarato illegittima, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., una disposizione della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005 in considerazione del mancato rispetto, sotto un diverso profilo, di una norma statale di principio prevista dall’art. 94 del d.P.R. n. 380 del 2001 sul controllo delle costruzioni a rischio sismico, nella parte in cui non stabiliva che non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della Regione. La disposizione regionale prevedeva, infatti, il semplice preavviso alla struttura regionale competente, senza richiedere la predetta autorizzazione.
Più in generale, in questa pronuncia la Corte ha affermato che «l’intento unificatore della legislazione statale è palesemente orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui ugualmente compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali».
Inoltre, con sentenza n. 201 del 2012, è stata dichiarata l’illegittimità di una disposizione della legge della Regione Molise 09.09.2011, n. 25 (Procedure per l’autorizzazione sismica degli interventi edilizi e la relativa vigilanza, nonché per la prevenzione del rischio sismico mediante la pianificazione urbanistica), che, disciplinando le procedure per l’autorizzazione sismica per gli interventi edilizi, prevedeva, in caso di modifica architettonica che comportasse un aumento dei carichi superiore al 20%, l’obbligo di redazione di una variante progettuale da depositare preventivamente, mentre per le modifiche inferiori a questo limite si richiedeva il deposito della sola verifica strutturale nell’ambito della direzione dei lavori. Questa Corte ha ritenuto che la norma regionale violasse il principio di cui all’art. 88 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Anche in questo caso la Corte ha ribadito che «la normativa regionale impugnata, occupandosi degli interventi edilizi in zone sismiche e della relativa vigilanza, rientra nella materia della protezione civile, oggetto di competenza legislativa concorrente ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.».
Tale inquadramento, recentemente ribadito nella sentenza n. 64 del 2013, era peraltro già stato affermato nelle sentenze n. 254 del 2010 e n. 248 del 2009, in riferimento alla illegittimità di deroghe regionali alla normativa statale per l’edilizia in zone sismiche, ed in relazione al titolo competenziale di tale normativa: la Corte ha ritenuto che essa rientri nell’ambito del governo del territorio, nonché nella materia della protezione civile, per i profili concernenti «la tutela dell’incolumità pubblica» (sentenza n. 254 del 2010).
Di conseguenza, nel contesto legislativo e giurisprudenziale, ora sinteticamente richiamato, deve ritenersi che le norme impugnate nel presente giudizio –che riguardano la disciplina dei requisiti per ottenere l’accertamento di conformità in sanatoria per gli interventi edilizi realizzati nelle zone sismiche e nelle zone a bassa sismicità, il relativo procedimento, ed il collegamento di tali disposizioni con la procedura di accertamento di conformità in sanatoria per le opere edilizie di cui all’art. 140 della legge regionale n. 1 del 2005– rientrano anch’esse nelle materie relative al governo del territorio e, per i profili indicati, alla protezione civile, e non costituiscono norme tecniche che esulano da tali ambiti.
4.— Il principio della doppia conformità, invocato dal Presidente del Consiglio dei ministri, è previsto dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che così recita: «1. In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di denuncia di inizio attività nelle ipotesi di cui all’articolo 22, comma 3, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
2. Il rilascio del permesso in sanatoria è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall’articolo 16. Nell’ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, l’oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso.
3. Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende respinta.
»
Come è evidente dal contenuto letterale della norma, tale principio risulta finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della «disciplina urbanistica ed edilizia» durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità.
Il rigore insito nel principio in questione trova conferma anche nell’interpretazione della giurisprudenza amministrativa, la quale afferma che, ai fini della concedibilità del permesso di costruire in sanatoria, di cui all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, è necessario che le opere realizzate siano assentibili alla stregua non solo della disciplina urbanistica vigente al momento della domanda di sanatoria, ma anche di quella in vigore all’epoca di esecuzione degli abusi (pronunce del Consiglio di Stato, sezione IV, 21.12.2012, n. 6657; sezione IV, 02.11.2009, n. 6784; sezione V, 29.05.2006, n. 3267; sezione IV, 26.04.2006, n. 2306).
In tal senso, la stessa giurisprudenza afferma che la sanatoria in questione –in ciò distinguendosi da un vero e proprio condono– è stata deliberatamente circoscritta dal legislatore ai soli abusi «formali», ossia dovuti alla carenza del titolo abilitativo, rendendo così palese la ratio ispiratrice della previsione della sanatoria in esame, «anche di natura preventiva e deterrente», finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture «sostanzialiste» della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della presentazione dell’ istanza per l’accertamento di conformità (citata pronuncia del Consiglio di Stato, sezione IV, 21.12.2012, n. 6657).
Ora, risulta pacifico, anche dalle argomentazioni della Regione Toscana, che le disposizioni di cui all’art. 5 della legge regionale impugnata non rispettano il principio di doppia conformità, inteso nel senso sopra descritto, ma prevedono tre distinte ipotesi di contrasto con le norme sismiche di opere già realizzate, ovvero in corso di realizzazione, senza richiedere che la sostanziale conformità alle medesime norme sussista sia nel momento della realizzazione che in quello di presentazione dell’istanza per ottenere la sanatoria. Discostandosi nettamente da tale principio, il comma 3 dell’art. 5 consente persino la regolarizzazione di opere realizzate o in corso di realizzazione, mediante la presentazione di un «progetto di adeguamento conforme alla normativa tecnica vigente al momento di presentazione della stessa».
La Regione Toscana giustifica il mancato rispetto del principio della doppia conformità edilizia ed urbanistica nelle norme impugnate con una serie di argomentazioni fondate sul presupposto interpretativo secondo il quale tale principio non possa applicarsi alla disciplina antisismica, che per sua natura rientrerebbe nelle norme tecniche di costruzione.
Peraltro, dall’esame del quadro normativo di riferimento nel quale si inseriscono le norme censurate, tale presupposto interpretativo risulta errato.
In primo luogo, la Regione afferma che l’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 è collocato nella parte I (Attività edilizia), titolo IV (Vigilanza sull’attività urbanistico edilizia, responsabilità e sanzioni), capo II (Sanzioni), mentre la disciplina per le costruzioni nelle zone sismiche è contenuta nella parte II (Normativa tecnica per l’edilizia), capo IV (Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche) del medesimo decreto recante il testo unico dell’edilizia. Da tale collocazione la Regione desume un argomento a favore dell’autonomia della verifica dell’osservanza delle norme sismiche rispetto a quella richiesta dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che si riferisce alla normativa urbanistica ed edilizia, nella quale non rientrerebbe la disciplina delle costruzioni in zone sismiche.
Questa ricostruzione non è condivisibile, dal momento che risulta contraddetta dalla stessa lettura sistematica delle norme richiamate.
In particolare, il capo IV della parte II del testo unico di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, reca il titolo «Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche». Il termine «particolari» indica evidentemente che si tratta di prescrizioni aggiuntive, e non alternative, a quelle generali per l’edilizia, come è confermato dall’inserimento del citato capo IV nell’ambito della Parte II dello stesso testo unico, dedicata alla «Normativa tecnica per l’edilizia».
Pertanto, le «particolari prescrizioni» antisismiche sono parte della normativa tecnica generale sull’edilizia e non ne sono separate o autonome, come invece sostiene la Regione Toscana.
In secondo luogo, dall’esame delle norme statali di principio e financo da quelle regionali, traspare evidente il necessario collegamento tra i vari accertamenti concernenti il rispetto delle normative di settore e il rilascio dell’accertamento di conformità in sanatoria di cui all’art. 36 del testo unico. In riferimento alle prime, l’art. 20, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, che disciplina il procedimento per il rilascio del permesso di costruire, prevede che la relativa domanda sia accompagnata dalla dichiarazione del progettista che asseveri la conformità del progetto oltre che agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi, anche alle altre normative di settore, tra le quali la disposizione statale, significativamente, richiama «in particolare» le «norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie».
Parimenti, l’art. 23, comma 1-bis, dello stesso decreto, collocato nel capo III, concernente la denuncia di inizio attività, esclude che l’autocertificazione consentita in tali casi possa estendersi al rispetto, tra le altre, della «normativa antisismica». Inoltre, l’art. 94, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, dispone che «Fermo restando l’obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio, nelle località sismiche […] non si possono iniziare i lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione», e questa Corte ha ritenuto illegittima la sostituzione dell’autorizzazione con un semplice preavviso (sentenza n. 182 del 2006).
Se pertanto, nel sistema dei principi delineati dalla normativa statale, sia gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, sia quelli consentiti a seguito di denuncia, presuppongono sempre la previa verifica del rispetto delle norme sismiche, non pare possa dubitarsi che la verifica della doppia conformità, alla quale l’art. 36 del testo unico subordina il rilascio dell’accertamento di conformità in sanatoria, debba riferirsi anche al rispetto delle norme sismiche, da comprendersi nelle norme per l’edilizia, sia al momento della realizzazione dell’intervento che al momento di presentazione della domanda di sanatoria.
Inoltre, il collegamento tra la verifica del rispetto della normativa per gli interventi in zone sismiche e il procedimento di accertamento di conformità edilizia, disciplinato dall’art. 140 della legge regionale toscana n. 1 del 2005, nel testo in vigore fino all’approvazione delle norme impugnate, è evidente anche nel richiamo, operato dal comma 3 di quest’ultimo articolo, all’art. 83 della stessa legge regionale, al fine di indicare le norme generali sul procedimento ed i requisiti per ottenere il permesso di costruire in sanatoria. In particolare, il comma 4 dell’art. 83 prevede che «la domanda è accompagnata da una dichiarazione del progettista abilitato che assevera la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati oppure adottati, ai regolamenti edilizi vigenti e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico sanitarie […]».
Nel medesimo senso, va osservato che l’art. 140, come riconosciuto anche dalla Regione, richiama l’art. 84 della stessa legge regionale n. 1 del 2005, che per le opere soggette a SCIA dispone che la relazione del progettista abilitato asseveri la conformità delle opere a tutte le norme edilizie, e «in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie […]».
Sotto un ulteriore profilo, va rilevato che la pretesa autonomia del procedimento di «accertamento di conformità in sanatoria per gli interventi realizzati nelle zone sismiche e nelle zone a bassa sismicità» non trova alcun riferimento nella normativa statale di principio contenuta nel testo unico approvato con il d.P.R. n. 380 del 2001, che disciplina esclusivamente l’accertamento di conformità di cui all’art. 36, a sua volta riferito alla sanatoria di «interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di denuncia di inizio attività nelle ipotesi di cui all’art. 22, comma 3, o in difformità da essa».
4.1.— Deve pertanto ritenersi che l’accertamento del rispetto delle specifiche norme tecniche antisismiche è sempre un presupposto necessario per conseguire il titolo che consente di edificare, al quale si riferisce il criterio della doppia conformità.
Inoltre, non può essere condivisa l’argomentazione della difesa della Regione, che desume dalle disposizioni contenute negli articoli 98 e 100 del d.P.R. 380 del 2001 un indirizzo legislativo favorevole all’adeguamento alle norme antisismiche, piuttosto che alla sanzione, nei casi di opere edilizie non in regola con tali norme.
In particolare, il richiamato art. 98 prevede che il giudice, con il provvedimento di condanna in sede penale, in alternativa alla demolizione del manufatto, possa impartire le prescrizioni necessarie per rendere le opere conformi alle norme sismiche. Al riguardo, si osserva che l’applicazione di tale disposizione, che disciplina una facoltà del giudice penale, presuppone l’accertamento del reato e, quindi, la violazione delle norme sismiche.
Tutt’altra ipotesi si rinviene nella norma impugnata che consente una possibilità di sanatoria delle violazioni delle norme sismiche e che attribuisce al privato interessato una posizione soggettiva tutelata nei confronti dell’amministrazione, al fine di ottenere l’accertamento di conformità.
Parimenti, anche la competenza rimessa alla regione dall’articolo 100 del d.P.R. 380 del 2001, secondo la quale la regione può ordinare «la demolizione delle opere o delle parti di esse eseguite in violazione delle norme del capo I del testo unico e delle norme tecniche di cui agli articoli 52 e 83, ovvero l’esecuzione di modifiche idonee a renderle conformi alle norme stesse», presuppone sempre l’accertamento di un reato, anche se estinto per qualsiasi causa, e pertanto disciplina una fattispecie nettamente distinta da quelle previste dall’articolo 5 impugnato.
4.2.— Infine, quanto alla ratio del principio statale sul quale si fonda la previsione della sanatoria di cui all’art. 36, deve osservarsi che il requisito della doppia conformità risulta strettamente correlato alla natura della violazione edilizia sottostante, che come si è visto deve essere di tipo «puramente formale».
All’opposto, sembra invece evidente che l’interpretazione proposta dalla Regione condurrebbe alla previsione di un vero e proprio condono edilizio, vanificando l’intento perseguito dal legislatore statale con l’adozione delle norme antisismiche. Come si è ricordato, questa Corte ha ritenuto che tale intento è «palesemente orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui ugualmente compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali» (sentenza n. 182 del 2006). La Corte ha anche affermato che le norme sismiche dettano «una disciplina unitaria a tutela dell’incolumità pubblica, mirando a garantire, per ragioni di sussidiarietà e di adeguatezza, una normativa unica, valida per tutto il territorio nazionale» (sentenze n. 201 del 2012 e n. 254 del 2010).
5.— Un ulteriore argomento prospettato dalla Regione Toscana si fonda sulla valenza da attribuire alla giurisprudenza della Corte di cassazione, che limita ai soli reati edilizi gli effetti estintivi, a norma dell’art. 45 del d.P.R. n. 380 del 2001, del rilascio dell’accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 dello stesso decreto, restando punibili i connessi reati previsti dalle norme sismiche. Da questa limitazione, la Regione ricava un argomento aggiuntivo per sostenente l’autonomia delle norme sismiche rispetto a quelle edilizie e, di conseguenza, la riferibilità del principio della doppia conformità alle sole norme edilizie e non anche a quelle sismiche.
In particolare, la Regione afferma che la Corte di cassazione, valutando gli effetti estintivi dei reati che derivano dal rilascio di provvedimenti di sanatoria, ha costantemente affermato che il permesso di costruire rilasciato ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 estingue, a norma dell’art. 45 dello stesso decreto, «i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti e non si estende ad altri reati correlati alla tutela di interessi diversi rispetto a quelli che riguardano l’assetto del territorio sotto il profilo edilizio, quali i reati previsti dalla normativa sulle opere in cemento armato, sulle costruzioni in zone sismiche, sulla tutela delle zone di particolare interesse paesaggistico ed ambientale» (sentenza della Corte di cassazione, 05.03.2009, n. 9922; nello stesso senso, la Regione richiama le sentenze della medesima Corte 09.03.2011, n. 9277, e 23.03.2006, n. 10205).
Anche questa argomentazione non risulta conferente.
Al riguardo, deve innanzitutto rilevarsi che l’oggetto del giudizio penale di accertamento dei vari reati previsti dall’ordinamento a tutela del rispetto delle norme edilizie, urbanistiche, sismiche, igieniche, paesaggistiche ed ambientali, risulta nettamente distinto da quello del presente giudizio.
Nella materia dell’edilizia il legislatore ha previsto che vari comportamenti siano puniti con sanzioni amministrative e penali, a maggior tutela del rispetto delle disposizioni contenute nei diversi settori in cui si articola la medesima materia. In tal senso, nel testo unico contenuto nel d.P.R. n. 380 del 2001, si rinvengono sanzioni penali in caso di comportamenti che vanno dalla lottizzazione abusiva (art. 44) alla violazione di tutte le norme sismiche previste dal capo IV dello stesso decreto (art. 95). Nella sede penale il giudice è pertanto tenuto alla individuazione dei reati sulla base dei principi di stretta legalità e di tipicità, accertando caso per caso la sussistenza dei requisiti richiesti dalle singole fattispecie criminose che il legislatore ha previsto nei vari ambiti suddetti.
In particolare, i reati previsti a tutela della normativa sismica non sono considerati dall’art. 45, del d.P.R. n. 380 del 2001, specificamente dedicato alle «norme relative all’azione penale», che al comma 3 prevede che «il rilascio in sanatoria del permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti».
Come risulta evidente dal suo contenuto letterale, tale disposizione è finalizzata a disciplinare gli effetti estintivi per i soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche, ma non contribuisce in alcun modo a definire il contenuto e la portata delle norme che delineano il principio della doppia conformità ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che presuppone il rispetto delle norme edilizie.
Pertanto, l’oggetto dei giudizi penali definiti dalla richiamata giurisprudenza della Corte di cassazione, e le disposizioni in quei casi applicate, previste dall’art. 45 del d.P.R. n. 380 del 2001, sono del tutto estranee all’oggetto del presente giudizio, nel quale rileva l’individuazione dell’area applicativa del principio generale della doppia conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia, contenuto nell’ articolo 36 dello stesso decreto e compreso nell’ambito delle materie del governo del territorio e della protezione civile alle quali afferiscono le norme sismiche, come ha chiarito la giurisprudenza di questa Corte sopra richiamata.
6.— In riferimento al censurato art. 6 della legge della Regione Toscana n. 4 del 2012, la Regione afferma che non potrebbe essere dichiarato illegittimo neppure se si ritenesse fondata la questione relativa all’art. 5, dal momento che esso introduce l’art. 118-bis nella legge regionale n. 1 del 2005, che si limita a regolare il procedimento mediante il quale l’ufficio tecnico regionale procede all’accertamento di conformità in sanatoria per gli interventi realizzati nelle zone sismiche e nelle zone a bassa sismicità, senza condizionarne l’esito in alcun modo. In questa prospettazione, si sostiene che la neutralità di tale disciplina procedimentale, impedisce di ritenere la consequenzialità dell’illegittimità dell’art. 6 in virtù del semplice richiamo operato dall’art. 5 della legge impugnata.
Anche questa affermazione della Regione contrasta con il contenuto della disposizione impugnata che, in particolare, recita: «1. Dopo l’articolo 118 della L.R. 1/2005 è inserito il seguente: “Art. 118-bis - Procedimento per accertamento di conformità in sanatoria per gli interventi realizzati nelle zone sismiche e nelle zone a bassa sismicità.
1. Per le opere realizzate nelle zone sismiche, nei casi di cui all’articolo 118, commi 1 e 2, la struttura regionale competente rilascia l’autorizzazione in sanatoria entro sessanta giorni dalla trasmissione della relativa istanza.
2. Per le opere realizzate nelle zone a bassa sismicità, nei casi di cui all’articolo 118, commi 1, 2 e 3, la struttura regionale competente rilascia l’attestato di avvenuto deposito in sanatoria nei quindici giorni successivi alla trasmissione della relativa istanza. Il progetto delle opere da sanare è assoggettato alle procedure di cui all’articolo 105-quater, comma 5.
3. Entro sessanta giorni dalla trasmissione della relativa istanza, per le opere realizzate nelle zone sismiche, nei casi di cui all’articolo 118, comma 3, la struttura regionale competente accerta la conformità del progetto di adeguamento alle norme tecniche vigenti e rilascia l’autorizzazione in sanatoria a condizione che siano eseguite le opere di adeguamento ivi previste.
4. Il progetto delle opere di adeguamento di cui all’articolo 118, comma 3, lettera b) è trasmesso anche al comune, per le relative verifiche di conformità urbanistica ed edilizia. Le opere di adeguamento sono eseguite a seguito del rilascio da parte del comune del titolo edilizio in sanatoria di cui all’articolo 140, che ne autorizza l’esecuzione. Il titolo edilizio in sanatoria acquista efficacia a seguito della trasmissione al comune degli atti di cui al comma 5.
5. Al termine dei lavori relativi alle opere di adeguamento, l’interessato inoltra gli atti, di cui all’articolo 109, alla struttura regionale competente, che provvede alla vidimazione e all’inoltro al comune interessato. A tale inoltro al comune, può provvedere direttamente anche l’interessato
».
Come emerge dal loro contenuto letterale, le disposizioni dell’art. 6 si pongono in stretta correlazione con quelle previste dall’art. 5 della legge regionale impugnata, come confermato dai richiami ai commi 1, 2, e 3 del nuovo testo dell’art. 118 della legge regionale n. 1 del 2005, introdotto dallo stesso art. 5.
In particolare, le norme procedimentali di cui all’art. 6 sono direttamente strumentali al rilascio dell’ autorizzazione in sanatoria per gli interventi realizzati nelle zone sismiche secondo le previsioni contenute nel censurato art. 5, e costituiscono il necessario completamento della disciplina del rilascio dell’accertamento di conformità in violazione del principio della doppia conformità. Consegue da questa stretta compenetrazione tra le norme impugnate, l’illegittimità dell’art. 6 della legge della Regione Toscana n. 4 del 2012 per le motivazioni sopra indicate.
7.— Infine, il censurato art. 7, facendo salva l’applicazione delle disposizioni contenute nel nuovo testo dell’art. 118 della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, sancisce la separazione e l’autonomia dell’accertamento di conformità relativo alle norme sismiche dal generale accertamento di conformità relativo alle norme edilizie ed urbanistiche, garantendo l’effetto voluto dalla Regione con la normativa impugnata, ma che, per le ragioni anzidette, risulta lesivo del richiamato principio fondamentale della doppia conformità.
Pertanto, va dichiarata l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 7 della legge della Regione Toscana n. 4 del 2012.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 5, commi 1, 2 e 3, 6 e 7 della legge della Regione Toscana 31.01.2012, n. 4 (Modifiche alla legge regionale 03.01.2005, n. 1 «Norme per il governo del territorio» e della legge regionale 16.10.2009, n. 58 «Norme in materia di prevenzione e riduzione del rischio sismico») (Corte Costituzionale, sentenza 29.05.2013 n. 101).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA(a) per i parcheggi privati di uso pubblico è possibile una doppia qualificazione. In quanto infrastrutture destinate all’uso collettivo e inserite nel sistema della viabilità, questi parcheggi devono essere assimilati ai parcheggi pubblici, a loro volta qualificati ex lege come opere di urbanizzazione primaria (v. art. 16, comma 7, del DPR 06.06.2001 n. 380; art. 44, comma 3, della LR 11.03.2005 n. 12).
Se considerati, invece, come infrastrutture che integrano i servizi a disposizione degli spazi edificati, i parcheggi privati di uso pubblico assumono la stessa funzione degli standard urbanistici (v. art. 22 della LR 51/1975; art. 9, comma 10, della LR 12/2005), e possono quindi essere equiparati in via interpretativa alle opere di urbanizzazione secondaria (come fa la Regione nella DGR n. 7/7586 del 21.12.2001, allegato A, punto III.2.b);
(b) la prima qualificazione, tenendo conto della sedes materiae scelta dal legislatore nazionale e da quello regionale (disciplina del contributo per il rilascio del permesso di costruire), appartiene specificamente alla sfera degli oneri concessori. Sembra quindi corretto ritenere che, salvo accordo in senso contrario tra l’amministrazione e i proprietari, la realizzazione di parcheggi privati di uso pubblico abbia quale effetto ex lege lo scomputo dei soli oneri di urbanizzazione primaria. Una volta effettuato lo scomputo, la differenza rispetto al costo effettivo dei lavori sostenuto dai privati rimane a carico degli stessi;
(c) le convenzioni urbanistiche dei piani attuativi sono la sede naturale, anche se non esclusiva, per introdurre criteri diversi di compensazione tra gli oneri concessori e le opere di interesse pubblico eseguite direttamente a spese dei privati. Qui si rivela l’utilità della seconda qualificazione: poiché i parcheggi privati di uso pubblico possono essere apprezzati come standard urbanistici, l’amministrazione è legittimata a incentivarne la realizzazione rinunciando, in tutto o in parte, agli oneri di urbanizzazione secondaria, nella ricerca (ampiamente discrezionale) di un punto di equilibrio tra le esigenze pubbliche e l’interesse dei proprietari.
Per quanto riguarda i privati, le posizioni giuridiche relative agli oneri concessori sono considerate disponibili, e dunque non vi sono ostacoli alla definizione di un sinallagma che preveda anche l’accettazione di condizioni meno vantaggiose rispetto a quelle risultanti dalla normativa regionale o comunale, purché sia salvaguardata l’utilità economica finale dell’intervento edilizio.

