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AGGIORNAMENTO AL 25.06.2013 |
ã |
Casse comunali al
verde??
No problem: fate pagare il contributo di costruzione
per la realizzazione di una stazione radio base!! |
In verità, la sentenza del 2008 l'avevamo già
pubblicata tempo fa e non avevamo dato ad essa alcun
risalto. Oggi, tuttavia, con la recente sentenza del
2013 vale la pena porre in evidenza questo
particolare aspetto, ovverosia la NON gratuità della
realizzazione di una stazione radio base.
Ad onor del vero, il Comune di Carrara sarebbe il primo
(ma anche l'ultimo), per quanto ci consti, che fa
pagare oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione ... ed in questi tempi di "magra"
diremmo che fa bene, anche perché le compagnie di
telefonia mobile non ci sembra che "se la passino
tanto male" ...
Comunque, di seguito riportiamo le due sentenze che
hanno ritenuto legittimo il regolamento comunale in
forza del quale bisogna versare il conquibus
di cui sopra.
24.06.2013 - LA SEGRETERIA PTPL |
EDILIZIA PRIVATA:
Elettrosmog. Legittimità contributo per il costo di
costruzione di una stazione radio base.
E' legittima la richiesta del contributo per il costo di
costruzione di una stazione radio base, in applicazione del
regolamento comunale.
L’installazione di stazioni radio
base, seppur sottoposta al procedimento autorizzatorio
semplificato previsto dal codice delle
comunicazioni, costituisce comunque un’attività
edilizia che, qualora il codice stesso non
prevedesse alcunché, richiederebbe il rilascio del
permesso di costruire, con obbligo di pagamento del
connesso contributo.
In altri termini, la semplificazione introdotta dal
d.lgs. n. 259/2003 opera esclusivamente sul piano
procedimentale, ma non comporta che l’installazione
delle stazioni radio base sia esclusa dal contributo
previsto dal legislatore per tutte le attività
edilizie assoggettate a permesso di costruire.
Non è corretto il riferimento all’art. 93 del d.lgs.
n. 259/2003, il quale, laddove introduce il divieto
per le Pubbliche Amministrazioni di imporre oneri o
canoni che non siano stabiliti per legge, si limita
a prevedere una riserva di legge per l’imposizione
di nuovi oneri o canoni, ferme restando le leggi in
materia edilizia (art. 16 del d.p.r. n. 380/2001),
quest’ultime, dunque, subordinano le attività
soggette a permesso di costruire al pagamento del
contributo relativo al costo di costruzione.
Non depone in senso contrario l’art. 17, comma 3,
del d.p.r. n. 380/2001, il quale esonera dal
predetto contributo le opere di interesse generale e
le opere di urbanizzazione, sempre che le stesse
siano espressamente previste negli strumenti
urbanistici. Invero tale norma non dispone
un’esenzione generalizzata, ma subordinata alla
specifica previsione dell’opera nello strumento
urbanistico.
---------------
Il contributo relativo al costo di costruzione trova
fondamento in specifiche norme sull’attività
edilizia, comprendente le modifiche dell’assetto del
territorio prodotte, come nel caso di specie,
dall’installazione di stazioni radio base.
Su tale aspetto, oggetto della disciplina di cui al
d.p.r. n. 380/2001, non interferiscono le suddette
direttive, riguardanti questioni procedimentali che
non escludono la potestà del Comune di esigere i
contributi economici connessi alla trasformazione
del territorio.
---------------
E' legittima la previsione regolamentare che
quantifica nella misura di euro 380.000,00 il costo
medio di realizzazione di un impianto di telefonia
sul quale viene applicata la percentuale del costo
di costruzione pari al 10%.
Invero, qualora il costo di realizzazione della
stazione radio base della ricorrente fosse superiore
a quello indicato dall’art. 14 del regolamento, la
stessa non riceverebbe alcun pregiudizio
dall’applicazione della norma, in quanto l’auspicato
riferimento dell’Amministrazione al costo effettivo
esporrebbe la società istante ad un più elevato
onere economico.
Né appare sproporzionata la percentuale applicata
dal Comune di Carrara (10%), a fronte dell’art. 16
del d.p.r. n. 380/2001 e dell’art. 121 della L.R. n.
1/2005, i quali demandano all’Ente la determinazione
discrezionale di una quota variabile dal 5% al 20%
del costo di costruzione.
Con la prima censura la ricorrente sostiene
che il manufatto in questione, essendo assimilabile
alle opere di urbanizzazione primaria e rivestendo
interesse generale, è esonerato, per effetto
dell’art. 17 del d.p.r. n. 380/2001 e dell’art. 124
della L.R. n. 1/2005, dal pagamento del costo di
costruzione, come è confermato dall’art. 93 del
d.lgs. n. 259/2003, che vieta l’imposizione di oneri
o canoni per l’impianto di reti o per l’esercizio
dei servizi di comunicazione elettronica.
Il rilievo è infondato.
L’installazione di stazioni radio base, seppur
sottoposta al procedimento autorizzatorio
semplificato previsto dal codice delle
comunicazioni, costituisce comunque un’attività
edilizia che, qualora il codice stesso non
prevedesse alcunché, richiederebbe il rilascio del
permesso di costruire, con obbligo di pagamento del
connesso contributo. In altri termini, la
semplificazione introdotta dal d.lgs. n. 259/2003
opera esclusivamente sul piano procedimentale, ma
non comporta che l’installazione delle stazioni
radio base sia esclusa dal contributo previsto dal
legislatore per tutte le attività edilizie
assoggettate a permesso di costruire.
Pertanto emerge l’infondatezza del riferimento, da
parte della deducente, all’art. 93 del d.lgs. n.
259/2003, il quale, laddove introduce il divieto per
le Pubbliche Amministrazioni di imporre oneri o
canoni che non siano stabiliti per legge, si limita
a prevedere una riserva di legge per l’imposizione
di nuovi oneri o canoni, ferme restando le leggi in
materia edilizia (art. 16 del d.p.r. n. 380/2001 e
art. 119 della L.R. n. 1/2005); quest’ultime
subordinano le attività soggette a permesso di
costruire al pagamento del contributo relativo al
costo di costruzione e legittimano quindi gli atti
impugnati (TAR Toscana, I, 11.09.2008, n. 1950).
Non depone in senso contrario l’art. 17, comma 3,
del d.p.r. n. 380/2001, il quale esonera dal
predetto contributo le opere di interesse generale e
le opere di urbanizzazione, sempre che le stesse
siano espressamente previste negli strumenti
urbanistici. Invero tale norma non dispone
un’esenzione generalizzata, ma subordinata alla
specifica previsione dell’opera nello strumento
urbanistico; previsione che, nel caso in esame, non
sussiste.
Ad analoghe conclusioni si presta l’art. 124 della
L.R. n. 1/2005, il quale esonera dall’obbligo del
pagamento del contributo gli impianti, le opere di
interesse pubblico e le opere di urbanizzazione,
ancorché eseguite da privati, alla condizione che vi
sia una convenzione tra gli stessi ed il Comune.
Tuttavia, non è stata sottoscritta alcuna
convenzione dalla ricorrente e dal Comune di
Carrara, con la conseguenza che non sussistono i
presupposti di applicazione nemmeno della norma
regionale.
---------------
La terza
doglianza è incentrata sulla violazione delle
direttive 2002/19/CE, 2002/20/CE e 2002/22/CE, le
quali, ispirate ai principi di semplificazione,
trasparenza e celerità dei procedimenti
autorizzatori, non contemplano oneri a carico dei
gestori.
Il rilievo non ha pregio.
Il contributo relativo al costo di costruzione trova
fondamento in specifiche norme sull’attività
edilizia, comprendente le modifiche dell’assetto del
territorio prodotte, come nel caso di specie,
dall’installazione di stazioni radio base. Su tale
aspetto, oggetto della disciplina di cui al d.p.r.
n. 380/2001, non interferiscono le suddette
direttive, riguardanti questioni procedimentali che
non escludono la potestà del Comune di esigere i
contributi economici connessi alla trasformazione
del territorio.
---------------
Con il quarto motivo l’esponente deduce che
l’art. 14 del contestato regolamento comunale
quantifica arbitrariamente, senza approfondimenti
istruttori e in modo indifferenziato, astratto e
aprioristico, nella misura di euro 380.000, il costo
medio di realizzazione di un impianto di telefonia
sul quale viene applicata la percentuale del costo
di costruzione pari al 10%.
La censura è inammissibile.
La ricorrente non ha specificato in alcun modo il
costo di realizzazione del proprio impianto,
omettendo così di fornire prova circa la natura
concretamente lesiva, nei suoi confronti, della
contestata quantificazione del contributo.
Invero, qualora il costo di realizzazione della
stazione radio base della ricorrente fosse superiore
a quello indicato dall’art. 14 del regolamento, la
stessa non riceverebbe alcun pregiudizio
dall’applicazione della norma, in quanto l’auspicato
riferimento dell’Amministrazione al costo effettivo
esporrebbe la società istante ad un più elevato
onere economico.
Né appare sproporzionata la percentuale applicata
dal Comune di Carrara (10%), a fronte dell’art. 16
del d.p.r. n. 380/2001 e dell’art. 121 della L.R. n.
1/2005, i quali demandano all’Ente la determinazione
discrezionale di una quota variabile dal 5% al 20%
del costo di costruzione (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 11.04.2013 n. 539 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'installazione
di stazioni radio base per la telefonia mobile
sconta il pagamento del contributo di costruzione.
L’installazione di stazioni
radio base, seppur soggetta al procedimento
autorizzatorio semplificato di cui al Codice delle
Comunicazioni, costituisce pur sempre una attività
edilizia che, laddove il Codice non prevedesse
alcunché, sarebbe assoggettata al regime del
permesso di costruire e, conseguentemente, al
pagamento del contributo.
Ne consegue che la semplificazione prevista dal
Codice delle Comunicazioni opera esclusivamente sul
piano del procedimento, impedendo che
l’installazione delle stazioni radio base possa
essere assoggettata ad un procedimento diverso e più
gravoso rispetto a quello ivi previsto, ma non
comporta sic et simpliciter che tale attività non
possa essere assoggettata al contributo che deve
essere, per legge, corrisposto per tutte le attività
edilizie per le quali è previsto il permesso di
costruire.
L’art. 93 del Codice
delle Comunicazioni, il quale prevede che “le
Pubbliche Amministrazioni, le Regioni, le Province
ed i Comuni non possono imporre, per l’impianto di
reti o per l’esercizio dei servizi di comunicazione
elettronica, oneri o canoni che non siano stabiliti
per legge”, non fa altro che prevedere una
riserva di legge per la imposizione di nuovi oneri o
canoni. Ebbene, sono appunto le leggi in materia
edilizia che subordinano le attività soggette a
permesso di costruire al contributo.
In altri termini: l’installazione di stazioni radio
base è subordinata al pagamento del contributo in
quanto rientra tra le attività edilizie; dunque non
vi è alcun contrasto con la normativa di settore, né
può ritenersi che tale previsione comporti un
trattamento non uniforme o discriminatorio; quello
richiesto, infatti, non è un onere ulteriore che
colpisce specificatamente le stazioni radio base, ma
l’ordinario contributo previsto per qualsiasi opera
edilizia. Quindi non vi è un “aggravio”
economico in capo al gestore della rete radiomobile.
L’art. 86, comma 3 del Codice delle Comunicazioni
assimila le infrastrutture di telecomunicazioni, ad
ogni effetto, alle opere di urbanizzazione primaria
di cui all’art. 16, comma 7, del T.U. dell’edilizia,
e l’art. 90 del codice le qualifica come opere di
pubblica utilità, con conseguente esenzione dal
contributo, esenzione che discende altresì dall’art.
124 della L.R.T. n. 1/2005 e dall’art. 17 del T.U.
dell’Edilizia. Il richiamato art. 86 Codice delle
Comunicazioni precisa, altresì, che “ad esse si
applica la normativa vigente in materia”.
Ebbene, la disciplina di riferimento –per quanto
attiene l’esigibilità o meno del contributo di
costruzione per la realizzazione di opere di
urbanizzazione– è rappresentata, in primo luogo,
dall’art. 17 del T.U. dell’Edilizia (n. 380/2001) il
quale, al comma 3, prevede espressamente che “il
contributo di costruzione non è dovuto: … c) per gli
impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di
interesse generale realizzate dagli enti
istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in
attuazione di strumenti urbanistici”. Pertanto,
la richiamata disposizione subordina esplicitamente
l’esenzione dal contributo di costruzione alla
espressa previsione, negli strumenti urbanistici,
dell’opera di urbanizzazione che il privato intende
realizzare.
E’, pertanto, evidente come del tutto inconferente
sia il richiamo operato dalla ricorrente al fine di
sostenere l’illegittimità della richiesta di
pagamento del costo di costruzione da parte del
Comune di Carrara, al ricordato art. 17 D.P.R.
380/2001, atteso che lo stesso, ben lungi dal
disporre l’esenzione in via generalizzata per la
realizzazione da parte di privati di opere di
urbanizzazione primaria, viceversa la consente –solo
e soltanto– per la realizzazione di quelle opere di
urbanizzazione espressamente indicate negli
strumenti urbanistici.
Al di fuori delle ipotesi, da considerarsi
eccezionali, in cui l’esenzione è espressamente
prevista dalla legge –come si è visto, qualora vi
sia, in base alla legge regionale toscana n. 1/2005,
una convenzione con il Comune, ovvero, per la
normativa statale di cui all’art. 17 del D.P.R.
380/2001, la previsione dell’opera negli strumenti
urbanistici– il pagamento del contributo inerente al
costo di costruzione, anche qualora i privati
realizzino opere di urbanizzazione, è la regola
generale
(TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 11.09.2008 n. 1950
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
NOVITA' NEL SITO |
Inserito il nuovo
bottone:
dossier TENDE DA SOLE |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Quando l'orario di lavoro è articolato in turni
secondo la disciplina contrattuale
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 24.06.2013). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Sentenza Corte Costituzionale n. 223/2012 – art.
1, comma 98 – 101, della legge n. 228 del 24/12/2012 di
ricezione del decreto legge n. 185 del 29/10/2012 –
Richiesta restituzione trattenute. Ulteriori chiarimenti
(messaggio
21.06.2013 n. 10065 - link a www.inps.it). |
APPALTI:
CONTRATTO PUBBLICO DI APPALTO IN MODALITÀ ELETTRONICA E
PROBLEMATICHE INTERPRETATIVE ED OPERATIVE - INFORMATIVA SUL
TAVOLO TECNICO E PROPOSTA DI EMENDAMENTO DEL COMMA 4,
ARTICOLO 6, D.L. 179/2012 (CONVERTITO IN L. 221/2012)
(Conferenza delle Regioni e delle Province autonome,
ordine del giorno 13.06.2013). |
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI:
FAQ AVCpass (aggiornate al 14.06.2013).
In considerazione dei fabbisogni informativi manifestati
dagli operatori del mercato, come anche rappresentati nel
Comunicato del Presidente avente ad oggetto “Modifiche
alla deliberazione n. 111 del 20.12.2012 per l’“Attuazione
dell’art. 6-bis del d.lgs. 163/2006 introdotto dall'art. 20,
comma 1, lettera a), legge n. 35 del 2012”, sono state
elaborate le presenti FAQ finalizzate a chiarire il
funzionamento del sistema AVCpass e le logiche sottese a
quanto rappresentato nella Deliberazione dell’Autorità n.
111/2012 (link a www.avcp.it). |
QUESITI & PARERI |
COMPETENZE GESTIONALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Sponsor, parla il
consiglio. La competenza sui contratti è dell'assemblea.
La giurisprudenza richiede che si faccia ricorso
a procedure aperte.
Può essere ricondotta alla giunta comunale la competenza in
materia di contratti di sponsorizzazione?
La normativa di riferimento è costituita dall'art. 43, comma
1, della legge del 27.12.1997, n. 449, il quale stabilisce
che, al fine di favorire l'innovazione dell'organizzazione
amministrativa e di realizzare maggiori economie, nonché una
migliore qualità dei servizi prestati, le pubbliche
amministrazioni possono stipulare contratti di
sponsorizzazione e accordi di collaborazione con soggetti
privati ed associazioni, senza fini di lucro, costituite con
atto notarile.
L'articolo 119 del decreto legislativo n. 267/2000,
richiamando il citato articolo 43, consente nello specifico,
agli enti locali, la stipula di contratti di
sponsorizzazione e accordi di collaborazione, nonché
convenzioni con soggetti pubblici o privati diretti a
fornire consulenze o servizi aggiuntivi, «al fine di
favorire una migliore qualità dei servizi prestati».
I contratti in parola, come previsti dall'articolo 43, hanno
il precipuo obiettivo di favorire l'innovazione
dell'organizzazione e la realizzazione di economie di spesa,
mentre l'art. 119, riferito agli enti locali, li finalizza,
in particolare, al miglioramento dei servizi.
La collocazione dei contratti di sponsorizzazione degli enti
locali sotto l'univoca disciplina di cui all'articolo 119
del dlgs n. 267/2000 che comprende, come detto, anche gli
accordi di collaborazione e le convenzioni, non può non
comportare «la necessità di fare ricorso a procedure
aperte e trasparenti al fine di individuare il soggetto con
cui stipulare il contratto» (conforme Tar Puglia Bari,
sez. II, 20/07/2006, n. 2953).
Da tale processo non appare possa essere escluso il
consiglio comunale quale organo di indirizzo dell'attività
dell'ente, che ai sensi dell'articolo 42, del dlgs n.
267/2000, comma 2, lett. a), ha sia potere regolamentare
sulle attività che fanno capo al comune, sia, ai sensi della
successiva lett. e), la competenza in ordine «all'affidamento
di attività o servizi mediante convenzione».
Anche l'articolo 26 del codice dei contratti pubblici, dlgs
12/04/2006, n. 163, subordinando la stipula di taluni
contratti di sponsorizzazione alla regolamentazione europea
nell'eventualità in cui i medesimi abbiano un valore
superiore a quarantamila euro, riconduce sostanzialmente
tali atti alla disciplina dei contratti della pubblica
amministrazione, che, nel caso specifico, non sfuggono alla
competenza del consiglio comunale titolato a dettare, tra
l'altro, le disposizioni di massima per la loro conclusione.
Inoltre, compete sempre al consiglio comunale disporre in
via generale, anche in sede di approvazione dei bilanci,
sulle risorse di cui all'art. 43 della legge n. 449/1997 per
le finalità di cui all'articolo 15, comma 1, del Ccnl
dell'01.04.1999 relativo al personale dipendente
(articolo Italia Oggi del 21.06.2013). |
ENTI LOCALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Link a siti privati.
Può essere pubblicato sul sito istituzionale dell'ente
locale un «link» a un sito privato che pur avendo finalità
di conoscenza di opportunità di offerte di lavoro, non è, di
fatto, vincolato a specifiche normative e controlli a cui
sono tenuti i siti web della p.a.?
Il codice dell'amministrazione digitale dlgs n. 82 del
07.03.2005 all'art. 14, comma 2-ter, prevede che le regioni
e gli enti locali digitalizzano la loro azione
amministrativa e implementano l'utilizzo delle tecnologie
dell'informazione e della comunicazione per garantire
servizi migliori ai cittadini e alle imprese.
L'articolo 54 del medesimo decreto disciplina il contenuto
dei siti delle pubbliche amministrazioni, prevedendo una
serie di elementi obbligatori, nulla dispone, però, in
ordine alla previsione di link a siti privati, seppur
svolgenti servizi ritenuti di diffusa utilità.
La questione andrà rimessa al parere dell'Agenzia per
l'Italia digitale – Digit P.a. – competente nel settore
delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione
nell'ambito della pubblica amministrazione
(articolo Italia Oggi del 21.06.2013). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI SERVIZI:
A. Reggio d’Aci,
Evidenza pubblica e associazioni di volontariato:
l’onerosità della convenzione va valutata in termini
comunitari (tratto da www.ipsoa.it -
Urbanistica e appalti n. 6/2013). |
SICUREZZA LAVORO:
C. Macaluso,
Il ruolo centrale della valutazione dei rischi
(tratto da www.ispoa.it - Igiene e Sicurezza del Lavoro
n. 5/2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
A. Cordasco,
ATTO AMMINISTRATIVO IMPLICITO E COMPATIBILITÀ CON LA L.
241/1990. LA PECULIARE FIGURA DELL’AUTHORITY -
L’istituto dell’atto amministrativo implicito, la sua
regolamentazione e i poteri delle Authorities in materia di
adozione di atto amministrativo implicito
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2013). |
APPALTI:
M. De Cilla,
COLLEGAMENTO SOSTANZIALE TRA IMPRESE SUB-INTRECCIO
SOCIETARIO E IMPATTO CONCRETO DELL’INDICE SULLA GARA -
Il collegamento sostanziale fra imprese alla luce dei più
recenti arresti giurisprudenziali
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2013). |
APPALTI:
A. C. Bartoccioni,
COMMENTO AGLI ARTICOLI 19 E 20 DEL D.L. 06.07.2012 N. 95,
CONVERTITO CON LA L. 07.08.2012, N. 135 - Commento
all’art. 19 del d.l. 06.07.2012 n. 95, convertito con la l.
07.08.2012, n. 135, intitolato “Funzioni fondamentali dei
comuni e modalità di esercizio associato di funzioni e
servizi comunali” e Commento all’art. 20, d.l.
06.07.2012, n. 95, conv. in l. 07.08.2012, n. 135,
intitolato “Disposizioni per favorire la fusione di
comuni e la razionalizzazione dell’esercizio delle funzioni
comunali”, come riorganizzazione strutturale e
funzionale dei Comuni, dettata dall’esigenza di far fronte
alla gravissima emergenza economica e finanziaria che
attualmente investe la quasi totalità dei Paesi Europei,
tale da mettere a repentaglio la tenuta del sistema di
welfare degli stessi
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
I. Mstrangeli,
DIRITTO DI ACCESSO AGLI ATTI E TUTELA DELLA RISERVATEZZA
- Il delicato rapporto tra il diritto di accesso agli atti
per chi è interessato da un procedimento
ispettivo/sanzionatorio e la tutela della riservatezza
dell’autore dell’esposto, che a quel procedimento ha dato
origine, è risolto con la preferenza per il primo,
considerato che la Costituzione non tollera denunce segrete
o anonime
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2013). |
URBANISTICA:
P. Pittori,
È ANCORA CONSENTITA AI “PICCOLI COMUNI” LA COSTITUZIONE DI
SOCIETÀ DI TRASFORMAZIONE URBANA? - Le società di
trasformazione urbana, in virtù della loro specialità,
sfuggono ai divieti ed alle limitazioni imposte
dall’ordinamento, a livello generale, nei confronti delle
altre società a partecipazione pubblica
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Asprone,
IL PROCEDIMENTO UNICO DI AUTORIZZAZIONE ALLA PRODUZIONE DI
ENERGIE RINNOVABILI - In aderenza alla dottrina ,
la giurisprudenza ha affermato l’indispensabilità di operare
un richiamo ad un livello di governo superiore nel caso di
dissenso espresso da un Ente preposto alla tutela ambientale
e paesaggistico-territoriale nelle ipotesi di procedimento
unico di autorizzazione alla produzione di energie
rinnovabili
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2013). |
ENTI LOCALI:
F. Palazzotto,
IL RESTYLING DELLE UNIONI E L’ESERCIZIO ASSOCIATO DELLE
FUNZIONI DEI COMUNI ALLA LUCE DELLE NOVITÀ INTRODOTTE DALLA
SPENDING REVIEW - La riforma che ha interessato il
sistema delle autonomie locali, seppur realizzata in assenza
di un disegno riformatore unitario, è espressione
dell’esigenza di far fronte alla gravissima emergenza
economica e finanziaria che attualmente investe la quasi
totalità dei Paesi Europei, tale da mettere a repentaglio la
tenuta del sistema di welfare degli stessi. La disciplina
del 2012 si può dividere idealmente in tre macroaree: la
prima parte si può identificare nel co. 1: novella dell’art.
14, co. 27 ss., del d.l. 31.5.2010, n. 78 (conv. in l.
30.07.2010, n. 122), in tema di esercizio associato delle
funzioni da parte dei comuni fino a 5000 abitanti; la
seconda parte nel co. 2 (nonché 5 e 6): novella dell’art.
16, co. 1-16, d.l. 13.08.2011, n. 138 (conv. in l.
14.09.2011, n. 148), in tema di unioni speciali fra i comuni
fino a 1000 abitanti; la terza parte nel co. 3: novella
dell’art. 32 d.lgs. 18.08.2000, n. 267, ossia della norma
base in tema di unioni fra comuni
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
E. Pierantozzi,
IL RISARCIMENTO DEL DANNO DA RITARDO DELLA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE NELLA GIURISPRUDENZA DEL CONSIGLIO DI STATO
- Nel caso di procedimento amministrativo lesivo di un
interesse pretensivo, il ritardo nell'emanazione di un atto
amministrativo configura un danno ingiusto, con conseguente
obbligo di risarcimento, ove tale procedimento debba
concludersi con provvedimento favorevole al destinatario. La
richiesta di accertamento del danno va peraltro ricondotta
nell’alveo dell’art. 2043 c.c. per l’identificazione degli
elementi costitutivi della responsabilità, che vanno provati
dal danneggiato ex art. 2697 c.c.
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2013). |
ENTI
LOCALI - VARI:
V. Puddighinu,
IMPRESA IN UN GIORNO: NOVITÀ PREVISTE DAL NUOVO ART. 19
DELLA LEGGE SUL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO - Non più
autorizzazioni: con la riforma dell’art. 19 della l.
241/1990, è oggi possibile avviare un’attività artigiana e/o
commerciale con la sola produzione della “Segnalazione
certificata di inizio attività” redatta in conformità ai
requisiti di legge
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2013). |
APPALTI SERVIZI:
M. Dell'Unto,
L’AFFIDAMENTO DEI SERVIZI ASSICURATIVI E DI INTERMEDIAZIONE
ASSICURATIVA: CRITICITÀ E SUGGERIMENTI - Determinazione
n. 2 del 13.03.2013 dell’Autorità per la vigilanza sui
Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture: questioni
interpretative concernenti l’affidamento dei servizi
assicurativi e di intermediazione assicurativa
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. C. Bartoccioni,
L’INDIVIDUAZIONE DEL RESPONSABILE DELL’INQUINAMENTO E
COMPATIBILITÀ CON IL PRINCIPIO COMUNITARIO DEL “CHI INQUINA
PAGA” - In caso d’inquinamento di un sito l’obbligo di
bonifica dello stesso ricade sul responsabile e, in presenza
di determinati presupposti, sul proprietario dell’area nei
limiti del valore del fondo. Applicazione nel nostro
ordinamento del principio comunitario chi inquina paga
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
C. Paolini,
L. N. 190 DEL 2012 - UNA PRIMA DISCIPLINA ORGANICA
SULL’ANTICORRUZIONE: IL SISTEMA NAZIONALE E TERRITORIALE
DELLA PREVENZIONE DELLA CORRUZIONE NELLA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE - Dopo diverse raccomandazioni del
Consiglio d’Europa, l’Italia si è dotata di una legge
organica per la prevenzione e la repressione della
corruzione e dell’illegalità della pubblica amministrazione.
Civit e Dipartimento della funzione pubblica costituiscono i
centri di responsabilità del sistema. Tutte le
amministrazioni devono nominare un responsabile della
prevenzione della corruzione e dotarsi del piano triennale
predisposto dallo stesso responsabile. Per prevenire la
corruzione, la legge interviene di nuovo sulla tematica
della trasparenza dell’attività amministrativa
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2013). |
APPALTI:
S. Napolitano,
LA NECESSARIA CORRISPONDENZA DELLE QUOTE DI QUALIFICAZIONE,
DI PARTECIPAZIONE ALL’ATI E DI ESECUZIONE TRA LA NOVELLA
LEGISLATIVA E LE RECENTI PRONUNCE DELLA GIURISPRUDENZA -
La necessaria conciliazione tra il disposto legislativo e
l’applicazione pratica del principio di corrispondenza tra
quote di partecipazione all’ATI e quote di esecuzione tra i
soggetti raggruppati, nel caso specifico di appalti di
servizi e forniture
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2013). |
TRIBUTI:
G. Napolitano,
LA PARTECIPAZIONE DEI COMUNI ALL’ATTIVITÀ DI CONTRASTO
ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA: SINTESI DELLA NORMATIVA
- Il presente lavoro ricostruisce il quadro normativo in
materia di partecipazione dei Comuni all’attività di
contrasto all’evasione fiscale e contributiva
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2013). |
APPALTI:
S. Villamena,
LEGITTIMO AFFIDAMENTO E CONTRATTI PUBBLICI. OSSERVAZIONI SU
SERIETÀ E PIGRIZIA AMMINISTRATIVA - La tutela del
principio di legittimo affidamento incontra nel nostro
ordinamento amministrativo una serie di limitazioni e di
condizionamenti che ne rendono talvolta problematica
l’applicazione. Nel presente contributo, dopo aver
affrontato sinteticamente i profili generali del tema
indicato, si è orientata l’analisi sul settore degli appalti
pubblici. In questo settore, si è potuto verificare la
presenza di orientamenti giurisprudenziali consolidati, cui
tuttavia si affiancano alcune sporadiche pronunce che si
muovono in senso diverso. Tali ultime pronunce, per quanto
criticabili in alcuni passaggi, potrebbero aprire nuovi
spazi di tutela per il relativo principio di legittimo
affidamento, trovando giustificazione nei recenti interventi
legislativi che vanno nel senso di combattere il fenomeno
(che nel contributo è definito) dell’amministrazione pigra
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2013). |
APPALTI:
A. Cernelli,
PRECLUSA L’AZIONE DI INDEBITO ARRICCHIMENTO CONTRO LA P.A.
SE L’IMPEGNO CONTRATTUALE NON É AD ESSA ASCRIVIBILE -
L’Autore analizza la problematica questione del mezzo di
tutela esperibile dal privato che abbia eseguito una
prestazione in favore della PA, sulla base di un impegno
che, sottoscritto da un dirigente o funzionario pubblico,
sia mancante dei requisiti di giuridica riferibilità
all’ente. In particolare, l’Autore si sofferma sulla
possibilità per il privato di esercitare l’azione di
indebito arricchimento ex art. 2041 del codice civile
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2013). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nel computo della spesa per la formazione del
personale, da ridurre del 50% con riferimento a quanto speso
nel 2009, non deve essere inclusa quella parte di costi
sostenuti per formazione obbligatoria imposta da specifiche
norme di legge (si pensi al D.lgs. n. 81/2008 in materia di
sicurezza sul lavoro oppure al D.lgs. n. 196/2003 sulla
protezione dei dati personali), bensì esclusivamente i costi
sostenuti per attività formative decise discrezionalmente
dall’ente.
L’art. 6 del D.L. n. 78/2010, attesa la sua evidente ratio
di contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica,
non può essere ragionevolmente interpretato che nel senso
della limitazione e non della esclusione tout court del
fabbisogno formativo. Pertanto, qualora l’ente non abbia
–erroneamente, considerato l’obbligo formativo– sostenuto
spesa di tale natura nell’anno di riferimento (2009), dovrà
essere utilizzato, quale parametro valutativo, l’ultimo anno
in cui è stata sostenuta spesa per la formazione.
---------------
Il Presidente della
Regione Calabria, con la nota in epigrafe indicata, ha
formulato una richiesta di parere in merito all’obbligo di
contenimento della spesa pubblica per attività di formazione
del personale prescritto dall’art. 6, comma 13, del D.L.
78/2010, convertito in Legge 122/2010 e recepito a livello
regionale con l’art. 7, comma 2, della L.R. n. 22/2010.
In particolare, il Presidente della Regione, ha interpellato
la Sezione in ordine all’apparente contrasto sussistente tra
il vincolo normativo stabilito dalle norme appena citate e
le disposizioni di natura contrattuale contenute nell’art.
23 del CCNL – Area comparto del 01/04/1999, in seguito
confermate dall’art. 45 del CCNL 22/01/2004, nella parte in
cui è stata prevista la destinazione allo sviluppo delle
attività formative di una quota pari almeno al 1% della
spesa complessiva del personale.
Segnatamente, il quesito è stato formulato in questi
termini: “Alla luce della sentenza della Corte
costituzionale n. 182/2011 e di diverse pronunce di Sezioni
regionali della Corte dei conti, la riduzione del 50% deve
applicarsi sulla spesa sostenuta nell’anno 2009, anche nel
caso in cui nell’Ente la spesa per la formazione è stata
inferiore al 1% della spesa complessiva del personale?”.
...
5. Nel merito della questione sottoposta all'esame della
Sezione appare opportuno richiamare, preliminarmente, la
normativa, primaria e pattizia, applicabile al caso di
specie che, si ribadisce, attiene all’applicazione del
vincolo di spesa inerente alla formazione del personale
stabilito dal legislatore tanto nazionale, quanto regionale,
laddove la medesima spesa risulti inferiore al limite minimo
stabilito da norme di rango contrattuale.
Come esposto dallo stesso richiedente, l’art. 6 del D.L.
78/2010, recante varie disposizioni inerenti alla riduzione
dei costi degli apparati amministrativi, al comma 13
contiene una prescrizione finalizzata al contenimento della
spesa pubblica destinata dagli enti pubblici alla formazione
del personale. In particolare, la norma
stabilisce che, a decorrere dall'anno 2011, la spesa annua
sostenuta dalle amministrazioni pubbliche inserite nel conto
economico consolidato della pubblica amministrazione,
incluse le autorità indipendenti, per attività
esclusivamente di formazione deve essere non superiore al
50% della spesa sostenuta nell'anno 2009.
Le predette amministrazioni svolgono prioritariamente
l'attività di formazione tramite la Scuola superiore della
pubblica amministrazione ovvero tramite i propri organismi
di formazione. Gli atti e i contratti posti
in essere in violazione della disposizione contenuta nel
primo periodo del presente comma costituiscono illecito
disciplinare e determinano responsabilità erariale.
La disposizione di cui al presente comma non si applica
all'attività di formazione effettuata dalle Forze armate,
dal Corpo nazionale dei vigili del fuoco e dalle Forze di
Polizia tramite i propri organismi di formazione.
La norma riportata prevede, pertanto, uno specifico e netto
limite all’assunzione di spesa finalizzata esclusivamente
alla formazione del personale delle pubbliche
amministrazioni, la quale non dovrà assumere un’entità
superiore al 50% della medesima spesa sostenuta nell’anno
2009 (diversamente, si osserva, il comma 10 del medesimo
art. 6 prevede forme di compensazione tra diverse voci di
spesa). Inoltre, viene precisato che l’attività di
formazione dovrà essere prioritariamente svolta a mezzo
della Scuola superiore della pubblica amministrazione (alla
quale deve ritenersi equiparabile la Scuola superiore della
pubblica amministrazione locale ex D.P.R. 27/2008) oppure
tramite gli organismi di formazione costituiti nei vari
enti. È, infine, stabilito che l’adozione di atti e
contratti posti in essere in spregio dell’obbligo di
contenimento previsto dalla norma determina responsabilità
disciplinare ed erariale.
Ancora, il medesimo art. 6, al comma 20, stabilisce che le
disposizioni contenute nell’articolo in esame non si
applicano in via diretta alle Regioni, alle Province
autonome e agli enti del Servizio sanitario nazionale, per i
quali costituiscono norme di principio ai fini del
coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 117,
c. 3, della Costituzione. Su tale aspetto ha avuto modo di
pronunciarsi la Corte costituzionale con la sentenza n.
182/2011, successivamente ribadita dalla sentenza n.
139/2012, nella quale sono stati affermati importanti
principi, peraltro già oggetto di precedenti pronunce della
Corte costituzionale, in merito alla delimitazione della
competenza legislativa concorrente sul coordinamento della
finanza pubblica.
In particolare, la Consulta, nella sentenza n. 182/2011, nel
respingere il ricorso del Presidente del Consiglio dei
Ministri radicato sulla legge finanziaria 2011 della Regione
Toscana, ha statuito che il legislatore nazionale, anche in
adempimento ad obblighi comunitari, stabilendo precisi
vincoli e limiti alla progressione della spesa nell’ambito
dell’organizzazione degli apparati pubblici, non può non
rispettare l’autonomia delle Regioni, per le quali è pur
sempre ammissibile raggiungere i risultati prefissati a
livello nazionale attraverso modulazioni di spesa differenti
rispetto a quelle puntualmente indicate dal legislatore
statale per le proprie Amministrazioni.
Aggiunge ancora la Consulta che con l’art. 6, comma 20, il
legislatore statale ha mostrato di saper superare la tecnica
normativa in origine adottata ai fini del contenimento della
spesa pubblica –ed oggetto di un consolidato vaglio negativo
di legittimità costituzionale (cfr. Corte costituzionale
sentenze n. 417/2005, n. 449/2005, n. 159/2008, n.
297/2009)– preferendo agire direttamente sulla spesa delle
proprie amministrazioni con norme puntuali, delle quali si è
invece dichiarata l’efficacia nei confronti delle Regioni
esclusivamente quali principi di coordinamento della finanza
pubblica, escludendone pertanto l’applicabilità diretta
(cfr. Corte costituzionale sentenza n. 289/2008).
Di qui la possibilità, per il legislatore statale, di
rispettare il riparto concorrente della potestà legislativa
in tema di coordinamento della finanza pubblica, solo a
condizione di permettere l’enucleazione, dalle singole
disposizioni statali, di principi rispettosi di uno spazio
aperto all’esercizio dell’autonomia regionale. Diversamente
operando, la disposizione statale non avrebbe potuto
qualificarsi di principio (cfr. Corte costituzionale
sentenza n. 159/2008), quale che ne fosse stata l’eventuale
auto designazione adottata dal legislatore nazionale (cfr.
Corte costituzionale sentenza n. 237/2009).
In definitiva, lo scrutinio di legittimità costituzionale
effettuato nella citata sentenza fornisce un’interpretazione
dell’art. 6 del D.L. n. 78/2010 rispettosa dell’autonomia
legislativa regionale, giacché riserva alla Regione una
valutazione globale dei puntuali limiti di spesa stabiliti
dalla norma statale nel rispetto, pur sempre, del vincolo
(ed è questo il principio di coordinamento) di riduzione
complessiva dei costi degli apparati amministrativi,
obiettivo tuttavia modulabile discrezionalmente dalla
Regione anche secondo differenti percentuali di ripartizione
tra le varie voci di spesa prese in considerazione.
In attuazione del suddetto principio di coordinamento della
finanza pubblica contenuto nel ridetto art. 6 del D.L. n.
78/2010, la Regione Calabria ha approvato la Legge regionale
n. 22 del 11.08.2010 recante misure di razionalizzazione e
riordino della spesa pubblica regionale. In essa sono
contenute varie disposizioni finalizzate al contenimento
delle spese di funzionamento dell’apparato burocratico
regionale.
Per quanto di interesse in questa sede, rileva quanto
stabilito dall’art. 7, comma 2, in base al quale, similmente
a quanto previsto a livello nazionale, a decorrere dall’anno
2011 la spesa sostenuta per attività di formazione non può
essere superiore al 50% della spesa sostenuta nell’anno
2009, ad eccezione della medesima fonte di spesa finanziata
da fondi comunitari. La Regione Calabria ha quindi
esercitato, con tale provvedimento, la propria
discrezionalità legislativa nell’ambito del principio
statale sopra visto, adeguandosi pressoché integralmente
–per quanto attiene alla spesa per la formazione del
personale– a quanto stabilito dall’art. 6 del D.L. n.
78/2010.
Tuttavia, va rilevato che
mentre il legislatore nazionale ha fatto
espresso riferimento alla spesa per attività “esclusivamente”
di formazione, lasciando quindi supporre che alcune voci di
spesa, seppur latamente formative, potrebbero anche essere
escluse dal computo complessivo,
la Regione Calabria sembra aver recepito il principio
statale in modo ancor più rigoroso, riferendosi la citata
norma regionale alla spesa sostenuta, in generale, per “attività
di formazione”, di qualsiasi natura e tipologia essa
sia.
Infine, la ricostruzione normativa deve ora interessarsi
della disciplina pattizia. La norma che occorre esaminare è
l’art. 23 del CCNL Regioni-Enti locali, area
comparto, del 01.04.1999 (in seguito confermato dall’art. 45
dl CCNL del 22.01.2004),
il quale, nel valorizzare il ruolo della formazione del
personale (cfr., in proposito, art. 7, comma 4, e art. 7-bis
del D.lgs. n. 165/2001) stabilisce, con una
norma programmatica, l’impegno per i datori di lavoro di
destinare allo sviluppo delle attività formative una quota
pari almeno al 1% della spesa complessiva del personale.
Peraltro, il comma 2 del citato art. 23, premette che
l’esigenza di favorire gli investimenti nella formazione del
personale è pur sempre condizionata al rispetto delle
effettive capacità di bilancio degli enti.
6. Ciò posto, va rilevato che sul vincolo di contenimento
della spesa per formazione del personale hanno avuto modo di
pronunciarsi, seppur con riferimento agli enti locali, altre
Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti,
giungendo a soluzioni interpretative del tutto condivisibili
anche da questa Sezione.
Nella deliberazione n. 113/2011 la Sezione
regionale del controllo molisana,
premessa una ricostruzione normativa finalizzata ad
evidenziare la natura obbligatoria e necessaria della spesa
per formazione del personale, ha avuto modo
di precisare che l’art. 6 del D.L. n. 78/2010, attesa la sua
evidente ratio di contenimento e razionalizzazione
della spesa pubblica, non può essere ragionevolmente
interpretato che nel senso della limitazione e non della
esclusione tout court del fabbisogno formativo.
Pertanto, qualora l’ente non abbia –erroneamente,
considerato l’obbligo formativo– sostenuto spesa di tale
natura nell’anno di riferimento (2009), dovrà essere
utilizzato, quale parametro valutativo, l’ultimo anno in cui
è stata sostenuta spesa per la formazione.
La Sezione controllo del Piemonte (deliberazione n. 55/2011)
si è pronunciata su alcune tipologie di spesa formativa
oggetto di contenimento ai sensi dell’art. 6, includendovi
quelle che finanziano attività formative di riqualificazione
del personale, anche se finalizzate allo scopo di evitare il
ricorso a professionisti esterni, trattandosi invero
dell’obiettivo precipuo di qualsiasi attività formativa,
ovvero anche le spese di aggiornamento e formazione per gli
educatori degli asili nido, seppur previste dai contratti
collettivi.
Ancora, e sempre condivisibilmente, la
Sezione Lombardia (deliberazione n. 116/2011) ha precisato
che nel computo della spesa per la formazione del personale,
da ridurre del 50%, non deve essere inclusa quella parte di
costi sostenuti per formazione obbligatoria imposta da
specifiche norme di legge (si pensi al D.lgs. n. 81/2008 in
materia di sicurezza sul lavoro oppure al D.lgs. n. 196/2003
sulla protezione dei dati personali), bensì esclusivamente i
costi sostenuti per attività formative decise
discrezionalmente dall’ente.
Tale argomento è stato anche sposato dalla Sezione Toscana
(deliberazione n. 74/2011) la quale ha –opportunamente–
avuto modo di aggiungere che la spesa
formativa discrezionale deve essere assoggettata al limite
normativo a prescindere dalle modalità concrete di
realizzazione dell’attività formativa (tutoraggio o
formazione residenziale presso lo stesso ente
organizzatore).
Infine, sempre la Sezione Lombardia
(deliberazione n. 117/2012) ha affermato,
proprio con riferimento ad un caso analogo a quello oggetto
dell’odierno esame, che nessuna
interferenza può essere ascritta alle norme contenute nel
CCNL, le quali stabiliscono (art. 23, comma 2, CCNL
Regioni-Enti locali del 01.04.1999) un limite minimo di
spesa da destinare alla formazione, sul rispetto del vincolo
legislativo di contenimento della medesima spesa.
7. Esaminata la normativa di riferimento e la giurisprudenza
sviluppatasi sulla problematica in esame,
la Sezione non può che dare risposta affermativa al quesito
formulato dalla Regione Calabria, confermando pertanto la
necessaria applicazione dell’obbligo di legge finalizzato
alla contrazione della spesa per formazione, ancorché a
livello pattizio sussista una disposizione –non
completamente applicata dall’ente istante– implicante un
investimento minimo in formazione.
In proposito, il Collegio rileva che, in disparte ogni
valutazione sul rango e sulla specialità della fonte
legislativa apparentemente contrastante con quella
contrattuale, un obbligo contrattuale può, secondo
tradizionali principi civilistici (inesigibilità della
prestazione ex art. 1218 c.c.), restare inadempiuto qualora
sopravvenga un impedimento, determinato appunto dall’entrata
in vigore di una nuova disposizione legislativa recante un
preciso limite di spesa, tale da rendere impossibile
l’adempimento (c.d. factum principis).
Inoltre, come sopra visto, è la stessa disposizione
contrattuale (art. 23, c. 2) che, nel prevedere un
significativo incremento dei finanziamenti da destinare alla
formazione, fa espressa riserva alla effettiva capacità di
bilancio la quale, in applicazione delle citate norme di
contrazione della spesa, dovrà essere dimezzata rispetto
all’analoga spesa di formazione registrata nell’anno 2009.
Va anche aggiunto che appare inconferente, al fine della
risposta al quesito, la citazione della sentenza n. 182/2011
della Consulta, atteso che, come è stato già evidenziato, la
Regione Calabria ha esercitato la propria discrezionalità
legislativa attuando, peraltro in modo pressoché pedissequo
per quanto attiene alla spesa per formazione, il principio
di coordinamento della finanza pubblica contenuto nell’art.
6 del D.L. n. 78/2010. Pertanto, da questo punto di vista,
il legislatore regionale non può certo lamentare l’eventuale
violazione delle proprie prerogative costituzionali
riconosciute e valorizzate dalla Corte costituzionale nelle
citate sentenze n. 182/2011 e n. 136/2012, giacché
l’autonomia legislativa regionale è stata, nel caso
concreto, pienamente sfruttata.
Nondimeno, quanto sopra detto non esclude
tout court la possibilità per la Regione di
soddisfare i fabbisogni formativi del personale dipendente
anche attraverso percorsi interni di “auto formazione”,
valorizzando all’uopo gli organismi interni di formazione
ovvero le risorse dirigenziali da utilizzare eventualmente
anche per le docenze, oltreché investendo ed ottimizzando la
quota residua, pur sempre disponibile, che la norma di
contenimento della spesa formativa tuttora preserva
(Corte dei Conti, Sez. controllo Calabria,
parere 16.05.2013 n. 23). |
NEWS |
ATTI AMMINISTRATIVI: GUIDA
PRATICA AL DECRETO DEL FARE/ LA PA CHE RITARDA PAGA.
Trenta euro al giorno quando il procedimento amministrativo
non si conclude nei tempi previsti.
Il decreto legge prova a introdurre un dissuasivo nei
confronti della pubblica amministrazione affinché rispetti i
tempi di conclusione dei procedimenti.
La novità, in fase sperimentale applicata solamente
all'avvio di nuove attività imprenditoriali, stabilisce che
a fronte del mancato rispetto dei termini la Pa riconosca un
indennizzo, anche se non in modo automatico, per ogni giorno
di ritardo.
Un primo passo, forse, verso un modo di amministrare
caratterizzato da tempi certi a tutto beneficio degli
imprenditori che spesso ora restano bloccati in attesa di
risposte
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.06.2013). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
Antenne centralizzate, regole tecniche stese da privati.
Il decreto del mse di gennaio 2013 evidenzia non poche
problematiche applicative.
È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 25 del 30
gennaio scorso un decreto del Ministero dello sviluppo
economico (22.01.2013) che detta le «regole tecniche
relative agli impianti condominiali centralizzati d'antenna
riceventi del servizio di radiodiffusione».
Il decreto
disciplina gli impianti centralizzati d'antenna
condominiali, di nuova installazione, che ricevono i segnali
del servizio di radiodiffusione, terrestre e satellitare e
ne effettuano la distribuzione nell'edificio. Disciplina,
altresì, la progettazione e la realizzazione degli impianti
d'antenna riceventi il servizio di radiodiffusione
conseguenti al riutilizzo di parte della banda Uhf da parte
dei servizi di comunicazione elettronica.
Il provvedimento dispone che gli impianti centralizzati
d'antenna siano realizzati in modo da «ottimizzare la
ricezione delle stazioni emittenti radiotelevisive
ricevibili e annullare o minimizzare l'esigenza del ricorso
ad antenne riceventi individuali, in modo tale da garantire
i diritti inderogabili di libertà delle persone nell'uso dei
mezzi di comunicazione elettronica».
Fissate queste caratteristiche generali, il provvedimento
passa a dettare ulteriori norme per «la progettazione, la
realizzazione e la manutenzione di impianti» che rispettino
le caratteristiche di cui sopra. In particolare, gli
impianti centralizzati d'antenna (stabilisce ancora l'art.
4) non devono determinare condizioni discriminatorie tra le
stazioni emittenti i cui programmi siano contenuti
esclusivamente in segnali terrestri primari e satellitari né
condizioni discriminatorie nella distribuzione dei segnali
alle diverse utenze. L'utilizzo di un mezzo trasmissivo,
poi, non deve comportare l'esclusione di altri mezzi
trasmissivi che siano da considerare equivalenti o
complementari tra loro.
Ma quali devono essere i «criteri realizzativi» delle
antenne centralizzate? La risposta è contenuta nell'art. 6
del decreto, ove si dispone che «i riferimenti per la
conformità di progettazione, installazione e manutenzione
degli impianti centralizzati d'antenna sono: a) la direttiva
2004/108/Ce relativa agli aspetti di compatibilità
elettromagnetica; b) le pertinenti norme e guide tecniche di
impianto del Cei e i relativi riferimenti normativi europei Cenelec e in particolare la guida Cei 100-7 e le norme della
serie En 50083 ed ENn60728 per gli aspetti funzionali e di
sicurezza».
Per progettare, installare e fare la manutenzione delle
antenne centralizzate, insomma, bisogna seguire regole che
non sono contenute nel decreto ministeriale di cui ci stiamo
occupando, né in altre disposizioni legislative o
regolamentari. Tali regole sono infatti contenute, oltre che
in una direttiva europea, in documenti realizzati da due
enti di natura privata: il Cei (Comitato elettrotecnico
italiano) e il Cenelec (Comitato europeo di normazione
elettrotecnica).
E come ci si procura questi documenti, visto che (come
detto) non si tratta di leggi o decreti? Ebbene, in questo
caso è necessario procurarsi un volume intitolato Guide Cei
sugli impianti d'antenna per la ricezione Tv. Volume, deve
precisarsi, che non è disponibile gratuitamente, ma che è
necessario acquistare al prezzo di 130 euro. Senza,
oltretutto, che tale acquisto possa da qualcuno essere
evitato per effetto, ad esempio, dell'invio della
pubblicazione o di suoi estratti in copia da parte di un
terzo (come potrebbe essere, ad esempio, un'Associazione
territoriale della Confedilizia). Le indicazioni sul volume
sono infatti inequivoche: «Tutti i diritti sono riservati.
Nessuna parte del documento può essere riprodotta, messa in
rete o diffusa con un qualsiasi mezzo senza il consenso
scritto del Cei».
È legittimo tutto ciò? A leggere quanto affermato dal Tar
del Lazio nella sentenza n. 5413 dell'01/04/2010 (ottenuta
dalla Confedilizia con riferimento a un decreto in materia
di ascensori) parrebbe proprio di no. In quell'occasione,
infatti, i giudici amministrativi hanno ritenuto illegittime
quelle previsioni che, nell'imporre prestazioni a privati
proprietari, lascino «ampio spazio nella loro individuazione
ad una associazione privata» (l'Uni, nel caso di specie,
ente analogo a quelli citati nel decreto sulle antenne),
«alle cui libere determinazioni, assunte nel tempo e
finalizzate ad un continuo adeguamento delle tecniche di
valutazione dei rischi degli impianti, da essa imposte,
dipende la loro progressiva quantificazione e i vantaggi
economici che l'associazione ne ricava».
Ma il Tar aggiungeva anche: «La riprova della anomala e
ingiustificata posizione di vantaggio che ad essa si è
ritenuto di assicurare, in danno dei proprietari, è già
nell'obbligo fatto ai privati proprietari di acquisire, ad
un prezzo esoso, limitatamente ad una sola copia del
cartaceo recante il testo delle norme tecniche da osservare
e «ad esclusivo uso del cliente», la licenza da parte
dell'Uni ad utilizzare la normativa tecnica da essa
predisposta, di cui è ritenuta proprietaria e che per questa
ragione non è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, come
sarebbe doveroso per ogni normativa che alla collettività si
impone di applicare».
Il testo integrale del provvedimento può essere scaricato
(da parte dei titolari della relativa password) dalla banca
dati riservata del sito internet della Confedilizia
(articolo Italia Oggi del 22.06.2013). |
ENTI LOCALI - VARI:
Torna la mediazione civile obbligatoria.
Torna la mediazione civile obbligatoria. È quanto il governo
ha previsto nel decreto «del fare». Pertanto, prima di
rivolgersi al tribunale o al giudice di pace, è obbligatorio
attivarsi presso un organismo di mediazione autorizzato dal
ministero della giustizia per dirimere una controversia in
materia di condominio, diritti reali, divisione e
successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione,
comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno
derivante da responsabilità medica e da diffamazione,
contratti assicurativi, bancari e finanziari.
Unico escluso: il risarcimento del danno derivante dalla
circolazione di veicoli e natanti.
«Attendevamo con fiducia questo intervento. Sebbene non
comprendiamo come mai ad essere esclusa è proprio la materia
che di fatto ingolfa i tribunali ordinari», ha evidenziato
Falcone.
Anche quando la Corte costituzionale si era espressa in
merito all'illegittimità costituzionale, per eccesso di
delega legislativa del dlgs 04.03.2010, n. 28 nella parte
in cui era previsto il carattere obbligatorio della
mediazione, la Lapet non ha mai smesso di continuare a
credere in questa misura e nei principi che l'hanno
generata: dare un'accelerata alla lentezza della giustizia
ordinaria e ridurne i costi. Anzi, l'obbligatorietà, per gli
iscritti Lapet, non è mai venuta meno in quanto prevista in
tutte le clausole contrattuali, laddove, in caso di lite, è
obbligatorio preventivamente ricorrere alla
media-conciliazione.
«L'intervento del governo ora giunge a rendere merito a
tutto il lavoro che nel corso di questi anni abbiamo fatto,
fino alla costituzione del nostro organismo di mediazione AdrMedilapet, iscritto al n. 467 del registro degli
Organismi di mediazione presso il ministero della
giustizia», ha aggiunto il presidente.
AdrMedilapet rappresenta infatti un ulteriore servizio che
la Lapet mette a disposizione dei suoi associati in primis
ed è una forma di tutela a cui il cittadino-utente può
rivolgersi per dirimere una controversia grazie all'ausilio
di esperti e mediatori professionisti.
«Ora che il governo ha dimostrato di voler spingere verso
il sistema alternativo di risoluzione delle controversie,
principio che trova tra l'altro giustificazione anche da
parte della Commissione Ue, è fuori dubbio che tale
procedura rappresenti un'opportunità da non perdere», ha
indicato Falcone. «Suggeriamo peraltro il reintegro anche
di quelle materie che sono state escluse, affinché la
mediazione possa finalmente ottenere il ruolo che merita nel
panorama della giustizia italiana»
(articolo Italia Oggi del 22.06.2013). |
SICUREZZA LAVORO: GUIDA
PRATICA AL DECRETO DEL FARE/
SICUREZZA NEI CANTIERI AFFIDATA A UN DELEGATO.
Alternativa al documento unico di valutazione dei rischi da
interferenze nei settori meno pericolosi.
Semplificare la burocrazia senza che a rimetterci siano
sicurezza del lavoro e regolarità contributiva. In questa
strettoia le norme del decreto del fare cercano un
compromesso che, per quel che riguarda il Durc, il documento
di regolarità contributiva, dovrà essere acquisto
telematicamente dall'ente.
Sul fronte della sicurezza si prevede una riduzione degli
obblighi relativi al documento unico di valutazione dei
rischi in caso di appalto mentre anche per la formazione si
potranno evitare corsi specifici da parte dei laureati in
materie coerenti con il lavoro svolto
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.06.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI - VARI: GUIDA
PRATICA AL DECRETO DEL FARE/
TORNA LA MEDIAZIONE OBBLIGATORIA.
Il tentativo deve essere fatto ma non per i danni da
incidenti stradali - Gli avvocati promossi d'ufficio
«conciliatori».
Il decreto legge 69/2013, in vigore da oggi 22 giugno,
prevede una serie di interventi in materia di giustizia.
Si va, infatti, dal ritorno alla conciliazione obbligatoria
a una maxi-operazione di reclutamento di ausiliari per
abbattere l'arretrato civile in Corte d'appello per arrivare
alle disposizioni che devono bloccare gli abusi sul
concordato. Un'operazione che dichiara il suo obiettivo:
rendere più affidabile la giustizia
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.06.2013). |
CONDOMINIO: Condominio.
Le nuove regole richiedono maggioranze più alte per la
rimozione.
La riforma peggiora i quorum sulle barriere architettoniche.
IL VOTO PER LE INNOVAZIONI/
Prima bastavano un terzo di condomini e 334 millesimi, ora
serve la maggioranza degli intervenuti in assemblea e almeno
500 millesimi
INTERVENTO INDIVIDUALE/
Se l'assemblea non vota l'intervento entro un mese dalla
richiesta, il condomino potrà installare il servoscala o
altra struttura a sue spese.
L'esigenza più sentita in condominio dai diversamente abili,
dagli anziani e da tutti coloro colpiti da un handicap o,
più semplicemente, da difficoltà motorie è quella di potersi
muovere senza difficoltà in condominio, di poter scendere le
scale, prendere l'ascensore, di poter godere della propria
autonomia e non sentirsi "blindati" a casa propria.
Invece, purtroppo, si assiste spesso a casi di persone
disabili che da anni non possono uscire di casa perché
impossibilitati ad entrare in ascensori con porte troppo
piccole, o addirittura non possono neppure scendere le scale
perché abitano al sesto piano e non c'è un servoscala.
Queste sono le barriere architettoniche e nel 2013 la
riforma adottata dal legislatore ha complicato le cose
invece di migliorarle.
Per la determinazione del concetto di «barriera
architettonica» il legislatore fa riferimento all'articolo
27, comma 1, della legge 118/1971, nella quale si definisce
barriera architettonica qualsiasi impedimento fisico a
ostacolo alla vita di relazione dei minorati. La barriera
architettonica, quindi, può essere una scala, un gradino,
una rampa troppo ripida.
Già da tempo la normativa, in particolare la legge n. 13 del
09.01.1989 (disposizioni per favorire il superamento e
l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici
privati) e la legge n. 104 del 05.02.1992 (legge quadro
per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle
persone handicappate) non si è limitata a innalzare il
livello di tutela in favore di questi soggetti ma ha segnato
un radicale mutamento di prospettiva rispetto al modo stesso
di affrontare i loro problemi, considerati ora non più
questioni solo individuali, ma tali da dover essere assunti
dall'intera collettività.
Così l'accessibilità, definita dall'articolo 2 del decreto
ministeriale n. 236 del 14.06.1989 come la «possibilità,
anche per persone con ridotta o impedita capacità motoria o
sensoriale, di raggiungere l'edificio e le sue singole unità
immobiliari, di entrarvi agevolmente e di fruire di spazi e
di attrezzature in condizioni di adeguata sicurezza ed
autonomia» è divenuta una qualità essenziale degli edifici
privati di nuova costruzione ad uso di civile abitazione
(vedi anche il capo III del Dpr n. 380 del 06.06.2001,
ovvero il testo unico delle disposizione legislative e
regolamentari in materia edilizia), quale conseguenza
dell'affermarsi nella coscienza sociale, del dovere
collettivo di rimuovere preventivamente ogni possibile
ostacolo alla esplicazione dei diritti fondamentali delle
persona affette da handicap fisici.
Anche la Corte Costituzionale è intervenuta con la sentenza
n. 167 del 10.05.1999, in tema di servitù di passaggio
coattivo, riconfermando i principi già espressi nella
normativa e sottolineando come qualsiasi impedimento e/o
ostacolo all'accessibilità dell'immobile abitativo e, quale
riflesso necessario, alla socializzazione dei soggetti
portatori di handicap, comporti una lesione del fondamentale
diritto alla salute intesa nel significato proprio
dell'articolo 32, comprensivo anche della salute psichica, la
cui tutela deve essere di grado pari a quello della salute
fisica.
La depressione quale conseguenza dell'isolamento, per
esempio, è una delle tipiche patologie psichiche conseguenti
a situazioni del genere, ed è tutt'altro che infrequente,
perché chiusi in casa ci si "spegne" letteralmente.
Oggi, per gli edifici già esistenti (la grande maggioranza)
il legislatore, con la legge di riforma n. 220/2012 (entrata
in vigore quattro giorni fa), invece di diminuire il quorum
necessario per deliberare le modifiche da apportare alle
parti comuni dirette al superamento o all'eliminazione delle
barriere architettoniche, lo ha aumentato.
In particolare se l'articolo 2 della legge 13/1989 prevedeva
che per queste modifiche o innovazioni fosse sufficiente in
seconda convocazione il voto favorevole di un terzo dei
partecipanti al condominio, portatori di almeno un terzo dei
millesimi, ora, con la riforma, sia in prima che in seconda
convocazione è necessario il voto favorevole espresso dalla
maggioranza degli intervenuti in assemblea e almeno la metà
del valore millesimale dell'edificio (articolo 1120 del
Codice civile).
Se l'assemblea risponde negativamente o non risponde entro
un mese dalla richiesta (con la legge 13/1989 erano previsti
tre mesi), il condomino potrà sempre a propria cura e spese
installare il servoscala e tutte quelle strutture mobili che
possono consentirgli una vita, nel vero senso della parola
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.06.2013). |
VARI: Sulle
strade.
Controlli elettronici a più voci.
Nessuna disposizione normativa limita il potere di
accertamento degli ispettori delle aziende di trasporto
pubblico che pertanto possono regolarmente sottoscrivere
anche gli eventuali verbali di circolazione abusiva sulle
strisce gialle rilevati con sistemi elettronici.
Lo ha
chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con
l'ordinanza 19.06.2013 n. 15283.
Un cittadino
pizzicato dal sistema elettronico preposto al controllo
della circolazione limitata sulle strisce gialle dedicate al
trasporto pubblico si è rivolto al giudice di pace
lamentando il difetto di potere dell'organo accertatore,
ovvero del funzionario dipendente dell'azienda
municipalizzata trasporti. Contro il conseguente
annullamento della multa, confermato pure in appello, il
comune di Genova ha proposto con successo ricorso in
cassazione.
Ai sensi della legge n. 127/1997 i comuni
possono, con provvedimento del primo cittadino, conferire le
funzioni di accertamento e prevenzione delle violazioni in
materia di sosta ai dipendenti comunali o delle società di
gestione dei parcheggi, limitatamente alle aree oggetto di
concessione. Questi poteri, specifica la norma, possono
inoltre essere conferiti, sempre con provvedimento del
sindaco, anche al personale ispettivo delle aziende
esercenti il trasporto pubblico di persone. Questo stesso
personale può però anche svolgere funzioni di prevenzione e
accertamento in materia di circolazione e sosta sulle corsie
gialle riservate, prosegue il collegio, previa specifica
designazione in tal senso del primo cittadino. Nessuna
disposizione limita però poi l'esercizio di questo potere di
polizia stradale.
Per questo motivo non può censurarsi la
disponibilità dei sistemi di controllo elettronici del
traffico dedicati alle strisce gialle presso la sede della
società concessionaria. Tantomeno ritenere nulla la multa
rilevata dal sistema Sirio Ves sottoscritta dal personale
ispettivo di una azienda di trasporto pubblico. Come
implicitamente confermato dalle sezioni unite, conclude
l'ordinanza, i poteri di polizia stradale conferiti agli
ispettori in questo caso non incontrano infatti limitazioni
particolari
(articolo Italia Oggi del 21.06.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
DECRETO FARE/ Le ultime novità del dl. Ai piccoli comuni 100 mln per le opere.
P.a. lumaca, indennizzi ridotti. Meno soldi per le imprese.
E si paga il contributo unificato.
Indennizzi da ritardo ridotti all'osso. In una settimana la
portata della norma, in linea di principio rivoluzionaria,
che consente di chiedere i danni alla p.a. per le lungaggini
burocratiche, è stata via rimpicciolita nel tentativo di
tranquillizzare la Ragioneria dello stato. Troppe sono
infatti le pratiche amministrative definite fuori tempo
massimo per non allarmare via XX Settembre preoccupata delle
possibili ricadute sui bilanci pubblici.
E così prima è stato dimezzato, da 4 mila a 2 mila euro
l'importo massimo indennizzabile a favore delle imprese
(saranno loro i primi beneficiari in via sperimentale), poi
è stata la volta della cifra da corrispondere per ogni
giorno di ritardo che da 50 euro è scesa a 30. E infine si è
allungato il periodo transitorio che servirà per valutare se
e in quali termini la chance dell'indennizzo, oggi
azionabile solo da parte delle imprese, potrà essere
riconosciuta gradualmente anche ai privati. Da un anno si è
passati a 18 mesi.
Nel testo definitivo del decreto legge con le misure urgenti
per la crescita economica (cosiddetto «decreto del fare»)
licenziato dal consiglio dei ministri di mercoledì, la
procedura per ottenere gli indennizzi è stata infarcita di
tali e tanti paletti da risultare zeppa di incognite (si
veda altro pezzo in pagina). Per esempio, al termine dei 18
mesi di monitoraggio il governo si riserva la facoltà di
fare un passo indietro sull'applicazione dell'indennizzo non
solo non estendendolo affatto ai privati, ma anche
disponendo con regolamento la cessazione tout court della
misura.
E, ancora, come strumento per scongiurare le liti temerarie,
si prevede che qualora il ricorso sia dichiarato
inammissibile o respinto, il giudice possa condannare il
ricorrente al pagamento di una somma da due a quattro volte
il contributo unificato.
Ma è leggendo la relazione tecnica al decreto legge che
viene fuori la vera sorpresa. Per tranquillizzare le
amministrazioni più in difficoltà nel rispettare i tempi, si
precisa che «nel caso emergano criticità, le pubbliche
amministrazioni interessate potranno individuare termini
procedimentali più adeguati alle loro esigenze
organizzative, fino a un massimo di 180 giorni» (il termine
ordinario previsto dalla legge è di 30 giorni, ndr). Come
dire, basterà allungare i tempi per rispondere alle istanze
di cittadini e imprese per spostare in avanti nel tempo l'azionabilità
del potere sostitutivo che va necessariamente attivato se si
vuole ottenere l'indennizzo. Ma quanto impatterà sul
bilancio dello stato l'indennizzo da ritardo? La relazione
non lo quantifica perché saranno le singole amministrazioni
a dover provvedere agli stanziamenti necessari.
Ma vediamo le altre novità di interesse per gli enti locali
e la p.a. contenute nel decreto.
Data unica per gli adempimenti. Due sole scadenze per
l'efficacia degli adempimenti amministrativi. Il 1° luglio e
il 1° gennaio saranno le due finestre per far scattare
obblighi di «raccolta, elaborazione, trasmissione,
conservazione e produzione di informazioni e documenti» nei
confronti degli enti pubblici. Sulla falsariga di quanto
accade già in molti paesi europei (Regno Unito, Francia e
Olanda) anche in Italia il groviglio burocratico che
attanaglia la vita di tutti i giorni e l'economia potrà
semplificarsi nei confronti di cittadini e imprese.
Fondo piccoli comuni. Il decreto legge stanzia 100 milioni
di euro per il 2014 finalizzati alla realizzazione di opere
infrastrutturali nei piccoli comuni. Il programma, chiamato
«6000 campanili» finanzierà interventi di adeguamento,
ristrutturazione e nuova costruzione di edifici pubblici, ma
anche la realizzazione e manutenzione di strade e la messa
in sicurezza del territorio. I criteri per l'accesso alle
risorse saranno definiti entro 30 giorni dall'entrata in
vigore del decreto con una convenzione tra il ministero
delle infrastrutture e l'Anci che sarà trasposta in un
decreto da pubblicare in G.U. Entro 60 giorni dalla
pubblicazione in Gazzetta del dm i comuni con meno di 5.000
abitanti potranno inviare le richieste di contributo al
ministero guidato da Maurizio Lupi.
Il contributo richiesto
per il singolo progetto non potrà essere inferiore a 500
mila euro e superiore a un milione. Il costo del singolo
intervento potrà superare il contributo richiesto solo se i
soldi in più sono già nella disponibilità del comune e sono
immediatamente spendibili. Ogni comune potrà presentare un
solo progetto. La misura piace all'Anci che la definisce
«una boccata d'ossigeno per le economie locali nel difficile
contesto attuale».
Slitta la dismissione delle partecipate.
Viene prorogato dal
30 giugno al 31.12.2013 il termine entro il quale gli
enti pubblici, ai sensi della spending review (dl
95/2012), avrebbero dovuto alienare le partecipazioni in
società controllate strumentali che presentino un fatturato
da servizi prestati verso la p.a. superiore al 90% del
fatturato totale.
Riscossione locale. La proroga a fine anno dell'uscita di
scena di Equitalia dalla riscossione locale viene «ritarata»
in modo da estendersi anche alla riscossione delle entrate
extratributarie (multe). Si precisa che la proroga appena
disposta ad opera del dl 35/2013 sarà l'ultima e per il
futuro l'attività di riscossione delle entrate dei comuni
potrà essere affidata a un consorzio che si avvarrà delle
società del gruppo Equitalia.
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Si rischia di far esplodere il
contenzioso
L'indennizzo da ritardo rischia di far esplodere il
contenzioso. Innanzitutto, è doveroso sottolineare che la
sanzione non scatta, come erroneamente indicato, quale
diretta conseguenza del ritardo. Infatti, il cittadino o
l'impresa che abbia attivato un procedimento amministrativo
deve attendere che spiri inutilmente il termine. A questo
punto, debbono rivolgersi all'autorità titolare del potere
di intervenire in via sostitutiva, ai sensi dell'articolo 2,
commi 9-bis e 9-ter, della legge 241/1990. Ma per aspirare
all'indennizzo, i cittadini dovranno chiedere l'intervento
sostitutivo entro 7 giorni dalla scadenza del termine. Solo
qualora questo soggetto non concluda entro il termine ad
esso assegnato (pari alla metà di quello iniziale), dovrà
pagare l'indennizzo. Laddove il responsabile in via
sostitutiva non liquidi l'indennizzo direttamente, sarà
possibile rivolgersi al Tar perché si pronunci sia
sull'illegittimità del silenzio, sia per ottenere
l'indennizzo. Ma si tratterà di un ricorso oneroso, perché
sarà dovuto il contributo unificato. E qualora il ricorso
venga dichiarato inammissibile, il giudice condannerà il
ricorrente a pagare in favore della p.a. una somma da due
volte a quattro volte il contributo unificato.
Quindi (si veda ItaliaOggi del 15/06/2013) se per una
pratica è previsto il termine ordinario di 30 giorni, la
sanzione scatta solo laddove il responsabile in via
sostitutiva non concluda il procedimento entro l'ulteriore
termine di 15 giorni a lui assegnato, che decorrerà, però,
solo da un'ulteriore istanza del cittadino. Pertanto, il
tempo a disposizione delle amministrazioni per evitare di
incorrere nella sanzione è molto più ampio di quanto a prima
vista possa sembrare.
La cosa che, però, soprattutto rende quasi del tutto priva
di efficacia la norma è il suo ridottissimo campo di
applicazione: la «multa da ritardo» infatti non scatta nelle
«ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici».
Una vastissima gamma di procedimenti amministrativi,
pertanto, risulta totalmente esente. Nelle ipotesi di
«silenzio qualificato» rientrano le fattispecie nelle quali
allo spirare del termine assegnato da norme di legge o
regolamentari per concludere il procedimento, scaturisca,
come conseguenza, il «silenzio-assenso» o il «silenzio
rigetto». Ma mentre quest'ultima ipotesi è residuale e
connessa a specifiche norme di legge, il silenzio-assenso è
la regola generale che si applica a tutti i procedimenti a
istanza di parte, come prevede l'articolo 20 della legge
241/1990.
La gamma, dunque, dell'estensione dei procedimenti esenti da
sanzione è vastissima, con la sola eccezione di qui
procedimenti ad istanza di parte che per espresse
statuizioni normative non possano concludersi col
silenzio-assenso. Visto il clima di sempre minore tolleranza
verso la «burocrazia» e i «costi della politica», la
previsione rischia di essere un boomerang perché potrebbe
innescare un contenzioso amministrativo e giurisdizionale di
vastissima portata
(articolo Italia Oggi del 21.06.2013). |
SICUREZZA LAVORO: Edilizia e piccoli lavori: i «piani» saranno facilitati.
Pos
e Psc. Per i cantieri con durata fino a 10 uomini/giorno.
La semplificazione interessa anche il settore dell'edilizia.
Il decreto legge approvato sabato 15 giugno dal Consiglio
dei ministri limita il campo di applicazione del Titolo IV
del decreto legislativo 09.04.2008, n. 81 (Tu sulla
salute e sicurezza nei luoghi di lavoro) e prevede la
semplificazione dei vari documenti obbligatori.
Il titolo IV del Testo unico detta le misure per la salute e
sicurezza nei cantieri temporanei o mobili alle quali non
sono tenute le attività contenute nell'articolo 88.
Il decreto legislativo 106/2009, al comma 2 dell'articolo 88
ha introdotto la lettera g-bis), che ha previsto, nelle
esclusioni, i lavori relativi a impianti elettrici, reti
informatiche, gas, acqua, condizionamento e riscaldamento
che non comportino lavori edili o di ingegneria civile di
cui all'allegato X.
Il decreto legge a tali attività ha aggiunto i «piccoli
lavori la cui durata presunta non è superiore ai dieci
uomini giorno, finalizzati alla realizzazione o manutenzione
delle infrastrutture per servizi». I limiti sono dunque due:
il primo riguarda la condizione che tali attività non
comportino lavori edili o di ingegneria civile e che la
durata non sia superiore i dieci uomini-giorno, intendendo
per tali la somma delle giornate di lavoro necessarie a
effettuare i lavori considerati con riferimento all'arco
temporale di un anno dall'inizio dei lavori.
L'intervento del legislatore riguarda la semplificazione del
piano operativo di sicurezza (Pos), del piano di sicurezza e
di coordinamento (Psc) e del fascicolo dell'opera.
Si tratta di documenti che impegnano i committenti dei
lavori edili (rientranti nel campo di applicazione di cui al
Titolo IV) e l'impresa esecutrice di tali lavori.
Più in dettaglio il Pos è il documento che il datore di
lavoro dell'impresa esecutrice – in base agli articoli 89,
comma 1, lettera h) e 96, comma 1, lettera g) del Testo
unico– deve redigere in riferimento al singolo cantiere; i
contenuti sono riportati nell'allegato XV.
Il Psc –in base all'articolo 91, comma 1, lettera a)– è
redatto dal coordinatore per la progettazione, i cui
contenuti sono specificati nell'allegato XV al Testo unico.
Esso è costituito –articolo 100, comma 1– da una relazione
tecnica e prescrizioni correlate alla complessità dell'opera
da realizzare ed eventuali fasi critiche del processo di
costruzione, atte a prevenire o ridurre i rischi per la
sicurezza e la salute dei lavoratori. Il Psc è obbligatorio
nei cantieri in cui sia prevista la presenza, anche non
contemporanea, di più imprese esecutrici.
Il fascicolo dell'opera è previsto dall'articolo 91, comma
1, lettera b) ed è redatto dal coordinatore per la
progettazione. Il fascicolo è adattato alle caratteristiche
dell'opera, i cui contenuti sono definiti dall'allegato XVI,
contenente le informazioni utili ai fini della prevenzione e
della protezione dai rischi cui sono esposti i lavoratori,
tenendo conto delle specifiche norme di buona tecnica e
dell'allegato II al documento UE del 26.05.1993.
Esso, tuttavia, non viene predisposto nel caso di lavori di
manutenzione ordinaria di cui all'articolo 3, comma 1,
lettera a), del Dpr 380/2001 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di edilizia).
In merito a tali documenti il decreto legge, introducendo
l'articolo 104-bis al Tu sulla sicurezza, stabilisce che con
decreto del ministro del Lavoro, di concerto con quello
delle Infrastrutture, sentita la Commissione consultiva
permanente per la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e
la conferenza permanente Stato-Regioni e province autonome
di Trento e Bolzano, saranno individuati modelli
semplificati.
L'articolo 32, comma 2, del decreto legge, stabilisce
altresì che il decreto ministeriale sarà emanato entro 60
giorni dalla data della sua entrata in vigore.
L'utilizzo dei modelli semplificati non ha rilevanza sugli
altri obblighi, comunque correlati alla documentazione
obbligatoria
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: CONSIGLIO
DEI MINISTRI/ Completato il secondo tassello del pacchetto
crescita.
Semplificazioni a costo zero.
Meno oneri per cittadini, imprese, fisco, edilizia.
Una manovra a costo zero, con quattro deleghe legislative e
tante norme destinate nelle intenzioni del governo a
semplificare la vita a cittadini e imprese.
Con
l'approvazione del
ddl semplificazioni il consiglio dei
ministri di ieri ha completato il secondo tassello del
pacchetto crescita. Il primo è rappresentato dal decreto
legge, cosiddetto «del fare», approvato sabato scorso e non
ancora pubblicato in Gazzetta in modo da potervi inserire
alcune modifiche dell'ultim'ora (su tutti la proroga della
Tobin Tax).
Il testo del dl è stato definitivamente
licenziato ieri assieme al ddl che istituisce il tutor
d'impresa per gestire l'avvio e la conclusione dei
procedimenti amministrativi (si veda ItaliaOggi di ieri),
cancella l'obbligo di dichiarazione all'ufficio del registro
se l'eredità al coniuge o ai parenti diretti non supera i 75
mila euro e contiene una delega al governo per intervenire
con un nuovo «taglia-leggi».
Secondo il ministro della
Funzione pubblica Gianpiero D'Alia, «si tratta di norme
funzionali alla riduzione degli oneri amministrativi e
informativi a carico di cittadini e imprese e utili per il
rilancio dell'economia e l'ammodernamento del sistema
paese». E a questo proposito palazzo Chigi ha sottolineato
come le misure fino ad oggi adottate, comprese quelle
contenute nel «Semplifica Italia», abbiano consentito di
realizzare un risparmio stimato, a regime, di circa 9
miliardi di euro.
Semplificazioni per i cittadini. Si prevede il rilascio, a
richiesta dell'interessato, dei titoli di studio in lingua
inglese, in modo che possano essere utilizzati all'estero
senza necessità di costose traduzioni asseverate.
Vengono inoltre riuniti gli adempimenti relativi al cambio
di residenza e al pagamento della Tares. E ancora, si
semplificano le comunicazioni al Pubblico registro
automobilistico (Pra). I cittadini non dovranno più
comunicare al Pra le perdite di possesso per furto ed i
cambi di residenza, che verranno acquisiti d'ufficio.
Si
porrà fine, inoltre, alle intestazioni fittizie dei veicoli,
perché sarà necessario produrre l'atto sottoscritto non solo
dal venditore ma anche dall'acquirente per procedere al
passaggio di proprietà. Ogni variazione riguardante la
proprietà del veicolo verrà immediatamente e gratuitamente
comunicata dal Pra all'interessato con e-mail o sms.
Semplificazioni per le imprese. Il ddl introduce la figura
di un tutor per le imprese che le segue passo passo nella
loro attività, dall'inizio alla conclusione dei
procedimenti. Il tutor informerà gli imprenditori sulle
normative applicabili e su tutti gli adempimenti necessari
per l'esercizio dell'attività produttiva.
In materia di beni culturali si facilita il fund raising sul
territorio, anche di modico valore, da destinare a
interventi di tutela dei beni culturali o paesaggistici,
analogamente a quanto avviene in altri Paesi europei.
Edilizia. Si semplifica la realizzazione di varianti ai
permessi di costruire che non costituiscono variazioni
essenziali, assoggettandole alla Scia. Ciò può avvenire a
condizione della conformità alle prescrizioni urbanistico-edilizie e dell'avvenuta acquisizione degli atti
di assenso in materia ambientale e paesaggistica, nonché di
quelli previsti dalle altre norme di settore aventi
incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e in
particolare delle norme antisismiche, di sicurezza,
antincendio, igienico-sanitarie e di quelle relative
all'efficienza energetica.
Appalti. Si modifica il codice dei contratti pubblici,
semplificando le procedure per agevolare la partecipazione
alle gare da parte delle piccole e medie imprese. In
particolare, si prevede che le stazioni appaltanti devono
motivare le ragioni della mancata suddivisione dell'appalto
in lotti; l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici
vigilerà sul rispetto di tale adempimento. Al fine di
promuovere lo sviluppo del partenariato pubblico privato, si
riconosce alle amministrazioni aggiudicatrici la possibilità
di far ricorso a centrali di committenza, anche per
l'affidamento dei contratti di concessione di lavori.
Semplificazioni fiscali. Quando il valore dell'eredità non
supera i 75.000 euro i beneficiari sono esonerati dalla
dichiarazione se si tratta di coniuge o parenti in linea
retta e se l'eredità non comprende immobili o diritti reali
immobiliari. Attualmente la soglia per l'esonero è fissata
in 50 milioni di lire.
Si stabilisce inoltre che gli interessi sui rimborsi dei
crediti di imposta siano erogati contestualmente al rimborso
stesso senza che il contribuente debba presentare apposita
istanza. In materia di spese di rappresentanza viene portato
a 50 euro (da 25,82 euro) il valore unitario degli omaggi
per cui è ammessa la detrazione Iva. In questo modo il
valore per la detrazione Iva viene uniformato a quello della
deducibilità ai fini delle Imposte sui redditi.
E ancora, si prevede l'eliminazione della preventiva
autorizzazione per poter dedurre quote di ammortamento
finanziario in caso di concessioni relative alla costruzione
e all'esercizio di opere pubbliche. In materia di società
tra professionisti, viene chiarito che ad esse si applica,
anche ai fini Irap, il regime Fiscale delle associazioni
senza personalità giuridica costituite tra persone fisiche
(articolo Italia Oggi del 20.06.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Varianti
private a lavori in corso.
Possibile modificare il permesso di costruire. Più veloce
avviare le bonifiche sottoposte a Via.
PROCEDURA SEMPLIFICATA/
Se non interverrà il rigetto motivato dell'istanza entro 90
giorni potranno essere avviati i lavori per la messa in
sicurezza dei suoli.
Sarà più facile apportare piccole varianti ai cantieri
privati. E i piccoli comuni potranno appoggiarsi a strutture
più solide (centrali di committenza) per studiare e gestire
operazioni di project financing utili a realizzare opere
pubbliche con capitali privati. Per le operazioni di
bonifica o di messa in sicurezza dei suoli viene invece
introdotta una procedura semplificata che consente l'avvio
dei lavori entro 90 giorni dalla presentazione della domanda
di Via o di Vas al ministero dell'Ambiente, qualora non sia
intervenuto il rigetto motivato dell'istanza.
Sono tre novità contenute nel Ddl semplificazioni approvato
dal Governo, con l'obiettivo di snellire le procedure nel
campo degli interventi edilizi pubblici e privati. Misure
pensate per fare da “spalla” agli interventi varati con il
decreto approvato venerdì scorso.
La possibilità di apportare varianti in corso d'opera ai
permessi di costruire avverrà attraverso una più semplice
segnalazione certificata di inizio attività (la cosiddetta
Scia). Una via possibile a patto che si tratti di varianti
«non essenziali» al progetto e conformi alle prescrizioni
urbanistiche e alle norme. Prevista anche una stretta sulla
possibilità di raddoppiare i termini di 60 giorni per
l'istruttoria sui permessi di costruire. Prima la
possibilità era ammessa nelle città sopra i 100mila abitanti
oppure per progetti particolarmente complessi. Ora la doppia
opzione sparisce: si potrà fare solo per progetti
particolarmente complessi nelle grandi città.
Le centrali di committenza mirano invece a dare un impulso
alle partnership tra Pa e privati per la realizzazione di
piccole opere pubbliche. Viene estesa la possibilità di
ricorrervi per concessioni e project financing, oltre che
per gli appalti di tipo tradizionale. L'obiettivo è chiaro:
agevolare le piccole amministrazioni a corto di
professionalità, ma comunque intenzionate a coinvolgere i
privati nel finanziamento dei cantieri. Riguarda le
operazioni di project financing anche un altra novità
inserita all'ultimo momento nel Ddl. In caso di risoluzione
del contratto con il concessionario gli «enti finanziatori»
potranno evitare di mandare a monte il contratto trovando
una società capace di subentrare nel rapporto in un termine
non inferiore a 120 giorni.
Non hanno invece trovato posto nel Ddl le norme che
puntavano a far saltare il tetto del 20% alle riserve,
inserito nel codice degli appalti con il primo decreto
sviluppo (Dl 70/2011) per limitare le richieste risarcitorie
avanzate dai costruttori a valle dell'aggiudicazione. Un
fenomeno che spesso porta alla lievitazione del costo delle
opere rispetto a quanto preventivato con l'assegnazione
dell'incarico in gara.
A quanto risulta, nel corso del
Consiglio sarebbe stato espunto dal testo del provvedimento
anche l'obbligo di suddividere gli appalti in lotti per
favorire la partecipazione delle Pmi al mercato degli
appalti, che pure era presente nel testo entrato a Palazzo
Chigi
(articolo Italia Oggi del 20.06.2013). |
APPALTI: «Solidarietà»
per le ritenute.
Le imprese dovranno ottenere un'autocertificazione sulla
regolarità dei versamenti.
LE CONTROMISURE/ La norma viene neutralizzata anche con
l'acquisizione della documentazione o con l'asseverazione di
un professionista.
La responsabilità solidale fiscale negli appalti privati
resta per le ritenute di lavoro dipendente che il
subappaltatore e l'appaltatore debbono versare all'erario in
ragione delle prestazioni realizzate.
Questa situazione, che dovrà essere confermata dal testo
definitivo del decreto approvato dal Consiglio dei ministri
del 15 giugno, fa risorgere, almeno in parte le
preoccupazioni che sul tema le imprese avevano manifestato
nei mesi scorsi. In parte perché le modifiche appena
apportate sollevano appaltatori e committenti dagli obblighi
con riferimento all'Iva.
Certamente, però, anche con questa
limitazione gli appaltatori e i committenti per evitare
rispettivamente l'applicazione di una responsabilità
solidale (subappaltatore-appaltatore) o di una
"responsabilità sanzionatoria" (committente-appaltatore)
devono acquisire la documentazione ovvero devono ottenere
un'asseverazione da parte di professionisti abilitati ovvero
(come ha interpretato l'agenzia delle Entrate con la
circolare 40/E/2012) devono ottenere dal fornitore
un'apposita autocertificazione che attesti che il prestatore
del servizio abbia regolarmente effettuato le ritenute di
lavoro dipendente.
È auspicabile che l'adempimento che non è certamente di
facile realizzazione e, come più volte sottolineato, di poca
utilità venga soppresso e possibilmente sostituito con
un'attività di controllo preventivo delle autorità
pubbliche.
A dire il vero questa forma di responsabilità solidale era
già prevista dalla versione originaria del decreto legge
223/2006, anche se, all'epoca la norma era naufragata per
effettiva impraticabilità.
Anche nel 2006, infatti, la responsabilità solidale veniva
meno con l'acquisizione da parte dell'appaltatore, prima del
pagamento del corrispettivo, della documentazione che
comprovava il corretto adempimento da parte del
subappaltatore. Per l'individuazione dell'idonea
documentazione la norma rinviava a un decreto ministeriale,
decreto che è stato emanato nel 2008 (Dm 74 del 25.02.2008). Successivamente le norme che definivano l'attuazione
dell'adempimento e lo stesso decreto sono stati abrogati
dall'articolo 3, comma 8, del Dl 97/2008.
A proposito del decreto 74/2008 è interessante notare che il
legislatore dell'epoca aveva previsto un F24 specifico per
ogni appalto. Pertanto l'appaltatore avrebbe dovuto ricevere
dal subappaltatore un F24 per ogni appalto che aveva in
piedi con lui e, di fatto, in questo modo poteva (anche in
quel caso solo in modo forfettario) verificare se il
versamento delle ritenute era coerente con il numero di
lavoratori impiegati nel relativo appalto. L'F24, inoltre,
era comunque accompagnato da un'autocertificazione del
subappaltatore.
La situazione attuale è più complicata, in quanto la norma
non prevede alcuna forma di versamento dedicato. Pertanto,
nell'attuale quadro normativo sia l'appaltatore che il
committente devono acquisire una documentazione ovvero
un'autocertificazione dal rispettivo fornitore con
riferimento all'appalto.
È chiaro che la soluzione che si può scegliere è quella di
acquisire l'autocertificazione (ammessa dall'agenzia delle
Entrate). Nell'autocertificazione comunque dovrà comparire,
come ribadito da ultimo da Assonime nella circolare 18 del
12.06.2013, l'indicazione del periodo nel quale le
ritenute sui redditi di lavoro sono state versate, mediante
scomputo totale o parziale; l'indicazione degli estremi del
modello F24 con il quale le ritenute, non scomputate, sono
state versate.
È importante, inoltre, prevedere specifiche clausole
contrattuali per evitare che il fornitore subappalti senza
autorizzazione il lavoro. Infine è necessario, acquisire
informazioni sul fornitore per evitare di essere coinvolto
in comportamenti fraudolenti.
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L'impatto. Il confronto con la previdenza.
Regole più severe sul fronte fiscale.
LA PENALIZZAZIONE/ Per l'erario non vale il limite temporale
dei due anni dalla cessazione dei lavori.
Responsabilità "solidale" double face. L'intervento operato
dal legislatore, teso a eliminare il riferimento agli
obblighi Iva non modifica contenuti e procedure della
responsabilità fiscale per omissioni altrui e lascia
invariata l'asimmetria che sussiste tra questa disciplina e
quella prevista dall'articolo 29, comma 2 del decreto
legislativo 276/2003.
Quest'ultima prevede un vincolo di
solidarietà, in caso di appalto di opere o servizi, tra
committente, appaltatore e ciascuno degli eventuali
subappaltatori in relazione ai trattamenti retributivi
(comprese le quote di Tfr), ai contribuiti previdenziali e
ai premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di
esecuzione del contratto. Nonostante le norme abbiano
efficacia nei confronti delle medesime tipologie
contrattuali, ed abbiano entrambe lo scopo di assicurare
all'Erario la possibilità di recuperare gli omessi
versamenti "risalendo" la catena dell'appalto, il
funzionamento delle due disposizioni è significativamente
differente (si veda la tabella a lato). A cominciare dai
soggetti interessati: fiscalmente, si parla di
responsabilità solidale unicamente in capo all'appaltatore
(il committente può essere "solo" fatto oggetto di sanzioni,
per quanto "salate"), mentre il Dlgs n. 276/2003 prevede che
la solidarietà si estenda a tutti gli anelli della catena.
Ci sono alcuni aspetti in cui la norma tributaria è meno
"severa" (previsione della attestazione di regolarità come
"scudo" contro la solidarietà, limitazione all'importo del
corrispettivo contrattuale) rispetto a quella retributiva e
contributiva (dove l'attestazione non è prevista e non sono
previsti limiti quantitativi).
A ben vedere, tuttavia, sotto molti altri aspetti è la norma
tributaria a risultare più penalizzante, poiché non prevede
né il beneficio della preventiva escussione del soggetto
"infedele", né il limite temporale di due anni dalla
cessazione dei lavori, né l'esonero del soggetto "solidale"
dalle sanzioni di cui è chiamato a rispondere colui che ha
omesso i versamenti. Dal lato dei soggetti tutelati, i
verificatori che vigilano sull'applicazione del Dlgs n.
276/2003 hanno in questi anni mostrato di interpretare il
termine "lavoratori" in una accezione molto ampia (ad
esempio collaboratori, associati, soggetti "in nero"),
secondo una lettura che la norma fiscale -letteralmente più
puntuale- non sembra poter offrire.
Anche nell'esclusione delle forme contrattuali assimilabili
all'appalto l'agenzia delle Entrate ha mostrato di voler
tracciare confini molto distinti, spesso disapplicati in
campo previdenziale. Sarebbe opportuno, a questo punto,
creare una disciplina omogenea
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.06.2013). |
APPALTI: Certificazione
a durata doppia.
Ampliata da tre mesi a 180 giorni la validità del Durc nei
contratti pubblici.
L'OPPORTUNITÀ/
Il consulente del lavoro potrà ricevere l'invito a
regolarizzare entro 15 giorni la posizione dell'azienda.
Viene ampliata da tre mesi a 180 giorni la durata della
validità del Durc emesso nell'ambito dei contratti pubblici.
È sicuramente questa la principale novità introdotta
dall'articolo 31 del decreto del Fare, norma inserita
all'interno del pacchetto delle semplificazioni
amministrative e specificatamente dedicata al documento
unico di regolarità contributiva rilasciato per i contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture.
L'altra importante modifica, da leggere sempre nell'ottica
dello snellimento della procedura amministrativa consiste
nella possibilità di utilizzare il medesimo Durc in corso di
validità anche per più di una delle fasi in cui la medesima
procedura si sviluppa.
In particolare il comma 5 dell'articolo 31 consente di
utilizzare il documento acquisito nella prima fase, e cioè
per la verifica della dichiarazione sostitutiva, anche nelle
ulteriori due e cioè per l'aggiudicazione e per la stipula
del contratto. Nelle fasi successive invece il documento
dovrà essere acquisito ogni 180 giorni, mentre uno nuovo
sarà sempre necessario per consentire il saldo finale.
Innovativa è altresì l'indicazione del consulente del lavoro
come uno dei soggetti deputati a ricevere a mezzo posta
elettronica certificata l'eventuale invito da parte degli
Enti preposti al rilascio del documento (Inps, Inail, Casse
Edili) di regolarizzare la posizione dell'azienda irregolare
entro i successivi 15 giorni.
Nel riscrivere parzialmente il testo dell'articolo 6 del Dpr
n. 207//2010, regolamento attuativo del codice dei contratti
dei lavori pubblici, la nuova norma del decreto del fare
individua come soggetti tenuti ad acquisire direttamente e
per via telematica il documenti tutti quelli contemplati
dalla lettera b) del comma 1 dell'art. 3 del medesimo
decreto di attuazione, cioè tutti quelli tenuti
all'applicazione del codice degli appalti dei lavori
pubblici.
Oltre alle novità "vere", il provvedimento ripropone alcune
regole già introdotte da norme precedenti, in parte
correggendo ed integrandone i testi ed in parte estendendone
il campo di applicazione. La tecnica legislativa non è delle
migliori, in quanto manca ogni coordinamento tra norme
vecchie e norme nuove.
Il comma 4 dell'articolo 31 del Dl ripropone infatti
sostanzialmente le stesse disposizioni contenute nel comma 3
dell'articolo 6 del Dpr 207/2010 e cioè l'acquisizione
d'ufficio del Durc in corso di validità, attraverso
strumenti informatici nelle 5 fasi della procedura (verifica
della dichiarazione sostituiva, aggiudicazione del
contratto, stipula del contratto, pagamento degli stati di
avanzamento lavori e certificato di collaudo e/o regolare
esecuzione e pagamento del saldo).
La novità principale è che mentre nel testo del 2010
l'acquisizione d'ufficio era obbligatoria solo per le
«amministrazioni aggiudicatrici», ora l'obbligo riguarda
tutti i soggetti di cui all'articolo 3, comma 1, lettera b)
dello stesso Dpr 207/2010 (oltre alle amministrazioni
aggiudicatrici, gli organismi di diritto pubblico, gli enti
aggiudicatori, gli altri soggetti aggiudicatoti, i soggetti
aggiudicatori e le stazioni appaltanti) .
Anche se dal testo del decreto legge non si evince, il comma
3 dell'articolo 6 del Dpr 207/2010 deve considerarsi a
questo punto abrogato, perché non più compatibile con le
nuove disposizioni. Ai fini di una migliore comprensione
sarebbe stato meglio però sostituirlo direttamente con i
commi 4 e 5 del decreto legge Fare.
Analoghe considerazioni si possono fare per la previsione
dell'intervento sostitutivo in caso di inadempienza
contributiva dell'esecutore e del subappaltatore. Il comma 2
dell'articolo 4 del Dpr 207/2010 aveva già previsto che «in
caso di ottenimento da parte del responsabile del
procedimento del documento unico di regolarità contributiva
che segnali un'inadempienza contributiva relativa a uno o
più soggetti impiegati nell'esecuzione del contratto, il
medesimo trattiene dal certificato di pagamento l'importo
corrispondente all'inadempienza. Il pagamento di quanto
dovuto per le inadempienze accertate mediante il documento
unico di regolarità contributiva è disposto dai soggetti di
cui all'articolo 3, comma 1, lettera b), direttamente agli
enti previdenziali e assicurativi, compresa, nei lavori, la
cassa edile».
Il comma 3 del Dl del Fare contiene disposizioni identiche
salvo richiamare anche in questo caso i soggetti di cui
all'articolo 3, comma 1, lettera b), del DPR 207/2010 come
quelli che hanno ottenuto il Durc risultato irregolare
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
SEMPLIFICAZIONI/ Le comunicazioni Tares saranno contestuali
al cambio di residenza.
Imprese, un tutor in comune. Il responsabile dello sportello
unico aiuterà gli imprenditori.
Un angelo custode che prenderà per mano le imprese
aiutandole a districarsi nel groviglio della burocrazia.
Il
«tutor d'impresa» è la nuova figura a cui il ddl
semplificazioni (che assieme al decreto legge con le
disposizioni sulla crescita completa il pacchetto sviluppo
del governo Letta) affida il compito di far definitivamente
decollare gli sportelli unici per le attività produttive
istituiti dai comuni.
Sarà infatti il responsabile del Suap a dover assumersi il
compito di assistere gli imprenditori dall'avvio alla
conclusione dei procedimenti, informandole sulla normativa e
sugli adempimenti richiesti.
Qualora il comune non istituisca la figura del tutor
d'impresa, gli imprenditori potranno rivolgersi alla regione
affinché, in collaborazione con gli altri sportelli unici
presenti sul territorio, provveda a fornire assistenza e
informazione. Le best practice in materia serviranno come
modello per gli altri e per questo dovranno essere
pubblicate (a cura dei ministeri della funzione pubblica e
dello sviluppo economico in collaborazione con regioni, Anci,
Unioncamere e associazioni di imprese) sul portale
www.impresainungiorno.it
Tassa rifiuti senza scorciatoie. Per i comuni sarà più
agevole individuare i soggetti passivi Tares, ma anche
coloro che, essendosi trasferiti, non sono più tenuti al
pagamento del tributo. Il ddl semplificazione impone infatti
ai municipi di acquisire all'atto del cambio di residenza
«le dichiarazioni di iscrizione, variazione o cessazione
relative al tributo con riferimento alle unità abitative
coinvolte dalla variazione anagrafica».
Reati ambientali. Il ddl contiene anche la delega al governo
per riformare l'attuale codice dell'ambiente (dlgs
n. 152/2006). Tra i nuovi criteri che orienteranno l'attività
del legislatore c'è la ricognizione e il riassetto dei reati
ambientali. L'obiettivo è depenalizzare gli illeciti contravvenzionali puniti con la sola pena pecuniaria (o con
multa alternativa all'arresto fino a un anno) trasformandoli
in illeciti amministrativi che però dovranno essere puniti
con sanzioni «adeguate, proporzionate, efficaci ed
effettive». Il giro di vite prevede l'aumento fino al triplo
delle ammende, mentre gli attuali illeciti ambientali contravvenzionali, puniti con l'arresto pari o superiore a
due anni, dovranno essere trasformati in delitti.
Trasmissione dati dei comuni. Anche il riordino degli oneri
informativi a carico dei comuni sarà oggetto di delega. La
tempistica sarà molto stretta (120 giorni dall'entrata in
vigore del ddl) e l'iniziativa dovrà essere presa dagli
Affari regionali e da palazzo Vidoni. Dovranno essere
eliminati gli obblighi di comunicazione di dati che sono
accessibili direttamente sui siti web dei comuni.
Richieste al Pra tramite Pec. Le istanze inoltrate dalle
p.a. al Pubblico registro automobilistico (Pra) dovranno
essere inviate tramite posta elettronica certificata o
tramite apposita procedura telematica predisposta dall'Aci.
Dal 01.07.2014 le richieste di aggiornamento degli
archivi del Pra dovranno essere trasmesse solo con modalità
telematica.
Certificati medici di gravidanza, ci pensa il medico. Il
certificato medico di gravidanza attestante la data presunta
del parto e valido ai fini della richiesta di maternità
obbligatoria dovrà essere trasmesso all'Inps direttamente
dal medico del Servizio sanitario nazionale tramite il
canale telematico di trasmissione dei certificati medici.
Analogamente sarà l'ospedale a dover comunicare all'Inps il
certificato di parto (si veda ItaliaOggi del 15/6/2013).
La
norma torna all'interno del «decreto Fare» dopo essere stata
momentaneamente trasferita nel ddl semplificazioni. Il
decreto legge, approvato sabato dal cdm in una formulazione
aperta e ancora suscettibile di modifiche (tra i correttivi
dell'ultim'ora si segnala la proroga della Tobin Tax) sarà
definitivamente licenziato oggi da palazzo Chigi assieme al
ddl
(articolo Italia Oggi del 19.06.2013). |
VARI: All'usufruttuario
spettano le spese di manutenzione.
«Qualora un appartamento sito in condominio sia oggetto di
usufrutto, l'usufruttuario è tenuto al pagamento delle spese
di amministrazione e di manutenzione ordinaria del
condominio, mentre il nudo proprietario non vi è tenuto,
neppure in via sussidiaria o solidale. Peraltro, ove il nudo
proprietario agisca nei confronti dell'usufruttuario per il
rimborso di spese attinenti ai servizi comuni da lui
sostenute, nel relativo giudizio è consentito
all'usufruttuario contestare il debito sul rilievo del
mancato godimento di tali servizi».
È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con la
sentenza (inedita) n. 2236/2012
(articolo Italia Oggi del 19.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Con il ddl suolo l'uso agricolo è blindato.
Divieto di utilizzo per uno scopo diverso da quello
agricolo, per almeno cinque anni dall'ultima erogazione, dei
terreni agricoli che hanno usufruito di aiuti di Stato o di
aiuti comunitari. Incentivato il recupero del patrimonio
edilizio rurale per favorire l'attività di manutenzione,
ristrutturazione e restauro degli edifici esistenti, anziché
l'attività di edificazione e costruzione di nuove linee
urbane, attraverso priorità nella concessione di
finanziamenti statali e regionali previsti in materia
edilizia.
Istituito un registro presso il Ministero delle politiche
agricole in cui i comuni «virtuosi» interessati, i cui
strumenti urbanistici non prevedono l'aumento di aree
edificabili o un aumento inferiore al limite fissato,
possono chiedere di essere inseriti. I proventi dei titoli
abilitativi edilizi saranno destinati esclusivamente alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e
secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei
centri storici, a interventi di qualificazione dell'ambiente
e del paesaggio, anche ai fini della messa in sicurezza
delle aree esposte a rischio idrogeologico.
Queste alcune delle misure contenute nel
disegno di legge in
materia di contenimento del consumo del suolo e riuso del
suolo edificato, approvato sabato scorso dal consiglio dei
ministri (si veda ItaliaOggi del 12 giugno scorso).
«Abbiamo previsto un meccanismo per fissare l'estensione
massima di superficie consumabile, attraverso il forte
coinvolgimento anche delle regioni e degli enti locali, in
una battaglia che è di tutti per un bene fondamentale come
la terra», commenta il ministro delle politiche
agricole, Nunzia De Girolamo.
Il ddl prevede che tale coinvolgimento degli enti porti a
fissare l'estensione massima di terreni agricoli
consumabili, con verifica ogni dieci anni dello stato
dell'arte
(articolo Italia Oggi del 19.06.2013). |
ENTI LOCALI: Spending
review. Proroga di sei mesi dei termini per la chiusura o
l'affidamento esterno dei servizi.
Società in house, slittano i tagli.
PIÙ TEMPO AI COMUNI/
Per selezionare le aziende multiservizi ora serve un tavolo
ministeriale: in ballo 3.400 aziende con 250mila dipendenti.
Arriva una proroga di sei mesi dei termini previsti dalla
spending review per lo scioglimento delle società
controllate dalle pubbliche amministrazioni o
l'esternalizzazione dei servizi da esse prestate. Gli enti
titolari di queste società multiservizi (le quali devono
aver fatturato fino al 90% delle loro prestazioni per l'ente
controllante) erano tenuti ad alienare le relative
partecipazioni entro il 30.06.2013. E contestualmente
avrebbero dovuto ri-assegnare il servizio prestato per
cinque anni a decorrere dal 01.01.2014. I due termini
vengono ora allineati e spostati in avanti di sei mesi
dall'articolo 49 del decreto legge "del fare". In ballo,
secondo dati di Unioncamere, ci sono circa 3.400 società e
almeno 240mila dipendenti.
Con i nuovi termini il Governo
prende tempo su un fronte rimasto finora trascurato
nell'ambito delle vaste razionalizzazioni delle attività
delle amministrazioni centrali e periferiche previste dal
decreto 95 dell'estate scorsa. Entro lo scorso aprile si
sarebbe dovuto emanare un Dpr, sentita anche la Conferenza
unificata, per definire i criteri con cui procedere
all'individuazione degli enti e degli organismi da
razionalizzare ma non è stato fatto. Per le società in house
si sarebbe poi dovuto procedere alla definizione di una
sorta di anagrafe nazionale per selezionare quelle
prestatrici di servizi da affidare a gara e quelle invece da
chiudere, con la conseguente scelta di affidare all'esterno
il servizio prestato nel rispetto della normativa
comunitaria e nazionale.
La mancanza di un monitoraggio di questa razionalizzazione
non consente, in questa fase, neppure di conoscere se e in
quanti casi sono stati rispettati altri vincoli, come per
esempio il taglio degli organi amministrativi delle società,
che si sarebbero dovuti ridurre a non più di tre
rappresentanti (uno dei quali con la carica di
amministratore delegato) di cui due dipendenti
dell'amministrazione titolare della partecipazione o di
poteri di indirizzo e vigilanza, scelti d'intesa tra le
amministrazioni medesime, per le società a partecipazione
diretta.
La questione delle società controllate e degli enti
strumentali s'intreccia con l'acuirsi della crisi contabile
di diverse amministrazioni locali, come per esempio il
comune di Alessandria, quello di Napoli, o quello di Reggio
Calabria, in situazione di pre-dissesto finanziario. In
questi casi oltre alla destinazione del servizio prestato
dalle società in house si porrebbe anche il problema di come
gestire il personale eventualmente dichiarato in esubero.
Dopo il rinvio c'è da aspettarsi l'apertura di un tavolo
ministeriale anche con il titolare del dicastero per gli
Affari regionali
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.06.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI: «L'indennizzo
parte dalle aziende».
«Dopo 18 mesi di monitoraggio, i rimborsi saranno estesi a
tutti i cittadini».
«Per i dirigenti ci sarà uno stimolo esterno che indurrà a
comportamenti virtuosi».
L'indennizzo monetario per il ritardo nella conclusione di
un procedimento amministrativo partirà per i procedimenti
relativi alle attività di impresa e avrà una durata e un
carattere sperimentale. Solo dopo 18 mesi di monitoraggio,
termine che scatta con l'entrata in vigore della legge di
conversione del decreto "del fare", i rimborsi verranno
estesi a tutti i cittadini.
A svelare gli ultimi dettagli di questo meccanismo di
risarcimento, la cui misura è automatica, è il ministro
della Pa e della Semplificazione, Gianpiero D'Alia, che oggi
porterà in Consiglio dei ministri il disegno di legge che
introduce una nuova ondata di semplificazioni per cittadini
e imprese.
Ministro perché non siete partiti subito con gli indennizzi
per tutti?
Perché si tratta di una misura estremamente delicata e va
introdotta con attenzione e un puntuale monitoraggio. Si è
discusso molto in Consiglio e abbiamo deciso di partire
dalle imprese perché sono questi i soggetti che in questa
fase di crisi hanno bisogno del massimo delle certezze sui
tempi della Pa. Prima di estendere gli indennizzi ai
cittadini, che per esempio potrebbero rivalersi sui ritardi
con cui l'Inps eroga una prestazione, vogliamo vedere bene
l'impatto della norma.
Una misura destinata a rilanciare la responsabilità dei
dirigenti negli uffici pubblici.
Credo molto nel meccanismo di stimolo esterno che induce a
comportamenti virtuosi delle amministrazioni. L'imprenditore
che non vede rispettata una scadenza può chiedere conto al
responsabile della procedura e chiedere un decreto
ingiuntivo per l'indennizzo al giudice. I rimborsi saranno
di 30 euro al giorno per ogni giorno dopo la scadenza fino a
un massimo di 2mila euro.
Non teme una valanga di ricorsi?
Abbiamo introdotto una norma filtro contro i ricorsi
inammissibili: in caso di liti temerarie il ricorrente
rischia di dover pagare lui una multa da 2 a 4 volte il
contributo unificato. . Ma non sono preoccupato di un
assalto alla Pa. Penso invece che questo strumento, che
entra in vigore subito, saprà far emergere con velocità
aspetti e situazioni patologiche, laddove esistono, e a
pagare, in termini di valutazioni disciplinari, saranno i
dirigenti inefficienti e responsabili dei troppi indennizzi
che hanno dovuto pagare.
Un monitoraggio ci sarà anche per il sistema delle date
uniche degli obblighi amministrativi?
Anche quella misura sarà analizzata a fondo. Attuiamo anche
in Italia una misura prevista dallo Small business act
europeo. Si darà certezza alle imprese e ai cittadini sullo
scadenzario degli atti amministrativi che diventa
obbligatorio per tutti fatte salve alcune situazioni
eccezionali che dovranno essere sempre motivate.
Ministro, il decreto contiene misure che dimostrano il
successo dell'attività di misurazione degli oneri
amministrativi. Dopo queste nuove semplificazioni il Moa
andrà avanti?
L'area di intervento del decreto riguarda oneri
amministrativi stimati in 7,7 miliardi l'anno per il sistema
delle imprese, oneri che possono essere ridotti per circa
450 milioni. Penso ad aree di intervento come l'edilizia,
con tagli di oneri per 500 milioni o alle misure in materia
di comunicazioni formali per la sicurezza sul lavoro. Questi
interventi andranno avanti e l'attività di misurazione degli
oneri amministrativi da aggredire e ridurre verrà
istituzionalizzata con un tavolo cui parteciperanno
stabilmente Regioni e amministrazioni locali. Dico di più:
con l'Agenda delle semplificazioni contenuta nel disegno di
legge che si discuterà in Consiglio dei ministri si ridarà
vita alla legge annuale di semplificazione.
Il disegno di legge contiene quattro deleghe con una
prospettiva di una nuova delegificazione.
Ne parlerei con cautela, deve ancora essere approvato.
Dalle bozze in circolazione si intuiscono misure importanti
per cittadini e imprese. Perché non le avete messe nel
decreto?
Molte misure non hanno un carattere di necessità e urgenza e
le deleghe non possono essere messe in un decreto.
Quali sono le novità più importanti per le imprese?
Credo molto nel tutor d'impresa da attivare presso la rete
degli sportelli delle Camere di commercio: deve fare da
battistrada per la gestione di tante procedure
amministrative. Ma ci sono semplificazioni importanti anche
in materia ambientale, si velocizzano le procedure per le
bonifiche, per esempio, una misura che in tre anni può
attivare nuovi investimenti per 4 miliardi di euro.
E per i cittadini?
Credo che la norma che cancella gli oneri di comunicazione
per le successioni fino a 75mila euro rappresenti un atto di
giustizia sociale, prim'ancora che una semplificazione come
le altre. Ma ripeto, il provvedimento è all'esame domani
(oggi per chi legge; ndr) e la cautela è d'obbligo
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.06.2013). |
APPALTI: Solidarietà,
abrogazione parziale.
Resta la responsabilità per i versamenti che riguardano
retribuzioni e contributi.
IL PROBLEMA/
Le società devono prevedere forme di controllo interno sui
fornitori per evitare di finire vittime delle frodi altrui.
Il decreto legge approvato sabato scorso dal Consiglio dei
ministri ha abrogato la responsabilità solidale Iva nei
rapporti tra appaltatore e subappaltatore e la relativa
"responsabilità sanzionatoria" prevista tra appaltatore e
committente.
Attenzione, però: il decreto non interviene sulla
responsabilità solidale contributiva relativa alle ritenute
d'imposta di lavoro dipendente. La norma finale lascia,
infatti, inalterate le regole in materia di lavoro (si veda
sull'argomento l'articolo pubblicato in questa stessa
pagina). In particolare, il decreto prevede un intervento
chirurgico all'articolo 35 del Dl 223/2006 abrogando solo i
riflessi Iva della normativa.
L'abrogazione della responsabilità solidale Iva negli
appalti è sicuramente una scelta attesa, sperata e
sicuramente giusta.
In effetti, il provvedimento governativo, anticipando una
probabile bocciatura comunitaria della norma, ha il merito
di aver cancellato un adempimento che aveva creato per le
imprese degli oneri del tutto sproporzionati. Inoltre,
l'adempimento, nella sua concreta attuazione, era del tutto
inefficace rispetto agli scopi per cui era stata approvato,
essendosi ridotto a un mero formalismo con l'acquisizione
meccanica di un'autocertificazione del fornitore.
La norma, però, seppur del tutto inadeguata, si proponeva di
ridurre un fenomeno di frode Iva legato all'emissione da
parte dei fornitori di fatture soggettivamente inesistenti.
Il fenomeno sta rapidamente coinvolgendo molti
cessionari/committenti, in molti casi, del tutto
inconsapevoli. Nel corso degli ultimi anni, anche a causa
della grave crisi finanziaria, molti operatori sono caduti
nella trappola di fornitori scaltri che attraverso la frode
Iva erano in grado di vendere beni e servizi a prezzi
notevolmente inferiori. La frode si realizza seguendo uno
schema ormai ben consolidato: il fantomatico fornitore si
interpone tra il reale soggetto che cede il bene e il
servizio e vende al nostro acquirente i beni o i servizi
riscuotendo da quest'ultimo l'Iva, ma non provvede a
riversare l'imposta all'Erario.
Così facendo questi
fornitori sono in grado di vendere a prezzi sicuramente
vantaggiosi i beni e/o i servizi potendo beneficiare in modo
del tutto illegittimo dell'Iva incassata.
In questi mesi questi fenomeni hanno prepotentemente
raggiunto gli onori delle cronache, in quanto la
giurisprudenza nazionale di merito e di legittimità, nonché
la Corte Ue si sono ampiamente occupate di questi casi.
Inoltre del tema si è occupata la Commissione Europea nel
libro bianco del futuro dell'Iva e, da ultimo, anche il
legislatore nazionale che con il Dl 16/2012 ha cercato di
limitare (si fa per dire) all'Iva i recuperi che nel
frattempo l'agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza
avevano fatto nei confronti dei contribuenti.
L'effetto del
recupero è, allo stato attuale, identificabile nella
indetraibilità dell'Iva relativa alle fatture emesse nei
confronti degli acquirenti/committenti dai fornitori
frodatori. Il fenomeno che ha riguardato e riguarda imprese
di vari settori economici, impone al contribuente l'adozione
di un'adeguata contromisura. In particolare, a prescindere
dall'adempimento ora abrogato, le imprese devono introdurre
una procedura di controllo economico-amministrativo dei
propri fornitori.
La procedura che può sicuramente prendere
spunto anche dai principi individuati dalla giurisprudenza,
deve consentire all'acquirente/committente di verificare,
per esempio, l'esistenza di un reale potere di
rappresentanza del venditore rispetto all'impresa
fornitrice; l'esistenza e l'attività dell'impresa fornitrice
(attraverso l'acquisizione della visura camerale); la
corrispondenza degli indirizzi della sede amministrativa e
legale e della localizzazione dei pagamenti rispetto ai dati
camerali
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Contratti nazionali con ruolo decisivo.
LE INTESE COLLETTIVE/
Potranno individuare i metodi e le procedure per la verifica
della regolarità complessiva.
La responsabilità solidale negli appalti è confermata per le
retribuzioni, i contributi previdenziali e i premi
assicurativi anche dopo l'approvazione del decreto legge
«del fare». Infatti, il provvedimento approvato sabato del
Consiglio dei ministri non abroga l'articolo 29, comma 2, del
decreto legislativo 276/2003 che contiene la responsabilità
solidale più per i profili lavoristici mentre è stata
eliminata la responsabilità in ambito fiscale riferita
all'Iva (articolo 35 del Dl 223/2006).
L'articolo 29 invece, prevede che in caso di appalto di
opere o servizi, il committente imprenditore o datore di
lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con
ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di
due anni dalla cessazione dell'appalto, per corrispondere ai
lavoratori trattamenti retributivi, contributi previdenziali
e premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di
esecuzione del contratto di appalto. La solidarietà, dunque,
riguarda sia il committente sia ciascuno degli appaltatori e
subappaltatori e sono comprese anche le quote di Tfr
maturato durante l'impiego del lavoratore nel contratto di
appalto. Sono, invece, escluse da qualsiasi obbligo le
sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile
dell'inadempimento. Rimane il dubbio sul titolo degli
interessi dato che letteralmente la norma esclude solo le
sanzioni civili.
Un ruolo decisivo lo hanno i contratti collettivi nazionali
sottoscritti da associazioni di datori di lavoro e
lavoratori comparativamente più rappresentative del settore:
essi possono individuare metodi e procedure di controllo e
verifica della regolarità complessiva degli appalti. C'è una
procedura specifica per azionare la responsabilità solidale:
il committente può (e deve) eccepire, nella prima difesa, il
beneficio della preventiva escussione del patrimonio
dell'appaltatore e degli eventuali subappaltatori.
In questo caso il giudice accerta la responsabilità solidale
di tutti gli altri obbligati, ma l'azione esecutiva può
essere intentata nei confronti del committente imprenditore
o datore di lavoro solo dopo l'infruttuosa escussione del
patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali
subappaltatori. Il committente che ha eseguito il pagamento
può esercitare l'azione di regresso nei confronti del
coobbligato secondo le regole generali
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.06.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI: DECRETO
FARE/ Il dl sarà licenziato domani. Indennizzi da ritardo
solo per le imprese.
P.a., due date per le scadenze.
Nuovi adempimenti in vigore dal 1° luglio o dal 1° gennaio.
Due sole scadenze per l'efficacia degli adempimenti
amministrativi, due sole date da tenere in mente per
trasmettere alla p.a. documenti e informazioni. Il 1° luglio
e il 1° gennaio saranno le due finestre per far scattare
obblighi di «raccolta, elaborazione, trasmissione,
conservazione e produzione di informazioni e documenti» nei
confronti degli enti pubblici.
Sulla falsariga di quanto
accade già in molti paesi europei (Regno Unito, Francia e
Olanda) anche in Italia il groviglio burocratico che
attanaglia la vita di tutti i giorni e l'economia potrà
semplificarsi nei confronti di cittadini e imprese.
Lo
prevede il decreto con le misure urgenti del governo Letta
in materia di crescita (cosiddetto «decreto Fare») che sarà
definitivamente licenziato domani dal consiglio dei ministri
(assieme al ddl semplificazioni, si veda altro articolo a
pag. 29). La data unica di efficacia degli obblighi
rappresenta un pallino del ministro della funzione pubblica,
Gianpiero D'Alia, che non a caso nel suo discorso
programmatico alle camere l'aveva indicata tra le priorità
con l'obiettivo di decongestionare l'agenda burocratica
delle piccole e medie imprese.
Il provvedimento impone anche
ai responsabili trasparenza dei singoli enti (previsti dal
recente dlgs m.33/2013) di pubblicare sul sito istituzionale
delle amministrazioni uno scadenzario con le date di
efficacia degli adempimenti. Il tutto dovrà essere
comunicato al dipartimento della Funzione pubblica affinché
palazzo Vidoni riepiloghi le scadenze in un'apposita sezione
del sito ministeriale. L'inosservanza delle norme di
semplificazione sarà imputata al dirigente e potrà
costituire causa di responsabilità per danno all'immagine,
oltre a essere valutata ai fini della retribuzione di
risultato.
Indennizzo per danno da ritardo. Saranno le imprese i primi
soggetti beneficiari dell'obbligo di indennizzo per il
ritardo nella conclusione dei procedimenti amministrativi.
Scaduto il termine per l'adozione del provvedimento, più
l'extra time a disposizione del funzionario che esercita il
potere sostitutivo, la p.a. pagherà 50 euro di indennizzo
per ogni giorno di ritardo fino a un massimo di 2.000.
L'importo nell'ultima versione del decreto è stato
dimezzato, rispetto ad alcune bozze circolate in precedenza,
in modo da alleggerire il peso potenziale sulle casse dello
stato.
L'obbligo di indennizzo per il momento scatterà solo
in via sperimentale e si applicherà da subito per i
procedimenti avviati da imprenditori e che riguardano
l'esercizio dell'attività di impresa. Entro un anno, il
governo con dpr fisserà il termine a decorrere dal quale la
misura inizierà a essere applicata, anche gradualmente, ai
procedimenti che coinvolgono i non imprenditori e dunque
tutti i cittadini. «Siamo consapevoli che una norma del
genere rischia di diventare molto onerosa per
l'amministrazione pubblica», ha commentato D'Alia, «e per
questo per il momento parte in via sperimentale per un anno
e solo per le imprese».
«Il rimborso è a carico
dell'amministrazione che poi si può rivalere sul singolo
dipendente», spiega. «Ogni iter è tracciato, siamo in grado
di capire perché una pratica si ferma. Non sarà più
possibile che pratiche e richieste di autorizzazioni si
perdano in qualche cassetto o sotto pile di carta. Chiamiamo
in causa la responsabilità dei dipendenti pubblici». In caso
di mancato pagamento dell'indennizzo, gli interessati
potranno ricorrere al Tar che deciderà non solo sul merito
del procedimento, ma anche sull'indennizzo (si veda ItaliaOggi del 15.06.2013).
In caso di accoglimento
della domanda, gli atti dovranno essere trasmessi alla
procura della Corte dei conti perché avvii il procedimento
di responsabilità nei confronti dei dipendenti pubblici.
Nelle comunicazioni di avvio del procedimento, il diritto
all'indennizzo dovrà essere espressamente menzionato e
portato a conoscenza degli utenti assieme a modalità e
termini per conseguirlo. Dovrà inoltre essere espressamente
indicato il soggetto a cui è attribuito il potere
sostitutivo.
Agenda digitale italiana. Il «decreto Fare» rende più
snella, rispetto alla governance disegnata dal primo decreto
sviluppo del governo Monti (dl n. 5/2012), l'Agenda digitale
italiana, sottoposta alla vigilanza unica di palazzo Chigi.
Viene istituita una cabina di regia, presieduta dal capo del
governo, che dovrà relazionare al parlamento sullo stato
dell'arte normativo, sui programmi avviati, sul loro stato
di avanzamento, nonché sulle risorse disponibili.
La cabina
di regia si avvarrà di un Tavolo permanente, composto da
esperti e rappresentanti delle imprese e delle università,
presieduto da Francesco Caio, nominato dal governo
commissario per l'attuazione dell'Agenda digitale («mister
Agenda digitale»). Dovrà sovraintendere a tutta una serie di
misure per abbattere il digital divide, tra cui il fascicolo
sanitario elettronico e il domicilio digitale. Il decreto
legge che ha ricevuto sabato l'ok di palazzo Chigi, prevede
infatti che all'atto della richiesta della carta di identità
elettronica, il cittadino possa domandare l'attivazione di
una casella di posta elettronica certificata che diventerà
il suo domicilio digitale.
Il Fascicolo sanitario elettronico, che consentirà a tutti i
pazienti di conservare e visualizzare in ogni momento
accertamenti diagnostici ed esami, slitta invece al 2014. Le
regioni avranno tempo fino alla fine dell'anno prossimo per
istituirlo, ma entro il 31.12.2013, dovranno già presentare
un piano all'Agenzia per l'Italia digitale. Sarà questa a
curare la progettazione e la realizzazione del Fascicolo
sulla base delle esigenze dei governatori
(articolo ItaliaOggi del 18.06.2013). |
ENTI LOCALI - VARI: DECRETO
FARE/ Viene introdotto l'incontro preliminare per tastare il
terreno
Mediazione, rientro a sorpresa.
Esecutività dell'accordo solo con firma dell'avvocato.
La mediazione ritorna a essere obbligatoria, con qualche
sorpresa.
Il c.d. decreto Fare approvato sabato scorso dal
governo non si è limitato a sanare i vizi di delega
denunciati dalla famosa sentenza della Corte costituzionale
del 24.10.2012, ma ha aggiunto delle significative
novità. È stato infatti previsto che per ottenere
l'esecutività dell'accordo di conciliazione serva anche la
sottoscrizione degli avvocati che assistono le parti e la
c.d. mediazione delegata dal giudice da volontaria è
diventata obbligatoria.
La mediazione obbligatoria non sarà poi più tale per le
cause per danni derivanti dalla circolazione di veicoli e
natanti e per i procedimenti di consulenza tecnica
preventiva di cui all'art. 696-bis c.p.c. e durerà molto
meno (è stato infatti diminuito da quattro a tre mesi il
termine massimo oltre il quale si può depositare la domanda
giudiziale). È stato quindi introdotto una sorta di incontro
preliminare in cui il mediatore è chiamato a verificare con
le parti le possibilità di proseguire il tentativo di
mediazione e, qualora ciò non avvenga, il costo del
procedimento è stato diminuito considerevolmente. Da ultimo,
occorre evidenziare come sia stata estesa la qualifica di
mediatore a tutti gli avvocati iscritti nel relativo albo
professionale, a prescindere o meno dalla frequenza di uno
specifico corso abilitante.
Le novità, come visto, sono davvero tante e sembrano seguire
due sostanziali fili conduttori. Da una parte, infatti, si è
voluto reintrodurre uno strumento sul quale da tempo si è
scommesso per stabilire una sorta di filtro all'accesso di
nuovo contenzioso nelle aule dei tribunali (unitamente ad
altre misure, quali ad esempio l'aumento del contributo
unificato) e che, adesso, con il passaggio della c.d.
mediazione delegata dal giudice da semplice invito a vera e
propria condizione di procedibilità per il prosieguo della
causa, potrebbe diventare anche un modo per eliminare parte
del contenzioso giudiziario già in essere (parallelamente si
è però deciso di lasciare fuori da detto ambito il gran
numero di cause derivanti dalla circolazione stradale e
nautica, nelle quali la mediazione ha sostanzialmente
fallito per l'ostilità delle compagnie di assicurazione).
Dall'altra si è forse voluto ricucire lo strappo con
l'avvocatura, che ha sempre denunciato i limiti
dell'obbligatorietà della mediazione, ma le nuove
disposizioni non sembrano colpire nel segno e forse
rischiano di creare nuovi problemi. Non è infatti del tutto
chiaro il portato della disposizione che sembra subordinare
l'efficacia esecutiva dell'accordo di conciliazione alla
sottoscrizione del medesimo «dagli avvocati che assistono
tutte le parti». La norma sembra infatti niente altro che
uno escamotage per fare in modo che le parti vadano in
mediazione accompagnanti dai legali, pur senza l'espressa
introduzione dell'obbligo del relativo patrocinio (conferma
di ciò si trae dalla lettura della relazione di
accompagnamento al c.d. decreto Fare).
Davvero poco utile e
discutibile appare poi la norma che parifica di diritto gli
avvocati ai mediatori e che sembra sposare il luogo comune
per cui i legali sarebbero già di per sé mediatori, senza
bisogno alcuno di prendere parte a corsi sulle tecniche di
mediazione. D'altra parte non si sentiva certo la necessità
di un aumento del numero dei mediatori, visto che quelli a
oggi formati sono di molto superiori al numero dei
procedimenti di mediazione, tanto che molti di essi hanno
fatto davvero fatica a seguire il numero minimo di procedure
imposte dalla legge al fine della continuità dell'iscrizione
al relativo registro.
Molto positiva, invece, l'introduzione di un incontro
preliminare in cui il mediatore è chiamato a verificare con
le parti le possibilità di proseguire il tentativo di
mediazione, che evita alle stesse di perdere tempo, ove non
siano interessate alla procedura, fissando un tetto massimo
di spesa (80 euro per le liti fino a mille euro, 120 fino a
10 mila euro, 200 fino a 50 mila euro, 250 per le liti di
valore superiore), per non aggravare i costi che le stesse
dovranno sostenere per il futuro processo
(articolo ItaliaOggi del 18.06.2013). |
APPALTI: DECRETO
FARE/ La durata del documento di regolarità contributiva a
180 giorni.
Durc soft (grazie ai consulenti).
Professionisti in prima fila per integrare i documenti.
Durc più semplice, anche grazie ai consulenti del lavoro.
Nei contratti pubblici, infatti, il Durc avrà una validità
di 180 giorni e sarà acquisito d'ufficio, per via
telematica, da parte di stazioni appaltanti e
amministrazioni procedenti. Ai consulenti del lavoro,
invece, la regia per la sistemazione dei Durc negativi.
Infatti, in caso di mancanza dei requisiti per la regolarità
contributiva, gli enti (Inps, Inail e casse edili)
contatteranno i professionisti tramite Posta elettronica
certificata (Pec), al fine di invitare le imprese assistite
a regolarizzare nel termine di 15 giorni.
Le novità sono
previste nel decreto Fare approvato sabato dal consiglio dei
ministri.
Durc d'ufficio. Una prima novità riguarda l'estensione delle
ipotesi in cui il Durc andrà richiesto d'ufficio, così
sollevando le imprese dal compito di provvedere alla
presentazione e ripresentazione del certificato di
regolarità contributiva. Si prevede che il Durc sia
acquisito d'ufficio ai fini dell'accertamento dei requisiti
di ordine generale per l'affidamento di concessioni e
appalti pubblici di lavori, forniture e servizi (inclusi
subappalti) previsti dall'articolo 38 del dlgs n. 163/2006
(codice degli appalti pubblici).
L'obbligo di acquisire
d'ufficio il Durc ricade sulle stazioni appaltanti e su
altri enti aggiudicatori, non soltanto in sede di
aggiudicazione dell'appalto ma anche ai fini del pagamento
delle prestazioni. Nei contratti pubblici, in particolare,
l'obbligo di acquisire d'ufficio il Durc in corso di
validità, attraverso strumenti informatici, è previsto nei
seguenti casi:
a) per la verifica della dichiarazione sostitutiva relativa
al requisito di cui all'articolo 38, comma 1, lettera i) del
codice degli appalti pubblici (ossia per la verifica
dell'assenza di violazioni gravi, definitivamente accertate,
alle norme in materia di contributi previdenziali e
assistenziali);
b) per l'aggiudicazione definitiva del contratto pubblico;
c) per la stipula del contratto;
d) per il pagamento degli stati avanzamento lavori o delle
prestazioni relative a servizi e forniture;
e) per il certificato di collaudo, il certificato di
regolare esecuzione, il certificato di verifica di
conformità, l'attestazione di regolare esecuzione, e il
pagamento del saldo finale.
Validità di sei mesi. Altra novità concerne la validità del
documento unico di regolarità contributiva. Quello
rilasciato ai fini dei contratti pubblici di lavori, servizi
e forniture, infatti, avrà validità di 180 giorni dalla data
di emissione. Pertanto, le amministrazioni potranno
utilizzare il Durc in corso di validità acquisito per la
verifica dei requisiti anche per l'aggiudicazione e per la
stipula del contratto. Dopo la stipula del contratto, le
amministrazioni saranno tenute ad acquisire il Durc ogni 180
giorni per utilizzarlo ai fini del pagamento e per il
certificato finale di collaudo, ad eccezione che per il
pagamento del saldo finale ipotesi per la quale, invece,
sarà in ogni caso necessaria l'acquisizione di un nuovo Durc
(cioè sarà necessario chiedere un nuovo Durc anche se quello
precedente è ancora valido, perché con data di rilascio non
anteriore a 180 giorni).
Consulenti del lavoro in campo. In caso di mancanza dei
requisiti per il rilascio del Durc, il Decreto fare obbliga
gli enti preposti al rilascio, prima dell'emissione o
dell'annullamento del documento già rilasciato, a invitare
l'azienda interessata per il tramite del consulente del
lavoro o degli altri professionisti che svolgono la stessa
professione (avvocati, commercialisti ecc.), a regolarizzare
la posizione entro 15 giorni, indicando analiticamente le
cause della irregolarità.
Infine, in caso di Durc con inadempienza contributiva
relativa a uno o più soggetti impiegati nell'esecuzione del
contratto, le amministrazioni dovranno trattenere dal
certificato di pagamento l'importo corrispondente
all'inadempienza al fine di riversarlo direttamente agli
enti previdenziali e assicurativi, compresa la cassa edile
(articolo ItaliaOggi del 18.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
DECRETO
FARE/ Molte le
novità in materia edilizia, tra cui la proroga dei lavori di
due anni.
Cambi la sagoma dell'immobile? È solo ristrutturazione
La ristrutturazione è leggera anche in caso di ricostruzione
con sagoma diversa; termine lavori edilizi prorogato di due
anni.
Sono queste alcune delle novità in materia edilizia
del decreto legge Fare, approvato dal consiglio dei ministri
del 15.06.2013, che cambia anche il procedimento in caso
di vincoli.
Partiamo proprio dai vincoli per esaminare le possibili
innovazioni al testo unico per l'edilizia e al codice
dell'ambiente. Altra novità sono l'affidamento al comune del
compito di recuperare i pareri necessari per la Scia,
agibilità edilizia parziale.
VINCOLI AMBIENTALI - Si propone di passare dal
silenzio-rifiuto al silenzio-rigetto, immediatamente
impugnabile. Secondo il Testo unico per l'edilizia (dpr
380/2001), nel caso in cui manchi un atto di assenso per
vincolo ambientale, paesaggistico e culturale, si viene a
formare il silenzio rifiuto. Il decreto legge modifica il
procedimento in caso di immobili vincolati nel seguente
modo. Se l'assenso dell'autorità preposta al vincolo è
favorevole, il comune sarà tenuto a concludere il
procedimento di rilascio del permesso di costruire con un
provvedimento espresso e motivato. Se, invece, l'atto di
assenso viene negato, decorso il termine per il rilascio del
permesso di costruire, questo si intenderà respinto. L'atto
è immediatamente impugnabile.
PARERI - Allo sportello unico per l'edilizia va il compito
di acquisire i pareri anche prima della presentazione della
Scia. Il testo unico edilizia non disciplina l'acquisizione,
da parte dello Sportello unico per l'edilizia (Sue), degli
atti di assenso presupposti all'inizio dei lavori nel caso
in cui l'intervento edilizio sia soggetto alla presentazione
della comunicazione di inizio lavori di attività edilizia
libera o della Scia edilizia. Il decreto estenderebbe la
disciplina prevista oggi solo per il permesso di costruire.
Il provvedimento, infatti, dispone che l'interessato possa,
prima di presentare la comunicazione o la Scia, richiedere
allo sportello unico l'acquisizione di tutti gli atti di
assenso necessari per l'intervento edilizio.
Lo sportello si
deve attivare, come nel caso di richiesta di permesso di
costruire: se non sono rilasciati gli atti di assenso delle
altre amministrazioni pubbliche, o è intervenuto il dissenso
di una o più amministrazioni interpellate, il responsabile
dello sportello unico indice la conferenza di servizi per
acquisirli. Se poi l'istanza di acquisizione di tutti gli
atti di assenso è contestuale alla segnalazione certificata
di inizio attività, l'interessato potrà dare inizio ai
lavori solo dopo la comunicazione da parte dello sportello
unico dell'avvenuta acquisizione degli atti di assenso o
dell'esito positivo della conferenza di servizi. Le novità
si applicano anche alla comunicazione dell'inizio dei lavori
per l'attività edilizia libera, qualora siano necessari atti
di assenso per la realizzazione dell'intervento edilizio.
TERMINE LAVORI - Il dl allunga di due anni i termini di
inizio e ultimazione dei lavori autorizzati con permesso di
costruire, Dia o Scia alla data di entrata in vigore della
norma. Il termine iniziale per l'avvio dei lavori
autorizzati con permesso di costruire è di un anno dal
rilascio del permesso, mentre, per ultimare l'opera, il
termine è fissato a tre anni dall'inizio dei lavori. I
lavori avviati dopo la presentazione di Dia o Scia edilizia
devono essere anch'essi ultimati entro tre anni. Questi
termini si allungano di un biennio, previa comunicazione del
soggetto interessato.
RICOSTRUZIONE E RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA - Per il testo
unico dell'edilizia costituiscono «interventi di
ristrutturazione edilizia» anche gli interventi che
consistono «nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente». Il decreto
elimina il requisito della medesima sagoma e, quindi, sono
ristrutturazioni edilizie anche gli interventi di
ricostruzione di un edificio con il medesimo volume
dell'edificio demolito, ma anche con sagoma diversa dal
precedente.
Costituiscono, quindi, ristrutturazione gli
interventi edilizi volti al ripristino di edifici, o parti
di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la
loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza. Conseguenza della modifica è che
la modifica della sagoma non è rilevante ai fini della
individuazione del permesso di costruire come titolo
abilitativo necessario (eliminazione del riferimento
contenuto nell'articolo 10, comma 1, lettera c) del Testo
unico per l'edilizia).
AGIBILITÀ PARZIALE - Il decreto modifica la disciplina del
certificato di agibilità, consentendone la richiesta anche
per singoli edifici o singole porzioni di uno stesso
stabile. Questo a condizione che le unità siano
funzionalmente autonome, e sempre che a siano state
realizzate e collaudate le opere di urbanizzazione primaria
relative all'intero intervento edilizio e siano state
completate le parti comuni relative al singolo edificio o
singola porzione della costruzione. L'agibilità parziale
potrà essere richiesta anche per singole unità immobiliari,
(se complete delle opere strutturali, impianti, parti comuni
e opere di urbanizzazione primarie ultimate o dichiarate
funzionali rispetto all'edificio oggetto di agibilità
parziale).
AMBIENTE - Termini ridotti per l'autorizzazione
paesaggistica.
Il decreto dimezza il termine (quarantacinque giorni)
sull'istanza di autorizzazione paesaggistica; dispone anche
l'eliminazione del silenzio-assenso prevedendo l'adozione
del provvedimento finale da parte dell'amministrazione
competente
(articolo ItaliaOggi del 18.06.2013). |
APPALTI:
DECRETO FARE/Stop agli adempimenti per committenti e
appaltatori a portata ridotta
Solidarietà, un no circoscritto.
Abrogazione della responsabilità solo per i versamenti Iva.
Soppressione della solidarietà passiva negli appalti
limitata alla sola Iva. Questa, in assenza della versione
ufficiale del decreto legge del fare approvato sabato scorso
dal governo, la scelta compiuta dall'esecutivo.
Il
comunicato diramato a fine seduta afferma, infatti, che per
i committenti e gli appaltatori arriva l'abrogazione della
responsabilità solidale negli appalti ma «relativamente ai
versamenti Iva».
Che vi possano anche rientrare le ritenute, è un busillis
che sarà sciolto solo con la pubblicazione del dl in G.U.
Secondo la disciplina indicata, ai sensi dei commi da 28 a
28-ter, dell'art. 35, dl 04/07/2006 n. 223, convertito nella
legge n. 248/2006, il committente o l'appaltatore possono
procedere nel pagamento di quanto dovuto, per l'esecuzione
di lavori concordati, all'appaltatore o al sub-appaltatore,
soltanto se questi ultimi hanno puntualmente eseguito i
versamenti delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro
dipendente e dell'Iva dovuta sulla prestazione.
Il pagamento è condizionato, infatti, alla preventiva
consegna della documentazione attestante l'esecuzione dei
versamenti, il cui termine risulta scaduto alla data del
pagamento del corrispettivo.
La disciplina è articolata e distorta poiché, a fronte di un
debito per Iva, per esempio, pari a 5 mila euro, ma a un
corrispettivo maturato dal sub-appaltatore nei confronti
dell'appaltatore per 50 mila euro, il pagamento non può
avvenire per la differenza di 45 mila euro, subendo la
totale sospensione e con il blocco dell'operatività
dell'impresa esecutrice, legittimamente creditrice.
L'intervento limitato non produrrebbe, però,
l'alleggerimento auspicato dagli operatori.
Come indicato in
un recente documento dell'Associazione dottori
commercialisti ed esperti contabili (Aidc) di Milano (marzo
2013) si deve prendere atto che il tema dell'obbligazione
solidale del pagamento dell'imposta dovuta, rientra nella
competenza della direttiva Iva (Corte di giustizia, sentenza
11/05/2006, causa C-384/04 punto 24), ma che «essendo
diretta emanazione di una facoltà riconosciuta agli stati
membri, la disposizione riguardante la solidarietà nel
pagamento dell'imposta non soggiace al regime di preventiva
autorizzazione disciplinato dall'art. 395 della dir.
2006/112/Ce».
Peraltro, la detta disciplina prevede che il
committente (o l'appaltatore, in presenza di sub-appalto),
per i contratti stipulati a partire dal 12/08/2012 e per i
pagamenti eseguiti dall'11/10/2012, sia assoggettabile a una
sanzione da 5 mila a 200 mila euro se ha provveduto al
pagamento di quanto dovuto per la prestazione, senza aver
verificato il versamento delle ritenute o dell'Iva
dell'appaltatore o in mancanza di una attestazione
(«dichiarazione sostitutiva») da parte dei prestatori o di
una asseverazione da parte dei responsabili dei Caf o di
professionisti abilitati.
Sul punto, l'Agenzia delle entrate
(circolare n. 2/E/2013) aveva già precisato che, in presenza
di più contratti stipulati tra le medesime parti, poteva
essere rilasciata un'autocertificazione «unitaria» e
«periodica», in presenza del pagamento del corrispettivo; in
effetti, la detta autocertificazione deve far riferimento ai
versamenti scaduti nel momento del versamento del
corrispettivo e non deve aver come oggetto fatti successivi
alla data del rilascio.
La commissione di studio
dell'associazione citata aveva anche rilevato alcune
incompatibilità (in eccesso e/o in difetto) della
disposizione nazionale rispetto alla norma comunitaria, con
particolare riferimento all'insorgere della solidarietà
anche in assenza di intenti frodatori, al totale blocco dei
pagamenti che creano un serio danno alle imprese, alla
sproporzione del regime sanzionatorio e alla vanificazione
degli effetti anti-evasione, nonché alla non considerata ma
necessaria correlazione tra obbligo di solidarietà e
adempimento, «in forza della quale l'appaltatore non può
sostituirsi nell'adempimento (?) se non al successivo
momento in cui l'infrazione venga contestata
dall'amministrazione finanziaria».
Concludendo, in attesa della conferma dei contenuti della
bozza del provvedimento in circolazione, con l'abrogazione
esplicita del comma 28, dell'art. 35, dl 223/2006 che
dispone che «in caso di appalto di opere o di servizi,
l'appaltatore risponde in solido con il subappaltatore (?)
del versamento all'erario delle ritenute fiscali sui redditi
di lavoro dipendente e del versamento dell'imposta sul
valore aggiunto», l'abrogazione varrà anche per le
ritenute
(articolo ItaliaOggi del 18.06.2013). |
CONDOMINIO: In
vigore. Scatta la legge 220/2012: quali disposizioni vanno
immediatamente applicate e quali no.
Condominio, debutta la riforma.
Da oggi operative le nuove maggioranze e i limiti alle
deleghe.
IN COMPAGNIA/
Cade il divieto di tenere animali domestici contenuto nei
regolamenti condominiali assembleari.
La riforma del condominio debutta oggi e le nuove norme,
dopo un periodo di sei mesi di "digestione" da parte del
mondo immobiliare, sono ora efficaci. Non tutte le nuove
disposizioni avranno però un impatto immediato sulla realtà
condominiale.
La legge 220/2012 non ha espressamente
disciplinato le conseguenze della sua entrata in vigore con
norme transitorie e, pertanto, solo il richiamo ai principi
generali dell'ordinamento può indicare quali norme avranno
immediata applicazione e quali mostreranno la loro incidenza
su un arco di tempo più lungo.
In ogni caso, non tutte le norme sono di facile
applicazione: tanto che «Il Sole 24 Ore», in collaborazione
con tutte le associazioni della proprietà e degli
amministratori condominiali, ha proposto alcune modifiche
tecniche che stanno per essere inserite in un disegno di
legge presentato dal deputato Salvatore Torrisi (si veda a
pagina 18).
Il principio generale cui rifarsi è quello previsto
dall'articolo 11 delle Disposizioni sulle preleggi del
Codice civile, relativo all'irretroattività: la legge non
può disporre che per il futuro, con la conseguenza che la
norma si applica solo ai rapporti giuridici nati sotto la
sua vigenza. Nella realtà condominiale, tuttavia, non è
sempre facile capire quali fattispecie debbano sottostare
alle nuove disposizioni sin da oggi e quali invece debbano
trovare la loro definizione nelle norme anteriormente
vigenti.
Si può dire con ragionevole certezza che saranno
immediatamente applicabili quelle norme che non innovano
nulla rispetto alla disciplina previgente, in quanto
immutate oppure volte a disciplinare specificamente
fattispecie che prima avevano definizione generale e che in
forza di una costante lettura giurisprudenziale trovavano
lettura analoga a quella che oggi la riforma detta
espressamente: si pensi alla disciplina delle parti comuni
(articolo 1117 del Codice civile, e alla disciplina del
sottotetto), all'articolo 1118 del Codice civile (ivi
compresa la questione del distacco dall'impianto di
riscaldamento), al consenso unanime previsto dall'articolo
1119 per la divisione dei beni comuni, all'obbligo per
l'amministratore di esibire e rilasciare copia della
documentazione agli aventi diritto, alle cause non tassative
e codificate di grave irregolarità che possono dar luogo a
revoca dell'amministratore (articolo 1129), all'obbligo di
rendiconto annuale (articolo 1130 del Codice civile),
l'autonomia dell'amministratore nella richiesta di decreto
ingiuntivo (articolo 63 delle Disposizioni di attuazione del
Codice civile), alla prededuzione delle spese condominiali
in sede fallimentare (articolo 30 della legge 220/2012).
Vi sono poi norme che paiono applicabili alle realtà già
esistenti, ma solo per quelle compiute dal 18.06.2013,
come quelle relative alle attività sulle parti comuni
previste dagli articoli 1117 bis e 1122-ter, anche se
l'articolo 155 bis delle Disposizioni di attuazione prevede
la possibilità per l'assemblea di intervenire anche sugli
impianti già esistenti alla data di entrata in vigore (la
lettura di alcuni interpreti –ovvero che tali norme si
applicherebbero solo agli edifici costruiti o ai condomìni
costituiti dopo tale data– pare eccessivamente
restrittiva); rientrano in questa previsione anche le norme
relative a revisione e modifica delle tabelle millesimali
(articolo 69 delle Disposizioni di attuazione), alla tenuta
dei registri relativi alla "anagrafica condominiale"
(articolo 1130 del Codice civile), alla convocazione,
funzionamento e maggioranze dell'assemblea (compresi i
limiti di 200 millesimi per le deleghe nei condomìni con
oltre 20 condòmini e il divieto de delegare
l'amministratore), nonché all'impugnativa dei relativi
deliberati (articoli 1135, 1136, 1137 del Codice civile e 66
e 67 delle Disposizioni di attuazione). Appare infine idonea
a incidere sulla legittimità anche dei regolamenti
condominiali esistenti la norma di cui all'articolo 1130,
quinto comma del Codice civile, che qualifica illegittimo il
divieto di detenere animali domestici.
Il principio di irretroattività comporta invece che le norme
sulla gestione annuale o comunque su attività che hanno
avuto inizio sotto la precedente normativa e non hanno
ancora esaurito i loro effetti si applichino solo
all'esaurirsi di questi effetti: quindi le norme relative a
nomina, revoca, durata e relativi risvolti
dell'amministratore (articolo 1129 del Codice civile)
troveranno applicazione alle nomine effettuate dopo tale
data; le nuove modalità di rendicontazione (articolo 1130
bis) sono applicabili ai bilanci degli esercizi iniziati
nella vigenza della nuova norma; così quelle relative alla
responsabilità patrimoniale (articolo 63 delle Disposizioni
di attuazione e 67 delle Disposizioni di attuazione) si
applicheranno alle obbligazioni sorte dopo il 18.06.2013.
In tema processuale, infine, vanno ritenute applicabili
anche ai giudizi pendenti le nuove norme di natura
processuale (articolo 1137 del Codice civile e 64 e 69 delle
Disposizioni di attuazione), fatti salvi gli effetti ormai
definitivi
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.06.2013). |
GIURISPRUDENZA |
COMPETENZE GESTIONALI - ESPROPRIAZIONE:
E' fondata la dedotta
incompetenza del dirigente comunale ad adottare un
provvedimento di acquisizione sanante.
Invero, l’atto adottato ex art. 43, d.P.R. n. 327 del 2001
di acquisizione al patrimonio indisponibile comunale di beni
utilizzati per scopi di interesse pubblico deve essere
assunto dal Consiglio comunale, trattandosi dell’acquisto di
un diritto immobiliare che richiede l’espressione formale di
una specifica autonoma volontà.
L’art. 42, comma 2, lett. l), T.U. enti locali, stabilisce
che rientrano nelle competenze consiliari gli “acquisti e
alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e
concessioni che non siano previsti espressamente in atti
fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera
esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria
amministrazione di funzioni e servizi di competenza della
giunta, del segretario o di altri funzionari”. Tra questi
rientra sicuramente anche l’acquisto di un bene tramite
l’istituto della c.d. acquisizione sanante.
L’atto di acquisizione sanante ex art. 43 d.P.R. n. 327 del
2001, per i profili di discrezionalità che lo
caratterizzano, esorbita dall'ambito della competenza
dell’ufficio per le espropriazioni e, comunque, degli uffici
comunali per rientrare nelle attribuzioni del Consiglio
comunale in materia di acquisti ed alienazioni immobiliari,
di cui all'art. 42 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267.
---------------
L’istituto della “acquisizione sanante” ex art. 43 T.U. n.
327/2001 è di competenza del Consiglio comunale, stante
anche la particolare natura di tale acquisizione di cui
l’A.P. di questo Consiglio ha fornito una puntuale
illustrazione, chiarendo che non risulta possibile
qualificare la scelta di farvi ricorso come meramente
esecutiva di atti presupposti o rientrante tra le ordinarie
funzioni della giunta, del segretario o di altri funzionari,
onde tale scelta deve essere ricondotta all’esclusiva
competenza dell’organo elettivo consiliare, ai sensi
dell’art. 42, comma 2, lett. l, del T.U.E.L..
La natura discrezionale dell’atto di acquisizione sanante
esclude, poi, che lo stesso possa qualificarsi come previsto
in atti fondamentali del consiglio o mera esecuzione degli
stessi, sicché si deve escludere anche per tal verso la
riconduzione dell’atto alla competenza dei dirigenti.
Il ricorso è fondato.
In particolare, è fondata la dedotta incompetenza del
dirigente comunale ad adottare un provvedimento di
acquisizione sanante.
L’atto adottato ex art. 43, d.P.R. n. 327 del 2001 di
acquisizione al patrimonio indisponibile comunale di beni
utilizzati per scopi di interesse pubblico deve essere
assunto dal Consiglio comunale, trattandosi dell’acquisto di
un diritto immobiliare che richiede l’espressione formale di
una specifica autonoma volontà.
L’art. 42, comma 2, lett. l), T.U. enti locali, stabilisce
che rientrano nelle competenze consiliari gli “acquisti e
alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e
concessioni che non siano previsti espressamente in atti
fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera
esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria
amministrazione di funzioni e servizi di competenza della
giunta, del segretario o di altri funzionari”. Tra
questi rientra sicuramente anche l’acquisto di un bene
tramite l’istituto della c.d. acquisizione sanante (Cons.
St., sez. V, 13.10.2010, n. 7472).