... per l'accertamento:
- del diritto allo scomputo degli oneri di urbanizzazione (pari a € 33.266,93) corrispondenti all’equivalente monetario delle opere di urbanizzazione secondaria di cui alla convenzione urbanistica del 15.01.2003;
- con la conseguente condanna alla restituzione della suddetta somma, erroneamente trattenuta dal Comune nonostante l’esecuzione delle opere da parte della società ricorrente;
...
FATTO
2. La convenzione urbanistica stabilisce (v. art. 2, 3 e 5) il seguente schema di obbligazioni a carico dei lottizzanti:
(a) cessione gratuita al Comune delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria (27.500 mq) e per il verde pubblico (25.500 mq);
(b) contestuale costituzione di una servitù di uso pubblico sulle aree private destinate a parcheggio (66.544 mq), ulteriori rispetto a quelle di cui è prevista la cessione gratuita;
(c) esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria descritte nella tavola 2 del progetto di piano (tra cui le reti tecnologiche, la massicciata stradale e il collettore esterno delle acque nere), con integrale scomputo degli oneri di urbanizzazione primaria (€ 972.609,65), essendo questi ultimi inferiori al costo risultante dal computo metrico estimativo (€ 2.281.485,65);
(d) assunzione degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione secondaria e smaltimento rifiuti, da ripartire tra i proprietari in proporzione alle superfici per cui sono richiesti i singoli titoli edilizi.
3. I lottizzanti hanno realizzato i parcheggi privati di uso pubblico nella convinzione che il loro costo, trattandosi di opere di urbanizzazione secondaria, sarebbe stato scomputato dai relativi oneri. Il Comune ha invece assunto la posizione opposta.
...
DIRITTO
13. Sulle questioni proposte nel ricorso si possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) per i parcheggi privati di uso pubblico è possibile una doppia qualificazione. In quanto infrastrutture destinate all’uso collettivo e inserite nel sistema della viabilità, questi parcheggi devono essere assimilati ai parcheggi pubblici, a loro volta qualificati ex lege come opere di urbanizzazione primaria (v. art. 16, comma 7, del DPR 06.06.2001 n. 380; art. 44, comma 3, della LR 11.03.2005 n. 12). Se considerati, invece, come infrastrutture che integrano i servizi a disposizione degli spazi edificati, i parcheggi privati di uso pubblico assumono la stessa funzione degli standard urbanistici (v. art. 22 della LR 51/1975; art. 9, comma 10, della LR 12/2005), e possono quindi essere equiparati in via interpretativa alle opere di urbanizzazione secondaria (come fa la Regione nella DGR n. 7/7586 del 21.12.2001, allegato A, punto III.2.b);
(b) la prima qualificazione, tenendo conto della sedes materiae scelta dal legislatore nazionale e da quello regionale (disciplina del contributo per il rilascio del permesso di costruire), appartiene specificamente alla sfera degli oneri concessori. Sembra quindi corretto ritenere che, salvo accordo in senso contrario tra l’amministrazione e i proprietari, la realizzazione di parcheggi privati di uso pubblico abbia quale effetto ex lege lo scomputo dei soli oneri di urbanizzazione primaria. Una volta effettuato lo scomputo, la differenza rispetto al costo effettivo dei lavori sostenuto dai privati rimane a carico degli stessi;
(c) le convenzioni urbanistiche dei piani attuativi sono la sede naturale, anche se non esclusiva, per introdurre criteri diversi di compensazione tra gli oneri concessori e le opere di interesse pubblico eseguite direttamente a spese dei privati. Qui si rivela l’utilità della seconda qualificazione: poiché i parcheggi privati di uso pubblico possono essere apprezzati come standard urbanistici, l’amministrazione è legittimata a incentivarne la realizzazione rinunciando, in tutto o in parte, agli oneri di urbanizzazione secondaria, nella ricerca (ampiamente discrezionale) di un punto di equilibrio tra le esigenze pubbliche e l’interesse dei proprietari. Per quanto riguarda i privati, le posizioni giuridiche relative agli oneri concessori sono considerate disponibili (v. CS Sez. IV 28.07.2005 n. 4015; TAR Brescia Sez. I 14.05.2010 n. 1739), e dunque non vi sono ostacoli alla definizione di un sinallagma che preveda anche l’accettazione di condizioni meno vantaggiose rispetto a quelle risultanti dalla normativa regionale o comunale, purché sia salvaguardata l’utilità economica finale dell’intervento edilizio;
(d) nello specifico, la convenzione urbanistica del 15.01.2003 non prevede la cancellazione degli oneri di urbanizzazione secondaria. In realtà, l’art. 3 pone a carico dei lottizzanti l’intero pacchetto delle opere di urbanizzazione primaria, indicandone espressamente solo alcune (reti tecnologiche, massicciata stradale, collettore esterno delle acque nere). L’art. 2 rinvia per la descrizione completa alla tavola 2 del progetto di piano, nella quale sono riportati indistintamente tutti gli interventi di interesse pubblico (strade, marciapiedi, pista ciclabile, parcheggi privati di uso pubblico, impianti tecnologici, area a verde pubblico). Si può, quindi, ritenere che la convenzione urbanistica faccia riferimento alla prima qualificazione dei parcheggi privati di uso pubblico, collocandoli tra le infrastrutture che nella definizione legislativa compongono le opere di urbanizzazione primaria;
(e) una conferma è rinvenibile nell’art. 5 della convenzione urbanistica, che espressamente ribadisce l’obbligo per i lottizzanti di versare gli oneri di urbanizzazione secondaria e smaltimento rifiuti, precisando che la ripartizione tra i proprietari avviene in proporzione alle superfici per cui sono richiesti i singoli titoli edilizi. Se fosse stato raggiunto un accordo sullo scomputo fino a concorrenza del costo dei parcheggi privati di uso pubblico la clausola sarebbe certamente stata scritta in modo differente. Verosimilmente, la formulazione sarebbe stata analoga a quella dell’art. 3 (ossia: quantificazione del costo dei lavori e dell’importo degli oneri di urbanizzazione secondaria, e dichiarazione di compensazione degli stessi);
(f) un’ulteriore conferma è rinvenibile nel computo metrico estimativo, che nel costo complessivo delle opere di urbanizzazione primaria (€ 2.281.485,65) inserisce senza distinzioni, nell’apposita sezione, i lavori riguardanti strade, marciapiedi, parcheggi e verde pubblico. Poiché questo è il valore complessivo utilizzato dalle parti per concordare la cancellazione degli oneri di urbanizzazione primaria, non è possibile intervenire poi in via interpretativa utilizzando una parte degli stessi lavori (nello specifico: i parcheggi privati di uso pubblico) per ottenere anche lo scomputo degli oneri di urbanizzazione secondaria.
14. Il ricorso deve quindi essere respinto, previa revoca del decreto di perenzione. La complessità di alcune questioni consente la compensazione delle spese di giudizio (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 24.05.2013 n. 513 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa vicenda in esame si colloca nell’intervallo di tempo compreso tra la LR 19.11.1999 n 22 e la LR 11.03.2005 n. 12.
L’art. 2, comma 2, della LR 22/1999 qualifica i parcheggi come opere di urbanizzazione ai sensi dell'art. 9, comma 1-f, della legge 10/1977 stabilendo in questo modo la gratuità del relativo titolo edilizio. L’art. 2, comma 1, della LR 22/1999 richiama la disciplina di favore prevista per i parcheggi pertinenziali dall’art. 9 della legge 122/1989;
Come già rilevato in casi analoghi che si collocano nello stesso intervallo di tempo, la gratuità del titolo edilizio non riguarda i parcheggi pertinenziali che eccedono la misura minima di legge. In effetti, essendo già assicurato l’obiettivo posto dall’art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942, non vi sono ragioni per imporre ai comuni di rinunciare ai corrispettivi collegati all’edificazione. Sotto questo profilo la qualificazione dei parcheggi come opere di urbanizzazione ex art. 11, comma 1, della legge 122/1989 rimane circoscritta, in mancanza di una specifica norma espansiva, entro i confini della dotazione minima di parcheggi pertinenziali stabilita dalla legge.
Un vero cambio di regime si è verificato con l’entrata in vigore della LR 12/2005, che tramite l’art. 69 ha introdotto il principio della gratuità dei titoli edilizi relativi ai parcheggi collegando l’utilità di queste opere direttamente agli interessi della viabilità senza la mediazione di uno specifico edificio (di qui l’abbandono del requisito della pertinenzialità) e senza la predeterminazione di limiti quantitativi (di qui il superamento della misura minima di legge). La nuova disciplina, che non può avere effetti per il passato, costituisce dunque lo spartiacque in materia di gratuità dei titoli edilizi riferiti ai parcheggi.
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L’art. 9, comma 1, della legge 122/1989 consente la realizzazione di parcheggi pertinenziali anche in deroga agli strumenti urbanistici comunali. L’unico presupposto della norma è il carattere pertinenziale del parcheggio, senza che rilevino le quantità stabilite dall’art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942. In altri termini, quando sia costituito un vincolo di pertinenzialità la quota di parcheggi eccedente il minimo di legge non deve essere computata nella superficie lorda di pavimento e nella volumetria dell’edificio principale. A maggior ragione non deve essere computata la quota che rimane al di sotto del minimo di legge.
Pertanto, indipendentemente dalle dimensioni, i parcheggi e le autorimesse pertinenziali non consumano gli indici edificatori stabiliti dagli strumenti urbanistici. Il superamento della misura minima ex art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 era rilevante (prima della LR 12/2005) solo perché determinava il passaggio dalla gratuità all’onerosità del titolo edilizio. L’art. 1, comma 1, della LR 22/1999, con una disposizione chiarificatrice, ha precisato che il concetto di pertinenza è applicabile anche agli immobili non residenziali.
La normativa sopravvenuta (v. art. 67 della LR 12/2005) ha ribadito la possibilità di deroga rispetto alla disciplina urbanistica comunale, precisando i vincoli residui.
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Poiché non è contestata la natura pertinenziale dell’autorimessa, tale opera non può incontrare i limiti stabiliti dalla disciplina comunale in relazione agli indici di zona. La volumetria dell’autorimessa pertinenziale, essendo per definizione una volumetria in deroga agli strumenti urbanistici, non può essere considerata utile per la consumazione delle facoltà edificatorie assegnate a un determinato lotto.
Ne consegue che la volumetria dell’autorimessa pertinenziale non può essere aggregata a quella dell’edificio principale per trasformare il titolo edilizio relativo a quest’ultimo da gratuito a oneroso. L’aumento del 20% della volumetria che fa scattare l’onerosità del titolo edilizio in base all’art. 9, comma 1-d, della legge 10/1977 (attualmente v. art. 17, comma 3-b, del DPR 06.06.2001 n. 380) presuppone che si tratti di volumetria rilevante ai fini urbanistici, ed è evidente che sul medesimo lotto una volumetria non può essere allo stesso tempo e sotto lo stesso profilo irrilevante (come autorimessa pertinenziale) e rilevante (come elemento al servizio dell’edificio principale).
Se la superficie dell’autorimessa avesse superato la misura minima ex art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942, sarebbe stato necessario applicare in base alla normativa anteriore alla LR 12/2005, nonostante la qualificazione dell’opera come pertinenziale, il contributo concessorio su questo capo del titolo edilizio (per la parte della superficie eccedente la misura minima). Tale circostanza non avrebbe però prodotto alcuna conseguenza sul capo del titolo edilizio relativo all’edificio principale, che sarebbe rimasto gratuito. A maggior ragione non è consentito ipotizzare un passaggio dalla gratuità all’onerosità del titolo edilizio riferito all’edificio principale in conseguenza di un’autorimessa pertinenziale che rimane entro la misura minima di legge e dunque è a sua volta realizzabile con un titolo edilizio gratuito.

Sulle questioni proposte dalle parti si possono svolgere le seguenti considerazioni:
Relativamente alla gratuità dei parcheggi pertinenziali
   (a) la vicenda in esame si colloca nell’intervallo di tempo compreso tra la LR 19.11.1999 n 22 e la LR 11.03.2005 n. 12;
   (b) l’art. 2, comma 2, della LR 22/1999 qualifica i parcheggi come opere di urbanizzazione ai sensi dell'art. 9, comma 1-f, della legge 10/1977 stabilendo in questo modo la gratuità del relativo titolo edilizio. L’art. 2, comma 1, della LR 22/1999 richiama la disciplina di favore prevista per i parcheggi pertinenziali dall’art. 9 della legge 122/1989;
   (c) come già rilevato in casi analoghi che si collocano nello stesso intervallo di tempo (v. TAR Brescia Sez. II 23.08.2012 n. 1454), la gratuità del titolo edilizio non riguarda i parcheggi pertinenziali che eccedono la misura minima di legge. In effetti, essendo già assicurato l’obiettivo posto dall’art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942, non vi sono ragioni per imporre ai comuni di rinunciare ai corrispettivi collegati all’edificazione. Sotto questo profilo la qualificazione dei parcheggi come opere di urbanizzazione ex art. 11, comma 1, della legge 122/1989 rimane circoscritta, in mancanza di una specifica norma espansiva, entro i confini della dotazione minima di parcheggi pertinenziali stabilita dalla legge;
   (d) un vero cambio di regime si è verificato con l’entrata in vigore della LR 12/2005, che tramite l’art. 69 ha introdotto il principio della gratuità dei titoli edilizi relativi ai parcheggi collegando l’utilità di queste opere direttamente agli interessi della viabilità senza la mediazione di uno specifico edificio (di qui l’abbandono del requisito della pertinenzialità) e senza la predeterminazione di limiti quantitativi (di qui il superamento della misura minima di legge). La nuova disciplina, che non può avere effetti per il passato, costituisce dunque lo spartiacque in materia di gratuità dei titoli edilizi riferiti ai parcheggi (v. TAR Brescia Sez I 29.09.2009 n. 1709);
Sulla deroga agli strumenti urbanistici
   (e) l’art. 9, comma 1, della legge 122/1989 consente la realizzazione di parcheggi pertinenziali anche in deroga agli strumenti urbanistici comunali. L’unico presupposto della norma è il carattere pertinenziale del parcheggio, senza che rilevino le quantità stabilite dall’art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942. In altri termini, quando sia costituito un vincolo di pertinenzialità la quota di parcheggi eccedente il minimo di legge non deve essere computata nella superficie lorda di pavimento e nella volumetria dell’edificio principale. A maggior ragione non deve essere computata la quota che rimane al di sotto del minimo di legge;
   (f) pertanto, indipendentemente dalle dimensioni, i parcheggi e le autorimesse pertinenziali non consumano gli indici edificatori stabiliti dagli strumenti urbanistici. Il superamento della misura minima ex art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 era rilevante (prima della LR 12/2005) solo perché determinava il passaggio dalla gratuità all’onerosità del titolo edilizio (v. TAR Brescia Sez. II 23.08.2012 n. 1454). L’art. 1, comma 1, della LR 22/1999, con una disposizione chiarificatrice, ha precisato che il concetto di pertinenza è applicabile anche agli immobili non residenziali;
   (g) la normativa sopravvenuta (v. art. 67 della LR 12/2005) ha ribadito la possibilità di deroga rispetto alla disciplina urbanistica comunale, precisando i vincoli residui;
Sul primo motivo di ricorso
   (h) poiché non è contestata la natura pertinenziale dell’autorimessa, tale opera non può incontrare i limiti stabiliti dalla disciplina comunale in relazione agli indici di zona. La volumetria dell’autorimessa pertinenziale, essendo per definizione una volumetria in deroga agli strumenti urbanistici, non può essere considerata utile per la consumazione delle facoltà edificatorie assegnate a un determinato lotto;
   (i) ne consegue che la volumetria dell’autorimessa pertinenziale non può essere aggregata a quella dell’edificio principale per trasformare il titolo edilizio relativo a quest’ultimo da gratuito a oneroso. L’aumento del 20% della volumetria che fa scattare l’onerosità del titolo edilizio in base all’art. 9, comma 1-d, della legge 10/1977 (attualmente v. art. 17, comma 3-b, del DPR 06.06.2001 n. 380) presuppone che si tratti di volumetria rilevante ai fini urbanistici, ed è evidente che sul medesimo lotto una volumetria non può essere allo stesso tempo e sotto lo stesso profilo irrilevante (come autorimessa pertinenziale) e rilevante (come elemento al servizio dell’edificio principale);
   (j) se la superficie dell’autorimessa avesse superato la misura minima ex art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942, sarebbe stato necessario applicare in base alla normativa anteriore alla LR 12/2005, nonostante la qualificazione dell’opera come pertinenziale, il contributo concessorio su questo capo del titolo edilizio (per la parte della superficie eccedente la misura minima). Tale circostanza non avrebbe però prodotto alcuna conseguenza sul capo del titolo edilizio relativo all’edificio principale, che sarebbe rimasto gratuito. A maggior ragione non è consentito ipotizzare un passaggio dalla gratuità all’onerosità del titolo edilizio riferito all’edificio principale in conseguenza di un’autorimessa pertinenziale che rimane entro la misura minima di legge e dunque è a sua volta realizzabile con un titolo edilizio gratuito;
Sul secondo motivo di ricorso
   (k) l’art. 23 delle NTA, nella parte in cui considera rilevante ai fini urbanistici una quota della superficie delle autorimesse pertinenziali, non può essere considerato conforme alla normativa nazionale e regionale sopra richiamata;
   (l) nel caso in esame peraltro non si pone il problema della disapplicazione della disciplina comunale, in quanto, anche volendo tenere fermo il discrimine dato dal rapporto di 1 mq ogni 6 mc del volume dell’edificio principale, l’autorimessa non supera il predetto limite, come è stato dimostrato nel ricorso;
   (m) se la superficie dell’autorimessa pertinenziale è urbanisticamente irrilevante anche per la disciplina comunale, è evidente che la volumetria calcolata su tale superficie è allo stesso modo irrilevante, non potendovi essere contraddizione tra gli indici urbanistici che riguardano una stessa facoltà edificatoria. Si arriva pertanto alla medesima conclusione esposta sopra, ovvero che non è possibile aggregare la volumetria dell’autorimessa a quella dell’edificio principale per trasformare il titolo edilizio da gratuito a oneroso.
9. In conclusione il ricorso deve essere accolto, con la condanna del Comune a restituire al ricorrente, e ai figli del ricorrente nel cui interesse è stata proposta l’azione, la somma di € 28.137. Su tale importo sono calcolati gli interessi legali dalla data di notifica del ricorso fino al saldo. Per il versamento di quanto dovuto è fissato il termine di 30 giorni dal deposito della presente sentenza.
10. Poiché la disciplina del contributo concessorio applicabile ai parcheggi pertinenziali proponeva, prima dell’entrata in vigore della LR 12/2005, notevoli difficoltà interpretative, può essere disposta la compensazione delle spese di giudizio (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 24.05.2013 n. 508 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'atto con cui la stazione appaltante, in conseguenza dell'informativa prefettizia, recede dal contratto è espressione di un potere di valutazione di natura pubblicistica.
L'atto con cui la stazione appaltante, in conseguenza dell'informativa prefettizia, recede dal contratto è espressione di un potere di valutazione di natura pubblicistica, diretto a soddisfare l'esigenza di evitare la costituzione o il mantenimento di rapporti contrattuali con imprese nei cui confronti emergano sospetti di legami con la criminalità organizzata.
Pertanto, trattandosi di atto estraneo alla sfera del diritto privato, in quanto espressione di un potere autoritativo di valutazione dei requisiti soggettivi del contraente, il cui esercizio è consentito anche nella fase di esecuzione del contratto, la relativa controversia appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 23.05.2013 n. 1210 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

PUBBLICO IMPIEGOTar marche. L'ingegnere non guida i vigili.
Sbaglia il sindaco che trasferisce il capo ufficio lavori pubblici al vertice del comando della polizia municipale e viceversa. Ingegnere e dirigente della polizia locale sono infatti due figure professionali con un alto grado di specializzazione non interscambiabili.

Lo ha chiarito il TAR Marche, con la sentenza 23.05.2013 n. 370.
Un piccolo comune marchigiano ha preso alla lettera il concetto di rotazione degli incarichi dirigenziali avviando un completo restyling della propria struttura dirigenziale e ponendo un ingegnere, capo ufficio lavori pubblici, al comando della polizia municipale. Contro questa rivoluzione inattesa gli interessati hanno proposto con successo ricorso al giudice amministrativo.
Anche se il dirigente ha una responsabilità manageriale per presiedere regolarmente alla sua funzione il soggetto apicale deve essere messo in condizione di conoscere bene la materia di interesse operativo. Mentre un laureato in giurisprudenza può quindi essere chiamato indifferentemente a dirigere l'ufficio affari generali la polizia locale o un qualsiasi altro ufficio comunale, compreso il settore urbanistica, non è vera la considerazione inversa, prosegue la sentenza, «in quanto un ingegnere o un architetto non dispongono certo della preparazione più adeguata per dirigere settori in cui sono preponderanti profili giuridico amministrativi e del tutto assente quelli tecnici».
La realizzazione del principio di rotazione dei dirigenti poi non è praticabile negli enti di dimensioni ridotte, conclude il collegio. In questi comuni dove mancano figure professionali adeguate solitamente in organico sono presenti solo un ragioniere ed un tecnico diplomato o laureato. Tutti i tentativi empirici di sottrarre la polizia municipale al governo di un dirigente laureato in giurisprudenza in buona sostanza sono destinati a fallire.
In ogni caso le determinazioni creative di attribuzione degli incarichi del primo cittadino, conclude la sentenza, devono essere sempre adeguatamente motivate per sottrarsi alle inevitabili censure conseguenti (articolo ItaliaOggi dell'01.06.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORicorsi in tribunale se la p.a. non utilizza le graduatorie. Il consiglio di stato esclude la competenza del tar.
Il contenzioso contro le amministrazioni pubbliche che non utilizzano le graduatorie esistenti prima del ricorso alla mobilità all'interno dell'ente non spetta al giudice amministrativo ma al giudice ordinario, in quanto non riguarda la fase del concorso.

È questo il principio affermato dalla sentenza 21.05.2013 n. 2754 della III Sez. del Consiglio di Stato.
La sentenza segna una radicale svolta rispetto alla sentenza n. 4329 del 31.07.2012 con cui la quinta sezione dello stesso Consiglio di stato aveva annullato una procedura di assunzione per mobilità dall'esterno indetta da un comune che aveva per lo stesso posto una graduatoria ancora valida.
È quanto mai importante ed urgente che venga fatta chiarezza sulla materia per dipanare i dubbi interpretativi che le amministrazioni pubbliche si trovano a dovere affrontare e che riguardano l'applicazione degli istituti della assunzione in mobilità, istituto che ai sensi delle previsioni di cui all'articolo 30 del dlgs n. 165/2001 deve essere obbligatoriamente attivato prima della indizione di una procedura concorsuale e della mobilità volontaria all'interno della stessa amministrazione, strumento di gestione flessibile delle risorse umane.
Il contenzioso esaminato dai giudici amministrativi di appello nei giorni scorsi riguarda il caso di una Asl che aveva deciso di coprire un posto tramite mobilità interna in presenza di una graduatoria valida per l'assunzione dall'esterno. I giudici amministrativi di appello hanno confermato le decisioni assunte in primo grado dal Tar della Toscana, per le quali il contenzioso è di competenza del giudice ordinario in quanto relativo alla gestione del rapporto di lavoro e non alla sua costituzione, dovendosi limitare la competenza del giudice amministrativo alla sola fase del concorso.
Il ragionamento contenuto nella sentenza è il seguente: «La causa petendi consiste nel diritto all'assunzione mediante scorrimento della graduatoria da parte di un idoneo non vincitore dovendosi escludere ogni correlazione con l'esplicazione di attività autoritativa, con conseguente attribuzione alla giurisdizione del giudice ordinario». E, completando questa impostazione, si afferma che «il diritto allo scorrimento di una graduatoria concorsuale, del resto come il diritto alla mobilità, non appartiene alla fase della procedura di concorso, ovvero al controllo giudiziale sulla legittimità della scelta discrezionale operata dell'amministrazione, la cui tutela è demandata al giudice cui spetta il controllo del potere amministrativo ai sensi dell'art. 103 Cost., ma alla fase successiva e connessa relativa agli atti di gestione del rapporto di lavoro, donde la sussistenza della giurisdizione civile».
A supporto di questa tesi si citano numerose sentenze sia del Consiglio di stato che della Corte di cassazione. Il fatto che la scelta dell'ente si sia concretizzata in uno specifico provvedimento non è ritenuta una ragione sufficiente per incardinare la competenza in capo ai giudici amministrativi.
I giudici della quinta sezione nella sentenza dello scorso mese di luglio non avevano in alcun modo declinato la propria competenza a favore della magistratura del lavoro, ma avevano dato una soluzione di merito, peraltro assai discutibile: l'applicazione del vincolo della mobilità anche nel caso di scorrimento della graduatoria «si risolverebbe in una duplicazione di applicazione dell'istituto della mobilità, atteso che l'obbligo di legge, ovvero la preferenza per la mobilità già soddisfatto prima della decisione dell'amministrazione di bandire il concorso, dovrebbe applicarsi anche successivamente, per lo meno in luogo dell'utilizzo della graduatoria, il che non appare conforme alla legge che ha introdotto l'obbligo della mobilità esterna».
E ancora, richiamando le indicazioni della Adunanza plenaria dello stesso Consiglio di stato con la sentenza n. 14 del 2011, «l'opzione di riconnettere una discrezionalità limitata all'amministrazione circa le modalità di assunzione, accordando tendenziale preferenza allo scorrimento, è maggiormente rispettosa dei principi di trasparenza ed imparzialità, trattandosi di assunzione che avviene allorché sono noti i soggetti in graduatoria e tale circostanza potrebbe indebitamente interferire sulla decisione di utilizzare o meno la graduatoria, sicché può ben ritenersi che sul piano dell'ordinamento positivo, si è realizzata la sostanziale inversione del rapporto tra l'opzione per un nuovo concorso e la decisione di scorrimento della graduatoria che costituisce ormai modalità di reclutamento prioritaria. Quanto esposto sulla priorità della modalità di assunzione per scorrimento della graduatoria, comporta quale corollario la necessità della motivazione, ove l'amministrazione decida di non utilizzare il metodo dello scorrimento o altro metodo di assunzione».
Come si vede argomentazioni che vanno in una direzione completamente diversa rispetto a quelle utilizzate dallo stesso giudice amministrativo di appello nei giorni scorsi (articolo ItaliaOggi del 31.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

URBANISTICAIl vincolo a parcheggio non è un vincolo espropriativo, bensì conformativo, non comportando l’ablazione dei suoli ed ammettendo la realizzazione anche da parte dei privati in regime di economia di mercato, delle relative attrezzature destinate all'uso pubblico e non dà quindi diritto ad indennizzo.
Parimenti, sono conformativi i vincoli a verde e fascia di mitigazione
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Il vincolo a parcheggio non è un vincolo espropriativo, bensì conformativo, non comportando l’ablazione dei suoli ed ammettendo la realizzazione anche da parte dei privati in regime di economia di mercato, delle relative attrezzature destinate all'uso pubblico e non dà quindi diritto ad indennizzo (cfr. Consiglio di Stato sez. IV, 02.09.2011, n. 4951).
Per giurisprudenza costante sono parimenti conformativi i vincoli a verde e fascia di mitigazione (cfr., fra le tante, Consiglio di Stato sez. IV, 29.11.2012, n. 6094) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.05.2013 n. 1339 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa destinazione di aree a verde pubblico o verde urbano assume carattere conformativo e non espropriativo, allorché lo strumento urbanistico consente la realizzazione, anche ad iniziativa del proprietario, <<di opere e strutture intese all’effettivo godimento del verde>>, il che esclude <<uno svuotamento incisivo del contenuto del diritto di proprietà, permanendo comunque la utilizzabilità dell’area rispetto alla sua destinazione naturale>>.
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Se si tiene conto dell’ampia discrezionalità riconosciuta alle Amministrazioni in sede di pianificazione urbanistica, le ragioni della classificazione a verde pubblico dei fondi degli esponenti possono rinvenirsi nella controdeduzione all’osservazione alla variante presentata dagli stessi ricorrenti.
Nella risposta all’osservazione, è messa in evidenza la volontà del Comune di creare un polo di attrezzature comuni nella zona del territorio dove insiste l’area degli esponenti, oltre ad essere segnalato che il PRG ha un valore di standard di poco superiore a quello di legge (vale a dire l’allora vigente legge regionale della Lombardia n. 51/1975).
Si tratta di argomentazioni non manifestamente illogiche o irrazionali, non suscettibili di censura da parte dello scrivente giudice, le cui valutazioni in materia di pianificazione urbanistica non possono in ogni caso sconfinare nel c.d. merito amministrativo.

Ciò premesso, occorre ricordare che, per pacifica giurisprudenza, la destinazione di aree a verde pubblico o verde urbano assume carattere conformativo e non espropriativo, allorché –come nel caso di specie– lo strumento urbanistico consente la realizzazione, anche ad iniziativa del proprietario, <<di opere e strutture intese all’effettivo godimento del verde>>, il che esclude <<uno svuotamento incisivo del contenuto del diritto di proprietà, permanendo comunque la utilizzabilità dell’area rispetto alla sua destinazione naturale>> (così, testualmente, Consiglio di Stato, sez. V, 13.04.2012, n. 2116; si vedano anche sul punto: Consiglio di Stato, sez. IV, 30.07.2012, n. 4319; sez. IV 28.12.2012, n. 6700; sez. IV, 04.01.2013, n. 5 e sez. VI, 05.04.2013, n. 1882, oltre a TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 11.11.2009, n. 5013).
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Infatti, se si tiene conto dell’ampia discrezionalità riconosciuta alle Amministrazioni in sede di pianificazione urbanistica (cfr., fra le tante, la fondamentale sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 10.05.2012, n. 2710, richiamata e confermata dalla successiva sentenza della stessa Sezione IV, 28.11.2012, n. 6040; Consiglio di Stato, sez. IV, 28.12.2012, n. 6703 e 21.12.2012, n. 6656; oltre che, fra le decisioni di primo grado, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.02.2013, n. 532 e 08.02.2012, n. 437; TRGA Trentino Alto Adige, Bolzano, 17.07.2012, n. 255), le ragioni della classificazione a verde pubblico dei fondi degli esponenti possono rinvenirsi nella controdeduzione all’osservazione alla variante presentata dagli stessi ricorrenti (cfr. doc. 3 di questi ultimi).
Nella risposta all’osservazione, è messa in evidenza la volontà del Comune di creare un polo di attrezzature comuni nella zona del territorio dove insiste l’area degli esponenti, oltre ad essere segnalato che il PRG ha un valore di standard di poco superiore a quello di legge (vale a dire l’allora vigente legge regionale della Lombardia n. 51/1975).
Si tratta di argomentazioni non manifestamente illogiche o irrazionali, non suscettibili di censura da parte dello scrivente giudice, le cui valutazioni in materia di pianificazione urbanistica non possono in ogni caso sconfinare nel c.d. merito amministrativo.
In conclusione, anche il secondo motivo deve rigettarsi, con conseguente reiezione dell’intero gravame
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.05.2013 n. 1334 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIGli obblighi dichiarativi previsti dall’art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006 debbono ritenersi imposti a prescindere da una espressa previsione della legge di gara, che viene automaticamente eterointegrata dalla disposizione in questione.
Difatti, avendo il citato art. 38 “un chiaro contenuto di ordine pubblico, esso si applica a prescindere dal suo richiamo, inserimento espresso o inserzione fra le specifiche clausole che regolano la singola gara”.

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L’istituto del falso innocuo (ossia dell’irrilevanza della mancata dichiarazione in ordine alla insussistenza di cause di esclusione dalla gara da parte dei legali rappresentanti dell’impresa, allorquando non vi siano in concreto elementi ostativi alla partecipazione) non può essere applicato nelle gare d’appalto.
Difatti, “nelle procedure di evidenza pubblica la completezza [e, a fortiori, l’esistenza] delle dichiarazioni (…) è già di per sé un valore da perseguire perché consente –anche in ossequio al principio di buon andamento dell’amministrazione e di proporzionalità– la celere decisione in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara. Conseguentemente una dichiarazione inaffidabile (perché falsa o incompleta) è già di per sé stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma a prescindere dal fatto che l’impresa meriti ‘sostanzialmente’ di partecipare alla gara. In altri termini, nel diritto degli appalti occorre poter fare affidamento su una dichiarazione idonea a far assumere tempestivamente alla stazione appaltante le necessarie determinazioni in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara o alla sua esclusione. La dichiarazione ex articolo 38, dunque, è sempre utile perché l’amministrazione sulla base di quella può/deve decidere la legittima ammissione alla gara e conseguentemente la sua difformità dal vero o la sua incompletezza non possono essere “sanate” ricorrendo alla categoria del falso innocuo”.