L’atto di acquisizione sanante ex art. 43 d.P.R. n. 327 del
2001, per i profili di discrezionalità che lo
caratterizzano, esorbita dall'ambito della competenza
dell’ufficio per le espropriazioni e, comunque, degli uffici
comunali per rientrare nelle attribuzioni del Consiglio
comunale in materia di acquisti ed alienazioni immobiliari,
di cui all'art. 42 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (Cons. St.,
sez. III, 31.08.2010, n. 775).
Non può poi ritenersi, come sostiene la difesa del Comune,
che il Dirigente ha semplicemente dato attuazione alla
volontà comunale espressa in precedenti atti deliberativi,
in particolare nella delibera che iniziava la procedura
espropriativa.
A tale proposito, la giurisprudenza ha precisato che “l’istituto
della “acquisizione sanante” ex art. 43 T.U. n. 327/2001 è
di competenza del Consiglio comunale, stante anche la
particolare natura di tale acquisizione di cui l’A.P. di
questo Consiglio ha fornito una puntuale illustrazione,
chiarendo che non risulta possibile qualificare la scelta di
farvi ricorso come meramente esecutiva di atti presupposti o
rientrante tra le ordinarie funzioni della giunta, del
segretario o di altri funzionari, onde tale scelta deve
essere ricondotta all’esclusiva competenza dell’organo
elettivo consiliare, ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett.
l, del T.U.E.L.” (Cons. St., sez. III, 31.08.2010, n.
775).
La natura discrezionale dell’atto di acquisizione sanante
esclude, poi, che lo stesso possa qualificarsi come previsto
in atti fondamentali del consiglio o mera esecuzione degli
stessi, sicché si deve escludere anche per tal verso la
riconduzione dell’atto alla competenza dei dirigenti.
Stabilita l’illegittimità dell’atto di acquisizione sanante,
è indubbio il comportamento illegittimo dell’amministrazione
che, a seguito della scadenza dei termini di occupazione
d’urgenza e stante il mancato perfezionamento del
procedimento di esproprio, detiene sine titulo il
terreno di parte ricorrente sul quale ha proceduto a
realizzare l’opera pubblica, così com’è indubbia l’esistenza
di un ingiusto pregiudizio in capo al privato che ha perso
la disponibilità del terreno.
Dovendosi escludere che la mera trasformazione irreversibile
di un suolo con la realizzazione di un'opera pubblica
costituisca circostanza idonea a trasferire in capo
all’Amministrazione la proprietà delle aree in assenza di un
regolare provvedimento di esproprio, e ciò sia nel caso di
occupazione del terreno ab origine sine titolo sia
nel caso di un'occupazione iniziata in forza di un
provvedimento legittimo poi scaduto (cfr. sentenze CEDU nei
casi Scordino/Italia, Belvedere Alberghiera c/Italia, Prena
c/Italia), il comportamento della Pubblica Amministrazione
costituisce un illecito permanente, al quale consegue
l’obbligo di far cessare la illegittima compromissione del
diritto di proprietà mediante la restituzione del bene alla
ricorrente, dato che questa non ha perduto la proprietà del
bene ed ha titolo a riaverlo.
Con riferimento all’ulteriore domanda risarcitoria proposta
dalla ricorrente, il risarcimento deve operare in relazione
all’illegittima occupazione del bene, e deve pertanto
coprire le voci di danno per il mancato godimento del bene,
dal momento del perfezionamento della fattispecie illecita
sino al giorno della sua giuridica regolarizzazione, ossia
sino all’effettiva restituzione del bene; ciò salva la
possibilità per l’amministrazione di perfezionare valido
atto di acquisto del bene (con il consenso dei ricorrenti),
ovvero di avvalersi in via postuma dello strumento
acquisitivo della proprietà di cui all’art. 42-bis d.p.r. n.
327/2001.
In particolare, il termine iniziale va identificato in
quello in cui l’occupazione dell’area è divenuta
illegittima, mentre il termine finale va individuato in
quello in cui il Comune resistente disporrà la restituzione
dell’area, salva la sua legittima acquisizione, per
contratto ovvero con lo strumento di cui all’art. 42-bis
d.p.r. n. 327/2001.
Con riferimento a tale contesto temporale, il Comune va
condannato a corrispondere ai ricorrenti, a titolo
risarcitorio, una somma da quantificare sulla base del
criterio normativo di cui all’art. 42-bis, co. 3, vale a
dire il 5% annuo sul valore dell’area nel periodo
considerato.
Trattandosi di debito di valore, la somma dovrà essere
rivalutata alla data della presente sentenza e sono inoltre
dovuti gli interessi al tasso legale, da calcolarsi sulla
base della somma annualmente rivalutata, con applicazione
degli indici di rivalutazione dei prezzi al consumo, e ciò
sino all’effettivo soddisfo (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 21.06.2013 n. 1500 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Per l’attività di
apertura e coltivazione di una cava non è richiesto il
preventivo rilascio della concessione edilizia, non essendo
subordinata al preventivo controllo dell'autorità comunale;
ciò comporta che a queste non è applicabile l’art. 26,
secondo comma, del regolamento del codice della strada che
prescrive, fuori dei centri abitati, le distanze da
rispettare nelle nuove costruzioni.
Il ricorso è fondato.
È da premettere che per giurisprudenza costante per
l’attività di apertura e coltivazione di una cava non è
richiesto il preventivo rilascio della concessione edilizia,
non essendo subordinata al preventivo controllo
dell'autorità comunale (Cons. St., sez. VI, 16.09.2008, n.
4342); ciò comporta che a queste non è applicabile l’art.
26, secondo comma, del regolamento del codice della strada
che prescrive, fuori dei centri abitati, le distanze da
rispettare nelle nuove costruzioni.
L’art. 19 codice della strada (applicabile al caso di
specie), nel disciplinare le distanze di sicurezza dalle
strade, stabilisce che “La distanza dalle strade da
osservare nella costruzione di tiri a segno, di opifici o
depositi di materiale esplosivo, gas o liquidi infiammabili,
di cave coltivate mediante l'uso di esplosivo, nonché di
stabilimenti che interessino comunque la sicurezza o la
salute pubblica o la regolarità della circolazione stradale,
è stabilita dalle relative disposizioni di legge e, in
difetto di esse, dal prefetto, previo parere tecnico degli
enti proprietari della strada e dei vigili del fuoco”.
La disciplina è poi rinvenibile nell’art. 104 del d.P.R.
128/1959, per il quale “Senza autorizzazione del prefetto
sono vietati gli scavi a cielo aperto per ricerca o
estrazione di sostanze minerali a distanze minori di:
a) 10 m.: da strade di uso pubblico non carrozzabili; da
luoghi cinti da muro destinati ad uso pubblico;
b) 20 m.: da strade di uso pubblico carrozzabili, autostrade
e tramvie; da corsi d'acqua senza opere di difesa; da
sostegni o da cavi interrati di elettrodotti, di linee
telefoniche o telegrafiche o da sostegni di teleferiche che
non siano ad uso esclusivo delle escavazioni predette; da
edifici pubblici e da edifici privati non disabitati;
c) 50 m.: da ferrovie; da opere di difesa dei corsi d'acqua,
da sorgenti, acquedotti e relativi serbatoi; da oleodotti e
gasdotti; da costruzioni dichiarate monumenti nazionali”.
Infine, l’art. 26, secondo comma, del regolamento del codice
della strada stabilisce che “La distanza dal confine
stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare
nell'aprire canali, fossi o nell'eseguire qualsiasi
escavazione lateralmente alle strade, non può essere
inferiore alla profondità dei canali, fossi od escavazioni,
ed in ogni caso non può essere inferiore a 3 m.”.
In sostanza, la normativa sopra citata, applicabile al caso
di specie, non prevede in alcun modo ciò che è stata
sostenuto nel provvedimento impugnato e cioè che la cava
debba essere distante di mt. 40 dalle strade.
In realtà, il provvedimento impugnato è del tutto carente di
motivazione, proprio perché non si riesce a comprendere le
ragioni che hanno indotto l’amministrazione a prescrivere le
dette condizioni (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 21.06.2013 n. 1472 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI:
Il d.lgs. 152/2006 delinea il procedimento volto
all’accertamento dell’inquinamento e, in particolare l’art.
244, comma 2, stabilisce che “La provincia, ricevuta la
comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le
opportune indagini volte ad identificare il responsabile
dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con
ordinanza motivata il responsabile della potenziale
contaminazione a provvedere ai sensi del presente titolo”.
Pertanto, l’accertamento del superamento dei valori di
concentrazione soglia in ordine al livello di contaminazione
di un sito, impone alla Provincia, dopo aver svolto le
opportune indagini volte ad identificare il responsabile
dell'evento e sentito il Comune, di diffidare con ordinanza
motivata il responsabile della potenziale contaminazione a
provvedere agli interventi di bonifica e ripristino
ambientale del sito inquinato.
La previsione normativa sopra indicata esclude
ordinariamente il concorso di altri enti nell’attività
successiva all’accertamento dell’inquinamento di un sito,
comportando, di conseguenza, l’incompetenza del Sindaco ad
emanare i provvedimenti sopra indicati.
Tuttavia la competenza in materia della Provincia può essere
considerata come esclusiva soltanto in relazione ai
procedimenti ordinari, visto che la norma attributiva del
potere non fa uno specifico riferimento alle situazioni in
cui si ravvisi l'indifferibilità e l'urgenza di provvedere
(per una fattispecie opposta, ossia in cui è prevista
esplicitamente l'emanazione di ordinanze contingibili e
urgenti, si veda l'art. 191 del D.Lgs. n. 152 del 2006).
Di conseguenza, pur a fronte di una normativa speciale che
si occupa, di regola, dell'attività amministrativa in ordine
ai siti inquinati, si deve ritenere applicabile la normativa
generale, espressione di un potere atipico e residuale, in
materia di ordinanze contingibili e urgenti previste
dall'art. 50, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000 (T.U.E.L.),
allorquando se ne configurino i relativi presupposti.
---------------
Il potere sindacale di emanare ordinanze contingibili ed
urgenti ai sensi degli articoli 50 e 54 D.Lgs. n. 267 del
2000 richiede la sussistenza di una situazione di effettivo
pericolo di danno grave ed imminente per l'incolumità
pubblica, non fronteggiabile con gli ordinari strumenti di
amministrazione attiva, debitamente motivata a seguito di
approfondita istruttoria.
In altri termini, presupposto per l'adozione dell'ordinanza
extra ordinem è il pericolo per l'incolumità pubblica dotato
del carattere di eccezionalità tale da rendere
indispensabili interventi immediati ed indilazionabili,
consistenti nell'imposizione di obblighi di fare o di non
fare a carico del privato.
Il d.lgs. 152/2006 delinea il procedimento volto
all’accertamento dell’inquinamento e, in particolare l’art.
244, comma 2, stabilisce che “La provincia, ricevuta la
comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le
opportune indagini volte ad identificare il responsabile
dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con
ordinanza motivata il responsabile della potenziale
contaminazione a provvedere ai sensi del presente titolo”.
Pertanto, l’accertamento del superamento dei valori di
concentrazione soglia in ordine al livello di contaminazione
di un sito, impone alla Provincia, dopo aver svolto le
opportune indagini volte ad identificare il responsabile
dell'evento e sentito il Comune, di diffidare con ordinanza
motivata il responsabile della potenziale contaminazione a
provvedere agli interventi di bonifica e ripristino
ambientale del sito inquinato.
La previsione normativa sopra indicata esclude
ordinariamente il concorso di altri enti nell’attività
successiva all’accertamento dell’inquinamento di un sito,
comportando, di conseguenza, l’incompetenza del Sindaco ad
emanare i provvedimenti sopra indicati.
Tuttavia la competenza in materia della Provincia può essere
considerata come esclusiva soltanto in relazione ai
procedimenti ordinari, visto che la norma attributiva del
potere non fa uno specifico riferimento alle situazioni in
cui si ravvisi l'indifferibilità e l'urgenza di provvedere
(per una fattispecie opposta, ossia in cui è prevista
esplicitamente l'emanazione di ordinanze contingibili e
urgenti, si veda l'art. 191 del D.Lgs. n. 152 del 2006) (Tar
Milano, sez. IV, 08.06.2010, n. 1758).
Di conseguenza, pur a fronte di una normativa speciale che
si occupa, di regola, dell'attività amministrativa in ordine
ai siti inquinati, si deve ritenere applicabile la normativa
generale, espressione di un potere atipico e residuale, in
materia di ordinanze contingibili e urgenti previste
dall'art. 50, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000 (T.U.E.L.),
allorquando se ne configurino i relativi presupposti (Cons.
St., V, 12.06.2009, n. 3765; Cons. St., sez. II, 24.10.2007,
n. 2210; Tar Milano, IV, 16.07.2009, n. 4379).
Comunque, ammettendo la competenza del Sindaco a utilizzare
lo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente, i
presupposti di un tale intervento straordinario devono
essere individuati e verificati nella loro esistenza in modo
rigoroso, rischiandosi altrimenti di derogare all'ordine
legale delle competenze, in chiara violazione di legge
La giurisprudenza ha precisato che “il potere sindacale
di emanare ordinanze contingibili ed urgenti ai sensi degli
articoli 50 e 54 D.Lgs. n. 267 del 2000 richiede la
sussistenza di una situazione di effettivo pericolo di danno
grave ed imminente per l'incolumità pubblica, non
fronteggiabile con gli ordinari strumenti di amministrazione
attiva, debitamente motivata a seguito di approfondita
istruttoria. In altri termini, presupposto per l'adozione
dell'ordinanza extra ordinem è il pericolo per l'incolumità
pubblica dotato del carattere di eccezionalità tale da
rendere indispensabili interventi immediati ed
indilazionabili, consistenti nell'imposizione di obblighi di
fare o di non fare a carico del privato” (Cons. St., V,
16.02.2010, n. 868).
Nel caso in esame, proprio il provvedimento impugnato
evidenzia come già nel 2007 si è avuta la piena conoscenza
del superamento delle concentrazioni soglia di rischio per
la contaminazione del suolo superficiale, con la conseguenza
che la situazione di inquinamento poteva essere fronteggiata
con gli ordinari rimedi previsti dall’art. 244 d.lgs.
152/2006.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto perché
l’ordinanza in questione è stata assunta in assenza dei
presupposti necessari per la sua legittimità richiesti dalla
legge (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 21.06.2013 n. 1465 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Anche dopo l'introduzione
dell'art. 21-octies, l. 07.08.1990 n. 241, una motivazione
incompleta può essere integrata e ricostruita attraverso gli
atti del procedimento amministrativo, ma l’integrazione
della motivazione deve pur sempre avvenire da parte della
p.a. competente, mediante gli atti del procedimento medesimo
o mediante un successivo provvedimento di convalida, mentre
gli argomenti difensivi dedotti nel processo avverso il
provvedimento, proprio in quanto non inseriti in un
procedimento amministrativo, non sono idonei ad integrare in
via postuma la motivazione.
È da rilevare anzitutto che secondo giurisprudenza costante
“anche dopo l'introduzione dell'art. 21-octies, l.
07.08.1990 n. 241, una motivazione incompleta può essere
integrata e ricostruita attraverso gli atti del procedimento
amministrativo, ma l’integrazione della motivazione deve pur
sempre avvenire da parte della p.a. competente, mediante gli
atti del procedimento medesimo o mediante un successivo
provvedimento di convalida, mentre gli argomenti difensivi
dedotti nel processo avverso il provvedimento, proprio in
quanto non inseriti in un procedimento amministrativo, non
sono idonei ad integrare in via postuma la motivazione”
(Tar Catania, sez. IV, 05.04.2013, n. 989; nello stesso
senso Cons. St., sez. V, 16.04.2013, n. 2084) (TAR
Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 21.06.2013 n. 1461 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Pannelli solari con partita Iva. Vendere energia alla rete:
attività economica comunque. Secondo
la Corte di giustizia Ue è irrilevante se quanto si produce
è inferiore al consumo.
Pannelli solari con obbligo di partita Iva: la produzione
dell'energia fotovoltaica venduta stabilmente alla rete è
attività economica agli effetti dell'imposta, anche se
l'energia prodotta è inferiore a quella consumata.
Questo il
principio statuito dalla Corte di giustizia Ue nella
sentenza
20.06.2013 causa C-219/12.
Sentenza dagli effetti potenzialmente dirompenti anche per
l'Italia, dove l'amministrazione finanziaria dovrà
riesaminare la posizione, fin qui seguita per la cessione al
gestore di rete dell'energia prodotta dagli impianti
fotovoltaici installati sulle abitazioni private, di imporre
gli obblighi Iva solo per gli impianti di potenza superiore
a 20 kW. Peraltro, a parte le complicazioni formali,
l'attribuzione della qualifica di soggetto passivo dell'Iva
avrebbe risvolti positivi per i destinatari, perché
comporterebbe il diritto alla detrazione dell'imposta pagata
per la realizzazione dell'impianto fotovoltaico. Proprio
sull'esistenza o meno di questo diritto è sorta, in Austria,
la vicenda che ha portato alla pronuncia dei giudici
comunitari.
La controversia è scaturita dal rifiuto del
fisco di rimborsare a un cittadino l'Iva pagata
sull'acquisto di un impianto fotovoltaico installato sul
tetto dell'abitazione, la cui produzione di energia era
stata interamente ceduta al prezzo di mercato alla società
di gestione della rete, dalla quale il cittadino aveva
contemporaneamente acquistato, per il fabbisogno
dell'abitazione, un quantitativo di energia di gran lunga
superiore.
Per risolvere la controversia, i giudici
nazionali hanno ritenuto necessario sollecitare la corretta
interpretazione della direttiva Iva da parte della Corte di
giustizia Ue, alla quale hanno chiesto se la gestione di un
impianto fotovoltaico collegato in rete senza una capacità
d'immagazzinamento autonoma, installato sopra o in
prossimità di un edificio privato a uso abitativo e
tecnicamente strutturato in modo tale che la quantità di
energia elettrica prodotta dall'impianto risulti
costantemente inferiore alla quantità complessiva di energia
elettrica consumata privatamente dal titolare per le proprie
esigenze domestiche, costituisca un'attività economica ai
sensi della direttiva.
Nella sentenza, la Corte ha premesso che si considera
soggetto passivo dell'Iva chiunque esercita in modo
indipendente e in qualsiasi luogo una delle attività
economiche, tra le quali rientrano le operazioni che
comportino lo sfruttamento di un bene materiale o
immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di
stabilità. Lo sfruttamento di un impianto fotovoltaico
rientra fra le attività economiche, se mira a ricavarne
introiti stabili. Questa è una questione di fatto che deve
essere valutata in base a tutti gli elementi concreti, fra
cui la natura del bene. In proposito, un impianto
fotovoltaico collegato in rete e installato sopra o in
prossimità di un edificio abitativo, può, per sua stessa
natura, essere utilizzato sia per scopi economici sia a fini
privati.
Nella fattispecie, l'energia elettrica prodotta
dall'impianto fotovoltaico è stata ceduta in rete, dietro
contropartita di un corrispettivo, per cui si deve ritenere
che l'impianto sia stato sfruttato per ricavarne introiti,
dei quali resta da verificare la stabilità o meno. Rileva al
riguardo la Corte che il contratto è stato concluso «a tempo
indeterminato», per cui, trattandosi di sfruttamento di
lunga durata, la cessione in rete di energia elettrica in
maniera permanente e non soltanto occasionale integra il
requisito della stabilità degli introiti.
Per la Corte, quindi, risultano soddisfatti tutti i
presupposti necessari per qualificare l'attività in esame
come economica ai fini dell'Iva, con conseguente ingresso
del diritto alla detrazione, a nulla rilevando la
circostanza che la quantità di energia elettrica prodotta
dall'impianto è sempre inferiore alla quantità di energia
elettrica consumata dal gestore per le proprie esigenze
domestiche.
A causa delle caratteristiche tecniche dell'impianto, da un
lato, l'energia prodotta è ceduta alla rete e, dall'altro,
quella consumata è acquistata presso il gestore della rete.
In queste condizioni, la cessione dell'energia è
indipendente dall'operazione di prelevamento per le esigenze
domestiche, sicché il rapporto fra le due quantità è
irrilevante
(articolo Italia Oggi del 21.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Cassazione.
Non basta il frazionamento per accedere alla procedura
semplificata del decreto Romani.
Fotovoltaico con il «visto».
Senza autorizzazione paesaggistica scatta sempre il
sequestro.
L'autorizzazione paesaggistica prevista dal Dlgs 42/2004 è
necessaria per le opere dedicate alla produzione di energia
elettrica alimentate da fonti rinnovabili. Il frazionamento
di un impianto più grande in parti distinte, ciascuna fino a
1 Mw elettrico, non giustifica il ricorso alla procedura
semplificata prevista dal decreto Romani.
È questo il principio rilevante che giunge dalla III Sez. penale della Corte di Cassazione che con la
sentenza 19.06.2013 n. 26636 ha rigettato il ricorso avverso
il mancato dissequestro disposto dal Tribunale del riesame
di Chieti delle opere edili dirette alla realizzazione di un
impianto fotovoltaico, frazionato in tre distinte unità con
potenza fino a 1 Mw elettrico.
Il giudizio della Corte si fonda sul fatto che gli impianti
di produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile
devono essere sottoposti al preventivo assenso
paesaggistico, in quanto la realizzazione di impianti
qualificati come opere di pubblica utilità ed indifferibili
e urgenti in applicazione dell'articolo 12, Dlgs 387/2003
non incide sull'astratta configurabilità del reato
paesaggistico e, dunque, sul fumus richiesto per l'adozione
del sequestro.
Del resto, è proprio tale articolo 12 che prevede
l'autorizzazione unica, al rilascio della quale è
subordinata la realizzazione delle opere. Questa deve essere
rilasciata dall'autorità competente nel rispetto delle
normative vigenti «in materia di tutela dell'ambiente, di
tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico».
Queste condizioni sono esplicitamente richiamate anche
dall'articolo 5, comma 1, Dlgs 28/2011 (cd. decreto Romani)
il quale rinvia esplicitamente all'articolo 12, DLgs
387/2003.
Pertanto, l'autorizzazione unica di cui al citato articolo
12 riveste un carattere «onnicomprensivo esteso a tutti i
profili» connessi alla realizzazione e all'attivazione di
energia elettrica alimentata da fonti rinnovabili. In tale
alveo rientrano, a giudizio della Corte, anche gli aspetti
connessi alla conformità non solo edilizia ma anche
paesaggistica.
Il giudizio della Corte interviene sulla scorta della
sentenza 38733 del 20.03.2012 che la stessa sezione Terza
aveva adottato in un caso analogo. Si rafforza dunque il
percorso giurisprudenziale secondo cui non è sufficiente il
rispetto del profilo ambientale, dovendosi questo
necessariamente integrare con quello paesaggistico. Il che è
importantissimo, soprattutto in materia di impianti
fotovoltaici posti su terreno, che tanto imbruttiscono il
territorio.
Inoltre, la Corte ha confermato che a mente dell'articolo
12, DLgs 387/2003 citato la costruzione e l'esercizio di
impianti per la produzione di energia elettrica alimentati
da fonti rinnovabili, le opere connesse e le infrastrutture
indispensabili alla costruzione e all'esercizio degli
impianti nonché le loro modifiche sostanziali sono soggetti
all'autorizzazione unica ivi prevista e non
all'autorizzazione di cui all'articolo 6 del decreto Romani
(Pas, Procedura abilitativa semplificata) poiché per
accedere a tale sistema è necessario che gli impianti
abbiano una potenza nominale non superiore a 1 Mw elettrico.
Quindi, deve trattarsi di piccolissimi impianti.
Nel caso di specie, l'impianto era stato frazionato in tre
impianti più piccoli ma la Corte vi ha ravvisato una
iniziativa imprenditoriale unitaria facente capo ad un unico
concessionario e tale da rendere verosimile e astrattamente
configurabile l'ipotesi accusatoria del frazionamento di un
unico impianto in tre distinti, con conseguente esigenza
della più complessa e completa autorizzazione unica prevista
dall'articolo 12 del decreto legislativo 387/2003
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non può ritenersi
assoggettato a permesso di costruire il posizionamento di
blocchi di cemento non ancorati al suolo, collocati senza
esecuzione di lavori, in maniera provvisoria (sino a quando
sarà definito l’iter per il permesso di recintare l’area),
che secondo la ricorrente (senza contestazione sul punto)
sono immediatamente rimuovibili con una pala meccanica.
... per l'annullamento dell'ordinanza prot. n. 138/D del
05.07.2012 del dirigente dell'U.T.C. del Comune di Ostuni e
degli atti e provvedimenti ad essa comunque connessi, con
particolare riferimento a quelli ivi richiamati, come il
verbale dei VV.UU. prot. n. 19580 del 25.06.2012.
...
L’intervento contestato alla ricorrente consiste nel
posizionamento sul terreno di n. 6 cubi di cemento del
volume di 1 metro cubo ciascuno, collocati al dichiarato
fine di impedire l’accesso e il passaggio con mezzi
meccanici, in attesa che il Comune di Ostuni si pronunci
sulla richiesta di autorizzazione alla recinzione dell’area
di proprietà.
Ciò posto, si tratta si stabilire se l’attività in questione
debba essere annoverata tra quelle per le quali è richiesto
un titolo edilizio, posto che l’ordinanza impugnata
considera le opere “abusive perché realizzate in assenza
di Permesso di Costruire in zona del territorio comunale
soggetto a vincolo paesaggistico”.
Ad avviso del Collegio, tale connotazione deve essere
esclusa, posto che l’art. 10 del T.U. edilizia (DPR
06.06.2001, n. 380) valuta a tal fine la permanenza stabile
dell’opera, destinata a soddisfare esigenze non meramente
transeunti ma a costituire una permanente innovazione del
territorio, per lo più accompagnata dall’esecuzione di
lavori.
Invero, la norma stabilisce che costituiscono interventi di
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono
subordinati a permesso di costruire, per quanto qui rileva,
“gli interventi di nuova costruzione” che, ai sensi
dell’art. 3, primo comma, lett. e), DPR n. 380/2001 sono
definiti in negativo (opere non rientranti nelle categorie
di cui alle lettere precedenti: interventi di manutenzione
ordinaria o straordinaria, di restauro e di risanamento
conservativo e di ristrutturazione edilizia), nonché in base
proprio alla loro caratteristica di innovare in maniera
permanente l’assetto dei luoghi (cfr. la lett. e.3): “realizzazione
di infrastrutture e di impianti … che comporti la
trasformazione in via permanente di suolo inedificato”;
lett. e.5): “installazione di manufatti leggeri, anche
prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere … che non
siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”;
lett. e.7): “realizzazione di depositi di merci o di
materiali [e] realizzazione di impianti per attività
produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori
cui consegua la trasformazione permanente del suolo
inedificato”).
A tutto ciò consegue che non può ritenersi assoggettato a
permesso di costruire il posizionamento di blocchi di
cemento non ancorati al suolo, collocati senza esecuzione di
lavori, in maniera provvisoria (sino a quando sarà definito
l’iter per il permesso di recintare l’area), che secondo la
ricorrente (senza contestazione sul punto) sono
immediatamente rimuovibili con una pala meccanica.
Per tali considerazioni il ricorso è dunque fondato e va
accolto, con conseguente annullamento dell’impugnata
ordinanza (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 05.06.2013 n. 1327 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L’art. 14 d.lgs. n. 22/1997 (norma oggi
sostituita dall’art. 192 d.lgs. n. 152/2006, ma applicabile
ratione temporis alla fattispecie in esame), dopo aver
vietato il deposito, immissione e abbandono incontrollato di
rifiuti (commi 1 e 2), fa obbligo a chiunque violi i
suddetti divieti, di “… procedere alla rimozione, all'avvio
a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino
dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i
titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area
ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o
colpa” (comma 3).
Tale essendo il tenore della suddetta previsione normativa,
rileva il Collegio che, avuto riguardo all’orientamento
giurisprudenziale dominante, l'ordine di rimozione dei
rifiuti presenti sul fondo può essere rivolto al
proprietario solo quando ne sia dimostrata almeno la
corresponsabilità con gli autori dell'illecito, per avere
cioè posto in essere un comportamento, omissivo o
commissivo, a titolo doloso o colposo, dovendosi pertanto
escludere che la norma configuri un'ipotesi legale di
responsabilità oggettiva.
Ne discende l’illegittimità degli ordini di smaltimento dei
rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un
fondo in ragione della sua mera qualità, ma in mancanza di
adeguata dimostrazione, da parte dell'amministrazione
procedente, -e sulla base di un'istruttoria completa e di
un'esauriente motivazione- dell'imputabilità soggettiva
della condotta.
Il Collegio ravvisa l’illegittimità del provvedimento
comunale, privo di motivazione in ordine ai profili di dolo
o colpa ascrivibili ai ricorrenti per l’abbandono
incontrollato di rifiuti (come dedotto con il primo motivo),
sulla scorta dei precedenti pronunciamenti della Sezione in
simili fattispecie, ribaditi anche di recente (sentenze del
24.01.2013 nn. 155 e 156).
In funzione motivazionale possono essere riportate le
suddette decisioni: <<L’art. 14 d.lgs. n. 22/1997 (norma
oggi sostituita dall’art. 192 d.lgs. n. 152/2006, ma
applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame),
dopo aver vietato il deposito, immissione e abbandono
incontrollato di rifiuti (commi 1 e 2), fa obbligo a
chiunque violi i suddetti divieti, di “… procedere alla
rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei
rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido
con il proprietario e con i titolari di diritti reali o
personali di godimento sull'area ai quali tale violazione
sia imputabile a titolo di dolo o colpa” (comma 3).
Tale essendo il tenore della suddetta previsione normativa,
rileva il Collegio che, avuto riguardo all’orientamento
giurisprudenziale dominante, l'ordine di rimozione dei
rifiuti presenti sul fondo può essere rivolto al
proprietario solo quando ne sia dimostrata almeno la
corresponsabilità con gli autori dell'illecito, per avere
cioè posto in essere un comportamento, omissivo o
commissivo, a titolo doloso o colposo, dovendosi pertanto
escludere che la norma configuri un'ipotesi legale di
responsabilità oggettiva.
Ne discende l’illegittimità degli ordini di smaltimento dei
rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un
fondo in ragione della sua mera qualità, ma in mancanza di
adeguata dimostrazione, da parte dell'amministrazione
procedente, -e sulla base di un'istruttoria completa e di
un'esauriente motivazione- dell'imputabilità soggettiva
della condotta (in tal senso, cfr. C.d.S, V, 25.01.2005, n.
136; Id, V, 25.08.2008, n. 4061; Id, V, 19.03.2009, n. 1612;
Tar Sicilia, Palermo, n. 584/2010)>> (TAR Puglia-Lecce,
Sez. I,
sentenza 05.06.2013 n. 1321 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La fissazione sul terreno
di due strutture del genere (indipendentemente
dall’ancoraggio e dai materiali plastici della chiusura
perimetrale) comporta la chiusura di uno spazio fruibile,
che costituisce un nuovo volume (avente dimensioni di 40,00
x 46,00 mq. ed altezza media di m. 3,75 per ciascuna serra),
rilevante sotto il profilo paesaggistico, in quanto reca una
modifica dell’aspetto esteriore dei luoghi ed un impatto
visivo non trascurabile, ostruendo la libera visuale
dell’area ora occupata dalle serre.
Quindi, va esclusa la riconducibilità dell’intervento de quo
alla previsione di legge ex art. 167 dlgs 42/2004,
considerato che le due serre “multi tunnel” <<per forma e
dimensione costituiscono un ingombro stabile sul territorio
e pertanto non rientrano nella casistica prevista dall’art.
167, c. 4, del D.lgs. 42/2004>>.
Passando quindi all’esame del secondo motivo, occorre
considerare che l’art. 167, quarto comma, del d.lgs.
22.01.2004, n. 42 stabilisce i casi in cui può essere
accertata la compatibilità paesaggistica dell’opera
realizzata in assenza della previa autorizzazione, tra cui:
<<a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati>>.
La difesa del ricorrente si appunta sulla circostanza
secondo cui, nel caso di specie, le serre non creano volume
né costituiscono superficie utile, anche tenuto conto della
possibilità di realizzarle, in base alla legge regionale n.
19/1986, prescindendo dagli indici di fabbricabilità
stabiliti per i manufatti edilizi propriamente intesi (case,
depositi, ecc.).
La tesi non può essere condivisa.
Va premesso che, anche quando è posta dalla legge una
normativa edilizia di favore per speciali tipologie di
opere, resta in ogni caso doverosa la loro sottoposizione
alla valutazione del rispetto delle disposizioni poste a
tutela del bene paesaggio.
Nel caso di specie, la normativa recata dalla L.R.
11.09.1986, n. 19 (“Disciplina urbanistica per la
costruzione delle serre”) non riverbera quindi alcun
effetto sull’accertamento della compatibilità paesaggistica
dell’intervento, realizzato senza la previa autorizzazione
paesaggistica, per il quale occorre riferirsi unicamente
alla cennata disposizione del d.lgs. n. 42/2004, che –come
detto– esclude tale possibilità per quelle che determinano “creazione
di superfici utili o volumi”.
La Soprintendenza ha escluso la riconducibilità
dell’intervento alla previsione di legge, considerato che le
due serre “multi tunnel” <<per forma e dimensione
costituiscono un ingombro stabile sul territorio e pertanto
non rientrano nella casistica prevista dall’art. 167, c. 4,
del D.lgs. 42/2004>>.
La valutazione della Soprintendenza va condivisa, dal
momento che la fissazione sul terreno di due strutture del
genere (indipendentemente dall’ancoraggio e dai materiali
plastici della chiusura perimetrale) comporta la chiusura di
uno spazio fruibile, che costituisce un nuovo volume (avente
dimensioni di 40,00 x 46,00 mq. ed altezza media di m. 3,75
per ciascuna serra), rilevante sotto il profilo
paesaggistico, in quanto reca una modifica dell’aspetto
esteriore dei luoghi ed un impatto visivo non trascurabile,
ostruendo la libera visuale dell’area ora occupata dalle
serre (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 05.06.2013 n. 1319 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'articolo 4 della legge n. 10/1977 ed oggi
l'articolo 11 del DPR n. 380/2001 dispongono che l'atto
abilitativo alla edificazione sia rilasciato "al
proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo".
In particolare, poi, la giurisprudenza ha avuto modo di
chiarire che il rilascio della concessione edilizia non
presuppone necessariamente la proprietà del suolo da parte
del soggetto istante, essendo sufficiente la disponibilità
dello stesso; chiarendosi pure che il possesso del bene è
riconducibile alle situazioni di legittimazione per la
richiesta della concessione edilizia, alle quali, in
alternativa a quella dominicale, l'art. 4 l. n. 10/1977
genericamente rinvia.
Non sono
condivisibili gli argomenti dedotti in senso contrario dalle
parti resistenti, in particolare dal difensore del Comune di
Montecorvino Rovella, nel senso della radicale "inesistenza
giuridica" della D.I.A., siccome non corredata dai
documenti prescritti, ed in particolare dal titolo di
disponibilità dell'area interessata dall'intervento.
In proposito, deve rilevarsi che, ai sensi dell'art. 19,
comma 3, l. n. 241/1990 e dell'art. 23, comma 6, d.P.R. n.
380/2001, la "carenza dei requisiti e dei presupposti"
legittima l'Amministrazione all'esercizio, entro il termine
stabilito (trenta giorni decorrenti dalla presentazione
della denuncia, secondo la formulazione dell'art. 23, comma
1, d.P.R. n. 380/2001 vigente alla data della D.I.A. oggetto
di controversia), del potere inibitorio (mediante notifica
all'interessato dell'"ordine motivato di non effettuare
il previsto intervento"): ebbene, nessun elemento
normativo o sistematico induce a pervenire ad una diversa
conclusione, quanto alla tipologia di potere esercitabile
dall’Amministrazione, in relazione alla predicata carenza
del titolo di disponibilità dell'area interessata dai lavori
de quibus.
Così inquadrato il provvedimento impugnato, non resta che
rilevare che nessuna motivazione è stata fornita
dall'Amministrazione intimata, nonostante il significativo
lasso temporale seguito al perfezionamento della D.I.A.
(presentata in data 20.01.2009), in ordine all'interesse
pubblico giustificativo dell'annullamento ed alla sua
eventuale prevalenza sull'interesse conservativo del privato
destinatario degli effetti favorevoli dell'atto annullato,
secondo lo schema operativo delineato dall'art. 21-nonies l.
n. 241/1990 (espressamente richiamato, con riferimento alla
disciplina della D.I.A., dall'art. 19, comma 3, l. cit.).
In ogni caso, a prescindere da tale rilievo, deve osservarsi
che, come già statuito da questo Tribunale (TAR per la
Campania, Sezione Staccata di Salerno, Sez. II, 17.06.2008,
n. 1952), "l'articolo 4 della legge n. 10/1977 ed oggi
l'articolo 11 del DPR n. 380/2001 dispongono che l'atto
abilitativo alla edificazione sia rilasciato "al
proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo".
In particolare, poi, la giurisprudenza ha avuto modo di
chiarire che il rilascio della concessione edilizia non
presuppone necessariamente la proprietà del suolo da parte
del soggetto istante, essendo sufficiente la disponibilità
dello stesso (cfr. Cons. Stato, V, 24.10.1996, n. 1285; IV,
31.01.1995, n. 37); chiarendosi pure che il possesso del
bene è riconducibile alle situazioni di legittimazione per
la richiesta della concessione edilizia, alle quali, in
alternativa a quella dominicale, l'art. 4 l. n. 10/1977
genericamente rinvia (cfr. Cons. Stato, V, 18.06.1996, n.
718).
Pertanto, per affermare la legittimità della determinazione
impugnata non è necessario risolvere la questione (tra
l'altro pendente dinanzi al giudice civile) in ordine alla
titolarità del diritto dominicale. Sufficit al
riguardo la titolarità del possesso del bene…
(TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 30.05.2013 n. 1181 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Ordinanza di rimessione all’Adunanza plenaria.
Principio comunitario “chi inquina, paga” e responsabilità
del proprietario di un’area inquinata, che non sia anche
l’autore dell’inquinamento
Si sottopone all’esame dell’Adunanza plenaria la quaestio
iuris:
► se in base al principio di matrice comunitaria
compendiato nella formula “chi inquina, paga”,
l’amministrazione nazionale possa imporre al proprietario di
un’area inquinata, che non sia anche l’autore
dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di
messa in sicurezza di emergenza di cui all’articolo 240,
comma 1, lettera m) del decreto legislativo 152 del 2006
(sia pure, in solido con il responsabile e salvo il diritto
di rivalsa nei confronti del responsabile per gli oneri
sostenuti),
ovvero
►
se, in alternativa, in siffatte ipotesi gli effetti a carico
del proprietario “incolpevole” restino limitati a quanto
espressamente previsto dall’articolo 253 del medesimo
decreto legislativo in tema di oneri reali e privilegi
speciali
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 21.05.2013 n. 2740 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oneri di edificazione in area agricola.
Per interventi di nuova edificazione, a destinazione
turistico-residenziale, ancorché realizzati in via
eccezionale e derogatoria in zona agricola o a prevalente
vocazione rurale, l’incidenza degli oneri di urbanizzazione,
proprio in funzione della più marcata ed evidente incidenza
dei suddetti interventi sul territorio e in vista della
necessaria maggiore infrastrutturazione, non possono
comportare scostamenti dai coefficienti relativi ad altri
usi di natura residenziale.
D’altro canto è di intuitiva evidenza che per interventi di
nuova edificazione, a destinazione turistico-residenziale,
ancorché realizzati in via eccezionale e derogatoria in zona
agricola o a prevalente vocazione rurale, l’incidenza degli
oneri di urbanizzazione, proprio in funzione della più
marcata ed evidente incidenza dei suddetti interventi sul
territorio e in vista della necessaria maggiore
infrastrutturazione, non possono comportare scostamenti dai
coefficienti relativi ad altri usi di natura residenziale
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.05.2013 n. 2673 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La tenda (da sole) è più che amovibile
nell’immediato ed avvolgibile in sé. La stessa è
oggettivamente precaria e di carattere occasionale senza che
ne risulti alcun aumento volumetrico di aspetto
tridimensionale e stabile; la medesima sembra anche
atteggiarsi come di utilità alla struttura principale quale
pertinenza.
Conseguentemente, è illegittimo l'ordine di rimozione della
stessa in quanto installata abusivamente sulla presunzione
della necessità preventiva di un permesso comunale.
... per l'annullamento dell'ordine di rimozione di tenda da
sole e canale di raccolta acque piovane prot. n. 16886/12.
...
Con l’ordinanza qui impugnata è stato imposto al ricorrente
di rimuovere e demolire una tenda da sole, non meglio
descritta nello stesso atto di cui sopra ed un canale di
gronda e di scolo dell’acqua piovana disposto in fregio ad
una finestra di un appartamento altrui il cui proprietario è
stato qui chiamato in giudizio, ritenendo il Comune medesimo
trattarsi, nel caso, di opere necessitanti un preventivo
permesso qualificandosi così le stesse ed allo stato di
carattere abusivo.
Ovviamente la difesa del ricorrente, ritenendo essere stata
messa in campo una fallace interpretazione di varie norme di
cui al DPR 3820/2001 e alla L.R. 12/2005 e l’insistenza di
vari profili del vizio di eccesso di potere, ha finito col
concludere che le opere sopra descritte non necessiterebbero
di alcun titolo legittimante data la loro natura e la loro
funzione.
Il Comune, costituitosi in giudizio, ha controbattuto
ritenendo infondato il ricorso.
All’Udienza Pubblica dell’08/05/2013, la causa è stata
spedita in decisione.
Il ricorso è fondato.
Ed invero la tenda è più che amovibile nell’immediato ed
avvolgibile in sé. La stessa è oggettivamente precaria e di
carattere occasionale senza che ne risulti alcun aumento
volumetrico di aspetto tridimensionale e stabile; la
medesima sembra anche atteggiarsi come di utilità alla
struttura principale quale pertinenza.
Per quanto riguarda invece il canale di scolo, a tutto
concedere, lo stesso può definirsi come strumento di
sostanziale manutenzione teso ad evitare infiltrazioni ed
umidità. Ovviamente simili declinazioni lasciano salvi tutti
i diritti di terzi in relazione ad eventuali vertenze
privatistiche.
Le spese di lite della presente vertenza sono a carico del
Comune soccombente e sono quantificate in dispositivo, data
la vasta letteratura giurisprudenziale conforme all’esito di
cui sopra (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 16.05.2013 n. 468 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Telefonate private, pena ridotta.
L'uso in servizio per rilevare non può essere occasionale.
La Cassazione attenua la portata del
reato: il massimo di reclusione scende da 10 a 3 anni.
Usare sistematicamente il telefono della scuola per fini
personali o il pc dell'ufficio di segretaria per navigare su
internet, sempre per fini privati, integra il reato di
peculato d'uso e non quello di peculato comune. Sempre che
con tali comportamenti il lavoratore abbia prodotto un danno
apprezzabile al patrimonio della pubblica amministrazione
oppure una concreta lesione alla funzionalità dell'ufficio.
É il caso, per esempio, della dirigente scolastica che
utilizzi frequentemente il telefono della scuola per
effettuare telefonate all'estero.
E sia solito farlo per raggiungere il coniuge, altro
dirigente scolastico preposto ad una scuola italiana e
viceversa. Oppure all'assistente amministrativo aduso a
conversare privatamente nelle prime ore del mattino,
occupando la linea telefonica della scuola, approfittando
dell'assenza del dirigente. In ciò precludendo ai docenti di
comunicare l'assenza per malattia e arrecando pregiudizio
all'ordinario svolgimento delle lezioni. Dunque, se prima
chi assumeva tali comportamenti rischiava dai 4 ai 10 anni
di reclusione adesso la pena ipotizzabile va da 6 mesi a 3
anni di carcere.
É l'effetto della
sentenza 02.05.2013 n. 19054 delle Sezioni unite penali
della Corte di cassazione.
La pronuncia attenua la portata del reato modificando
sostanzialmente il precedente orientamento della Suprema
corte. Che per questo genere di reati aveva sempre ritenuto
che dovesse applicarsi la reclusione da 3 a 10 anni. Mentre
adesso il nuovo orientamento indirizza la giurisprudenza
verso l'applicazione la pena più blanda della reclusione da
6 mesi a tre anni. Il reato è previsto dall'articolo 414 del
codice penale. Il primo comma è quello che regola il
peculato comune e prevede che il pubblico ufficiale o
l'incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione
del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la
disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne
appropria, debba essere punito con la reclusione da quattro
a dieci anni. Il secondo comma, invece, regola il cosiddetto
peculato d'uso e commina la pena della reclusione da sei
mesi a tre anni quando il colpevole abbia agito al solo
scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo
l'uso momentaneo, sia stata immediatamente restituita.
Il vecchio orientamento della Suprema corte andava nel senso
di considerare la condotta dell'agente inquadrabile nel
reato di peculato comune. Secondo tale indirizzo, dunque,
l'appropriazione non assumeva rilievo sul telefono in sé,
quanto invece sugli impulsi elettromagnetici attraverso i
quali la telefonata si concretava. Impulsi che, non potendo
essere restituiti, precludevano la configurabilità del reato
di peculato d'uso che, per sua natura, prevede la
restituzione. Le Sezioni unite, invece, nel motivare il
nuovo orientamento, hanno spiegato che le energie occorrenti
per realizzare la comunicazione, e indebitamente utilizzate
dal pubblico dipendente, non costituiscono patrimonio
preesistente dell'amministrazione, suscettibile di
sottrazione. E quindi non assumono rilievo ai fini
dell'appropriazione necessaria a configurare il peculato
comune. L'utilizzo per fini personali, da parte del pubblico
agente, del telefono assegnatogli per le esigenze
dell'ufficio, rientra invece nel peculato d'uso. Con tale
condotta, infatti, «il soggetto distoglie precisamente il
bene fisico costituito dall'apparato telefonico, di cui è in
possesso per ragioni d'ufficio, dalla sua destinazione
pubblicistica», si legge nella sentenza, «piegandolo a fini
personali, per il tempo del relativo uso, per restituirlo,
alla cessazione di questo, alla destinazione originaria».
Resta il fatto, però, che la relativa responsabilità
sussiste solo nel caso in cui il dipendente con tale
comportamento produca un apprezzabile danno al patrimonio
della pubblica amministrazione oppure una concreta lesione
alla funzionalità dell'ufficio. Nel primo caso, dunque, può
realizzarsi solo se l'utilizzo improprio del telefono abbia
prodotto un notevole danno economico. Fatto questo che non
può verificarsi qualora l'utenza telefonica sia stata
attivata con un contratto «tutto incluso». Nel
secondo caso, invece, si realizza se il tempo passato al
telefono dal dipendente per fini personali abbia precluso
agli utenti l'accesso al servizio in modo significativo. Per
contro l'uso del telefono d'ufficio per fini personali,
economicamente e funzionalmente non significativo, deve
considerarsi, quindi, penalmente irrilevante
(articolo ItaliaOggi del 18.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Mutamento di destinazione d’uso rilevante.
Il mutamento di destinazione d’uso è
rilevante se avviene fra <<categorie funzionalmente autonome
dal punto di vista urbanistico>>, dovendosi in tal caso
verificare la variazione del carico urbanistico; parimenti è
stato affermato dalla giurisprudenza che, indipendentemente
dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio
dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal
punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del
carico.
In altri termini si configura una “trasformazione edilizia”
quando la stessa sia produttiva di vantaggi economici
connessi all’utilizzazione del bene immobile, anche senza
l’esecuzione di opere edilizie. Appare poi, altresì,
evidente che il passaggio da una prevalente destinazione
produttiva ad una prevalentemente residenziale o terziaria
implica il passaggio ad un’autonoma categoria funzionale,
con incremento del carico urbanistico dovuto alla presenza
di persone stabilmente residenti nell’immobile.
---------------
La categoria urbanistica di industria, in quanto
assoggettata ad un regime contributivo agevolato, è
categoria di stretta interpretazione e "concerne
strettamente i fabbricati complementari ed asserviti alle
esigenze proprie di un impianto industriale e non già quegli
edifici che non sono di per sé destinati alla produzione di
beni industriali ovvero opere edilizie comunque suscettibili
di essere utilizzate al servizio di qualsiasi attività
economica".
Fermo restando quanto sopra, giova in ogni caso ricordare
che lo scrivente TAR ha già chiarito (cfr. TAR Lombardia,
Milano, sez. II, 24.10.2012, n. 2593 e 27.07.2012, n. 2146),
che la specifica disciplina regionale sul mutamento di
destinazione d’uso deve essere letta ed interpretata alla
luce dei principi fondamentali e delle disposizioni più
generali risultanti dalla legislazione statale (DPR
380/2001) ed anche dalla stessa legge regionale 12/2005: si
verte, infatti, nella materia del “governo del territorio”,
oggetto di potestà legislativa regionale concorrente ai
sensi dell’art. 117, comma 3°, della Costituzione, con
conseguente necessità di rispetto dei principi fondamentali
della legislazione statale.
La legislazione regionale, all’art. 51, comma 1° citato, se
da una parte ammette in via di principio il passaggio da una
destinazione all’altra, fa espressamente salve le esclusioni
previste dallo strumento urbanistico generale (<<…salvo
quelle eventualmente escluse dal PGT>>).
L’art. 52, comma 2°, del resto, prevede per i mutamenti
d’uso senza opere edilizie un obbligo di semplice
comunicazione all’Amministrazione, purché i suddetti
mutamenti siano <<…conformi alle previsioni urbanistiche
comunali ed alla normativa igienico-sanitaria>>.
Quanto alla normativa statale, l’art. 32, comma 1°, del DPR
380/2001, qualifica come “variazione essenziale”
–sanzionata ai sensi del precedente art. 31 del DPR 380/2001
con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il
mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche
senza opere edilizie), che implichi una variazione degli
standard previsti dal DM 02.04.1968, n. 1444.
Appare quindi evidente che il mutamento di destinazione
d’uso, anche senza opere edilizie, non può costituire
un’operazione edilizia o urbanistica per così dire “neutra”,
dovendo l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non
abbia inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza
amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione
d’uso è rilevante se avviene fra <<categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico>>,
dovendosi in tal caso verificare la variazione del carico
urbanistico (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 13.07.2010,
n. 4546, con la giurisprudenza ivi richiamata); parimenti è
stato affermato che, indipendentemente dall’esecuzione
fisica di opere, rileva il passaggio dell’immobile ad una
categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista
urbanistico, con conseguente aumento del carico; in altri
termini si configura una “trasformazione edilizia”
quando la stessa sia produttiva di vantaggi economici
connessi all’utilizzazione del bene immobile, anche senza
l’esecuzione di opere edilizie (cfr. Consiglio di Stato,
sez. IV, 14.10.2011, n. 5539, con le pronunce in essa
richiamate ed anche TAR Lombardia, Milano, sez. II,
11.02.2011, n. 468).
Appare poi, altresì, evidente che il passaggio da una
prevalente destinazione produttiva ad una prevalentemente
residenziale o terziaria implica il passaggio ad un’autonoma
categoria funzionale, con incremento del carico urbanistico
dovuto alla presenza di persone stabilmente residenti
nell’immobile (cfr. sul punto anche TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 27.05.2009, n. 3859, che in relazione al citato
art. 32 delle NTA ha espressamente statuito che: <<...rispetto
alla destinazione produttiva la destinazione terziaria o
residenziale si caratterizza sotto una serie di profili
tutt’altro che secondari: comporta il pagamento di un
contributo di costruzione più elevato e il conferimento di
standard urbanistici in misura maggiore>>).
---------------
La giurisprudenza, peraltro, chiamata a pronunciarsi in tema
di cambi di destinazione d'uso, ha avuto modo di chiarire
che la categoria urbanistica di industria, in quanto
assoggettata ad un regime contributivo agevolato, è
categoria di stretta interpretazione e "concerne
strettamente i fabbricati complementari ed asserviti alle
esigenze proprie di un impianto industriale e non già quegli
edifici che non sono di per sé destinati alla produzione di
beni industriali ovvero opere edilizie comunque suscettibili
di essere utilizzate al servizio di qualsiasi attività
economica" (Cons. Stato, sez. V, 19.06.2012 n. 3561;
cfr. altresì Cons. Stato, Sez. IV, 25.06.2010, n. 4109; TAR
Sardegna, 27.10.2003, n. 1299)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.04.2013 n. 1066 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In sede di rilascio del titolo
abilitativo edilizio sussiste, in generale, l’obbligo per il
Comune di verificare il rispetto, da parte dell’istante, dei
limiti privatistici a condizione che tali limiti siano
immediatamente conoscibili e/o non contestati, di modo che
il controllo da parte dell’ente locale si traduca in una
semplice presa d’atto dei limiti medesimi senza necessità di
procedere ad un’accurata e approfondita disanima dei
rapporti tra i condomini.
Se, dunque, l’amministrazione normalmente non è tenuta a
svolgere indagini particolari in presenza di una richiesta
edificatoria presentata da un comproprietario, al contrario,
qualora uno o più comproprietari si attivino per denunciare
il proprio dissenso rispetto al rilascio del titolo
edificatorio, il Comune è tenuto a verificare se, a base
dell’istanza edificatoria, sia riconoscibile l’effettiva
sussistenza della disponibilità del bene oggetto
dell’intervento edificatorio.
Il Consiglio di Stato ha rilevato che in sede di rilascio
del titolo abilitativo edilizio sussiste, in generale,
l’obbligo per il Comune di verificare il rispetto, da parte
dell’istante, dei limiti privatistici a condizione che tali
limiti siano immediatamente conoscibili e/o non contestati,
di modo che il controllo da parte dell’ente locale si
traduca in una semplice presa d’atto dei limiti medesimi
senza necessità di procedere ad un’accurata e approfondita
disanima dei rapporti tra i condomini (v., ex plurimis,
Sez. IV, 10.12.2007, n. 6332; Sez. IV, 11.04.2007, n. 1654).
Se, dunque, l’amministrazione normalmente non è tenuta a
svolgere indagini particolari in presenza di una richiesta
edificatoria presentata da un comproprietario, al contrario,
qualora uno o più comproprietari si attivino per denunciare
il proprio dissenso rispetto al rilascio del titolo
edificatorio, il Comune è tenuto a verificare se, a base
dell’istanza edificatoria, sia riconoscibile l’effettiva
sussistenza della disponibilità del bene oggetto
dell’intervento edificatorio (VI, 20.12.2011 n. 6731)
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 22.04.2013 n. 2238 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Elettrosmog. Installazione d’impianti radioelettrici
consenso del proprietario e sanzioni penali.
Il combinato degli artt. 90, 91 e 92 del
D.lgs. n. 259/2003: “Codice delle Comunicazioni
elettroniche”, relativi alla procedura di espropriazione in
caso di mancato consenso del proprietario, dispone che detto
consenso, ove non si faccia luogo dell’espropriazione, debba
essere richiesto e ottenuto in quanto necessario ai fini
dell’autorizzazione dell’impianto.
Più in generale il consenso dei proprietari degli immobili
interessati ad attività edilizia, che ricomprende
l’installazione degli impianti radioelettrici, è principio
generale del nostro ordinamento desumibile dall’art. 11 del
D.P.R. n. 380 del 2001, volto a tutelare la ordinata
gestione del territorio e la tutela della proprietà privata
e dunque deve configurarsi come presupposto di carattere
sostanziale di avvio del procedimento e non un suo aggravio.
Inoltre, le infrastrutture di comunicazione elettronica
specificate al co. 1 dell’art. 87 del d.lgs. n. 259/2003
restano sottoposte pur sempre, alle sanzioni penali
specifiche delle opere soggette a permesso di costruire di
cui all’art. 44 del T.U. n. 380/2001 in quanto il mutamento
della disciplina per l’abilitazione all’intervento edilizio
non incide, sulla disciplina sanzionatoria penale, che non
viene correlata alla tipologia del titolo abilitativo, bensì
alla consistenza concreta dell’intervento; correlativamente,
se sono applicabili le sanzioni penali, a maggior ragione
devono ritenersi applicabili anche le sanzioni
amministrative di competenza del Comune.
Il fatto che l’art. 87 del D.lgs. n. 359/2003 preveda che
dopo 90 giorni l’intervento debba intendersi assentito per
silenzio-assenso, non comporta l’assimilazione della
procedura alla DIA e non esclude che la disciplina
sanzionatoria sia quella relativa al permesso a costruire.
Nel sesto motivo
la società Wind censura la sentenza appellata per avere
ritenuta legittima la ordinanza di demolizione emessa dal
Comune ed in specie:
- per avere erroneamente applicato il regime sanzionatorio
di cui all’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 (opere realizzate
in assenza di permesso di costruire), laddove, secondo la
società, le sanzioni edilizie non si applicano alla materia
disciplinata dal D.Lgs. n. 259/2003 e dalla L. n. 36/2001;
- anche a voler applicare il D.P.R. n. 380/2001, il
riferimento andrebbe piuttosto individuato negli artt. 37 (“Interventi
eseguiti in assenza o in difformità dalla denuncia di inizio
attività e accertamento di conformità”) e 38 (“Interventi
eseguiti in base a permesso annullato”), nella parte in
cui prevedono l’applicazione di una sanzione pecuniaria;
- non potrebbe consentirsi agli enti locali il potere di
incidere in maniera così radicale su un impianto che è
diretto a garantire la diffusione del segnale telefonico di
pubblica utilità, per il quale al più è consentita la
disattivazione, che comunque spetterebbe all’Amministrazione
centrale;
- occorrerebbe infine tenere conto del disposto dell’art.
2933 c.c., che impedisce la distruzione della cosa ove la
stessa sia di pregiudizio all’economia nazionale.
Tutte le censure di cui sopra non meritano accoglimento.
La sezione osserva come nel nostro ordinamento non è
possibile escludere a priori ogni possibile rilevanza,
quantomeno concorrente, dell’ordinario regime sanzionatorio
edilizio, con riferimento alle strutture del genere di
quella in esame, in quanto anche siffatti manufatti sono
potenzialmente suscettibili di incidere sull’assetto del
territorio e sulla estetica e stabilità degli immobili.
Anche la giurisprudenza della Cassazione Penale ha rilevato
che “…le infrastrutture di comunicazione elettronica
specificate al co. 1 dell’art. 87 del d.lgs. n. 259/2003
restano sottoposte pur sempre, alle sanzioni penali
specifiche delle opere soggette a permesso di costruire” di
cui all’art. 44 del T.U. n. 380/2001 in quanto “Il mutamento
della disciplina per l’abilitazione all’intervento edilizio
non incide, infatti, sulla disciplina sanzionatoria penale,
che non viene correlata alla tipologia del titolo
abilitativo, bensì alla consistenza concreta dell’intervento”
(Cass. Pen. III, 16.09.2005 n. 33735); correlativamente, se
sono applicabili le sanzioni penali, a maggior ragione
devono ritenersi applicabili anche le sanzioni
amministrative di competenza del Comune.
Il fatto che l’art. 87 del D.lgs. n. 359/2003 preveda che
dopo 90 giorni l’intervento debba intendersi assentito per
silenzio assenso poi non comporta la assimilazione della
procedura alla DIA e non esclude che la disciplina
sanzionatoria sia quella relativa al permesso a costruire.
Esattamente quindi il primo giudice ha richiamato come
termine di riferimento normativo la disposizione dell’art.
38 del D.P.R. n. 380/2001, co. 1, applicabile, in specie,
per la parte relativa alla riduzione in pristino che con
riferimento alle antenne è normalmente praticabile e non
applicabile per la parte relativa alla rimozione di vizi
procedurali venendo in rilevo la mancanza di un presupposto
sostanziale quale la disponibilità di un titolo di
disponibilità.
Né appare conferente il richiamo alla nota del Ministero
delle Comunicazioni del 28.02.2003 che si riferisce al caso
in disattivazione e spostamento di antenne già autorizzate e
che vengano gestite in difformità alle autorizzazioni
ricevute o alle norme applicabili mentre il caso in esame
attiene ad una antenna priva di autorizzazione in una
fattispecie rientrante nel potere di controllo del
territorio spettante al Comune.
Inapplicabile è infine l’art. 2933, secondo co., che si
riferisce ad ipotesi del tutto eccezionali, di beni volti a
produrre e distribuire ricchezza la cui distruzione
recherebbe un danno irreparabile all’economia nazionale là
dove il caso esame attiene ad un semplice smantellamento di
una antenna facilmente allocabile in altro luogo
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 22.04.2013 n. 2238 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Illegittimità ulteriori prescrizioni agli obblighi
di bonifica in mancanza della valutazione risultati analisi
falda sotterranea.
Sono illegittime le determinazioni conclusive della
Conferenza di Servizi decisoria relativa al sito di bonifica
di interesse nazionale di Massa Carrara, nella misura in cui
mediante detta approvazione, venivano imposte alla
Montedison s.r.l. ulteriori prescrizioni di bonifica, con
riferimento ad alcuni superamenti dei valori limite di
sostanze inquinanti riscontrati nelle acque sotterranee.
La
presenza di numerose possibili fonti di inquinamento in
un’area fortemente compromessa non può non considerare anche
la valutazione della struttura della falda freatica e dei
risultati delle analisi relative ai pozzi di emungimento più
prossimi all’area inquinata. Da non tralasciare, i risultati
dell’analisi “storica” in ordine alle lavorazioni effettuate
nello stabilimento in questione.
E' assolutamente rilevante
la mancata considerazione dei dati, appare, infatti, di
immediata evidenza come i risultati relativi all’analisi
delle acque emunte dai pozzi della barriera idraulica
prevista dal certificato di compiuta bonifica, non possano
essere considerati ininfluenti o secondari nella ricerca
delle fonti di inquinamento.
A questo proposito, la giurisprudenza della Sezione ha più
volte rilevato l’importanza del detto studio ai fini della
ricerca del responsabile dello stato di compromissione
ambientale in una zona caratterizzata da numerose e diverse
fonti di inquinamento e la contraddittorietà del
comportamento dell’Amministrazione che, dopo aver
commissionato il detto studio, non ne operi alcuna
considerazione in sede di conferenza di servizi decisoria:
<<sotto questo punto di vista risulta fondato, ancora, il
secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti depositato il
29.05.2009, laddove (punto II.c) è censurato il contrasto
tra lo studio di fattibilità redatto dall’I.C.R.A.M. (che
prevede la messa in sicurezza della falda, con un intervento
coordinato su scala dell’intero sito: cfr. docc. 25-29 della
ricorrente, ed in particolare doc. 28) e le prescrizioni
reiterate dall’Amministrazione con il decreto direttoriale
di recepimento della Conferenza di Servizi decisoria del
10.02.2009.
Nel caso di specie è, pertanto, rinvenibile il vizio di
eccesso di potere per contraddittorietà, che, per la
giurisprudenza, si può configurare laddove gli atti in
asserita contraddizione provengano da una stessa autorità,
onde si possa ritenere che questa, adottando di volta in
volta soluzioni diverse, abbia inteso usare della sua
potestà discrezionale per cause mutevoli, non aderenti al
fini istituzionale che è assegnato dalla norma attributiva
del potere (TAR Sardegna, Sez. I, 26.01.2010, n. 85; v.,
pure, TAR Lazio, Roma, Sez. II, 06.05.2009, n. 4740, secondo
cui è illegittimo per eccesso di potere per
contraddittorietà il provvedimento che presenti
contraddizioni od incongruenze rispetto a precedenti
valutazioni della medesima P.A., o quando sussistano più
manifestazioni di volontà dello stesso Ente che si pongano
tra loro in contrasto)>> (TAR Toscana, sez. II,
11.05.2010 n. 1397 e 1398, che peraltro sembrano rese con
riferimento alla medesima conferenza di servizi decisoria di
cui alla vicenda che ci occupa)
(massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 22.04.2013 n. 667 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rumore. Inquinamento acustico e tutela della salute pubblica.
Per integrare l’applicabilità della misura repressiva
dell’inquinamento acustico di cui all’art. 9 della L. n. 447
del 1995, non è necessario che il fenomeno coinvolga
l’intera collettività, al riguardo bastando a concretare
l’eccezionale ed urgente necessità di intervenire a tutela
della salute pubblica, anche l’esposto di una sola persona o
di una famiglia, non essendo previsto nella norma alcun
parametro numerico o dimensionale.
La giurisprudenza ha
inoltre precisato che ai fini dell’adozione della misura
repressiva delle violazioni della disciplina
sull’inquinamento acustico, i Comuni debbano utilizzare lo
specifico strumento dell’ordinanza contingibile ed urgente.
Il Collegio osserva che é infondato il primo mezzo
d’impugnazione, con cui la ricorrente ritiene illegittima
l’ordinanza sindacale impugnata per erronea applicazione
dell’art. 2, c. 3 lett. B) della L. n. 447 del 1995 e
dell’art. 8 del D.M. 14/11/1997.
Al riguardo il Collegio ritiene che, allo specifico fine di
verificare il superamento dei vigenti limiti di legge
riguardo alle emissioni degli impianti industriali, ivi
compresi, pertanto, anche i c.d. “limiti differenziali”
di cui all’art. 8 del D.M. 14/11/1977, onde valutare la
sussistenza o meno dei presupposti per l’adozione di
ordinanza extra ordinem ex art. 54, comma 2, D.Lgs.
n. 267 del 2000 e 9 L. n. 447 del 1995, non é necessario
–come all’opposto sostiene la ricorrente- che
l’amministrazione comunale procedente si sia già dotata dei
piani di zonizzazione acustica, essendo la previa
approvazione di detta pianificazione necessaria solo
riguardo ai c.d. limiti acustici “assoluti” (v. TAR
Toscana –sez. II, 24/01/2003 n. 39).
Quanto al secondo motivo di ricorso, sull’accoglimento del
quale, ad un primo, sommario esame della causa, la Sezione
ha fondato l’accoglimento dell’istanza cautelare, il
Collegio ritiene ora melius re perpensa di rilevarne,
all’opposto, l’infondatezza.
Nel caso di specie si ravvisa, infatti, la sussistenza dei
presupposti per l’adozione di ordinanza ex art. 54, comma 2,
D.Lgs. n. 267 del 2000, in ipotesi di presunto inquinamento
acustico di cui all’art. 9 L. n. 447 del 1995. Detti
presupposti consistono, in primo luogo, nell’accertato
superamento dei vigenti limiti acustici (“assoluti” e
“differenziali”) delle emissioni promananti dagli
impianti della ricorrente (v. relaz. fonometrica di A.R.P.A.
del 11/06/2004 doc. n. 10 del Comune), nonché nel
superamento anche del c.d. livello di attenzione dei rumori
(comportante un rischio per la salute umana), come è stato
accertato, oltre che nella citata relazione, anche nel
parere reso da A.U.S.L. di Modena Distretto di Carpi
Servizio Igiene Pubblica in data 05/07/2004 (v. doc. n. 3
del Comune), laddove la struttura sanitaria sostiene, in
riferimento ai rumori generati dallo stabilimento della
ricorrente, che essi contribuiscono “…all’insorgenza di
quei disturbi classificati come effetti extrauditivi che
possono interessate l’apparato cardiovascolare,
gastro-enterico, endocrino, oltre che il sistema nervoso
centrale”.
Le considerazioni che precedono conducono univocamente alla
conclusione, coerente con tali premesse, in ordine
all’esistenza di una situazione di attuale pericolo per la
salute; situazione alla quale risulta che l’amministrazione
abbia fatto legittimamente fronte mediante la misura
interdittiva straordinaria del divieto di funzionamento
degli impianti nelle ore notturne, coerentemente attribuendo
efficacia al divieto limitata al solo periodo necessario per
realizzare definitive opere mitigatorie del disturbo
acustico in questione. Le stesse considerazioni appena
svolte valgono anche per ritenere infondato il quarto mezzo
d’impugnazione, anch’esso facente leva sulla ritenuta
mancanza dei presupposti di legge per l’adozione di
ordinanze extra ordinem ai sensi degli art. 9 della
L. n. 447 del 1995 e 54, comma 2, del D.Lgs. n. 267 del
2000.
Sul punto, si deve infine osservare che la giurisprudenza
amministrativa ha stabilito che per integrare
l’applicabilità della misura repressiva dell’inquinamento
acustico di cui all’art. 9 della L. n. 447 del 1995, non è
necessario che il fenomeno coinvolga l’intera collettività,
al riguardo bastando a concretare l’eccezionale ed urgente
necessità di intervenire a tutela della salute pubblica,
anche l’esposto di una sola persona o di una famiglia (come
è avvenuto nel caso in esame), non essendo previsto nella
norma alcun parametro numerico o dimensionale (v. TAR
Piemonte, sez. II, 27/10/2011 n. 1127; TAR Lombardia –MI-
sez. IV, 21/09/2011 n. 2253).
La giurisprudenza ha inoltre precisato che ai fini
dell’adozione della misura repressiva delle violazioni della
disciplina sull’inquinamento acustico, i Comuni debbano
utilizzare lo specifico strumento dell’ordinanza
contingibile ed urgente (v. TAR Lombardia –MI- n. 2253 del
2011cit.) (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 22.04.2013 n. 302 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Autorizzazione paesaggistica e motivazione.
L’autorizzazione paesaggistica non motivata equivale ad una
inammissibile deroga al decreto di tutela.
Considerato che
la funzione dell’autorizzazione ex art. 151 del D.Lgs.
490/1999 (già articolo 7 della legge 1497/1939) è appunto
quella di verificare la compatibilità dell’opera che si
intende realizzare con l’esigenza di conservazione dei
valori paesistici protetti dal vincolo e non essendo quindi
concesso in sede autorizzatoria di derogare all’accertamento
di detti valori contenuto nel relativo provvedimento, una
valutazione di compatibilità che si traduca in una obiettiva
deroga al vincolo stesso si risolve in un’autorizzazione
illegittima.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente è infatti
l’autorizzazione comunale a rivelarsi del tutto illegittima,
in quanto non motivata sulla compatibilità
paesaggistica–ambientale.
L’autorizzazione è stata concessa “poiché la consistenza
planivolumetrica di dette opere e la tipologia costruttiva
delle stesse……non paiono in grado di arrecare pregiudizio ai
caratteri naturali distintivi del luogo che sono oggetto di
tutela, né di alterarne la percezione visiva”.
Il carattere tautologico e la totale apoditticità
dell’affermazione sono evidenti.
Trattasi di un generico modulo motivazionale elaborato dal
Comune di Rimini per innumerevoli casi di sanatoria sui
quali si è espresso, nonostante l’ovvia diversità degli
abusi (cfr. ad esempio la motivazione adottata nel
provvedimento di cui ai ricorsi n. 272/04 e n. 614/04
respinti con sentenze n. 578/2012 e n. 555/2012, nonché di
cui al ricorso n. 273/04, oggi posto in decisione) e a
prescindere dal bene tutelato, appartenente al paesaggio
fluviale come nel caso di specie, ovvero al litorale
marittimo, come negli altri casi.
L’autorizzazione paesaggistica è in palese contrasto con i
principi enunciati in materia dalla giurisprudenza del
Consiglio di Stato (cfr. ad es. sez. VI, 20.05.2005, n. 2546
e 18.03.2004, n. 1434), la quale ha statuito che l’autorità
delegata:
a) deve effettuare le proprie valutazioni in coerenza con le
previsioni del vincolo;
b) deve manifestare piena consapevolezza delle conseguenze
derivanti dalla realizzazione delle opere e dalla visibilità
dell’intervento nel contesto ambientale;
c) deve motivare l’autorizzazione in modo tale da fare
emergere l’apprezzamento di tutte le circostanze di fatto
rilevanti e la non manifesta irragionevolezza della scelta
di prevalenza di un valore diverso da quello tutelato in via
primaria.
La mancata osservanza di tali principi si traduce <in un
radicale vizio di legittimità dell’autorizzazione in termini
di eccesso di potere per difetto di motivazione e sviamento
dalla causa tipica, poiché….invece di gestione del vincolo,
si verifica di fatto la deroga alla sua efficacia (così, TAR
Liguria, sez. I, 05.11.2005, n. 1430)> (cfr. in questi
termini, TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 30.12.2006,
n. 3362).
La Soprintendenza non ha esorbitato dal potere di controllo
di tale legittimità.
Attiene infatti alla sua legittimità la considerazione
dell’autorizzazione in rapporto alle esigenze di tutela
paesistica: essendo scopo dell’autorizzazione quello di
amministrare il paesaggio garantendo la conservazione dei
valori oggetto di tutela, essa è affetta da un vizio
funzionale allorché consenta trasformazioni del territorio
senza valutare il mantenimento del pregio ambientale.
“La rilevazione degli elementi di fatto e la loro
correlazione con i valori vincolati, compiuta in sede di
“estrema difesa del vincolo”, non attiene alla opportunità
dell’azione amministrativa, bensì alla ricognizione degli
elementi da porre a base della valutazione di legittimità:
sicché è erroneo confondere una tale rilevazione con il
merito dell’atto amministrativo, che attiene alla
discrezionalità delle scelte amministrative”. (C.d.S.,
Sez. II, pareri nn. 898/97 e 899/97 del 22.04.1998; n.
1864/98 del 18.11.1998; n. 661/98 del 27.01.1999;
23.06.1999, n. 1104/99).
E’ legittimo l’annullamento fondato sulla mera constatazione
che l’autorità comunale non ha realmente ed effettivamente
valutato la turbativa causata sul contesto ambientale
tutelato.
Tale annullamento si fonda infatti su “rilievi che, non
solo costituiscono motivazione sufficiente e puntuale del
provvedimento, in quanto danno adeguata contezza dei vizi
accertati, ma sono certamente esercizio non di una
valutazione del merito della determinazione comunale…sibbene
di un controllo di mera legittimità, in quanto relativi a
forme tipiche di eccesso di potere quali il difetto di
presupposto e la carenza di motivazione” (v. Cons.
Stato, Ad. Plen. 07.06.1999, n. 20).
Esso “rientra pienamente nei limiti del potere di
annullamento del Soprintendente, così come definiti dalla
giurisprudenza amministrativa, a partire dalla decisione
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 9 del
14.12.2001 e recentemente ribaditi da questa Sezione con la
sentenza 24.01.2005, n. 81: nel senso che detto potere può
riguardare soltanto motivi di (il)legittimità, ivi compreso
il difetto di motivazione o di istruttoria nonché l’eccesso
di potere sotto ogni profilo” (cfr. in questi termini,
TAR Bologna, sentenza 22.03.2005, n. 431).
Il rilascio di una immotivata autorizzazione paesaggistica
equivale a revoca o deroga della tutela, al contrario di
quanto ritenuto dalla ricorrente.
E’ enunciazione costante della giurisprudenza amministrativa
quella per la quale l’autorizzazione paesaggistica non
motivata equivale ad una inammissibile deroga al decreto di
tutela, causa “il mancato assolvimento della funzione
dell’autorizzazione paesistica traducendosi quella concessa
in un’obiettiva deroga al vincolo stesso…la violazione di
legge in cui è incorso l’atto annullato nel disporre una
sostanziale deroga al vincolo, e, in definitiva, l’aver
omesso la stessa valutazione di compatibilità
dell’intervento con il vincolo in questione” (cfr. in
questi termini Cons. Stato, Sez. VI, 27.04.2006, n. 2831); “considerato
che la funzione dell’autorizzazione ex art. 151 del D.Lgs.
490/1999 (già articolo 7 della legge 1497/1939) è appunto
quella di verificare la compatibilità dell’opera che si
intende realizzare con l’esigenza di conservazione dei
valori paesistici protetti dal vincolo e non essendo quindi
concesso in sede autorizzatoria di derogare all’accertamento
di detti valori contenuto nel relativo provvedimento, una
valutazione di compatibilità che si traduca in una obiettiva
deroga al vincolo stesso si risolve in un’autorizzazione
illegittima” (cfr. TAR Bologna, Sez. II, n. 30.12.2006,
n. 3369; id. TAR Bologna, Sez. II, n. 17.06.2008, n. 2503;
nonché, in un precedente del tutto analogo, TAR Bologna,
Sez. II, 21.04.2011, n. 394)
(massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 22.04.2013 n. 295 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Vincolo paesistico e sanzioni.