Va premesso, in punto di fatto, che non è oggetto di contestazione la mancanza, nella documentazione prodotta da Charta, delle dichiarazioni personali da parte del proprio Presidente e legale rappresentante e di uno dei consiglieri, qualificato quale rappresentante dell’impresa.
La ricorrente principale contesta che la lex specialis contenesse una previsione specifica relativa al dovere dei propri amministratori di rilasciare una siffatta dichiarazione; di conseguenza, la predetta omissione, in ossequio al disposto di cui all’art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 163 del 2006, non avrebbe potuto comportare l’esclusione dalla gara di Charta.
In realtà, la mancanza di una espressa previsione in tal senso non appare decisiva, atteso che gli obblighi dichiarativi previsti dall’art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006 debbono ritenersi imposti a prescindere da una espressa previsione della legge di gara, che viene automaticamente eterointegrata dalla disposizione in questione.
Difatti, secondo una condivisibile giurisprudenza, avendo il citato art. 38 “un chiaro contenuto di ordine pubblico, esso si applica a prescindere dal suo richiamo, inserimento espresso o inserzione fra le specifiche clausole che regolano la singola gara” (TAR Sicilia, Catania, II, 03.08.2012, n. 1989).
Ulteriormente, la ricorrente principale richiama la teoria del falso innocuo, ossia dell’irrilevanza della mancata dichiarazione in ordine alla insussistenza di cause di esclusione dalla gara da parte dei legali rappresentanti dell’impresa, allorquando non vi siano in concreto elementi ostativi alla partecipazione, come pacifico nel caso di specie (cfr. all. 5 e 6 di Charta).
Ad avviso del Collegio, pur in presenza di opinioni dissonanti in merito, l’istituto del falso innocuo non può essere applicato nelle gare d’appalto.
Difatti, “nelle procedure di evidenza pubblica la completezza [e, a fortiori, l’esistenza] delle dichiarazioni (…) è già di per sé un valore da perseguire perché consente –anche in ossequio al principio di buon andamento dell’amministrazione e di proporzionalità– la celere decisione in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara. Conseguentemente una dichiarazione inaffidabile (perché falsa o incompleta) è già di per sé stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma a prescindere dal fatto che l’impresa meriti ‘sostanzialmente’ di partecipare alla gara. In altri termini, nel diritto degli appalti occorre poter fare affidamento su una dichiarazione idonea a far assumere tempestivamente alla stazione appaltante le necessarie determinazioni in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara o alla sua esclusione. La dichiarazione ex articolo 38, dunque, è sempre utile perché l’amministrazione sulla base di quella può/deve decidere la legittima ammissione alla gara e conseguentemente la sua difformità dal vero o la sua incompletezza non possono essere “sanate” ricorrendo alla categoria del falso innocuo” (Consiglio di Stato, III, 16.03.2012, n. 1471) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 21.05.2013 n. 1332 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'opera edilizia consistente nella realizzazione di una tettoia si caratterizza in termini di "nuova costruzione", tale da necessitare di previo rilascio di titolo abilitativo.
Tali interventi, infatti, innovano il preesistente immobile in quanto si perviene ad un manufatto del tutto nuovo per consistenza e materiali utilizzati, come tale non riconducibile a quello già esistente che anzi viene alterato sia dal punto di vista morfologico che funzionale: dinanzi a tali significative modificazioni si impone di conseguenza la verifica di compatibilità delle opere a mezzo della previa concessione edilizia.
Ne consegue che correttamente l’Amministrazione intimata ha ricavato il regime sanzionatorio da applicare al caso di specie dall’art. 31 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, che riguarda proprio le nuove costruzioni; e che ricollega alla loro realizzazione abusiva la sanzione della rimozione, alla quale si aggiunge, in caso di inottemperanza all’ordine demolitorio, l’acquisizione gratuita del bene e dell’area di sedime.

Invero, secondo la più recente giurisprudenza, l'opera edilizia consistente nella realizzazione di una tettoia si caratterizza in termini di "nuova costruzione", tale da necessitare di previo rilascio di titolo abilitativo. Tali interventi infatti, secondo la stessa giurisprudenza, innovano il preesistente immobile in quanto si perviene ad un manufatto del tutto nuovo per consistenza e materiali utilizzati, come tale non riconducibile a quello già esistente che anzi viene alterato sia dal punto di vista morfologico che funzionale: dinanzi a tali significative modificazioni si impone di conseguenza la verifica di compatibilità delle opere a mezzo della previa concessione edilizia (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 09.09.2005 n. 4668; TAR Toscana, sez. III, 26.02.2010, n. 516).
Ne consegue che correttamente l’Amministrazione intimata ha ricavato il regime sanzionatorio da applicare al caso di specie dall’art. 31 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, che riguarda proprio le nuove costruzioni; e che ricollega alla loro realizzazione abusiva la sanzione della rimozione, alla quale si aggiunge, in caso di inottemperanza all’ordine demolitorio, l’acquisizione gratuita del bene e dell’area di sedime
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.05.2013 n. 1308 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento repressivo dell'abuso edilizio non necessita di altra motivazione che non sia un'adeguata descrizione dell'illecito nei suoi estremi materiali; e ciò anche quando l’atto sanzionatorio sia adottato a notevole distanza temporale dal momento di realizzazione dell’abuso: trattasi infatti di illecito permanente che preserva l’interesse dell’autorità ed il suo il potere-dovere di intervenire per reprimerlo.
Pertanto, la motivazione dell’atto impugnato, nella quale viene ampiamente illustrata la consistenza delle circostanze materiali che danno luogo all’abuso, appare del tutto adeguata.

Rimane da scrutinare il quarto motivo con il quale l’interessata sostiene che, in considerazione del lungo lasso temporale intercorso fra il momento di realizzazione del manufatto abusivo ed il momento di emissione dell’ordine demolitorio, l’Amministrazione avrebbe dovuto provvedere a motivare adeguatamente il provvedimento impugnato, dando atto delle ragioni che l’hanno indotta sacrificare l’affidamento ormai cristallizzato in capo al privato.
Anche questa doglianza è infondata atteso che, per pacifica giurisprudenza, il provvedimento repressivo dell'abuso edilizio non necessita di altra motivazione che non sia un'adeguata descrizione dell'illecito nei suoi estremi materiali; e ciò anche quando l’atto sanzionatorio sia adottato a notevole distanza temporale dal momento di realizzazione dell’abuso: trattasi infatti di illecito permanente che preserva l’interesse dell’autorità ed il suo il potere-dovere di intervenire per reprimerlo (cfr. ex multis TAR Campania Napoli, sez. VIII, 01.10.2012 n. 4005).
Pertanto, la motivazione dell’atto impugnato, nella quale viene ampiamente illustrata la consistenza delle circostanze materiali che danno luogo all’abuso, appare del tutto adeguata
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.05.2013 n. 1308 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAQuando la strada vicinale non è iscritta negli appositi elenchi (di cui all’art. 20 L. n. 2248/1865 all. F), l’amministrazione deve porre a base delle sue determinazioni idonei accertamenti da cui risulti un titolo di acquisto del relativo diritto da parte della collettività.
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Il Comune ha voluto desumere l'uso pubblico (della strada) dal fatto che il passaggio venga esercitato nell'interesse di un gruppo limitato di soggetti, quali i proprietari di determinati immobili, in dipendenza della loro particolare ubicazione.
In siffatte evenienze, non può dirsi dimostrato che la strada in questione sia al servizio della generalità indifferenziata dei cittadini uti cives e non uti singuli e non risulta neanche comprovata l’utilizzazione continuativa da parte dei soli residenti che se ne servono per raggiungere i fabbricati ivi ubicati.
Nel caso di specie, in definitiva, non vengono indicati elementi presuntivi aventi i requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall'art. 2729 c.c.. e neanche la concreta idoneità della strada a soddisfare attualmente esigenze di pubblica utilità, al fine di dimostrare l’asservimento della stessa all'uso pubblico.
Prima di emettere il provvedimento impugnato, per contro, l’amministrazione avrebbe dovuto accertare attraverso un'adeguata attività istruttoria -i cui contenuti ed esiti avrebbero dovuto essere riportati nella motivazione dell'ordinanza di rimozione- se effettivamente nel caso di specie sussistessero tutti i requisiti per poter qualificare la strada in questione come strada destinata ad uso pubblico.

... per l'annullamento dell’ordinanza del Responsabile del servizio “Ufficio lavori pubblici e gestione del territorio” n. 11/2005 del 2.12.2005, di immediata rimozione dei manufatti (pali metallici e catena) installati su strada posta al servizio della località Roccolo.
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Dalla documentazione versata in atti da entrambe le parti non emerge in modo univoco la natura giuridica della strada, né si rinvengono elementi idonei a provare l’esistenza di una servitù di uso pubblico su di essa, e, neppure ricorrono elementi atti a deporre per la sua demanialità.
L’istruttoria compiuta dall’Amministrazione comunale si rivela semplicistica e superficiale, anche perché non tiene conto del fatto che, quando la strada vicinale non è iscritta negli appositi elenchi (di cui all’art. 20 L. n. 2248/1865 all. F), l’amministrazione deve porre a base delle sue determinazioni idonei accertamenti da cui risulti un titolo di acquisto del relativo diritto da parte della collettività. Allo stesso modo, risultano carenti gli altri requisiti a tal fine necessari, ovvero, il passaggio abituale esercitato da una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo territoriale, nonché la concreta idoneità della strada a soddisfare esigenze di pubblico interesse.
L’amministrazione si è limitata, infatti, ad affermare ma non ha dimostrato la “notorietà pubblica” della strada, né ha documentato quali sarebbero le “dichiarazioni degli utenti interessati”, a cui si fa solo cenno nelle premesse dell’atto impugnato.
Le mappe versate in giudizio, poi, non chiariscono il regime giuridico della strada, atteso che, specie quella risalente al 1860 (tratta dall’archivio di Stato del comune di Como), pur recando l’indicazione della strada in questione, non ne fornisce alcuna qualificazione, a differenza della contigua strada per Rovenzola, ivi indicata come “comunale”.
Non risulta, quindi, che la P.A. abbia posto a fondamento del provvedimento impugnato accertamenti idonei in ordine alla sussistenza di un eventuale uso pubblico pregresso, condotti mediante un approfondito esame della condizione effettiva in cui il bene si trova (cfr. ex multis Cons. St., Sez. V, 04.02.2004 n. 373; id. 07.04.1995 n. 522; TAR Catanzaro, I, 19.12.2011 n. 1634; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 29.03.2004, n. 2922 TAR Valle d'Aosta, I, n. 86/2009) o mediante la verifica che l'uso pubblico possa aver luogo ad opera di una collettività indeterminata di persone, per soddisfare un interesse pubblico generale. Sembra, al contrario, che il Comune abbia voluto desumere l'uso pubblico dal fatto che il passaggio venga esercitato nell'interesse di un gruppo limitato di soggetti, quali i proprietari di determinati immobili, in dipendenza della loro particolare ubicazione.
In siffatte evenienze, non può dirsi dimostrato che la strada in questione sia al servizio della generalità indifferenziata dei cittadini uti cives e non uti singuli e non risulta neanche comprovata l’utilizzazione continuativa da parte dei soli residenti che se ne servono per raggiungere i fabbricati ivi ubicati (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, sentenza 19.12.2011, n. 1634; TAR Emilia Romagna, Parma, 25.05.2005 n. 287).
Nel caso di specie, in definitiva, non vengono indicati elementi presuntivi aventi i requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall'art. 2729 c.c.. e neanche la concreta idoneità della strada a soddisfare attualmente esigenze di pubblica utilità, al fine di dimostrare l’asservimento della stessa all'uso pubblico (cfr. Cons. di Stato, sez. V, 24.05.2007, n. 2618; id. 01.12.2003, n. 7831; id. 24.10.2000 n. 5692; id., Sez. IV, 02.03.2001 n. 1155).
Prima di emettere il provvedimento impugnato, per contro, l’amministrazione avrebbe dovuto accertare attraverso un'adeguata attività istruttoria -i cui contenuti ed esiti avrebbero dovuto essere riportati nella motivazione dell'ordinanza di rimozione- se effettivamente nel caso di specie sussistessero tutti i requisiti per poter qualificare la strada in questione come strada destinata ad uso pubblico.
Deve, quindi, essere ribadita la fondatezza del suesposto motivo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.05.2013 n. 1270 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione del prefabbricato (in legno ad uso ricovero attrezzi avente superficie di mq. 18, con altezza minima di m. 1,87 e massima di m. 2,49) in assenza di titolo edilizio costituisce attività sanzionabile ai sensi degli artt. 4 ss., della legge 28.02.1985, n. 47; sicché è senz’altro legittimo l’ordine di demolizione del manufatto, in ordine al quale l’orientamento pressoché univoco della giurisprudenza è nel senso che ove si tratti di struttura realizzata per soddisfare esigenze di carattere permanente (come nel caso in esame) prescindendo da qualsiasi valutazione in ordine alla facile amovibilità o meno di tale struttura -che il ricorrente non ha peraltro nemmeno dedotto- alla stessa non potrà attribuirsi carattere di opera precaria.
Si tratta, infatti, di un manufatto il cui uso (ricoveri attrezzi) è comunque destinato a ripetersi a tempo indeterminato e la cui installazione modifica in modo durevole l’area scoperta preesistente, per cui l’opera richiede la concessione edilizia.
Ne consegue che la realizzazione del prefabbricato in assenza di valido titolo edilizio rende necessitato l’intervento del Comune e legittimo l’ordine di demolizione, avente finalità sanzionatorie e ripristinatorie, adottato dall’Amministrazione.
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Quanto alla tettoia (di mq. 18, con altezza minima di m. 2,60 e massima di m. 3,00.), il Collegio rileva che la stessa deve ritenersi di dimensioni rilevanti e destinata a funzioni permanenti e durature e non ad esigenze contingenti e temporanee; pertanto anche ad essa non può essere attribuito il carattere della precarietà e come tale essa deve ritenersi soggetta a previa concessione edilizia. Ha chiarito infatti giurisprudenza amministrativa che è necessario il permesso di costruire per una tettoia destinata al riparo o protezione dagli agenti atmosferici in quanto in tal caso deve escludersi il carattere precario della stessa.
Il fatto che le opere fossero soggette a concessione e non ad autorizzazione rende inapplicabile l’articolo 10 della legge 47/1985, il cui richiamo nel provvedimento impugnato deve ritenersi frutto di errore materiale, come evincibile, oltre che dalla tipologia degli abusi realizzati, anche dalla sanzione in concreto comminata. In proposito si ricorda che il richiamo ad una norma diversa da quella da applicarsi nel caso concreto deve considerarsi mero errore materiale, come tale non invalidante, quando come nella specie sia univoco e chiaramente distinguibile il potere esercitato.

L’ordine di demolizione ha ad oggetto un prefabbricato in legno ad uso ricovero attrezzi avente superficie di mq. 18, con altezza minima di m. 1,87 e massima di m. 2,49 nonché una tettoia anch’essa di mq. 18, con altezza minima di m. 2,60 e massima di m. 3,00.
La realizzazione del prefabbricato in assenza di titolo edilizio costituisce attività sanzionabile ai sensi degli artt. 4 ss., della legge 28.02.1985, n. 47; sicché è senz’altro legittimo l’ordine di demolizione del manufatto, in ordine al quale l’orientamento pressoché univoco della giurisprudenza è nel senso che ove si tratti di struttura realizzata per soddisfare esigenze di carattere permanente (come nel caso in esame) prescindendo da qualsiasi valutazione in ordine alla facile amovibilità o meno di tale struttura -che il ricorrente non ha peraltro nemmeno dedotto- alla stessa non potrà attribuirsi carattere di opera precaria.
Si tratta, infatti, di un manufatto il cui uso (ricoveri attrezzi) è comunque destinato a ripetersi a tempo indeterminato e la cui installazione modifica in modo durevole l’area scoperta preesistente, per cui l’opera richiede la concessione edilizia.
Ne consegue che la realizzazione del prefabbricato in assenza di valido titolo edilizio rende necessitato l’intervento del Comune e legittimo l’ordine di demolizione, avente finalità sanzionatorie e ripristinatorie, adottato dall’Amministrazione.
Quanto alla tettoia, il Collegio rileva che la stessa deve ritenersi di dimensioni rilevanti e destinata a funzioni permanenti e durature e non ad esigenze contingenti e temporanee; pertanto anche ad essa non può essere attribuito il carattere della precarietà e come tale essa deve ritenersi soggetta a previa concessione edilizia. Ha chiarito infatti giurisprudenza amministrativa che è necessario il permesso di costruire per una tettoia destinata al riparo o protezione dagli agenti atmosferici in quanto in tal caso deve escludersi il carattere precario della stessa. (cfr Cassazione 07.09.2011, n. 3326; Tar Lombardia, Milano, sezione seconda, 04.12.2007, n. 6544).
Il fatto che le opere fossero soggette a concessione e non ad autorizzazione rende inapplicabile l’articolo 10 della legge 47/1985, il cui richiamo nel provvedimento impugnato deve ritenersi frutto di errore materiale, come evincibile, oltre che dalla tipologia degli abusi realizzati, anche dalla sanzione in concreto comminata. In proposito si ricorda che il richiamo ad una norma diversa da quella da applicarsi nel caso concreto deve considerarsi mero errore materiale, come tale non invalidante, quando come nella specie sia univoco e chiaramente distinguibile il potere esercitato (cfr. Tar Lombardia, Milano, sezione seconda, 17.01.2011, n. 94).
In conclusione il ricorso è infondato e deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 14.05.2013 n. 1266 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

GIURISPRUDENZA

COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALIVa evidenziato come, effettivamente, l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000 disciplini l’ammissibilità di una deroga ai principi di necessaria separazione tra funzioni di gestione e funzioni politiche e di indirizzo di cui al D.lgs. 267/2000.
Con riferimento a detta deroga va, tuttavia, rilevato come essa, nel permettere che i componenti di un organo a cui spetta, di regola, la gestione dell’Ente locale (nella specie la Giunta Comunale) possano risultare assegnatari della responsabilità degli uffici e dei servizi di un Comune, prevede, altresì, che l’applicabilità di detta disciplina derogatoria sia subordinata alla sussistenza di alcuni presupposti, principalmente riconducibili alla necessità di operare un contenimento della spesa e, ciò, per quanto concerne i Comuni con una popolazione inferiore a 5000 abitanti.
Nel perseguimento di detto intento l’art. 53, comma 23, sopra citato ha previsto la necessità che il contenimento della spesa sia “effettivo” e, ciò, nella parte in cui ha espressamente disciplinato l’obbligo che detto contenimento sia documentato ogni anno, con un’apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio.
Con riferimento al caso sottoposto a questo Collegio va evidenziato come deve ritenersi del tutto insussistente il presupposto del contenimento della spesa, presupposto quest’ultimo che deve ritenersi l’unico idoneo a sancire una deroga ai principi di separazione tra gestione e attività di indirizzo, introdotti dalla L. n. 142/1990 e poi ribaditi nel Testo Unico degli Enti locali sopra citato e tutt’ora vigente.