La salvezza delle sanzioni ambientali di cui
all'art. 15 legge n. 1497 del 1939 disposta dall’art. 2,
comma 46, legge n. 662/1996, opera anche se l'abuso edilizio
sia stato ritenuto compatibile con l’assetto paesaggistico
dall'autorità preposta alla tutela del vincolo, attraverso
il rilascio del parere favorevole ai sensi dell’art. 32 l.
n. 47/1985. Ciò in coerenza con il carattere sanzionatorio e
non già risarcitorio dell’istituto, confermato con norma di
carattere interpretativo dalla menzionata disposizione della
legge finanziaria per il 1997.
E’ stato in altri termini affermato che l’autorizzazione
postuma ai fini ambientali è valevole all’esclusivo fine di
perfezionare la sanatoria prevista dal più volte citato art.
13 l. n. 47/1985, ma non elide del tutto le conseguenze
della violazione dell’obbligo di munirsi di tale assenso in
via preventiva sancito dall’art. 7 l. n. 1497/1939.
Cosi sintetizzate le contrapposte prospettazioni delle
parti, deve innanzitutto darsi atto che presso la
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato si registra un
incontrastato orientamento, formatosi successivamente alla
sentenza appellata, favorevole all’applicazione della
sanzione prevista dall’art. 15 l. n. 1497/1939 a prescindere
dell’esistenza di un effettivo danno ambientale (oltre alle
pronunce citate dall’amministrazione appellante: sez. IV,
03.11.2003 n. 7047; 08.11.2000 n. 6007; sez. VI, 13.07.2006
n. 4420; 21.02.2001 n. 912; vanno richiamate: sez. IV,
15.11.2004, n. 7405; 05.08.2003, n. 4482; 30.06.2003, n.
3931; 12.11.2002, n. 6279; sez. VI, 03.04.2003, n. 1729;
02.06.2000 n. 3184).
Le giurisprudenza in discorso ha infatti precisato, in
frontale contrario a quanto statuito nella sentenza
appellata, che la salvezza delle sanzioni ambientali di cui
all'art. 15 legge n. 1497 del 1939 disposta dall’art. 2,
comma 46, legge n. 662/1996, opera anche se l'abuso edilizio
sia stato ritenuto compatibile con l’assetto paesaggistico
dall'autorità preposta alla tutela del vincolo, attraverso
il rilascio del parere favorevole ai sensi dell’art. 32 l.
n. 47/1985. Ciò in coerenza appunto con il carattere
sanzionatorio e non già risarcitorio dell’istituto,
confermato con norma di carattere interpretativo dalla
menzionata disposizione della legge finanziaria per il 1997.
E’ stato in altri termini affermato che l’autorizzazione
postuma ai fini ambientali è valevole all’esclusivo fine di
perfezionare la sanatoria prevista dal più volte citato art.
13 l. n. 47/1985, ma non elide del tutto le conseguenze
della violazione dell’obbligo di munirsi di tale assenso in
via preventiva sancito dall’art. 7 l. n. 1497/1939.
Tale indirizzo muove dalla premessa di carattere generale,
espressa dall’Adunanza generale nel parere n. 4
dell’11.04.2002, che l’autorizzazione ambientale in
sanatoria non costituisce un equipollente perfetto
dell’autorizzazione preventiva, giacché solo un effettivo
controllo a priori degli interventi di trasformazione
edilizia in aree vincolate è idoneo ad assicurare la tutela
dei valori paesaggistici, cosicché, una volta nondimeno
ammessa, essenzialmente per economia di mezzi, l’assentibilità
postuma di tali interventivi, con l’effetto di precludere la
riduzione in pristino attraverso la demolizione
dell’edificio, deve comunque essere fatto salvo il potere di
infliggere la sanzione pecuniaria di cui all’articolo 15
della legge n. 1497/1939, come appunto precisato dal
legislatore in sede di legge finanziaria per il 1997 con il
più volte citato art. 2, comma 46
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.04.2013 n. 2216
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rumore. Piano di zonizzazione acustica e aree particolarmente
protette.
Il Piano di zonizzazione acustica ha
espressamente enunciato i criteri utilizzati per la
zonizzazione, precisando in generale che la classificazione
è stata prevista avendo come riferimento la prevalenza delle
attività insediate.
Nel dettaglio, si è espressamente ritenuto che non
sussistessero nel territorio comunale aree “particolarmente
protette”, dovendosi intendere per “area” una vasta
estensione esclusivamente a ciò destinata. La semplice
sussistenza di edifici destinati ad attrezzature
assistenziali, scuole, aree verdi, non è invece stata
ritenuta sufficiente a giustificare l’identificazione di una
zona specifica di classe I.
Osserva preliminarmente il Collegio che un atto di
pianificazione generale, tranne i casi di incidenza su
posizioni consolidate, non ha bisogno di una motivazione
ulteriore rispetto a quella che si esprime con i criteri
posti a sua base (C.S., Sez. IV, 02.10.2008 n. 4765).
Il Piano impugnato, ha espressamente enunciato i criteri
utilizzati per la zonizzazione, precisando in generale che “la
classificazione è stata prevista avendo come riferimento la
prevalenza delle attività insediate”.
Nel dettaglio, si è espressamente ritenuto che non
sussistessero nel territorio comunale aree “particolarmente
protette”, dovendosi intendere per “area” una
vasta estensione esclusivamente a ciò destinata. La semplice
sussistenza di edifici destinati ad attrezzature
assistenziali, scuole, aree verdi, non è invece stata
ritenuta sufficiente a giustificare l’identificazione di una
zona specifica di classe I, ad eccezione di un’Oasi
naturalistica (Boza).
Quanto precede è stato motivato in relazione al contenuto
della D.G.R. 12.7.2022 n. 9776, in materia di “criteri
tecnici di dettaglio per la redazione della classificazione
acustica del territorio comunale”, secondo cui “l’individuazione
di zone di classe I va fatta con estrema attenzione, a
fronte anche di specifici rilievi fonometrici che ne
supportino la sostenibilità”
(massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 19.04.2013 n. 986 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Attuazione Piano Insediamenti Produttivi (PIP).
Quanto al concetto di “attuazione” di un Piano insediamenti
produttivi, un Piano può dirsi “attuato” allorché vi sia
stata l’utilizzazione delle aree in esso ricomprese da parte
delle imprese assegnatarie, previo espropriazione, o altra
forma di acquisizione, delle medesime.
Non è dato, infatti,
individuare un concetto diverso di “attuazione” di uno
strumento urbanistico attuativo e segnatamente di un PIP, se
non quello della effettiva utilizzazione delle sue
previsioni, in coerenza con la natura dell’atto di
pianificazione e con le finalità di interesse pubblico per
suo tramite perseguite.
Quanto al concetto di “attuazione” di un Piano insediamenti
produttivi, il Collegio ritiene –concordando con il I
giudice– che effettivamente un Piano può dirsi “attuato”
allorché vi sia stata l’utilizzazione delle aree in esso
ricomprese da parte delle imprese assegnatarie, previo
espropriazione (o altra forma di acquisizione) delle
medesime.
Non è dato, infatti, individuare un concetto diverso di “attuazione”
di uno strumento urbanistico attuativo (e segnatamente di un
PIP), se non quello della effettiva utilizzazione delle sue
previsioni, in coerenza con la natura dell’atto di
pianificazione e con le finalità di interesse pubblico per
suo tramite perseguite
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.04.2013 n. 2178 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Realizzazione di un’isola ecologica adiacente ad un
edificio scolastico, configurabilità dell’interesse ad agire.
Non è di per se sufficiente, ai fini della configurabilità
dell’interesse ad agire, il mero rapporto di prossimità tra
chi agisce in giudizio e l’opera oggetto del provvedimento
amministrativo che intende contestare.
È, infatti,
necessario dedurre un danno sia pure potenziale che può
derivare dall’opera in questione. Danno che se può ritenersi
in re ipsa in caso di realizzazione di impianti
potenzialmente inquinanti per la tecnologia utilizzata
(realizzazione di un impianto di termovalorizzazione dei
rifiuti), va, invece, specificamente dedotto in caso di
impianti in sé inidonei a determinare una chiara lesione
degli interessi dei ricorrenti.
Dunque, il mero criterio
della vicinitas di un fondo o di una abitazione all’area
oggetto dell’intervento urbanistico-edilizio non può ex se
radicare la legittimazione al ricorso, dovendo sempre
fornire il ricorrente, la prova concreta del vulnus
specifico inferto dagli atti impugnati alla propria sfera
giuridica, in termini, ad esempio, di deprezzamento del
valore del bene o di concreta compromissione del diritto
alla salute ed all’ambiente.
Sarebbe stato necessario, in
definitiva, prospettare delle esternalità negative sulla
salute e l’ambiente, derivanti dalla realizzazione
dell’opera che, invece, gli odierni appellanti non risultano
aver dimostrato alla luce delle concrete modalità di
conferimento e della tipologia dei rifiuti che dovranno
essere depositati presso l’isola ecologica.
Occorre rammentare come la giurisprudenza di questo
Consiglio ha più volte ribadito come non sia di per se
sufficiente, ai fini della configurabilità dell’interesse ad
agire, il mero rapporto di prossimità tra chi agisce in
giudizio e l’opera oggetto del provvedimento amministrativo
che intende contestare.
È, infatti, necessario dedurre una danno sia pure potenziale
che può derivare dall’opera in questione (cfr. da ultimo,
sulla necessità che per configurare la condizione
dell’azione dell’interesse ad agire sia indispensabile
assodare la concretezza, la personalità e l’attualità della
lesione alla sfera giuridica di chi agisce in giudizio,
Cons. St., sez. V, n. 6261 del 2012, relativamente alla
portata generale del principio; sez. IV, n. 4926 del 2012,
in relazione alla materia della tutela dell’ambiente).
Danno che se può ritenersi in re ipsa in caso di
realizzazione di impianti potenzialmente inquinanti per la
tecnologia utilizzata (così Cons. St., Sez. V, 01.10.2010,
n. 7275, nel caso di realizzazione di un impianto di
termovalorizzazione dei rifiuti), va, invece, specificamente
dedotto in caso di impianti in sé inidonei a determinare una
chiara lesione degli interessi dei ricorrenti.
In questo senso conclude, ex plurimis, Cons. St.,
Sez. IV, n. 8364/2010, secondo la quale: “…il mero
criterio della vicinitas di un fondo o di una abitazione
all’area oggetto dell’intervento urbanistico-edilizio non
può ex se radicare la legittimazione al ricorso, dovendo
sempre fornire il ricorrente, in casi come quello in esame,
la prova concreta del vulnus specifico inferto dagli atti
impugnati alla propria sfera giuridica, in termini, ad
esempio, di deprezzamento del valore del bene o di concreta
compromissione del diritto alla salute ed all’ambiente (cfr.
sul principio, anche se espresso in relazione ad impianto di
smaltimento rifiuti, Consiglio di Stato, sez. V, 14.06.2007,
n. 3191 e 16.04.2003, n. 1948)”; più di recente Cons.
St., Sez. V, n. 2460/2012 ha ribadito che “…la mera
vicinanza di un fondo ad una discarica non legittima per ciò
solo ed automaticamente il proprietario frontista ad
insorgere avverso il provvedimento autorizzativo dell'opera,
essendo necessaria, al riguardo, anche la prova del danno
che egli da questa possa ricevere”.
Sarebbe stato necessario, in definitiva, prospettare delle
esternalità negative sulla salute e l’ambiente, derivanti
dalla realizzazione dell’opera che, invece, gli odierni
appellanti non risultano aver dimostrato alla luce delle
concrete modalità di conferimento e della tipologia dei
rifiuti che dovranno essere depositati presso l’isola
ecologica (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 16.04.2013 n. 2108 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Illegittimità d.i.a. su immobile abusivo
Non possono essere destinatari dei provvedimenti di assenso
al regime della d.i.a. manufatti abusivi che non siano stati
sanati o condonati, in quanto gli interventi ulteriori, sia
pure riconducibili a manutenzione straordinaria, restauro
e/o risanamento conservativo oppure ristrutturazione,
ripetono le caratteristiche di illegittimità dell’opera cui
ineriscono strutturalmente.
Giurisprudenza uniforme rammenta come non possano essere
destinatari dei provvedimenti di assenso al regime della
d.i.a. manufatti abusivi che non siano stati sanati o
condonati, in quanto gli interventi ulteriori -sia pure
riconducibili a manutenzione straordinaria, restauro e/o
risanamento conservativo oppure ristrutturazione– “ripetono
le caratteristiche di illegittimità dell’opera cui
ineriscono strutturalmente” (Cass. pen., III, 24.10.2008
n. 45070; id., 19.04.2006 n. 21490) (massima tratta da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 16.04.2013 n. 2102 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Ambiente in genere. Illegittimità ordinanza del Sindaco per
l’eliminazione di impianto di distribuzione carburanti senza
partecipazione dell’interessato.
E’ illegittima l’ordinanza del sindaco
per l’eliminazione di impianto di distribuzione carburanti
senza coinvolgimento della controparte.
L’esatta rappresentazione dei luoghi e la valutazione dello
stato di pericolo devono fondarsi su un procedimento la cui
istruttoria sia aperta alla partecipazione collaborativa
dell’interessato, al fine di individuare la migliore
soluzione che contemperi, se possibile, il preminente
interesse alla sicurezza con quello al mantenimento
dell’impianto, sotto il duplice profilo della salvaguardia
degli interessi del titolare e della offerta del servizio ai
cittadini. Tale affermazione non significa che
l’Amministrazione, in sede di rinnovazione del procedimento,
non potrà ordinare nuovamente la chiusura dell’impianto di
cui si tratta.
Peraltro, a tale soluzione si potrà addivenire qualora, dopo
l’istruttoria condotta con il concorso del titolare,
risulterà confermata la pericolosità della struttura e
saranno risultate impraticabili altre soluzioni quali
eventuali modifiche alla medesima, il suo spostamento in
altra zona o altro.
La sentenza di primo grado deve essere condivisa anche nella
parte in cui dichiara insufficientemente dimostrata la
pericolosità dell’impianto, al fine dell’applicazione
dell’art. 19 della legge regionale della Campania
29.06.1994, n. 27, ai sensi del quale “le ipotesi di
«incompatibilità tra impianto e territorio» sono le
seguenti:
a) l'arresto o la deviazione della linea di flusso del
traffico veicolare in conseguenza dell'effettuazione del
rifornimento di carburanti;
b) la presenza nel tratto di strada, prospiciente
l'impianto, di un semaforo, di un incrocio, di una curva o
di un dosso;
c) l'impedimento totale o parziale, di visuale riguardo ai
beni di interesse storico, architettonico ed ambientale a
causa delle strutture dell'impianto”.
Il caso che ora occupa ricade nell’ambito di applicazione
della lettera b).
Riguardo a tale problematica deve essere rilevato come le
deduzioni del Comune siano state compiutamente confutate
dall’appellante anche mediante la produzione di perizia
giurata.
Il Collegio deve quindi riprendere quanto argomentato al
punto 3a, rilevando che l’esatta rappresentazione dei luoghi
e la valutazione dello stato di pericolo devono fondarsi su
un procedimento la cui istruttoria sia aperta alla
partecipazione collaborativa dell’interessato, al fine di
individuare la migliore soluzione che contemperi, se
possibile, il preminente interesse alla sicurezza con quello
al mantenimento dell’impianto, sotto il duplice profilo
della salvaguardia degli interessi del titolare e della
offerta del servizio ai cittadini, come sottolineato dal
primo giudice.
Tale affermazione non significa che l’Amministrazione, in
sede di rinnovazione del procedimento, non potrà ordinare
nuovamente la chiusura dell’impianto di cui si tratta.
Peraltro, a tale soluzione si potrà addivenire qualora, dopo
l’istruttoria condotta con il concorso del titolare,
risulterà confermata la pericolosità della struttura e
saranno risultate impraticabili altre soluzioni quali
eventuali modifiche alla medesima, il suo spostamento in
altra zona o altro (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 16.04.2013 n. 2099 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Legittimità diniego condono edilizio opere
all’interno della fascia di rispetto autostradale.
Il vincolo di inedificabilità gravante
sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere assoluto
e prescinde dalla caratteristiche dell’opera realizzata, in
quanto il divieto di costruzione sancito dall’art. 9 della
L. 24.07.1961 n. 729 del 1961 e dal D.M. 1404 del 1968 non
può essere inteso restrittivamente al solo scopo di
prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di
costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale,
pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità
delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza
di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile,
all’occorrenza, dal concessionario, per l’esecuzione dei
lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di
materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza
limiti connessi alla presenza di costruzioni, con la
conseguenza le distanze previste vanno osservate anche con
riferimento ad opere che non superino il livello della sede
stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur
rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere
preesistenti.
In tale contesto, le opere realizzate dopo l’imposizione del
vincolo all’interno della fascia di rispetto autostradale
rientrano nella previsione di cui all’art. 33, comma 1, lett.
d), della L. 28.02.1985 n. 47 e non sono pertanto
suscettibili di sanatoria.
Come è ben noto, il vincolo di inedificabilità gravante
sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere assoluto
e prescinde dalla caratteristiche dell’opera realizzata, in
quanto il divieto di costruzione sancito dall’art. 9 della
L. 24.07.1961 n. 729 del 1961 e dal susseguente D.M. 1404
del 1968 non può essere inteso restrittivamente al solo
scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali
suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede
autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla
incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia
esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile,
all’occorrenza, dal concessionario, per l’esecuzione dei
lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di
materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza
limiti connessi alla presenza di costruzioni, con la
conseguenza le distanze previste vanno osservate anche con
riferimento ad opere che non superino il livello della sede
stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur
rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere
preesistenti (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons.
Stato, Sez. IV, 30.09.2008 n. 4719 e Cass. Civ., Sez. II,
03.11.2010 n. 22422).
In tale contesto, le opere realizzate dopo l’imposizione del
vincolo all’interno della fascia di rispetto autostradale
rientrano nella previsione di cui all’art. 33, comma 1,
lett. d), della L. 28.02.1985 n. 47 e non sono pertanto
suscettibili di sanatoria (cfr. al riguardo, ad es., Cons.
Stato, Sez. IV, 18.10.2002 n. 5716 e 25.09.2002 n. 4927)
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.04.2013 n. 2062 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il semplice sbancamento del terreno non
testimonia l’intenzione del concessionario di realizzare il
manufatto assentito.
Ai fini dell'impedimento della decadenza
della concessione ai sensi dell'art. 31, legge 17.08.1942,
n. 1150, l'avvio dei lavori può senz'altro ritenersi
sussistente quando le opere intraprese ed oggetto della
concessione siano tali da manifestare l'univoca intenzione
del concessionario di realizzare il manufatto assentito.
La circostanza relativa alla ripulitura del sito e di aver
approntato il cantiere ed i materiali necessari per
l'esecuzione dei lavori sull'immobile non può certamente
considerarsi come volontà diretta ed univoca volta al
compimento delle opere assentite.
Del pari, è stato in passato rimarcato che al fine di
impedire la decadenza comminata dall'art. 31 della L.
17.08.1942, n. 1150, come sostituito dall'art. 10 della L.
06.08.1967, n. 765 e dall'art. 4 della L. 28.01.1977, n. 10
l'inizio dei lavori può ritenersi sussistente quando le
opere intraprese siano tali da manifestare una effettiva
volontà da parte del concessionario di realizzare il
manufatto assentito e tale non può considerarsi il semplice
sbancamento del terreno.
Nel merito, nel rimarcare che per costante e condivisibile
giurisprudenza di questa Sezione l”'amministrazione non è
tenuta a fornire specifiche motivazioni sulla adozione
dell'atto di decadenza del permesso di costruire di cui
all'art. 15, comma 4, d.p.r. n. 380/2001, in quanto qui non
si è in presenza di un provvedimento negativo o di
autotutela e la pronuncia di decadenza, per il suo carattere
dovuto, è sufficientemente motivata con la sola
evidenziazione dell'effettiva sussistenza dei presupposti di
fatto.
Né è richiesta alcuna ulteriore specificazione, stante la
immediata e diretta prevalenza dell'interesse pubblico
all'attuazione della regolamentazione sopravvenuta che è
imposta dalla norma in questione (Cons. Stato Sez. IV,
07.09.2011, n. 5028), ritiene il Collegio di dovere
sinteticamente richiamare alcuni precedenti
giurisprudenziali di merito, che hanno costantemente
affermato il principio (riferibile sia all'art. 31, legge
17.08.1942, n. 1150 che all’art. 15 del TU edilizia) per cui
ai fini dell'impedimento della decadenza della concessione
ai sensi dell'art. 31, legge 17.08.1942, n. 1150, l'avvio
dei lavori può senz'altro ritenersi sussistente quando le
opere intraprese ed oggetto della concessione siano tali da
manifestare l'univoca intenzione del concessionario di
realizzare il manufatto assentito. La circostanza relativa
alla ripulitura del sito e di aver approntato il cantiere ed
i materiali necessari per l'esecuzione dei lavori
sull'immobile non può certamente considerarsi come volontà
diretta ed univoca volta al compimento delle opere assentite
(ex multis TAR Molise Campobasso Sez. I, 19.09.2005,
n. 875).
Del pari, è stato in passato rimarcato che al fine di
impedire la decadenza comminata dall'art. 31 della L.
17.08.1942, n. 1150, come sostituito dall'art. 10 della L.
06.08.1967, n. 765 e dall'art. 4 della L. 28.01.1977, n. 10
l'inizio dei lavori può ritenersi sussistente quando le
opere intraprese siano tali da manifestare una effettiva
volontà da parte del concessionario di realizzare il
manufatto assentito e tale non può considerarsi il semplice
sbancamento del terreno (cfr. ex multis, Cons. St.,
Sez. V, 22.11.1993, n. 1165, ma anche TAR Marche Ancona,
Sez. I, Sent., 13.03.2008, n. 195).
Nel caso di specie, nei tre lotti attinti dal provvedimento
dichiarativo decadenziale veniva notata la realizzazione
(soltanto) di “movimenti terra e gittata di uno strato di
battuto di calcestruzzo a circoscrivere le fondamenta della
costruzione a farsi”.
Appare evidente pertanto che non sussistevano i requisiti
minimali per ritenere che i lavori fossero stati iniziati e,
stante la circostanza che erano state rilasciate a parte
appellante autonome e separate concessioni edilizie non
giova alla posizione di quest’ultima il richiamo
all’avvenuto inizio dei lavori nell’altro lotto.
La prescrizione relativa all’inizio “serio e comprovato”
delle opere assentite entro l’anno risponde ad un evidente
interesse pubblico, incidente sui poteri programmatori
dell’amministrazione comunale: si è detto infatti, in
passato, che affinché non operi la decadenza della
concessione edilizia per mancato inizio dei lavori entro
l'anno, non possono essere valutate come cause di forza
maggiore le libere scelte imprenditoriali, come tali
implicanti un'alea, le cui conseguenze negative non possono
che essere imputate al concessionario (tra le tante, TAR
Sicilia Catania Sez. I, 21.11.2006, n. 2316).
Esattamente, ad avviso del Collegio il comune ha riscontrato
il mancato inizio dei lavori sui lotti per cui è causa
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.04.2013 n. 2027 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Ai fini della
qualificazione di un rapporto giuridico non deve aversi
riguardo tanto al nomen juris speso dalle parti per
designarlo, quanto alle caratteristiche da esso
effettivamente rivestite nella sua concreta attuazione.
Parimenti, è stato rimarcato, quanto alla qualificazione del
provvedimento, che “nell'interpretazione dell'atto
amministrativo, ai fini della sua qualificazione, si deve
tener conto non del nomen juris assegnatogli dall'autorità
emanante, ma del suo effettivo contenuto e di quanto esso
effettivamente dispone: ciò, in quanto la sostanza dell'atto
prevale sul nomen juris che la P.A. abbia inteso
utilizzare”.
È costante, infatti, l'indirizzo giurisprudenziale in base
al quale, nell'interpretazione dell'atto amministrativo, ai
fini della sua qualificazione, si deve tener conto non del
nomen juris assegnatogli dall'autorità emanante, ma del suo
effettivo contenuto e di quanto esso effettivamente dispone:
ciò, in quanto la sostanza dell'atto prevale sul nomen juris
che la P.A. abbia inteso utilizzare.
Quanto alla prima censura, rammenta il Collegio
che, per pacifica giurisprudenza, “ai fini della
qualificazione di un rapporto giuridico non deve aversi
riguardo tanto al nomen juris speso dalle parti per
designarlo, quanto alle caratteristiche da esso
effettivamente rivestite nella sua concreta attuazione”
(Cons. Stato Sez. V, 19.11.2012, n. 5848); parimenti, è
stato rimarcato, quanto alla qualificazione del
provvedimento, che “nell'interpretazione dell'atto
amministrativo, ai fini della sua qualificazione, si deve
tener conto non del nomen juris assegnatogli dall'autorità
emanante, ma del suo effettivo contenuto e di quanto esso
effettivamente dispone: ciò, in quanto la sostanza dell'atto
prevale sul nomen juris che la P.A. abbia inteso utilizzare”
(TAR Lazio Latina Sez. I, 22.10.2012, n. 791).
È costante, infatti, l'indirizzo giurisprudenziale in base
al quale, nell'interpretazione dell'atto amministrativo, ai
fini della sua qualificazione, si deve tener conto non del
nomen juris assegnatogli dall'autorità emanante, ma
del suo effettivo contenuto e di quanto esso effettivamente
dispone (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. II, 14.11.2011, n.
8828): ciò, in quanto la sostanza dell'atto prevale sul
nomen juris che la P.A. abbia inteso utilizzare (v.
C.d.S., Sez. V, 16.09.2011, n. 5211 ma si veda anche ex
multis, TAR Lazio, Roma, Sez. II, 03.11.2009, n. 10782,
TAR Lazio, Latina, Sez. I, 21.07.2011, n. 614)
Nel caso di specie sia i presupposti oggettivi posti a
sostegno del provvedimento decadenziale che il dato fattuale
che ad avviso del comune lo giustificava erano riconducibili
alla prescrizione di cui all’articolo 31 della legge 1150
del 1942: l’errato nomen del provvedimento non rileva
affatto (e soltanto per completezza, comunque, si fa
presente che non è sporadica, in dottrina, la
riconducibilità della sanzione della decadenza ad un lato
concetto di “autotutela”, intesa qual deliberazione
atta a vanificare gli effetti di un precedente
provvedimento) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.04.2013 n. 2027 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rumore. Legittimità ordinanza per cessazione dell’utilizzo
nel locale discoteca di diffusori e strumenti sonori.
E’ legittima l’ordinanza con cui si dispone la cessazione
dell’utilizzo nel locale discoteca di diffusori e strumenti
sonori, e l’eventuale riutilizzazione, da autorizzarsi con
apposito atto, alla presentazione all’Azienda USL di
documentazione attestante l’attuazione di tutti gli
interventi indicati dal tecnico competente per non rendere
possibile il superamento dei limiti prescritti dalla vigente
normativa in materia di inquinamento acustico.
L’articolo 16
della legge regionale della Puglia del 12.02.2002 n.
3, prescrive che “in ogni caso”, quindi indipendentemente
dalla zonizzazione acustica del territorio comunale con la
classificazione del territorio medesimo mediante
suddivisione in zone omogenee di destinazione d'uso, le
emissioni sonore delle attività “ricreative svolte
all’aperto” qual è quella esplicata dal locale discoteca non
debbano superare i 55 db nell’orario 19-24; limite, questo,
imposto anch’esso dalla “normativa vigente”, da misurarsi
“sulla facciata dell’edificio più esposto”.
Inoltre, proprio
la mancanza di piano di zonizzazione acustica, il quale
avrebbe reso applicabili limiti più rigorosi, il dato che
l’area interessata fosse di fatto residenziale, il periodo
estivo, che costringeva gli abitanti a tenere aperte le
finestre, e la sistematicità (cioè non occasionalità)
dell’attività in questione a maggior ragione evidenziavano
la necessità e l’urgenza indilazionabili di agire per
tutelare la salute pubblica dall’inquinamento acustico
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 15.04.2013 n. 2025 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Legittimità vincolo paesaggistico su tutto
il territorio comunale
E’ legittima la sottoposizione di un
intero territorio comunale a vincolo paesaggistico, quando
il relativo provvedimento si basa su concreti e specifici
indici “dell’interesse paesistico dominante”, che riguardi
la specificità dei luoghi.
Per la pacifica
giurisprudenza, che il Collegio condivide e fa propria, è
legittima la sottoposizione di un intero territorio comunale
a vincolo paesaggistico, quando il relativo provvedimento si
basa su concreti e specifici indici “dell’interesse
paesistico dominante”, che riguardi la specificità dei
luoghi (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 21.07.2011, n. 4429).
Nel caso in esame, il decreto di apposizione del vincolo n.
10 del 2011 ed i documenti ad esso allegati -con una
motivazione ampia, puntuale ed articolata- hanno evidenziato
l’esistenza di caratteri unitari e del tutto singolari sotto
il profilo naturalistico-ambientale, tali da far
ragionevolmente rientrare l’intero territorio comunale di
Irsina in un ambito complessivamente meritevole della
protezione di cui all’art. 136, lettera d), del d.Lgs. n. 42
del 2004.
Infatti, con una motivazione approfondita, gli atti
impugnati in primo grado hanno evidenziato le
caratteristiche complessive della zona da sottoporre a
vincolo, la natura omogenea ed inalterata del paesaggio
agrario lucano ivi riscontrabile ed alla “scenografia
paesisticamente unitaria” del territorio comunale
irsinese, in tutte le sue parti, sia meridionali che
settentrionali.
I riferimenti all’abitato di Irsina, alle case coloniali
della Riforma Fondiaria, al Borgo Taccone ed all’antico
tracciato ferroviario e cioè a situazioni ricomprese nella
parte settentrionale del territorio, contenute nei citati
documenti, confermano le caratteristiche unitarie del
territorio stesso.
L’Amministrazione competente alla imposizione del vincolo
paesaggistico -nell’esercizio della propria discrezionalità
tecnica- ben può individuare l’intero territorio comunale
come meritevole di protezione, sulla base di una adeguata
motivazione, senza isolare singole aree: la relativa
valutazione, in quanto tale, è insindacabile da parte del
giudice amministrativo (Cons. Stato, Sez. VI, 21.07.2011, n.
4429 e Cons. Stato, Sez. IV, 20.03.2006, n. 1470).
Profili di eccesso di potere non emergono dalla circostanza
che i Comuni confinanti a quello di Irsina non siano stati
sottoposti al medesimo vincolo, né emergono dal fatto che
anche altri territori comunali, pur avendo pregi non
dissimili, non siano stati ancora sottoposti al vincolo.
In primo luogo, la scelta tecnico-discrezionale di apporre
il vincolo sulla sola area irsinese risulta, come
precedentemente rilevato, sufficientemente motivata in
relazione alle specificità del territorio in esame.
In secondo luogo, le osservazioni del Comitato Tecnico
scientifico ministeriale evidenziano un orientamento cui
intende ispirarsi l’Amministrazione statale, circa la
considerazione della proposta di vincolo in esame “quale
primo atto di tutela di un sistema paesaggistico più esteso”:
d’altra parte, ben può l’Amministrazione statale differire
nel tempo l’emanazione dei provvedimenti riguardanti
l’imposizione dei vincoli anche quando si tratti di interi
territori comunali, in ragione anche delle esigenze di
natura organizzativa degli uffici, che devono curarne
l’istruttoria
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato Sez. VI,
sentenza 12.04.2013 n. 2000 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La tutela del paesaggio è affidata alla
competenza esclusiva della Stato mentre è attribuita alla
legislazione concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.) la
valorizzazione dei beni ambientali.
La giurisprudenza costituzionale ha rilevato, altresì, che
“il paesaggio non dev’essere limitato al significato di
bellezza naturale, ma va inteso come complesso dei valori
inerenti al territorio” e conseguentemente come bene
“primario” ed “assoluto” necessitante di una tutela unitaria
e supportata pure da competenze regionali, sempre
nell’ambito di standard stabiliti a livello statale.
Nel contesto normativo così delineato si inserisce la
disposizione di cui all’art. 138, comma 3, del d.Lgs. n. 42
del 2004 (nel testo introdotto dall'articolo 2, comma 1,
lettera h), del d.Lgs. n. 63 del 2008), in applicazione del
quale si è svolto il procedimento in esame, secondo cui “è
fatto salvo il potere del Ministero, su proposta motivata
del soprintendente, previo parere della regione interessata,
che deve essere motivatamente espresso entro e non oltre
trenta giorni dalla richiesta, di dichiarare il notevole
interesse pubblico degli immobili e delle aree di cui
all'articolo 136”.
Ai sensi del combinato disposto dell’art. 117,
secondo comma, lettera s), e dell’art. 9, secondo comma,
della Costituzione, la tutela del paesaggio è affidata alla
competenza esclusiva della Stato mentre è attribuita alla
legislazione concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.) la
valorizzazione dei beni ambientali (per tutte, vedi la
sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 9 del 2001, nonché Sez.
VI, 29.01.2013, n. 535).
La giurisprudenza costituzionale ha rilevato, altresì, che “il
paesaggio non dev’essere limitato al significato di bellezza
naturale, ma va inteso come complesso dei valori inerenti al
territorio” (Corte Cost., 07.11.1994, n. 379) e
conseguentemente come bene “primario” ed “assoluto” (Corte
Cost., 05.05.2006, nn. 182 e 183) necessitante di una tutela
unitaria e supportata pure da competenze regionali, sempre
nell’ambito di standard stabiliti a livello statale (Corte
Cost., 22.07.2004, n. 259).
Nel contesto normativo così delineato si inserisce la
disposizione di cui all’art. 138, comma 3, del d.Lgs. n. 42
del 2004 (nel testo introdotto dall'articolo 2, comma 1,
lettera h), del d.Lgs. n. 63 del 2008), in applicazione del
quale si è svolto il procedimento in esame, secondo cui “è
fatto salvo il potere del Ministero, su proposta motivata
del soprintendente, previo parere della regione interessata,
che deve essere motivatamente espresso entro e non oltre
trenta giorni dalla richiesta, di dichiarare il notevole
interesse pubblico degli immobili e delle aree di cui
all'articolo 136” (Consiglio
di Stato Sez. VI,
sentenza 12.04.2013 n. 2000 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il Piano per gli Insediamenti commerciali svolge
funzione esaustiva di ogni esigenza sia di carattere
commerciale, sia di carattere urbanistico.
Dall'esame della normativa ex d.lgs. n. 114 del 1998 è
emersa la chiara volontà del legislatore di assegnare al
Piano per gli Insediamenti commerciali una funzione
esaustiva di ogni esigenza sia di carattere commerciale, sia
di carattere urbanistico.
Di tale espressa ed inequivoca
volontà legislativa è prova il tenore dell'art. 6 d.lgs. n.
114 del 1998, il quale, nel demandare alle Regioni la
definizione dei criteri generali in materia, affida alle
medesime il compito di fissare "i criteri di programmazione
urbanistica riferiti al settore commerciale" cui dovranno
essere adeguati gli strumenti urbanistici regionali,
deputati ad individuare le aree da destinare agli
insediamenti commerciali, i vincoli e le prescrizioni
vigenti in tali aree.
D'altronde, tale interpretazione è risultata del tutto
ragionevole anche sul piano logico-sistematico, non essendo
di certo coerenti con il principio di buon andamento
amministrativo l'eventuale duplicazione e distinzione di
funzioni di programmazione e pianificazione con riferimento
al medesimo territorio, con la conseguente, paradossale
intersecazione di atti generali e/o di pianificazione.
Già dall'esame della normativa (anche nazionale – ex d.lgs.
n. 114 del 1998) è emersa la chiara volontà del legislatore
di assegnare al Piano per gli Insediamenti commerciali una
funzione esaustiva di ogni esigenza sia di carattere
commerciale, sia di carattere urbanistico.
Di tale espressa ed inequivoca volontà legislativa è prova
il tenore dell'art. 6 d.lgs. n. 114 del 1998, il quale, nel
demandare alle Regioni la definizione dei criteri generali
in materia, affida alle medesime il compito di fissare "i
criteri di programmazione urbanistica riferiti al settore
commerciale" cui dovranno essere adeguati gli strumenti
urbanistici regionali, deputati ad individuare le aree da
destinare agli insediamenti commerciali, i vincoli e le
prescrizioni vigenti in tali aree.
Dalla citata disposizione si è quindi dedotto, in primo
luogo, che il legislatore non ha inteso duplicare la
programmazione dell'utilizzazione del territorio, separando
in due distinti atti la programmazione urbanistica e la
programmazione commerciale; in secondo luogo, che l'atto di
individuazione delle aree da destinare agli insediamenti
commerciali costituisce "strumento urbanistico" ed è
in tale strumento che devono essere sia individuate le
predette aree sia dettate tutte le prescrizioni urbanistiche
di specie.
D'altronde, tale interpretazione è risultata del tutto
ragionevole anche sul piano logico-sistematico, non essendo
di certo coerenti con il principio di buon andamento
amministrativo l'eventuale duplicazione e distinzione di
funzioni di programmazione e pianificazione con riferimento
al medesimo territorio, con la conseguente, paradossale
intersecazione di atti generali e/o di pianificazione
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato Sez. V,
sentenza 11.04.2013 n. 1972 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La sostituzione del manto di copertura del tetto
rientra tra gli interventi di manutenzione ordinaria.
La sostituzione del manto di copertura del tetto rientra tra
gli interventi di manutenzione ordinaria a condizione che
non vi sia alcuna alterazione dell'aspetto o delle
caratteristiche originarie, diversamente si configura una
ipotesi di manutenzione straordinaria, per la quale è
richiesta la denuncia di inizio attività, se non di nuova
costruzione con permesso di costruire alternativo alla
d.i.a..
Ai sensi dell'art. 37 del D.P.R. 380/2001, la realizzazione
di interventi edilizi di cui all'ad, 22, commi 1 e 2, in
assenza o in difformità della denuncia di inizio attività
comporta la sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento
del valore venale dell'immobile conseguente alla
realizzazione degli interventi stessi e comunque in misura
non inferiore ad € 500.
Osserva il Collegio che la sostituzione del tetto può
rientrare tra gli interventi di manutenzione straordinaria
(art. 3, comma 1, lett. b), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 - T.U.
Edilizia), in quanto tali non soggetti a permesso di
costruire, purché non venga modificata la quota d'imposta o
alterato lo stato dei luoghi né planimetricamente né
quantitativamente rispetto alle superfici ed ai volumi
preesistenti.
A ciò va aggiunto che la sostituzione del manto di copertura
del tetto rientra tra gli interventi di manutenzione
ordinaria a condizione che non vi sia alcuna alterazione
dell'aspetto o delle caratteristiche originarie,
diversamente si configura una ipotesi di manutenzione
straordinaria, per la quale è richiesta la denuncia di
inizio attività, se non di nuova costruzione con permesso di
costruire alternativo alla d.i.a. (Cass. pen. Sez. III,
07.02.2012, n. 17411; TRGA Trentino-Alto Adige Trento Sent.,
28.02.20081 n. 57)
(massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 11.04.2013 n. 437 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Bonifiche, chiamata in responsabilità del
proprietario.
Il limite procedimentale che incontra la
chiamata in responsabilità del proprietario, consiste
nell’illustrazione rigorosa, da parte dell’amministrazione
procedente, del percorso logico-argomentativo in base al
quale sia risultato possibile, coinvolgere in prima persona
la proprietà.
Dovranno cioè essere indicate, nella motivazione, le
modalità di ricerca utilizzate per rintracciare gli
effettivi responsabili dell’inquinamento, nonché l’esito
infruttuoso di tali ricerche, ovvero l’impossibilità di
giungere all’accertamento dell’identità dei responsabili,
ovvero il mancato intervento del responsabile, ovvero ancora
l’impossibilità di intervenire da parte della stessa
amministrazione così come prescritto dall’art. 250 d.lgs. n.
152 del 2006, ovvero ancora l’assenza di alcun intervento da
parte dei soggetti potenzialmente interessati. Solo in
presenza di tali indicazioni sarà quindi possibile procedere
con la chiamata in causa del proprietario del sito, quale
misura ultima di salvaguardia ambientale e sanitaria.
Deve anzitutto prendersi in esame la questione centrale
dell’odierna impugnazione, ossia quella –presente in tutti
gli atti di impugnazione depositati dalla ricorrente–
afferente al rispetto del principio comunitario del “chi
inquina paga”, canonizzato all’art. 191, par. n. 2, del TFUE
(Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea), a norma
del quale “La politica dell'Unione in materia ambientale
mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della
diversità delle situazioni nelle varie regioni dell'Unione.
Essa è fondata sui principi della precauzione e dell'azione
preventiva, sul principio della correzione, in via
prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente,
nonché sul principio «chi inquina paga»”, e fatto
proprio anche dalla direttiva n. 2004/35/CE.
Tale principio è stato ripreso anche dal legislatore
nazionale il quale, nel varare le nuove norme in materia
ambientale (d.lgs. n. 152 del 2006), lo ha richiamato in
apertura della disciplina dedicata alla bonifica dei siti
contaminati (art. 239, comma 1) ed ha quindi senz’altro
posto a carico del “soggetto responsabile” tutti gli
adempimenti finalizzati alla repressione dell’inquinamento,
a cominciare dalla messa in atto delle misure di
prevenzione, per continuare con lo svolgimento dell’indagine
preliminare sui parametri oggetto dell’inquinamento, con la
predisposizione di un piano di caratterizzazione delle aree,
con l’analisi del rischio e, infine, con tutti gli
interventi necessari per realizzare la bonifica e la messa
in sicurezza dei luoghi (art. 242 d.lgs. n. 152 del 2006).
Quel principio comunitario, tuttavia, è direttamente
connesso al profilo della necessità di un elevato livello di
tutela ambientale e sanitaria, obiettivo parimenti
perseguito dal diritto dell'Unione Europea e che risulta
fondato sui principi della precauzione, dell'azione
preventiva e della correzione in via prioritaria alla fonte
dei danni causati all'ambiente, parimenti richiamati dal
citato art. 191 TFUE.
In tale contesto, la regola per la quale il responsabile
dell'inquinamento deve rispondere per le obbligazioni
ripristinatorie e risarcitorie è stata quindi intesa dalla
giurisprudenza, anche di questa Sezione, quale misura “di
chiusura” (così TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, n. 4215
del 2011; TAR Piemonte, sez. II, n. 1257 del 2012 e n. 136
del 2011), beninteso non nel senso che si tratta della
misura di ultima analisi ma, al contrario, che si tratta
della misura iniziale e principale per affrontare la
contaminazione, nella consapevolezza tuttavia che essa
potrebbe non risultare sufficiente.
In tale prospettiva, si è quindi concluso nel senso che le
misure di tutela necessarie ed urgenti che vengano poste a
carico del proprietario del sito non hanno natura né
sanzionatoria né risarcitoria, bensì di salvaguardia
ambientale e sanitaria, nel superiore interesse pubblico
generale ambientale ed ai fini della tutela dell'inviolabile
diritto alla salute della popolazione esposta, come si
ricava sia dagli artt. 2, 9 e 32 della Costituzione sia dal
diritto europeo, fermi restando l'obbligo
dell'Amministrazione di procedere all'individuazione del
responsabile e la facoltà del proprietario di rivalersi nei
suoi confronti. Tale ricostruzione, del resto, appare
altresì pienamente conforme al principio generale del nostro
ordinamento relativo alla funzione sociale della proprietà
(art. 42 Cost.), che giustifica anche la conformazione,
imposizione di pesi o oneri, ed infine la stessa estinzione
per espropriazione del diritto (così, ancora, TAR Lazio,
sent. n. 4215 del 2011).
Del resto, come pure affermato, recentemente ed a più
riprese, dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez.
VI, 15.07.2010, n. 4561; sez. II, parere n. 2038 del
30.04.2012), mentre la responsabilità dell’autore
dell’inquinamento costituisce una forma di responsabilità
oggettiva per gli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e
ripristino ambientale conseguenti alla contaminazione delle
aree, sensibilmente diversa si presenta, invece, la
posizione del proprietario del sito per la responsabilità
del quale occorre fare riferimento ai commi 1 e 2 dell’art.
253 d.lgs. n. 152 del 2006: chi è proprietario o chi
subentra nella proprietà o possesso del bene subentra anche
negli obblighi connessi all’onere reale ivi previsto,
indipendentemente dal fatto che ne abbia avuto preventiva
conoscenza.
Quella posta in capo al proprietario è pertanto una
responsabilità “da posizione”, non solo svincolata
dai profili soggettivi del dolo o della colpa, ma che non
richiede neppure l’apporto causale del proprietario
responsabile al superamento o pericolo di superamento dei
valori limite di contaminazione.
È quindi evidente che il proprietario del suolo –che non
abbia apportato alcun contributo causale, neppure
incolpevole, all’inquinamento– non si trova in alcun modo in
una posizione analoga od assimilabile a quella
dell’inquinatore, essendo tenuto a sostenere i costi
connessi agli interventi di bonifica esclusivamente in
ragione dell’esistenza dell’onere reale sul sito (così, da
ultimo, cfr. il recente precedente della Sezione, la sent.
n. 1257 del 2012).
Nel caso di specie non è dubbio che le prescrizioni previste
dalle varie conferenze di servizi, poi rispettivamente
recepite ed approvate dai vari decreti del Ministero
dell’Ambiente indirizzati alla società ricorrente, siano
state imposte a quest’ultima “in qualità di attuale
proprietaria delle aree” (come si legge, ad esempio, a
pag. 6 del verbale dell’ultima conferenza, quella del
24.10.2011), con ciò rendendosi chiaro che il titolo di
responsabilità richiamato non era quello soggettivo o
finanche oggettivo tipico degli operatori professionali la
cui attività possa aver arrecato l’inquinamento (cfr. art.
3, par. n. 1, lett. a, della direttiva n. 2004/35/CE, nonché
la sentenza n. 378 del 2010 della Corte di Giustizia CE), ma
era quello “da posizione” che coinvolge il
proprietario in quanto tale, ai sensi dell’art. 253 d.lgs.
n. 152 del 2006.
Il richiamo a quest’ultima norma, tuttavia, rende evidente
che anche l’attivazione della responsabilità “da posizione”,
afferente alla sfera giuridica del proprietario o dei suoi
aventi causa, è sottoposta a limiti, nello specifico di
natura procedimentale. Specifica, infatti, il comma 3
dell’art. 253 che “Il privilegio e la ripetizione delle
spese possono essere esercitati, nei confronti del
proprietario del sito incolpevole dell'inquinamento o del
pericolo di inquinamento, solo a seguito di provvedimento
motivato dell'autorità competente che giustifichi, tra
l'altro, l'impossibilità di accertare l'identità del
soggetto responsabile ovvero che giustifichi l'impossibilità
di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo
soggetto ovvero la loro infruttuosità”. Tale norma, nel
riferirsi alla disciplina sui privilegi e sulla ripetizione
delle spese di bonifica, è indicativa di come la
responsabilità “da posizione” del proprietario debba essere,
in generale, intesa: ossia, come responsabilità di natura
residuale, attivabile a fini di salvaguardia ambientale e
sanitaria allorché non sia stato possibile attivare i rimedi
–per così dire– ordinari previsti dalla legge.
Va ricordato, in proposito, che in prima battuta (ed in
ossequio al già ricordato principio basilare del “chi
inquina paga”) l’ordinamento chiama a rispondere il
responsabile dell’inquinamento (art. 242 d.lgs. n. 152 del
2006); qualora questi non sia individuabile, o comunque non
abbia posto in essere le misure necessarie, è previsto che
spetti alla stessa amministrazione procedente (che, per
l’ipotesi dei siti di interesse nazionale, è il Ministero
dell’Ambiente, coadiuvato da altri soggetti istituzionali,
ai sensi dell’art. 252, comma 5, d.lgs. n. 152 del 2006)
predisporre i necessari interventi; è poi anche previsto che
il proprietario (o anche qualsiasi altro soggetto
interessato) possa spontaneamente intervenire in qualsiasi
momento per realizzare in prima persona le opere necessarie
(art. 244, comma 4, d.lgs. n. 152 del 2006).
L’intervento coatto del proprietario, pertanto, in quanto
extrema ratio di tutela ambientale e sanitaria, potrà
essere stabilito solo allorché non sia stato individuato
l’effettivo responsabile dell’inquinamento, ovvero questi
non abbia provveduto, ovvero non sia potuta intervenire la
stessa amministrazione procedente ai sensi dell’art. 250
d.lgs. n. 152 del 2006, ovvero ancora non sia intervenuto
spontaneamente alcun soggetto interessato.
Il limite procedimentale che incontra la chiamata in
responsabilità del proprietario, quindi, consiste
nell’illustrazione rigorosa, da parte dell’amministrazione
procedente, del percorso logico-argomentativo in base al
quale sia risultato possibile, nel caso di specie,
coinvolgere in prima persona la proprietà. Dovranno cioè
essere indicate, nella motivazione, le modalità di ricerca
utilizzate per rintracciare gli effettivi responsabili
dell’inquinamento, nonché l’esito infruttuoso di tali
ricerche, ovvero l’impossibilità di giungere
all’accertamento dell’identità dei responsabili, ovvero il
mancato intervento del responsabile, ovvero ancora
l’impossibilità di intervenire da parte della stessa
amministrazione così come prescritto dall’art. 250 d.lgs. n.
152 del 2006, ovvero ancora l’assenza di alcun intervento da
parte dei soggetti potenzialmente interessati. Solo in
presenza di tali indicazioni sarà quindi possibile procedere
con la chiamata in causa del proprietario del sito, quale
misura ultima di salvaguardia ambientale e sanitaria.
Tutto quanto precede, peraltro, deve necessariamente far
salvi i principi generali in tema di responsabilità da
inquinamento, nel senso che, qualora sia sussistente un
collegamento eziologico tra la posizione del proprietario
del sito e l’evento inquinante in atto, deve riespandersi la
regola della responsabilità soggettiva per dolo o colpa.
Ciò, in particolare, vale per le ipotesi in cui sia
individuabile un comportamento colposo di omesso controllo o
di omessa vigilanza da parte del proprietario il quale –pur
avendo oggettivamente la possibilità di evitare l’innescarsi
o l’aggravarsi della contaminazione, qualora avesse
sottoposto l’area di sua disponibilità ai dovuti controlli–
non si sia tuttavia attivato in tale direzione.
Nelle ipotesi in cui sia stata accertata la consapevolezza,
in capo alla proprietà, dell’esistenza di un inquinamento in
atto, sarà pertanto possibile coinvolgere quest’ultima
nell’apprestamento delle misure ritenute necessarie in base
alle norme generali, adducendo cioè un omesso controllo o
un’omessa vigilanza giuridicamente rilevanti (nel senso di
originare una posizione giuridica di garanzia) (cfr., per un
caso analogo, la sentenza di questa Sezione, già citata, n.
136 del 2011) (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 11.04.2013 n. 435 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIA e opere difformi.
In caso di presentazione di dichiarazione di inizio di
attività, l'inutile decorso del termine previsto per legge
ai fini dell’esercizio del potere inibitorio
all’effettuazione delle opere non comporta che l’attività
del privato, ancorché del tutto difforme dal paradigma
normativo, possa considerarsi legittimamente effettuata e,
quindi possa andare esente dalle sanzioni previste
dall'ordinamento per il caso di sua mancata rispondenza alle
norme di legge e di regolamento, alle previsioni degli
strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei
titoli abilitativi.
Ed infatti, in tali ipotesi il titolo
abilitativo comunque formatosi per effetto dell'inerzia
dell'amministrazione può comunque formare oggetto, alle
condizioni previste in via generale dall'ordinamento, di
interventi di annullamento d’ufficio o di revoca.
In
siffatte ipotesi, infatti, l’amministrazione non perde i
propri ordinari poteri di vigilanza e sanzionatori, il cui
esercizio risponde a finalità di interesse generale e la cui
connotazione presenta caratteri in parte diversi rispetto al
potere esercitato al momento (per così dire ‘genetico’)
della formazione del titolo per silentium.
Al riguardo, il Collegio condivide (non rinvenendosi nel
caso di specie ragioni per discostarsene) l’orientamento
secondo cui, in caso di presentazione di dichiarazione di
inizio di attività, l'inutile decorso del termine previsto
per legge ai fini dell’esercizio del potere inibitorio
all’effettuazione delle opere (nel caso di specie, si tratta
del termine di cui ai commi 11 e 15 dell’articolo 4 del
decreto-legge 398 del 1993) non comporta che l’attività del
privato, ancorché del tutto difforme dal paradigma
normativo, possa considerarsi legittimamente effettuata e,
quindi possa andare esente dalle sanzioni previste
dall'ordinamento per il caso di sua mancata rispondenza alle
norme di legge e di regolamento, alle previsioni degli
strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei
titoli abilitativi.
Ed infatti, in tali ipotesi il titolo abilitativo comunque
formatosi per effetto dell'inerzia dell'amministrazione può
comunque formare oggetto, alle condizioni previste in via
generale dall'ordinamento, di interventi di annullamento
d’ufficio o di revoca.
In siffatte ipotesi, infatti, l’amministrazione non perde i
propri ordinari poteri di vigilanza e sanzionatori, il cui
esercizio risponde a finalità di interesse generale e la cui
connotazione presenta caratteri in parte diversi rispetto al
potere esercitato al momento (per così dire ‘genetico’)
della formazione del titolo per silentium (in tal
senso: Cons. Stato, IV, 30.07.2012, n. 4318) (massima tratta
da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.04.2013 n. 1909 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rumore. Legittimità ordinanza per cessazione attività
rumorose a danno di un solo cittadino.
E' legittima l'ordinanza contingibile ed urgente del Sindaco
con la quale si ordina di sospendere con effetto immediato
l'attività di essiccazione del mais ed ogni altra
lavorazione che comporti emissioni acustiche superiori ai
limiti di legge, anche a danno di un solo cittadino.
Il
potere di ricorrere a siffatto strumento eccezionale deve
ritenersi consentito in presenza di fenomeni di inquinamento
acustico accertati dall’ARPA, tenuto conto del fatto che
siffatto inquinamento viene esplicitamente ritenuto dalla L.
447/1995 pericoloso per la salute umana e che né
l’Amministrazione né il cittadino esposto all’inquinamento
hanno a disposizione alcun diverso strumento al fine di
ottenere nel breve termine un abbattimento o la cessazione
delle emissioni sonore.
La stessa giurisprudenza ha anche
ritenuto che le ordinanze di cui all’art. 9 della L. 447/1995
si giustifichino anche qualora l’inquinamento accertato non
coinvolga l’intera collettività, stante che il concetto di
“salute pubblica” non può interpretarsi in senso
restrittivo, cioè come riferito alla condizione fisica di
tutti i cittadini o di un insieme di essi: chiunque si trovi
esposto a situazioni pericolose per la salute deve essere
tutelato da parte dello Stato e delle istituzioni che lo
rappresentano, e ciò anche in coerenza con il dettato di cui
all’art. 32 Cost..
Conseguentemente ai fini di che trattasi per “salute
pubblica” deve intendersi non la salute di tutti i cittadini
ma la salute di qualunque cittadino.
Tanto sopra premesso in punto di fatto, il Collegio ritiene
che il ricorso non possa essere accolto.
A migliore comprensione della decisione va ricordato che in
materia di immissioni acustiche la normativa vigente (L.
447/1995 e D.P.C.M. 14/11/1997) richiede il rispetto di
diversi tipi di limiti e precisamente:
a) il c.d. limite di emissione, che rappresenta il massimo
rumore producibile da una sorgente sonora misurato in
prossimità della sorgente stessa;
b) il c.d. limite di immissione, che rappresenta invece il
massimo rumore che può essere immesso da una o più sorgenti
sonore all’interno di un ambiente abitativo, misurato in
prossimità dei ricettori;
c) il c.d. limite differenziale, che rappresenta la soglia
di rumore ambientale equivalente oltre la quale la
differenza tra tale rumore ed il rumore di fondo non deve
superare determinati limiti.
L’art. 4 del D.P.C.M. 14.11.1997 fissa detti limiti in 5 Db
durante il giorno ed i 3 dB durante il periodo notturno e la
soglia oltre la quale si deve far luogo alla verifica di
tale valore differenziale é quella dei 50 dB del rumore
ambientale equivalente misurato di giorno a finestre aperte,
e di 35 dB del rumore stesso misurato di notte a finestre
chiuse.
--------------
Tanto chiarito in punto di fatto si deve ora esaminare la
questione, sollevata in ricorso, se le ordinanze di cui
all’art. 9 della L. 447/1995 possano essere adottate anche a
tutela di un solo privato cittadino e sul presupposto del
mero superamento dei limiti di cui al D.P.C.M. 14.11.1997.
A tali quesiti la giurisprudenza, con decisioni che il
Collegio ha già ritenuto condivisibile (TAR Piemonte n.
1382/2012), ha già dato risposta positiva, mettendo in
evidenza che il potere di ricorrere a siffatto strumento
eccezionale deve ritenersi consentito in presenza di
fenomeni di inquinamento acustico accertati dall’ARPA,
tenuto conto del fatto che siffatto inquinamento viene
esplicitamente ritenuto dalla L. 447/1995 pericoloso per la
salute umana e che né l’Amministrazione né il cittadino
esposto all’inquinamento hanno a disposizione alcun diverso
strumento al fine di ottenere nel breve termine un
abbattimento o la cessazione delle emissioni sonore. (si
veda in particolare TAR Campania-Napoli, n. 3556/2011).
La stessa giurisprudenza ha anche ritenuto che le ordinanze
di cui all’art. 9 della L. 447/1995 si giustifichino anche
qualora l’inquinamento accertato non coinvolga l’intera
collettività, ed anche tale proposizione viene condivisa dal
Collegio, stante che il concetto di “salute pubblica”
non può interpretarsi in senso restrittivo, cioè come
riferito alla condizione fisica di tutti i cittadini o di un
insieme di essi: chiunque si trovi esposto a situazioni
pericolose per la salute deve essere tutelato da parte dello
Stato e delle istituzioni che lo rappresentano, e ciò anche
in coerenza con il dettato di cui all’art. 32 Cost..
Conseguentemente ai fini di che trattasi per “salute
pubblica” deve intendersi non la salute di tutti i
cittadini ma la salute di qualunque cittadino (massima
tratta da www.lexambiente.it -
TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 05.04.2013 n. 422 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Ordinanza di bonifica e partecipazione del soggetto
interessato.
L'attività istruttoria del procedimento
di bonifica deve prevedere la partecipazione del soggetto
interessato e, in particolare, gli accertamenti analitici
devono essere effettuati in contraddittorio.
Deve, infatti, rilevarsi che, quand’anche possa considerarsi
provata al presenza di agenti inquinanti nel terreno in
questione, deve essere provata anche l’imputabilità
dell’evento.
Come la prevalente giurisprudenza ha avuto modo di chiarire,
“l'attività istruttoria del procedimento di bonifica deve
prevedere la partecipazione del soggetto interessato e, in
particolare, gli accertamenti analitici devono essere
effettuati in contraddittorio (TAR Lombardia Milano, sez. I,
19.04.2007, n. 1913; TAR Friuli Venezia Giulia, 27.07.2001,
n. 488)” (TAR Toscana, Sez. II, 06.05.2009, n. 762).
Deve, infatti, rilevarsi che, quand’anche possa considerarsi
provata al presenza di agenti inquinanti nel terreno in
questione, non è in alcun modo provata l’imputabilità
dell’evento, tanto meno in via esclusiva, alle operazioni di
scavo condotte dal Sig. Stabile per conto dei ricorrenti
(massima tratta da www.lexambiente.it - TAR
Emilia Romagna-Parma,
sentenza 03.04.2013 n. 134 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZA
LAVORO: Obblighi
del coordinatore per l’esecuzione dei lavori.
Esemplare continua ad essere l’analisi svolta
dalla Corte Suprema in ordine agli obblighi e
alle responsabilità del coordinatore per l’esecuzione
dei lavori (quanto alla posizione di garanzia
dei coordinatori v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza
sul Lavoro commentato con la giurisprudenza,
IV edizione, Milano, 2012, 501 ss. e 508
ss., cui aggiungi Cass. 14.02.2013, Palmisano
e altri, in ISL, 2013, 4; 224; Cass. 01.10.2012, Cassera e altro, e Cass. 26.09.2012, Farina e altro, ibid., 2013, 1, 39; Cass. 10.08.2012, P.C. in c. Torlaschi, ibid., 2012,
11, 609; Cass. 14.06.2012, Gencarelli, e
Cass. 07.06.2012, Goracci, ibid., 2012, 10,
544).
Il dipendente di un’impresa appaltatrice di lavori
di scavo e di trasporto con mansione di autista
era stato schiacciato sotto il cancello metallico
di accesso all’area del cantiere uscito dalle
guide di scorrimento. Oltre ai datori di lavoro
dell’infortunato e all’appaltatore della costruzione
del cancello, fu condannato il coordinatore
per l’esecuzione dei lavori, con l’addebito di
«non aver adeguato il piano di sicurezza e di
coordinamento (PSC) ed il fascicolo di prevenzione
in relazione all’evoluzione dei lavori ed
alle eventuali modifiche intervenute, ai rischi
conseguenti al sopravvenuto accesso al cantiere
attraverso il cancello de quo e non aver quindi
verificato l’idoneità del piano operativo di sicurezza
della impresa datrice di lavoro rispetto alla
valutazione del rischio attinente all’accesso
al cantiere e conseguentemente alla individuazione
delle relative misure di prevenzione e di
protezione.»
La Sez. IV premette che «più imprese appaltatrici
operavano sul cantiere e una molteplicità di
imprese risultavano incaricate di operare nell’area
della società committente.»
Ne ricava «la sussistenza della ragion d’essere
della presenza del coordinatore per la sicurezza
in fase di esecuzione (CSE): ruolo che l’imputato
era tenuto a svolgere per la durata di tutti
lavori di ampliamento del capannone con annessa
tettoia, con gli obblighi previsti, a nulla
rilevando che egli avesse disposto la sospensione
dei lavori per la mancanza del permesso a
costruire tant’è vero che successivamente ebbe
ad effettuare altro sopralluogo sul cantiere.»
Rileva che «l’imputato, in violazione in particolare
della posizione di garanzia di cui era investito
quale coordinatore per l’esecuzione dei lavori,
ha cooperato con gli altri imputati alla determinazione
dell’evento.»
Spiega che «egli (per effetto dei precisi obblighi
assunti con la nomina a CSE) non era perfettamente
a conoscenza anche prima della data
di sospensione dei lavori, come dimostrato dai
verbali dei numerosi sopralluoghi da lui stesso
redatti previo accesso al cantiere, dello stato
di intrinseca pericolosità e di precaria stabilità
del cancello, comunque utilizzato per l’accesso
al cantiere benché privo del fermo di fine corsa», che, «ciononostante, nel Piano di sicurezza
in fase di progettazione neppure si accennava al
cancello scorrevole in acciaio (causa del mortale
infortunio) attraverso il quale ordinariamente
si accedeva al cantiere», e che non «risultavano
integrazioni di detto piano di sicurezza.»
La conclusione è che «il rischio per l’incolumità
dei lavoratori dei terzi, derivante delle descritte
condizioni del cancello, non era stato minimamente
valutato e che pertanto l’evento -del tutto prevedibile visto che l’impresa datrice
di lavoro comunque disponeva delle chiavi di
accesso al cantiere e, quale appaltatrice, aveva
del tutto legittimamente incaricato il dipendente
di recarsi a prelevare un escavatore- si sarebbe
potuto evitare ove l’imputato avesse adempiuto
ai suoi obblighi.» (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 06.03.2013 n. 10319
- tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 5/2013). |
SICUREZZA
LAVORO: Responsabilità
del RSPP
con funzioni operative
dell’impresa appaltatrice
in cantiere.
In un cantiere di opere pubbliche appaltate da
un comune per il consolidamento di un movimento
franoso con presenza di più imprese esecutrici,
per l’infortunio mortale occorso a un lavoratore della
s.r.l. appaltatrice furono condannati
il presidente del consiglio di amministrazione,
l’amministratore delegato-direttore tecnico,
il vicepresidente, e il RSPP della s.r.l., (a
sorpresa, non risulta considerata la posizione
dell’organizzazione committente).
La Sez. IV conferma la condanna anche del
RSPP.
Rileva che «la responsabilità del predetto viene
ravvisata nell’assunzione di garanzia circa l’esecuzione
dei lavori derivante dall’accettazione
della delega che gli attribuiva funzioni operative
in materia di sicurezza, rispetto alla quale
non può assumere rilievo la dedotta estromissione
da parte degli amministratori e la privazione
delle concrete possibilità di intervenire
(‘egli aveva soltanto la possibilità o di adoperarsi
in concreto per adempiere l’incarico ricevuto
malgrado gli ostacoli frapposti dagli amministratori
o di rinunciare all’incarico formalmente,
ottenendo così l’esonero da responsabilità’’).»
Ne desume che, «in primo luogo, l’imputato,
quale soggetto assuntore di fatto, in forza di delega,
della responsabilità del cantiere, era tenuto
a sorvegliare circa le attività, anche non previste
o programmate, che si svolgevano presso
il medesimo, quali quelle avvenute in occasione
dell’incidente.»
Osserva che, «prescindendo da chi in concreto
dispose l’interruzione della sospensione dei lavori,
i fatti avvenuti il giorno dell’infortunio
evidenziano omissioni relative alle dotazioni
di sicurezza del cantiere riferibili all’imputato
in ragione tanto della delega menzionata, quanto
della posizione di responsabile del servizio di
prevenzione e protezione della s.r.l..»
Spiega che «si tratta di manchevolezze attinenti
a presidi da attuare in epoca precedente al giorno
dell’infortunio e, quindi, rientranti nella sfera
di controllo di quest’ultimo in forza del menzionato
duplice titolo.»
Prende atto delle «macroscopiche omissioni degli
obblighi concernenti l’informazione e la formazione
del personale spettanti al servizio di
prevenzione e protezione, nonché la mancata
realizzazione di misure tecnico-organizzative e
adeguate opere di protezione ai fini della corretta
e sicura esecuzione dell’attività lavorativa, e,
in particolare, di idonei, stabili e ancorati ponteggi.»
E conclude che, «In presenza della descritta situazione,
la responsabilità dell’evento non può
essere ascritta esclusivamente a chi ha trasgredito
il provvedimento di sospensione dei lavori,
ma anche a colui cui sono riconducibili macroscopiche
pregresse violazioni relative alla sicurezza
del cantiere.» (Circa le responsabilità del
RSPP v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro
commentato con la giurisprudenza, IV
edizione, Milano, 2012, 342, cui adde Cass.
21.12.2012, R.C., Lovison e altro, in
ISL, 2013, 2, 106)
(Corte di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 26.02.2013 n. 9154
- tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 4/2013). |
SICUREZZA
LAVORO: Gli
obblighi di
cooperazione e
coordinamento del datore
di lavoro committente.
Ancora un’utile sentenza sugli obblighi del datore
di lavoro committente nel quadro dell’art.
26 D.Lgs. n. 81/2008 (per una illustrazione di
tali obblighi v. Guariniello, Sicurezza sul lavoro
commentato con la giurisprudenza, IV edizione,
Milano, 2012, specialmente 260 ss., cui
adde Cass. 19.09.2012, R.C., Pinto e altri,
in ISL, 2012, 12, 673; Cass. 20.09.2012, Varvarotto e altro, ibid., 2012, 11, 611;
Cass. 10.08.2012, Bifulco, ibid., 2012,
11, 611; Cass. 10.07.2012, Sguassero e altro,
ibid., 2012, 8-9, 488; Cass. 11.05.2012, P.C. e Andreacchio, ibid., 2012, 7, 425).
Nel caso esaminato dalla Corte Suprema, il datore
di lavoro committente di lavori di ritiro del
materiale contenuto in un silo della sua azienda
fu riconosciuto colpevole del delitto di omicidio
colposo in danno di un lavoratore dipendente
dell’impresa appaltatrice dei lavori di ritiro e
deceduto per asfissia all’interno del silo, «essendo
rimasto sepolto da diversi metri cubi di
segatura che lo avevano investito e fatto cadere
all’interno del manufatto mentre era intento alle
operazioni di svuotamento e di recupero degli
scarti di lavorazione.»
Due i profili di colpa addebitati all’imputato:
«la mancata predisposizione di cautele contro
il rischio di caduta all’interno del silo dal portello
laterale; la mancanza di personale in grado
di attivare interventi di salvataggio e di primo
soccorso.»
La Sez. IV prende atto che, «mentre il documento
di valutazione dei rischi della impresa
appaltatrice prevedeva, in caso di ritiro del materiale
presso il cliente, sia il presidio di quest’ultimo
che il divieto di operare su impianti
altrui, quello della impresa committente prevedeva
che le operazioni di scarico del silo fossero
affidati a terzi, ai quali spettava di adottare le
necessarie misure di sicurezza», e che «tale evidente
contraddizione era stata ritenuta in contrasto con l’obbligo di coordinamento e di cooperazione
prescritto dall’art. 26, comma 2,
D.Lgs. n. 81/2008 che individua un preciso
profilo di responsabilità in capo all’imputato,
la cui tesi, diretta ad escludere la sussistenza
tra le due imprese di un contratto di appalto,
ma solo di fornitura, è stata respinta.»
Rileva, altresì, che «negli accordi in concreto
intercorsi tra le due imprese doveva rinvenirsi
un rapporto assimilabile all’appalto quanto agli
obblighi in materia di prevenzione degli infortuni,
e quindi al rispetto delle relative norme»,
visto che la vittima non si limitava a prelevare
la segatura, oggetto del contratto di fornitura,
ma provvedeva anche allo svuotamento del silo», e che, quindi, «a margine del rapporto di
fornitura, il lavoratore concretamente svolgeva
un’attività strettamente connessa con l’attività
produttiva della impresa committente, poiché
questa, per poter procedere, non poteva prescindere
dal periodico svuotamento del silo, al quale
da anni il lavoratore deceduto provvedeva
ogni quindici giorni.»
Sottolinea, altresì, che, «a fronte dei divergenti
contenuti dei documenti di valutazione dei rischi
riconducibili due imprese (quello dell’impresa
appaltatrice prevedeva che l’accesso presso
i clienti per il ritiro del materiale si dovesse
svolgere alla presenza del cliente o di un suo
rappresentante, con il divieto di operare sugli
impianti altrui; quello della impresa committente
prevedeva che le operazioni di scarico della
segatura fossero affidate a terzi che avrebbero
dovuto adottare idonee misure di sicurezza),
non poteva non ritenersi indispensabile un
coordinamento tra le due ditte, idoneo a chiarire
un aspetto di tanta rilevanza, ai fini della sicurezza,
nello svolgimento frequente e pluridecennale
delle segnalate attività.»
Osserva che «di tale coordinamento, giustamente
ritenuto riconducibile alla normale diligenza
e prudenza che sempre deve sovraintendere
alle attività imprenditoriali, non poteva
non farsi carico l’imputato, al quale, in ogni caso,
in quanto proprietario degli impianti, spettava
di garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro,
con riguardo non solo ai propri dipendenti, ma
anche a chiunque, pur estraneo all’impresa, fosse
chiamato a svolgere la propria opera all’interno
della stessa.»
Nota che «proprio all’imputato, e proprio ai fini
della sicurezza del luogo di lavoro, spettava di
installare idonei presidi, volti a garantire che
gli interventi sul silo, di cui era proprietario, a
chiunque e per qualunque motivo affidati, si
svolgessero in condizioni di sicurezza.»
Ne desume che, «al di là della qualificazione
giuridica del rapporto intercorrente tra le due
ditte sopra indicate, ciò che comunque rileva è che le condizioni di lavoro nel silo non garantivano
la sicurezza degli addetti, dipendenti o
meno dell’imputato», e che «il principale profilo
di colpa a costui attribuito è stato individuato
nell’avere omesso di adottare misure idonee ad
impedire la caduta all’interno del silo di persone
addette allo svuotamento dello stesso, come il lavoratore
deceduto ovvero ad altre mansioni»
(Corte di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 26.02.2013 n. 9153
- tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 4/2013). |
EDILIZIA
PRIVATA: INAPPLICABILITA'
DELLA SANATORIA PER I REATI IN TEMA
DI CEMENTO ARMATO.
La circostanza che le violazioni edilizie siano assentibili
ex post non rileva ai fini della normativa in materia di
conglomerato cementizio armato, in quanto quest’ultima è finalizzata a garantire l’esercizio del controllo
preventivo
della p.a. sulle attività edificatorie mediante cemento
armato, sicché non è possibile affermare una
esclusione effettiva di pericolosità.
La Corte di Cassazione torna nuovamente a pronunciarsi,
con la sentenza in esame, sulla disciplina dettata dal
D.P.R.
n. 380/2001 in tema di costruzioni in cemento armato,
analizzando
più specificamente il tema dell’applicabilità dei
possibili
effetti di una sanatoria postuma sui reati correlati. La
vicenda
processuale segue all’ordinanza cautelare con cui
l’A.G. ha disposto il sequestro di alcuni manufatti con
riferimento
alla violazione degli artt. 71 e 75 D.P.R. n. 380/2001,
concernenti, cioè, la normativa sul cemento armato.
Contro
l’ordinanza reiettiva dell’istanza di dissequestro,
proponeva
ricorso per cassazione la difesa degli indagati censurandola
per violazione di legge, in quanto si sarebbe al cospetto di
una mera presunzione di pericolosità dell’immobile per mera
violazione di precetti formali; in altri termini, si muove
dall’assunto
che anche i reati edilizi sono assentibili ex post con
sanatoria, mentre la violazione di cui si discute è
risolubile
anche solo con una oblazione; del resto, aggiunge la difesa,
non esiste giurisprudenza di legittimità che giustifichi il
sequestro
motivato esclusivamente sul mancato rispetto della
normativa sul cemento armato.
La Corte respinge la tesi difensiva, in quanto destituita di
fondamento. In particolare, osservano gli Ermellini, oggetto
e finalità della normativa sul cemento armato (così come
di
quella antisismica) sono quelle di evitare possibili crolli,
e
non di regolare l’assetto e lo sviluppo del territorio sotto
il
profilo urbanistico. La riprova di tale principio è che la
contravvenzione
a tale disciplina non viene meno neanche con
l’estinzione, anche se per rilascio di sanatoria, del reato
edilizio.
Né rileva, come invece ritiene la difesa, che si sarebbe
al cospetto di mere violazioni formali, perché l’assunto è
smentito dalla circostanza che, quando l’edificazione
avvenga
in cemento armato, l’osservanza delle prescrizioni imposte è prescritta proprio al fine di assicurare la stabilità e
sicurezza
delle strutture di questo tipo (V., tra le tante: Cass.
pen., sez. III, 17.10.1995, n. 10370, in Ced Cass., n.
203089). Nessun pregio ha, infine, per la Corte, il richiamo
dei ricorrenti al fatto che persino le violazioni edilizie
siano
assentibili ex post, perché la normativa di cui si discute
è finalizzata
a garantire l’esercizio del controllo preventivo della
p.a. sulle attività edificatorie mediante cemento armato e,
nella specie, non poteva affermarsi, allo stato, una
esclusione
effettiva di pericolosità
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.02.2013 n. 8067
-
tratto da Urbanistica e appalti n. 5/2013). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’ACCERTAMENTO
TARDIVO DI COMPATIBILITA`
PAESAGGISTICA HA VALORE DI AUTORIZZAZIONE PAESISTICA.
L’accertamento di compatibilità paesaggistica, ai sensi
del D.Lgs. n. 42 del 2004 (art. 167), ove emanato oltre il
termine perentorio -per previsione espressa di legge-
di 180 giorni previsto dal D.Lgs. n. 42 del 2004 (art. 181,
comma 1-quater), va qualificato come rilascio postumo
di autorizzazione paesistica, il quale ha l’effetto di
escludere
la rimessione o l’esecuzione dell’ordine di rimessione
in pristino dello stato dei luoghi.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Corte di
Cassazione,
nella sentenza in esame, verte sulla valenza giuridica
che può assumere il provvedimento di accertamento di
compatibilità paesaggistica intervenuto oltre il termine
perentorio
di legge.
La vicenda processuale segue alla conferma,
in sede d’appello, di una sentenza di condanna per il
delitto di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004 (art. 181, comma 1-
bis), inflitta al proprietario di un immobile per avere
realizzato
un locale seminterrato in assenza di autorizzazione
paesaggistica
in zona vincolata e dichiarata di notevole interesse
pubblico. I giudici di merito avevano argomentato la
decisione
rilevando che, trattandosi di immobile realizzato in zona
di notevole interesse pubblico, e non potendosi considerare
opera di minore impatto paesaggistico (in considerazione
della creazione di un nuovo volume fuori terra) non poteva
trovare applicazione la causa di non punibilità di cui
all’art.
181, comma 1-ter, D.Lgs. n. 42/2004, perché non era
ancora stata accertata la compatibilità paesaggistica,
malgrado
il parere favorevole prodotto dalla difesa.
Infine, la
sentenza impugnata rilevava che il mancato perfezionamento
dell’iter della richiesta di accertamento della
compatibilità
paesaggistica impediva di revocare l’ordine di rimessione in
pristino dei luoghi, alla cui ottemperanza era subordinata
la
sospensione della pena. Contro la sentenza di condanna
proponeva ricorso per cassazione censurandola, per quanto
qui di interesse, per aver confermato la sanzione accessoria
della demolizione, avendo i giudici di merito
illegittimamente
disatteso l’istanza di rinvio o sospensione del processo
per consentire il perfezionamento dell’iter riguardante
l’accertamento
della compatibilità paesaggistica, segnalando
l’errore in cui era incorso il giudice nell’individuazione
della
durata del termine di conclusione del procedimento (che, a
suo dire, sarebbe di 270 giorni).
La tesi, sul tale punto, è stata condivisa dalla Cassazione
che, muovendo dall’accertato rilascio da parte dell’Ufficio
Tutela del Paesaggio dell’accertamento di compatibilità
paesaggistica
ai sensi del D.Lgs. n. 42 del 2004 (art. 167), ha
osservato che, pur essendo tale provvedimento emanato
ben oltre il termine di 180 giorni previsto dal D.Lgs. n. 42
del 2004 (art. 181, comma 1-quater) -termine perentorio
per previsione espressa di legge-, lo stesso deve comunque
essere qualificato come rilascio postumo di autorizzazione
paesistica che, però, comunque ha l’effetto di escludere
la remissione o l’esecuzione dell’ordine di rimessione
in pristino dello stato dei luoghi (sulla questione non
constano
precedenti in termini: v., in precedenza, sui rapporti tra
condono ambientale e ordine di rimessione in pristino,
Cass. pen., sez. III, 31.10.2008, n. 40639, in Ced
Cass., n. 241537)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.02.2013 n. 8059
-
tratto da Urbanistica e appalti n. 5/2013). |
GIURISPRUDENZA |
SICUREZZA
LAVORO: Gli
obblighi del
coordinatore per
l’esecuzione dei lavori.
Magistrale continua ad essere l’analisi svolta
dalla Corte Suprema in ordine agli obblighi e
alle responsabilità del coordinatore per l’esecuzione
dei lavori (quanto alla posizione di garanzia
dei coordinatori v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza
sul Lavoro commentato con la giurisprudenza,
IV edizione, Milano, 2012, 501 ss. e 508
ss., cui aggiungi Cass. 01.10.2012, Cassera
e altro, e Cass. 26.09.2012, Farina e altro,
in ISL, 2013, 1, 39; Cass. 10.08.2012,
P.C. in c. Torlaschi, ibid., 2012, 11, 609; Cass.
14.06.2012, Gencarelli, e Cass. 07.06.2012, Goracci, ibid., 2012, 10, 544).
Significativo appare l’insegnamento impartito
dalla presente sentenza: «la qualità di coordinatore
per l’esecuzione dei lavori non è valsa in
nessun caso ad escluderne la rilevante posizione
di garanzia, assegnatagli dal sistema ai fini della
garanzia della sicurezza dei lavoratori, in conformità
all’insegnamento della giurisprudenza di
questa Corte, più volte ribadito nel senso della
spettanza, al coordinatore per l’esecuzione dei
lavori, non soltanto dei compiti organizzativi e
di raccordo tra le imprese che collaborano alla
realizzazione dell’opera, ma anche di quelli riguardanti
la vigilanza sulla corretta osservanza
delle prescrizioni del piano di sicurezza.
Trattasi
di figure le cui posizioni di garanzia non si sovrappongono
a quelle degli altri soggetti responsabili
nel campo della sicurezza sul lavoro, ma
ad esse si affiancano per realizzare, attraverso
la valorizzazione di una figura unitaria con compiti
di coordinamento e controllo, la massima garanzia
dell’incolumità dei lavoratori.» (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 14.02.2013 n. 7443
- tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 4/2013). |
EDILIZIA
PRIVATA: OPERE
INTERNE E RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA.
Poiché le cosiddette ‘‘opere interne’’ non sono più
previste
nel D.P.R. 06.06.2001, n. 380, come categoria
autonoma d’intervento edilizio sugli edifici esistenti, i
lavori
prima definibili come tali rientrano negli interventi
di ristrutturazione edilizia quando comportino aumento
di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti
e delle superfici ovvero mutamento di destinazione
d’uso.
La questione oggetto di attenzione da parte della Suprema
Corte verte, nel caso in esame, sulla persistente rilevanza
penale di quella categoria di interventi edilizi definiti
tradizionalmente
come ‘‘opere interne’’.
La vicenda processuale
trae origine dal provvedimento con cui il Tribunale del
Riesame
aveva respinto l’appello che il PM aveva proposto contro
il diniego del GIP di disporre il sequestro preventivo di un
immobile
ritenuto illegittimamente edificato; inizialmente, tale
edificio era stato oggetto di sequestro probatorio la cui
convalida
era stata impugnata dall’indagato ed annullata dal Tribunale
del Riesame sul rilievo che, semmai, il bene avrebbe
dovuto essere vincolato con diversa misura.
Per tale
ragione,
il PM si era rivolto al GIP che, come detto, aveva respinto
sostenendo non essere ravvisabili gli estremi del reato
ipotizzato. Contro l’ordinanza di rigetto dell’appello del
pubblico
ministero, quest’ultimo proponeva ricorso per cassazione
sostenendo che per le opere in questione, consistenti
nella realizzazione di tramezzature interne con creazione di
una stanza e di un bagno (e, quindi, un mutamento dei
volumi),
sarebbe stato necessario il permesso di costruire. In
sostanza,
la decisione del Tribunale del Riesame si baserebbe
su un orientamento superato, atteso che, non esistendo più
le ‘‘opere interne’’ a seguito dell’entrata in vigore del
TUA, solo per le opere minori non sarebbe necessario il
permesso
di costruire.
La tesi non è stata condivisa dal Supremo Collegio il quale
osserva che la stessa giurisprudenza citata dal ricorrente
contiene elementi che smentiscono la tesi del gravame.
Ed infatti, precisa la Corte, proprio perché le cosiddette "opere
interne"’ non sono più previste nel D.P.R. 06.06.2001, n. 380, come categoria autonoma di intervento edilizio
sugli edifici esistenti, i lavori prima definibili come tali
rientrano
negli interventi di ristrutturazione edilizia quando
comportino
aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei
prospetti e delle superfici ovvero mutamento di destinazione
d’uso. Trasferendo tali indicazioni al caso in esame,
risulta
evidente per gli Ermellini che non ricorre alcuna delle
ipotesi
appena descritte: dal momento che si è al cospetto di
tramezzature
interne che hanno creato una stanza ed un bagno,
non vi è stato aumento dei volumi ma solo un aumento
delle unità immobiliari o, se si preferisce, una diversa
distribuzione
dei medesimi spazi.
Di certo, poi, conclude la Corte,
la citata tramezzatura non ha dato luogo ad alcuna modifica
dei prospetti né, ancor meno, ad una destinazione d’uso
(in
precedenza, in senso conforme: Cass. pen., sez. III, 24.11.2011, n. 47438, in Cass. Pen., 2012, 11, 3859; Id.,
sez. fer., 04.09.2012, n. 37713, in Dir. & Giust.,
2012;
Id., sez. III, 20.05.2010, n. 27713, in Ced Cass., n.
247919; Id., sez. III, 16.03.2010, n. 20350, in Cass.
Pen.,
2011, 708; Id., sez. III, 19.11.2003, n. 280, in Ced
Cass., n. 226830)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.02.2013 n. 7092
- tratto da Urbanistica e appalti n. 5/2013). |
EDILIZIA
PRIVATA: RECUPERO
A FINI ABITATIVI DEI SOTTOTETTI ESISTENTI
E RILEVANZA PENALE.
In caso di realizzazione, in mancanza di titoli abilitativi,
di opere che avrebbero dovuto essere oggetto di permesso
di costruire o di DIA, ai sensi dell’art. 22, comma
3, del Testo Unico edilizia, risulta configurabile il reato
di cui all’art. 44 dello stesso testo unico, trovando
applicazione
l’espressa previsione del comma 2-bis del medesimo
articolo, che ne prevede l’applicazione anche
agli interventi edilizi suscettibili di realizzazione
mediante
denuncia di inizio attività, eseguiti in assenza o in
totale
difformità dalla stessa.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Corte di
Cassazione
con la sentenza in esame concerne la rilevanza penale
di quella tipologia di interventi edilizi che,
apparentemente,
si appalesano inoffensivi sul piano dell’assetto ordinato
del
territorio urbano ma che, a ben vedere, lo incidono e
giustificano,
dunque, la reazione penale.
La vicenda processuale
trae origine dall’impugnazione contro la sentenza di appello
confermativa della condanna dell’imputato, per i reati di
cui
al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. c), e del
D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, perché, su un terreno di
sua
proprietà, in area sottoposta a vincolo paesaggistico,
aveva
realizzato lavori di ampliamento di un preesistente
fabbricato
seminterrato, con scavi, fondazioni, pilastri in cemento
armato,
pavimentazione in cemento, soletta con travi in legno,
tamponature delle murature perimetrali e tavolati divisori,
in
mancanza di permesso di costruire e di autorizzazione
paesaggistica.
Contro tale sentenza proponeva ricorso per cassazione
la difesa dell’imputato sostenendo, da un lato, che i
lavori svolti avrebbero dovuto essere considerati mera
attività
di ampliamento, come tale assoggettata al titolo abilitativo
della denuncia di inizio attività, di cui al D.P.R. n. 380
del
2001, art. 22, con conseguente inapplicabilità della
sanzione
penale (l’ampliamento che riguardi vani seminterrati,
secondo
la difesa, non avrebbe dovuto essere considerato come
incidente sulla volumetria dell’edificio; dall’altro lato,
la difesa
rilevava la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 3,
10, 22 e 44, perché la Corte d’appello avrebbe ritenuto
applicabile
alla fattispecie concreta la norma incriminatrice di cui
al richiamato art. 44, pur trattandosi di un ampliamento
inerente
un recupero a fini abitativi, non essendosi realizzata
alcuna
nuova costruzione).
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che hanno
infatti
respinto il ricorso. In particolare, i giudici di
legittimità hanno
precisato che la Corte d’appello aveva desunto la natura di
nuova costruzione delle opere realizzate da elementi
correttamente
ritenuti univoci e concordanti, desunti dal verbale di
sopralluogo e dalle fotografie in atti. Si era, in
particolare, evidenziato
che:
a) è stato edificato un nuovo fabbricato in muratura
mediante scavo del terreno, realizzazione di fondamenta
e pilastri in cemento armato, pavimentazione in cemento,
solette in legno, caldara in cemento, tamponature,
muratura, con finestre e porte, assoggettata a denuncia di
inizio attività, ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art.
22,
comma 3;
b) sopra il fabbricato seminterrato,
illegittimamente
ampliato, non vi erano né un rustico, né una copertura
preesistenti, ma è stato realizzato ex novo un fabbricato
in
legno avente un basamento in muratura e un tetto con
copertura
in tegole, con la conseguenza che l’intervento non
può essere ricondotto alla categoria della ‘‘recupero a
fini
abitativi dei sottotetti esistenti’’ di cui alla L.R.
Lombardia n.
12 del 2005, art. 63, comma 1-bis. Correttamente, dunque, il
Tribunale e la Corte d’appello, secondo la Cassazione,
avevano
ritenuto che, essendo state realizzate, in mancanza di
titoli abilitativi, opere che avrebbero dovuto essere
oggetto
di permesso di costruire o di DIA, ai sensi dell’art. 22,
comma
3, del testo unico sull’edilizia, risulta configurabile il
reato
contestato, di cui all’art. 44, comma 1, lett. c), dello
stesso
testo unico, trovando applicazione l’espressa previsione del
comma 2-bis dello stesso articolo, secondo cui «Le
disposizioni
del presente articolo si applicano anche agli interventi
edilizi suscettibili di realizzazione mediante denuncia di
inizio
attività ai sensi dell’art. 22, comma 3, eseguiti in
assenza o
in totale difformità dalla stessa» (in tal senso, ex plurimis:
Cass. pen., sez. III, 05.03.2009, n. 9894, in Ced Cass.,
n.
243099; Id., sez. III, 09.07.2009, n. 28048, in Ced
Cass., n.
244580; Id., sez. III, 14.11.2011, n. 41425, in Ced
Cass., n. 251327)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.02.2013 n. 6517
- tratto da Urbanistica e appalti n. 5/2013). |
EDILIZIA
PRIVATA: REATO
PAESAGGISTICO CONFIGURABILE ANCHE IN CASO
DI ‘‘NATURALE’’ RIPRISTINO AMBIENTALE.
Il reato di cui all’art. 181 del D.Lgs. n. 42 del 2004, ha
natura
di reato di pericolo astratto, per il quale non è
necessario
un effettivo pregiudizio per l’ambiente e richiede,
per il suo perfezionamento, l’esecuzione di interventi
in assenza di preventiva autorizzazione che siano
astrattamente
idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico
tutelato, con l’ulteriore precisazione che detto reato si
configura anche nel caso in cui, per il mero decorso del
tempo e senza l’intervento dell’uomo, gli effetti prodotti
dalla condotta illecita siano venuti meno, restituendo ai
luoghi l’originario assetto.
Si segnala per la particolarità della questione giuridica
affrontata
la sentenza in esame, con cui la Corte di Cassazione è
chiamata nuovamente a pronunciarsi sul tema della
configurabilità
del reato paesaggistico, contemplato dall’art. 181 del
D.Lgs. n. 42/2004, nel caso in cui gli effetti del reato
medesimo
siano naturalmente regrediti senza alcun intervento
dell’uomo.
La vicenda processuale vedeva imputati il
committente
ed il direttore dei lavori di alcuni reati paesaggistici
ed edilizi per aver eseguito, in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico,
lavori in difformità dai titoli abilitativi rilasciati,
eseguendo la escavazione della sponda di un canale, per 68
metri, non prevista nell’autorizzazione e posizionando il
materiale
escavato all’interno delle barene anziché addossarlo
sulla sponda come pure stabilito nella medesima
autorizzazione.
Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per
cassazione la difesa, sostenendo che gli interventi
eseguiti,
considerata la particolare conformazione delle barene -terreni
molli in continuo movimento- non avrebbero determinato
alcuna alterazione dello stato dei luoghi, tanto che,
all’esito
del giudizio di primo grado, il giudice non ne aveva
ordinato
la rimessione in pristino poiché lo stato dei luoghi si
era, nel
frattempo, naturalmente reintegrato: tale circostanza,
aggiungeva
la difesa, consentirebbe, quanto meno, di ritenere
integrata la causa estintiva di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004
(art. 181, comma 1-quinquies), stante l’impossibilità di
una
condotta riparatrice e la evidente disparità di trattamento
che altrimenti si verificherebbe tra coloro che possono
rimediare
all’intervento eseguito e coloro il cui intervento non ha
determinato alcuna modifica dei luoghi.
La tesi non ha però avuto seguito nella valutazione dei
giudici
di legittimità che hanno dichiarato manifestamente
infondati
i motivi di ricorso.
In particolare, la Corte ha sul punto
precisato, da un lato, che il reato di cui al D.Lgs. n. 42
del
2004 (art. 181), ha natura di reato di pericolo astratto,
per il
quale non è necessario un effettivo pregiudizio per
l’ambiente
e richiede, per il suo perfezionamento, l’esecuzione
di interventi in assenza di preventiva autorizzazione che
siano
astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico
tutelato, con l’ulteriore precisazione che detto reato si
configura anche nel caso in cui, per il mero decorso del
tempo e senza l’intervento dell’uomo gli effetti prodotti
dalla
condotta illecita siano venuti meno, restituendo ai luoghi
l’originario assetto; dall’altro, che l’inapplicabilità
della speciale
causa estintiva di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004 (art. 181,
comma 1-quinquies) discende dal fatto che, secondo
consolidata
giurisprudenza, la rimessione in pristino delle aree
o degli immobili vincolati interessati dall’intervento
abusivo
dev’essere effettuata spontaneamente dal trasgressore prima
che venga disposta d’autorità ed, in ogni caso, prima
che intervenga la condanna (v., in termini: Cass. pen., sez.
III, 21.01.2008, n. 3064, in Ced Cass., n. 238628).
A
ciò si aggiunga, infine, la natura premiale della speciale
causa
estintiva, la cui ragion d’essere trova esclusivo fondamento
nella spontanea iniziativa del responsabile dell’abuso
paesaggistico, la cui azione ripristinatoria resta
improduttiva
di effetti estintivi del reato se provocata dall’intervento
dell’autorità
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.02.2013 n. 6299
- tratto da Urbanistica e appalti n. 5/2013). |
EDILIZIA
PRIVATA: INDIVIDUAZIONE
DEL MOMENTO CONSUMATIVO
NEL MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO.
Nei casi in cui si proceda al mutamento di destinazione
d’uso di un immobile mediante l’esecuzione di opere il
cui scopo è quello di renderlo utilizzabile per finalità
diverse
da quelle originarie, la trasformazione dovrà ritenersi
ultimata con il completamento delle opere medesime,
quando, cioè, l’uso del manufatto secondo la nuova
destinazione sia effettivamente possibile.
Particolarmente interessante la questione oggetto di
attenzione
da parte della Cassazione nella vicenda in esame, in
cui la Corte affronta, sotto un diverso angolo visuale, il
tema
del mutamento di destinazione d’uso di un’unit
immobiliare, in particolare fissando con chiarezza quando
deve ritenersi
‘‘ultimato’’ l’illecito intervento edilizio.
La vicenda
processuale
segue alla condanna, confermata in appello, nei confronti
di un imputato cui era stato addebitato di aver modificato
l’originaria destinazione d’uso di un locale sottotetto da
locale di sgombero a locale ad uso abitativo, con
realizzazione
di opere e ampliamento volumetrico non assentibile,
realizzazione
del locale sottotetto con pendenza delle falde del
37% in luogo del 35% assentito, con conseguente maggiore
altezza al colmo, il tutto in assenza di permesso di
costruire
o, comunque, in difformità totale dal permesso di costruire
e da quanto disposto dall’art. 6, comma 2, delle Norme
Tecniche di attuazione del PRG del Comune.
Contro la
sentenza
di condanna proponeva ricorso per cassazione la difesa,
sostenendo, per quanto di interesse in questa sede, che
la Corte d’appello avrebbe erroneamente individuato la data
di consumazione del reato facendo riferimento alla
realizzazione
di impianti all’interno del locale, mentre la modifica
dell’originaria destinazione d’uso avrebbe dovuto
considerarsi
perfezionata nel momento in cui era avvenuta la
realizzazione
delle falde con pendenza superiore rispetto a quanto
previsto, poiché sarebbe tale intervento ad aver reso
urbanisticamente
rilevante la volumetria del sottotetto.
La prospettazione difensiva, pur suggestiva, è stata però
disattesa
dagli Ermellini che hanno, sul punto, respinto il ricorso.
In particolare, i giudici di legittimità hanno affermato
che
nei casi in cui, come nella fattispecie, si proceda al
mutamento
di destinazione d’uso di un immobile mediante l’esecuzione
di opere il cui scopo è quello di renderlo utilizzabile
per finalità diverse da quelle originarie, la
trasformazione dovrà
ritenersi ultimata con il completamento delle opere
medesime,
quando, cioè, l’uso del manufatto secondo la nuova
destinazione sia effettivamente possibile.
In applicazione
di
tale principio si è rilevato che, nel caso in esame, la
Corte
d’appello aveva rilevato che, all’atto del sequestro, le
opere
interne al sottotetto e destinate a renderlo abitabile erano
ancora in corso di esecuzione, tanto che oltre a non essere
stati ancora installati ‘‘importanti elementi strutturali’’,
quali
luci e condizionatori, mancava anche una scala di accesso ai
locali e veniva utilizzata una scala mobile a pioli per
accedere
attraverso un foro praticato sul pavimento, costituente
l’unica
via di ingresso dall’ultimo piano del fabbricato al
sottotetto.
Da qui, dunque, la corretta interpretazione fattane dai
giudici
di merito.
In giurisprudenza, si noti che la Cassazione,
già in passato aveva avuto modo di operare una interessante
distinzione, precisando che, il mutamento di destinazione
d’uso può essere materiale, quando si realizzi attraverso
l’esecuzione
di opere edili sull’immobile preesistente, ovvero
soltanto funzionale, quando avvenga con una semplice
modificazione
dell’utilizzo, che non comporti trasformazioni materiali:
solo il mutamento funzionale richiede, per essere integrato,
l’effettiva modifica della destinazione dell’immobile,
mentre il mutamento materiale si consuma sin dall’inizio dei
lavori edilizi finalizzati al cambio di destinazione,
purché tale
finalizzazione sia desumibile attraverso mezzi probatori di
natura
logica o storica (v., Cass. pen., sez. VI, 28.10.1999,
n. 12271, in Ced Cass., n. 214527)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.02.2013 n. 6298
-
tratto da Urbanistica e appalti n. 5/2013). |
EDILIZIA
PRIVATA: INAPPLICABILITA'
DEL ‘‘SILENZIO ASSENSO’’ ALLA PROCEDURA
DI ACCERTAMENTO DELLA COMPATIBILITA' PAESAGGISTICA.
In tema di tutela del paesaggio, il provvedimento di
compatibilità paesaggistica ed ambientale dell’autorità
competente deve avere forma espressa, in quanto è da
escludersi, nella tutela preventiva svolta dalla pubblica
Amministrazione, l’istituto del silenzio assenso.
Di estremo interesse il tema oggetto di attenzione da parte
della Corte Suprema nella sentenza in esame, in cui i
giudici
di legittimità sono chiamati a pronunciarsi sulla
legittimità
dell’applicazione dell’istituto del cd. silenzio-assenso
nella
procedura di accertamento di compatibilità paesaggistica
introdotta
nel 2004.
La vicenda processuale segue alla conferma
in appello di una sentenza di condanna nei confronti di
un’imputata per alcune violazioni edilizie e paesaggistiche,
con pena sospesa subordinata alla demolizione del manufatto
abusivo. Contro la predetta sentenza proponeva ricorso
per cassazione la difesa, censurandola, per quanto qui di
interesse,
per presunta violazione del D.Lgs. n. 42 del 2004
(art. 181, comma 1-quater), risultando apodittica e priva di
pregio logico-giuridico la sentenza laddove aveva ritenuto
non perfezionata la procedura di compatibilità ai sensi
della
suddetta norma, con la conseguente inapplicabilità del
D.Lgs. n. 42 del 2004 (art. 181, comma 1-ter), giacché,
con
produzione documentale, si era fornita la prova di avere
ottenuto
il parere di compatibilità paesaggistica ed ambientale
dalla competente Soprintendenza ai beni culturali ed
ambientali.
Orbene, la Corte aveva ritenuto non perfezionata la
procedura per l’omesso pronunciamento dell’autorità
preposta
alla gestione del vincolo ai fini dell’accertamento della
compatibilità paesaggistica, identificata nel Comune; ma, a
parere della difesa, l’art. 181, comma 1-quater, prevede che
l’autorità competente si pronunci sulla domanda entro il
termine
perentorio di 180 giorni previo parere vincolante della
soprintendenza: vista la perentorietà del termine e la
natura
vincolante del parere, dunque, sarebbe applicabile
l’istituto
che consente la formazione dell’assenso a seguito
dell’inutile
decorso del tempo.
La tesi, pur argutamente prospettata, non è stata accolta
dagli
Ermellini che hanno, sotto tale punto, respinto il ricorso.
In particolare, i giudici di legittimità osservano come la
difesa
adducesse, in sostanza, un silenzio assenso che supplisca
all’espresso accertamento di compatibilità, silenzio
assenso
che -a giudizio della Cassazione- però, non prevede la
norma,
la quale logicamente lo avrebbe indicato come risultanza
dell’accostamento dei due elementi della perentorietà del
termine e della vincolatività dell’atto intermedio
procedimentale
se in tal senso si fosse collocata l’intenzione del
legislatore
(ubi voluit dixit), la quale evidentemente, al contrario, si
è collocata sulla stessa linea della normativa precedente
(D.Lgs. n. 490 del 1999) ove era da escludersi, nella tutela
preventiva svolta dalla pubblica Amministrazione, l’istituto
del silenzio assenso (v., sul punto: Cass. pen., sez. III, 04.10.2004, n. 38707, in Ced Cass., n. 229599)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.02.2013 n. 6285
- tratto da Urbanistica e appalti n. 5/2013). |
EDILIZIA PRIVATA: L’istallazione
di tende solari rientra nel novero degli interventi di
manutenzione straordinaria, in quanto non determina alcun
volume autonomo né una modifica permanente dello stato dei
luoghi, con la conseguenza che il titolo edilizio a tal fine
necessario è costituito dalla denuncia di inizio attività,
ai sensi del combinato disposto degli articoli 6, 10 e 22
del D.P.R. n. 380/2001.
Infatti, le tende solari, pur essendo destinate ad alterare
la facciata dell'edificio cui accedono (per cui non possono
definirsi interventi di manutenzione ordinaria), hanno
tuttavia semplice funzione (accessoria e pertinenziale) di
arredo dello spazio esterno, limitata nel tempo e nello
spazio (in quanto si tratta di strutture generalmente
utilizzate nella sola stagione estiva e che non determinano
alcuna variazione plano-volumetrica dell’immobile
principale, per cui non integrano né una nuova costruzione
né una ristrutturazione edilizia).
L’assenza della necessità del permesso di costruire ha,
inoltre, ricevuto l'avallo del Consiglio di Stato in
relazione ad una fattispecie di maggiore gravità rispetto a
quella oggi in discussione, secondo cui <<hanno carattere
pertinenziale e, come tali, non debbono essere assistite da
permesso di costruire, le opere che hanno finito per
sostituire una preesistente tenda parasole di un esercizio
commerciale con una struttura in legno infissa alla facciata
dell’edificio a mezzo di una trave e ancorata alla facciata
medesima nonché, in proiezione anteriore, al muretto
antistante l’accesso dell’esercizio, atteso che la struttura
realizzata, pur essendo indubbiamente più stabile e
"pesante" rispetto alla tenda parasole di cui ha preso il
posto, è palesemente destinata ad assolvere alla medesima
funzione di essa, non essendo, per entità e caratteristiche,
idonea ad integrare la nozione di "porticato" o di
"veranda"; in particolare, detta struttura è insuscettibile
di costituire un volume autonomo e aggiuntivo rispetto
all’esercizio commerciale cui accede. Ne discende che
l’opera in questione va qualificata come mera pertinenza
rispetto all’edificio, in quanto tale non necessitante il
previo rilascio di concessione edilizia (oggi permesso di
costruire)>>).
Il Collegio osserva peraltro, al riguardo, che a seguito
delle modifiche apportate all’art. 6 D.P.R. n. 380/2001
dall’art. 5, del D.L. 25.03.2010, n. 40 (convertito con L.
22.05.2010, n. 73) sul regime giuridico degli interventi di
manutenzione straordinaria, tali interventi possono ormai
essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo, previa
semplice comunicazione di inizio lavori, con previsione, in
caso di mancanza di quest’ultima, di una sanzione pecuniaria
pari ad euro 258,00.
---------------
Il fatto che l’area dell’intervento sia sottoposta a vincolo
paesaggistico comporta in ogni caso la necessità per
l’interessato di munirsi dell’autorizzazione della
competente Sovrintendenza.
Pur trattandosi, infatti, di intervento di manutenzione
straordinaria, l’autorizzazione è comunque necessaria, in
quanto si tratta di un intervento che, per sua natura,
altera (anche se in modo del tutto transeunte e contingente)
lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici
(cfr. art. 149, comma primo, lett. a), D.Lgs. n. 42/2004).
L’autorizzazione paesaggistica potrebbe eventualmente essere
rilasciata in sanatoria, trattandosi, per l’espressa
codificazione normativa appena riportata, di intervento
potenzialmente sussumibile nella fattispecie derogatoria di
cui all’articolo 167, comma 4, lett. “a”, D.Lgs. n. 42/2004
(riguardante lavori che non hanno determinato creazione di
superfici utili o di volumi), nonché –per quanto più sopra
considerato in ordine alla natura giuridica dell’intervento
in questione- in quella di cui alla lett. “c” della medesima
disposizione (concernente lavori integranti interventi di
manutenzione straordinaria).
Il ricorso
merita accoglimento.
Il provvedimento gravato si fonda sull'erroneo presupposto
che il contestato intervento sia sottoposto al regime del
permesso di costruire.
Come compiutamente evidenziato dalla recente sentenza di
questa Sezione n. 5324 del 12.10.2011, sulla problematica
concernente l’individuazione del titolo edilizio necessario
per l'istallazione di tende solari, si registravano in
giurisprudenza, prima della modifiche apportate all’art. 6
D.P.R. n. 380/2001 dall’art. 5 D.L. 25.03.2010, n. 40,
tre diverse posizioni.
Secondo un primo orientamento, si sarebbe trattato di
un intervento privo di rilevanza edilizia, che non
richiedeva, in quanto tale, alcun titolo concessorio (cfr.
TAR Lombardia Milano, sez. III, 31.07.2006, n. 1890).
Secondo un'opposta opinione, invece, le tende solari
sarebbero finalizzate alla migliore fruizione di un immobile
e risulterebbero destinate ad essere utilizzate in modo
permanente e non a titolo precario e pertanto
necessiterebbero del permesso di costruire (cfr. TAR
Basilicata, sez. I, 27.06.2008, n. 337).
A parere, infine, di una posizione intermedia
(espressa proprio da questa Sezione con la sentenza
02.12.2008, n. 20791), l’istallazione di tende solari
rientrerebbe nel novero degli interventi di manutenzione
straordinaria, in quanto non determinerebbe alcun volume
autonomo né una modifica permanente dello stato dei luoghi,
con la conseguenza che il titolo edilizio a tal fine
necessario sarebbe costituito dalla denuncia di inizio
attività, ai sensi del combinato disposto degli articoli 6,
10 e 22 del D.P.R. n. 380/2001.
Il Collegio ribadisce, in accordo con quanto recentemente
espresso nella già richiamata sentenza n. 5324 del
12.10.2011, di condividere la riferita configurazione della
natura giuridica degli interventi in questione come
interventi di manutenzione straordinaria, che trova il
proprio aggancio normativo nell’art. 3, comma primo, D.P.R.
n. 380/2001.
Infatti, le tende solari, pur essendo destinate ad alterare
la facciata dell'edificio cui accedono (per cui non possono
definirsi interventi di manutenzione ordinaria), hanno
tuttavia semplice funzione (accessoria e pertinenziale) di
arredo dello spazio esterno, limitata nel tempo e nello
spazio (in quanto si tratta di strutture generalmente
utilizzate nella sola stagione estiva e che non determinano
alcuna variazione plano-volumetrica dell’immobile
principale, per cui non integrano né una nuova costruzione
né una ristrutturazione edilizia).
Al riguardo, difatti, l’articolo 6, comma 1, lettera d), del
Regolamento Edilizio del Comune di Napoli fa rientrare fra
le opere di manutenzione straordinaria, le <<opere
finalizzate alla sistemazione di spazi esterni, che non
comportino la realizzazione di superfici utili o volumi,
quali: - realizzazione di giardini, opere di arredo, quali
vasche, aiuole per impianti floreali o arborei, fontane,
eccetera; realizzazione di pergolati, grillages e gazebi>>.
L’assenza della necessità del permesso di costruire ha,
inoltre, ricevuto l'avallo del Consiglio di Stato in
relazione ad una fattispecie di maggiore gravità rispetto a
quella oggi in discussione (cfr. C.d.S., sez. IV,
17.05.2010, n. 3127, secondo cui <<hanno carattere
pertinenziale e, come tali, non debbono essere assistite da
permesso di costruire, le opere che hanno finito per
sostituire una preesistente tenda parasole di un esercizio
commerciale con una struttura in legno infissa alla facciata
dell’edificio a mezzo di una trave e ancorata alla facciata
medesima nonché, in proiezione anteriore, al muretto
antistante l’accesso dell’esercizio, atteso che la struttura
realizzata, pur essendo indubbiamente più stabile e
"pesante" rispetto alla tenda parasole di cui ha preso il
posto, è palesemente destinata ad assolvere alla medesima
funzione di essa, non essendo, per entità e caratteristiche,
idonea ad integrare la nozione di "porticato" o di
"veranda"; in particolare, detta struttura è insuscettibile
di costituire un volume autonomo e aggiuntivo rispetto
all’esercizio commerciale cui accede. Ne discende che
l’opera in questione va qualificata come mera pertinenza
rispetto all’edificio, in quanto tale non necessitante il
previo rilascio di concessione edilizia (oggi permesso di
costruire)>>).
Si deve quindi ritenere che, nel caso di specie, il
contestato intervento edilizio rientri nel novero degli
interventi di manutenzione straordinaria e che quindi fosse
sottoposto, alla data in cui è stato realizzato, al regime
della denuncia di inizio attività, all’epoca applicabile a
tale categoria di opere, ai sensi delle richiamate
disposizioni normative di cui agli articoli 6, 10 e 22 del
D.P.R. n. 380/2001.
Il Collegio osserva peraltro, al riguardo, che a seguito
delle modifiche apportate all’art. 6 D.P.R. n. 380/2001
dall’art. 5, del D.L. 25.03.2010, n. 40 (convertito con L.
22.05.2010, n. 73) sul regime giuridico degli interventi di
manutenzione straordinaria (entrate in vigore in data
successiva a quella di realizzazione delle opere per cui è
causa), tali interventi possono ormai essere eseguiti senza
alcun titolo abilitativo, previa semplice comunicazione di
inizio lavori, con previsione, in caso di mancanza di
quest’ultima, di una sanzione pecuniaria pari ad euro
258,00.
Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve
pertanto ritenere che l'impugnato provvedimento di
demolizione e ripristino dello stato dei luoghi risulti
affetto dai vizi denunciati dal momento che esplicitamente
postula che per la sua realizzazione sia necessario il
permesso di costruire.
Si tratta, infatti, per quanto più sopra esposto, di
affermazione assolutamente non corretta sul piano giuridico.
Nella sua memoria difensiva, il Comune di Napoli mostra di
condividere la suindicata impostazione secondo cui
l'intervento in questione è ascrivibile alla tipologia della
manutenzione straordinaria (sottoposto quindi a denuncia di
inizio attività).
Tuttavia, deduce che non risulta l'interessato abbia
presentato alcuna denuncia in tal senso e pertanto,
l'intervento in questione sarebbe stato realizzato “senza
titolo” e quindi l'impugnato ordine demolitorio sarebbe
pienamente legittimo ai sensi dell'articolo 27, comma
secondo, D.P.R. n. 380/2001.
Inoltre, l’avvocatura comunale eccepisce l’inammissibilità
del ricorso.
Parte ricorrente non avrebbe difatti contestato che l’area
in questione sia sottoposta a vincolo paesaggistico
ovverosia il presupposto in base ai quali è stata ordinata
la demolizione ai sensi del citato articolo 27, comma
secondo, D.P.R. n. 380/2001.
Il Collegio, al riguardo, ritiene di non discostarsi
sostanzialmente da quanto recentemente espresso nell’analogo
caso di cui alla già citata sentenza di questa Sezione n.
5324 del 12.10.2011, sia pure in base ad argomentazioni
parzialmente diverse.
Le argomentazioni difensive dell’avvocatura comunale (che
introducono un nuovo elemento di valutazione in sede
giudiziale e che quindi sarebbero tecnicamente
inammissibili, per il divieto di integrazione “postuma”
della motivazione), non possono tuttavia essere condivise,
in quanto da un lato contrastano con l’obiettiva
circostanza che l’unico profilo motivazionale contenuto nel
provvedimento impugnato sia quello dell’asserita –ma
erronea- necessità del permesso di costruire (senza alcuna
altra distinzione o specificazione) e, dall’altro,
non tengono conto dell’autonomia dei due diversi titoli,
quello edilizio e quello paesaggistico, sancita
normativamente dall’art. 146, comma quarto, D.Lgs. n.
42/2004.
Inoltre, la semplice menzione della circostanza che l’area
in questione sia sottoposta a vincolo paesaggistico e
l’indicazione dell’art. 27, comma 2, della legge n. 380/2001
non costituiscono un autonomo motivo dell’atto gravato tale
da giustificare da solo il provvedimento negativo, facente
sorgere l’onere di impugnativa.
Anzi, al contrario, il mero riferimento a tali circostanze,
in assenza di alcuna specificazione in ordine alla mancanza
di autorizzazione paesaggistica ed alla deduzione di tale
circostanza come presupposto della misura sanzionatoria, non
è sufficiente a far considerare l’aspetto dell’assenza di
titolo paesaggistico quale motivazione della misura
sanzionatoria, che si concentra invece sul profilo della
necessità del permesso di costruire.
Al riguardo, il fatto che l’area dell’intervento sia
sottoposta a vincolo paesaggistico -pur non mutando per
quanto anzidetto la questione per quanto riguarda la
legittimità del provvedimento gravato- comporta in ogni caso
la necessità per l’interessato di munirsi
dell’autorizzazione della competente Sovrintendenza.
Pur trattandosi, infatti, di intervento di manutenzione
straordinaria, l’autorizzazione è comunque necessaria, in
quanto si tratta di un intervento che, per sua natura,
altera (anche se in modo del tutto transeunte e contingente)
lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici
(cfr. art. 149, comma primo, lett. a), D.Lgs. n. 42/2004).
L’autorizzazione paesaggistica potrebbe eventualmente essere
rilasciata in sanatoria, trattandosi, per l’espressa
codificazione normativa appena riportata, di intervento
potenzialmente sussumibile nella fattispecie derogatoria di
cui all’articolo 167, comma 4, lett. “a”, D.Lgs. n. 42/2004
(riguardante lavori che non hanno determinato creazione di
superfici utili o di volumi), nonché –per quanto più sopra
considerato in ordine alla natura giuridica dell’intervento
in questione- in quella di cui alla lett. “c” della medesima
disposizione (concernente lavori integranti interventi di
manutenzione straordinaria).
In conclusione, il ricorso deve essere accolto, nei termini
e per le ragioni suindicate, con conseguente annullamento
dell'impugnata Disposizione Dirigenziale
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 16.12.2011 n. 5919 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'installazione
di n. 3 tende solari estensibili per
complessivi ml. 17,00 x 3,00 di sporgenza si configura quale
intervento di manutenzione straordinaria, che trova il
proprio aggancio normativo nell’art. 3, comma primo, D.P.R.
n. 380/2001.
Infatti, le tende solari, pur essendo destinate ad alterare
la facciata dell'edificio cui accedono (per cui non possono
definirsi interventi di manutenzione ordinaria), hanno
tuttavia semplice funzione (accessoria e pertinenziale) di
arredo dello spazio esterno, limitata nel tempo e nello
spazio (in quanto si tratta di strutture generalmente
utilizzate nella sola stagione estiva e che non determinano
alcuna variazione plano-volumetrica dell’immobile
principale, per cui non integrano né una nuova costruzione
né una ristrutturazione edilizia).
L’assenza della necessità del permesso di costruire ha,
inoltre, ricevuto l'avallo del Consiglio di Stato in
relazione ad una fattispecie di maggiore gravità rispetto a
quella oggi in discussione, secondo cui <<hanno carattere
pertinenziale e, come tali, non debbono essere assistite da
permesso di costruire, le opere che hanno finito per
sostituire una preesistente tenda parasole di un esercizio
commerciale con una struttura in legno infissa alla facciata
dell’edificio a mezzo di una trave e ancorata alla facciata
medesima nonché, in proiezione anteriore, al muretto
antistante l’accesso dell’esercizio, atteso che la struttura
realizzata, pur essendo indubbiamente più stabile e
"pesante" rispetto alla tenda parasole di cui ha preso il
posto, è palesemente destinata ad assolvere alla medesima
funzione di essa, non essendo, per entità e caratteristiche,
idonea ad integrare la nozione di "porticato" o di
"veranda"; in particolare, detta struttura è insuscettibile
di costituire un volume autonomo e aggiuntivo rispetto
all’esercizio commerciale cui accede. Ne discende che
l’opera in questione va qualificata come mera pertinenza
rispetto all’edificio, in quanto tale non necessitante il
previo rilascio di concessione edilizia (oggi permesso di
costruire)>>.
Tuttavia è bene notare al riguardo, ancorché non applicabile
al caso di specie (in quanto sono state introdotte in data
successiva a quella di realizzazione delle opere per cui è
causa), che le modifiche apportate all’art. 6 D.P.R. n.
380/2001 dall’art. 5 D.L. 25.03.2010, n. 40 (conv. L.
22.05.2010, n. 73) sul regime giuridico degli interventi di
manutenzione straordinaria comporta che tali interventi
possono ormai essere eseguiti senza alcun titolo
abilitativo, previa semplice comunicazione di inizio lavori,
con previsione, in caso di mancanza di quest’ultima, di una
sanzione pecuniaria pari ad euro 258,00.
---------------
Il fatto che l’area dell’intervento sia sottoposta a vincolo
paesaggistico comporta in ogni caso la necessità per
l’interessato di munirsi dell’autorizzazione della
competente Sovrintendenza.
Pur trattandosi di intervento di
manutenzione straordinaria, l’autorizzazione è comunque
necessaria, in quanto si tratta di un intervento che, per
sua natura, altera (anche se in modo del tutto transeunte e
contingente) lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli
edifici (cfr. art. 149, comma primo, lett. a), D.Lgs. n.
42/2004).
Si tratta tuttavia di un intervento di <<lieve entità>>, per
il quale è applicabile la procedura semplificata
disciplinata dal D.P.R. 09.07.2010 n. 139, come stabilito
dal relativo Allegato 1, n. 16, che espressamente
ricomprende tra tali interventi quelli concernenti la
<<collocazione di tende da sole sulle facciate degli edifici
per locali destinati ad attività commerciali e pubblici
esercizi>> (come nel caso di specie, in cui la tenda è tra
l’altro funzionale alla migliore fruizione del
corrispondente suolo pubblico di cui il ricorrente è
legittimo concessionario).
L’autorizzazione paesaggistica può inoltre essere rilasciata
in sanatoria, trattandosi, per l’espressa codificazione
normativa appena riportata, di intervento di lieve entità,
perfettamente sussumibile, quindi, nella fattispecie
derogatoria di cui all’articolo 167, comma 4, lett. “a”, D.
Lgs. n. 42/2004 (riguardante lavori che non hanno
determinato creazione di superfici utili o di volumi),
nonché –per quanto più sopra considerato in ordine alla
natura giuridica dell’intervento in questione- in quella di
cui alla lett. “c” della medesima disposizione (concernente
lavori integranti interventi di manutenzione straordinaria).
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Come infatti esattamente dedotto dal ricorrente con la prima
censura (e come già osservato da questa Sezione in sede
cautelare), l’impugnato provvedimento si fonda sull'erroneo
presupposto che il contestato intervento (consistente
nell'istallazione, nel giugno del 2009, nello spazio
antistante l'ingresso dell'esercizio commerciale sito alla
via Partenope n. 11, di <<n. 3 tende solari estensibili
per complessivi ml. 17,00 x 3,00 di sporgenza>>) sia
sottoposto al regime del permesso di costruire (e non invece
a quello della Denuncia di Inizio Attività, ratione
temporis applicabile alla fattispecie).
In ordine alla problematica concernente l’individuazione del
titolo edilizio necessario per l'istallazione di tende
solari, occorre rilevare che, in giurisprudenza, prima della
modifiche apportate all’art. 6 D.P.R. n. 380/2001 dall’art.
5 D.L. 25.03.2010, n. 40 (conv. L. 22.05.2010, n. 73), si
potevano registrare tre diverse posizioni.
Secondo un primo orientamento, si tratterebbe di un
intervento privo di rilevanza edilizia, che non
richiederebbe, in quanto tale, alcun titolo concessorio
(cfr. TAR Lombardia Milano, sez. III, 31.07.2006, n. 1890).
Secondo un'opposta opinione, invece, le tende solari
sarebbero finalizzate alla migliore fruizione di un immobile
e risulterebbero destinate ad essere utilizzate in modo
permanente e non a titolo precario e pertanto
necessiterebbero del permesso di costruire (cfr. TAR
Basilicata, sez. I, 27.06.2008, n. 337).
Secondo, invece, una posizione intermedia (espressa
proprio da questa Sezione con la sentenza 02.12.2008, n.
20791), l’istallazione di tende solari rientrerebbe nel
novero degli interventi di manutenzione straordinaria, in
quanto non determinerebbe alcun volume autonomo né una
modifica permanente dello stato dei luoghi, con la
conseguenza che il titolo edilizio a tal fine necessario
sarebbe costituito dalla denuncia di inizio attività, ai
sensi del combinato disposto degli articoli 6, 10 e 22 del
D.P.R. n. 380/2001.
Il Collegio condivide pienamente la riferita configurazione
della natura giuridica degli interventi in questione come
interventi di manutenzione straordinaria, che trova il
proprio aggancio normativo nell’art. 3, comma primo, D.P.R.
n. 380/2001. Infatti, le tende solari, pur essendo destinate
ad alterare la facciata dell'edificio cui accedono (per cui
non possono definirsi interventi di manutenzione ordinaria),
hanno tuttavia semplice funzione (accessoria e pertinenziale)
di arredo dello spazio esterno, limitata nel tempo e nello
spazio (in quanto si tratta di strutture generalmente
utilizzate nella sola stagione estiva e che non determinano
alcuna variazione plano-volumetrica dell’immobile
principale, per cui non integrano né una nuova costruzione
né una ristrutturazione edilizia).
Non è un caso che, in particolare, per quanto riguarda le
opere eseguite nel territorio comunale, il Comune di Napoli
espressamente annoveri, nel proprio regolamento edilizio,
l’installazione di tende solari nell’ambito degli interventi
di manutenzione straordinaria (cfr. art. 6, comma primo,
lett. g), R.E., che fa a tal fine testuale riferimento agli
interventi di <<realizzazione, modifica o integrazione di
mostre, vetrine, tende e insegne per gli esercizi
commerciali, terziari o artigianali>>).
Tale configurazione ha inoltre ricevuto l'avallo del
Consiglio di Stato in relazione ad una fattispecie di
maggiore gravità rispetto a quella oggi in discussione (cfr.
C.d.S., sez. IV, 17.05.2010, n. 3127, secondo cui <<hanno
carattere pertinenziale e, come tali, non debbono essere
assistite da permesso di costruire, le opere che hanno
finito per sostituire una preesistente tenda parasole di un
esercizio commerciale con una struttura in legno infissa
alla facciata dell’edificio a mezzo di una trave e ancorata
alla facciata medesima nonché, in proiezione anteriore, al
muretto antistante l’accesso dell’esercizio, atteso che la
struttura realizzata, pur essendo indubbiamente più stabile
e "pesante" rispetto alla tenda parasole di cui ha preso il
posto, è palesemente destinata ad assolvere alla medesima
funzione di essa, non essendo, per entità e caratteristiche,
idonea ad integrare la nozione di "porticato" o di
"veranda"; in particolare, detta struttura è insuscettibile
di costituire un volume autonomo e aggiuntivo rispetto
all’esercizio commerciale cui accede. Ne discende che
l’opera in questione va qualificata come mera pertinenza
rispetto all’edificio, in quanto tale non necessitante il
previo rilascio di concessione edilizia (oggi permesso di
costruire)>>).
Si deve quindi ritenere che, nel caso di specie, il
contestato intervento edilizio rientri nel novero degli
interventi di manutenzione straordinaria e che quindi fosse
sottoposto, alla data in cui è stato realizzato, al regime
della denuncia di inizio attività, all’epoca applicabile a
tale categoria di opere, ai sensi delle richiamate
disposizioni normative di cui agli articoli 6, 10 e 22 del
D.P.R. n. 380/2001.
E’ bene notare infatti, al riguardo, che le modifiche
apportate all’art. 6 D.P.R. n. 380/2001 dall’art. 5 D.L.
25.03.2010, n. 40 (conv. L. 22.05.2010, n. 73) sul regime
giuridico degli interventi di manutenzione straordinaria
(secondo cui tali interventi possono ormai essere eseguiti
senza alcun titolo abilitativo, previa semplice
comunicazione di inizio lavori, con previsione, in caso di
mancanza di quest’ultima, di una sanzione pecuniaria pari ad
euro 258,00), non possono essere considerate applicabili
alla presente fattispecie, in quanto sono state introdotte
in data successiva a quella di realizzazione delle opere per
cui è causa.
Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve
pertanto ritenere che l'impugnato provvedimento di
demolizione e ripristino dello stato dei luoghi risulti
affetto dei vizi denunciati con la prima censura, dal
momento che non soltanto omette di qualificare la natura
giuridica dell'intervento contestato, ma esplicitamente
postula che per la sua realizzazione sia necessario il
permesso di costruire.
Si tratta, infatti, per quanto più sopra esposto, di
affermazione assolutamente non corretta sul piano giuridico
(che tra l'altro contraddice immotivatamente le risultanze
della richiamata istruttoria tecnica del 28/05/2010, in cui
si rileva invece che si tratta di manutenzione
straordinaria, sottoposta a dichiarazione inizio attività).
Nella sua memoria difensiva, il Comune di Napoli mostra di
condividere tale impostazione. Afferma infatti che
l'intervento in questione è ascrivibile alla tipologia della
manutenzione straordinaria, sottoposto quindi a denuncia di
inizio attività. Tuttavia, osserva ancora che l'interessato
non ha presentato alcuna denuncia in tal senso e che,
inoltre, non ha acquisito il parere favorevole della
Sovrintendenza (che sarebbe stato necessario, stante il
vincolo paesaggistico gravante sull'area dell'intervento).
Nella specie, pertanto, l'intervento in questione sarebbe
stato realizzato “senza titolo” e quindi l'impugnato
ordine demolitorio sarebbe pienamente legittimo ai sensi
dell'articolo 27, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001.
Le argomentazioni difensive dell’avvocatura comunale (che
introducono un nuovo elemento di valutazione in sede
giudiziale e che quindi sarebbero tecnicamente
inammissibili, per il divieto di integrazione “postuma”
della motivazione), non possono tuttavia essere condivise,
in quanto da un lato contrastano con l’obiettiva circostanza
che l’unico profilo motivazionale contenuto nel
provvedimento impugnato sia quello dell’asserita –ma
erronea- necessità del permesso di costruire (senza alcuna
altra distinzione o specificazione) e, dall’altro, non
tengono conto dell’autonomia dei due diversi titoli, quello
edilizio e quello paesaggistico, sancita normativamente
dall’art. 146, comma quarto, D.Lgs. n. 42/2004.
In ogni caso, il fatto che l’area dell’intervento sia
sottoposta a vincolo paesaggistico non muta i termini della
questione, ma comporta semplicemente la necessità per
l’interessato di munirsi dell’autorizzazione della
competente Sovrintendenza.
Pur trattandosi infatti di intervento di manutenzione
straordinaria, l’autorizzazione è comunque necessaria, in
quanto si tratta di un intervento che, per sua natura,
altera (anche se in modo del tutto transeunte e contingente)
lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici
(cfr. art. 149, comma primo, lett. a), D.Lgs. n. 42/2004).
Si tratta tuttavia di un intervento di <<lieve entità>>,
per il quale è applicabile la procedura semplificata
disciplinata dal D.P.R. 09.07.2010 n. 139, come stabilito
dal relativo Allegato 1, n. 16, che espressamente
ricomprende tra tali interventi quelli concernenti la <<collocazione
di tende da sole sulle facciate degli edifici per locali
destinati ad attività commerciali e pubblici esercizi>>
(come nel caso di specie, in cui la tenda è tra l’altro
funzionale alla migliore fruizione del corrispondente suolo
pubblico di cui il ricorrente è legittimo concessionario).
L’autorizzazione paesaggistica può inoltre essere rilasciata
in sanatoria, trattandosi, per l’espressa codificazione
normativa appena riportata, di intervento di lieve entità,
perfettamente sussumibile, quindi, nella fattispecie
derogatoria di cui all’articolo 167, comma 4, lett. “a”, D.
Lgs. n. 42/2004 (riguardante lavori che non hanno
determinato creazione di superfici utili o di volumi),
nonché –per quanto più sopra considerato in ordine alla
natura giuridica dell’intervento in questione- in quella di
cui alla lett. “c” della medesima disposizione (concernente
lavori integranti interventi di manutenzione straordinaria).
In conclusione, assorbito ogni altro motivo, il ricorso deve
essere accolto, con conseguente annullamento dell'impugnata
disposizione dirigenziale n. 233 del 15/07/2010
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 14.11.2011 n. 5324 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’installazione di una
tenda da sole facilmente smontabile, in funzione ornamentale
ed accessoria del fabbricato e di protezione dalle
intemperie, non integra i caratteri propri della costruzione
e non necessita quindi di concessione edilizia.
Occorre premettere che, secondo la giurisprudenza
amministrativa, l’installazione di una tenda da sole
facilmente smontabile, in funzione ornamentale ed accessoria
del fabbricato e di protezione dalle intemperie, non integra
i caratteri propri della costruzione e non necessita quindi
di concessione edilizia (cfr. TAR Toscana, Sez. II,
24.07.1997 n. 470).
Pertanto, ai fini dell’illiceità dell’opera, non vale
argomentare sul vincolo di inedificabilità assoluta cui si
trova assoggettata l’intera zona, ricompresa nel piano
urbanistico territoriale della costiera
Sorrentino-Amalfitana, ai sensi dell’art. 5, comma 1, della
legge regionale 27.06.1987 n. 35.
Il detto vincolo, infatti, concerne soltanto il rilascio
delle concessioni edilizie (oggi, dei permessi di costruire)
e, ai sensi del comma 4, non si applica agli interventi
subordinati ad autorizzazione ed a quelli per i quali non
sono necessari né la concessione, né l’autorizzazione (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 27.04.2011 n. 748 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La "struttura in ferro
stilizzata … a falda ondulata e leggermente inclinata …
parzialmente coperta da pannelli trasparenti in
policarbonato … corredata da tre tende ritraibili di mq. 36
per m. 3 di altezza", sul terrazzino di pertinenza
dell’immobile, per la sua tipologia e per l’uso di materiali
dal non rilevante impatto visivo, può ritenersi un arredo
dello spazio esterno con la conseguenza che la stessa può
farsi rientrare fra le opere di manutenzione straordinaria,
ai sensi dell’articolo 6 del Regolamento Edilizio del
Comune.
Sicché, illegittimo si rileva il provvedimento impugnato con
il quale il Comune erroneamente ha ritenuto le opere,
realizzate dal ricorrente, di ristrutturazione edilizia con
la conseguente irrogazione della sanzione demolitoria.
Al riguardo si deve rilevare che, come risulta dagli atti,
il Comune ha sanzionato la realizzazione di una <<struttura
in ferro stilizzata … a falda ondulata e leggermente
inclinata … parzialmente coperta da pannelli trasparenti in
policarbonato … corredata da tre tende ritraibili>> di
mq. 36 per m. 3 di altezza, sul terrazzino di pertinenza
dell’immobile sito in Napoli via ....
Tale struttura, per la sua tipologia e per l’uso di
materiali dal non rilevante impatto visivo, come emerge
anche dalle foto depositate, può ritenersi, come sostenuto
dal ricorrente, un arredo dello spazio esterno con la
conseguenza che la stessa può farsi rientrare, come pure
sostenuto dal ricorrente nel quinto motivo di ricorso, fra
le opere di manutenzione straordinaria, ai sensi
dell’articolo 6 del Regolamento Edilizio del Comune di
Napoli.
Infatti l’articolo 6, comma 1 lettera d), del Regolamento
Edilizio del Comune di Napoli fa rientrare fra le opere di
manutenzione straordinaria, le <<opere finalizzate alla
sistemazione di spazi esterni, che non comportino la
realizzazione di superfici utili o volumi, quali: -
realizzazione di giardini, opere di arredo, quali vasche,
aiuole per impianti floreali o arborei, fontane, eccetera;
realizzazione di pergolati, grillages e gazebi>>.
Illegittimo si rileva pertanto il provvedimento impugnato
con il quale il Comune di Napoli erroneamente ha ritenuto le
opere realizzate dal ricorrente di ristrutturazione edilizia
con la conseguente irrogazione della sanzione demolitoria
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 02.12.2008 n. 20791 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per l’installazione di
tende e/o strutture parasole risulta necessario il rilascio
del provvedimento di concessione edilizia, ora denominato
permesso di costruire, in quanto opere edilizie che, essendo
finalizzate alla migliore fruizione di un immobile,
risultano destinate ad essere utilizzate in modo permanente
(anche se, come nella specie, solo per alcuni mesi all’anno)
e non a titolo precario.
Al riguardo va sottolineato che per l’installazione di tende
e/o strutture parasole risulta necessario il rilascio del
provvedimento di concessione edilizia, ora denominato
permesso di costruire (sul punto cfr. TAR Piemonte Sez. I
Sent. n. 1136 del 26.04.2005; TAR Lazio Roma Sez. II-ter
Sent. n. 1841 dell’08.03.2002), in quanto opere edilizie
che, essendo finalizzate alla migliore fruizione di un
immobile, risultano destinate ad essere utilizzate in modo
permanente (anche se, come nella specie, solo per alcuni
mesi all’anno) e non a titolo precario.
Ma nella specie l’impugnata autorizzazione n. 9 del
05.07.2005 assume la configurazione di un normale permesso
di costruire, in quanto dopo l’entrata in vigore del DPR n.
380/2001 la previgente autorizzazione edilizia gratuita è
stata sostituita dalla Denuncia di Inizio di Attività, la
quale risulta efficace soltanto dopo il mero decorso di 30
giorni, se entro tale termine il competente Dirigente
Comunale non adotta il provvedimento inibitorio, previsto
dall’art. 23 DPR n. 380/2001.
Mentre anche i permessi di costruire rientrano nell’ampio
genus degli atti autorizzatori; al riguardo si osserva
che, tenuto conto di quanto statuito dalla Corte
Costituzionale nella Sentenza n. 5 del 30.01.1980, secondo
cui il diritto di edificare inerisce al diritto di proprietà
del suolo, si desume agevolmente che il termine “concessione
edilizia”, prima usato dal Legislatore era improprio, in
quanto il provvedimento di concessione attribuisce un
diritto creato ex novo, mentre l’atto di
autorizzazione rimuove un limite legale all’esercizio di un
preesistente diritto, come nel caso del diritto di
edificare, che costituisce una delle facoltà del diritto di
proprietà di un terreno, per cui sarebbe stata più corretta
la denominazione di autorizzazione edilizia (la quale poteva
essere suddivisa in autorizzazione edilizia gratuita ed
autorizzazione edilizia onerosa), anziché quella di
concessione edilizia
(TAR Basilicata,
sentenza 27.06.2008 n. 337 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa la collocazione di
una tenda a spiovente, sorretta da struttura (in alluminio)
mobile zavorrata in appoggio sul selciato, di dimensione
corrispondente all’occupazione già autorizzata, costituita
da un telo in PVC bianco sostenuto da otto piantane, per la
protezione dei fiori esposti alle intemperie, la stessa
risulta priva di rilevanza edilizia e non necessita, quindi,
di titolo concessorio per la sua installazione.
Il ricorrente espone di essere titolare di autorizzazione
rilasciata dal Comune di Milano per l’esercizio del
commercio ambulante di fiori, nonché di concessione per
l’occupazione di spazio pubblico della superficie di m.
12x5, destinata a posteggio fisso sul Piazzale Cimitero
Maggiore.
Lo stesso precisa di aver presentato al Comune di Milano, in
data 25.10.1995, domanda di autorizzazione per la
collocazione di una tenda a spiovente, sorretta da struttura
mobile zavorrata in appoggio sul selciato, di dimensione
corrispondente all’occupazione già autorizzata, costituita
da un telo in PVC bianco sostenuto da otto piantane, per la
protezione dei fiori esposti alle intemperie.
Con successiva nota in data 21.05.1996, l’interessato ha
invitato l’amministrazione comunale a pronunciarsi entro il
termine di trenta giorni, preavvertendo che, in difetto,
avrebbe dato corso al posizionamento della tenda.
L’autorizzazione è stata negata con provvedimenti emessi in
data 26.11.1997, in ragione del contrasto tra la tipologia
di concessione, relativa a posteggio per banco mobile, e il
carattere di permanenza ed inamovibilità della struttura
destinata a tenda ombrasole; con gli stessi provvedimenti
l’interessato veniva anche diffidato a rimuovere il
manufatto abusivamente installato.
...
Ciò posto, il Collegio ritiene che il manufatto in
questione, consistente in una intelaiatura in alluminio
zavorrata, ma non ancorata al suolo, destinata a fungere da
supporto di una tenda parasole, facilmente rimovibile per le
modalità in cui è stata posata, risulti privo di rilevanza
edilizia e non necessiti quindi di titolo concessorio per la
sua installazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 31.07.2006 n. 1890 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
maggiore o minore facilità di rimozione non rileva, infatti,
ai fini della qualificazione di un’opera edilizia in termini
di precarietà.
Neppure assumono una valenza decisiva, in tal senso, la
struttura del manufatto abusivo, la sua tipologia o i
materiali utilizzati.
Ciò che rileva al fine della qualificazione di un’opera
edilizia come precaria è, invece (come affermato dalla
giurisprudenza consolidata e condiviso dal Collegio), la
funzione cui è obiettivamente finalizzata l’opera, con la
conseguenza che solamente le costruzioni destinate ab
origine al soddisfacimento di esigenze contingenti e
circoscritte nel tempo saranno esenti dall’obbligo della
concessione, mentre vi saranno assoggettate le opere
destinate ad una utilizzazione perdurante nel tempo.
---------------
La struttura realizzata dal ricorrente, in assenza di titolo
autorizzativo e sul balcone dell’alloggio di proprietà, è
costituita da un telaio a supporto di pannelli trasparenti
scorrevoli; detto telaio delimita completamente il perimetro
costituito dal parapetto del balcone ed è ancorato al
parapetto medesimo e all’intradosso della soletta
sovrastante.
Il manufatto abusivo è stato realizzato all’evidente fine di
migliorare la fruizione dell’alloggio, offrendo una
protezione dagli agenti atmosferici e ampliando gli spazi
utilizzabili.
Esso non è quindi destinato a soddisfare esigenze
temporanee, mediante una utilizzazione circoscritta nel
tempo, bensì è finalizzato ad un utilizzo tendenzialmente
durevole, con obiettivi caratteri di stabilità.
Ne consegue che l’opera edilizia, non connotabile in termini
di precarietà, era soggetta al rilascio di concessione
edificatoria.
---------------
L’assenza di connotati di precarietà del manufatto, peraltro
di non irrilevante impatto visivo, fa sì che la costruzione
abbia stabilmente modificato la superficie e la volumetria
dell’immobile.
Deve altresì osservarsi come l’opera in questione
costituisca sostanzialmente una veranda chiusa con superfici
trasparenti, seppure scorrevoli su pannelli mobili, la cui
apposizione all’edificio di abitazione ne ha alterato la
sagoma, realizzando una trasformazione edilizia duratura che
necessitava di concessione edilizia.
Ne consegue che legittimamente il Sindaco di Novara,
accertata l’esecuzione di opere in assenza di concessione,
ne ha disposto la rimozione.
E’ contestata nel presente giudizio la legittimità del
provvedimento R.G. n. 2 del 09.01.1998, notificato il
successivo 14 gennaio, con il quale il Sindaco di Novara ha
ordinato la rimozione della struttura realizzata dal
ricorrente, in assenza di titolo autorizzativo, sul balcone
dell’alloggio di proprietà (recte: dell’alloggio di
cui, all’epoca dei fatti, era promissario acquirente).
Il manufatto abusivo è costituito da un telaio a supporto di
pannelli trasparenti scorrevoli; detto telaio delimita
completamente il perimetro costituito dal parapetto del
balcone ed è ancorato al parapetto medesimo e all’intradosso
della soletta sovrastante.
Con l’unico motivo di gravame il ricorrente deduce
l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio adottato dal
Comune di Novara, sostenendo che la struttura di cui è stata
ordinata la rimozione, “lungi dall’essere fissa ed
inamovibile”, è semplicemente fissata al parapetto del
balcone mediante tenute di sicurezza, paragonabili ai
sostegni utilizzati per l’installazione di tende parasole, e
costituirebbe pertanto opera precaria, non soggetta al
rilascio di concessione edilizia.
Il motivo è privo di pregio.
La maggiore o minore facilità di rimozione non rileva,
infatti, ai fini della qualificazione di un’opera edilizia
in termini di precarietà (cfr., ex multis, Cons.
Stato, sez. V, 23.01.1995, n. 97 e Cons. Stato, sez. V,
12.11.1996, n. 1317).
Neppure assumono una valenza decisiva, in tal senso, la
struttura del manufatto abusivo, la sua tipologia o i
materiali utilizzati (cfr. TAR Lombardia, Milano,
17.02.1997, n. 168).
Ciò che rileva al fine della qualificazione di un’opera
edilizia come precaria è, invece (come affermato dalla
giurisprudenza consolidata e condiviso dal Collegio), la
funzione cui è obiettivamente finalizzata l’opera, con la
conseguenza che solamente le costruzioni destinate ab
origine al soddisfacimento di esigenze contingenti e
circoscritte nel tempo saranno esenti dall’obbligo della
concessione, mentre vi saranno assoggettate le opere
destinate ad una utilizzazione perdurante nel tempo (cfr.,
ex plurimis, Cons. Stato, sez. V, 24.02.1996, n.
226).
Nel caso in esame, il manufatto abusivo è stato realizzato
all’evidente fine di migliorare la fruizione dell’alloggio,
offrendo una protezione dagli agenti atmosferici e ampliando
gli spazi utilizzabili.
Esso non è quindi destinato a soddisfare esigenze
temporanee, mediante una utilizzazione circoscritta nel
tempo, bensì è finalizzato ad un utilizzo tendenzialmente
durevole, con obiettivi caratteri di stabilità.
Ne consegue che l’opera edilizia, non connotabile in termini
di precarietà, era soggetta al rilascio di concessione
edificatoria.
Il ricorrente sostiene, in secondo luogo, che la
realizzazione della struttura abusiva, proprio in ragione
della sua “assoluta rimovibilità”, non avrebbe
comportato la modifica delle metrature dell’alloggio e del
suo perimetro.
Anche questa affermazione è destituita di fondamento.
Come già rilevato al punto precedente, infatti, l’assenza di
connotati di precarietà del manufatto, peraltro di non
irrilevante impatto visivo, fa sì che la costruzione abbia
stabilmente modificato la superficie e la volumetria
dell’immobile.
Deve altresì osservarsi come l’opera in questione
costituisca sostanzialmente una veranda chiusa con superfici
trasparenti, seppure scorrevoli su pannelli mobili, la cui
apposizione all’edificio di abitazione ne ha alterato la
sagoma, realizzando una trasformazione edilizia duratura che
necessitava di concessione edilizia.
Ne consegue che legittimamente il Sindaco di Novara,
accertata l’esecuzione di opere in assenza di concessione,
ne ha disposto la rimozione, ai sensi dell’articolo 7 della
legge 28.02.1985, n. 47 e dell’articolo 64 della legge
regionale Piemonte 05.12.1977, n. 56
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 26.04.2005 n. 1136 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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(Agenzia delle Entrate, 06.06.2013). |
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AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
21.06.2013, suppl. ord. n. 50/L, "Disposizioni urgenti
per il rilancio dell’economia"
(D.L.
21.06.2013 n. 69).
---------------
Per leggere la sintesi dei numerosi provvedimenti presi,
si legga il
comunicato stampa 15.06.2013 della Presidenza del
Consiglio dei Ministri. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 21.06.2013, "Indirizzi
per l’applicazione delle norme transitorie per la
pianificazione comunale (l.r. 1/2013)"
(circolare
regionale 19.06.2013 n. 14). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Ferruti,
Prestazione energetica degli edifici: novità e conferme nel
decreto-legge n. 63/2013 (giugno 2013 - link a
www.lexitalia.it). |
URBANISTICA:
L. Spallino,
Gli strumenti giuridici della rigenerazione urbana:
evoluzione delle forme
(21.06.2013 - link a www.studiospallino.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
P. Giannone,
L’istituto della sanatoria disciplinata dall’art. 36 del
D.P.R. 380/2001 e la sua estensibilità all’Autorizzazione
Unica alla realizzazione ed all’esercizio di impianti per la
produzione di energia elettrica mediante utilizzo di
fonti energetiche rinnovabili di cui all'art. 12, comma 3,
del D.Lgs. 387/2003 - PARTE 1^ (link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: G.
Severini,
La tutela costituzionale del paesaggio (art. 9 Cost.) (link a www.giustizia-amministrativa.it). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI: Dipendente
comunale, membro della commissione di gara o responsabile
del procedimento?
Domanda
Può essere
nominato membro di una Commissione di gara per l'affidamento
di un servizio compreso nell'elenco di cui all'allegato II B
del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 il dipendente comunale
destinato a rivestire l'incarico di responsabile del
procedimento nella fase di esecuzione del contratto da
stipulare con il soggetto aggiudicatario?
Risposta
L'art. 20 del
D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, che regola espressamente gli
appalti di servizi elencati nell'allegato II B dello stesso
D.Lgs., prevede che "l'aggiudicazione degli appalti
aventi per oggetto i servizi elencati nell'allegato II B è
disciplinata esclusivamente dall'art. 68 (specifiche
tecniche), dall'art. 65 (avviso sui risultati della
procedura di affidamento), dall'art. 225 (avvisi relativi
agli appalti aggiudicati)".
L'incompatibilità prospettata nella domanda è invece
regolata dall'art. 84 comma 4, per cui "I commissari
diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono
svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o
amministrativo relativamente al contratto del cui
affidamento si tratta"; tra i ruoli che fanno sorgere
l'incompatibilità la giurisprudenza ricomprende
pacificamente anche il responsabile del procedimento (si
veda, ex multis, la recente TAR Puglia Bari Sez. I,
06.02.2013, n. 174).
Per completezza, è opportuno citare anche l'art. 27 del
D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 ("principi relativi ai
contratti esclusi"), che stabilisce al comma 1: "L'affidamento
dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi
forniture, esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di
applicazione oggettiva del presente codice, avviene nel
rispetto dei principi di economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità...".
Basandosi sul mero dettato normativo, si potrebbe affermare
che l'art. 84 non è ricompreso tra gli articoli previsti
dall'art. 20 come applicabili ai servizi di cui all'allegato
II B del codice; sull'argomento è pero intervenuta, con
orientamenti contrastanti, la giurisprudenza amministrativa.
Si veda ad esempio Cons. Stato Sez. III, 17.10.2011, n.
5547, che riporta in massima "gli appalti esclusi,
compresi nell'allegato II B dell'art. 20 del D.Lgs.
12.04.2006, n. 163 (Codice degli appalti), sono soggetti
esclusivamente all'applicazione delle norme ivi richiamate
ovvero agli artt. 65 (avviso sui risultati della procedura
di affidamento), 68 (specifiche tecniche) e 225 (avviso
appalti aggiudicati nei settori speciali). La scelta della
stazione appaltante di aggiudicare un appalto escluso con il
criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa di cui
all'art. 83 del codice non implica, salvo un esplicito
richiamo contenuto negli atti di gara, l'applicazione del
disposto di cui al successivo art. 84 relativo alla nomina e
costituzione della commissione di gara", attenendosi
quindi a un'interpretazione letterale del disposto
normativo, laddove un'altra sezione del Consiglio di Stato
ha ritenuto che la ratio nell'art. 84 sia invece
espressione di "principi generali, costituzionali e
comunitari, volti ad assicurare il buon andamento e
l'imparzialità dell'azione amministrativa.
Secondo la giurisprudenza, essa, in quanto espressiva di un
principio generale, è applicabile anche alle procedure di
evidenza pubblica non disciplinate dal codice dei contratti
pubblici" (Cons. Stato Sez. IV, 10.01.2012, n. 27).
A dirimere questo contrasto è di recente intervenuta
l'Adunanza plenaria, con la Sent., 07.05.2013, n. 13. La
sentenza, pur intervenendo nello specifico
sull'applicabilità o meno dell'art. 84 alle concessioni di
servizi ex art. 30, stabilisce comunque principi generali
che appaiono applicabili anche all'ambito dei contratti
esclusi (ed è la stessa sentenza a richiamare più volte
l'art. 27). In particolare il Consiglio di Stato statuisce
che "deve ritenersi, quindi, che le regole, quali quelle
contenute nell'art. 84 sui "tempi" della formazione e sulla
"regolare composizione" di un organo amministrativo (tali
regole aventi natura sostanziale e non ogni diversa
disposizione procedurale) siano un predicato dei principi di
trasparenza e di imparzialità, per cui le disposizioni di
cui ai commi 4 e 10 devono ritenersi espressione di
principio generale del codice".
Gli ultimi orientamenti giurisprudenziali portano quindi a
ritenere che le norme dell'art. 84 siano espressione di
principi generali tesi ad assicurare trasparenza e
imparzialità, e in quanto tali applicabili anche alle
procedure di evidenza pubblica non disciplinate dal codice
dei contratti pubblici, come peraltro previsto dall'art. 27
del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163. Per questi motivi, vista la
non univocità delle soluzioni proposte dalla giurisprudenza,
pare più prudente che lo stesso dipendente comunale non
svolga ambedue le funzioni di membro della commissione e di
responsabile del procedimento
(21.06.2013
- tratto da www.ipsoa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Convenzione per la gestione e manutenzione degli spazi verdi
del Comune.
La convenzione per lo svolgimento di
attività a favore del Comune da parte di un'associazione di
volontariato e un eventuale contributo alla medesima non
possono essere correlati tra loro, pena la qualificazione di
'corrispettivo' del contributo stesso, esclusa dalla vigente
normativa.
---------------
Il Comune chiede un parere in ordine alla possibilità di
affidare la gestione e manutenzione degli spazi verdi di
proprietà comunale al gruppo locale Alpini, a fronte di un
contributo annuo.
L'articolo 4, commi 6, 7 e 8 del decreto legge 06.07.2012,
n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge
07.08.2012, n. 135, ha disciplinato, fra l'altro, alcuni
aspetti degli affidamenti delle pubbliche amministrazioni
per l'acquisizione di beni e servizi, anche mediante
convenzioni stipulate con le associazioni di volontariato.
In particolare, il comma 6 dispone che a decorrere dal
01.01.2013 le pubbliche amministrazioni, di cui al
l'articolo 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, possono
acquisire a titolo oneroso servizi di qualsiasi tipo da enti
di diritto privato, anche mediante convenzioni, unicamente
tramite le procedure previste dalla normativa nazionale in
conformità con quella comunitaria. Gli enti
di diritto privato di cui agli artt. da 13 a 42 del codice
civile (società, associazioni, fondazioni e comitati) che
forniscono servizi all'amministrazione anche a titolo
gratuito, non possono ricevere contributi a carico delle
finanze pubbliche. Restano escluse da tale disposizione le
fondazioni istituite con la finalità di promuovere lo
sviluppo tecnologico e l'alta formazione tecnologica, gli
enti operanti nel campo dei servizi socio-assistenziali e
dei beni ed attività culturali, dell'istruzione e della
formazione, le associazioni di promozione sociale, gli enti
di volontariato
(di cui alla l. 266/1991 'Legge quadro sul volontariato'),
le organizzazioni non governative, le cooperative
sociali, le associazioni sportive dilettantistiche nonché le
associazioni rappresentative, di coordinamento e supporto
degli enti territoriali e locali.