... per l'annullamento della determinazione n. 116 in data 10/12/2008 a firma del Sindaco Responsabile dell’area Manutentiva del Comune di Fardella, notificata in pari data, con la quale è stata annullata la concessione edilizia n. 02 del 18/01/1985 ed è stata ordinata la demolizione del fabbricato costruito a seguito della concessione edilizia ed il ripristino dello stato dei luoghi.
...
Il ricorso è fondato per i motivi di seguito precisati e con riferimento, in particolare, sia al primo che il quarto motivo.
Con riferimento al primo motivo parte ricorrente rileva l’incompetenza del Sindaco, in quanto Responsabile dell’Area Manutentiva, ad adottare il provvedimento impugnato.
Sul punto va preliminarmente evidenziato come, effettivamente, l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000 disciplini l’ammissibilità di una deroga ai principi di necessaria separazione tra funzioni di gestione e funzioni politiche e di indirizzo di cui al D.lgs. 267/2000.
Con riferimento a detta deroga va, tuttavia, rilevato come essa, nel permettere che i componenti di un organo a cui spetta, di regola, la gestione dell’Ente locale (nella specie la Giunta Comunale) possano risultare assegnatari della responsabilità degli uffici e dei servizi di un Comune, prevede, altresì, che l’applicabilità di detta disciplina derogatoria sia subordinata alla sussistenza di alcuni presupposti, principalmente riconducibili alla necessità di operare un contenimento della spesa e, ciò, per quanto concerne i Comuni con una popolazione inferiore a 5000 abitanti.
Nel perseguimento di detto intento l’art. 53, comma 23, sopra citato ha previsto la necessità che il contenimento della spesa sia “effettivo” e, ciò, nella parte in cui ha espressamente disciplinato l’obbligo che detto contenimento sia documentato ogni anno, con un’apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio.
Con riferimento al caso di specie va al contrario evidenziato che, come ha avuto modo di dimostrare parte ricorrente -senza peraltro essere smentita dalla contro interessata-, nell’ambito dell’organico del Comune fosse stata prevista (con la delibera n. 46/2006) la copertura del posto vacante presso l’Ufficio Tecnico.
Con la successiva delibera n. 47/2006 detta dotazione organica era stata, altresì, individuata nell’espressa previsione di un profilo “C 3”, soggetto quest’ultimo al quale erano stati poi attribuiti i compiti di responsabile dell’Area Tecnica e con Decreto Sindacale n. 08/2006.
Sul punto va, peraltro, evidenziato come un orientamento giurisprudenziale, già vigente nel momento in cui veniva emanato l’atto impugnato (TAR Calabria Catanzaro Sez. II, 12.03.2004, n. 627), si era sancito che “la giunta conferisca al sindaco il potere di gestire l'area tecnica, se nell'organico comunale difettino figure dotate di una professionalità specifica ed opportuna per la gestione di detta area”, elemento quest’ultimo che non può non essere interpretato nell’intento di circoscrivere l’applicazione dell’art. 53 sopra citato in considerazione delle finalità sopra ricordate della norma di cui si tratta e del carattere eccezionale della stessa disciplina.
Con riferimento al caso sottoposto a questo Collegio va evidenziato come, sulla base delle circostanze sopra citate, deve ritenersi del tutto insussistente il presupposto del contenimento della spesa, presupposto quest’ultimo che deve ritenersi l’unico idoneo a sancire una deroga ai principi di separazione tra gestione e attività di indirizzo, introdotti dalla L. n. 142/1990 e poi ribaditi nel Testo Unico degli Enti locali sopra citato e tutt’ora vigente.
Condividere le tesi del soggetto controinteressato porterebbe a ritenere applicabile l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000 a fattispecie del tutto differenti, estendendo l’ambito di incidenza di una norma dall’evidente carattere eccezionale e derogatorio e vanificando, così, quei principi di separazione sopra ricordati che, in quanto ribaditi anche nella legislazione in materia di pubblico impiego, hanno assunto i caratteri di principi fondamentali del nostro ordinamento.
Il motivo è pertanto fondato (TAR Basilicata, sentenza 08.04.2013 n. 158 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’illegittimità del provvedimento di cui si tratta è evidente laddove si consideri quei costanti orientamenti giurisprudenziali che, da un lato, ritengono indispensabile che il potere di autotutela sia esercitato entro un termine ragionevole, come prescritto dall'art. 21-nonies della L. n. 241/1990 e, dall’altro, hanno sancito la “inidoneità”, a giustificare l’annullamento d’ufficio di una concessione edilizia, della sola finalità di ripristinare la legalità violata.
Detto ultimo orientamento ha, infatti, ritenuto indispensabile che sia data prova di un interesse pubblico attuale e concreto alla rimozione del titolo edilizio “tanto più quando il titolare della concessione, in ragione del tempo decorso, ha fatto un ragionevole affidamento sulla regolarità della concessione ottenuta quando una significativa parte delle opere assentite sono state già realizzate.

Pur considerando dirimente ai fini della decisione del ricorso l’accoglimento del motivo sopra evidenziato, va altresì rilevato come risulti fondato anche il quarto motivo del ricorso, mediante il quale parte ricorrente evidenzia che il provvedimento impugnato, pur intendendo disporre espressamente “l’annullamento in autotutela ai sensi dell’art. 14 della L. n. 15/2005 di riforma della L. n. 241/1990”, sia del tutto privo dell’indispensabile comparazione tra interesse pubblico e privato, così come sancita dall’art. 21-nonies introdotto dalla disciplina sopra ricordata.
Non solo nel provvedimento non vi è traccia del percorso logico deduttivo correlato all’interesse pubblico, ma ancora, non è presente alcuna considerazione circa il considerevole lasso di tempo trascorso e, ciò, con riferimento ad un provvedimento di concessione edilizia adottato nel corso del 1985.
L’illegittimità del provvedimento di cui si tratta è, altresì, evidente laddove si consideri quei costanti orientamenti giurisprudenziali che, da un lato, ritengono indispensabile che il potere di autotutela sia esercitato entro un termine ragionevole, come prescritto dall'art. 21-nonies della L. n. 241/1990 (Consiglio di Stato Sez. V, Sent. n. 816 del 04.03.2008) e, dall’altro, hanno sancito la “inidoneità”, a giustificare l’annullamento d’ufficio di una concessione edilizia, della sola finalità di ripristinare la legalità violata.
Detto ultimo orientamento ha, infatti, ritenuto indispensabile che sia data prova di un interesse pubblico attuale e concreto alla rimozione del titolo edilizio “tanto più quando il titolare della concessione, in ragione del tempo decorso, ha fatto un ragionevole affidamento sulla regolarità della concessione ottenuta quando una significativa parte delle opere assentite sono state già realizzate (Tar Basilicata, Sez. I, 19/01/1998 n. 15)”.
L’accoglimento delle censure sopra precisate consente di assorbire gli ulteriori motivi proposti da parte ricorrente.
Il ricorso è pertanto fondato e va disposto l’annullamento della determinazione n. 116 in data 10/12/2008 a firma del Sindaco Responsabile dell’area Manutentiva del Comune di Fardella, con la quale è stata annullata la concessione edilizia n. 02 del 18/01/1985 ed è stata ordinata la demolizione del fabbricato costruito a seguito della ripetuta concessione edilizia ed il ripristino dello stato dei luoghi (TAR Basilicata, sentenza 08.04.2013 n. 158 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANella zona di rispetto ferroviario di cui all’art. 39 del D.P.R. 753 del 1980 vige un vincolo di inedificabilità relativa e non già assoluta, come tale quindi rientrante nella previsione dell’art. 32 e non dell’art. 33 della L. 28.02.1985 n. 47, posto che a’ sensi dell’art. 60 del medesimo D.P.R. 753 del 19890 l’Autorità a ciò competente può assentire deroghe alle distanze dai binari ivi contemplate.
A tale riguardo va evidenziato che la giurisprudenza, a differenza dell’approdo interpretativo qui raggiunto dal giudice di primo grado, unanimemente ormai afferma che nella zona di rispetto ferroviario di cui all’art. 39 del D.P.R. 753 del 1980 vige un vincolo di inedificabilità relativa e non già assoluta, come tale quindi rientrante nella previsione dell’art. 32 e non dell’art. 33 della L. 28.02.1985 n. 47, posto che a’ sensi dell’art. 60 del medesimo D.P.R. 753 del 19890 l’Autorità a ciò competente può assentire deroghe alle distanze dai binari ivi contemplate (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 13.02.1997 n. 158; del tutto costante sul punto anche la giurisprudenza in primo grado: cfr., ex plurimis, TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 04.08.2008 n. 3593, TAR Toscana, Sez. III, 18.01.2010 n. 37 e, tra le più recenti, TAR Puglia, Lecce,sez. III, 12.09.2012 n. 1518; per completezza espositiva va detto che la fascia di rispetto di cui all’art. 49 del D.P.R. 753 del 1980 seguita ad essere definita come area di in edificabilità assoluta soltanto dal giudice ordinario e dal Tribunale superiore delle acque pubbliche ai soli fini della determinazione dell’indennità di espropriazione: cfr. in tal senso, ex plurimis, Cass. Civ., Sez. I, 10.11.2008 n. 26899 e Tribunale superiore delle acque pubbliche, 13.10.2010 n. 140)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.04.2013 n. 1902 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAUn atto endoprocedimentale –quale è, per l’appunto, un parere- non è, di per sé, autonomamente impugnabile, e ciò in quanto la lesione della sfera giuridica del destinatario è imputabile al solo atto che conclude il procedimento.
Altresì, sussiste la necessità di impugnazione dei pareri aventi carattere vincolato -ossia dei pareri che sono comunque idonei a conformare in maniera inderogabile la determinazione conclusiva che l’Amministrazione decidente deve assumere- entro il termine decadenziale decorrente dalla loro conoscenza.

Ciò posto, è invero del tutto consolidata la giurisprudenza secondo la quale un atto endoprocedimentale –quale è, per l’appunto, un parere- non è, di per sé, autonomamente impugnabile, e ciò in quanto la lesione della sfera giuridica del destinatario è imputabile al solo atto che conclude il procedimento.
Tuttavia, la medesima giurisprudenza recante l’affermazione di tale principio altrettanto costantemente afferma la necessità di impugnazione dei pareri aventi carattere vincolato -ossia dei pareri che sono comunque idonei a conformare in maniera inderogabile la determinazione conclusiva che l’Amministrazione decidente deve assumere- entro il termine decadenziale decorrente dalla loro conoscenza (cfr. in tal senso, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 09.11.2011 n. 5921): e nel caso in esame è indubbio che l’apprezzamento di Ferrovie dello Stato S.p.a. –e, ora, di Reti Ferroviarie Italiane S.p.a.– sulla compatibilità della distanza delle costruzioni dalla sede ferroviarie con le condizioni di sicurezza per la circolazione dei convogli ferroviari è assolutamente insindacabile da parte dell’Amministrazione Comunale, vincolandone –per l’appunto– la discrezionalità in sede di esame delle istanze di condono edilizio, ovvero di accertamento di conformità a’ sensi degli artt. 36 e 37 del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e dei conseguenti istituti contemplati dalla legislazione regionale emanata a’ sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, del medesimo T.U.
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.04.2013 n. 1902 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVINei casi in cui un provvedimento si fondi su ragioni diverse e si dubiti della legittimità di qualcuno di tali presupposti, occorre verificare se quelli che sfuggono alle contestazioni avanzate lo sorreggano adeguatamente, tanto da impedire il suo annullamento; ossia -detto altrimenti- se l’atto impugnato è legittimamente fondato su una ragione di per sé sufficiente a sorreggerlo, diventano irrilevanti le ulteriori censure dedotte avverso le altre ragioni opposte dall’autorità emanante a rigetto dell’istanza.
Come è ben noto, la giurisprudenza unanimemente afferma che nei casi in cui un provvedimento si fondi su ragioni diverse e si dubiti della legittimità di qualcuno di tali presupposti, occorre verificare se quelli che sfuggono alle contestazioni avanzate lo sorreggano adeguatamente, tanto da impedire il suo annullamento (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 27.02.2012. n. 1081); ossia -detto altrimenti- se l’atto impugnato è legittimamente fondato su una ragione di per sé sufficiente a sorreggerlo, diventano irrilevanti le ulteriori censure dedotte avverso le altre ragioni opposte dall’autorità emanante a rigetto dell’istanza (cfr., ex plurimis, Cons. Stato., Sez. VI, 12.10.2011 n. 5517) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.04.2013 n. 1902 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’impianto di telefonia in argomento è annoverabile tra le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione e, come tale, può essere equiparato, a tenore dell’art. 86 comma terzo del D.Lgs. 01.08.2003 n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), alle ordinarie opere di urbanizzazione primaria, compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica.
Inoltre, a tenore dell’art. 231 del Codice postale (D.P.R. n. 156/1973), <<gli impianti di teleradio-comunicazioni e le opere accessorie occorrenti per la funzionalità di detti impianti, sempreché siano esercitati dallo Stato o dai concessionari per i servizi ad uso pubblico, hanno carattere di pubblica utilità>>.
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Il Comune non ha, per legge, la potestà di introdurre un divieto generalizzato di installazione degli impianti di telefonia, né di introdurre misure che, pur essendo di natura tipicamente urbanistica (distanze, altezze, quote, eccetera) non siano funzionali al governo del territorio, quanto piuttosto alla tutela dai rischi dell’elettromagnetismo che –a tenore dell’art. 8 della legge 22.02.2001 n. 36– rientra nelle esclusive attribuzioni statali, non già in quelle comunali.
La localizzazione degli impianti nelle sole zone in cui il Regolamento li consente si pone in contrasto non solo con l’esigenza di permettere la copertura del servizio di telefonia mobile sull’intero territorio comunale, ma anche con la loro natura di infrastrutture primarie e impianti di interesse generale, posti al servizio della comunità e quindi compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica.

La società ricorrente vuole implementare un impianto di telefonia già esistente ma riceve il diniego del Comune, motivato con il fatto che la zona prescelta, a tenore del Regolamento comunale, non sarebbe idonea.
Le deduzioni del Comune non considerano che l’impianto di telefonia in argomento è annoverabile tra le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione e, come tale, può essere equiparato, a tenore dell’art. 86 comma terzo del D.Lgs. 01.08.2003 n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), alle ordinarie opere di urbanizzazione primaria, compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica (cfr.: TAR Sicilia Palermo II, 11.01.2011 n. 22). Inoltre, a tenore dell’art. 231 del Codice postale (D.P.R. n. 156/1973), <<gli impianti di teleradio-comunicazioni e le opere accessorie occorrenti per la funzionalità di detti impianti, sempreché siano esercitati dallo Stato o dai concessionari per i servizi ad uso pubblico, hanno carattere di pubblica utilità>>.
Ebbene, la società ricorrente risulta essere concessionaria di un pubblico servizio di telecomunicazioni, pertanto, la realizzazione delle dette infrastrutture non è soggetta alle prescrizioni urbanistico-edilizie che si riferiscono a diverse tipologie di opere edilizie. La conseguenza di ciò è che il titolo autorizzatorio non può essere negato, se non avuto riguardo a una specifica disciplina conformativa, da assoggettare al procedimento della variante urbanistica, che prenda in considerazione le reti infrastrutturali tecnologiche necessarie per il funzionamento del servizio pubblico.
Tale disciplina, in effetti, sarebbe quella adottata dal Comune resistente, con le impugnate deliberazioni di Consiglio Comunale nn. 26/2002 e 9/2004, sennonché tali atti, difettando dell’approvazione regionale, non sono coerenti con il parametro del procedimento di variante urbanistica. La regolamentazione comunale, che è stata adottata per fini meramente radio-protezionistici, esclude la possibilità di installare impianti in aree sensibili, introduce un divieto generalizzato di installare impianti al di fuori dei siti comunali individuati nella zonizzazione, dispone il divieto di rilasciare titoli abilitativi al di fuori delle zone consentite.
Il Regolamento e il Piano sono palesemente illegittimi, non soltanto perché difformi dal parametro dei piani urbanistici, ma anche perché il Comune non ha, per legge, la potestà di introdurre un divieto generalizzato di installazione degli impianti di telefonia, né di introdurre misure –come è accaduto nella specie– che, pur essendo di natura tipicamente urbanistica (distanze, altezze, quote, eccetera) non siano funzionali al governo del territorio, quanto piuttosto alla tutela dai rischi dell’elettromagnetismo che –a tenore dell’art. 8 della legge 22.02.2001 n. 36– rientra nelle esclusive attribuzioni statali, non già in quelle comunali (cfr.: Corte Cost. 07.10.2003 n. 307; Cons. Stato VI, 10.02.2003 n. 673; TAR Lazio Roma, II-bis, 18.05.2006 n. 3565).
La localizzazione degli impianti nelle sole zone in cui il Regolamento li consente si pone in contrasto non solo con l’esigenza di permettere la copertura del servizio di telefonia mobile sull’intero territorio comunale, ma anche con la loro natura di infrastrutture primarie e impianti di interesse generale, posti al servizio della comunità e quindi compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica (cfr.: Cons. Stato VI, 10.02.2003 n. 673; TAR Veneto Venezia, II, 17.03.2004 n. 749; TAR Molise I, 07.04.2011 n. 176).
Il Comune ha esorbitato dalle proprie attribuzioni anche per un altro ordine di ragioni: invero, l’art. 8 comma primo lett. a) della legge n. 36/2001 (legge-quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici) attribuisce la funzione di individuazione dei siti di trasmissione per impianti di telefonia mobile non già ai Comuni, ma alle Regioni. Pertanto, in assenza dei criteri regionali per l’individuazione delle aree nelle quali consentire l’installazione, una così stringente e generale regolamentazione comunale è da ritenersi esorbitante ed eccessiva (TAR Molise, sentenza 29.03.2013 n. 229 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIPartecipare ad una gara d'appalto è richiesto espressamente ai concorrenti la specifica indicazione, nell’offerta, degli oneri per la sicurezza.
Tale adempimento, imposto dalla legge, è posto a presidio della par condicio tra i concorrenti nonché dell’interesse dell’Amministrazione pubblica a vagliare l’affidabilità e la congruità delle offerte, e specificamente la loro idoneità a garantire la sicurezza dei lavoratori da impiegare nella commessa pubblica.
Alla luce di tale ratio legis, i costi della sicurezza costituiscono elemento essenziale dell’offerta, con la conseguenza che la loro mancata indicazione rende quest’ultima incompleta, e dunque soggetta a esclusione, a norma dell’art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici. E ciò anche in assenza di una specifica previsione all’interno della lex specialis, circa l’onere di esplicitare, nell’offerta, l’ammontare degli oneri di sicurezza.
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L’articolo 38, co. 2, lett. c), del codice dei contratti pubblici, stabilisce che le dichiarazioni, in ordine alla sussistenza dei requisiti di ordine generale richiesti, debbano essere rese dagli amministratori muniti di potere di rappresentanza. Detta disposizione assolve alla precisa finalità di consentire alla stazione appaltante un controllo sull’idoneità morale dell’impresa che abbia presentato un’offerta. La verifica sulla sussistenza dei requisiti di moralità deve essere operata rispetto a tutti i soggetti, amministratori, che siano abilitati ad impegnare l’impresa nei confronti di terzi.
Per questo motivo, l’articolo 38 statuisce che alla dichiarazione sostitutiva siano tenuti soltanto “gli amministratori muniti di potere di rappresentanza”, ossia coloro –tra gli amministratori– i quali abbiano il potere di spendere, all’esterno, il nome dell’impresa.
Da ciò si evince che ben è possibile che la società limiti od escluda il potere di rappresentanza con riguardo ad uno o più amministratori.
Il riferimento agli “amministratori muniti di potere di rappresentanza”, contenuto nell’art. 38, comma 2, lett. c, d.lgs. 163/2006, deve essere interpretato «nel senso che coloro i quali rivestono cariche societarie, alle quali è per legge istituzionalmente connesso il possesso di poteri rappresentativi, sono in ogni caso tenuti a rendere la dichiarazione de qua, senza che possa avere rilevanza alcuna l’eventuale ripartizione interna di compiti e deleghe».
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Ai sensi dell’art. 41 del codice dei contratti pubblici, la stazione appaltante può richiedere, ai concorrenti, che dimostrino la propria capacità economico-finanziaria mediante presentazione di almeno due referenze bancarie, con i limiti di cui al comma 3 e il comma 2 dell’art. 41 cit. sancisce, ulteriormente, la facoltà, in capo alle amministrazioni, di richiedere requisiti di qualificazione ulteriori rispetto a quelli espressamente stabiliti dalla legge.
Ebbene, tale facoltà trova un limite solo nel principio di proporzionalità e ragionevolezza, in relazione all’oggetto del contratto, nonché nel divieto di inutile aggravamento del procedimento di cui all’art. 1, comma 2, L. n. 241/1990.
Invero, anche a seguito dell’introduzione del principio di tassatività delle cause di esclusione di cui al comma 1-bis dell’art. 46 del d.lgs. 163/2006, è “rimasta inalterata la facoltà delle amministrazioni aggiudicatrici di richiedere, a pena di esclusione, tutti i documenti e gli elementi ritenuti necessari o utili per identificare e selezionare i partecipanti ad una procedura concorsuale nel rispetto del principio di proporzionalità, ai sensi degli art. 73 e 74 del Codice dei contratti.