Il comma 7, al fine di evitare distorsioni della concorrenza
e del mercato e di assicurare la parità degli operatori nel
territorio nazionale, sancisce che, a decorrere dal
01.01.2014, i soggetti ivi contemplati, fra cui le pubbliche
amministrazioni indicate al comma precedente, devono
acquisire sul mercato i beni e servizi strumentali alla
propria attività, mediante le procedure concorrenziali
previste dal codice appalti. E' consentita l'acquisizione in
via diretta di beni e servizi tramite convenzioni realizzate
con le associazioni di promozione sociale, iscritte negli
specifici registri, le organizzazioni di volontariato
iscritte negli specifici registri, le associazioni sportive
dilettantistiche, le cooperative sociali, ai sensi delle
vigenti normative nonché le convenzioni siglate con le
organizzazioni non governative per le acquisizioni di beni e
servizi realizzate negli ambiti di attività cooperazione
allo sviluppo, previste della vigenti disposizioni.
Il comma 8 prevede che dal 01.01.2014 l'affidamento diretto
può avvenire solo a favore di società a capitale interamente
pubblico nel rispetto della normativa comunitaria per la
gestione in house, a condizione che il valore
economico del servizio o dei beni oggetto di affidamento sia
pari o inferiore a 200.000 euro annui. Sono
fatti salvi gli
affidamenti in essere fino alla scadenza naturale e comunque
fino al 31.12.2014 e le acquisizioni in via
diretta di beni e servizi il cui valore complessivo sia pari
o inferiore a 200.000 euro in favore delle associazioni di
promozione sociale, degli enti di volontariato, delle
associazioni sportive dilettantistiche, delle organizzazioni
non governative e delle cooperative sociali.
Con riferimento alla fattispecie in commento, sarà dunque
preventivamente necessario accertare la natura di 'organizzazione
di volontariato' dell'associazione nazionale alpini
[1] con la
quale il Comune instante intende sottoscrivere la
convenzione e verificare che la stessa risulti iscritta da
almeno sei mesi nell'apposito registro. Infatti, tanto in
virtù delle summenzionate norme statali, quanto ai sensi
dell'articolo 14 della legge regionale 09.11.2012, n. 23,
recante 'Disciplina organica sul volontariato e sulle
associazioni di promozione sociale e norme
sull'associazionismo', l'iscrizione nel registro ivi
indicato è considerata un requisito essenziale per la
stipula di convenzioni, tanto con la Regione e con gli enti
e le aziende regionali, quanto con gli enti locali.
Una volta accertata la sussistenza dei requisiti prescritti
dalla citata normativa e appurato il rispetto delle
disposizioni di cui all'articolo 14, lr 23/2012, ovvero che
le attività oggetto della convenzione rientrano tra quelle
indicate al comma 1 [2],
e che gli interventi richiesti rientrano nel settore in cui
l'organizzazione opera principalmente [comma 5, lett. a)],
si potrà procedere alla stipula della convenzione in
argomento.
Diversa questione concerne, invece, la possibilità di
erogare un contributo annuo all'associazione e di collegarlo
all'attività svolta in convenzione.
Infatti, l'articolo 14, comma 4, della lr 23/2012 dispone
che l'attività prevista in convenzione sia svolta secondo le
finalità e i principi di cui agli articoli 2, 3 e 4 della
legge 11.08.1991, n. 266. Si osserva, in particolare che i
predetti articoli, con riferimento alle organizzazioni di
volontariato, prevedono espressamente l'assenza di fini di
lucro, escludono la possibilità che l'attività dei volontari
venga retribuita; il successivo articolo 5, indica tra le
risorse economiche dell'organizzazione esclusivamente
contributi, donazioni e lasciti ricevuti, e rimborsi
derivanti da convenzioni.
Inoltre, con riferimento al comma 3 del citato art. 14, lr
23/2012, si osserva che tra gli elementi regolati dalle
convenzioni non figurano in alcun modo proventi aventi
natura di corrispettivo bensì, sub lettera a) 'il
contenuto dell'intervento volontario e gratuito, nonché le
modalità di svolgimento delle prestazioni che formano
oggetto della convenzione' e sub lettera g) 'le
modalità di erogazione, di rendicontazione, i rapporti
finanziari, la tipologia delle spese ammissibili a rimborso,
comprensive della copertura assicurativa a carico dell'ente
e i tempi per il rimborso'.
Si ritiene, dunque, che la convenzione per
lo svolgimento delle attività indicate in premessa e un
eventuale contributo all'associazione non possano essere
correlati, pena la qualificazione di 'corrispettivo'
del contributo stesso, esclusa, come ampiamente illustrato,
dalle norme sopra riportate.
Per quanto concerne, invece, il diverso profilo
dell'assegnazione di contributi al gruppo Alpini (non
correlati con la convenzione stipulata), si rileva che, ai
sensi del sopra richiamato articolo 4, comma 6, del DL
95/2012, il divieto di erogare contributi ivi contemplato
non opera nei confronti degli enti di volontariato.
Tuttavia le modalità di erogazione di un contributo
all'associazione de qua dovranno rispettare le
prescrizioni di cui all'articolo 12 della legge 07.08.1990,
n. 241, ai sensi del quale: '1. La concessione di
sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e
l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a
persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla
predeterminazione da parte delle amministrazioni procedenti,
nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri
e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono
attenersi.
2. L'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di
cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti
relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1.'.
---------------
[1] Il gruppo Alpini è solitamente inteso come
un'associazione apartitica che si propone di:
a) tenere vive e tramandare le tradizioni degli Alpini, difenderne
le caratteristiche;
b) rafforzare tra gli Alpini di qualsiasi grado e condizione i
vincoli di fratellanza nati dall'adempimento del comune
dovere verso la Patria;
c) promuovere e favorire lo studio dei problemi della montagna e
del rispetto dell'ambiente naturale;
d) promuovere e concorrere in attività di volontariato.
Per il conseguimento degli scopi associativi il gruppo
Alpini, in genere, non ha scopo di lucro, si avvale in modo
determinante e prevalente delle prestazioni personali,
volontarie e gratuite dei propri soci.
[2] Il comma 1 dell'art. 14 recita: 'In attuazione del
principio di sussidiarietà e per promuovere forme di
amministrazione condivisa, le organizzazioni di volontariato
iscritte nel Registro da almeno sei mesi possono stipulare
convenzioni con la Regione, gli enti e aziende il cui
ordinamento è disciplinato dalla Regione e gli enti locali
per lo svolgimento di:
a) attività e servizi assunti integralmente in proprio;
b) attività innovative e sperimentali;
c) attività integrative complementari o di supporto a servizi
pubblici;
d) attività frutto di co-progettazione tra organizzazioni ed enti
pubblici.'
(13.06.2013
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Indennità del vicesindaco reggente.
Al vicesindaco reggente compete, per il
periodo di concreto esercizio dei pieni poteri sostitutivi,
un'indennità di importo pari a quella goduta dal sindaco,
atteso che la misura dell'indennità si correla
essenzialmente alla funzione svolta dal percipiente e non
alla qualifica da questi rivestita (Consiglio di Stato,
parere n. 501/2001).
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla misura
dell'indennità spettante al vicesindaco reggente a seguito
delle dimissioni del sindaco.
Sentito il Servizio finanza locale, si esprimono le seguenti
considerazioni.
Ai sensi dell'articolo 37-bis, comma 1, della legge
08.06.1990, n. 142 [1],
in caso di dimissioni del sindaco, la giunta decade e si
procede allo scioglimento del consiglio. La giunta e il
consiglio rimangono in carica sino all'elezione del nuovo
consiglio e del nuovo sindaco, mentre le funzioni del
sindaco sono svolte dal vicesindaco.
Il Consiglio di Stato, sezione I, parere 14.06.2001, n. 501,
si è espresso nel senso di un riconoscimento di pieni poteri
del vicesindaco investito di funzioni vicarie, potendo
svolgere tutte le funzioni che precedentemente facevano capo
al sindaco.
Infatti, nell'ipotesi di dimissioni del sindaco, la
sostituzione dello stesso da parte del vicesindaco ha
carattere stabile ed «assume contorni assimilabili per
molti versi a quelli della vera e propria reggenza».
In conseguenza, e unitamente alla considerazione che
l'indennità in argomento è correlata essenzialmente alla
funzione svolta dal percipiente (e non alla qualifica da
questi rivestita), il Consiglio di Stato ha ritenuto che al
vicesindaco reggente competa, per il periodo di concreto
esercizio dei poteri sostitutivi, un'indennità di importo
pari a quella goduta dal sindaco.
---------------
[1] Per effetto del rinvio operato dall'articolo 23,
comma 1, della legge regionale 04.07.1997, n. 23, nel Friuli
Venezia Giulia tale articolo continua a trovare
applicazione, così come vigente alla data di entrata in
vigore della legge regionale 23/1997
(13.06.2013
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Obbligo di astensione dei consiglieri comunali.
Qualora nell'approvazione di una
variante al PRGC si possa escludere la presenza di un
interesse immediato, diretto e specifico dei singoli
amministratori (o dei loro parenti o affini sino al quarto
grado) non sussiste alcun obbligo di astensione, mentre, in
caso contrario, si può addivenire all'approvazione della
variante in argomento mediante il ricorso alla votazione
frazionata.
Il Comune chiede di conoscere se sussista l'obbligo di
astensione degli amministratori locali, ai sensi dell'art.
78, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, nel
caso di adozione di variante al PRGC volta a modificare una
norma generica di zona B4 (che individua le aree di
pertinenza delle abitazioni, edificabili solo per servizi ed
accessori, su tutto il territorio comunale). Un tanto
poiché, in caso di risposta affermativa, la quasi totalità
dei consiglieri comunali risulterebbe interessata
dall'obbligo di astenersi, rendendo di fatto impossibile
l'adozione della variante in commento.
Ai sensi dell'articolo 78, comma 2, del d.lgs. 267/2000, 'Gli
amministratori di cui all'art. 77, comma 2, devono astenersi
dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di
delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o
affini sino al quarto grado. L'obbligo di astensione non si
applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale,
quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista
una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della
deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di
parenti o affini fino al quarto grado'.
L'obbligo di astensione trova il suo fondamento nel
principio costituzionale di imparzialità e trasparenza
dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.).
Come già affermato dallo scrivente Ufficio nel parere prot.
n. 21090 dd. 26.05.2011, la giurisprudenza sul tema
dell'obbligo di astensione per conflitto di interessi da
parte dei soggetti appartenenti ad organi collegiali, ha
chiarito come lo stesso ricorra per il solo fatto che essi
siano portatori di interessi personali che possano trovarsi
in posizione di conflittualità, ovvero anche solo di
divergenza, rispetto a quello generale, affidato alle cure
dell'organo di cui fanno parte. [1]
Con riferimento specifico all'approvazione dei provvedimenti
normativi o di carattere generale, ai quali la fattispecie
in esame sembra essere riconducibile, la norma ha
disciplinato l'obbligo di astensione in modo tale che la sua
violazione possa verificarsi solo in presenza di un
interesse immediato, diretto e specifico dell'amministratore
(o dei suoi parenti o affini) e non di un interesse
genericamente non definito.
Sarà necessario, pertanto, valutare le condizioni specifiche
che consentano di escludere o ammettere la corrispondenza
del caso concreto alla fattispecie ipotizzata dalla norma.
La giurisprudenza ha, comunque, al riguardo, affermato che:
'L'obbligo di astensione che incombe sugli amministratori
comunali in sede di adozione (e di approvazione) di atti di
pianificazione urbanistica sorge per il solo fatto che,
considerando lo strumento stesso l'area alla quale
l'amministratore è interessato, si determini il conflitto di
interessi, a nulla rilevando il fine specifico di realizzare
l'interesse privato e/o il concreto pregiudizio
dell'amministrazione pubblica'. [2]
Il Ministero dell'Interno, intervenuto sull'argomento, nel
richiamare la suindicata giurisprudenza, ha, altresì,
affermato come la stessa sia concorde nel ritenere che il
dovere di astensione sussista in tutti i casi in cui gli
amministratori versino in situazioni, anche potenzialmente,
idonee a porre in pericolo la loro assoluta imparzialità e
serenità di giudizio. [3]
Per evitare che un possibile conflitto di interessi infici
la legittimità degli atti deliberativi, la giurisprudenza ha
ritenuto che una votazione frazionata delle modifiche ai
piani urbanistici, cui di volta in volta si astengono gli
amministratori interessati, seguita dall'approvazione dello
strumento pianificatorio nel suo complesso, rappresenti una
soluzione 'ragionevole e realistica'.
[4]
Infatti, ove non si consentisse detta votazione frazionata,
sarebbe sostanzialmente impossibile per i piccoli comuni, in
cui gran parte degli amministratori e loro parenti e affini
sono proprietari dei terreni interessati, procedere
all'adozione di strumenti urbanistici generali.
[5]
L'adozione dello strumento urbanistico non può, comunque,
esaurirsi in votazioni frazionate, ma deve necessariamente
comprendere una fase conclusiva comportante l'esame, la
discussione, la votazione e approvazione del documento
pianificatario nel suo complesso. Tale votazione complessiva
da parte di tutti i componenti il collegio, ivi compresi i
consiglieri che si sono astenuti dalle votazioni sulle
singole modifiche, non può ritenersi preclusa dall'articolo
78, comma 2, del d.lgs. 267/2000. Infatti, il consigliere 'interessato',
per quanto riguarda la scelta pianificatoria che lo riguarda
direttamente, non è più in grado di influire, almeno
direttamente, sulla stessa in sede di votazione finale,
atteso che il consenso su quella scelta si è già formato
senza la sua partecipazione [6].
Valuti, dunque, l'Ente instante, alla luce delle
considerazioni sopra svolte, se nella fattispecie in esame
si possa escludere la presenza di un interesse immediato,
diretto e specifico dei singoli amministratori (o dei loro
parenti o affini): in caso affermativo non sussisterebbe
alcun obbligo di astensione, mentre, in caso contrario, si
potrebbe addivenire all'approvazione della variante in
argomento mediante il ricorso alla votazione frazionata,
alla luce dell'orientamento sopra esposto.
---------------
[1] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del
13.06.2008, n. 2970.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del
26.05.2003, n. 2826. Di recente si veda Consiglio di Stato,
sez. IV, sentenza del 28.01.2011, n. 693.
[3] Ministero dell'Interno, pareri del 03.06.2008, del
22.04.2008 e del 31.10.2007.
[4] TAR Veneto, Sez. I, 08.06.2006, n. 1719.
[5] Detta soluzione è stata accolta anche dal Ministero
dell'Interno. Si veda al riguardo il parere del 18.10.2012.
[6] Un tanto è stato recentemente confermato dalla
Cassazione penale, nella sentenza 27/03/2013, n. 14457, che
ha chiarito che 'il sindaco e l'assessore all'urbanistica
non hanno il dovere di astenersi dalla delibera di
approvazione del piano regolatore generale, trattandosi di
un atto finale di un procedimento complesso in cui vengono
valutati, ponderati e composti molteplici interessi, sia
individuali che pubblici, sicché il provvedimento ha un
contenuto di carattere generale, attenendo all'assetto
territoriale nel suo complesso; mentre tale obbligo di
astensione sussiste se il voto espresso dagli amministratori
riguarda la destinazione della singola area o la specifica
prescrizione, come è accaduto nella fattispecie nella quale
il voto aveva avuto ad oggetto una variante e poi la
relativa opposizione alla variante, concernente un'area in
relazione alla quale è riconoscibile un interesse personale,
anche indiretto, del pubblico amministratore.'
(05.06.2013
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PUBBLICO IMPIEGO:
I permessi studio.
In un comune, con 28 dipendenti in
organico, sono state presentate, a fine 2010, 2 richieste di
permessi studio per l’anno 2011. Considerato che solo il 3%
del totale dipendenti ha diritto di usufruire dei permessi
studio, sono stati concessi, pertanto, solo a un dipendente,
in quanto lo stesso, a parità di titoli, non aveva fruito in
passato di permessi per ore studio. Il dipendente che ha
fruito del diritto non ha utilizzato tutte le ore studio e
nel corso del 2011 non ha dato comunicazione di rinuncia per
la differenza. Il secondo in graduatoria non ha richiesto, a
sua volta, di utilizzare la differenza, se si fosse
realizzata.
Ora, a dicembre 2012, a distanza di quasi un anno dalla
scadenza dell’utilizzo delle ore studio 2011, il secondo in
graduatoria chiede che gli vengano assegnate le ore di
permessi studio 2011 residue, non utilizzate dal collega,
per la frequenza universitaria svolta sempre nel 2011,
debitamente documentata, con conseguente riconversione dei
giorni imputati a ferie e/o recupero nello stesso 2011.
Si chiede, alla luce dei fatti descritti, come questo ente
deve rapportarsi, considerato il tempo intercorso tra
l’esercizio di un eventuale diritto all’utilizzo delle ore
residuali e la richiesta dell’interessato a distanza di un
anno.
La disciplina dei permessi per il diritto allo studio è
contenuta nell’art. 15 del Ccnl del 2000 che, al comma 1,
fissa il vincolo secondo il quale i permessi in parola sono
determinati nella “misura massima di 150 ore individuali
per ciascun anno”. Questa chiara indicazione
contrattuale deve essere intesa come un vincolo periodico
che vale per ogni singolo anno, termina alla fine di ogni
anno e riprende vigore con l’inizio dell’anno successivo con
un nuovo periodo di 150 ore. In altri termini non è in alcun
modo possibile utilizzare eventuali ore non usufruite in un
anno per trasportarle all’anno successivo in aggiunta alle
ordinarie 150 ore di questo ultimo periodo.
In altri termini, se nell’esercizio 2011, ad esempio,
risultano non fruiti 40 giorni del monte complessivo di 150,
questi 40 giorni vengono azzerati al 31 dicembre e non
possono concorrere a integrare le 150 ore del 2012.
Altro e diverso discorso può essere svolto sull’utilizzo
delle ore non fruite da parte del lavoratore interessato con
attribuzione ad altro eventuale soggetto interessato, a sua
esplicita richiesta, ma nel corso del medesimo esercizio.
Ritornando al caso pratico, possiamo ipotizzare che nel 2012
il dipendente autorizzato a fruire delle 150 ore ha fruito
solo in parte del suo diritto, ad esempio, per 110 ore, e
dichiara espressamente che non utilizzerà il residuo di 40
ore entro il 31 dicembre del medesimo anno; in questo caso
l’ente è legittimato ad attribuire queste 40 ore ad altro
lavoratore richiedente in possesso dei prescritti requisiti.
Ricordiamo che questa operazione deve riguardare le sole
assenze del medesimo anno 2012 che non possono essere
riferite all’anno 2013. Per concludere, le ore non fruite
nell’anno 2011 devono considerarsi ormai inutilizzabili (Guida
al Pubblico Impiego n. 6/2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Scorrimento graduatoria concorsuale.
Un ente locale ha chiesto un
approfondimento in merito al previo esperimento delle
procedure di mobilità volontaria in caso di assunzione
tramite scorrimento di graduatoria concorsuale, soprattutto
in relazione alla sentenza del Consiglio di Stato, sez. V,
n. 4329/2012, in cui si sancisce che la modalità di
assunzione per scorrimento della graduatoria di concorso già
espletato è estranea alla fattispecie delineata dal comma
2-bis dell’art. 30 del decreto legislativo 30.03.2001, n.
165.
Alle tematiche del previo esperimento della mobilità
volontaria, anche in relazione alle assunzioni tramite
scorrimento di graduatoria, è dedicato il paragrafo n. 10, “Indicazioni
per la pianificazione del fabbisogno e in materia di
mobilità”, della nota circolare n. 11786 del 22.02.2011
del dipartimento della Funzione pubblica che, ancorché non
destinata agli enti locali, può essere utilmente richiamata.
Nella predetta nota circolare si ricordava che per quanto
attiene all’obbligo di esperire preventivamente le procedure
di mobilità volontaria, lo stesso risponde ad un’esigenza di
razionalizzazione dell’organizzazione pubblica e di
riduzione della spesa di personale, senza trascurare
l’aspirazione dei pubblici dipendenti di conciliare meglio
vita personale e lavorativa attraverso una maggiore
vicinanza alla propria abitazione. La nuova formulazione
dell’art. 30, comma 1, del Dlgs n. 165/2001, come voluta dal
Dlgs n. 150/2009, introduce poi l’obbligo di “rendere
pubbliche le disponibilità dei posti in organico da
ricoprire attraverso passaggio diretto di personale da altre
amministrazioni, fissando preventivamente i criteri di
scelta” e si richiamava, “infine, la giurisprudenza
consolidata secondo cui l’obbligo delle amministrazioni,
prima di procedere all’espletamento di procedure
concorsuali, di attivare le procedure di mobilità evidenzia
un obiettivo chiaro del legislatore di accordare
all’istituto della mobilità priorità assoluta rispetto
all’assunzione di nuovo personale pubblico”.
L’obiettivo va perseguito anche se alla nuova assunzione si
procede mediante lo scorrimento di graduatorie ancora
efficaci, “nell’evidente scopo di contenimento della
spesa pubblica inerente al personale di tutte le pubbliche
amministrazioni”. Deve osservarsi che, trascorso più di
un triennio dal febbraio 2011, anche se non può definirsi
del tutto univoco l’orientamento della giurisprudenza
al riguardo, è pur vero che la lettura sistematica della
disciplina in materia evidenzia un favor legislativo per
l’istituto della mobilità.
Accanto alla previsione inequivocabile della preventiva
attivazione delle procedure di mobilità “prima di
procedere all’espletamento di procedure concorsuali”
(art. 30, comma 2-bis, del Dlgs n. 165/2001) l’applicazione
dell’istituto, anche nel caso di scorrimento di graduatorie
di idonei, si rinviene nel comma 2 dello stesso art. 30, che
dispone “In ogni caso sono nulli gli accordi, gli atti o
le clausole dei contratti collettivi volti ad eludere
l’applicazione del principio del previo esperimento di
mobilità rispetto al reclutamento di nuovo personale”,
principio che lascia desumere la priorità, riconosciuta
dalla legge, alle procedure di mobilità rispetto a quelle
del reclutamento, con la conseguenza che una deroga alle
prime, a favore delle seconde, va eventualmente motivata,
fatte salve le normative speciali in materia più vincolanti.
Si ricorda, inoltre, che nell’ambito degli atti di
organizzazione, ispirati ai principi di efficienza,
razionalizzazione del costo del lavoro pubblico,
contenimento della spesa complessiva per il personale,
migliore utilizzazione delle risorse umane, le
amministrazioni pubbliche devono curare “l’ottimale
distribuzione delle risorse umane attraverso la coordinata
attuazione dei processi di mobilità e di reclutamento del
personale” (art. 6, comma 1, ultimo periodo, del Dlgs n.
165/2001).
Pertanto, tenuto conto che le politiche di reclutamento
delle pubbliche amministrazioni si basano sulla
programmazione dei fabbisogni di personale, tale
programmazione deve essere predisposta mediante un piano
previsionale puntuale ed equilibrato, che preveda, nel
rispetto dei vincoli di finanza pubblica e del regime delle
assunzioni, l’esperimento delle procedure di mobilità
volontaria, quale modalità ordinaria di reclutamento, e
l’accesso dall’esterno per pubblico concorso.
In conclusione, l’ambito di estensione del principio del
previo esperimento della mobilità volontaria deve tenere
conto del regime assunzionale valido per la singola
amministrazione nell’anno di riferimento e nel triennio;
della finalità primaria del contenimento della spesa di
personale; delle esigenze organizzative dell’amministrazione
preventivamente definite mediante apposita e dettagliata
motivazione, nel rispetto del principio di trasparenza ed
imparzialità (Guida
al Pubblico Impiego n. 6/2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
I buoni pasto.
In sede di delegazione trattante sono
insorti contrasti interpretativi in ordine all’applicazione
delle disposizioni che regolano i buoni pasto.
Partendo dal presupposto che con un buono di 5,29 euro,
secondo i prezzi correnti della ristorazione veloce tra i
pubblici esercizi della zona di riferimento, non è possibile
consumare un pasto completo di primo e secondo, tralasciando
contorno e bevande, la parte sindacale chiede che ai
dipendenti che hanno diritto al buono pasto non sia
applicata la trattenuta di 1/3 sul valore del buono.
La scrivente amministrazione comunale chiede, quindi, a
codesto servizio di consulenza se la vigente legislazione e
la vigente contrattazione collettiva consentono alle
amministrazioni locali datrici di lavoro di non applicare
discrezionalmente la trattenuta di 1/3 sui buoni pasto
sostitutivi del servizio di mensa.
La richiesta sindacale non è accoglibile. Si conferma che la
vigente normativa legislativa e contrattuale non consente
alle amministrazioni locali datrici di lavoro di rinunciare
discrezionalmente alla trattenuta e quindi al recupero nei
confronti dei dipendenti di 1/3 sul costo dei buoni pasto
sostitutivi del servizio di mensa messi a disposizione dei
dipendenti, tenendo conto delle specificità di orario e di
servizio.
n proposito non sono riscontrabili ipotesi alternative. Una
scelta in tal senso farebbe sorgere responsabilità a carico
di chi la ponesse in essere. Si richiamano in proposito gli
artt. 45 e 46 del Ccnl del 14.09.2000, con particolare
attenzione al comma 4 per il primo (“4. Il dipendente è
tenuto a pagare, per ogni pasto, un corrispettivo pari ad un
terzo del costo unitario risultante dalla convenzione, se la
mensa è gestita da terzi, o un corrispettivo pari ad un
terzo dei costi dei generi alimentari e del personale, se la
mensa è gestita direttamente dall’ente.”) e al comma 1
per il successivo (“1. Il costo del buono pasto
sostitutivo del servizio di mensa è pari alla somma che
l’ente sarebbe tenuto a pagare per ogni pasto, ai sensi del
comma 4 dell’articolo precedente.”). I predetti artt.
sono stati successivamente integrati dall’art. 13 (“Disposizioni
in materia di buoni pasto”) del Ccnl del 09.05.2006, che
conferma ‘in toto’ quanto sancito dai predetti,
introducendo flessibilità nell’orario di possibile
consumazione del pasto da parte di particolari categorie di
dipendenti.
A margine si richiama il parere della sezione regionale di
controllo della Lombardia della Corte dei conti che, con
deliberazione n. 651 del 06.12.2011, a proposito di buoni
pasto, esprime parere contrario all’incremento del valore
del beneficio (tale sarebbe il mancato rimborso del terzo a
carico del dipendente). Infatti per la Corte sussiste per le
amministrazioni pubbliche il divieto di incrementare
l’importo dei buoni pasto in quanto, a suo giudizio, i
predetti buoni sono da considerarsi elementi retributivi
rientranti nel trattamento economico complessivo che non può
e non deve essere incrementato ai sensi dell’art. 9, comma
1, del decreto legge n. 78/2010.
Quanto sopra evidenzia che non si può accogliere quanto
richiesto dalle rappresentanze sindacali
(Guida al Pubblico Impiego n. 4/2013). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Concorsi pubblici, vigenza graduatorie.
Un comune della regione Sardegna chiede
se la proroga dei termini di vigenza delle graduatorie di
concorsi pubblici al 30.06.2013 in virtù di quanto disposto
dalla legge n. 228 del 2012 interessi anche le graduatorie
la cui scadenza naturale è in un periodo successivo al
31.12.2012.
Nel caso specifico l’ente ha graduatorie in scadenza nei
mesi di gennaio e aprile 2013.
La proroga riguarda senz’altro anche le graduatorie in
scadenza nei mesi di gennaio e aprile 2013. Al fine di
motivare la risposta, occorre descrivere il quadro normativo
di riferimento. Il decreto legge 29.12.2011, n. 216,
convertito, con modificazioni, dalla legge 24.02.2012, n.
14, stabiliva, all’articolo 1, comma 4, che “L’efficacia
delle graduatorie dei concorsi pubblici per assunzioni a
tempo indeterminato, relative alle amministrazioni pubbliche
soggette a limitazioni delle assunzioni, approvate
successivamente al 30 settembre 2003, è prorogata fino al
31.12.2012”.
Tale disposizione individua le graduatorie oggetto di
proroga fino al 31.12.2012.
Gli aspetti rilevanti, in modo concorrente, per
l’applicazione della norma sono:
●
graduatorie in scadenza approvate successivamente al
30.09.2003: la formulazione del legislatore esprime un
concetto dinamico.
Preliminarmente si sottolinea che l’istituto della proroga è
applicabile nella misura in cui l’intervento opera su una
fattispecie produttiva ancora di effetti alla data della
proroga.
La dinamicità (rapportata alle parole “in scadenza”)
fa intendere che la volontà della legge è quella di
prorogare non solo le graduatorie che scadono il giorno
della data di entrata in vigore del provvedimento, ma anche
quelle la cui scadenza opererebbe nell’arco temporale di
durata dell’intervento di proroga (in particolare sono
prorogate le graduatorie approvate successivamente al
30.09.2003 tra cui rientrano: quelle vigenti in quanto già
oggetto di precedenti proroghe e quelle ordinariamente
vigenti anche se in scadenza fino a tutto il 31.12.2012);
●
le graduatorie devono riguardare concorsi pubblici relativi
a procedure per assunzioni a tempo indeterminato: il
legislatore non ha inteso prorogare graduatorie relative a
concorsi riservati o a procedure per assunzioni a tempo
determinato;
●
le amministrazioni destinatarie devono avere un regime delle
assunzioni soggetto a limitazioni:
la finalità della proroga è quella di consentire tempi di
utilizzo più ampi delle graduatorie, laddove le esigenze di
finanza pubblica impediscono lo scorrimento nell’ottica di
limitare i livelli occupazionali nella pubblica
amministrazione.
L’articolo 1, comma 388, della legge 24.12.2012, n. 228
sposta al 30.06.2013 il termine di scadenza previsto
dall’articolo 1, comma 4, del decreto legge n. 216/2011.
Quanto detto in merito alle graduatorie in scadenza si
sposta temporalmente fino al 30.06.2013. In ragione di ciò
sono ricomprese nella proroga anche le graduatorie oggetto
del quesito, purché concorrano le altre condizioni sopra
evidenziate.
Si ricorda che l’articolo 1, comma 394, della legge n.
228/2012 prevede che con decreto del presidente del
Consiglio dei ministri, da adottare di concerto con il
ministro dell’Economia e delle finanze, può essere disposta
l’ulteriore proroga fino al 31.12.2013 del termine del
30.06.2013 di cui al comma 388
(Guida al Pubblico Impiego n. 4/2013). |
NEWS |
CONDOMINIO:
Dall'amministratore al bilancio. Riforma del condominio al
via.
In vigore dal 18 giugno la legge n. 220/2012.
Formazione e nuovi adempimenti.
Al via la riforma del condominio. Trascorso il periodo di
sei mesi dalla pubblicazione in G.U. della legge n.
220/2012, questa settimana entrano in vigore le modifiche
apportate agli articoli 1117 e seguenti del codice civile e
delle relative disposizioni di attuazione.
Le novità
principali riguardano le nuove attribuzioni
dell'amministratore, che di fatto deve tornare sui banchi di
scuola. Chi si dedicherà per la prima volta a questa
attività dovrà infatti essere in possesso di un diploma di
scuola secondaria di secondo grado e avere svolto un corso
di formazione in materia di amministrazione condominiale.
Solo chi potrà dimostrare di avere già esercitato detta
attività per almeno un anno a partire dal giugno 2010 potrà
invece fare a meno di detti requisiti, salvo l'obbligo di
frequentare i corsi di formazione periodica. Saranno invece
esentati da qualsiasi obbligo formativo, tanto iniziale
quanto periodico, quei condomini che si assumano l'onere di
amministrare il proprio condominio.
Quanto sopra rischia
però di rimanere sulla carta, almeno fino a che non si
stabilisca come debbano essere organizzati i corsi di
formazione: su quali materie debbano vertere, quale sia il
monte ore minimo da rispettare, chi possa organizzarli. Il
controllo sul possesso dei requisiti di legge da parte
dell'amministratore rimane comunque demandato agli stessi
condomini: dovrà essere infatti l'assemblea a verificare,
prima della nomina e durante lo svolgimento del mandato, se
il candidato possa o meno aspirare a svolgere e/o a
continuare detta attività.
I requisiti che devono essere posseduti dall'amministratore
condominiale. La legge n. 220/2012, oltre a rafforzare
prerogative e obblighi dell'amministratore condominiale, ha
voluto anche restringere le modalità di accesso a detta
attività, pur senza giungere all'istituzione di un vero e
proprio registro.
Oltre ai requisiti di formazione, il nuovo
art. 71-bis disp. att. c.c. ha quindi previsto che possano
svolgere detta attività soltanto quei soggetti che abbiano
il godimento dei diritti civili, non siano stati condannati
per alcuni specifici delitti, non siano stati sottoposti a
misure di prevenzione divenute definitive, salvo che non sia
intervenuta la riabilitazione, non siano interdetti o
inabilitati, non siano stati inseriti nell'elenco dei
protesti cambiari.
La perdita dei predetti requisiti
comporta la cessazione ex lege dall'incarico, con la
conseguenza che i condomini dovranno attivarsi (anche uno
solo di essi) per convocare l'assemblea e provvedere alla
nomina di un nuovo amministratore.
I nuovi compiti dell'amministratore. Vediamo allora di
sintetizzare i nuovi compiti attribuiti all'amministratore
dalla nuova legge di riforma (si veda anche la tabella
relativa alle nuove attribuzioni di cui all'art. 1130 c.c.).
a) Obblighi di comunicazione ai condomini: in caso di nomina
e per ogni successivo mandato, vi è l'obbligo di comunicare
ai condomini i propri dati anagrafici e professionali, il
proprio codice fiscale e, qualora si tratti di società, la
denominazione e la sede legale della stessa, l'indirizzo dei
locali in cui si trovano i registri obbligatori, nonché dei
giorni e delle ore nelle quali ciascun condomino interessato
può accedere a detti locali ed estrarre copia della
documentazione.
b) Obbligo di stipulare apposita polizza assicurativa per la
responsabilità professionale e di comunicarne gli estremi ai
condomini: l'amministratore, al momento dell'accettazione
della nomina, se previsto dall'assemblea, deve presentare ai
condomini una polizza individuale di responsabilità civile
per gli atti compiuti nell'esercizio del mandato.
c) Obbligo di affiggere le generalità dell'amministratore in
un luogo di pubblico accesso: si tratta di una norma di
civiltà, il cui adempimento era rimasto fino a oggi legato
alla correttezza dell'amministratore o alle disposizioni
regolamentari di qualche ente locale più illuminato. È
infatti evidente come sia di pubblico interesse poter
risalire con immediatezza al nominativo e al recapito del
soggetto chiamato per legge a rappresentare il condominio
nei rapporti con i terzi.
d) Obbligo di aprire un conto corrente condominiale e di far
transitare esclusivamente su quest'ultimo le entrate e le
uscite condominiali: anche questa disposizione risponde a
un'esigenza di elementare trasparenza nell'amministrazione
delle somme di denaro di proprietà altrui. Tuttavia, a oggi,
detto fondamentale obbligo di diligenza era rimesso al buon
cuore dell'amministratore condominiale o a specifiche
indicazioni del regolamento o di deliberazioni assembleari.
e) Obbligo di consegna della documentazione condominiale o
di singoli condomini alla cessazione dell'incarico: viene
ulteriormente ribadito, anche in sede normativa, l'obbligo
dell'amministratore di passaggio delle consegne alla
cessazione dell'incarico. Detto obbligo potrà essere assolto
mediante consegna della documentazione condominiale o di
singoli condomini sia a questi ultimi sia al nuovo
amministratore designato dall'assemblea. Viene poi
ulteriormente specificato che l'amministratore dimissionario
resta comunque tenuto ad adottare eventuali interventi
urgenti nell'interesse delle parti comuni anche dopo la
cessazione dell'incarico, qualora non possa utilmente
attivarsi il nuovo amministratore (ad esempio perché non
ancora nominato dall'assemblea), senza diritto a ulteriore
compenso.
f) Obbligo di riscuotere le somme dovute dai condomini:
viene introdotto l'obbligo dell'amministratore di riscuotere
quanto dovuto dai condomini alle casse comuni entro il
termine di sei mesi dalla chiusura dell'esercizio contabile
nel quale è compreso il credito vantato. L'intervento
dell'assemblea, lungi dal costituire una condizione per il
recupero forzoso dei crediti condominiali, può invece
sollevare l'amministratore da detto obbligo normativo. Detto
obbligo va altresì correlato a quanto specificamente
previsto in tema di morosità condominiale dall'art. 63 Disp.
att. c.c.
g) Obbligo di specificare l'ammontare del compenso al
momento della nomina: per evitare possibili contenziosi in
materia, il legislatore ha anche deciso di obbligare
l'amministratore a dichiarare espressamente, a pena di
nullità della nomina stessa, l'ammontare del compenso
richiesto sia in occasione della prima nomina sia per i
successivi rinnovi del mandato biennale.
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La gestione diventa trasparente.
Con la legge n. 220/2012 si è voluta rendere più trasparente
e professionale la gestione del condominio, incidendo
soprattutto sulla figura dell'amministratore. Formazione
iniziale e periodica, esercizio dell'attività in forma
societaria, conto corrente condominiale, polizza
assicurativa, divieto di accettare deleghe per l'assemblea,
obbligo di mettere i condomini in grado di visionare e fare
copia della documentazione, obbligo di provvedere in tempi
certi al recupero della morosità, delineano infatti una
nuova forma di gestione del condominio, più aperta alle
esigenze dei comproprietari.
La legge di riforma ha quindi operato un riordino generale
della disciplina del condominio, uniformandosi alle
soluzioni individuate dalla più recente giurisprudenza di
legittimità, rimettendo mano alle disposizioni che regolano
il funzionamento dell'assemblea (con un generale
abbassamento delle maggioranze necessarie per l'adozione
delle deliberazioni e una serie di utili chiarimenti sulle
modalità di convocazione e partecipazione, diretta e
delegata), la contabilità condominiale (per garantire una
maggiore trasparenza, anche avvalendosi di un revisore dei
conti), l'impugnazione giudiziale delle deliberazioni
assembleari, l'applicazione delle sanzioni previste dal
regolamento per i condomini che non ne rispettino il
contenuto, la revisione e la modifica delle tabelle
millesimali.
L'intervento di riforma non è certo andato esente da
critiche e richieste di chiarimenti (si pensi alla questione
della natura parziaria o solidale delle obbligazioni
condominiali e alla nuova disciplina della modificazione
d'uso delle parti comuni, così come al diritto del singolo
condomino di distaccarsi dall'impianto comune di
riscaldamento e all'approvazione degli interventi di
manutenzione straordinaria e delle innovazioni con
obbligatoria costituzione di un fondo speciale di importo
pari all'ammontare dei lavori). Tuttavia esso ha
rappresentato il frutto di un intenso lavoro di mediazione
tra esigenze diverse e, soprattutto, ha il merito di avere
aggiornato una normativa per molti versi anacronistica (articolo
ItaliaOggi Sette del 17.06.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
P.a. e impresa, etica d'obbligo. Più trasparenza e standard
di qualità nei rapporti. Il nuovo codice deontologico dei
dipendenti pubblici disciplina contratti e appuntamenti.
Il bon ton d'obbligo nei rapporti tra imprese e pubblici
funzionari. La nuova versione del codice deontologico dei
dipendenti pubblici (dpr 16-4-2013 n. 62, regolamento
recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a
norma dell'articolo 54 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
04.06.2013, n. 129) aggrava i rischi giuridici per chi non si
adegua alle norme etiche, che toccano l'attività
contrattuale, la trasparenza e anche le relazioni
interpersonali.
Partiamo da contratti stipulati dagli enti pubblici, per i
quali agiscono i dirigenti.
Contratti. Innanzitutto il dipendente non deve concludere,
per conto dell'amministrazione, contratti di appalto,
fornitura, servizio, finanziamento o assicurazione con
imprese con le quali abbia stipulato contratti a titolo
privato o ricevuto altre utilità nel biennio precedente.
Fanno eccezione i contratti conclusi mediante formulari (ad
esempio utenze domestiche). L'impresa deve fare attenzione a
chi firma il contratto per la pubblica amministrazione
committente e rifiutare la sottoscrizione del contratto
pubblico, quando la p.a. è rappresentata da un dirigente con
cui ha già avuto a che fare nel biennio precedente. Per la
pubblica amministrazione deve intervenire un soggetto terzo.
Poiché la violazione della norma riveste carattere di
particolare illiceità, non possono escludersi effetti sul
contratto, con la conseguenza che è anche interesse
dell'impresa evitare inconvenienti.
Lo stesso dipendente,
già interlocutore contrattuale dell'impresa, non può nemmeno
svolgere compiti partecipare all'adozione delle decisioni ed
alle attività relative all'esecuzione del contratto,
redigendo verbale scritto di tale astensione da conservare
agli atti dell'ufficio. In sostanza non basta astenersi dal
partecipare alla sottoscrizione, ma anche dagli sviluppi
successivi. Riguarda sempre l'attività contrattuale la
regola per cui nella conclusione di accordi e negozi e nella
stipulazione di contratti per conto dell'amministrazione, e
nella fase di esecuzione degli stessi, il dipendente non
ricorre a mediazione di terzi, né corrisponde o promette ad
alcuno utilità a titolo di intermediazione, né per
facilitare o aver facilitato la conclusione o l'esecuzione
del contratto la regola, naturalmente, non si applica ai
casi in cui l'amministrazione abbia deciso di ricorrere
all'attività di intermediazione professionale.
Sempre a
tutela dell'imparzialità soccorre la norma per cui il
dipendente non deve accettare incarichi di collaborazione da
soggetti privati che abbiano, o abbiano avuto nel biennio
precedente, un interesse economico significativo in
decisioni o attività inerenti all'ufficio di appartenenza.
Trasparenza. Un versante opposto è quello dell'impresa per
cui l'ente pubblico è assolutamente sconosciuto. L'impresa
potrebbe avere, quindi, l'esigenza di conoscere il proprio
interlocutore nella p.a. Il codice deontologico rafforza la
regola per cui il dipendente in rapporto con il pubblico si
deve fare riconoscere. Lo strumento da utilizzare è
l'esposizione in modo visibile del badge o di altro supporto
identificativo messo a disposizione dall'amministrazione.
Per derogare alla regola di trasparenza ci vogliono
disposizioni di servizio, anche in considerazione della
sicurezza dei dipendenti. Conseguenza della trasparenza è
l'obbligo in capo al dipendente pubblico di operare con
spirito di servizio, correttezza, cortesia e disponibilità
e, nel rispondere alla corrispondenza, a chiamate
telefoniche e ai messaggi di posta elettronica, opera nella
maniera più completa e accurata possibile. Nel caso in cui
sia competente qualcun altro il dipendente non deve
limitarsi a protestare la propria estraneità, ma deve
indirizzare l'interessato al funzionario o ufficio
competente della medesima amministrazione.
Appuntamenti da rispettare. Il dipendente deve fornire le
spiegazioni in ordine al comportamento proprio e di altri
dipendenti dell'ufficio dei quali ha la responsabilità od il
coordinamento. Inoltre il criterio da rispettare
nell'evasione delle pratiche deve essere oggettivo ed
imparziale. In ogni caso non si devono rifiutare prestazioni
a cui sia tenuto con motivazioni generiche. Bisogna
rispettare gli appuntamenti con i cittadini e rispondere
senza ritardo ai loro reclami.
Standard di qualità. Il codice deontologico ripropone sugli
altari le carte dei servizi. Contengono standard di
efficacia e di efficienza, soprattutto nel settore dei
servizi pubblici locali. Lo standard quali-quantitativo
previsto dalle carte diventa nel codice deontologico un
parametro cui deve ispirarsi il dipendente: deve svolgere la
sua attività lavorativa curando il rispetto degli standard
di qualità e di quantità fissati dall'amministrazione anche
nelle apposite carte dei servizi.
Non solo: il dipendente opera al fine di assicurare la
continuità del servizio, di consentire agli utenti la scelta
tra i diversi erogatori e di fornire loro informazioni sulle
modalità di prestazione del servizio e sui livelli di
qualità. Il problema delle carte dei servizi è che a volte
sono un complesso di clausole generiche ed astratte non
ancorate a specifici indicatori. Nei rapporti con le imprese
vi sarebbe, invece, gran bisogno di costruire unità di
misura della efficienza del settore pubblico (articolo
ItaliaOggi Sette del 17.06.2013). |
TRIBUTI:
La Ctr Lombardia sull'imposta sulla prima casa.
Ici soft per i single. Benefici pure con famiglia divisa.
In materia di Ici, i benefici legati all'abitazione
principale spettano anche se l'immobile è dimora del solo
proprietario, mentre la famiglia risiede altrove. La
qualifica di «abitazione principale» deve essere
riconosciuta anche nel caso in cui vi sia una scissione del
nucleo familiare, tale che il proprietario dell'immobile
risieda nella prima casa e la famiglia dimori invece in una
diversa abitazione.
Sono le conclusioni che si leggono nella
sentenza 05.02.2013 n. 13/63/13 della Ctr Lombardia con le quali il collegio
tributario ha accolto l'appello presentato da un
contribuente, ribaltando la decisione di prime cure
favorevole all'amministrazione.
La rettifica prendeva le mosse da un accertamento Ici emesso
da un comune della Lombardia, il quale contestava l'indebito
godimento dei benefici connessi all'abitazione principale
(prima casa), forte dell'interpretazione fornita dalla
Cassazione. Per ritenersi «abitazione principale», infatti,
l'immobile deve essere adibito a «residenza di famiglia»,
ossia, secondo la Suprema corte, «luogo di abitazione della
casa coniugale».
Nel caso di specie, il proprietario
dell'immobile risiedeva nell'abitazione adibita a prima
casa, mentre la sua famiglia aveva la residenza in un altro
comune. L'amministrazione riteneva, pertanto, che, stante la
disgiunzione della famiglia, non si potesse attribuire
all'immobile la qualifica di abitazione principale; in primo
grado, la commissione provinciale confermava la bontà della
verifica. Di diverso tenore la decisione di secondo grado,
in commento, che ha esteso il beneficio anche in caso di
assenza del nucleo familiare.
«Del resto», si legge nella
sentenza, «diversamente argomentando, si arriverebbe alla
aberrante conclusione che tizio, proprietario di due
immobili, in uno dei quali risiede personalmente ma senza la
famiglia, e nell'altro la sua famiglia, non potrebbe fruire
del beneficio per nessuno dei due immobili, perché il primo
non sarebbe la così detta residenza familiare e nel secondo
non vi sarebbe la sua residenza abituale».
Pertanto,
indipendentemente dalla nozione di abitazione principale
fornita dalla Cassazione, i benefici spettano anche nel caso
in cui l'immobile sia dimora del solo proprietario e non
della sua famiglia.
«La presenza o meno di una famiglia»,
prosegue la Ctr, «lungi dal costituire un motivo di
esclusione del beneficio, ne dovrebbe semmai rappresentare
la condizione per l'estensione». Una diversa interpretazione
della fattispecie, secondo cui il beneficio spetterebbe solo
in presenza di un nucleo familiare, darebbe adito, secondo
il collegio lombardo, a forti dubbi di costituzionalità
delle norme in questione.
Il concetto affermato dalla Ctr, reso nella specie in ambito
di Ici, è parimenti estendibile all'Imu (articolo
ItaliaOggi Sette del 17.06.2013). |
VARI:
Ciclisti maldestri.
Scappa e cade, ma il vigile non ha colpa.
Non ha nessuna responsabilità il poliziotto municipale che
cercando di trattenere un ciclista negligente contribuisce
suo malgrado alla rovinosa caduta del trasgressore. Anche i
vigili infatti possono alzare un po' il tono almeno nei
controlli stradali e se del caso aggrapparsi al portapacchi
della bicicletta per identificare il ciclista
indisciplinato.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. IV penale, con la
sentenza 09.05.2013 n. 20118.
Una
vigilessa altoatesina ha fermato un'anziana ciclista che
invece di fermarsi per conciliare ha tentato di scappare
provocando la reazione dell'agente che ha immediatamente
afferrato il retro del velocipede contribuendo a provocare
la caduta della signora.
Contro la conseguente assoluzione
per il reato di lesioni colpose a danno del vigile gli eredi
dell'energica ciclista hanno proposto ricorso in Cassazione
ma senza successo. L'identificazione anche forzata dei
responsabili delle infrazioni stradali è una competenza
propria della polizia municipale che a parere del collegio
deve ritenersi dotata dei poteri strettamente funzionali a
questo tipo di controlli stradali.
Tale attività può
comportare, se necessario, anche lo stop fisico del
trasgressore. In pratica, prosegue il collegio, la polizia
municipale «deve reputarsi dotata, in ragione dei propri
fini istituzionali, dei poteri strettamente funzionali al
compimento dell'attività di accertamento delle infrazioni.
Tale attività può estrinsecarsi anche, ove necessario,
nell'atto di fermare i trasgressori al fine di procedere
alla contestazione delle violazioni».
In buona sostanza, trattenere un velocipede per impedire al
trasgressore di scappare a parere della Corte risulta
un'attività proporzionata rispetto al fine istituzionale
perseguito (articolo
ItaliaOggi Sette del 17.06.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Pubblica amministrazione. I procedimenti disciplinari nel
2012.
Dipendenti ma con il doppio lavoro.
NASCOSTI AL FISCO/
Ammontano a 5 milioni gli stipendi in nero scoperti dalle
Fiamme Gialle e a 13 milioni gli importi evasi dai
committenti dell'impiego.
Il doppio lavoro dei dipendenti pubblici (che poi è
soprattutto lavoro nero) non conosce sosta. È vero che la
crisi morde e c'è la necessità di arrotondare lo stipendio,
ma quegli 879 casi messi sotto controllo dalla Guardia di
finanza nel 2012, su input dell'Ispettorato per la funzione
pubblica, hanno ben poco di lecito. Più che di arrotondare,
si tratta di un'altra vera e propria entrata non autorizzata
che il dipendente pubblico incamera magari lavorando durante
l'orario d'ufficio.
Basta vedere gli importi per capire l'entità del fenomeno:
le 362 indagini concluse l'anno scorso hanno permesso di
accertare ai dipendenti 5 milioni di euro percepiti
indebitamente perché frutto del doppio lavoro. Il che
significa che, in media, ogni doppiolavorista ha incamerato
di nascosto dal Fisco uno stipendio di oltre 14mila euro.
L'anno prima era quasi il doppio (31mila euro), a parità di
verifiche. Si deve, però, considerare che ci sono ancora più
di 500 indagini riferite al 2012 da concludere.
Le somme contestate ai dipendenti dal doppio lavoro dovranno
essere recuperate dalle amministrazioni di appartenenza, che
dovranno destinarle al fondo di produttività o a fondi
equivalenti riservati al personale. Ben più significative
sono, però, le cifre che le Fiamme gialle hanno contestato
ai committenti del doppio lavoro e che questi ultimi
dovranno versare al Fisco: l'anno scorso si sono
oltrepassati i 13 milioni di euro. Se si sommano gli importi
frutto del doppio lavoro non dichiarati dai dipendenti negli
ultimi tre anni a quelli evasi dai datori di lavoro, si
superano gli 85 milioni di euro. Non proprio briciole.
Uno spaccato del lato oscuro della pubblica amministrazione
che fa il paio con le altre istantanee scattate
dall'Ispettorato della Funzione pubblica nella relazione
sull'attività del 2012 che sta per arrivare in Parlamento. A
cominciare dai procedimenti disciplinari. L'anno scorso ne
sono stati avviati più di 5mila, che hanno coinvolto in
particolare i ministeri e la sanità. La gran parte delle
istruttorie (oltre 4mila) sono state portate a termine in
tempi brevi –la media della durata del procedimento è stata
di quasi 77 giorni– con l'irrogazione di sanzioni nei
confronti del lavoratore indisciplinato: in 167 casi si è
arrivati al licenziamento, in 872 alla sospensione dal
servizio.
Più nel dettaglio, il licenziamento è scattato in 79 casi
perché il lavoratore aveva commesso reati; in 48 casi perché
il dipendente si era assentato dal lavoro senza
giustificazioni o aveva eluso il sistema elettronico delle
presenze; 34 licenziamenti sono stati conseguenza
dell'inosservanza delle disposizioni di servizio o di un
comportamento scorretto nei confronti dei colleghi o degli
utenti; 6 volte la sanzione massima è stata comminata a chi
svolgeva un doppio lavoro non autorizzato. Pressoché
analoghi i motivi che hanno portato alla sospensione dal
lavoro, anche se in questo caso ci sono da aggiungere 43
dipendenti che non si sono fatti trovare a casa quando è
arrivato il medico fiscale.
Il rapporto dell'Ispettorato dedica una parte anche ai costi
occulti della politica, ossia a incarichi e consulenze che
rimangono sottotraccia, nonostante le vecchie e nuove regole
sulla trasparenza impongano alle amministrazioni di darne
notizia sul sito web istituzionale. Il canale è duplice,
perché oltre alla messa in rete degli incarichi e delle
consulenze, con relativi importi e nomi dei beneficiari, le
amministrazioni devono comunicare il dato al Dipartimento
della funzione pubblica, che tiene l'Anagrafe delle
prestazioni. Ebbene, anche nel 2012 –nonostante il gran
parlare di trasparenza– le indagini a campione
dell'Ispettorato, in collaborazione con la Guardia di
finanza, hanno permesso di cogliere in fallo diverse
amministrazioni.
Per esempio, il comune di Rieti ha tenuto nascosto 1.297 tra
incarichi e consulenze, per un valore di quasi 5 milioni di
euro; la Asl di Roma F di Civitavecchia si è ben guardata
dal far sapere che ne aveva assegnato 967, pagandoli
complessivamente 3,2 milioni di euro. In totale, sono stati
oscurati da diverse amministrazioni 4.698 incarichi o
consulenze, per quasi 11,5 milioni di euro. In questi casi,
le carte vengono trasferite ai giudici contabili, che devono
accertare se c'è stato danno erariale, mentre al dirigente
preposto alla trasparenza che non ha pubblicato i dati sul
web viene contestata la retribuzione di risultato che ha
percepito pur essendo inadempiente. Nel 2012 il totale di
tali somme contestate è stato di 676mila euro.
Riuscirà il nuovo codice di comportamento dei dipendenti
pubblici in vigore da mercoledì prossimo –si tratta del Dpr
62/2013– a porre un argine a comportamenti simili? C'è poco
da sperarci, visto che il codice c'era anche prima e ora è
stato solo aggiornato (articolo Il
Sole 24 Ore del 17.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le novità sulla casa. Iter e requisiti sono diversi, ma
spesso la detrazione per il recupero edilizio compete con
quella per il risparmio energetico.
Il bonus del 65% pianifica gli interventi.
All'esame dei professionisti limite di spesa, confronto con
il 50%, capienza e data dei pagamenti.
Limite massimo di spesa, scelta tra i bonus, capienza
fiscale e calendario dei lavori: sono i quattro passaggi con
cui devono misurarsi i contribuenti e i loro consulenti per
"fare i conti" con la detrazione del 50% sulle
ristrutturazioni e il 65% per il risparmio energetico.
- L'importo totale. La prima verifica riguarda l'importo su
cui calcolare il bonus. La detrazione del 50% si applica su
una spesa massima di 96mila euro per unità immobiliare. E il
limite vale in due direzioni:
- quando uno stesso intervento dura per più anni. Ad esempio,
un contribuente che ha pagato 40mila euro il 01.09.2012 e altri 40mila il
01.04.2013, può applicare il
bonus solo su altri 16mila euro;
- quando in uno stesso anno vengono effettuati più
interventi, avviati in base a diversi provvedimenti edilizi.
Ad esempio, un contribuente che ha sistemato il bagno
versando 20mila euro il 01.04.2013 e adesso inizia il
rifacimento del tetto, per questo secondo intervento potrà
calcolare la detrazione su altri 76mila euro nel 2013. Se
però quest'anno spendesse solo 20mila euro e i lavori
proseguissero l'anno prossimo, nel 2014 potrebbe spendere
altri 28mila euro (dopo questa data, infatti, si torna alla
detrazione del 36% su una spesa massima di 48mila euro). Se,
invece, nel 2014 inizia un nuovo intervento, il limite dei
48mila euro opera autonomamente.
- La scelta tra i bonus. Il secondo passaggio chiave è
"quale" agevolazione scegliere. Di fatto, tutti gli
interventi con il 65% possono avere anche il 50 per cento.
L'esempio classico sono le finestre. Posto che le
performance migliori si pagano a un prezzo maggiore –e che
va fatta la pratica online con l'Enea– i vantaggi sono il
risparmio sulla bolletta energetica e il comfort di vivere
in una casa meno rumorosa. Ma ci sono anche ragioni
"fiscali" da valutare: il 65% ha un proprio tetto di spesa –variabile a seconda dei lavori– e consente di non intaccare
quello del 50 per cento.
Inoltre, le due detrazioni, che non si possono cumulare
sulla stessa spesa, possono coesistere nello stesso
intervento. Ad esempio, si può fare il 65% per il cambio del
generatore termico con caldaia a condensazione e il 50% per
le opere murarie di sistemazione del locale caldaia.
- La capienza. Il terzo passaggio chiave è quello sulla
capienza fiscale. Entrambe le detrazioni si recuperano in
dieci anni, ed è su questo periodo che il contribuente deve
avere la ragionevole aspettativa di mantenere un'imposta
lorda superiore al bonus.
Quando le detrazioni superano l'imposta, la parte di bonus
non usata non può essere né chiesta a rimborso, né riportata
negli anni a venire, neppure dalle imprese che beneficiano
del 65 per cento. In alcuni casi, potrebbe essere
interessante il conto termico (si veda l'altro articolo).
- Il calendario. Pianificando gli interventi, infine,
bisogna tener conto dell'evento che condiziona l'accesso al
bonus:
- per i lavori su singole unità immobiliari, vale la data di
effettuazione del bonifico;
- per i lavori su parti comuni condominiali, vale la data del
bonifico effettuato dall'amministratore (non rilevano i
pagamenti delle quote dei condòmini);
- per i lavori agevolati al 65% effettuati dai titolari di
reddito di impresa su immobili strumentali non serve il
bonifico, in quanto vale il criterio di competenza e il
momento di imputazione dei costi si verifica alla data in
cui sono ultimate le prestazioni. La detrazione quindi si
applica per le spese sostenute fino al periodo d'imposta in
corso al 31.12.2013, a condizione che i lavori siano
ultimati a tale data (se l'esercizio coincide con l'anno
solare).
Infatti, il bonus Irpef/Ires del 65%, così come il 55%,
spetta anche ai titolari di reddito d'impresa –comprese le
società di capitali– se gli interventi sono eseguiti su
fabbricati strumentali utilizzati nell'esercizio
dell'attività imprenditoriale. Sono esclusi i beni merce e
gli immobili locati a terzi. In quest'ultimo caso, però, i
lavori possono essere eseguiti direttamente dall'affittuario
che quindi può ottenere il bonus (articolo
Il Sole 24 Ore del 17.06.2013). |
CONDOMINIO:
Le novità sulla casa. Adempimenti subito operativi
Registri, deleghe e polizze: il «nuovo» amministratore.
Da domani la riforma del condominio impone ai professionisti
di adeguarsi.
Pronti, via. Parte domani la rivoluzione in condominio,
veicolata dalla riforma approvata alla fine dell'anno
scorso, con la legge 220/2012, che entra in vigore il 18
giugno, dopo una vacatio di sei mesi. Debuttano così le
regole "corrette" per le assemblee, le maggioranze e i
lavori. E arrivano una serie di nuovi vincoli per gli
amministratori, che devono rivedere da subito le loro prassi
operative per far fronte alle richieste fatte dalla riforma,
spesso in nome della trasparenza e di una maggiore tutela
dei condòmini.
I requisiti
A cambiare, innanzitutto, sono le condizioni per ricoprire
l'incarico di amministratore: tra l'altro, occorre
rispettare i requisiti di onorabilità, godere dei diritti
civili, avere il diploma di scuola secondaria di secondo
grado, frequentare un corso di formazione e seguire
l'aggiornamento periodico. E se i nuovi obblighi del titolo
di studio e della formazione iniziale risparmiano chi ha
fatto l'amministratore per almeno un anno negli ultimi tre,
agli altri devono adeguarsi anche i professionisti già in
carica: chi perde (o ha perso) i requisiti di onorabilità e
i diritti civili decade immediatamente dall'incarico.
I nuovi obblighi
Da domani, poi, diventa un obbligo generalizzato in tutta
Italia quella che, finora, è stata una misura operativa solo
in alcuni Comuni: nell'androne del condominio (o comunque
nel luogo di accesso o di maggiore uso comune) deve essere
affissa una targa con le generalità, il domicilio e i
recapiti dell'amministratore.
Ma apporre una targa nei condomini amministrati non è certo
l'adempimento più oneroso imposto dalla riforma. Recependo
un orientamento consolidato della Cassazione –e una buona
norma di prassi già diffusa tra i professionisti– la legge
impone di avere un conto corrente condominiale (bancario o
postale) dedicato per ogni edificio, su cui devono
transitare i contributi dei condòmini e le somme ricevute da
terzi, oltre ai pagamenti fatti per conto del condominio. Da
domani, per chi non rispetta il nuovo obbligo, la sanzione è
pesante: la mancata apertura e il mancato uso del conto
costituiscono «grave irregolarità», che giustifica la revoca
dell'incarico, anche da parte del giudice su ricorso di un condòmino.
Non solo. Con l'entrata in vigore della riforma,
l'amministratore deve iniziare a curare una serie di
registri: in molti casi sono già utilizzati, ma, da domani,
chi non li istituisce e aggiorna può incappare anche in una
revoca giudiziale per «grave irregolarità». Si tratta del
registro dei verbali, dove annotare le mancate costituzioni
dell'assemblea, le deliberazioni e le dichiarazioni dei condòmini, con, in allegato, il regolamento di condominio.
Poi, il registro di nomina e revoca degli amministratori,
dove devono essere indicate, in ordine cronologico, le date
di nomina e di revoca di ciascun amministratore e gli
estremi del decreto di revoca giudiziaria se è intervenuto
il giudice. Infine, l'amministrazione deve istituire (anche
in modalità informatica) il registro di contabilità, dove
annotare tutte le operazioni in ordine cronologico ed entro
30 giorni da quando vengono effettuate.
I rapporti con i condòmini
La riforma interviene anche sulle relazioni tra
l'amministratore e i condòmini. Intanto, per le assemblee
che si terranno da domani in poi, qualsiasi sia l'ordine del
giorno, i condòmini che non parteciperanno non potranno più
delegare l'amministratore, ma dovranno incaricare un altro
condòmino o un terzo. Inoltre, l'amministratore deve
diventare il "controllore" delle posizioni dei condòmini.
La riforma tiene infatti a battesimo il registro di anagrafe
condominiale, in cui l'amministratore deve raccogliere le
generalità dei proprietari –con codice fiscale, residenza e
domicilio– e i dati catastali di ogni unità immobiliare.
Molti professionisti si sono già attivati nelle scorse
settimane, ma è solo da domani che, in caso di mancata
risposta per più di 30 giorni, si possono reperire le
informazioni addebitando i costi ai proprietari (articolo
Il Sole 24 Ore del 17.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Contenzioso. Con la crisi si punta a costruire in base alle
richieste dell'acquirente.
Sugli edifici «su misura» pesa il rischio di ricorsi.
Il termine per impugnare decorre dalla fine dei lavori.
Quanto incide l'incertezza generata dai ricorsi
giurisdizionali in materia edilizia sull'attuale crisi del
mercato immobiliare? Probabilmente poco, la crisi è generata
da fattori diversi. Ma forse quel poco è comunque troppo.
Quando l'economia era favorevole, il mercato immobiliare era
pronto ad accogliere pressoché tutte le tipologie edilizie e
le diverse destinazioni funzionali realizzabili. Il mercato
era push, la domanda era pronta a sostenere la spinta
dell'offerta. La crisi ci ha ora condotto in un mercato
pull, nel quale l'offerta è tirata dalla domanda: si vende
solo quello che è stato costruito "su misura" (il cosiddetto
"chiavi in mano"), assecondando le esigenze specifiche
dell'acquirente.
In questo quadro, chi compra non è assolutamente disposto a
correre il rischio del contenzioso amministrativo, che
potrebbe portare alla demolizione dell'edificio taylor made.
Peccato però che quando si negozia la vendita di un bene che
ancora non c'è (e che normalmente viene pagato "a Sal", in
base allo stato di avanzamento lavori, vale a dire in corso
d'opera), il pericolo del contenzioso sia un'eventualità
lontana nel tempo. Il ricorso al Tar può infatti giungere
anche a cantiere aperto da tempo e fino al momento
dell'ultimazione dei lavori (si veda l'articolo a fianco),
vale a dire anche a distanza di tre o quattro anni dalla
stipula del contratto. Infatti, la giurisprudenza
amministrativa è stabile nel ritenere che la «piena
conoscenza» del titolo edilizio non si forma al momento
dell'apposizione del cartello di cantiere e neppure con
l'inizio dei lavori. Per contro, è necessario che le
lavorazioni abbiano raggiunto un avanzamento tale da svelare
gli eventuali profili di contrasto con la disciplina
urbanistica dell'area.
Di regola, dunque, il termine per impugnare il permesso di
costruire da parte del proprietario confinante o
dell'interessato decorre dalla data di ultimazione dei
lavori, o comunque dal momento in cui i lavori manifestino
le caratteristiche essenziali dell'opera (si veda la
pronuncia 1904 del 05.04.2013 del Consiglio di Stato). Il
principio subisce un'eccezione nei casi in cui il ricorrente
non contesti il profilo quantitativo o qualitativo
dell'opera, ma la sua stessa fattibilità in relazione alla
supposta inedificabilità dell'area interessata. In questi
casi, gli elementi cognitivi necessari all'impugnazione sono
già contenuti nel cartello di cantiere, con l'effetto che il
termine per impugnare il titolo decorre dalla data di
apposizione dello stesso (Consiglio di Stato, pronuncia 365
del 22.01.2013).
In relazione alle modalità per l'impugnativa dei titoli,
occorre invece distinguere tra l'azione esperibile contro i
permessi di costruire e quella prevista per contestare le
lavorazioni oggetto di Dia o Scia.
Nei confronti del permesso di costruire, si può esperire
l'ordinaria azione di annullamento davanti al Tar
competente.
Per le lavorazioni oggetto di Dia e Scia, il rimedio è
invece meno diretto. L'articolo 19, comma 6-ter, della legge
241/1990, introdotto dal decreto legge 138/2011, prevede
infatti che gli interessati abbiano l'onere di sollecitare
l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e
che, in caso di inerzia, possano solo esperire l'azione
contro il silenzio. La norma è stata introdotta con buona
pace dell'adunanza plenaria del Consiglio di Stato che,
qualche giorno prima dell'entrata in vigore del decreto,
aveva stabilito che l'interessato, anche in caso di Dia e
Scia, avrebbe direttamente potuto esperire l'azione di
annullamento, agendo contro il provvedimento tacito
formatosi con l'inerzia protratta dell'amministrazione oltre
al termine previsto dalla legge per inibire le lavorazioni
(Consiglio di Stato, adunanza plenaria 15 del 29.07.2011).
Non solo. L'adunanza plenaria aveva anche apertamente
contestato il sistema di tutela che, dopo qualche giorno, è
stato introdotto nell'ordinamento, affermando, in
particolare, che «la ricostruzione che (...) reputa
praticabile il rimedio avverso il silenzio non significativo
mantenuto dall'amministrazione a fronte dell'istanza
proposta dal terzo al fine di eccitare l'esercizio del
potere di autotutela (...) non è idonea a tutelare in modo
efficace la sfera giuridica del terzo».
Secondo i giudici,
il terzo «avrebbe l'onere, prima di agire in giudizio, di
presentare apposita istanza sollecitatoria alla Pa, così
subendo una procrastinazione del momento dell'accesso alla
tutela giurisdizionale, e, quindi, specie con riguardo alla
Dia a efficacia immediata, un'incisiva limitazione
dell'effettività della tutela giurisdizionale in spregio ai
principi di cui agli articoli 24, 103 e 113 della
Costituzione».
---------------
I rimedi. La conoscenza legale.
Regole da rivedere con i progetti nell'albo pretorio.
È difficile distribuire tra le parti il "rischio ricorso".
Chi compra, infatti, non intende certo correrlo, tanto che
potrebbe voler inserire nel contratto una clausola che
prevede che in caso di notifica del ricorso i lavori e i
pagamenti si fermino e che, decorso qualche mese, se il
contenzioso non si chiude, il rapporto si risolva con
l'obbligo per il costruttore-venditore di restituire gli
acconti ricevuti. Ma anche chi vende non accetta facilmente
di mettere a rischio il proprio investimento, perdendo il
cliente a cui si era legato quasi indissolubilmente
costruendo un bene su misura, a causa di un ricorso che
potrebbe poi essere rigettato fuori tempo massimo. Perché,
in aggiunta al fatto che i ricorsi possono giungere a
distanza di anni, i giudizi al Tar e al Consiglio di Stato
difficilmente durano meno di 18 mesi.
Per garantire la certezza dei diritti connessi alle
edificazione, è necessario rivedere le regole sulle
impugnazioni in materia edilizia, che permettono ai terzi di
contestare il manufatto in via di edificazione sul terreno
confinante sino al momento in cui l'edificio raggiunge la
sua conformazione pressoché definitiva, perché solo in quel
momento l'interessato è in grado di apprezzarne
compiutamente la lesività. Si tratta però di un impianto
oggi superato: l'obiettivo potrebbe essere conseguito in
modo semplice e conforme allo sviluppo tecnologico, dando
valore di conoscenza legale alla pubblicazione sull'albo
pretorio informatizzato comunale del titolo edilizio e degli
elaborati progettuali.
Gli estremi della pubblicazione online potrebbero essere
richiamati sul cartello con gli estremi del titolo edilizio
che già oggi deve essere esposto in cantiere. E le parti
potrebbero introdurre nei loro contratti una clausola di
"stand still" che prevede che il contratto venga ridiscusso
oppure che abbia piena efficacia (e che quindi i lavori
possano partire) solo dopo aver verificato se il rischio
ricorso si avvera o no.
Un intervento normativo sarebbe auspicabile non solo per le
operazioni immobiliari più rilevanti, ma anche per gli
interventi di riqualificazione del patrimonio edilizio
esistente. È anzi con riferimento alle opere minori che
l'esperienza evidenzia come il ricorso al Tar sia sovente
promosso a ridosso della fine dei lavori di ristrutturazione
o di ampliamento non tanto per inibirli, quanto per
negoziare il ritiro dell'azione sfruttando la debolezza del
vicino, dato che non può più esercitare l'opzione di non dar
corso ai lavori ormai finiti e pagati (articolo
Il Sole 24 Ore del 17.06.2013). |
APPALTI: I pagamenti della Pa. A ogni creditore va indicata la somma
da pagare e i tempi del versamento – Verifica retrodatata
sul Durc
Debiti da comunicare al 30 giugno.
Sanzione di 100 euro al giorno e taglio degli «incentivi»
per chi non adempie.
IL «FILTRO»/
La norma non disciplina i controlli sulla fedeltà fiscale
previsti dal Dpr 602/1973 che possono bloccare il pagamento
all'impresa.
L'accertamento della regolarità contributiva in caso di
pagamento dei debiti pregressi della Pubblica
Amministrazione deve essere effettuato con riferimento alla
data di emissione della fattura o del documento equivalente.
La disposizione in questione, contenuta nella legge di
conversione del decreto «sblocca-debiti» (Dl 35/2013
convertito con modificazioni nella legge 64/2013) integra le
misure volte a favorire l'assolvimento delle obbligazioni
pregresse da parte di Comuni e Province, ai quali vengono
accordati importanti spazi finanziari per il calcolo dei
saldi del Patto di stabilità interno e rilevanti
anticipazioni di cassa al fine di allentare le tensioni di
liquidità.
Numerosi sono però gli oneri imposti agli enti locali e le
sanzioni che vengono disposte in caso di inadempimento o
ritardo.
Tra le scadenze fissate dalla legge, occorre ricordare
quella del 30 giugno, data entro la quale scatta l'obbligo
di comunicare ai creditori, tramite Pec, l'importo e la data
di pagamento delle somme maturate al 31.12.2012;
l'omessa comunicazione rileva ai fini della responsabilità
per danno erariale a carico del responsabile dell'ufficio
competente.
La comunicazione deve essere sottoscritta dal dirigente
incaricato con firma elettronica o digitale idonea a
garantirne l'integrità e immodificabilità e deve essere
pubblicata, entro il 5 luglio, nel sito internet dell'ente,
per ordine cronologico di emissione della fattura o della
richiesta equivalente di pagamento.
La mancata pubblicazione è rilevante ai fini della
misurazione e della valutazione della performance
individuale dei dirigenti, che sono inoltre assoggettati ad
una sanzione pecuniaria pari a 100 euro per ogni giorno di
ritardo nella certificazione del credito.
L'indicazione dell'importo e scadenza del credito non sempre
però è possibile; la comunicazione deve infatti essere
riferita a tutti i debiti previsti dal primo comma
dell'articolo 1 del decreto, cioè anche ai debiti in conto
capitale per i quali sia stata emessa fattura o richiesta
equivalente di pagamento, ma che non risultano ancora
liquidati al 30.06.2013.
Oltre alla verifica contributiva (Durc) è infatti
indispensabile, in sede di liquidazione del credito,
effettuare una serie di altre verifiche, quali, ad esempio,
il corretto assolvimento da parte dei fornitori delle
obbligazioni contrattuali o del pagamento di eventuali
subappaltatori, l'assenza di morosità fiscali, di sequestri
conservativi o pignoramenti presso terzi.
Se, da un lato, il Legislatore ha provveduto a far
retroagire l' obbligo di accertamento contributivo alla data
di emissione del documento fiscale, dall'altro nulla dice in
merito agli adempimenti di cui all'articolo 48-bis del Dpr
602/1973, in base al quale le amministrazioni pubbliche sono
tenute a verificare, per tutti i i pagamenti di importo
superiore a diecimila euro, l'assenza in capo al creditore
di inadempienze derivanti dalla notifica di cartelle di
pagamento scadute.
Al fine di poter ottemperare agli obblighi di legge, si
ritiene indispensabile effettuare la comunicazione al
creditore anche in assenza di elementi certi, provvedendo
tuttavia a descrivere eventualmente le cause per le quali
non si può procedere al pagamento.
---------------
Doppia verifica
01 | DURC
Il controllo della regolarità contributiva va effettuato in
relazione alla data della fattura, e non a quella del
pagamento
02 | FILTRO FISCALE
Per pagamenti sopra i 10mila euro, è obbligatoria la
verifica della fedeltà fiscale del creditore, perché se
esistono cartelle almeno di pari importo il pagamento va
bloccato. La norma è in vigore, e lo «sblocca-debiti» non
dispone nulla al riguardo, per cui nella comunicazione vanno
indicati gli eventuali ostacoli al pagamento (articolo Il
Sole 24 Ore del 17.06.2013). |
ENTI
LOCALI:
Corte dei conti. La stretta.
Aziende speciali, stipendi bloccati.
Anche per il personale delle aziende speciali vale il blocco
degli aumenti disposti dai contratti collettivi. La
posizione, espressa dalla Corte dei Conti del Piemonte con
la delibera n. 181/2013, si colloca in un orientamento ormai
consolidato che opta per un'interpretazione restrittiva.
L'approccio non è formale, perché l'esperienza degli enti
locali insegna che la riduzione della spesa di personale si
concretizza in una serie di specifici interventi e vincoli.
I magistrati contabili hanno ribadito a più riprese che la
Pa deve vigilare su tutte le proprie articolazioni
organizzative, società o altro. Prima l'articolo 3-bis,
comma 6, del Dl 138/2011 e poi l'articolo 4, comma 11, del
Dl 95/2012 hanno imposto l'estensione alle partecipate dei
vincoli esistenti per la Pa di riferimento in materia di
personale e trattamenti economici. Ne consegue che anche gli
aumenti previsti dai contratti collettivi applicabili alle
società restano al palo.
In tal senso si era già espressa la
Corte dei Conti Toscana (delibera n. 140/2013), che si era
concentrata sulle strumentali.
Al contrario, Federutility ha fatto quadrato in tema di
spesa di personale delle aziende partecipate pubbliche, in
particolare per le società in house. La federazione delle
società pubbliche, nella circolare dello scorso 29 maggio
(si veda Il Sole 24 Ore del 30 maggio), fa il punto sulla
«congerie di norme» che hanno tentato di bloccare il costo
dei dipendenti, in continuo aumento, spinto anche dai
vincoli gravanti sugli enti proprietari.
Il fulcro è
individuato nell'articolo 76, comma 7, del Dl 112/2008,
considerato quale unica norma che esplicita direttamente un
vincolo finanziario a livello di gruppo locale. Tutte le
altre disposizioni di dettaglio, che vanno dal contenimento
delle assunzioni ai tetti in materia di trattamenti
economici dei dipendenti mal si conciliano con la natura
industriale dell'attività esercitata e il carattere
privatistico del rapporto di lavoro. Le politiche di
gestione delle risorse umane sono determinate, in via
prevalente, dalle norme di settore, dalle convenzioni e dai
contratti di servizio nonché dai Ccnl e dagli accordi
aziendali, che, pertanto, non possono essere soggetti a
restrizioni.
Quindi, anche in caso di mancato rispetto del tetto di
spesa, sarà il gruppo ente locale che dovrà decidere dove e
con quali strumenti intervenire, escludendo l'applicazione
diretta ed immediata delle norme previste per l'ente
controllante, che limitano le assunzioni e le retribuzioni
dei dipendenti. Chissà come si esprimeranno i giudici del
lavoro (articolo
Il Sole 24 Ore del 17.06.2013). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 32 legge n. 47 del 1985, nell’introdurre
la possibilità di condonare opere abusive realizzate prima
del 01.10.1983 su aree sottoposte al vincolo, subordina il
rilascio della concessione edilizia al parere
dell’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo
stesso.
Tale parere ha natura giuridica di condizione ostativa e di
presupposto indefettibile per la concessione edilizia in
sanatoria e comporta la verifica della compatibilità
dell’intervento con gli interessi paesaggistici e ambientali
dell’area sottoposta a tutela.
---------------
In materia di tutela delle bellezze panoramiche, l’esistenza
di una anteriore lesione arrecata alla zona non rappresenta,
da sola, un motivo sufficiente a dispensare dalla verifica
riguardante la realizzabilità o la sanabilità di un’opera;
anzi, l’eventuale danno progressivo produce la necessità di
una indagine ancora più accurata, per scongiurare un
maggiore, più grave e definitivo turbamento dei valori
tipici dei luoghi: la situazione di compromissione della
bellezza naturale da parte di preesistenti realizzazioni,
anziché impedire, maggiormente richiede, quindi, che
ulteriori costruzioni non deturpino irreversibilmente
l’ambiente protetto.
---------------
A prescindere dal momento di introduzione del vincolo
stesso, ai fini del parere di cui all’art. 32 della legge 47
del 1985 rileva la data di valutazione della domanda di
sanatoria, e non quella di costruzione dell’immobile.
Deve escludersi una disparità di trattamento sotto il
profilo che per edifici insistenti nella medesima zona la
Soprintendenza avrebbe autorizzato la sanatoria e altri
sarebbero stati condonati. Infatti, per giurisprudenza
costante, il vizio considerato non viene in evidenza in
tutti i casi in cui non risulti dimostrata l’assoluta
identità di situazioni, e comunque la legittimità
dell’operato della pubblica Amministrazione non può essere
inficiata dall’eventuale illegittimità compiuta in altra
situazione.
---------------
I provvedimenti sanzionatori in materia edilizia sono atti
vincolati che non richiedono una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico che si intendono tutelare, né
una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, non potendo ammettersi l’esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può
legittimare.
La legislazione di settore esclude che si formi un legittimo
affidamento, quando è realizzato un immobile abusivo e
l’Amministrazione non esercita il suo potere-dovere di
emanare l’ordine di demolizione, in quanto il decorso del
tempo dalla data dell’abuso –per il principio di legalità–
può avere rilievo giuridico solo quando la normativa ammetta
in via eccezionale il condono di quanto illecitamente
realizzato.
L’art. 32 legge n. 47 del 1985, nell’introdurre la
possibilità di condonare opere abusive realizzate prima del
01.10.1983 su aree sottoposte al vincolo, subordina il
rilascio della concessione edilizia al parere
dell’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo
stesso.
Come ha osservato il Consiglio di Stato nel parere reso
dalla seconda sezione nell’adunanza del 09.03.2011, n.
2404/2011, sul ricorso straordinario proposto da alcuni
proprietari di immobili siti nella stessa zona del Comune di
Ardea interessata dalla vicenda in esame, tale parere ha
natura giuridica di condizione ostativa e di presupposto
indefettibile per la concessione edilizia in sanatoria e
comporta la verifica della compatibilità dell’intervento con
gli interessi paesaggistici e ambientali dell’area
sottoposta a tutela.
Nel caso di specie, il Comune di Ardea ha valutato che
l’edificio in esame “fa parte di una serie dì
costruzioni, realizzate tra la spiaggia e il lungomare, le
quali compromettono sia l’accessibilità che la fruizione del
panorama marino”. Esso ha inoltre rilevato che tali
edifici costituiscono un “grave danno paesaggistico in
quanto alterano le caratteristiche morfologiche e naturali
del luogo, facendogli perdere la propria identità fisica.
L’impatto della realizzazione edilizia, nel contesto
disturbante di diffusa fabbricazione, ha carattere invasivo
tanto da determinare la compromissione non solo della
percezione paesaggistica da parte della collettività, ma
anche lo stravolgimento dell’armonia e naturale bellezza del
paesaggio e dell’ambiente circostante”.
L’ente locale ha quindi valutato le caratteristiche
morfologiche e paesaggistiche dell’area tutelata ed ha
considerato che l’edificio in questione contribuisce ad
alterare proprio quelle caratteristiche meritevoli di
salvaguardia.
Tale modo di agire dell’amministrazione è conforme ai
principi più volte affermati dalla giurisprudenza, secondo
la quale, in materia di tutela delle bellezze panoramiche,
l’esistenza di una anteriore lesione arrecata alla zona non
rappresenta, da sola, un motivo sufficiente a dispensare
dalla verifica riguardante la realizzabilità o la sanabilità
di un’opera; anzi, l’eventuale danno progressivo produce la
necessità di una indagine ancora più accurata, per
scongiurare un maggiore, più grave e definitivo turbamento
dei valori tipici dei luoghi (cfr. per tutte, Cons. Stato,
sez. VI, 27.09.2002, n. 4971): la situazione di
compromissione della bellezza naturale da parte di
preesistenti realizzazioni, anziché impedire, maggiormente
richiede, quindi, che ulteriori costruzioni non deturpino
irreversibilmente l’ambiente protetto.
Nella fattispecie in esame il Comune, in particolare, ha
provveduto a sanzionare la maggior parte degli edifici che
versano nelle medesime condizioni giuridiche di quello di
proprietà dei ricorrenti e si propone dichiaratamente di
ripristinare in maniera generale ed organica il naturale
contesto ambientale e paesaggistico, ripristino che appare,
dalla documentazione versata in atti, concretamente
attuabile.
Il motivo di ricorso, riproposto in appello, che fa perno
sulla diffusa edificazione che ha interessato l’area, con
gli effetti invasivi e deturpanti evidenziati dal Comune,
non ha quindi pregio.
---------------
L’art. 7 della legge
n. 1497 del 1939 imponeva già la necessità, per gli
interventi da effettuarsi in zone paesaggisticamente
vincolate, del previo assenso, che nella specie non solo non
è stato emanato, ma non è stato neppure chiesto. Non è,
quindi, la generale legge sull’edificazione che doveva
costituire il parametro per l’azione dell’Amministrazione
nel rispondere all’istanza dell’interessata, ma la
particolare disciplina relativa alla tutela delle aree
riconosciute di pregio paesaggistico, vale a dire,
trattandosi di condono, l’art. 32 della legge n. 47 del
1985, che postula lo specifico assenso da parte
dell’autorità competente, preposta alla difesa del vincolo.
In primo luogo l’intervento edilizio è stato realizzato, per
esplicita ammissione contenuta nella istanza di condono, nel
1976 e quindi dopo l’apposizione, con decreto ministeriale
22.10.1954, del vincolo ai sensi dell’allora vigente legge
29.06.1939 n. 1497; in ogni caso, è pacifico l’orientamento
di questo Consiglio, secondo cui, a prescindere dal momento
di introduzione del vincolo stesso, ai fini del parere di
cui all’art. 32 della legge 47 del 1985 rileva la data di
valutazione della domanda di sanatoria, e non quella di
costruzione dell’immobile (per tutte, Cons. St., Ad. plen.,
07.06.1999, n. 20 e Sez. VI, 11.12.2001, n. 6210).
Deve, poi, escludersi, una disparità di trattamento sotto il
profilo che per edifici insistenti nella medesima zona la
Soprintendenza avrebbe autorizzato la sanatoria e altri
sarebbero stati condonati. Infatti, per giurisprudenza
costante, il vizio considerato non viene in evidenza in
tutti i casi in cui non risulti dimostrata l’assoluta
identità di situazioni, e comunque la legittimità
dell’operato della pubblica Amministrazione non può essere
inficiata dall’eventuale illegittimità compiuta in altra
situazione (per tutte Consiglio Stato, Sez. VI, 22.11.2010,
n. 8117).
Quanto alla censura relativa all’omessa considerazione del
lungo tempo intercorso dalla realizzazione dell’immobile, e
del conseguente consolidamento dell’interesse dei privati
proprietari, va considerato che:
- i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia sono atti
vincolati che non richiedono una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico che si intendono tutelare, né
una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, non potendo ammettersi l’esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può
legittimare (v., per tutte, Cons. Stato, Sez. V, 11.01.2011,
n. 79);
- la legislazione di settore esclude che si formi un
legittimo affidamento, quando è realizzato un immobile
abusivo e l’Amministrazione non esercita il suo
potere-dovere di emanare l’ordine di demolizione, in quanto
il decorso del tempo dalla data dell’abuso –per il principio
di legalità– può avere rilievo giuridico solo quando la
normativa ammetta in via eccezionale il condono di quanto
illecitamente realizzato;
- nella specie, poiché le ragioni del diniego e della
conseguente ingiunzione di demolizione sono state ampiamente
e sufficientemente esplicitate nella necessità di provvedere
al recupero ambientale del territorio compromesso, e dei
valori ambientali che vi si devono esprimere, non rileva
esaminare la correttezza dell’ulteriore ed autonoma ragione
posta a base del diniego, relativa al mancato rilascio del
nulla osta previsto dall’art. 55 del codice della
navigazione, che gli appellanti, con ulteriore mezzo del
gravame, affermano sia stata rilasciata: trattasi, infatti,
di motivazione ultronea per provvedimenti che, come si è
rilevato, si sorreggono su diverse e legittime motivazioni
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.06.2013 n. 3367 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il voto numerico attribuito dalla commissione di
un concorso pubblico esprime e sintetizza in modo adeguato
il giudizio tecnico-discrezionale della commissione.
---------------
a) la valutazione delle prove dei candidati rientra nella
discrezionalità della commissione, non censurabile in
giudizio se non per illogicità o altri vizi estrinseci, che
nella fattispecie non è dato riscontare;
b) è legittima la determinazione dei criteri di valutazione
delle prove concorsuali anche dopo la loro effettuazione,
purché prima della loro concreta valutazione, essendo il
precetto stabilito dall’art. 12, comma 1, d.P.R. 09.05.1994,
n. 487 (Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi
nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento
dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di
assunzione nei pubblici impieghi) volto a eliminare il
sospetto che i criteri stessi siano preordinati a favorire o
sfavorire alcuni concorrenti.
Come più volte
ha osservato questo Consiglio di Stato (per tutte, Cons.
Stato, V, 13.02.2013, n. 866), alla stregua della propria e
prevalente e condivisibile giurisprudenza, il voto numerico
attribuito dalla commissione di un concorso pubblico esprime
e sintetizza in modo adeguato il giudizio
tecnico-discrezionale della commissione (cfr. anche, ex
plurimis, Cons. Stato, IV, 02.11.2012, n. 5581).
Dall’esame dei documenti di causa si ricava che i criteri di
valutazione si appalesano ampiamente e dettagliatamente
sufficienti a orientare l'operato della commissione, il cui
giudizio, espresso nel codice numerico, rappresenta appunto
l’applicazione coerente di tali criteri alla valutazione
delle prove dei candidati.
---------------
Devono essere
esaminati gli appelli incidentali proposti dai vincitori in
primo grado.
Essi sono infondati, alla luce delle seguenti
considerazioni:
a) la valutazione delle prove dei candidati rientra nella
discrezionalità della commissione, non censurabile in
giudizio se non per illogicità o altri vizi estrinseci, che
nella fattispecie non è dato riscontare;
b) è legittima la determinazione dei criteri di valutazione
delle prove concorsuali anche dopo la loro effettuazione,
purché prima della loro concreta valutazione, essendo il
precetto stabilito dall’art. 12, comma 1, d.P.R. 09.05.1994,
n. 487 (Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi
nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento
dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di
assunzione nei pubblici impieghi) volto a eliminare il
sospetto che i criteri stessi siano preordinati a favorire o
sfavorire alcuni concorrenti (per tutte, Cons. Stato, V,
25.05.2012, n. 3062): nella fattispecie in esame, tale
determinazione è, appunto, avventa prima della effettiva
correzione e valutazione delle prove scritte;
c) la traccia delle prove è coerente sia con il contenuto
indicato dal bando, sia con i criteri di giudizio
determinati dalla commissione, attinenti alla correttezza
formale e al contenuto degli elaborati, poiché, in generale,
la coerenza dei criteri di valutazione con i contenuti delle
tracce proposte ai candidati risiede, come ha rilevato il
Tribunale amministrativo, al di là di singoli e non
significativi particolari, nella considerazione che criteri,
descrittori e contenuti sono compresi in problematiche e
concetti propri dell’istruzione e della formazione;
d) la difformità con le tracce e i criteri di valutazione
scelti da altre regioni è conseguente e corrisponde alla
dimensione regionale impressa alla procedura concorsuale
dall’art. 3 del d.P.R. 10.07.2008, n. 140 (Regolamento
recante la disciplina per il reclutamento dei dirigenti
scolastici, ai sensi dell'articolo 1, comma 618, della legge
27.12.2006, n. 296) e non è, quindi, apprezzabile in termini
di disparità di trattamento;
e) i parametri fissati dalla commissione appaiono del tutto
congrui e adeguati;
f) dalla riforma delle sentenze impugnate per effetto
dell’accoglimento degli appelli principali, e dalla
conseguente reiezione dei ricorsi di primo grado deriva
l’improcedibilità degli appelli incidentali per la parte
relativa all’individuazione dell’obbligo per
l’Amministrazione di dare adempimento alle sentenze stesse
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.06.2013 n. 3365 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Il
provvedimento del Sindaco, che opera una vera e propria
compressione dell’esercizio del diritto di accesso (dei
consiglieri comunali) al di fuori dei giorni in cui è
consentito l’accesso agli uffici, esorbita dalla sua
competenza, strettamente limitata alla verifica di
funzionalità degli uffici ed alla introduzione di
accorgimenti atti a scongiurare l’intralcio alla loro
operatività, per cui lo stesso va annullato per incompetenza
dell’organo a disciplinare le modalità del diritto di
accesso riservato ai consiglieri comunali.
Invero, solo il Consiglio comunale (mediante il potere
regolamentare) ha competenza per la disciplina generale.
D’altra parte è razionale che della materia si occupi un
organo che costituisce espressione di tutte le parti
politiche, tenuto conto che il potere di informazione è uno
dei tratti caratteristici del controllo affidato alla
minoranza politica.
I ricorrenti, in qualità di consiglieri comunali del Comune
di S. Giuseppe Vesuviano, censurano l’atto con cui il
Sindaco ha disciplinato le modalità di esercizio del diritto
di accesso dei consiglieri comunali previsto dall’art. 43
del t.u.e.l., prescrivendo che gli stessi possano chiedere
gli atti solo il lunedì dalle 9:00 alle 13:00 ed il
mercoledì dalle 16:00 alle 18:00, fatta eccezione per gli
argomenti all’ordine del giorno delle sedute del Consiglio
comunale.
I ricorrenti deducono in primo luogo la carenza di
competenza del sindaco in materia, nonché la mancanza di
congrua motivazione e la violazione delle norme che
garantiscono il pieno diritto di accesso agli atti del
comune (art. 43 t.u.e.l., violazione dello Statuto e del
regolamento comunale).
Si è costituito in giudizio il Comune di S. Giuseppe, che
eccepisce la inammissibilità del ricorso e conclude per la
reiezione dello stesso.
La controversia può essere decisa in forma semplificata
poiché il ricorso è evidentemente meritevole di
accoglimento.
Vale premettere che non può dubitarsi di un interesse
attuale e concreto dei ricorrenti –consiglieri comunali– a
censurare le modalità di regolamentazione di tale potestà
pubblicistica. I modi di esercizio di una facoltà
giuridicamente riconosciuta sono suscettibili di incidere
pesantemente sulla sua fruibilità in concreto, onde non può
disconoscersi un interesse alla decisione della presente
controversia.
Nel merito assume rilievo preminente la censura di
incompetenza del sindaco a regolamentare la materia.
Il quadro delle fonti è costituito dalla legge
sull’ordinamento degli enti locali (t.u.e.l.) e, a cascata,
dallo Statuto comunale e dal relativo regolamento.
L’art. 43, comma 2, del t.u.e.l. riconosce in capo ai
consiglieri comunali il diritto di accedere e prendere
visione degli atti del Comune che rappresentano, senza
particolari limitazioni, anche al fine di permettere di
valutare -con piena cognizione- la correttezza e l’efficacia
dell’operato dell’amministrazione, nonché per esprimere un
voto consapevole sulle questioni di competenza del
Consiglio, e per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio
stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti
del corpo elettorale locale, di talché, a differenza dei
soggetti privati, il consigliere non è tenuto ad una
particolare motivazione della richiesta, né
l’amministrazione ha titolo per sindacare il rapporto tra la
richiesta di accesso e l’esercizio del mandato, altrimenti
gli organi dell’amministrazione sarebbero arbitri di
stabilire essi stessi l’ambito del controllo sul proprio
operato.
L’ampiezza del diritto di accesso dei consiglieri comunali
trova specifica conferma nella disciplina statutaria (art.
12, comma 5) e nel regolamento comunale (art. 28) che non
pongono limitazioni al diritto di accesso dei consiglieri.
La cornice normativa descritta scandisce con precisione gli
ambiti di competenza di ciascun organo del Comune in
materia, confermando che solo il Consiglio comunale
(mediante il potere regolamentare) ha competenza per la
disciplina generale.
D’altra parte è razionale che della materia si occupi un
organo che costituisce espressione di tutte le parti
politiche, tenuto conto che il potere di informazione è uno
dei tratti caratteristici del controllo affidato alla
minoranza politica.
In virtù delle considerazioni esposte il provvedimento del
Sindaco, occupandosi in linea generale della materia (con
una vera e propria compressione dell’esercizio del diritto
di accesso al di fuori dei giorni in cui è consentito
l’accesso agli uffici), esorbita dalla sua competenza,
strettamente limitata alla verifica di funzionalità degli
uffici ed alla introduzione di accorgimenti atti a
scongiurare l’intralcio alla loro operatività, per cui lo
stesso va annullato per incompetenza dell’organo a
disciplinare le modalità del diritto di accesso riservato ai
consiglieri comunali (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 19.06.2013 n. 3154 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
può configurarsi come elemento meramente accessorio
dell'edificio la realizzazione di una canna fumaria, che,
pur non consistendo in opere murarie, in quanto realizzata
in metallo od altro materiale, vada a soddisfare esigenze
non precarie del costruttore, ciò comportando una modifica
del prospetto e della sagoma del fabbricato cui inerisce,
riconducendosi tale intervento nell'ambito delle opere di
ristrutturazione edilizia di cui all'art. 3, comma 1, lett.
d), del D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), realizzate
mediante inserimento di nuovi elementi ed impianti,
assoggettato al regime del permesso di costruire ai sensi
dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso D.P.R..
Nel settimo e ottavo motivo si sostiene la “piccola
entità” delle opere in relazione alle quali il Comune ha
ordinato la demolizione, in quanto suscettibili di rientrare
nell’ambito dell’edilizia residenziale libera.
L’argomentazione non è condivisibile.
Sul punto va ricordato come la realizzazione dei camini sia
avvenuta in difformità di un precedente permesso di
costruire, circostanza che ha reso indispensabile
l’esperimento della procedura di cui all’art. 36 del Dpr
380/2001.
E’, allora, applicabile quell’orientamento giurisprudenziale
(TAR Campania Napoli Sez. VIII, 01.10.2012, n. 4005)
nell’ambito del quale si è sancito che “non può
configurarsi come elemento meramente accessorio
dell'edificio la realizzazione di una canna fumaria, che,
pur non consistendo in opere murarie, in quanto realizzata
in metallo od altro materiale, vada a soddisfare esigenze
non precarie del costruttore, ciò comportando una modifica
del prospetto e della sagoma del fabbricato cui inerisce,
riconducendosi tale intervento nell'ambito delle opere di
ristrutturazione edilizia di cui all'art. 3, comma 1, lett.
d), del D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), realizzate
mediante inserimento di nuovi elementi ed impianti,
assoggettato al regime del permesso di costruire ai sensi
dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso D.P.R.”.
I camini di cui si tratta non sono suscettibili nemmeno di
rientrare nella disciplina della c.d. DIA e, ciò,
considerando come con gli stessi si sia posta in essere una
modifica dei prospetti dell’edificio e delle parti comuni
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 13.06.2013
n. 825 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’onere motivazionale che grava in capo alla p.a.
rinviene la sua giusta misura nell’esigenza che il
destinatario del provvedimento sia messo in grado di
percepire quali siano le ragioni che hanno portato al
diniego dell’istanza proposta.
Pertanto, se non risulta sufficiente il generico richiamo
alla norma di legge, è consentito adoperare una motivazione
che, sia pure in modo sintetico ovvero attraverso un
meccanismo motivazionale che utilizza il rinvio per
relationem al contenuto di atti endoprocedimentali, esterni
le ragioni che ostano all’accoglimento dell’istanza (di
sanatoria), così da consentire al privato di valutare
l’opportunità di un’eventuale reazione giurisdizionale.
---------------
E' legittimo il diniego della concessione in sanatoria di
opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse
non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica
vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella
vigente al momento della domanda di sanatoria.
---------------
L’attività sanzionatoria della P.A. sull’attività edilizia
abusiva è connotata dal carattere vincolato e non
discrezionale. Infatti il giudizio di difformità
dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo
rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione
delle sanzioni , non è affatto connotato da discrezionalità
tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto. Pertanto
, il giudice può verificare la correttezza di tale attività
accertativa svolta dalla P.A., non diversamente da quanto
avviene allorché controlla l’esattezza di accertamenti
tecnici condotti dalla P.A. in altri contesti.
L'ordine di demolizione di opere edilizie abusive è atto
vincolato che non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può mai legittimare. Del resto, un
eventuale affidamento a favore dell’amministrato potrebbe
solo sorgere all’indomani della conoscenza che
l’amministrazione abbia dell’esistenza del manufatto,
rispetto alla quale mantenga una colpevole inerzia e non
come nel caso di specie dove l’intervento repressivo è stato
disposto dopo pochi giorni il diniego di sanatoria.
Quanto alle residue censure le stesse appaiono tutte
infondate. Ed infatti, corretta è la pronuncia gravata nella
parte in cui esclude che il diniego di sanatoria sia
inficiato da un difetto motivazionale. Appare evidente che
l’onere motivazionale che grava in capo alla p.a. rinviene
la sua giusta misura nell’esigenza che il destinatario del
provvedimento sia messo in grado di percepire quali siano le
ragioni che hanno portato al diniego dell’istanza proposta
(Cons. St., Sez. II, 24.05.2006, n. 7681; Id. 05.02.1997, n. 336).
Pertanto, se non risulta sufficiente il
generico richiamo alla norma di legge (Cons. St., Sez. V, 04.04.2006, n. 1750), è consentito adoperare una
motivazione che sia pure in modo sintetico ovvero attraverso
un meccanismo motivazionale che utilizza il rinvio per relationem al contenuto di atti endoprocedimentali, come
nella fattispecie, esterni le ragioni che ostano
all’accoglimento dell’istanza, così da consentire al privato
di valutare l’opportunità di un’eventuale reazione
giurisdizionale.
Nel caso in esame, quindi, il rinvio alla
relazione del responsabile del procedimento e della
Commissione edilizia, unitamente alla contrarietà derivante
dalla circostanza che l’opera sananda comportava un
incremento volumetrico non consentito, anche perché non
riconducibile nell’ambito dell’ipotesi di adeguamento
igienico-sanitario, risulta soddisfare il precetto contenuto
nell’art. 3, l. n. 241/1990.
---------------
In ordine alla
seconda censura, appare condivisibile la premessa giuridica
da cui parte, e rispetto alla quale non si registra alcuna
difformità con la sentenza gravata, circa la necessità della
conformità del manufatto oggetto di sanatoria con la
disciplina urbanistica vigente al momento della
realizzazione dell’opera, con quella vigente al momento
della presentazione dell’istanza e con quella al tempo
dell’adozione del provvedimento.
Non condivisibile, è
invece, la conclusione raggiunta dall’appellante circa il
soddisfacimento della regola in esame da parte della
richiesta dell’interessato. Infatti, la giurisprudenza di
questo Consiglio ha da tempo chiarito che ai sensi dell'art.
13 L. 28.02.1985 n. 47, è legittimo il diniego della
concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo
abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto
alla normativa urbanistica vigente al momento della loro
realizzazione quanto a quella vigente al momento della
domanda di sanatoria (Cons. St., sez. IV, 26.04.2006, n.
2306; sez. IV, n. 6474 del 2006; sez. V, n. 1126 del 2009;
sez. V, 17.09.2012, n. 4914).
---------------
Infine, quanto
all’ultima delle censure in esame, incentrata sulla presunta
illegittimità dell’ordine di demolizione per difetto di
motivazione, appare sufficiente richiamare il consolidato
orientamento di questo Consiglio in merito alla natura
vincolata dell’ordine di demolizione: “L’attività
sanzionatoria della P.A. sull’attività edilizia abusiva è
connotata dal carattere vincolato e non discrezionale.
Infatti il giudizio di difformità dell’intervento edilizio
rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce
il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni , non è
affatto connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un
mero accertamento di fatto. Pertanto , il giudice può
verificare la correttezza di tale attività accertativa
svolta dalla P.A., non diversamente da quanto avviene
allorché controlla l’esattezza di accertamenti tecnici
condotti dalla P.A. in altri contesti” (Cons. St., Sez. IV,
17.05.2010, n. 3126), per escludere la sussistenza del
supposto vizio motivazionale atteso che: “L'ordine di
demolizione di opere edilizie abusive è atto vincolato che
non richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi
l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può mai legittimare” (Cons. St., Sez. V, 11.01.2011, n. 79).
Del resto, un eventuale affidamento a
favore dell’amministrato potrebbe solo sorgere all’indomani
della conoscenza che l’amministrazione abbia dell’esistenza
del manufatto, rispetto alla quale mantenga una colpevole
inerzia e non come nel caso di specie dove l’intervento
repressivo è stato disposto dopo pochi giorni il diniego di
sanatoria (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 5523 del 2012; VI,
n. 7129 del 2010)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.06.2013 n. 3235 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Non sussiste l'onere di
immediata impugnazione delle clausole del bando di gara che
non impediscano la partecipazione, o non risultino
manifestamente incomprensibili o sproporzionate rispetto ai
contenuti della procedura concorsuale, manifestando
un'efficacia lesiva solo a seguito dell'espletamento della
gara e mediante l'applicazione che ne faccia
l'Amministrazione.
Per esse, infatti, vale il principio della loro impugnazione
unitamente agli atti che ne costituiscono specifica
attuazione, dal momento che sono questi ultimi ad
identificare in concreto il soggetto interessato ed a
rendere attuale la lesione della sua sfera giuridica.
---------------
La presentazione della domanda di partecipazione ad una
procedura concorsuale non implica certamente di per sé
acquiescenza alle clausole del relativo bando, le quali anzi
possono di regola essere impugnate solo dopo avere
concretamente dimostrato, non solo la volontà di partecipare
alla procedura selettiva, ma anche la lesione attuale e
concreta dell'interesse legittimo azionato considerato,
d'altro canto, che la presentazione della domanda è un atto
normalmente necessario proprio per radicare l'interesse al
ricorso.
Ed invero, è pacifico insegnamento giurisprudenziale quello per cui
non sussiste l'onere di immediata impugnazione delle
clausole del bando di gara che non impediscano la
partecipazione, o non risultino manifestamente
incomprensibili o sproporzionate rispetto ai contenuti della
procedura concorsuale, manifestando un'efficacia lesiva solo
a seguito dell'espletamento della gara e mediante
l'applicazione che ne faccia l'Amministrazione.
Per esse, infatti, vale il principio della loro impugnazione
unitamente agli atti che ne costituiscono specifica
attuazione, dal momento che sono questi ultimi ad
identificare in concreto il soggetto interessato ed a
rendere attuale la lesione della sua sfera giuridica (cfr.
da ultimo Cons. Stato, Sez. III, 18.01.2013, n. 293).
---------------
Né può
ritenersi che la partecipazione alla gara a mezzo della
presentazione della richiesta di DURC abbia costituito
acquiescenza al bando, impedendone la successiva
impugnazione.
La presentazione della domanda di partecipazione ad una
procedura concorsuale, infatti, non implica certamente di per sé acquiescenza alle clausole del relativo bando, le quali
anzi possono di regola essere impugnate solo dopo avere
concretamente dimostrato, non solo la volontà di partecipare
alla procedura selettiva, ma anche la lesione attuale e
concreta dell'interesse legittimo azionato considerato,
d'altro canto, che la presentazione della domanda è un atto
normalmente necessario proprio per radicare l'interesse al
ricorso (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21.11.2011, n. 6135)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.06.2013 n. 3231 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare, responsabile del procedimento.
Il Consiglio di Stato ha affermato quali sono le competenze
del seggio di gara e quelle del responsabile unico del
procedimento (cd. RUP) : i giudici amministrativi nel
respingere il ricorso di una società partecipante
all'affidamento hanno confermato la sentenza del Tribunale
amministrativo regionale .
Il ricorso al TAR
Una SPA ha impugnato davanti al TAR il provvedimento con il
quale una azienda sanitaria locale ha aggiudicato ad una
ditta concorrente , capogruppo mandataria di un RTI, la gara
per l’affidamento, per 12 mesi, prorogabili per altri 6, del
servizio di ristorazione. I giudici di prime dopo aver
ricordato che i servizi alberghieri e di ristorazione
rientrano nell’All. II B del Codice degli Appalti, con la
conseguenza che per le relative gare si applicano solo
alcune disposizioni del Codice stesso di cui al D.Lgs.
163/2006 e s.m.i., ha rilevato che la ricorrente si era
classificata al quarto posto nella graduatoria di merito ed
ha ritenuto infondati i motivi riguardanti la regolarità
della procedura di gara.
Avverso tale sentenza la SPA si è appellata al Consiglio di
Stato.
Le fasi dell’aggiudicazione di gara nelle
offerte economicamente più vantaggiose
Il procedimento seguito dall’amministrazione appaltante per
l’aggiudicazione della gara, nel caso di selezione delle
offerte da svolgersi con il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa (artt. 83 e segg. del Codice
dei contratti pubblici), si svolge, normalmente, in tre
fasi: in due fasi sono necessarie prevalenti competenze
amministrative ed in una fase sono necessarie prevalenti
competenze tecniche.
Dopo aver ricevuto le offerte, nel termine indicato dal
bando, l’amministrazione in una prima fase svolge diverse
operazioni preliminari alla valutazione delle offerte:
verifica la regolarità dell’invio dell’offerta e il rispetto
delle disposizioni generali e di quelle speciali contenute
nel bando (o nella lettera di invito) e nel disciplinare di
gara (e l’osservanza delle regole sulla produzione dei
documenti).
La stazione appaltante provvede quindi, in seduta pubblica,
all’apertura dei plichi delle diverse offerte che (di norma)
contengono tre buste: 1) la busta A (documentazione
amministrativa); 2) la busta B (documentazione tecnica); 3)
la busta C (offerta economica).
La stazione appaltante, disposta l’idonea conservazione
delle buste (C) contenenti le offerte economiche, procede
quindi all’apertura delle buste (A) contenenti la
documentazione amministrativa per verificarne il contenuto e
per consentire la successiva verifica dei requisiti generali
previsti dalla normativa sugli appalti pubblici (artt. 38 e
39 del Codice degli Appalti) e dei requisiti speciali,
dettati dagli atti di gara (artt. 41 e 42 del Codice degli
Appalti), nonché di tutte le altre condizioni dettate per la
partecipazione alla gara.
L’amministrazione procede poi, sempre in seduta pubblica
all’apertura delle buste (B), contenenti la documentazione
tecnica, per prendere atto del relativo contenuto e per
verificare l’effettiva presenza dei documenti richiesti nel
bando (o nella lettera di invito) e nel disciplinare di gara
(schede tecniche, relazioni tecniche illustrative,
certificazioni tecniche etc.).
Anche tale documentazione è poi conservata in plico
sigillato.
Il responsabile del procedimento unico: il
RUP
Le attività indicate nel paragrafo precedente sono eseguite
dal seggio di gara o direttamente dal responsabile del
procedimento unico (RUP), che in linea generale è il
dirigente preposto alla competente struttura organizzativa
della stazione appaltante (che si avvale anche dei
funzionari del suo ufficio), che, ai sensi dell’art. 10,
comma 2 del Codice degli Appalti svolge tutti i compiti
relativi alle procedure di affidamento previste dal Codice
stesso, compresi gli affidamenti in economia, e alla
vigilanza sulla corretta esecuzione dei contratti, che non
siano specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti e
cura il corretto e razionale svolgimento delle procedure.
Dopo la preliminare fase di verifica dei contenuti
dell’offerta, si passa alla seconda fase di valutazione
delle offerte tecniche.
A tale seconda fase provvede l’apposita Commissione tecnica
che è nominata ai sensi dell’art. 84 del Codice degli
Appalti e dell’art. 283, comma 2, del Regolamento di cui al
D.P.R. n. 207/2010.
In una o più sedute riservate, la Commissione verifica
quindi la conformità tecnica delle offerte e valuta le
stesse, assegnando i relativi punteggi sulla base di quanto
previsto dal disciplinare di gara.
In seguito l’amministrazione appaltante procede, nuovamente
in seduta pubblica, ad informare i partecipanti delle
valutazioni compiute, a dare notizia di eventuali esclusioni
e a dare lettura dei punteggi assegnati dalla Commissione
sulle offerte tecniche dei concorrenti non esclusi.
Quindi, verificata l’integrità del plico contenenti le buste
con le offerte economiche (e l’integrità delle singole
buste), l’amministrazione procede all’apertura delle stesse
con la lettura delle singole offerte, con l’indicazione dei
ribassi offerti e dei conseguenti prezzi netti e la
determinazione (matematica) dei punteggi connessi ai prezzi.
Il seggio di gara formula, quindi, la graduatoria finale
sulla base della somma dei punteggi assegnati per l’offerta
tecnica e per l’offerta economica e procede
all’aggiudicazione provvisoria in favore dell’offerta che ha
raggiunto il maggiore punteggio complessivo.
Per quanto riguarda, in particolare, il procedimento per la
verifica dell’anomalia, l’art. 284 del D.P.R. n. 207/2010,
nel dare attuazione all’art. 88 del Codice degli Appalti in
relazione agli appalti di servizi, rinvia all’art. 121 del
D.P.R. n. 207 che, al comma 10, per le gare da aggiudicare
con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa,
prevede espressamente che, qualora vi siano offerte da
sottoporre alla verifica di congruità, ai sensi dell’art.
86, comma 2, del Codice «(…..) qualora il punteggio
relativo al prezzo e la somma dei punteggi relativi agli
altri elementi di valutazione delle offerte siano entrambi
pari o superiori ai limiti indicati dall'articolo 86, comma
2, del Codice, il soggetto che presiede la gara chiude la
seduta pubblica e ne dà comunicazione al responsabile del
procedimento, che procede alla verifica delle
giustificazioni presentate dai concorrenti ai sensi
dell'articolo 87, comma 1, del Codice avvalendosi degli
uffici o organismi tecnici della stazione appaltante ovvero
della commissione di gara, ove costituita».
Da tali disposizioni si evince che è il responsabile del
procedimento ad essere investito anche della funzione di
svolgere la verifica dell’anomalia, potendosi avvalere, ove
costituita, della apposita Commissione (o della stessa
Commissione tecnica).
La sentenza del Consiglio di Stato
I giudici del Consiglio di Stato, in primo luogo, esaminano
la censura della SPA ricorrente secondo la quale l’offerta
della Capogruppo aggiudicataria dell’affidamento era stata
sottoposta a verifica di anomalia, ai sensi dell’art. 86,
comma 2, del Codice degli Appalti, in quanto i punteggi
assegnati superavano i quattro quinti del punteggio massimo
attribuibile sia per l’elemento qualità, sia per l’elemento
prezzo.
Per il Consiglio di Stato la motivazione è infondata.
La Commissione Tecnica, ha comunicato che l’offerta
risultava “nel suo complesso attendibile, non
ravvisandosi elementi che possono compromettere la corretta
esecuzione dell’appalto” ed ha quindi invitato il RUP
alla formalizzazione dell’aggiudicazione alla quale questi
ha provveduto.
La SPA ricorrente, tuttavia, non si è lamentata
dell’anomalia dell’offerta ma ha contestato la mancata
convocazione di una (ulteriore) seduta pubblica per la
comunicazione dell’esito della verifica di anomalia e della
conseguente aggiudicazione provvisoria.
Per i giudici del Consiglio di Stato la mancanza di una
(ulteriore) seduta pubblica per tale comunicazione deve
ritenersi del tutto irrilevante.
Per il Consiglio di Stato la conseguenza che la mancata
comunicazione formale in seduta pubblica anche dell’esito
della verifica di anomalia (con la conseguente
aggiudicazione provvisoria) non costituisce un vizio capace
di inficiare la procedura, né da tale mancanza può essere
derivato alcun danno alla SRL ricorrente che ha avuto modo,
anche a seguito delle comunicazioni effettuate
dall’amministrazione, di far valere le sue ragioni nei
confronti delle valutazioni effettuate dall’amministrazione.
In secondo luogo la SPA ricorrente ha, inoltre, censurato la
violazione dell’art. 84 del Codice degli Appalti perché la
Commissione di gara, prevista nel caso di aggiudicazione di
gara con l’offerta economicamente più vantaggiosa, non aveva
svolto le attività di valutazione ed ammissione dei
concorrenti e di graduazione dei punteggi ma aveva lasciato
tali attività al RUP, il cui nome era peraltro già
conosciuto prima del termine di presentazione delle offerte,
o addirittura ad un suo delegato.
Per il Consiglio di Stato anche il questo caso il motivo è
infondato.
In particolare non ha rilievo la circostanza che tali atti
non siano stati compiuti dalla commissione in composizione
plenaria, né ha rilievo la circostanza che il RUP si è fatto
assistere da diversi soggetti posto che, nelle operazioni
che procedono la valutazione tecnica delle offerte, il RUP è
assistito da testimoni, uno dei quali con il ruolo di
segretario verbalizzante. Ma, in ogni caso, né i testimoni
né il segretario partecipano alla formazione delle decisioni
adottate dal presidente di seggio in ordine alle modalità di
gestione delle sedute di gara; né può avere alcun rilievo la
circostanza che il nome del RUP fosse già conosciuto prima
del termine di presentazione delle offerte trattandosi di
circostanza ordinaria. Mentre è la commissione giudicatrice
che, a garanzia della regolarità della gara, deve essere
nominata solo dopo lo scadere del termine ultimo di
presentazione delle offerte (art. 84, comma 10, del Codice).
E nella fattispecie, come ricordato anche dal TAR, la
Commissione tecnica è stata nominata dopo la scadenza del
termine di presentazione delle offerte (commento tratto da
www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 11.06.2013 n. 3228 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Approvazione di progetti di opere pubbliche - Non
conformi alle specifiche destinazioni di piano - Principio
di fungibilità delle opere pubbliche - Art. 1 Legge n.
1/1978 - Art. 5 D.M. n. 1444/1968 - Art. 44, c. 1, lett. a)
e b), D.P.R. 380/2001.
L’approvazione di progetti di opere pubbliche, anche se non
conformi alle specifiche destinazioni di piano e purché lo
strumento urbanistico vigente contenga destinazioni
specifiche di aree per la realizzazione di servizi pubblici,
non necessita l’adozione di varianti allo strumento
urbanistico (c.d. principio di fungibilità delle opere
pubbliche - Art. 1 Legge n. 1/1978 ).
Nella specie, la realizzazione di un centro di raccolta
materiali asservito all’attività di gestione dei rifiuti
urbani, è stato ritenuto compatibile con la destinazione
dell’area a standard (“verde pubblico” e/o “parcheggi”)
nell’ambito del P.I.P. comunale, essendo, lo stesso,
qualificabile come servizio pubblico anche quando le
prestazioni siano effettuate da un gestore privato
rientrando, ex art. 5 D.M. n. 1444/1968, nel novero delle
c.d. “attività collettive” (TRIBUNALE
di Brindisi, Sez. penale riesame,
ordinanza 06.06.2013 -
link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Zonizzazione - Realizzazione piazzola
ecologica - Uso flessibile del territorio - D.M.
n.1444/1968.
La disciplina imposta dal D.M. 1444/1968 deve interpretarsi
in favore di un uso flessibile del territorio, prevedendo la
compresenza, nell’ambito della stessa zona, di usi
promiscui.
Nella specie, se è ritenuta attività collettiva quella a
servizio di una limitata porzione del territorio (si pensi
al parcheggio realizzato in zona PIP e destinato al traffico
veicolare presente nell’area), tanto più deve essere
ritenuta attività collettiva l’attività di raccolta,
trasporto e smaltimento di rifiuti solidi urbani,
qualificabile come servizio pubblico, anche quando le
prestazioni siano effettuate dal privato gestore essendo
esse destinate palesemente in modo generalizzato a favore
della collettività locale (sul punto Consiglio di stato,
sez. V - 30/04/2002 n. 2294) (TRIBUNALE
di Brindisi, Sez. penale riesame,
ordinanza 06.06.2013 -
link a www.ambientediritto.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Conseguenze dell'instaurazione di rapporti di
lavoro a tempo determinato in violazione di norme di legge.
La Corte di
Cassazione ribadisce che:
- "Come questa S.C. ha già avuto modo di notare in
analogo precedente (v. Cass. 15.06.2010 n. 14350) l'incipit
del D.Lgs. n. 165 del 2001, cit. art. 36, comma 5 ('In ogni
caso ...') è categorico e non consente eccezioni là dove
afferma che nell'area del lavoro pubblico non può operare il
principio della trasformazione dei rapporti a termine in
rapporti a tempo indeterminato. Se sono state violate norme
imperative che regolano i lavori a tempo determinato il
lavoratore potrà, se del caso, chiedere il risarcimento dei
danni subiti e le amministrazioni avranno l'obbligo di
recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei
dirigenti responsabili se vi è stato dolo o colpa grave. Ma
il lavoratore non potrà, per questa via, instaurare con
l'amministrazione un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato";
- "A ciò si aggiunga che la giurisprudenza di questa S.C.
-cui va data continuità- è costante nello statuire che, in
tema di assunzioni temporanee alle dipendenze di pubbliche
amministrazioni, anche per i rapporti di lavoro di diritto
privato da esse instaurati valgono le discipline specifiche
che escludono la costituzione di rapporti di lavoro a tempo
indeterminato (ribadite in sede di disciplina generale dal
D.Lgs. 165 del 2001, cit. art. 36), senza che trovi
applicazione la L. n. 230 del 1962, atteso che l'art. 97
Cost., che pone la regola dell'accesso al lavoro nelle
pubbliche amministrazioni mediante concorso, ha riguardo non
già alla natura giuridica del rapporto, ma a quella dei
soggetti, salvo che una fonte normativa non disponga
diversamente in casi eccezionali, con il limite della non
manifesta irragionevolezza della discrezionalità del
legislatore (cfr. Cass. 30.06.2011 n. 14433; Cass.
22.08.2006 n. 18276; Cass. 24.02.2005 n. 3833)" (Corte
di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza
28.05.2013 n. 13247 - tratto da www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le opere di recinzione del terreno non si
configurano come nuova costruzione, per la quale è
necessario il previo rilascio di permesso di costruire,
quando, per natura e dimensioni, rientrino tra le
manifestazioni del diritto di proprietà, comprendente lo ius
excludendi alios o, comunque, la delimitazione e l'assetto
delle singole proprietà.
Tale è il caso della recinzione eseguita senza opere
murarie, costituita da una semplice rete metallica sorretta
da paletti in ferro, la quale costituisce installazione
precaria e non incide in modo permanente sull'assetto
edilizio del territorio.
Diversamente, è invece richiesto il permesso di costruire
quando la recinzione determina una irreversibile
trasformazione dello stato dei luoghi, come nel caso di
recinzione costituita da un muretto di sostegno in
calcestruzzo con sovrastante rete metallica o addirittura
inferriata sovrastante il muro al quale poi s'incardinano
cancelli.
La prima argomentazione a supporto del provvedimento impugnato fa
riferimento al mancato rispetto delle formalità previste dal
t.u. edilizia n. 380 del 2001 e al mancato rilascio del
titolo abilitativo (autorizzazione) asseritamente occorrente
per l'intervento.
Tali considerazioni non valgono a fondare la legittimità del
provvedimento impugnato.
La mancanza di autorizzazione edificatoria non costituisce,
in ogni caso, valida giustificazione dell'impugnato ordine
di rimozione.
Le opere di recinzione del terreno non si configurano,
infatti, come nuova costruzione, per la quale è necessario
il previo rilascio di permesso di costruire, quando, per
natura e dimensioni, rientrino tra le manifestazioni del
diritto di proprietà, comprendente lo ius excludendi alios
o, comunque, la delimitazione e l'assetto delle singole
proprietà.
Tale è il caso della recinzione eseguita senza opere
murarie, costituita da una semplice rete metallica sorretta
da paletti in ferro, la quale costituisce installazione
precaria e non incide in modo permanente sull'assetto
edilizio del territorio (cfr., fra le ultime, Tar Liguria I,
20.09.2010 n. 1174; Tar Toscana III, 09.06.2011 n.
1005, Tar Piemonte I, 15.02.2010 n. 950; TAR Lazio,
Roma, sez. II, 11.09.2009, n. 8644).
L'intervento in questione rientra, piuttosto nella portata
residuale degli interventi realizzabili con il regime
semplificato della d.i.a., a mente dell'art. 22 del t.u.
dell'edilizia, la cui mancanza non è sanzionabile con la
rimozione o la demolizione, previsti dall'art. 31 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, per l'esecuzione di interventi in
assenza del permesso di costruire, in totale difformità del
medesimo, ovvero con variazioni essenziali, ma con
l'applicazione della sanzione pecuniaria prevista dal
successivo art. 37 per l'esecuzione di interventi in assenza
della prescritta denuncia di inizio di attività.
Diversamente, è invece richiesto il permesso di costruire
quando la recinzione determina una irreversibile
trasformazione dello stato dei luoghi, come nel caso di
recinzione costituita da un muretto di sostegno in
calcestruzzo con sovrastante rete metallica o addirittura
inferriata sovrastante il muro al quale poi s'incardinano
cancelli.
Nel caso di specie l’intervento si sostanzia esclusivamente
nell’apposizione di una rete metallica con paletti di ferro
e senza alcun tipo di opera muraria, con caratteristiche di
precarietà e senza trasformazione effettiva dello stato dei
luoghi.
---------------
Un secondo
ordine di considerazioni fa riferimento alla mancanza di
autorizzazione paesaggistica.
Si osserva preliminarmente che non è contestata l'esistenza
del vincolo.
Ciò premesso, appare irrilevante che la recinzione in esame
(costituita, si ribadisce, da una semplice rete metallica e
da paletti infissi nel terreno e senza opere murarie) sia
stata eseguita senza nulla osta in area vincolata,
trattandosi di opera priva di apprezzabile impatto
ambientale (cfr., in analoga fattispecie, Tar Piemonte I, 15.02.2010 n. 950; TAR Campania, Napoli, sez. IV,
08.05.2007, n. 4821)
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 27.05.2013 n. 5276 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Ai fini della declaratoria di incompatibilità ex
art. 90, comma 8, d.lgs. n. 163 del 2006, la giurisprudenza
nazionale e comunitaria richiede la presenza di indizi seri,
precisi e concordanti sulla circostanza che il partecipante
alla gara, o il soggetto a questo collegato, abbia rivestito
un ruolo determinante nell'indirizzo delle scelte
dell'Amministrazione o ne abbia ricevuto un tale flusso di
informazioni riservate da falsare la concorrenza.
Tali indizi non devono necessariamente riguardare soltanto
situazioni limite, ovvero l'essersi determinata, nel passato
o nel presente, una situazione di influenza sulle scelte
dell'Amministrazione o una situazione di connivenza, con
conseguente flusso di informazioni, dall'Amministrazione
all'impresa che pretenda di partecipare alla gara. Ciò in
quanto le norme sulla incompatibilità ed i connessi divieti
agiscono in prevenzione, ovvero sono norme che tendono a
prevenire il pericolo di pregiudizio e, verificato il caso
di incompatibilità, tendono a salvaguardare la genuinità
della gara attraverso la prescrizione del divieto di
partecipazione.
Di talché le stesse non presuppongono né intervenuta la
lesione, né la sussistenza di un concreto tentativo di
compromissione. È, dunque sufficiente che gli indizi (ferma
la loro serietà, precisione e concordanza) riguardino
situazioni che, oggettivamente, pongono un determinato
concorrente in una posizione di squilibrio (per sé
favorevole) nei confronti degli altri concorrenti e tale da
determinare -indipendentemente dal concretizzarsi del
vantaggio- una violazione della par condicio.
---------------
La condizione ostativa alla partecipazione alle gare di cui
all'art. 90, comma 8, d.lgs. n. 163/2006, viene posta non
solo nei confronti del soggetto affidatario dell'incarico di
progettazione, ma anche nei confronti di quei soggetti che
possano ritenersi a vario titolo compartecipi dell'attività
di progettazione (dipendenti; collaboratori; responsabili di
attività di supporto a quella di progettazione) e che siano
ricollegabili all'affidatario medesimo, nei termini
normativamente previsti.
---------------
La disciplina contenuta nell'art. 90, comma 8, c. contr.
pubbl. va reputata quale espressione di un principio
generale, in forza del quale ai concorrenti ad una procedura
di scelta del contraente da parte della pubblica
amministrazione deve essere riconosciuta un'omogenea
posizione, "ex se" implicante la più rigorosa parità di
trattamento, dovendo comunque essere valutato se lo
svolgimento di pregressi affidamenti presso la stessa
stazione appaltante possa aver creato, per taluno dei
concorrenti stessi, degli speciali vantaggi incompatibili
con i principi -propri non soltanto dell'ordinamento
italiano, ma anche di quello comunitario- di libera
concorrenza e di parità di trattamento. Conseguentemente, la
valutazione di incompatibilità deve essere effettuata in
concreto dalla stazione appaltante.
Il Collegio condivide la premessa dalla quale muove la difesa della
ricorrente Lo Prete Group, secondo cui l’art. 90 cit. è
espressione di un principio generale (Cons. Stato, IV,
23.04.2012, n. 2402; Cons. Stato, IV, 03.05.2011, n. 2647;
Cons. Stato, V, 19.03.2007, n. 1302; Cons. Stato, VI,
02.10.2007, n. 5088), come tale posto a presidio degli
indefettibili ed ineluttabili principi di imparzialità e di
parità in fase di gara, e pertanto suscettibile di
applicazione anche nei casi in cui un soggetto abbia in
qualunque modo contribuito, attraverso la propria attività
professionale, a determinare i contenuti, le linee
programmatiche e gli obiettivi che l’Amministrazione intende
perseguire con l’affidamento, oggetto della procedura di
gara.
A tale proposito, secondo la giurisprudenza “Ai fini della
declaratoria di incompatibilità ex art. 90, comma 8, d.lgs. n.
163 del 2006, la giurisprudenza nazionale e comunitaria
richiede la presenza di indizi seri, precisi e concordanti
sulla circostanza che il partecipante alla gara, o il
soggetto a questo collegato, abbia rivestito un ruolo
determinante nell'indirizzo delle scelte
dell'Amministrazione o ne abbia ricevuto un tale flusso di
informazioni riservate da falsare la concorrenza. Tali
indizi non devono necessariamente riguardare soltanto
situazioni limite, ovvero l'essersi determinata, nel passato
o nel presente, una situazione di influenza sulle scelte
dell'Amministrazione o una situazione di connivenza, con
conseguente flusso di informazioni, dall'Amministrazione
all'impresa che pretenda di partecipare alla gara. Ciò in
quanto le norme sulla incompatibilità ed i connessi divieti
agiscono in prevenzione, ovvero sono norme che tendono a
prevenire il pericolo di pregiudizio e, verificato il caso
di incompatibilità, tendono a salvaguardare la genuinità
della gara attraverso la prescrizione del divieto di
partecipazione. Di talché le stesse non presuppongono né
intervenuta la lesione, né la sussistenza di un concreto
tentativo di compromissione. È, dunque sufficiente che gli
indizi (ferma la loro serietà, precisione e concordanza)
riguardino situazioni che, oggettivamente, pongono un
determinato concorrente in una posizione di squilibrio (per
sé favorevole) nei confronti degli altri concorrenti e tale
da determinare -indipendentemente dal concretizzarsi del
vantaggio- una violazione della par condicio”. (TAR Roma
Lazio sez. I, 18.10.2012 n. 8595)
La stessa giurisprudenza ha altresì chiarito che “La
condizione ostativa alla partecipazione alle gare di cui
all'art. 90, comma 8, d.lgs. n. 163/2006, viene posta non
solo nei confronti del soggetto affidatario dell'incarico di
progettazione, ma anche nei confronti di quei soggetti che
possano ritenersi a vario titolo compartecipi dell'attività
di progettazione (dipendenti; collaboratori; responsabili di
attività di supporto a quella di progettazione) e che siano
ricollegabili all'affidatario medesimo, nei termini
normativamente previsti”.
Inoltre, è stato anche affermato che “La disciplina
contenuta nell'art. 90, comma 8, c. contr. pubbl. va
reputata quale espressione di un principio generale, in
forza del quale ai concorrenti ad una procedura di scelta
del contraente da parte della pubblica amministrazione deve
essere riconosciuta un'omogenea posizione, "ex se"
implicante la più rigorosa parità di trattamento, dovendo
comunque essere valutato se lo svolgimento di pregressi
affidamenti presso la stessa stazione appaltante possa aver
creato, per taluno dei concorrenti stessi, degli speciali
vantaggi incompatibili con i principi -propri non soltanto
dell'ordinamento italiano, ma anche di quello comunitario-
di libera concorrenza e di parità di trattamento.
Conseguentemente, la valutazione di incompatibilità deve
essere effettuata in concreto dalla stazione appaltante.”
(Consiglio di Stato, Consiglio di Stato sez. IV 23.04.2012,
n. 2402) (TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 24.05.2013 n. 347 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La decisione 07.06.2012 n. 21 dell’Adunanza
Plenaria ha statuito che nel caso di incorporazione o
fusione societaria, sussiste in capo alla società
incorporante o risultante dalla fusione l’onere di
presentare la dichiarazione relativa al requisito di cui
all’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006 anche
con riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici
che hanno operato presso la società incorporata o le società
fusesi nell’ultimo triennio, ovvero che sono cessati dalla
relativa carica in detto periodo (dopo il d.l. n. 70 del
2011, nell’ultimo anno). Resta ferma la possibilità di
dimostrare la c.d. dissociazione.
L’art. 38, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006, sia prima che
dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 70 del 2011, pertanto,
impone la presentazione di una dichiarazione sostitutiva
completa, a pena di esclusione, anche per gli amministratori
delle società che partecipano ad un procedimento di
incorporazione o di fusione.
L’Adunanza Plenaria, tenuto conto della precedente
incertezza giurisprudenziale, giunge alla conclusione che i
concorrenti che omettono la dichiarazione possono essere
esclusi dalle gare -in relazione alle dichiarazioni rese ai
sensi dell’art. 38, comma 1, lett. c)- fino alla data di
pubblicazione della decisione medesima (07.06.2012) solo se
il bando espliciti tale onere di dichiarazione e la
conseguente causa di esclusione; in caso contrario,
l’esclusione può essere disposta solo ove vi sia la prova
che gli amministratori per i quali è stata omessa la
dichiarazione hanno pregiudizi penali.
La decisione dell’Adunanza Plenaria n. 21 intervenuta in
data 07.06.2012 ha statuito che nel caso di
incorporazione o fusione societaria, sussiste in capo alla
società incorporante o risultante dalla fusione l’onere di
presentare la dichiarazione relativa al requisito di cui
all’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006 anche
con riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici
che hanno operato presso la società incorporata o le società
fusesi nell’ultimo triennio, ovvero che sono cessati dalla
relativa carica in detto periodo (dopo il d.l. n. 70 del
2011, nell’ultimo anno). Resta ferma la possibilità di
dimostrare la c.d. dissociazione.
L’art. 38, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006, sia prima che
dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 70 del 2011, pertanto,
impone la presentazione di una dichiarazione sostitutiva
completa, a pena di esclusione, anche per gli amministratori
delle società che partecipano ad un procedimento di
incorporazione o di fusione.
L’Adunanza Plenaria, tenuto conto della precedente
incertezza giurisprudenziale, giunge alla conclusione che i
concorrenti che omettono la dichiarazione possono essere
esclusi dalle gare -in relazione alle dichiarazioni rese ai
sensi dell’art. 38, comma 1, lett. c)- fino alla data di
pubblicazione della decisione medesima (07.06.2012) solo
se il bando espliciti tale onere di dichiarazione e la
conseguente causa di esclusione; in caso contrario,
l’esclusione può essere disposta solo ove vi sia la prova
che gli amministratori per i quali è stata omessa la
dichiarazione hanno pregiudizi penali.
Nel caso in esame, il punto 13.1 del bando (requisiti
generali) prevede che siano attestate da tutti i soggetti
che intendono partecipare l’assenza delle condizioni di cui
all’art. 38 cit., specificamente elencate.
Il punto 3 del disciplinare di gara prevede espressamente
che tutti i soggetti componenti il raggruppamento (soggetto
finanziatore, soggetto realizzatore e progettista) devono
dichiarare di non trovarsi in una delle condizioni previste
dall’art. 38, comma 1, del d.l.vo 163/2006.
In particolare, al punto 3d) è specificato che deve essere
dichiarato da tutti i soggetti indicati dall’art. 38, comma
1, lett. b e c, (ossia per le società per azioni, da
amministratori muniti di potere di rappresentanza e
direttori tecnici) se risultano (o non risultano,
alternativamente),per ciascuno dei componenti del
raggruppamento, soggetti cessati dalla carica nel triennio
antecedente la data di pubblicazione del bando.
In tale ipotesi, il capitolato prevede ulteriormente (in
neretto) che per i soggetti cessati dalla carica “in caso
di pronuncia di condanne penali di cui alla lett. b)
l’impresa potrà essere ammessa a gara solo presentando a
corredo della dichiarazione la documentazione idonea e
sufficiente a dimostrare di aver adottato atti e misure di
completa dissociazione dalla condotta penalmente
sanzionata.”.
Ritiene il Collegio, pertanto, che sia evidente come la lex
di gara abbia previsto, pena l’esclusione, l’obbligo di
rendere la dichiarazione ex art. 38 cit. per gli
amministratori con potere di rappresentanza cessati dalla
carica nel triennio (tra questi, va incluso anche il Vice
Presidente del Consiglio di Amministrazione, in quanto
soggetto titolare, a norma di statuto, degli stessi poteri
di amministrazione e di rappresentanza spettanti al
Presidente in caso di assenza o di impedimento dello stesso
– cfr. Consiglio di Stato sez. V, 08.11.2012, n. 5693).
La lex di gara, tuttavia, non ha previsto espressamente il
medesimo obbligo a carico degli amministratori di società
fuse per incorporazione; essi, però, ad avviso del Collegio,
debbono ritenersi inclusi tra gli “amministratori cessati
nel triennio” considerato il profilo della sostanziale
continuità del soggetto imprenditoriale risultante dalla
fusione societaria a cui si riferiscono, sicché
l’amministratore cessato dalla carica appartenente alla
società incorporata è identificabile come interno al
concorrente.
Come evidenzia la stessa Adunanza Plenaria n. 21/2012,
difatti, nelle ipotesi di fusione o di incorporazione di
società, ancorché venute in essere antecedentemente
all'avvio della gara, si realizza, anche se non la
fattispecie di successione a titolo universale, “l'integrazione reciproca delle società partecipanti
all'operazione, ossia una vicenda meramente evolutiva del
medesimo soggetto, che conserva la propria identità pur in
un nuovo assetto organizzativo (Cass. civ. sez. un., 08.02.2006, n. 2637).” Ritenuta la continuità nel nuovo
soggetto, perdura, per le società che proseguono sotto la
nuova identità della società incorporante l'onere di rendere
la dichiarazione relativa ai propri amministratori cessati.
In altri termini, la società incorporante o risultante dalla
fusione, non è un soggetto "altro" e "diverso", ma semmai un
soggetto composito in cui proseguono la loro esistenza le
società partecipanti all'operazione di incorporazione e, per
l'effetto, non si possono considerare "altrui" gli
amministratori che sono amministratori di un soggetto che è
parte del tutto e che conserva la sua identità originaria
sotto una diversa forma giuridica.
Diversamente opinando, le operazioni di fusione tra società
finirebbero per prestarsi alla elusione dello scopo
perseguito con la preclusione di cui all’art. 38 cit., da
individuarsi sicuramente in quello di impedire anche solo la
possibilità di inquinamento dei pubblici appalti, derivante
dalla partecipazione alle relative procedure di soggetti di
cui sia accertata la non affidabilità sul piano morale e
professionale (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 08.03.2013 n. 1411 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Costituisce
buona regola che nel progetto dell'opera pubblica, recante
la dichiarazione di pubblica utilità, l'espropriante è
tenuto a redigere il piano particellare degli immobili da
espropriare, operandone la distinzione con tutti quelli che
nel prosieguo della realizzazione dell'opera potranno
risultare necessari per la corretta esecuzione dei lavori
previsti, e perciò costituire oggetto di occupazione
temporanea ex art. 49 d.P.R. n. 327 del 2001.
In ordine alla questione della occupazione
temporanea dei beni ai sensi dell’art. 49 T.U. espropri, va
osservato quanto segue.
La sezione, già in sede cautelare, ha osservato come gli
immobili di titolarità della ricorrente originaria fossero
ricompresi nel piano particellare di esproprio e ciò
costituiva sufficiente ragione per ritenere legittimo e
corretto il procedimento di occupazione temporanea
contestato.
L’art. 49 su citato prevede al primo comma che “L'autorità
espropriante può disporre l'occupazione temporanea di aree
non soggette al procedimento espropriativo anche individuate
ai sensi dell'articolo 12, se ciò risulti necessario per la
corretta esecuzione dei lavori previsti”. Per il comma 5 “Le
disposizioni di cui ai precedenti commi si applicano, in
quanto compatibili, nel caso di frane, alluvioni, rottura di
argini e in ogni altro caso in cui si utilizzano beni altrui
per urgenti ragioni di pubblica utilità”.
Si è affermato (e quindi costituisce buona regola) che nel
progetto dell'opera pubblica recante la dichiarazione di
pubblica utilità l'espropriante è tenuto a redigere il piano
particellare degli immobili da espropriare, operandone la
distinzione con tutti quelli che nel prosieguo della
realizzazione dell'opera potranno risultare necessari per la
corretta esecuzione dei lavori previsti, e perciò costituire
oggetto di occupazione temporanea ex art. 49 d.P.R. n. 327
del 2001 (così Cassazione civile sez. un., 06.05.2009, n.
10362).
Nella specie, risulta incontestato che i terreni oggetto
della occupazione temporanea, di titolarità della ricorrente
originaria, fossero ricompresi nel piano particellare,
ricompreso a sua volta nell’approvazione del progetto
definitivo.
Ad opinione di questo Giudicante non rileva in alcun modo,
in tale sede, che vi fosse stata o meno l’approvazione del
progetto esecutivo.
La parte appellata si duole del difetto di motivazione, che
invero deve ritenersi soddisfatto dalle evidenziate esigenze
di cantierizzazione dell’area, come desumibile per relationem rispetto alla motivazione del progetto definitivo
approvato.
La problematica della occupazione temporanea è stata in
qualche modo risolta dalla nuova normativa del testo unico.
In precedenza, dalle leggi precedenti (art. 65, l. fond.) si
desumeva che il potere di occupazione temporanea, per
esempio a fini di cantiere, potesse ritenersi svincolato
dalla previa valutazione e dichiarazione di pubblica
utilità, con un procedimento indipendente e deformalizzato
corrispondente a quello del decreto di esproprio.
Le opere pubbliche debbono essere oggetto di una previa e
distinta dichiarazione di pubblica utilità, recante un
giudizio sulla loro ottimale localizzazione e soggetta ai
principi di imparzialità e proporzionalità dell'azione
amministrativa, oltre che alle garanzie pubblicitarie e
partecipative in favore dei privati; l’ideale è che tale
valutazione sia estesa per le occupazioni temporanee di aree
strumentali alla realizzazione dell'opera pubblica, legate
alla stessa da un vincolo di accessorietà.
Si è osservato come in molti casi (si pensi a reti
infrastrutturali, strade, ferrovie, linee elettriche e di
distribuzione del gas) le aree da espropriare possano essere
di entità comparativamente assai ridotta rispetto a quelle
da sottoporre ad occupazione per cantieri, asservimenti
temporanei od opere provvisionali, che rappresentano la vera
e più importante interferenza con la proprietà privata.
Il testo unico afferma all’art. 49 che le aree da occupare
temporaneamente possono "anche" essere individuate nel
progetto dichiarativo della pubblica utilità.
Anche se per l’art. 33, comma 1, d.p.r. n. 554/1999, sui
requisiti dei progetti di opere pubbliche, il piano
particellare deve censire solo le aree da espropriare o
asservire è buona regola, pienamente osservata nella specie,
che già nel progetto approvato siano individuate le aree di
cantiere e le ragioni della occupazione, anche per relationem.
D’altronde, l’occupazione di cui alla ordinanza impugnata
evidenzia in modo dettagliato i provvedimenti a suo
fondamento e cioè:
1) la deliberazione CIPE di approvazione
del progetto definitivo;
2) il progetto definitivo approvato
e pubblicato, che comporta dichiarazione di pubblica utilità
e contiene il piano particellare degli espropri (in cui sono
indicate tutte le zone da espropriare e da occupare e i
soggetti proprietari, come le aree di proprietà della
Cascina Pagnana);
3) l’istanza di occupazione temporanea
presentata dal Consorzio TEEM.
E’ vero in giurisprudenza si è anche affermato che le
occupazioni temporanee sono svincolate dal procedimento di
dichiarazione di pubblica utilità (per esempio, in tal senso
TAR Puglia, Bari, Sez. III, 17.12.2008 n. 2891,
secondo cui "Il piano particellare da allegare al progetto
definitivo dell'opera pubblica, ai sensi dell'art. 16 d.p.r.
n. 327 del 2001 e dell'art. 13 dell'Allegato al d.lgs. n.
163 del 2006, deve indicare i terreni di cui si prevede
l'espropriazione o l'asservimento, non anche le aree da
sottoporre ad occupazione temporanea ai sensi dell'art. 49
del d.p.r. n. 327 del 2001"); nel precedente su richiamato
(Cassazione sez. un., 06.05.2009, n. 10362) la Suprema
Corte, dopo aver ricordato la imprescindibile necessità
della dichiarazione di pubblica utilità, quale fase
preliminare e distinta dal potere coattivo di spossessamento
di cui è anzi presupposto fondante, ribadisce che tale fase
di ponderazione del pubblico interesse deve riguardare –e
questo è proprio l’ideale modo di procedere, rispettato
nella fattispecie- non solo le aree coinvolte a fini
espropriativi, ma anche quelle interessate da un vincolo di
occupazione temporanea "ai sensi dell'art. 49" del testo
unico.
Il progetto definitivo deve dunque farsi carico di
identificarle motivatamente al pari delle prime, a pena di
illegittimità.
Il significato dell'art. 49 del testo unico, disegnato dalle
Sezioni Unite, è dunque quello di un istituto
necessariamente connesso all'opera pubblica (e quindi al
progetto definitivo) a cui è strumentale. La previsione
secondo cui le aree da occupare sono "anche" indicate nella d.p.u., non può insomma significare che l'amministrazione ha
il potere di occupare aree non previste nel progetto; essa
va invece interpretata, in modo conforme a Costituzione, nel
senso che, ogni qualvolta l'occupazione sia funzionalmente
connessa ad un'opera pubblica, la decisione di ricorrervi
dovrà, secondo buona amministrazione, necessariamente essere
assunta a monte, nel progetto dichiarativo della pubblica
utilità, nel quale dovranno anche essere identificate le
aree da occupare ed è ciò che è avvenuto nella specie.
Pertanto, che la scelta di provvedere alla occupazione
temporanea sia assunta in occasione della approvazione del
progetto definitivo, comprensivo della dichiarazione di
pubblica utilità, piuttosto che in occasione del progetto
esecutivo -a differenza di quanto ha ritenuto il primo
giudice, che ha tratto argomentazione sulla illegittimità
dell’operato amministrativo, basandosi sul fatto che il
progetto esecutivo non era ancora stato approvato- è
situazione fisiologica e anche corretta per l’operato
dell’amministrazione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.02.2013 n. 1184 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Al
fine di verificare se una determinata opera abbia carattere
precario (condizione per l'accertamento della non
necessarietà del rilascio della relativa concessione
edilizia), occorre verificare la destinazione funzionale e
l'interesse finale al cui soddisfacimento l'opera stessa è
destinata.
Pertanto, solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali
a soddisfare una esigenza oggettivamente temporanea
-destinata a cessare dopo il tempo, normalmente non lungo,
entro cui si realizza l'interesse finale- possono ritenersi
prive di minima entità ovvero di carattere precario e, in
quanto tali, non richiedenti la concessione edilizia.
Di conseguenza non sono manufatti destinati a soddisfare
esigenze meramente temporanee quelli destinati ad una
utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione
del territorio non può essere considerata temporanea,
precaria o irrilevante.
Viene impugnata l’ordinanza 03.02.2011 n. 1/III che dispone
la rimozione/demolizione delle seguenti opere realizzate
senza titolo e non destinate a soddisfare esigenze meramente
temporanee:
- casa mobile (su ruote) di dimensioni ml. 8,68 x 3,78 e h.
alla gronda ml. 2,86;
- box prefabbricato in lamiera di dimensioni ml. 6,00 x 2,70
e h. al colmo ml. 2,35.
Avverso detto provvedimento viene dedotta violazione
dell’art. 10 del DPR n. 380/2001 nonché eccesso per
travisamento dei fatti. Secondo il ricorrente si tratterebbe
di opere temporanee realizzate in attesa di completare i
lavori di recupero dell’edificio esistente. In un secondo
momento la “casa mobile” sarà poi utilizzata come
residenza secondaria da trasferire nelle varie località
turistiche di villeggiatura.
Il Collegio, ad un più approfondito esame della vicenda
proprio dell’odierna fase di merito, ritiene di non poter
confermare l’orientamento espresso in sede cautelare
relativamente al fumus boni iuris.
Al riguardo si oppongono le seguenti circostanze:
- agli atti non risulta alcuna richiesta di permesso di
costruire per il recupero dell’edificio esistente, ma solo
un’istanza preventiva presentata in data 11.06.2009 e
riscontrata positivamente dal Comune con nota del 17.07.2009
recante l’espresso avvertimento che la stessa non
costituisce titolo per l’inizio dell’attività edilizia;
- ad oggi non è ancora dato comprendere se il permesso di
costruire sia stato poi chiesto e rilasciato;
- alla data del sopralluogo (30.09.2010) veniva accertato
che non vi erano lavori in corso e che la “casa mobile”
risultava tutt’altro che semplicemente parcheggiata in
attesa di utilizzo (come potrebbe essere una normale
roulotte in rimessaggio), poiché dotata di allacciamento
idrico ed elettrico (con tanto di contatori), impianto di
condizionamento dell’aria e impianto televisivo con antenna
satellitare. L’interno risultava completamente arredato e
pronto per l’uso abitativo.
Come è noto, al fine di verificare se una determinata opera
abbia carattere precario (condizione per l'accertamento
della non necessarietà del rilascio della relativa
concessione edilizia), occorre verificare la destinazione
funzionale e l'interesse finale al cui soddisfacimento
l'opera stessa è destinata; pertanto, solo le opere
agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una
esigenza oggettivamente temporanea -destinata a cessare dopo
il tempo, normalmente non lungo, entro cui si realizza
l'interesse finale- possono ritenersi prive di minima entità
ovvero di carattere precario e, in quanto tali, non
richiedenti la concessione edilizia. Di conseguenza non sono
manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente
temporanee quelli destinati ad una utilizzazione perdurante
nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può
essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (cfr.
Cons. Stato, Sez. III, 12.09.2012 n. 4850; Sez. VI,
16.02.2011 n. 986; Sez. IV, 15.05.2009 n. 3029).
Nel caso in esame non emergono quindi elementi per affermare
che la “casa mobile” fosse destinata ad assolvere
esigenze meramente temporanee di breve durata ma, al
contrario, emergono elementi per supporre che fosse
preordinata a soddisfare esigenze prolungate e a scadenza
del tutto incerta.
Tale conclusione riguarda indubbiamente anche la seconda
costruzione (box prefabbricato in lamiera), priva di ogni
riferimento temporale che possa dimostrarne la natura
precaria nei termini anzidetti.
Il ricorso va quindi respinto
(TAR Marche,
sentenza 11.02.103 n. 136 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
Corte di Cassazione da tempo afferma che nella categoria
degli interventi di restauro o di risanamento conservativo,
per i quali non occorre il permesso di costruire, possono
essere annoverate soltanto le opere di recupero abitativo le
quali conservano le preesistenti strutture, provvedendo a
consolidarle ovvero a rinnovarne gli elementi costitutivi
anche attraverso l'inserimento di aspetti nuovi, sempreché
siano complessivamente rispettate tipologia, forma e
struttura dell'edificio.
Per questo, la demolizione o il crollo totale, ancorché
imputabili non ai lavori ma alla vetustà del fabbricato,
consentono la ricostruzione del manufatto a condizione che
l’autorità amministrativa possa verificare nuovamente, in
presenza dei fatti sopravvenuti, il rispetto della normativa
urbanistica vigente al momento del rilascio del
provvedimento abilitativo.
Anche la giurisprudenza amministrativa ha chiarito di
recente che, allorché nel corso di un intervento autorizzato
di manutenzione, un edificio venga demolito o crolli per
cause naturali, l’originario titolo autorizzatorio perde
efficacia e, per il nuovo intervento ricostruttivo, occorre
il rilascio del permesso di costruire.
Infondato è il secondo motivo con il quale i ricorrenti si
dolgono della circostanza secondo cui l’amministrazione
comunale avrebbe attribuito agli interventi in questione una
nuova qualificazione giuridica.
La censura non è condivisibile. Già al momento
dell’accertamento degli abusi, l’amministrazione comunale
aveva chiaramente posto in evidenza che gli interventi
riscontrati erano riconducibili alla categoria della
ristrutturazione edilizia, stante la demolizione integrale e
la ricostruzione del preesistente; circostanza questa
riconosciuta dagli stessi interessati, come emerge
dall’istanza da loro presentata per la sanatoria edilizia,
ai sensi dell’art. 36 d.p.r. 380/2001.