Difatti, gli articoli 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del codice dei contratti pubblici, nonché l’art. 26, comma 6, del d.lgs. n. 81 del 2008, richiedono espressamente ai concorrenti la specifica indicazione, nell’offerta, degli oneri per la sicurezza.
Tale adempimento, imposto dalla legge, è posto a presidio della par condicio tra i concorrenti nonché dell’interesse dell’Amministrazione pubblica a vagliare l’affidabilità e la congruità delle offerte, e specificamente la loro idoneità a garantire la sicurezza dei lavoratori da impiegare nella commessa pubblica.
Alla luce di tale ratio legis, i costi della sicurezza costituiscono elemento essenziale dell’offerta, con la conseguenza che la loro mancata indicazione rende quest’ultima incompleta, e dunque soggetta a esclusione, a norma dell’art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici (cfr., in tal senso, Cons. Stato, sez. III, sentenza 28.08.2012, n. 4622; nonché, Cons. Stato, sez. V, sentenza 31.07.2012, n. 4351). E ciò anche in assenza di una specifica previsione all’interno della lex specialis, circa l’onere di esplicitare, nell’offerta, l’ammontare degli oneri di sicurezza.
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L’articolo 38, co. 2, lett. c), del codice dei contratti pubblici, stabilisce che le dichiarazioni, in ordine alla sussistenza dei requisiti di ordine generale richiesti, debbano essere rese dagli amministratori muniti di potere di rappresentanza. Detta disposizione assolve alla precisa finalità di consentire alla stazione appaltante un controllo sull’idoneità morale dell’impresa che abbia presentato un’offerta. La verifica sulla sussistenza dei requisiti di moralità deve essere operata rispetto a tutti i soggetti, amministratori, che siano abilitati ad impegnare l’impresa nei confronti di terzi (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. III, 16.03.2012, n. 1471).
Per questo motivo, l’articolo 38 statuisce che alla dichiarazione sostitutiva siano tenuti soltanto “gli amministratori muniti di potere di rappresentanza”, ossia coloro –tra gli amministratori– i quali abbiano il potere di spendere, all’esterno, il nome dell’impresa.
Da ciò si evince che ben è possibile che la società limiti od escluda il potere di rappresentanza con riguardo ad uno o più amministratori.
Tuttavia, tali limitazioni –secondo quanto prevede l’articolo 2475-bis, secondo comma, del codice civile– seppure risultino espressamente dall’atto costitutivo ovvero dall’atto di nomina dell’amministratore, non hanno, in linea di principio, efficacia esterna, ossia non producono effetti nei confronti dei terzi («salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società»). Trova applicazione prevalente, pertanto, la regola sancita dal primo comma del medesimo articolo, per la quale gli amministratori hanno la rappresentanza generale della società. 3.4. Come chiarito anche dalla prevalente giurisprudenza, non assumono, quindi, rilievo eventuali ripartizioni interne del potere di rappresentanza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, sentenza 03.12.2010 n. 8535).
Si osserva ulteriormente, in tale prospettiva, che il riferimento agli “amministratori muniti di potere di rappresentanza”, contenuto nell’art. 38, comma 2, lett. c, d.lgs. 163/2006, deve essere interpretato «nel senso che coloro i quali rivestono cariche societarie, alle quali è per legge istituzionalmente connesso il possesso di poteri rappresentativi, sono in ogni caso tenuti a rendere la dichiarazione de qua, senza che possa avere rilevanza alcuna l’eventuale ripartizione interna di compiti e deleghe» (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. III, 16.03.2012, n. 1471, pronunciata in un caso nel quale lo statuto attribuiva la rappresentanza della società a tutti i componenti del consiglio di amministrazione, in via disgiunta tra loro, mentre una delibera interna del C.d.A. limitava il potere di un suo componente alla sola gestione di determinate attività).
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Precisato, infatti, che -ai sensi dell’art. 41 del codice dei contratti pubblici- la stazione appaltante può richiedere, ai concorrenti, che dimostrino la propria capacità economico-finanziaria mediante presentazione di almeno due referenze bancarie, con i limiti di cui al comma 3 e che il comma 2 dell’art. 41 cit. sancisce, ulteriormente, la facoltà, in capo alle amministrazioni, di richiedere requisiti di qualificazione ulteriori rispetto a quelli espressamente stabiliti dalla legge, va rammentato come, secondo la giurisprudenza, condivisa dal Collegio, tale facoltà trova un limite solo nel principio di proporzionalità e ragionevolezza, in relazione all’oggetto del contratto, nonché nel divieto di inutile aggravamento del procedimento di cui all’art. 1, comma 2, L. n. 241/1990 (cfr. ex multis TAR Liguria, sez. II, 27.05.2009, n. 1238; cfr. anche Cons. Stato, sez. V, 23.02.2010, n. 1040).
Inoltre, anche a seguito dell’introduzione del principio di tassatività delle cause di esclusione di cui al comma 1-bis dell’art. 46 del d.lgs. 163/2006, è “rimasta inalterata la facoltà delle amministrazioni aggiudicatrici di richiedere, a pena di esclusione, tutti i documenti e gli elementi ritenuti necessari o utili per identificare e selezionare i partecipanti ad una procedura concorsuale nel rispetto del principio di proporzionalità, ai sensi degli art. 73 e 74 del Codice dei contratti (cfr. Sez, V, 12.06.2012, n. 3884)” (Cons. Stato, sez. V, sentenza 18.02.2013, n. 974)
(TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 28.03.2013 n. 258 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIPerché sia consentito il ricorso avverso il silenzio dell'Amministrazione, è essenziale che esso riguardi l'esercizio di una potestà amministrativa e che la posizione del privato si configuri come interesse legittimo, con la conseguenza che il ricorso è inammissibile allorché la posizione giuridica azionata dal ricorrente consista in un diritto soggettivo; il silenzio-rifiuto può infatti formarsi esclusivamente in ordine all’inerzia dell'Amministrazione su una domanda intesa ad ottenere l'adozione di un provvedimento ad emanazione vincolata ma di contenuto discrezionale e, quindi, necessariamente incidente su posizioni di interesse legittimo, e non già nell'ipotesi in cui viene chiesto il soddisfacimento di posizioni aventi natura sostanziale di diritti.
La formazione del silenzio–rifiuto, o lo speciale procedimento giurisdizionale oggi disciplinato dall'art. 117 del c.p.a., non risulta, infatti, compatibile con le pretese che solo apparentemente abbiano per oggetto una situazione di inerzia, in quanto concernono diritti soggettivi la cui eventuale lesione è direttamente accertabile dall'autorità giurisdizionale competente.
Ai sensi dell'art. 31 del c.p.a. è inammissibile il ricorso diretto all'accertamento dell'illegittimità del silenzio su un'istanza dell'interessato allorché il Giudice amministrativo sia privo di giurisdizione in ordine al rapporto giuridico sottostante ovvero si verta, comunque, nell’ambito di posizioni di diritto soggettivo, anche laddove sia riscontrabile un'ipotesi di giurisdizione esclusiva.
Il ricorso avverso il silenzio-rifiuto costituisce, infatti, un'azione che richiede al Giudice di esercitare una cognizione sul merito della causa, che, in taluni casi, può spingersi sino alla condanna dell'Amministrazione all'adozione di un provvedimento di contenuto predeterminato; si deve, pertanto, concludere nel senso che la giurisdizione del G.A. in materia di silenzio-rifiuto si arresta laddove l'istanza inevasa abbia ad oggetto una materia devoluta alla giurisdizione esclusiva di altra autorità giudiziaria.
Invero, l'art. 2 della l. n. 205/2000, che ha introdotto l'art. 21-bis della l. n. 1034/1971 in tema di ricorso avverso il silenzio serbato dall'amministrazione, poi confluito nell'art. 31 del c.p.a., non ha inteso creare un rimedio di carattere generale, esperibile in tutte le ipotesi di comportamento inerte della pubblica amministrazione, e pertanto sempre ammissibile indipendentemente dalla giurisdizione del G.A. (il quale si configurerebbe quindi come giudice del silenzio dell'Amministrazione), ma soltanto un istituto giuridico relativo alla esplicazione di potestà pubblicistiche correlate alle sole ipotesi di mancato esercizio dell'attività amministrativa discrezionale.
Ne consegue che, nell'ipotesi che il procedimento attivato afferisca alla tutela di un diritto soggettivo, l'azione di annullamento del silenzio-rifiuto della pubblica Amministrazione non è esperibile, poiché il giudizio sul silenzio presuppone l'esercizio di una potestà amministrativa, rispetto alla quale la posizione del privato si configura come interesse legittimo.

Osserva la Sezione che, perché sia consentito il ricorso avverso il silenzio dell'Amministrazione, è essenziale che esso riguardi l'esercizio di una potestà amministrativa e che la posizione del privato si configuri come interesse legittimo, con la conseguenza che il ricorso è inammissibile allorché la posizione giuridica azionata dal ricorrente consista in un diritto soggettivo; il silenzio-rifiuto può infatti formarsi esclusivamente in ordine all’inerzia dell'Amministrazione su una domanda intesa ad ottenere l'adozione di un provvedimento ad emanazione vincolata ma di contenuto discrezionale e, quindi, necessariamente incidente su posizioni di interesse legittimo, e non già nell'ipotesi in cui viene chiesto il soddisfacimento di posizioni aventi natura sostanziale di diritti.
La formazione del silenzio–rifiuto, o lo speciale procedimento giurisdizionale oggi disciplinato dall'art. 117 del c.p.a., non risulta, infatti, compatibile con le pretese che solo apparentemente abbiano per oggetto una situazione di inerzia, in quanto concernono diritti soggettivi la cui eventuale lesione è direttamente accertabile dall'autorità giurisdizionale competente.
Ai sensi dell'art. 31 del c.p.a. è inammissibile il ricorso diretto all'accertamento dell'illegittimità del silenzio su un'istanza dell'interessato allorché il Giudice amministrativo sia privo di giurisdizione in ordine al rapporto giuridico sottostante ovvero si verta, comunque, nell’ambito di posizioni di diritto soggettivo, anche laddove sia riscontrabile un'ipotesi di giurisdizione esclusiva.
Il ricorso avverso il silenzio-rifiuto costituisce, infatti, un'azione che richiede al Giudice di esercitare una cognizione sul merito della causa, che, in taluni casi, può spingersi sino alla condanna dell'Amministrazione all'adozione di un provvedimento di contenuto predeterminato; si deve, pertanto, concludere nel senso che la giurisdizione del G.A. in materia di silenzio-rifiuto si arresta laddove l'istanza inevasa abbia ad oggetto una materia devoluta alla giurisdizione esclusiva di altra autorità giudiziaria.
Invero, secondo nota e consolidata giurisprudenza (Consiglio Stato, Sez. V, 17.01.2011, n. 210), l'art. 2 della l. n. 205/2000, che ha introdotto l'art. 21-bis della l. n. 1034/1971 in tema di ricorso avverso il silenzio serbato dall'amministrazione, poi confluito nell'art. 31 del c.p.a., non ha inteso creare un rimedio di carattere generale, esperibile in tutte le ipotesi di comportamento inerte della pubblica amministrazione, e pertanto sempre ammissibile indipendentemente dalla giurisdizione del G.A. (il quale si configurerebbe quindi come giudice del silenzio dell'Amministrazione), ma soltanto un istituto giuridico relativo alla esplicazione di potestà pubblicistiche correlate alle sole ipotesi di mancato esercizio dell'attività amministrativa discrezionale.
Ne consegue che, nell'ipotesi che il procedimento attivato afferisca alla tutela di un diritto soggettivo, l'azione di annullamento del silenzio-rifiuto della pubblica Amministrazione non è esperibile, poiché il giudizio sul silenzio presuppone l'esercizio di una potestà amministrativa, rispetto alla quale la posizione del privato si configura come interesse legittimo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.03.2013 n. 1754 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTICiò che rileva, ai fini dell’ammissione o meno alla gara pubblica, è il dato sostanziale della regolarità contributiva, perché la ratio della norma è quella di spingere le imprese ad essere sempre in regola con le fondamentali normative di settore poste a tutela della sicurezza sul lavoro, dei lavoratori e dell’Erario.
Tale impostazione, peraltro, ha il pregio di apparire in linea anche con la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo cui il requisito della regolarità contributiva, essendo condizione di partecipazione alla gara, deve essere verificato sin dal momento della scadenza del termine per la partecipazione all’offerta (e non quindi al momento dell’emissione del DURC) e per tutta la durata della procedura.
Che questa sia l’impostazione corretta è oggi confermato anche dal rilievo che l’art. 15, comma 1, lettera a), della L. 12.11.2011, n. 183 (entrata in vigore il 01.01.2012) ha modificato l'art. 40 del DPR n. 445/2000, nel senso che le certificazioni rilasciate dalla pubblica amministrazione in ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e utilizzabili solo nei rapporti tra privati, mentre nei rapporti con gli organi della pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi i certificati e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47.
Alla stregua di tale disposizione, dunque, deve ritenersi che il DURC non possa più essere richiesto alle imprese partecipanti alla gara, mentre le stazioni appaltanti sono tenute senza ombra di dubbio a verificare le corrispondenti autodichiarazioni.
E’ evidente, allora, che ciò che rileva non sono le risultanze del DURC, ma la regolarità contributiva sostanziale.

Con il terzo motivo di ricorso –rubricato “violazione e falsa applicazione dell’art. 38 del Codice degli Appalti, violazione e falsa applicazione dell’art. 46, comma 1-bis, del Codice degli Appalti, eccesso di potere per difetto di istruttoria”– la Migliore Arte e Costruzioni deduce la illegittimità della clausola del bando che prevede la esclusione per mancata produzione del DURC, per contrasto con l’art. 38 del Codice degli appalti, il quale impone la presentazione della certificazione attestante la regolarità contributiva al momento della stipulazione del contratto da parte dell’aggiudicatario, mentre per il mero concorrente sarebbe sufficiente che sussista la regolarità contributiva sul piano sostanziale (a prescindere quindi dalle risultanze del DURC).
La tesi della ricorrente non conduce laddove essa vorrebbe, dal momento che come detto sopra, in ogni caso, deve ritenersi sussistente già sul piano “sostanziale” (di cui il DURC è mera certificazione “formale”) l’irregolarità contributiva della Migliore Arte e Costruzioni.
Con un ultimo motivo di doglianza –rubricato “violazione e falsa applicazione dell’art. 38, comma 1, lett. i), del Codice degli Appalti, eccesso di potere per difetto d’istruttoria”– la ricorrente lamenta l’illegittimità dei provvedimenti impugnati, perché, a fronte di un DURC del 12.03.2012 da essa prodotto ed attestante la propria regolarità, essa non poteva essere esclusa.
In altri termini, avendo il predetto DURC validità trimestrale, ne consegue che, laddove non presenti segnalazioni di inadempimento e non sia scaduto al momento della presentazione della domanda, esso sarebbe dimostrazione sufficiente della regolarità contributiva attestata.
Anche siffatta tesi, per quanto abbia ricevuto in passato l’avallo di alcune pronunce giurisprudenziali, non può essere seguita.
Ciò che rileva, ai fini dell’ammissione o meno alla gara pubblica, è il dato sostanziale della regolarità contributiva, perché la ratio della norma è quella di spingere le imprese ad essere sempre in regola con le fondamentali normative di settore poste a tutela della sicurezza sul lavoro, dei lavoratori e dell’Erario.
Tale impostazione, peraltro, ha il pregio di apparire in linea anche con la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato (confermata dalla ormai nota pronuncia n. 8/2012 dell’Adunanza Plenaria), secondo cui il requisito della regolarità contributiva, essendo condizione di partecipazione alla gara, deve essere verificato sin dal momento della scadenza del termine per la partecipazione all’offerta (e non quindi al momento dell’emissione del DURC) e per tutta la durata della procedura.
Che questa sia l’impostazione corretta è oggi confermato anche dal rilievo che l’art. 15, comma 1, lettera a), della L. 12.11.2011, n. 183 (entrata in vigore il 01.01.2012) ha modificato l'art. 40 del DPR n. 445/2000, nel senso che le certificazioni rilasciate dalla pubblica amministrazione in ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e utilizzabili solo nei rapporti tra privati, mentre nei rapporti con gli organi della pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi i certificati e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47.
Alla stregua di tale disposizione, dunque, deve ritenersi che il DURC non possa più essere richiesto alle imprese partecipanti alla gara (questione, questa, non oggetto del presente giudizio perché non veicolata da alcuna impugnazione sul punto; ma si vedano sul punto TAR Palermo, Sez. III, 07.08.2012. n. 1776; TAR Campania, Sez. IV, 03.01.2013, n. 62), mentre le stazioni appaltanti sono tenute senza ombra di dubbio a verificare le corrispondenti autodichiarazioni.
E’ evidente, allora, che ciò che rileva non sono le risultanze del DURC, ma la regolarità contributiva sostanziale (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 25.03.2013 n. 673 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOIl voto numerico attribuito dalla competente commissione alle prove scritte od orali di un concorso pubblico o di un esame esprime e sintetizza il giudizio tecnico discrezionale della commissione stessa e la sindacabilità di tali giudizi, per tale loro natura, è da considerare potenzialmente possibile solo in caso di manifesta illogicità od erroneità.
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Non ritiene necessario indicare i c.d. descrittori, ossia i parametri in base ai quali si possono collegare fra loro il voto numerico e il giudizio sintetico, intendendo la scala di giudizi in base alla quale si possa dire, ad esempio, che un tema ritenuto "sufficiente" merita il voto di 6/10 oppure che un tema "scadente" merita il voto di 3/10.
Ma se così è, ne consegue la superfluità dei descrittori, essendo del tutto nota, nell'ambito scolastico, la scala di giudizi che si accompagna ai voti numerici. E il concorso in argomento è inerente proprio all'ambito scolastico e la ricorrente è una docente che quotidianamente, nella valutazione dei compiti scritti e delle prove orali dei propri studenti applicano tale scala di punteggi e di giudizi.
Vi è poi da dire che la contestazione nel merito della valutazione di un elaborato concorsuale non può (salvo che la commissione non abbia in alcun modo motivato i propri giudizi o abbia palesemente errato nell'applicazione dei criteri che essa stessa si è data) ridursi nella semplice censura della insufficienza dei criteri di valutazione.
È invece onere del ricorrente esporre nel dettaglio le ragioni per le quali il proprio elaborato merita più del punteggio assegnato dalla commissione, e ciò tanto più quando la commissione ha comunque motivato il punteggio.
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La commissione giudicatrice non svolge un'attività scolastica di correzione degli elaborati scritti dei candidati, che non rientra tra i suoi compiti, e neppure ha il dovere di evidenziare con segni grafici i punti dai quali, più degli altri, risulti l'insufficienza o l'erroneità dell'elaborato ovvero la non rispondenza alla traccia; sicché, l'apposizione di annotazioni sugli elaborati, di chiarimenti ovvero di segni grafici o specificanti eventuali errori, costituisce una mera facoltà di cui la commissione può avvalersi nel caso in cui ne ricorrano i presupposti, mentre l'inidoneità della prova risulta dalla stessa attribuzione del voto numerico in base ai criteri fissati dalla Commissione sia per la correzione che in sede di giudizio.
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Nei ricorsi proposti avverso gli esiti delle procedure concorsuali è inammissibile la censura volta a denunciare i tempi medi impiegati dalla competente commissione per l'esame degli elaborati scritti, atteso che non è possibile stabilire quali e quanti candidati hanno fruito di maggiore o minore attenzione, visto che la congruità del tempo impiegato va valutata anche con riferimento alla consistenza degli elaborati ed alle problematiche di correzione dagli stessi emergenti, con la conseguenza che ai tempi medi impiegati non può riconoscersi alcun decisivo rilievo inficiante il procedimento valutativo.
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In tema di scelta dei commissari che devono esaminare i candidati in pubblici concorsi non esiste norma o principio che imponga di motivare la scelta del singolo commissario, così come non esiste alcuna norma che imponga un analogo onere motivazionale nel caso in cui i commissari possono essere scelti fra soggetti appartenenti a categorie professionali diverse.
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Le valutazioni espresse dalle Commissioni giudicatrici in merito alle prove di concorso, seppure qualificabili quali analisi di fatti (correzione dell'elaborato del candidato con attribuzione di punteggio o giudizio) e non come ponderazione di interessi, costituiscono pur sempre l'espressione di ampia discrezionalità, finalizzata a stabilire in concreto l'idoneità tecnica e/o culturale, ovvero attitudinale, dei candidati, con la conseguenza che le stesse valutazioni non sono sindacabili dal giudice amministrativo, se non nei casi in cui sussistono elementi idonei ad evidenziarne uno sviamento logico o un errore di fatto o, ancora, una contraddittorietà ictu oculi rilevabile.
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L'accesso a tutti gli elaborati corretti della seconda Sottocommissione nel corso per il reclutamento dei dirigenti scolastici per la scuola primaria non può tradursi in una eventuale perizia sulla bontà della correzione, non potendo trovare ingresso nel processo amministrativo motivi di impugnativa legati al sindacato delle valutazioni tecnico discrezionali effettuate dalla Commissione in sede di correzione degli elaborati.

Va ad ogni modo preso atto del costante orientamento giurisprudenziale, ribadito di recente dal Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa, secondo cui “Il voto numerico attribuito dalla competente commissione alle prove scritte od orali di un concorso pubblico o di un esame esprime e sintetizza il giudizio tecnico discrezionale della commissione stessa e la sindacabilità di tali giudizi, per tale loro natura, è da considerare potenzialmente possibile solo in caso di manifesta illogicità od erroneità” (cfr. C. Stato, sez. V, 11.01.2013, n. 1029).
Parte ricorrente si duole della genericità dei criteri di massima predisposti dalla Commissione anche nell’ottica della possibile ricostruzione ex post della relazione logica tra i primi e i voti numerici, ma proprio su tale specifica questione si è espressa in senso contrario recente giurisprudenza (cfr. TAR Marche, sez. I, 11.01.2013, n. 34), che “non ritiene necessario indicare i c.d. descrittori, ossia i parametri in base ai quali si possono collegare fra loro il voto numerico e il giudizio sintetico, intendendo la scala di giudizi in base alla quale si possa dire, ad esempio, che un tema ritenuto "sufficiente" merita il voto di 6/10 oppure che un tema "scadente" merita il voto di 3/10. Ma se così è, ne consegue la superfluità dei descrittori, essendo del tutto nota, nell'ambito scolastico, la scala di giudizi che si accompagna ai voti numerici. E il concorso in argomento è inerente proprio all'ambito scolastico e la ricorrente è una docente che quotidianamente, nella valutazione dei compiti scritti e delle prove orali dei propri studenti applicano tale scala di punteggi e di giudizi. Vi è poi da dire che la contestazione nel merito della valutazione di un elaborato concorsuale non può (salvo che la commissione non abbia in alcun modo motivato i propri giudizi o abbia palesemente errato nell'applicazione dei criteri che essa stessa si è data) ridursi nella semplice censura della insufficienza dei criteri di valutazione. È invece onere del ricorrente esporre nel dettaglio le ragioni per le quali il proprio elaborato merita più del punteggio assegnato dalla commissione, e ciò tanto più quando la commissione ha comunque motivato il punteggio”.
Anche la censurata mancanza di sottolineature o segni grafici sugli elaborati risulta del tutto irrilevante, perché nessuna norma impone alla Commissione di apporre annotazioni o segni di correzione sugli elaborati (TAR L’Aquila, sez. I, 12.1.2012, n. 25) dato che «la commissione giudicatrice non svolge un'attività scolastica di correzione degli elaborati scritti dei candidati, che non rientra tra i suoi compiti, e neppure ha il dovere di evidenziare con segni grafici i punti dai quali, più degli altri, risulti l'insufficienza o l'erroneità dell'elaborato ovvero la non rispondenza alla traccia; sicché, l'apposizione di annotazioni sugli elaborati, di chiarimenti ovvero di segni grafici o specificanti eventuali errori, costituisce una mera facoltà di cui la commissione può avvalersi nel caso in cui ne ricorrano i presupposti, mentre l'inidoneità della prova risulta dalla stessa attribuzione del voto numerico in base ai criteri fissati dalla Commissione sia per la correzione che in sede di giudizio» (TAR Salerno, sez. I, 14.11.2011, n. 1669; nello stesso senso vedi anche C.d.S., sez. IV, 12.04.2011, n. 1612). Il motivo in esame è quindi da respingere.
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Il quarto motivo è del tutto privo di giuridico pregio, dal momento che «Nei ricorsi proposti avverso gli esiti delle procedure concorsuali è inammissibile la censura volta a denunciare i tempi medi impiegati dalla competente commissione per l'esame degli elaborati scritti, atteso che non è possibile stabilire quali e quanti candidati hanno fruito di maggiore o minore attenzione, visto che la congruità del tempo impiegato va valutata anche con riferimento alla consistenza degli elaborati ed alle problematiche di correzione dagli stessi emergenti, con la conseguenza che ai tempi medi impiegati non può riconoscersi alcun decisivo rilievo inficiante il procedimento valutativo» ( giurisprudenza costante v. da ultimo: C.d.S., sez. IV, 23.02.2012, n. 970, come pure TAR Salerno Campania sez. I 18.02.2012, n. 282).
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Va altresì esclusa la fondatezza del preteso difetto motivazionale, alla luce di quanto condivisibilmente affermato da recente giurisprudenza, nel senso che “In tema di scelta dei commissari che devono esaminare i candidati in pubblici concorsi non esiste norma o principio che imponga di motivare la scelta del singolo commissario, così come non esiste alcuna norma che imponga un analogo onere motivazionale nel caso in cui i commissari possono essere scelti fra soggetti appartenenti a categorie professionali diverse” (cfr. TAR Marche, sez. I, 11.01.2013, n. 34).
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La censura, come eccepito da parte resistente, non può accedere al sindacato invocato, in quanto “Le valutazioni espresse dalle Commissioni giudicatrici in merito alle prove di concorso, seppure qualificabili quali analisi di fatti (correzione dell'elaborato del candidato con attribuzione di punteggio o giudizio) e non come ponderazione di interessi, costituiscono pur sempre l'espressione di ampia discrezionalità, finalizzata a stabilire in concreto l'idoneità tecnica e/o culturale, ovvero attitudinale, dei candidati, con la conseguenza che le stesse valutazioni non sono sindacabili dal giudice amministrativo, se non nei casi in cui sussistono elementi idonei ad evidenziarne uno sviamento logico o un errore di fatto o, ancora, una contraddittorietà ictu oculi rilevabile” (TAR Roma Lazio sez. III, 09.01.2013, n. 147).
In una analoga vicenda, il giudice amministrativo ha affermato che “L'accesso a tutti gli elaborati corretti della seconda Sottocommissione nel corso per il reclutamento dei dirigenti scolastici per la scuola primaria non può tradursi in una eventuale perizia sulla bontà della correzione, non potendo trovare ingresso nel processo amministrativo motivi di impugnativa legati al sindacato delle valutazioni tecnico discrezionali effettuate dalla Commissione in sede di correzione degli elaborati”.
I rilievi sollevati dai ricorrenti, siccome intesi a sollecitare l’intervento di questo Tribunale sub specie di sindacato sulle valutazioni effettuate dalla Commissione, non sono quindi ammissibili, non emergendo elementi che consentano di ritenere che ricorra una delle ipotesi in cui è possibile scrutinare l’esercizio della discrezionalità tecnica, come sopra rappresentato in sede di disamina della censura sub 2 del ricorso introduttivo
(TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 21.03.2013 n. 175 - ink a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte effettuate dall'amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
E le uniche evenienze che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali sono rappresentate, pacificamente:
dal superamento degli standard minimi di cui al D.M. 02.04.1968;
dalla lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione o accordi di diritto privato intercorsi con il Comune, o delle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione;
dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo, mentre nessuna aspettativa deriva dalla diversa destinazione urbanistica pregressa della medesima area, rispetto alla quale l'Amministrazione conserva ampia discrezionalità, ben potendo modificare in peius rispetto agli interessi del proprietario la destinazione urbanistica.
In particolare, la semplice preesistenza della capacità edificatoria non onera l’amministrazione di una più penetrante motivazione, poiché il mutamento di destinazione trova pur sempre esauriente giustificazione nelle sopravvenute ragioni che possono determinare la convenienza di migliorare la pianificazione territoriale.
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Le osservazioni presentate in occasione dell'adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo, con conseguente assenza in capo all'amministrazione a ciò competente di un obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree
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Per giurisprudenza granitica, le scelte effettuate dall'amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
E le uniche evenienze che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali sono rappresentate, pacificamente: dal superamento degli standard minimi di cui al D.M. 02.04.1968; dalla lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione o accordi di diritto privato intercorsi con il Comune, o delle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione; dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo, mentre nessuna aspettativa deriva dalla diversa destinazione urbanistica pregressa della medesima area, rispetto alla quale l'Amministrazione conserva ampia discrezionalità, ben potendo modificare in peius rispetto agli interessi del proprietario la destinazione urbanistica (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16.11.2011, n. 6049; id., 29.12.2009, n. 9006).
In particolare, la semplice preesistenza della capacità edificatoria non onera l’amministrazione di una più penetrante motivazione, poiché il mutamento di destinazione trova pur sempre esauriente giustificazione nelle sopravvenute ragioni che possono determinare la convenienza di migliorare la pianificazione territoriale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 31.01.2005, n. 259).
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È noto che le osservazioni presentate in occasione dell'adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo, con conseguente assenza in capo all'amministrazione a ciò competente di un obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree (per tutte, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.09.2012, n. 4806) (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 19.03.2013 n. 421 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'obbligo di dare comunicazione dell’avvio del procedimento previsto dall'art. 7 l. n. 241 del 1990, prima della novella introdotta dall’art. 14 della l. 15/2005, non poteva essere applicato meccanicamente e formalisticamente, essendo volto non soltanto ad assolvere ad una funzione in favore del destinatario dell'atto conclusivo, ma anche a formare nell'amministrazione procedente una più completa e meditata volontà e dovendosi, comunque, ritenere che il vizio derivante dall'omissione di comunicazione non sussiste nei casi in cui lo scopo della partecipazione del privato sia stato comunque raggiunto o manchi.
Più in particolare, non è invalidante il mancato avviso di avvio del procedimento, qualora l'interessato abbia comunque formulato le proprie osservazioni nei confronti della precedente determinazione prodromica e sia così venuto comunque a conoscenza dell'inizio del procedimento il cui esito è stato impugnato.

... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia, dell’Ordinanza n. 105 del 25.09.2007 con la quale il responsabile dell’Ufficio Tecnico Comunale del Comune di Acquedolci ha adottato un provvedimento cautelare di sospensione dei lavori -e riduzione in pristino- relativi alla realizzazione, in assenza di autorizzazione edilizia, di:
1) un muro di contenimento in conglomerato cementizio, rivestito in parte in pietrame a faccia vista, avente altezza media fuori terra di mt. 0,80 circa ed una lunghezza di mt. 25,00 circa su area destinata secondo il PRG vigente e quello adottato a “fini Istituzionali”, di cui l’area identificata con la particella n. 1796 è di proprietà del Comune di Acquedolci;
2) una vasca interrata, delle dimensioni in pianta di mt. 5,80 x 3,90 e sistemazione degli spazi circostanti con pavimenti, opere di giardinaggio ed impianto di illuminazione, interessando sempre area destinata secondo il PRG vigente e quello adottato a “fini Istituzionali”, di proprietà della ditta Ceraso.
...
Con Ordinanza n. 151/008, questa stessa Sezione ha sospeso il provvedimento impugnato senza, per altro, entrare nel merito, ritenendo sussistente sia il periculum in mora, sia il dubbio sulla stessa proprietà dell’area sulla quale insiste l’opera principalmente contestata, vale a dire il muro a faccia vista avente altezza media pari a 0.80 mt e lunghezza di 25 mt..
Ciò in quanto, a tutta evidenza, dal riconoscimento della realizzazione, anche in parte, della detta costruzione nella proprietà comunale deriverebbe non già un problema di costruzione soltanto abusiva, ma anche della realizzazione contro il volere del legittimo proprietario.
Ciò premesso, è possibile scrutinare i singoli motivi di ricorso.
Con il primo, parte ricorrente si duole dell’illegittimità dell’atto per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, riconoscendo, al più, la possibilità che detto adempimento non sia astrattamente dovuto soltanto nell’ipotesi di mera sospensione dei lavori volti a realizzare un’opera asseritamente abusiva, ma non già nella diversa ipotesi in cui il provvedimento, come nel caso di specie, contenga anche un ordine di demolizione.
Premette il Collegio che, secondo una parte della Giurisprudenza (cfr., da ultimo, TAR Trentino Alto Adige Trento, sez. I, 25.02.2010, n. 70) il provvedimento in esame non si sottrae all'obbligo della pubblica amministrazione di dare comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ai soggetti dallo stesso incisi.
L'omissione di tale comunicazione potrebbe essere giustificata soltanto per ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, peraltro, in effetti, non risultanti nella motivazione del provvedimento impugnato.
Per altro, per costante giurisprudenza, la comunicazione di avvio del procedimento è utilmente surrogata dall'ordine di sospensione dei lavori (cfr. TAR Liguria Genova, sez. I, 25.01.2010, n. 188; TAR Lazio-Latina, 26.01.2009, n. 56; TAR Emilia Romagna, II, 14.01.2009, n. 19; Cons. di St., IV, 27.01.2006, n. 399), tranne nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, lo stesso non assume rilievo in quanto comunicato contestualmente all'ingiunzione a demolire (TAR Liguria, I, 24.02.2005, n. 292).
Secondo un diverso orientamento giurisprudenziale (Consiglio di stato, sez. IV, 15.05.2009, n. 3029; Consiglio Stato, sez. IV, 26.09.2008, n. 4659) l'obbligo di comunicazione non è ravvisabile nelle ipotesi di attività vincolata, sul presupposto che la partecipazione sia fruttuosa soltanto quando sia possibile effettuare una scelta discrezionale.
Attese le peculiarità che connotano il provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi e, quindi, l'esercizio da parte dell'amministrazione di un potere "vincolato", continua la predetta decisione 3029/2009, la questione de qua è interessata dalla prima previsione di cui all'art. 21-octies comma 2, della l. 241/1990 (così come inserito dall'articolo 14, comma 1, della legge 11.02.2005, n. 15), secondo il quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'Amministrazione dimostri che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Quindi, secondo la detta Giurisprudenza l’equivalenza ordine di demolizione–atto vincolato renderebbe inutile e non più necessario l’avvio del procedimento.
A prescindere da una presa di posizione in ordine alle due tesi, è da dire che questa stessa Sezione (cfr. TAR Catania. I, 26.06.2008, n. 1232), ha già avuto modo di chiarire che l'obbligo di dare comunicazione dell’avvio del procedimento previsto dall'art. 7 l. n. 241 del 1990, prima della novella introdotta dall’art. 14 della l. 15/2005, non poteva essere applicato meccanicamente e formalisticamente, essendo volto non soltanto ad assolvere ad una funzione in favore del destinatario dell'atto conclusivo, ma anche a formare nell'amministrazione procedente una più completa e meditata volontà e dovendosi, comunque, ritenere che il vizio derivante dall'omissione di comunicazione non sussiste nei casi in cui lo scopo della partecipazione del privato sia stato comunque raggiunto o manchi (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 06.10.2005, n. 5436).
Più in particolare, non è invalidante il mancato avviso di avvio del procedimento, qualora l'interessato abbia comunque formulato le proprie osservazioni nei confronti della precedente determinazione prodromica e sia così venuto comunque a conoscenza dell'inizio del procedimento il cui esito è stato impugnato (TAR Toscana Firenze, sez. II, 18.10.2007, n. 3271).
Il principio, quindi, a prescindere dalla dibattuta vincolatività della comunicazione dell’avvio, va ribadito, sicché va verificato se la parte ricorrente abbia avuto o meno contezza dell’esistenza di un procedimento a suo carico volto a sindacare la legittimità delle opere, la cui demolizione, poi, è stata disposta con il provvedimento impugnato.
E non vi è dubbio che ciò sia avvenuto, posto che, come non contestato e come in atti, questi, nella sua qualità di soggetto sicuramente in grado di percepire il procedimento in corso, ha partecipato al sopralluogo effettuato dal Comune finalizzato alla constatazione dello stato dei luoghi.
Sicché, essendo manifesto l’intento dell’Amministrazione in sede di accertamento tecnico, non può dirsi che, seppur non con una comunicazione formale, parte ricorrente non sia stata messa in condizione di esprimere le proprie difese, che ben avrebbero potuto essere integrate con scritti mirati prima dell’adozione del provvedimento impugnato.
Il Collegio rileva, per concludere, che, per quanto previsto dall’art. 21-octies della l. 241/1990, non è possibile accedere comunque all’annullamento dell’atto amministrativo ove il mancato avvio del procedimento, secondo le eccezioni poste dall’Amministrazione, residui quale unico motivo (formale) a sostegno delle tesi della sua illegittimità.
Occorre, quindi, per stabilire se sussista altra ragione di reiezione del motivo di ricorso, verificare la fondatezza nel merito delle ulteriori censure introdotte da parte ricorrente
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 27.09.2010 n. 3847 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La Giurisprudenza dominante ritiene che le opere di recinzione del terreno non si configurano come nuova costruzione, per la quale è necessario il previo rilascio di permesso di costruire, quando, per natura e dimensioni, rientrino tra le manifestazioni del diritto di proprietà, comprendente lo ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione e l'assetto delle singole proprietà.
Sicché, la valutazione in ordine alla necessità della concessione edilizia per la realizzazione di opere di recinzione va effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione.
Sulla scorta dei detti condivisibili principi, poi, la Giurisprudenza è giunta a varie soluzioni.
A titolo esemplificativo, è stato ritenuto che la realizzazione di una recinzione in rete metallica su muro costituisce opera di carattere permanente che richiede la concessione edilizia, incidendo in modo permanente e non precario sull'assetto edilizio del territorio.
Altre decisioni, invece, ritengono che la recinzione eseguita senza opere murarie, costituita da una semplice rete metallica sorretta da paletti in ferro, costituendo installazione precaria non incide in modo permanente sull'assetto edilizio del territorio.
Altre pronunce, infine, hanno evidenziato un’altra differenza fondata sul corretto discrimine tra le costruzioni che si definiscono muro: la differenziazione viene istituita movendo dalla destinazione del manufatto.
Nel caso in cui lo scopo della realizzazione sia la delimitazione della proprietà si ricade nell'ipotesi della pertinenza, per cui non è necessario il rilascio della concessione, con le note conseguenze in tema di legittimità dell'eventuale ordinanza di demolizione adottata al riguardo.
Diversa è la situazione, allorché il muro è destinato non solo a recingere un fondo, ma contiene o sostiene esso stesso dei volumi ulteriori; in tal caso il manufatto ha una funzione autonoma, dal punto di vista edilizio e da quello economico. Tuttavia, la medesima decisione, posto che il muro aveva una estensione di 30 mt., ha ritenuto che la funzione della costruzione si ricava dalla sua estensione.
Secondo altre analoghe impostazione, nel concetto di pertinenza possono essere ricomprese le recinzioni, certamente configurabili come opere poste a servizio ed ornamento della cosa principale, giusta l'art. 817 c.c., ciò non può dirsi per i muri di contenimento che hanno una consistenza diversa dalle recinzioni, dalle quali si differenziano per funzione (che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma, essenzialmente, di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso) e struttura (che deve, appunto, essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento).
Il muro di contenimento, pur potendo avere, in rapporto alla situazione dei luoghi, anche concomitante funzione di recinzione, è, tuttavia, sotto il profilo edilizio, un'opera più consistente di una recinzione (non essendo preordinata a recingere) e soprattutto è dotata di propria specificità ed autonomia, in relazione ai profili dianzi evidenziati.
Il che esclude la sua riconducibilità al concetto di pertinenza, conseguendone, data la rilevanza dell'immutazione che esso produce sullo stato dei luoghi, sia la necessità della concessione edilizia, sia la legittimità, a torto contestata, dell'applicazione della misura sanzionatoria prevista dall'art. 7 della legge n. 47/1985.
Ciò premesso, asserisce parte ricorrente che il muro in questione, al più, rientrerebbe tra le ipotesi di opere soggette ad autorizzazione e, quindi, secondo la previsione contenuta nell’art. 10 della L. 47/1985, la sua realizzazione abusiva consentirebbe soltanto l’irrogazione di una sanzione pecuniaria e non già la demolizione.
La ricostruzione appare corretta.
Occorre, però, verificare se la realizzazione del muro rientri nelle fattispecie previste dal detto art. 5 della l.r. 37/1985.
Premesso che il regime autorizzatorio costituisce l’eccezione rispetto a quello concessorio per le opere di trasformazione del suolo, in Sicilia il vigente art. 5 della l.r. 10.08.1985, n. 37, così stabilisce: "l'autorizzazione del sindaco sostituisce la concessione per gli interventi di manutenzione straordinaria e di restauro conservativo, così come definiti dall'art. 20 della legge regionale 27.12.1978, n. 71, per le opere costituenti pertinenze o impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti per l'impianto di prefabbricati ad una sola elevazione non adibiti ad uso abitativo, per le occupazioni di suolo mediante deposito di materiali o esposizioni di merci a cielo libero, per le demolizioni, per l' escavazione di pozzi e per le strutture ad essi connesse, per la costruzione di recinzioni, con esclusione di quelle dei fondi rustici di cui all'art. 6, per la costruzione di strade interpoderali o vicinali, nonché per i rinterri e gli scavi che non riguardino la coltivazione di cave o torbiere.".
Per quanto rileva nel presente giudizio, quindi, rientra tra le opere di trasformazione del suolo soggetta a mera autorizzazione la costruzione di recinzioni, non potendosi accedere alla tesi sostenuta in ricorso circa la riferibilità del muro in questione alla realizzazione di strade poderali e sistemazione dei suoli agricoli, in quanto, nel caso in esame la funzione dello stesso non è ascrivibile a dette ipotesi.
Ed invero, la Giurisprudenza dominante ritiene che le opere di recinzione del terreno non si configurano come nuova costruzione, per la quale è necessario il previo rilascio di permesso di costruire, quando, per natura e dimensioni, rientrino tra le manifestazioni del diritto di proprietà, comprendente lo ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione e l'assetto delle singole proprietà (cfr. TAR Piemonte Torino, sez. I, 15.02.2010, n. 950).
Sicché, la valutazione in ordine alla necessità della concessione edilizia per la realizzazione di opere di recinzione va effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione (cfr. TAR Lazio Roma, sez. II, 03.07.2007, n. 5968; TAR Lombardia Milano, sez. IV, 29.12.2009, n. 6266; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 14.01.2010, n. 95).
Sulla scorta dei detti condivisibili principi, poi, la Giurisprudenza è giunta a varie soluzioni.
A titolo esemplificativo, è stato ritenuto che la realizzazione di una recinzione in rete metallica su muro costituisce opera di carattere permanente che richiede la concessione edilizia, incidendo in modo permanente e non precario sull'assetto edilizio del territorio (cfr., TAR Lazio ult. cit, dove vengono riportate le seguenti conformi decisioni: Cons. Stato, Sez. V, 26 ottobre 1998, n. 1537; TAR Emilia-Romagna, Parma, 31.07.2001, n. 651; TAR Basilicata Potenza, 19.09.2003, n. 897).
Altre decisioni, invece, ritengono che la recinzione eseguita senza opere murarie, costituita da una semplice rete metallica sorretta da paletti in ferro, costituendo installazione precaria non incide in modo permanente sull'assetto edilizio del territorio (cfr. TAR Piemonte Torino, sez. I, 15.02.2010, n. 950, cit.; TAR Lombardia Milano, sez. IV, 29.12.2009, n. 6266 cit.).
Altre pronunce, infine, hanno evidenziato un’altra differenza (cfr. TAR Piemonte Torino, sez. I, 07.05.2003, n. 657) fondata sul corretto discrimine tra le costruzioni che si definiscono muro: la differenziazione viene istituita movendo dalla destinazione del manufatto.
Nel caso in cui lo scopo della realizzazione sia la delimitazione della proprietà si ricade nell'ipotesi della pertinenza, per cui non è necessario il rilascio della concessione, con le note conseguenze in tema di legittimità dell'eventuale ordinanza di demolizione adottata al riguardo (tar Emilia Romagna, Parma, 12.03.2001, n. 106; tar Liguria, sez. I, 14.11.1996, n. 492; Id, 19.10.1994, n. 345).
Diversa è la situazione, allorché il muro è destinato non solo a recingere un fondo, ma contiene o sostiene esso stesso dei volumi ulteriori (tar Emilia Romagna, Parma, 27.04.2001, n. 246; tar Lazio, sez. II, 04.11.2000, n. 8923); in tal caso il manufatto ha una funzione autonoma, dal punto di vista edilizio e da quello economico.
Tuttavia, la medesima decisione, posto che il muro aveva una estensione di 30 mt., ha ritenuto che la funzione della costruzione si ricava dalla sua estensione.
Secondo altre analoghe impostazione (cfr. TAR Lazio Latina, 07.03.2002, n. 285), nel concetto di pertinenza possono essere ricomprese le recinzioni, certamente configurabili come opere poste a servizio ed ornamento della cosa principale, giusta l'art. 817 c.c., ciò non può dirsi per i muri di contenimento che hanno una consistenza diversa dalle recinzioni, dalle quali si differenziano per funzione (che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma, essenzialmente, di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso) e struttura (che deve, appunto, essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento).
Il muro di contenimento, pur potendo avere, in rapporto alla situazione dei luoghi, anche concomitante funzione di recinzione, è, tuttavia, sotto il profilo edilizio, un'opera più consistente di una recinzione (non essendo preordinata a recingere) e soprattutto è dotata di propria specificità ed autonomia, in relazione ai profili dianzi evidenziati.
Il che esclude la sua riconducibilità al concetto di pertinenza, conseguendone, data la rilevanza dell'immutazione che esso produce sullo stato dei luoghi, sia la necessità della concessione edilizia, sia la legittimità, a torto contestata, dell'applicazione della misura sanzionatoria prevista dall'art. 7 della legge n. 47/1985.
Sulla scorta dei detti principi, il Collegio ritiene che dai rilievi fotografici esibiti dalle parti se è pur vero che la funzione apparente di parte del muro è di contenimento di aiuole, per altra parte appare avere la funzione di delimitazione della proprietà.
In ogni caso, ciò che più conta è che l’impegno visivo (che, in definitiva, è quello che rileva per definire l’incidenza sulla trasformazione del suolo), stante l’estensione non contestata dell’opera, pari a ben 25 mt., non pare possa considerarsi trascurabile o avente una funzione meramente subordinata pertinenziale, sicché, se ne deve inferire che la mera autorizzazione, al di là della modalità di esecuzione (conglomerato cementizio o meno), non sembra sufficiente
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 27.09.2010 n. 3847 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nella nozione di costruzione, ai fini del rispetto della normativa urbanistica, vanno ricompresi tutti i manufatti che alterino lo stato dei luoghi e siano destinati a soddisfare esigenze costanti nel tempo, a prescindere dai materiali e dalle tecniche costruttive utilizzate ed anche se privi di volumi interni, per cui è soggetta al rilascio della concessione edilizia ogni attività che comporti la trasformazione del territorio attraverso l'esecuzione di opere comunque attinenti agli aspetti urbanistici ed edilizi, ove il mutamento e l'alterazione abbiano un qualche rilievo ambientale ed estetico o anche solo funzionale.
Pertanto, la concessione edilizia è richiesta sia quando vi sia la realizzazione di opere murarie, sia quando si intenda realizzare un intervento sul territorio che, pur non richiedendo opere in muratura, comporti la perdurante modifica dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo.
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La vasca (o piscina) in questione ha una superficie di circa mq. 20, perciò certamente non una piscina olimpionica lunga m. 50, ma nemmeno una di quelle piscine degne di tale nome che si vendono nei circoli o nelle grandi ville private, generalmente di un'ordinaria lunghezza tra i m. 12 e i m. 25, di una larghezza tra i m. 4 e i m. 8 e con una profondità che almeno per parte dell'impianto eccede ampiamente l'altezza di un corpo umano adulto.
Quindi, già a prescindere dalla giurisprudenza che ritiene che una piscina in generale sia opera pertinenziale che non implica consumo dei suoli per le sue caratteristiche, si può pacificamente rilevare che la realizzazione di un'attrezzatura delle dimensioni sopradescritte non può essere considerata come la costruzione di un impianto sportivo ed appare priva di impatto edilizio e urbanistico.
Altra contestazione è relativa alla realizzazione di una vasca, che il Comune, invece, qualifica, come una vera e propria piscina.
Parte ricorrente, al fine di sostenere la realizzabilità della vasca in questione, si riferisce alle sue ridotte dimensioni (5,80 x 3,90) ed alla presenza della stessa negli elaborati delle concessioni edilizie n. 13/2003 e n. 34/2003, in quanto oggetto di manutenzione ordinaria.
Coerentemente con le premesse sopra riportate, al di là della destinazione specifica della “vasca” (della quale rimane ignota la finalità, in quanto non trasfusa in ricorso), ritiene il Collegio che detta tipologia di opera, diversamente che nel caso precedente, sembra potersi ricomprendere nell’elenco delle eccezioni alla concessione edilizia di cui all’art. 5 della l.r. 37/1985, in quanto, avuto riguardo anche alla limitata estensione, avente valore pertinenziale.
In altri termini, il valore pertinenziale espressamente previsto dalla predetta disposizione al fine di consentire la realizzazione senza la previa concessione edilizia, consentirebbe di derogare dai condivisibili principi espressi dalla giurisprudenza (cfr. TAR Trentino Alto Adige Bolzano, 06.06.2002, n. 278), secondo i quali nella nozione di costruzione, ai fini del rispetto della normativa urbanistica, vanno ricompresi tutti i manufatti che alterino lo stato dei luoghi e siano destinati a soddisfare esigenze costanti nel tempo, a prescindere dai materiali e dalle tecniche costruttive utilizzate ed anche se privi di volumi interni (in tal senso TAR Milano, sez. II, 25.02.1993 n. 62), per cui è soggetta al rilascio della concessione edilizia ogni attività che comporti la trasformazione del territorio attraverso l'esecuzione di opere comunque attinenti agli aspetti urbanistici ed edilizi, ove il mutamento e l'alterazione abbiano un qualche rilievo ambientale ed estetico o anche solo funzionale; pertanto, la concessione edilizia è richiesta sia quando vi sia la realizzazione di opere murarie, sia quando si intenda realizzare un intervento sul territorio che, pur non richiedendo opere in muratura, comporti la perdurante modifica dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo (cfr. C.d.S. V Sez., 415 - 06.04.1998; ivi 1317 - 12.11.1996; TAR Lazio sez. Latina, 799 - 26.11.1998; TAR Lombardia Sez. II, 312 - 27.09.1988; TAR Toscana III Sez., 87 - 24.03.1993; TRGA Sez. di Bolzano, 246 - 16.06.1997; ivi 461 - 22.10.1997).
Ed invero, la vasca (o piscina) in questione ha una superficie di circa mq. 20, perciò certamente non una piscina olimpionica lunga m. 50, ma nemmeno una di quelle piscine degne di tale nome che si vendono nei circoli o nelle grandi ville private, generalmente di un'ordinaria lunghezza tra i m. 12 e i m. 25, di una larghezza tra i m. 4 e i m. 8 e con una profondità che almeno per parte dell'impianto eccede ampiamente l'altezza di un corpo umano adulto.
Quindi, già a prescindere dalla giurisprudenza che ritiene che una piscina in generale sia opera pertinenziale che non implica consumo dei suoli per le sue caratteristiche (Cons. Stato, IV, 08.08.2006 n. 4780), si può pacificamente rilevare che la realizzazione di un'attrezzatura delle dimensioni sopradescritte non può essere considerata come la costruzione di un impianto sportivo ed appare priva di impatto edilizio e urbanistico (cfr. TAR Liguria Genova, sez. I, 16.02.2008, n. 299).
Conseguirebbe, pertanto, l’astratta condivisibilità della censura.
Sennonché, il provvedimento impugnato qualifica la non assentibilità della vasca, allocata esclusivamente e senza contestazione nella proprietà di parte ricorrente, così come il muro sopra analizzato, riferendoli anche al fatto che gli stessi sono stati realizzati in area destinata secondo il PRG vigente e quello adottato a “fini istituzionali”.
E sul punto, che costituisce motivazione idonea a supportare autonomamente il provvedimento impugnato, per altro confermato dal certificato di destinazione urbanistica del 28.01.2010 versato in atti dal Comune resistente (cfr all. 11 produzione del 25.03.2010), nulla pone in contestazione parte ricorrente.
Analogamente, per quanto riguarda la sistemazione degli spazi alla stessa circostanti.
Consegue, pertanto, la mancanza di interesse di parte ricorrente a vedersi annullato il provvedimento in parte qua (relativamente alla messa in pristino del muro, della vasca ed alla sistemazione di detti spazi) in quanto, appunto, autonomamente sostenuto da diversa motivazione non contestata
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 27.09.2010 n. 3847 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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