D’altronde, la Corte di Cassazione da tempo afferma che
nella categoria degli interventi di restauro o di
risanamento conservativo, per i quali non occorre il
permesso di costruire, possono essere annoverate soltanto le
opere di recupero abitativo le quali conservano le
preesistenti strutture, provvedendo a consolidarle ovvero a
rinnovarne gli elementi costitutivi anche attraverso
l'inserimento di aspetti nuovi, sempreché siano
complessivamente rispettate tipologia, forma e struttura
dell'edificio. Per questo, la demolizione o il crollo
totale, ancorché imputabili non ai lavori ma alla vetustà
del fabbricato, consentono la ricostruzione del manufatto a
condizione che l’autorità amministrativa possa verificare
nuovamente, in presenza dei fatti sopravvenuti, il rispetto
della normativa urbanistica vigente al momento del rilascio
del provvedimento abilitativo (Cassazione penale, sez. III,
13.10.1997, n. 10392).
Anche la giurisprudenza amministrativa ha chiarito di
recente che, allorché nel corso di un intervento autorizzato
di manutenzione, un edificio venga demolito o crolli per
cause naturali, l’originario titolo autorizzatorio perde
efficacia e, per il nuovo intervento ricostruttivo, occorre
il rilascio del permesso di costruire (cfr. Consiglio di
Stato, sez. V, 01.04.2011, n. 2020 che conferma Tar
Lombardia, Milano, sez. II, n. 433 del 1998)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 21.01.2013 n. 161 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Gli
abusi in materia di distanze non sono condonabili.
In particolare, si è statuito che:
- l’amministrazione, nel concedere il titolo abilitativo in
sanatoria, può e deve considerare i limiti (per così dire,
interni) rivenienti dall’esistenza di diritti soggettivi dei
terzi alla distanza legale;
- per sostenere che, all’esito di siffatta verifica,
l’amministrazione comunale debba negare il condono
richiestole, occorre inferire che la norma attributiva di
potere di sanatoria, lungi dall’essere indifferente ai
diritti dei terzi, vieti di rilasciare un titolo edilizio in
contrasto con questi ultimi; la tesi opposta –che predica
l’estraneità dei diritti dei terzi alla norma attributiva
del potere di sanatoria– vincolerebbe il comune al rilascio
del titolo edilizio pur nella consapevolezza che la
realizzazione del manufatto legittimato integra un illecito
civile (per violazione delle distanze); ma, in un sistema di
responsabilità civile che ha ormai riconosciuto la
possibilità di convenire in giudizio l’amministrazione
finanche per i danni cagionati dall’omessa vigilanza, la
condotta del comune che abbia consapevolmente agevolato la
lesione del diritto di proprietà di un terzo, sanando
l’edificazione del manufatto, è suscettibile di essere
considerata fonte di danni in quanto concausa dell’illecito
civile; cosicché l’amministrazione, da un lato,
sarebbe obbligata dalla norma attributiva del potere al
rilascio del titolo abilitativo e, d’altro lato,
rischierebbe di dover rispondere di tale comportamento a
titolo di responsabilità civile; di qui la ritenuta
esclusione –da parte della giurisprudenza– della
condonabilità di opere abusive eseguite in violazione delle
distanze legali, trattandosi di ipotesi esulante dalla norma
attributiva del potere di sanatoria;
- la condonabilità delle opere lesive delle distanze dai
confini e dagli edifici limitrofi, va, vieppiù, esclusa,
anche, e soprattutto, perché la disciplina urbanistica
locale in materia di distanze non è derogabile, essendo
diretta non già alla tutela di interessi privati, bensì alla
tutela di interessi generali e pubblici in materia
urbanistica, nonché ad evitare la creazione di intercapedini
antigieniche e pericolose.
Innanzitutto, è incontroverso che le opere condonate siano
state realizzate in violazione delle distanze minime che il
p.d.f. e il p.r.g. del Comune di Succivo impongono siano
rispettate tra gli edifici, nonché tra questi ultimi e i
confini.
Ebbene, a fronte di una simile fattispecie, il Collegio
ritiene di non doversi discostare dall’orientamento già
invalso presso la Sezione, secondo cui gli abusi in materia
di distanze non sono condonabili (cfr. TAR Campania, Napoli,
Sezione VIII, 14.03.2011, n. 1458; 06.11.2012, n. 4410).
In particolare, si è statuito che:
- l’amministrazione, nel concedere il titolo abilitativo in
sanatoria, può e deve considerare i limiti (per così dire,
interni) rivenienti dall’esistenza di diritti soggettivi dei
terzi alla distanza legale (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
30.12.2006 n. 8262);
- per sostenere che, all’esito di siffatta verifica,
l’amministrazione comunale debba negare il condono
richiestole, occorre inferire che la norma attributiva di
potere di sanatoria, lungi dall’essere indifferente ai
diritti dei terzi, vieti di rilasciare un titolo edilizio in
contrasto con questi ultimi; la tesi opposta –che predica
l’estraneità dei diritti dei terzi alla norma attributiva
del potere di sanatoria– vincolerebbe il comune al rilascio
del titolo edilizio pur nella consapevolezza che la
realizzazione del manufatto legittimato integra un illecito
civile (per violazione delle distanze); ma, in un sistema di
responsabilità civile che ha ormai riconosciuto la
possibilità di convenire in giudizio l’amministrazione
finanche per i danni cagionati dall’omessa vigilanza, la
condotta del comune che abbia consapevolmente agevolato la
lesione del diritto di proprietà di un terzo, sanando
l’edificazione del manufatto, è suscettibile di essere
considerata fonte di danni in quanto concausa dell’illecito
civile; cosicché l’amministrazione, da un lato,
sarebbe obbligata dalla norma attributiva del potere al
rilascio del titolo abilitativo e, d’altro lato,
rischierebbe di dover rispondere di tale comportamento a
titolo di responsabilità civile; di qui la ritenuta
esclusione –da parte della giurisprudenza– della
condonabilità di opere abusive eseguite in violazione delle
distanze legali, trattandosi di ipotesi esulante dalla norma
attributiva del potere di sanatoria (cfr. TAR Lombardia,
Brescia, sez. I, 02.11.2010, n. 4524);
- la condonabilità delle opere lesive delle distanze dai
confini e dagli edifici limitrofi, va, vieppiù, esclusa,
anche, e soprattutto, perché la disciplina urbanistica
locale in materia di distanze non è derogabile, essendo
diretta non già alla tutela di interessi privati, bensì alla
tutela di interessi generali e pubblici in materia
urbanistica, nonché ad evitare la creazione di intercapedini
antigieniche e pericolose (TAR Campania, Napoli, Sezione
VIII, 14.03.2011, n. 1458)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 17.01.2013 n. 369 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 17.06.2013 |
ã |
BRUCIARE RIFIUTI
ALL'ARIA APERTA E' REATO!!
E si badi bene che per "rifiuti" si intendono
anche, per esempio, la paglia, gli sfalci, le
potature del proprio orto e/o campo ... |
Non c'è comune,
piccolo o grande che sia, non interessato dallo
sbarbatello piromane, dal lavoratore (improvvisato)
contadino nel weekend, dal pensionato agreste (e non
solo) che si dilettano a bruciare, ad ogni ora del
giorno, sterpaglie, erba sfalciata, potature varie
per tener ben pulito il proprio orto e/o campo dove
coltivare i (costosi) ortaggi e frutti che, sempre
più gente, non può permettersi il lusso di comprarli
in negozio.
Se fosse solo materiale vegetale a bruciare si potrebbe
anche chiudere un okkio (si fa per dire ...), ma spesso e volentieri
insieme a tale materiale si brucia di tutto e di
più: plastica (liberandosi nell'aria la diossina),
carta/cartone, ecc. ... insomma, veri e propri
rifiuti di ogni genere. Invero, già a marzo/aprile
2011 davamo notizia di una nota ministeriale che
già, in un certo qual modo, ci faceva capire come
fosse non conforme alla legge tale comportamento, la
cui nota (commentata) è di seguito riproposta. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
SFALCI E POTATURE: RIFIUTI O NON
RIFIUTI?
Con la
nota 18.03.2011 prot. n. 8890, il
Ministero dell'Ambiente tenta di risolvere l'enigma
interpretativo della disposizione, introdotta con il
IV correttivo, di cui all'art. 185, co. 2, D.Lgs.
152/2006, norma dedicata alle esclusioni dall'ambito
di applicazione della Parte IV del TUA.
Il punto controverso e sul quale interviene il
Ministero è costituito dalla (infelice) formulazione
contenuta nella lettera f) dell'articolo predetto,
secondo cui sono esclusi: "le materie fecali, se
non contemplate dal paragrafo 2, lettera b), paglia,
sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o
forestale naturale non pericoloso utilizzati."
Il Ministero, riportando la norma sulla
classificazione dei rifiuti (art. 184, co. 2, lett.
e) ricorda come i rifiuti vegetali provenienti da
aree verdi quali giardini, parchi e aree
cimiteriali, sono (per l'appunto) rifiuti urbani.
Così che, al contrario, sfalci e potature per poter
essere escluse dalla normativa sui rifiuti devono
necessariamente provenire da attività agricola o
forestale.
Tertium non datur.
Provando a leggere la norma e analizzandola da un
punto di vista meramente sintattico, sembrerebbe che
la congiunzione "nonché" metta sì in
correlazione, quasi come fosse un'elencazione, "paglia,
sfalci e potature" con "altro materiale
agricolo o forestale naturale", ma non anche
qualifichi la prima parte (paglia, sfalci e
potature) come materiale agricolo o forestale
naturale o, secondo le parole utilizzate dal
Ministero, come "materiali che provengono da
attività agricola o forestale". Sembrerebbe
quasi, dunque, quella fornita dal Ministero,
un'interpretazione che si discosta dal dato
letterale della norma e che probabilmente tiene
conto della ratio sottesa alla stessa. A ben
guardare gli "sfalci e le potature" non sono
contemplate dalla Direttiva 2008/98/Ce nell'articolo
2. Esso parla di: "paglia e altro materiale
agricolo o forestale naturale non pericoloso
utilizzati".
É stato il Legislatore nazionale a trasporre la
vecchia disposizione di cui all'art. 185, co. 2 ("possono
essere sottoprodotti materie fecali e vegetali
provenienti da attività agricole") nel nuovo
testo, utilizzando tuttavia una formula che certo
non può dirsi spiccare per chiarezza. Ora, la nota
ministeriale in oggetto, nell'intento di fornire
un'interpretazione che tolga qualche ombra,
sembrerebbe restare intrappolata nella stessa
ratio che ha portato a quella formulazione, con
un evidente risultato difforme dal testo normativo e
che comunque non ha carattere vincolante,
trattandosi di una nota ministeriale.
Si segnala inoltre che "gli sfalci e le potature
provenienti dal verde pubblico e privato"
ritornano in altro testo normativo, il D.Lgs.
03.03.2011, n. 28 sulla promozione dell'uso
dell'energia da fonti rinnovabili, dove, nuovamente
discostandosi dalla corrispondente Direttiva che si
recepiva, entrano a far parte della definizione di
biomasse, accanto "alla parte biodegradabile dei
rifiuti industriali e urbani" (quest'ultima
contenuta anche nel testo della Direttiva
2009/28/Ce). (M.A.L.) (commento tratto dalla
newsletter di www.tuttoambiente.it). |
Ora, se la nota
ministeriale ha ingenerato alcuni dubbi nel
commentatore,
recentemente è
stata pubblicata una sentenza della Cassazione
penale che non lascia scampo: bruciare rifiuti
all'aria aperta è reato!!
Di seguito la sentenza. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A norma dell'art.
183, co. 1, lett. g), D.L.vo 152/2006 per
"smaltimento" deve intendersi "ogni operazione
finalizzata a sottrarre definitivamente una
sostanza, un materiale o un oggetto dal circuito
economico e/o di raccolta e, in particolare, le
operazioni previste nell'allegato B alla parte
quarta del presente decreto" (e tale allegato alla
lett. D10 fa espresso riferimento all'attività di
"Incenerimento a terra").
Quindi, bruciare a terra rifiuti è attività illecita
di smaltimento degli stessi e per rifiuti sono da
intendere anche, per esempio, la paglia, gli sfalci,
le potature.
L'art. 256 coi D.L.vo 152/2006 sanziona chiunque
effettua un'attività di raccolta, trasporto,
recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione
di rifiuti in mancanza della prescritta
autorizzazione, iscrizione o comunicazione; il
medesimo articolo 256 al comma 2 stabilisce, poi,
che le pene di cui ai comma 1 si applicano al
titolari di imprese ed ai responsabili di enti che
abbandonano o depositano in modo incontrollato i
rifiuti ovvero li immettono nelle acque superficiali
o sotterranee in violazione del divieto di cui
all'art. 192, commi 1 e 2.
I destinatari della norma di cui al comma 2 sopra
richiamata sono, quindi, esclusivamente i "titolari
di impresa" ed i "responsabili di enti",
come è confermato dall'art. 255 D.L.vo cit. che
prevede soltanto una sanzione amministrativa per
chiunque abbandoni o depositi rifiuti, facendo però
"salvo quanto disposto dall'art. 256, co. 2.".
La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente
ribadito che il reato di abbandono o deposito
incontrollato di rifiuti di cui all'art. 256, comma
secondo, del D.L.vo n. 152 del 2006 ha natura di
reato proprio, richiedendo, quale elemento
costitutivo, la qualità dì titolare di impresa o di
responsabile di ente in capo all'autore della
violazione (cfr. Cass. pen. Sez. 3 n. 5042 del
17.10.2012, secondo cui non era configurabile detto
reato, bensì l'illecito amministrativo di cui
all'art. 255, comma primo, nella condotta del
proprietario di un autoveicolo di abbandono dello
stesso in un parcheggio pubblico; conf. Cass. Sez. 3
n. 33766 del 10.05.2007).
Nel caso di specie, invece, era ipotizzato a carico
dell'indagato l'ipotesi di cui al co. 1 del D.L.vo
per aver posto in essere un'attività di smaltimento
illecito di rifiuti.
E tale condotta, secondo quanto disposto dalla norma
che fa riferimento a "chiunque", integra
un'ipotesi di reato comune che può essere commessa
anche da soggetti non titolari di impresa (dr. ex
multis Cass. pen. sez. 3 n. 7462 del 15.01.2008;
sez. 3 n. 24431 del 25.05.2011).
Come ha correttamente rilevato il ricorrente P.M., a
norma dell'art. 183, co. 1, lett. g), D.L.vo
152/2006 per "smaltimento" deve intendersi "ogni
operazione finalizzata a sottrarre definitivamente
una sostanza, un materiale o un oggetto dal circuito
economico e/o di raccolta e, in particolare, le
operazioni previste nell'allegato B alla parte
quarta del presente decreto" (e tale allegato
alla lett. D10 fa espresso riferimento all'attività
di "Incenerimento a terra") (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.04.2013 n. 15641). |
Se ciò non bastasse a convincere i refrattari (del
caso) che la
fattispecie di che trattasi ha anche risvolti
penali,
il Comando del
Corpo Forestale della Regione Sicilia ha detto la
propria (in tempi non sospetti) in conformità ai su
indicati principi.
Di seguito la nota regionale. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Art. 185 del D.Lgs. 03.04.2006 n. 152,
così come modificato dall'art. 13 del D.Lgs.
03.12.2010 n. 205 - Comunicazioni (Regione
Sicilia, Assessorato Territorio e Ambiente, Comando
del Corpo Forestale della Regione Siciliana,
Servizio Ispettorato Rip.le delle Foreste di
Messina,
nota 18.06.2011 n. 7570 di prot.). |
Non siete ancora convinti?? Allora,
si legga pure la
risposta ad uno specifico quesito pubblicato sul
sito del Corpo Forestale dello Stato
di seguito riproposto. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
E' possibile effettuare l'abbruciamento in
campo di residui vegetali derivanti da lavorazione
agricola e forestale?
Una pratica particolarmente diffusa in campo
agricolo, a seguito delle recenti modiche introdotte
dall'art. 13 del D.Lgs. 205/2010, (che ha modificato
l'art. 185 del D.Lgs. 152/2006), non può essere più
realizzata. Infatti, la norma ha stabilito che
"paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale
agricolo o forestale naturale non pericolosi", se
non utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o
per la produzione di energia mediante processi o
metodi che non danneggiano l′ambiente o mettono in
pericolo la salute umana devono essere considerati
rifiuti e come tali devono essere trattati.
La combustione sul campo dei residui vegetali
derivanti da lavorazione agricola e forestale si
configura, quindi, come illecito smaltimento di
rifiuti, sanzionabile penalmente oltre che
amministrativamente, ai sensi dell'art. 256 del
D.Lgs. 152/2006.
Si riporta per maggior completezza il testo del
sopra menzionato articolo (attività di gestione di
rifiuti non autorizzata):
"Chiunque effettua una attività di raccolta,
trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed
intermediazione di rifiuti in mancanza della
prescritta autorizzazione, iscrizione o
comunicazione di cui agli articoli 208, 209, 210,
211, 212, 214, 215 e 216 e' punito:
a) con la pena dell'arresto da tre mesi a un anno o
con l'ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila
euro se si tratta di rifiuti non pericolosi;
b) con la pena dell'arresto da sei mesi a due anni e
con l'ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila
euro se si tratta di rifiuti pericolosi. [...]".
Mentre in precedenza, quindi, i regolamenti dei
fuochi controllati in agricoltura prevedevano il
divieto di accendere fuochi solamente durante il
periodo compreso tra il 15 giugno e 15 ottobre di
ogni anno e, per i trasgressori stabilivano una
sanzione amministrativa pecuniaria di importo
compreso tra € 51,00 ed € 258,00, adesso il divieto
di bruciare sterpaglie, ramaglie e vegetazione secca
in genere è valido sempre ed è diventato reato
penale oltre a prevedere una sanzione amministrativa
minima di € 2.600,00.
Le tre attuali possibilità consentite dalla legge
per potere pulire i terreni e "smaltire i rifiuti"
senza incorrere in sanzioni sono:
1 - Depositarli nei contenitori, se in piccole
quantità;
2 - Conferirli nelle discariche pubbliche;
3 - Acquistare un trituratore degli scarti vegetali
e spargerli poi sul terreno rendendoli così un
composto organico concimante.
Le amministrazioni comunali sono tenute a mettere in
atto, attraverso i vari canali a disposizione
(incontri pubblici, manifesti, programmi
radiofonici, siti telematici, etc.), un'opera di
informazione sulle nuove disposizioni di legge e,
soprattutto, a creare le isole ecologiche comunali
dove conferire e raccogliere i residui vegetali per
il successivo corretto e legale smaltimento (tratto
da www3.corpoforestale.it). |
MORALE ?? |
E' meritoria
l'attività di pensionati/volontari della "domenica"
di tenere pulito orti e/o campi che, altrimenti,
sarebbero abbandonati a sé stessi con gli
inevitabili problemi di incuria, degrado in
termini anche igienico-sanitari. Ma è altrettanto
vero che si riesce ugualmente a raggiungere
l'obiettivo senza dover bruciare all'aria aperta di
tutto e di più,
inquinando oltre
misura questo nostro fragile pianeta Terra, sul
baratro del non ritorno in termini di
eco-sostenibilità e sopravvivenza per chi verrà dopo
di noi ...
Detto altrimenti, basta fare una buca più o meno grande
(in funzione delle proprie esigenze) nel proprio
orto/campo e buttarvi dentro tutto ciò che di
vegetale ci si vuol disfare: il mucchio di materiale
ivi allocato piano piano fermenta, si riduce
notevolmente in termini di massa e si crea un più
che ottimo concime naturale (e la cosa funziona
davvero poiché sperimentata, da chi scrive, ormai da
parecchi anni a questa parte ...).
Quindi, cerchiamo di cambiare queste usanze "contadine"
(nel senso più nobile del termine) di un tempo che
fu perché, volenti o nolenti, oggi bisogna fare i
conti con l'inesorabile progresso della civiltà
(ammesso che ci sia "vero" progresso ...)
e se non facciamo
una inversione di marcia di 180° stiamo andando,
dritti dritti, verso l'autodistruzione ...
E se il vicino di casa rombe le balle, il sabato sera o
la domenica mattina, col fumo che entra in casa
(adesso -più che mai- che abbiamo le finestre
socchiuse per il caldo estivo) perché sta bruciando
le foglie dell'orto non resta altro da fare che
telefonare: alla POLIZIA LOCALE oppure
al CORPO FORESTALE DELLO STATO oppure
alla ASL di competenza territoriale oppure,
in estrema ratio, ai CARABINIERI. |
Parola d'ordine:
SALVAGUARDARE IL PIANETA TERRA, iniziando dalle
piccole cose ... perché qui siamo tutti solo di
passaggio!! |
17.06.2013 -
LA SEGRETERIA PTPL |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Problematiche che
attengono sia alla corretta definizione ed estensione del
parere contabile, sia in ordine alla variegata casistica di
atti (rectius: di proposte di deliberazione) da sottoporre
al suddetto parere di regolarità contabile.
Il Comune di Castelfidardo, con nota a firma del suo
Sindaco, ha formulato una articolata richiesta di parere, ai
sensi dell’art. 7, comma 8, l. 05.06.2003, n. 131, in ordine
alla corretta interpretazione dell’art. 49, d.lgs.
18.08.2000, n. 267 recante il testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali, come modificato
dall’art. 3, comma 1, lett. b), d.l. 10.10.2012, n. 174,
convertito in l. 07.12.2012, n. 213.
Dopo avere riportato la disposizione previgente e quella
risultante a seguito della novella legislativa, il Comune
evidenzia “come la novella legislativa abbia apportato
rilevanti novità in tema di parere (di regolarità)
contabile, laddove si precisa che esso deve essere espresso,
da parte del responsabile del servizio finanziario, qualora
la proposta di deliberazione ‘comporti riflessi diretti o
indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul
patrimonio dell'ente’.”
Le problematiche che il Comune si pone attengono sia “alla
corretta definizione ed estensione del parere contabile, sia
in ordine alla variegata casistica di atti (rectius: di
proposte di deliberazione) da sottoporre al suddetto parere
di regolarità contabile.”
In ordine al primo aspetto, la richiesta di parere
evidenzia le “difficoltà di esprimere un corretto e
congruo parere di regolarità contabile su atti le cui
decisioni si ripercuotono solo indirettamente e con cadenze
differite nel tempo (in maniera quindi ampiamente
posticipata rispetto al momento decisionale dell’organo di
vertice) su aspetti economico-finanziari o patrimoniali
dell’ente locale (non sempre esattamente determinati o
determinabili nel momento iniziale)”.
In ordine al secondo aspetto, si citano invece le “deliberazioni
di approvazione di strumenti urbanistici (attuativi) e
relative varianti, ovvero i piani (rectius: convenzioni) di
lottizzazione, ovvero il piano triennale di
razionalizzazione delle dotazioni strumentali dell’ente, gli
atti di indirizzo di programmazione della dotazione organica
etc.” Si richiamano inoltre i “molteplici atti di
indirizzo dell’organo politico le cui ripercussioni sono
solo indirette (o mediate) perché rimesse all’attuazione dei
funzionari mediante atti di gestione autonomi e successivi.”
Ricordata la complessità (e talvolta l’impossibilità) della
esatta determinazione dei riflessi indiretti sulla
situazione economico-finanziaria o patrimoniale dell’ente,
si chiede “quale dovrebbe essere la corretta
formulazione, dal punto di vista giuscontabile, delle
proposte di deliberazione aventi i suddetti effetti
indiretti, e quale la valutazione del responsabile del
servizio finanziario in ordine al dovuto parere di
regolarità contabile” e “quali aspetti e quali limiti
il suddetto parere può (ovvero deve) incontrare nelle nuove
fattispecie delineate dall’art. 49 del d.lgs. n. 267/2000”.
In sintesi, il parere pone le seguenti puntuali questioni:
“1) Cosa si intende (dal punto di vista giuscontabile)
per ‘riflessi sulla situazione economico finanziaria e/o sul
patrimonio dell’ente’;
2) cosa si intende (dal punto di vista giuscontabile) per
‘riflessi diretti’ e (soprattutto) per ‘riflessi indiretti’,
e quale ne sia l’estensione (ovvero la più o meno ampia
portata giuscontabile);
3) nel caso di riflessi indiretti, quali siano gli oneri
(in termini di completezza ed ampiezza dell’istruttoria e di
corretta e legittima motivazione dell’atto) del responsabile
del servizio proponente (ovvero del relativo responsabile
del procedimento) nella formulazione della proposta di
deliberazione (di Giunta o di Consiglio comunale), e cioè
come debba quantificare e qualificare tali riflessi
economico-finanziari e patrimoniali;
4) nel caso di riflessi indiretti, come debba
correttamente e legittimamente esprimersi (dal punto di
vista giuscontabile) il responsabile del servizio
finanziario nell’espressione del suo parere, e cioè quale
contenuto e portata deve avere il giudizio di conformità
(contabile) da formalizzare sulla proposta dell’atto;
5) nel caso di atto di indirizzo avente effetti
economico-finanziari e/o patrimoniali indiretti (cioè di
atto espresso dall’organo politico che ponga obiettivi da
seguire, fini da attuare e modalità di azione ritenute
congrue, demandate a successivi atti esecutivi di natura
gestionali), come possa conciliarsi il dettato del nuovo
articolo 49 del D.Lgs. n. 267/2000 sul ‘nuovo’ parere di
regolarità contabile con la disposizione del medesimo
articolo che esclude l’espressione dei pareri (tecnici e
contabili) sugli atti di indirizzo.”
...
Passando al merito, l’articolo 49 del d.lgs. 18.08.2000, n.
267 nella nuova formulazione dettata dall’art. 3, comma 1,
lett. b), del d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito dalla l.
07.12.2012, n. 213, così dispone: “(Pareri dei
responsabili dei servizi).
1. Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta
e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve
essere richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità
tecnica, del responsabile del servizio interessato e,
qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla
situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell’ente,
del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità
contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione.
2. Nel caso in cui l’ente non abbia i responsabili dei
servizi, il parere è espresso dal segretario dell’ente, in
relazione alle sue competenze.
3. I soggetti di cui al comma 1 rispondono in via
amministrativa e contabile dei pareri espressi.
4. Ove la Giunta o il Consiglio non intendano conformarsi ai
pareri di cui al presente articolo, devono darne adeguata
motivazione nel testo della deliberazione.”
Tale nuova formulazione sostituisce la precedente versione
del citato articolo (in vigore fino al 07/12/2012) secondo
cui: “(Pareri dei responsabili dei servizi)
1. Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla giunta
ed al consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve
essere richiesto il parere in ordine alla sola regolarità
tecnica del responsabile del servizio interessato e, qualora
comporti impegno di spesa o diminuzione di entrata, del
responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità
contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione.
2. Nel caso in cui l’ente non abbia i responsabili dei
servizi, il parere è espresso dal segretario dell’ente, in
relazione alle sue competenze.
3. I soggetti di cui al comma 1 rispondono in via
amministrativa e contabile dei pareri espressi.”
L’art. 151, comma 5, TUEL rinvia al regolamento di
contabilità per la disciplina delle modalità con le quali il
parere di regolarità contabile deve essere reso (mentre per
quanto attiene al parere di regolarità tecnica, ben può
provvedere il regolamento di organizzazione degli uffici e
dei servizi).
Quanto all’ambito applicativo della norma in esame, va
ricordato che la richiesta di parere è obbligatoria solo in
presenza di una proposta di deliberazione sottoposta al
Consiglio o alla Giunta comunale che non sia “mero atto
di indirizzo”.
Il giudice amministrativo, nel valutare la fondatezza di
motivi di ricorso incentrati sulla violazione dell’art. 49
del TUEL, ha affermato che nel concetto di
“mero atto di indirizzo” rientrano le scelte di
programmazione della futura attività, che “necessitano di
ulteriori atti di attuazione e di recepimento” da
adottarsi da parte dei dirigenti preposti ai vari servizi,
secondo le proprie competenze
(cfr. TAR Piemonte, sez. II, sent. 14.03.2013, n. 326).
D’altro canto, quale criterio discretivo, si è rilevato il “contenuto
dispositivo puntualmente determinato che non lascia alcun
margine valutativo al susseguente atto di esecuzione”
(TAR Lombardia, sede di Milano, sez. III, sent. 10.12.2012,
n. 2991 in fattispecie relativa a delibera consiliare di
acquisizione sanante ex art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001).
In definitiva, “hanno natura di
indirizzo gli atti che, senza condizionare direttamente la
gestione di una concreta vicenda amministrativa,
impartiscono agli organi all’uopo competenti le direttive
necessarie per orientare l’esercizio delle funzioni ad essi
attribuite in vista del raggiungimento di obiettivi
predefiniti.”
(così TAR Campania, Salerno, sez. II, sent. 12.04.2005, n.
531).
Il significato del concetto di “mero atto di indirizzo”
viene altresì desunto dalle affermazioni giurisprudenziali
in ordine ai profili processuali dell’interesse a ricorrere
connessi alla lesività dell’atto. Anche per questi aspetti,
si è sottolineato che l’atto di indirizzo
politico “potrebbe consistere, nel caso, nella
manifestazione di una volontà tesa a porre obiettivi per
l’attività di livello normativo spettante ad organi comunali”
e che dirimente “è il rilievo che il contenuto dell’atto
consiste nella pretesa e conclamata volontà di tutelare un
interesse pubblico specifico con riferimento ad un caso
concreto, con un’integrale corrispondenza alla tipologia
dell’atto amministrativo provvedimentale”
(così Cons. Stato, sez. VI, dec. 10.10.2006, n. 6014).
Sotto questo profilo, la novella del 2012 non ha inciso. Il
problema segnalato dalla richiesta di parere (e
puntualizzato al n. 5 della elencazione finale) è quindi di
mero fatto e va risolto applicando i principi dianzi
ricordati alla concreta formulazione e portata della
proposta di deliberazione.
La novità precettiva che l’art. 3, comma 1,
lett. b), del d.l. n. 174 del 2012 ha apportato all’art. 49
del TUEL consiste essenzialmente nell’avere sostituito
l’espressione “qualora comporti impegno di spesa o
diminuzione di entrata” con “qualora comporti
riflessi diretti o indiretti sulla situazione
economico-finanziaria o sul patrimonio dell’ente”.
Il significato da dare a tale scelta del
legislatore è certamente quello di un ampliamento dei casi
in cui è necessario il parere di regolarità contabile, con
l’assegnazione al responsabile di ragioneria di un ruolo
centrale nella tutela degli equilibri di bilancio dell’ente.
Tale interpretazione è rafforzata dall’introduzione del
comma 4 che, ferma rimanendo la valenza non vincolante del
parere (e non potrebbe essere altrimenti, pena l’esercizio
sostanziale da parte della struttura burocratica di
competenze attribuite ad organi diversi),
ha significativamente previsto un onere di motivazione
specifica del provvedimento approvato in difformità dal
parere contrario reso dai responsabili dei servizi.
La predetta scelta del legislatore è, infine, coerente con
l’ampliamento delle ipotesi di parere che l’organo di
revisione deve rendere, unito alla previsione espressa del
loro contenuto e dei criteri da seguire (cfr. art. 239,
commi 1 e 1-bis, TUEL).
La nuova formulazione dell’art. 49 consente di ritenere che
nel concetto di “riflessi diretti” siano
ricompresi certamente gli effetti finanziari già descritti
nella disposizione previgente (“impegno di spesa o
diminuzione di entrata”), ma anche le variazioni
economico-patrimoniali conseguenti all’attuazione della
deliberazione proposta
(come già suggerito dal punto 65 del principio contabile n.
2).
Quanto all’espressione “riflessi
indiretti”, non vi è dubbio che questa possa ingenerare
problemi applicativi, sotto il profilo della estensione del
rapporto “causa-effetto” astrattamente ipotizzabile
tra il contenuto della proposta di deliberazione sottoposta
a parere e la situazione economico-finanziaria o
patrimoniale dell’ente.
Il criterio interpretativo deve pertanto essere incentrato
sulla probabilità che certe conseguenze si verifichino
nell’esercizio finanziario in corso o nel periodo
considerato dal bilancio pluriennale. Ulteriore criterio
utile a definire l’ambito di applicazione della norma è il
vincolo del rispetto dell’equilibrio del bilancio, oggi
costituzionalizzato nel novellato art. 119, comma 1, Cost.
(in vigore dal 2014).
Quanto alle modalità di espressione del parere, il Comune di
Castelfidardo richiama la variegata casistica di
deliberazioni che un ente locale può adottare,
interrogandosi sul contenuto e la portata che i pareri di
cui all’art. 49 TUEL debbono avere con riferimento ai
riflessi indiretti. Appare difficile indicare un criterio
uniforme, poiché il tema della quantificazione degli oneri o
delle conseguenze economico-patrimoniali conseguenti
all’esecuzione di un provvedimento amministrativo risente
dell’applicazione della normativa di natura sostanziale
disciplinante una determinata materia e, soprattutto,
risente dell’ineliminabile scostamento tra la mera
previsione e la realizzazione effettiva di un dato fenomeno
incidente sugli equilibri di bilancio o patrimoniali.
Occorre comunque ricordare che
l’accuratezza dell’istruttoria tecnica costituisce un
elemento da verificare e riscontrare ai fini del rilascio di
parere positivo, sia di regolarità tecnica che di regolarità
contabile.
Infatti, il punto 65 del principio contabile n. 2 si esprime
nel senso che “il parere di regolarità
contabile dovrà tener conto, in particolare, delle
conseguenze rilevanti in termini di mantenimento nel tempo
degli equilibri finanziari ed economico-patrimoniali”.
Si deve pertanto ritenere, anche alla luce dei rafforzati
vincoli di salvaguardia degli equilibri di bilancio, che
il responsabile del servizio interessato avrà
l’onere di valutare gli aspetti sostanziali della
deliberazione dai quali possano discendere effetti
economico-patrimoniali per l’ente. Il responsabile di
ragioneria, pur senza assumere una diretta responsabilità in
ordine alla correttezza dei dati utilizzati per le predette
valutazioni, dovrà verificare che il parere di regolarità
tecnica si sia fatto carico di compiere un esame
metologicamente accurato.
Sotto questo profilo, si segnala la portata delle modifiche
che, con lo stesso d.l. n. 174 del 2012, sono state
apportate all’art. 153, commi 4 e 6, TUEL volte a rafforzare
il ruolo del responsabile del servizio finanziario.
Ulteriori spunti ricostruttivi possono ricavarsi dal comma
1-bis dell’art. 239 TUEL, introdotto dal d.l. n. 174 del
2012, nella parte in cui richiama i concetti di congruità,
coerenza e attendibilità delle previsioni di bilancio e dei
programmi e progetti (almeno per alcune significative
tipologie di provvedimenti che di regola producono riflessi
indiretti, quali quelle di cui alla lett. b), nn. 3 e 5).
A fini di completezza, infine, è opportuno ricordare che
la formulazione del parere è necessaria non soltanto
sulla proposta di deliberazione, ma anche sugli emendamenti
che alla stessa vengano presentati nel corso dell’esame da
parte dell’organo deliberante. Infatti, “se si accedesse
alla tesi … per cui la presentazione di emendamenti esime
dalla formulazione del parere, la portata precettiva del
citato art. 53 (oggi art. 49 TUEL) sarebbe stata agevolmente
aggirabile (e, dunque, vanificata), mediante il ricorso ad
un diverso procedimento di formazione della decisione
amministrativa. In realtà, se è vero che la presentazione
dell’emendamento strutturalmente si colloca in una fase
procedimentale di norma successiva alla conclusione
dell’iter svolto dagli uffici, è altrettanto vero che … la
proposta di deliberazione e l’emendamento sono, da un punto
di vista funzionale, atti di iniziativa procedimentale del
tutto identici, differenziandosi solo quanto alla
provenienza, sicché sarebbe artificioso, e irragionevolmente
discriminatorio, ritenere assoggettata all’obbligo del
parere preventivo solo la prima e non anche il secondo.”
(così TAR Sicilia, Palermo, sez. II, sent. 28.12.2007, n.
3507, para 3., confermata con motivazione conforme da Cons.
Giust. Amm. Siciliana, sent. 04.02.2010, n. 105, para 1.1) (Corte dei Conti,
Sez. controllo Marche,
parere
05.06.2013 n. 51). |
ATTI AMMINISTRATI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Indirizzi inerenti il riassetto del sistema dei
controlli interni degli EE. LL. conseguenti all'art. 3,
comma 2, del D.L. n. 174/2012 e relativa legge di
conversione
(Corte
dei Conti, Sez. controllo Lazio,
deliberazione 06.03.2013 n. 25).
---------------
L’art. 3, comma 2, del d.l. n. 174/2012, nel contesto
della disciplina di riordino e riassetto del sistema dei
controlli interni presso gli Enti Locali prevede l’adozione
di norme regolamentari da parte dei Consigli comunali atte a
definire “gli strumenti e le modalità” di tale sistema, da
adottare entro il termine di mesi tre dalla data di entrata
in vigore della norma, “dandone comunicazione al Prefetto ed
alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti”.
Venuto a scadenza in data 10 gennaio u.s. il predetto
termine, appare opportuno definire le linee operative con le
quali la Sezione procederà a vigilare sull’osservanza
dell’adempimento di cui trattasi, nonché a curarne il
seguito. (... CONTINUA). |
UTILITA' |
CONDOMINIO: 18.06.2013:
inizia il conto alla rovescia per la riforma del condominio!
Per i lettori di BibLus-net lo Speciale con tutte le novità.
E’ ufficialmente partito il conto alla rovescia per
l’entrata in vigore della riforma del condominio.
La riforma (Legge 220/2012) attesa da oltre 70 anni entra in
vigore il prossimo 18 giugno.
Tante sono le novità introdotte, tra cui nuovi requisiti e
obblighi per l’amministratore, ridefinizione dei quorum per
le assemblee, obbligo del conto corrente, decreto ingiuntivo
per condomini morosi, apertura del sito internet
condominiale.
Dal 18 giugno, dunque, cambiano le regole!
Allo scopo di fornire ai lettori una guida con le novità
contenute nella legge 220/2012, la redazione di BibLus-net
ha realizzato uno
speciale interamente dedicato alla Riforma del Condominio.
Il documento allegato a questo articolo propone un’ampia e
agile sintesi della Riforma ed è divisa in quattro sezioni:
◾ L’amministratore
i requisiti, la nomina e la revoca, la polizza assicurativa,
il sito web, il conto corrente condominiale, la tenuta dei
registri, la riscossione forzosa dei crediti
◾ Le parti comuni
la modifica della destinazione d’uso, l’installazione di
antenne e pannelli solari, il distacco dall’impianto
centralizzato, le innovazioni agevolate, la
videosorveglianza
◾ Il regolamento e l’assemblea
i quorum, le sanzioni, gli animali domestici, la delega, la
convocazione
◾ Il bilancio, le tabelle e le spese
il rendiconto annuale e il registro di contabilità, la
revisione delle tabelle, il recupero dei crediti, la
solidarietà passiva
Sono presenti, inoltre, 4 utilissime Appendici che
contengono:
◾ Tavola sinottica degli adempimenti dell’amministratore
◾ Tabella delle nuove maggioranze assembleari
◾ Tavole sinottiche delle modifiche normative
◾ Tutta la disciplina del condominio dopo la riforma
(13.06.2013 - link a www.acca.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 12.06.2013, "Criteri
e modalità per l’anno 2013 per l’erogazione dei contributi
agli enti locali ed agli enti gestori delle aree regionali
protette per l’esercizio delle funzioni paesaggistiche loro
attribuite (art. 79, l.r. 12/2005)"
(decreto
D.S. 06.06.2013 n. 4841). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 10.06.2013, "Quarto
aggiornamento 2013 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r 12/2005,
art. 80)" (deliberazione
D.G. 06.06.2013 n. 4842). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 10.06.2013, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 31.05.2013, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 03.06.2013 n. 69). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
F. Venturi,
Limiti alla potestà regolamentare comunale in tema di
inquinamento elettromagnetico (04.06.2013 - link
a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
S. Pollastrini e L. Ruggeri,
La concessione in sanatoria e gli orientamenti della
giurisprudenza
(Il Tecnico Legale n. 6/2013). |
EDILIZIA PRIVATA: G.
V. Tortorici,
I vizi di costruzione (Il Tecnico Legale n.
6/2013). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/
L'assessore non decade. È revocabile se viene meno il legame fiduciario.
La protratta assenza dalla giunta
può essere valutata dal sindaco.
Qual è l'applicabilità, nell'ambito del vigente ordinamento,
dell'art. 289 del rd n. 148 del 1915 che prevede l'istituto
della decadenza dalla carica di assessore per ingiustificata
assenza a tre sedute consecutive della giunta comunale?
Il legislatore statale prevede l'ipotesi della decadenza per
mancata partecipazione alle sedute con esclusivo riferimento
alla carica di consigliere all'art. 43, ultimo comma, del
Tuel n. 267/2000; tale norma va letta in combinato disposto
con l'art. 273, co. 6 del medesimo Tuel n. 267 in base al
quale, nelle more dell'adozione della prescritta disciplina
statutaria, trova applicazione, per il profilo considerato,
il disposto dell'art. 289 del Tulcp n. 148/1915.
Nulla di analogo si prevede, alla stregua del vigente
ordinamento, per la carica di assessore, a differenza di
quanto previsto dal pregresso ordinamento (v. art. 289, co.
2, del citato Tulcp n. 148/1915).
Tale circostanza è da imputarsi alla configurazione della
giunta quale organo fiduciario, di diretta collaborazione
con il sindaco che dispone, fra l'altro, del potere di
revoca dell'assessore allorché venga meno il rapporto di
fiducia alla base dell'investitura a tale carica per le più
svariate cause, ivi compresa la protratta e ingiustificata
assenza alle sedute.
Ai sensi dell'art. 46, comma 4, del dlgs n. 267 del 2000, è
previsto che «il sindaco e il presidente della provincia
possano revocare uno o più assessori, dandone motivata
comunicazione al consiglio».
Secondo una consolidata giurisprudenza, «la valutazione
degli interessi coinvolti nel procedimento di revoca di un
assessore è rimessa in via esclusiva al titolare politico
dell'amministrazione, cui competono in via autonoma la
scelta e la responsabilità della compagine di cui avvalersi
per l'amministrazione dell'ente nell'interesse della
comunità locale» (Consiglio di stato, V sez, n. 803 del
16.02.2012)
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Sospensione del sindaco.
Il sindaco di un comune è stato sospeso dalle sue funzioni a
seguito di un apposito provvedimento del prefetto e
successivamente ha rassegnato le proprie dimissioni.
Il vicesindaco, che ne ha assunto i poteri ai sensi
dell'art. 53, comma 2, del dlgs n. 267 del 2000, può
esercitare il diritto di voto nell'ambito del consiglio
comunale nel caso in cui il comune abbia una popolazione
maggiore di 15 mila abitanti?
La tematica inerente il perimetro dei poteri del vicesindaco
è stata oggetto di due pareri del Consiglio di stato il n.
94/96 del 21/02/1996 e n. 501, del 14.06.2001.
Nel primo, il Consiglio di stato ha ritenuto che nei comuni
con popolazione superiore a 15 mila abitanti, in cui vige la
regola dell' incompatibilità tra la carica di assessore e
quella di consigliere, il vicesindaco non può far parte del
consiglio, con diritto di voto.
Ciò in quanto non pare concepibile che tali funzioni
«vengano esercitate di volta in volta dal sindaco o da chi
ne fa occasionalmente le veci, in pratica da un delegato.
Nel nostro ordinamento, infatti, non è ammessa delega o
sostituzione nelle funzioni di componente delle assemblee
elettive».
Il successivo parere del Consiglio di stato, intervenuto
nuovamente sulla medesima tematica dei poteri del
vicesindaco, non ha contraddetto la precedente pronuncia,
pur non soffermandosi sulla specifica questione.
Pertanto, non può che confermarsi l'orientamento secondo il
quale il vicesindaco non può esercitare le funzioni di
componente, con diritto di voto, del consiglio comunale
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2013). |
APPALTI:
Avvalimento in materia di gare pubbliche, quale la finalità
dell'istituto?
Domanda
In materia di gare di appalto l'istituto dell'avvalimento
(art. 49, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 - Codice degli appalti)
è di immediata e generale applicazione. L'istituto, di
matrice comunitaria, è finalizzato a consentire in concreto
la concorrenza aprendo il mercato ad operatori economici di
per sé privi di requisiti di carattere
economico-finanziario, tecnico-organizzativo, consentendo di
avvalersi dei requisiti di capacità di altre imprese.
Risposta
La finalità dell'avvalimento non è quella di arricchire la
capacità (tecnica o economica che sia), del concorrente, ma
quella di consentire a soggetti che ne siano privi di
concorrere alla gara ricorrendo a requisiti di altri
soggetti se e in quanto da questi integralmente e
autonomamente posseduti, in coerenza con la normativa
comunitaria sugli appalti pubblici che è volta in ogni sua
parte a far si che la massima concorrenza sia anche
condizione per la più efficiente e sicura esecuzione degli
appalti.
La formulazione dell'art. 49, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163
(Codice degli appalti) è molto ampia e non prevede alcun
divieto, sicché ben può l'avvalimento riferirsi anche alla
certificazione di qualità di altro operatore economico,
attenendo essa ai requisiti di capacità tecnica.
Nelle gare d'appalto, l'avvalimento deve essere reale e non
formale, nel senso che non può considerarsi sufficiente "prestare"
la certificazione posseduta, giacché in questo modo verrebbe
meno la stessa essenza dell'istituto, finalizzato, come si è
detto, a consentire a soggetti che ne siano sprovvisti di
concorrere alla gara ricorrendo ai requisiti di altri
soggetti, garantendo nondimeno l'affidabilità dei lavori,
dei servizi o delle forniture appaltati.
Ne consegue, per la giurisprudenza (TAR Lazio-Roma Sez.
III-quater, 05.02.2013, n. 1258) che, perché il ricorso
all'istituto dell'avvalimento sia legittimo, occorre
l'espresso impegno da parte dell'impresa ausiliaria, nei
confronti dell'impresa ausiliata e della stazione
appaltante, di mettere a disposizione per tutta la durata
dell'appalto le risorse necessarie di cui è carente il
concorrente (10.06.2013 - tratto da www.ispoa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: AUA:
Quale è la procedura per il rilascio? (10.06.2013
- link a www.ambientelegale.it). |
SINDACATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
LA DISCIPLINA DELLE ASSUNZIONI NEGLI ENTI LOCALI
- ovvero il rischio che le procedure per assumere il
personale costituiscano una vera e propria fatica di Sisifo
(CGIL-FP di Bergamo, Il foglio dei lavoratori della Funzione
Pubblica
numero speciale giugno 2013). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Decreto Legge 04.06.2013 n. 63: recepita la
Direttiva 2010/31/UE (ANCE Bergamo,
circolare 14.06.2013 n. 140). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Decreto Legge n. 63 del 04.06.2013 pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale n. 130 – Modifiche alla disciplina
della detrazione IRPEF del 36% per interventi di recupero e
alla disciplina della detrazione di imposta del 55% per
interventi di riqualificazione energetica (ANCE Bergamo,
circolare 14.06.2013 n. 139). |
EDILIZIA PRIVATA:
Termoregolazione, sanzioni sospese fino al 2016.
L'applicazione delle sanzioni per chi
non ha installato i dispositivi per la termoregolazione e la
contabilizzazione del calore è sospesa fino al 31.12.2016.
Lo rende noto l'assessore regionale all'Ambiente, Energia e
Sviluppo sostenibile Claudia Maria Terzi, spiegando che la
deroga è contenuta nella proposta di Progetto di legge
sull'assestamento al bilancio per l'esercizio finanziario
2013 e al bilancio pluriennale 2013/2015 approvata dalla
Giunta regionale.
"L'obbligo dell'installazione resta -precisa
l'assessore-, ma con questo intervento lasceremo più tempo
alle famiglie per adeguarsi. I costi di installazione delle
valvole termostatiche, infatti, sono molto onerosi, così
come le sanzioni".
UNA DECISIONE MOTIVATA ANCHE DALLA CRISI
- Una decisione che va incontro alla richiesta avanzata dal
Consiglio regionale, che, l'8 maggio 2012, aveva approvato
una mozione in cui era contenuta l'indicazione di tener
conto delle specifiche condizioni ambientali locali,
dell'attuale crisi occupazionale e della gravosità
finanziaria di tali nuove spese anche per differire nel
tempo l'applicazione della norma.
"Tornare indietro -continua Terzi- non sarebbe stato
praticabile, né tantomeno opportuno. Differire
l'applicazione della norma avrebbe infatti significato
semplicemente spostare in là un problema che invece va
affrontato in ottemperanza alle norme nazionali sulla
riduzione dell'inquinamento. Inoltre, chi nel frattempo si è
già adeguato si sarebbe trovato beffato".
I VANTAGGI DELLA TERMOREGOLAZIONE
- "La soluzione individuata -conclude Terzi- non deroga
affatto sulla necessità di installare le termovalvole, che
peraltro comportano notevoli vantaggi in termini economici e
ambientali grazie a un risparmio energetico medio del 20 per
cento, con un conseguente rientro dell'investimento in circa
6 anni. I costi di un'applicazione immediata però sarebbero
stati davvero pesanti in un momento come questo per le
famiglie, che già devono sostenere l'Imu. Ora sarà possibile
adeguarsi in tempi più distesi e senza il pericolo di multe".
Sulla base dei dati rilevati dal Catasto regionale degli
impianti termici la disposizione coinvolge oltre 181.000
impianti e 1,9 milioni di utenze (13.06.2013 - link a
www.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Legge 07.08.1990, n. 241 e successive modificazioni, artt.
14 ss. - Disciplina della conferenza dei servizi
(Ministero per i Beni e delle Attività Culturali,
Segretariato generale,
circolare 29.05.2013 n. 26).
---------------
M. Acquasaliente,
Come si coordina l’autorizzazione paesaggistica con la
conferenza di servizi?
Il Ministero per i Beni e le Attività Culturali –
Segretariato Generale, con la circolare n. 26 del
29.05.2013, coordina le norme degli artt. 14 e ss. della l.
n. 241/1990 (concernenti al conferenza di servizi) con la
normativa prevista dall’art. 146 del D. Lgs. n. 42/2004
(riguardante l’autorizzazione paesaggistica).
In particolare la circolare recepisce il parere dell’Ufficio
legislativo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali
del 23.04.2013 laddove afferma che: “l’amministrazione
procedente (Regione o Comune subdelegato) può indire la
conferenza di servizi, per un intervento richiedente
l’autorizzazione paesaggistica, solo se, richiesto il parere
vincolante della Soprintendenza, questa non lo ha
pronunciato nel termine di quarantacinque giorni (ai sensi
dell’art. 146, comma 8, del Codice di settore, che prevale,
in quanto norma speciale, sulla previsione generale di
trenta giorni contenuta nel ripetuto articolo 14 della legge
generale sul procedimento amministrativo), oppure quando,
nel termine suddetto la Soprintendenza ha espresso un parere
negativo”.
Le medesime considerazioni valgono anche per lo Sportello
Unico delle Attività Produttive (SUAP) e per lo
Sportello Unico per l’Edilizia (SUE) per i quali: “resta
ius receptum il principio per cui gli sportelli unici
svolgono funzioni esclusivamente di front office con i
cittadini, ma non alterano il quadro distributivo delle
competenze”. Con riferimento al SUAP il parere
sottolinea che: “presupposto perché l’amministrazione
procedente, ai fini dell’autorizzazione paesaggistica, vada
avanti prescindendo dal parere del Soprintendente, è che sia
“scaduto il termine previsto per le altre amministrazioni
per pronunciarsi sulle questioni di loro competenza”,
mentre in relazione al SUE si legge: “nel secondo caso
(sportello unico per l’edilizia), l’articolo 5 del d. P.R.
06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia) recepisce
ed esplica anch’esso i due principi fondamentali già sopra
evidenziati: a) lo sportello unico è solo un ufficio di
smistamento di atti nei confronti dell’utenza, ma non
sostituisce, né assorbe le competenze ordinarie delle altre
amministrazioni coinvolte; b) la conferenza di servizi è
solo eventuale e può essere indetta unicamente dopo
l’inutile decorso dei termini per l’acquisizione del parere
vincolante del Soprintendente, ai sensi dell’articolo 146
del Codice di settore, secondo le modalità e le regole
generali degli articoli 14 e seguenti della legge n. 241 del
1990”.
Riassumendo quanto esposto: “a) non è
possibile indire validamente la conferenza di servizi se non
dopo l’inutile decorso del termine di quarantacinque giorni
previsto dal comma 9 dell’articolo 146 cit. per
l’espressione del parere del Soprintendente, ivi previsto (e
ciò in ogni caso, anche allorquando al conferenza di servizi
sia indetta dallo sportello unico per le attività produttive
o dallo sportello unico per l’edilizia, atteso che le
relative discipline speciali non derogano, ma rinviano alle
norma comuni di cui agli articoli 14 e seguenti della legge
n. 241 del 1990);
b) non può ritenersi validamente acquisito, ai sensi del
comma 7 dell’articolo 14-ter cit., il parere favorevole
della Soprintendenza ove la conferenza di servizi sia stata
indetta in assenza dell’apposito calendario almeno
trimestrale previsto o sia stata celebrata in una data non
inclusa nel predetto calendario”
(tratto da e link a http://venetoius.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Oggetto: progetto di ricerca "Le terre da esplorare.
Interventi di trasformazione del territorio - individuazione
delle misure necessarie per il corretto inserimento", da
inquadrarsi fra le attività di competenza della Direzione
generale PaBAAC con finalità di indirizzo della
pianificazione paesaggistica e di carattere propedeutico
alla definizione delle linee guida per l'assetto del
territorio ex art. 145 del Codice dei beni culturali e del
paesaggio - Rapporto intermedio (Fase II) (Ministero per
i Beni e le Attività Culturali, Direzione generale per il
paesaggio, le belle arti, l'architettura e l'arte
contemporanee,
circolare 08.02.2013 n. 8). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Approvazione dello schema generale di
convenzione con le Regioni ai sensi dell'art. 156, comma 2,
del "Codice dei beni culturali e del paesaggio" - D.M.
26.05.2011
(Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione
generale per il paesaggio, le belle arti, l'architettura e
l'arte contemporanee,
circolare 24.01.2013 n. 5). |
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI:
Obblighi di trasmissione delle informazioni all’Avcp.
Posticipato al 31.01.2014 il termine previsto per la
trasmissione all’Autorità dei dati e delle informazioni
(art. 1, c. 32, L. n. 190/2012).
Emanato il
comunicato 13.06.2013 del Presidente “Chiarimenti in
merito alla deliberazione n. 26 del 22.05.2013 (Prime
indicazioni sull’assolvimento degli obblighi di trasmissione
delle informazioni all’Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, ai sensi
dell’art. 1, comma 32, della legge n. 190/2012).”
Il Comunicato sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale (link
a www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI:
Modificati i termini di decorrenza dell’obbligo
di verifica dei requisiti attraverso il sistema AVCPASS.
Al fine di consentire agli Operatori Economici e alle
Stazioni Appaltanti di adeguarsi gradualmente alle nuove
modalità di verifica dei requisiti attraverso l’utilizzo del
sistema AVCPASS, l’Autorità ha accolto le richieste,
ricevute dal mercato, rimodulando il regime transitorio
previsto dalla Deliberazione n. 111/2012.
Per questo motivo i termini di decorrenza dell’obbligo di
verifica dei requisiti attraverso il sistema AVCPASS sono
stati modificati.
I nuovi termini sono contenuti nel
comunicato 12.06.2013 del Presidente dell’Autorità: "Modifiche
alla deliberazione n. 111 del 20.12.2012 per l’“Attuazione
dell’art. 6-bis del d.lgs. 163/2006 introdotto dall'art. 20,
comma 1, lettera a), legge n. 35 del 2012” (link
a www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI: La
scadenza. Le istruzioni dell'Avcp.
Online in settimana i dati sugli appalti.
Le Pa, le partecipate e controllate devono entro il 15
giugno pubblicare i dati di sintesi su tutti gli appalti del
2012 e comunicare l'avvenuto adempimento all'Autorità sui
contratti.
L'Autorità ha definito con la
deliberazione 22.05.2013 n. 26 le
informazioni essenziali che ogni stazione appaltante
pubblica dovrà pubblicare sulla sezione «amministrazione
trasparente» del proprio sito (articolo 1, comma 32, della
legge 190/2012). L'operazione andrà effettuata a regime
entro il 31 gennaio di ogni anno per gli appalti dell'anno
precedente (ferma restando la pubblicazione progressiva
delle informazioni relative a ciascun appalto).
La tabella riassuntiva individua per ogni affidamento,
indipendentemente dal valore, gli elementi che lo
identificano (facendo leva sul Cig) e che ne delineano il
percorso di aggiudicazione (procedura, elenco concorrenti,
aggiudicatario, importo appalto, ecc.). Nella tabella vanno
indicati anche i tempi di completamento del l'appalto e
l'importo pagato. La pubblicazione deve essere in XML e la
licenza d'uso non potrà prevedere limitazioni rispetto a
quanto stabilito dalla legge 190/2012: per i fruitori,
quindi, dovrà esservi la possibilità si scaricare
liberamente i documenti e di rielaborare i dati. L'Autorità
effettuerà verifiche-test tra il 1° gennaio e il 30 aprile
di ogni anno con accessi a breve distanza. Qualora gli
accessi non consentano la disponibilità dei dati, la
stazione appaltante sarà considerata inadempiente, con
conseguente segnalazione alla Corte dei conti.
Insieme alla pubblicazione sul sito, le amministrazioni
devono comunicare le informazioni alla stessa Autorità, ma
l'adempimento è assolto con le comunicazioni obbligatorie al
l'Osservatorio previste dal l'articolo 7 del Codice
contratti per gli affidamenti sopra 40mila euro. Per quelli
inferiori, la comunicazione è assolta con la pubblicazione
sul profilo di committente e i dati per l'acquisizione del
Cig. Per assicurare l'effettività dell'adempimento, le
stazioni appaltanti dovranno inviare via Pec all'Autorità,
sempre entro il 15 giugno, un attestato della pubblicazione
delle schede sugli affidamenti, comprensiva del
l'indicazione dell'url del sito, inoltrandola mediante posta
elettronica certificata.
L'Autorità precisa come i soggetti che abbiano già
effettuato comunicazioni finalizzate a dare esecuzione alle
norme della legge anticorruzione debbano adeguarsi alle
nuove modalità sempre entro il 15 giugno (articolo
Il Sole 24 Ore del 10.06.2013). |
CORTE DEI CONTI |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Deliberazione Corte dei conti: bene i risparmi, ma troppe
ritrosie.
P.a., l'e-market non va. Forniture lente e pochi servizi
postvendita.
L'introduzione dell'obbligo di effettuare gli acquisti sul
mercato elettronico ha certamente portato giovamenti
gestionali alla pubblica amministrazione, ma è innegabile
che ancora oggi si nota una certa ritrosia ad avvalersi di
tale sistema. Infatti, se da un lato sono stati ridotti i
costi sotto il profilo del risparmio di risorse nel processo
di acquisizione ed è stata data la possibilità di
confrontare i prezzi e scegliere il prodotto più aderente
alla proprie necessità, dall'altro si nota in alcuni casi,
l'attuazione di veri e propri «sotterfugi» per sottrarsi
alle regole del mercato elettronico.
Molti anche i problemi rilevati nelle procedure di acquisto.
Tra questi, la presenza di beni con un prezzo superiore a
quello rilevabile sul mercato libero e l'imposizione, a
volte, di lotti minimi di acquisto eccedenti i fabbisogni
effettivi delle amministrazioni.
Queste considerazioni
emergono dalla lettura della
deliberazione
06.06.2013 n. 3 della
Corte dei conti - Sezione centrale di controllo sulle
amministrazioni statali sullo stato degli strumenti di
acquisto informatici.
L'indagine ha evidenziato che il ricorso al Me.Pa. (acronimo
di Mercato elettronico per la Pubblica amministrazione),
introdotto ormai da dieci anni, non è avvenuto nella stessa
misura da parte di tutte le amministrazioni, nonostante
l'obbligo di acquistare su tale mercato beni e servizi
inferiori alla soglia comunitaria sia in vigore dal 2007 e
reso più stringente dalle disposizioni introdotte con il dl
n. 95/2012. Tranne i casi «eccezionali» legati alla
particolarità del settore merceologico di interesse, la
Corte ha rimarcato sull'inderogabilità delle disposizioni in
materia di ricorso a tutti gli strumenti informatici di
acquisto.
In particolare, si legge, con oltre un milione di
prodotti disponibili sul mercato, è avvenuto che il rifiuto
posto da alcune amministrazioni ad acquistare
telematicamente, adducendo motivazioni «irrilevanti» quali
l'esteticità del bene o la mancanza di fiducia sul
fornitore, siano da ritenere delle vere e proprie «clausole
di stile» addotte per ricorrere al mercato libero. La
raccomandazione, quindi, è quella di acquisire il bene sul
libero mercato, solo dopo aver condotto una ricerca presso
tutti i bandi aperti sul mercato, al fine di accertarsi
dell'esistenza del bene o del servizio richiesto.
Altra nota dolente rilevata dai magistrati contabili è
quella riferita alla cronica mancanza di fondi che alcuni
dicasteri hanno fornito durante l'istruttoria. In
particolare, i ministeri dello sviluppo economico, della
giustizia, delle politiche agricole, infrastrutture e
trasporti e quello della giustizia, hanno lamentato la
difficoltà di programmare annualmente i propri fabbisogni a
causa delle limitate risorse disponibili. Per la Corte,
però, questo non può impedire la programmazione degli
acquisti. Anzi, vista l'aria che tira, è sempre preferibile
l'avvio di una oculata programmazione, in quanto, in caso
contrario, la spesa potrebbe aumentare proprio a causa del
ricorso al libero mercato per gli acquisti in urgenza.
Infine, la Corte ha riscontrato che molte P.a. hanno
lamentato che sul Me.Pa. i fornitori talvolta impongano
lotti minimi di acquisto per quantità che superano gli
effettivi fabbisogni. Il suggerimento dei magistrati
contabili, su questo versante, è che le amministrazioni
potrebbero costituirsi in «gruppi di acquisto», con
la funzione di aggregare la domanda così da acquistare i
beni che effettivamente necessitano.
Infine, alcune P.a. hanno lamentato che alcuni beni, a
parità di qualità, sul mercato elettronico hanno un prezzo
superiore a quello del mercato libero. La soluzione? Per la
Corte occorre procedere all'acquisto non con un ordine
diretto, ma con una richiesta di offerta. In pratica, le
amministrazioni dovrebbero contrattare con il fornitore,
accordandosi per un prezzo inferiore a quello di listino.
Senza dimenticare che in molti casi le amministrazioni
vengono lasciate al loro destino nella delicata fase del
postvendita, in particolare, nel mancato rispetto dei tempi
di consegna del bene
(articolo ItaliaOggi del 12.06.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Effetto prenotativo ai fini dell'art. 1, comma 557, legge
296/2006.
La Corte dei Conti, sezione regionale Lombardia,
sull'aspetto in contesto, richiama il parere della
sezione Basilicata n. 2 del 23.02.2012 secondo la quale:
"... la programmazione di nuove assunzioni con avvio delle
relative procedure determina un 'effetto prenotativo' nella
stesso anno sulle relative somme ai soli fini del disposto
di cui all'art. 1, comma 557, della legge 27.12.2006,
n. 296, senza che ciò comporti una prenotazione d'impegno in
senso contabile. Ne consegue che quando e se nell'anno
successivo le assunzioni verranno concretamente effettuate
con impegno delle relative spese, si dovrà tener conto, ai
fini del raffronto con le spese dell'anno precedente ai
sensi del predetto comma 557, delle spese che seppur non
impegnate risultato prenotate nel precedente esercizio ...".
La sezione lombarda aggiunge questa precisazione:
"Ne deriva che, nei sopracitati limiti, possono rilevare -ai soli fini del confronto ex art. 1, comma 557, l. n.
296/2006- le spese 'che decorrono' dal momento dell'avvio
delle procedure di assunzione, purché la singola procedura
di reclutamento sia sfociata nell'assunzione del dipendente
quale unitaria concatenazione di atti prodromici all'impegno
contabile in senso proprio. Non rilevano, dunque, quale dies
a quo della rilevanza 'virtuale' della spesa ex art. 1,
comma 557, l. n. 296/2006, meri atti programmatori oppure
pregresse procedure non conclusesi utilmente per mancanza di
aspiranti o per altre ragioni (ed a fortiori per fatto
imputabile all'ente medesimo)"
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 03.06.2013 n. 235 - tratto da www.publika.it). |
ENTI LOCALI:
Omissioni sul bilancio, revisori in Procura.
La stretta in una deliberazione della corte dei
conti dell'Abruzzo.
Se l'organo di revisione omette, senza fornire alcuna
giustificazione in merito, la trasmissione alla Corte dei
conti del questionario relativo alle risultanze indicate nel
bilancio di previsione (così come quello relativo al
rendiconto), le conseguenze non saranno di poco conto. In
primo luogo, scatta la segnalazione al Consiglio comunale
per l'eventuale rimozione dalla funzione per intervenuta
inadempienza, quella alla Procura contabile per la disamina
di profili di responsabilità, ma anche l'inoltro del
carteggio alla Procura della Repubblica affinché questa
valuti e accerti eventuali responsabilità per omissione di
atti d'ufficio ai sensi dell'articolo 328 del codice penale.
L'interessante conclusione perviene dalla lettura della
deliberazione
31.05.2013 n. 43 della sezione regionale di
controllo della Corte dei conti per la Regione Abruzzo, con
cui è stato accertato il mancato invio telematico, tramite
il sistema SIQUEL, dei questionari relativi al bilancio di
previsione 2012 e al rendiconto 2011 da parte dell'Organo di
revisione del comune di Villalago (AQ).
Non sono bastate, a
tal fine, le note di sollecito inviate in questi mesi sia
allo stesso organo di revisione che, per conoscenza, al
Sindaco della cittadina aquilana. Dall'altra parte, ai
magistrati contabili è arrivato solo un pervicace silenzio.
Pertanto, il collegio della Corte ha deciso di passare
all'azione, decidendo che sulla vicenda si dovesse dare un
segnale forte.
Innanzitutto, ha dichiarato «non conforme a
legge» il comportamento omissivo dell'organo di revisione
del comune, in quanto non ha adempiuto all'obbligo di
trasmissione delle relazioni ex comma 166 della legge n.
266/2005 e, a maggior ragione, senza sollevare idonee
ragioni giustificative.
Poi, ha provveduto a segnalare al
consiglio comunale dell'ente l'inadempimento grave da parte
dell'organo di revisione, per le valutazioni e iniziative
che lo stesso vorrà intraprendere, prima tra tutte la
rimozione degli attuali componenti del collegio di
revisione, così come previsto dall'articolo 235 del Tuel ove
si statuisce che l'incarico di revisore è revocabile solo
per inadempienza
(articolo ItaliaOggi dell'11.06.2013). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Mentre sul piano dell’obbligazione giuridica
rimane chiarito che l’Irap grava sull’amministrazione, su un
piano strettamente contabile, tenuto conto delle modalità di
copertura di “tutti gli oneri”, l’amministrazione non potrà
che quantificare le disponibilità destinabili ad avvocati e
professionisti, accantonando le risorse necessarie a
fronteggiare l’onere Irap, come avviene anche per il
pagamento delle altre retribuzioni del personale pubblico.
Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la copertura
degli oneri di personale (tra cui l’Irap) si riflette, in
sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la progettazione
e per l’avvocatura interna ripartibili nei confronti dei
dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle
risorse necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante
sull’amministrazione.
---------------
... richiesta di parere formulata dal Presidente della
Provincia di Grosseto in cui si chiede la corretta
interpretazione della delibera della Corte dei conti,
Sezioni Riunite, n. 33/2010 e successiva delibera della
Sezione Toscana 24/2011, in contrasto con recente
giurisprudenza (Corte d’Appello Palermo, sentenza n.
879/2012) in materia di Irap su prestazione fornita dagli
avvocati interni dell’ente.
In particolare si chiede se possa interpretarsi la
normativa vigente nel senso di quantificare i fondi per la
progettazione e l’avvocatura interna considerando tali somme
come la provvista delle risorse finanziarie per far fronte a
tutti gli oneri del personale e quindi anche dell’Irap.
...
Nel merito, l’art. 1, comma 208, della legge 23.12.2005, n.
266, prevede che “Le somme finalizzate alla
corresponsione di compensi professionali comunque dovuti al
personale dell’avvocatura interna delle amministrazioni
pubbliche sulla base di specifiche disposizioni contrattuali
sono da considerare comprensive degli oneri riflessi a
carico del datore di lavoro”.
Le Sezioni Riunite, con deliberazione n. 33 del 30.05.2010
resa in funzione nomofilattica ai sensi dell’articolo 17,
comma 31, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito,
con modificazioni, dalla legge 03.08.2009, n. 102, hanno
trattato l’argomento soffermandosi sulle modalità di
determinazione del compenso spettante al dipendente avvocato
in caso di vittoria in sede giudiziale.
In tale deliberazione, dopo aver ripercorso le contrapposte
posizioni interpretative -sia tra le diverse sezioni
regionali di controllo della Corte dei conti che tra
l’Agenzia delle Entrate e la Ragioneria Generale dello
Stato– le Sezioni Riunite hanno concluso: “Può
concludersi nel senso che, mentre sul piano
dell’obbligazione giuridica, rimane chiarito che l’Irap
grava sull’amministrazione (secondo blocco delle citate
disposizioni), su un piano strettamente contabile, tenuto
conto delle modalità di copertura di “tutti gli oneri”,
l’amministrazione non potrà che quantificare le
disponibilità destinabili ad avvocati e professionisti,
accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l’onere
Irap, come avviene anche per il pagamento delle altre
retribuzioni del personale pubblico (primo blocco delle
citate disposizioni). Pertanto, le disposizioni sulla
provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui
l’Irap) si riflette, in sostanza, sulle disponibilità dei
fondi per la progettazione e per l’avvocatura interna
ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da
calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura
dell’onere Irap gravante sull’amministrazione”.
La Sezione non ritiene sussistenti ragioni per discostarsi
dalla deliberazione adottata dalle Sezioni Riunite, ai sensi
dell'art. 17, comma 31, della legge 03.08.2009, n. 102, in
sede di nomofilachia.
Nelle sopra esposte considerazioni è il parere della Corte
dei conti –Sezione regionale di controllo per la Toscana- in
relazione alla richiesta formulata dal Consiglio delle
autonomie con nota Prot. n. 7702/1.13.9 del 02.05.2013
(Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 30.05.2013 n. 146). |
PATRIMONIO: Via libera agli affitti delle sedi giudiziarie
I comuni possono stipulare nuove locazioni passive per le
necessità conseguenti alla riforma delle sedi giudiziarie,
in deroga al generale divieto imposto alle pubbliche
amministrazioni dalle disposizioni contenute nella legge di
stabilità 2013.
È quanto ha messo nero su bianco la sezione
regionale di controllo della Corte dei conti Umbria, nel
testo del
parere
30.05.2013 n. 111, rispondendo a un preciso
quesito posto dal comune di Perugia.
Se da un lato, il dlgs
n. 155/2012 ha disegnato un nuovo assetto degli uffici
giudiziari (tra cui il distretto di Perugia) prevedendo
l'accorpamento delle sezioni distaccate e degli uffici del
giudice di pace, come si concilia l'esigenza di reperire i
necessari e ulteriori spazi immobiliari per tali uffici, con
il divieto a stipulare contratti di locazione passiva,
imposto dall'articolo 1, comma 138, della legge n. 228/2013.
A questa domanda, il collegio della Corte umbra ha risposto
positivamente. In primo luogo, si osserva che il comune è
tenuto a soddisfare le accresciute esigenze allocative degli
uffici giudiziari, in adempimento a un preciso obbligo di
legge. Il riferimento, rileva il collegio, è alla legge
n.392/1942 che impone ai comuni nei quali hanno sede gli
uffici giudiziari, l'obbligo di provvedere a determinate
spese, tra cui quelle di illuminazione, riscaldamento,
pulizia e custodia. In questo quadro normativo, il
legislatore con una mano impone ai comuni di provvedere alle
esigenze della macchina giudiziaria e, con l'altra, impone
limiti rigorosi all'utilizzo della locazione passiva.
La soluzione del caso si trova rilevando che sia il dlgs
n.155/2012 che la legge di stabilità per il 2013 perseguono
lo stesso obiettivo, ovvero ottenere risparmi dalla spesa
pubblica. Prevedendo la soppressione di piccoli uffici
giudiziari, il legislatore realizza un risparmio e quindi,
senza oneri aggiuntivi per il bilancio statale, i comuni
possono stipulare contratti di locazione passiva.
In definitiva, il comune di Perugia può stipulare locazioni
passive per reperire immobili da destinare alle nuove
esigenze degli uffici giudiziari, a condizioni più
vantaggiose rispetto alle spese che l'amministrazione
giudiziaria sosteneva per la disponibilità degli immobili
destinati ai piccoli uffici giudiziari oggi soppressi
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2013). |
ENTI LOCALI: Personale, la spesa può dribblare i tetti.
Corte dei conti. Sempre più
eccezioni.
Gli enti locali devono ancora ridurre le spese di personale?
Diversi interventi interpretativi stanno rivedendo le
regole, creando di eccezioni legittimanti lo sforamento dei
tetti. L'articolo 1, comma 557, della legge 296/2006,
costringe gli enti soggetti al Patto a ridurre le spese di
personale rispetto all'anno corrente; il comma 562 chiede
agli enti non soggetti al Patto di non superare le spese
2008.
La Corte dei conti del Veneto, con il
parere 28.05.2013 n. 139, ha ritenuto che se la violazione del tetto di
spesa è conseguente a scelte non discrezionali un ente non
può ritenersi inadempiente, e quindi ricevere sanzioni.
È un
caso particolare, ma che avrà una risonanza ampia sui
contesti in cui il principio potrebbe essere esportato. A
causare il mancato rispetto della norma è stata la modifica
legislativa sull'anno da prendere a riferimento -per gli
enti non soggetti a Patto- con spostamento dal 2004 al
2008; ciò è avvenuto nel 2012, compromettendo le scelte
precedenti dell'amministrazione.
La Corte non ha dubbi nel ritenere "giustificato" l'ente,
per avere concesso una trasformazione del rapporto di lavoro
da tempo parziale a tempo pieno di un dipendente sforando il
tetto di spesa. Non è dato però sapere se davvero non fosse
possibile nessun'altra azione sui compensi (trattamento
accessorio del personale, riduzioni del fondo di parte
variabile, revisione delle posizioni organizzative,
retribuzione di risultato, ecc.), ma il dato è chiaro: la
Corte dei conti del Veneto "salva" dalle sanzioni il piccolo
ente.
Ed è successa, più o meno, la stessa cosa in Campania,
laddove la Procura della Corte dei conti ha ritenuto non
sussistenti i presupposti dell'azione di responsabilità di
un ente che aveva assunto nonostante il rapporto tra spese
di personale e spese correnti fosse superiore al 50% (si
veda Il Sole 24 Ore del 31 maggio).
In questo caso, la Corte ha affermato che le norme sul
contenimento della spesa di personale non possono comprimere
diritti infungibili e funzioni fondamentali come
l'istruzione pubblica. Il giudizio prende lo spunto dalla
delibera 46/2011 delle Sezioni riunite della Corte, che
aveva introdotto «eccezioni» evidenziando che si potessero
superare i limiti in presenza di interventi di somma urgenza
e lo svolgimento di servizi essenziali.
L'apertura della
Procura contabile della Campania si estende però alle
"funzioni fondamentali" che, come noto, sono undici. Non è
così impossibile ipotizzare, ora, i tentativi dei Comuni
nell'individuare ulteriori spazi di manovra (articolo
Il Sole 24 Ore del 10.06.2013). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Incarichi ex art. 90 TUEL.
La Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione
siciliana, condanna il Presidente della Provincia di
Palermo al risarcimento del danno erariale subito dall'ente,
nella misura corrispondente alle retribuzioni erogate a
soggetti esterni all'amministrazione assunti -a tempo
determinato- per le funzioni di segreteria e diretta
collaborazione del vertice politico.
Il danno patrimoniale è ravvisato nell' illegittimità degli
atti adottati in violazione della normativa vigente ed in
contrasto con i principi di efficacia ed economicità
dell'azione amministrativa.
La magistratura contabile:
- rammenta le condizioni che legittimano la costituzione
degli uffici di staff ai sensi dell'art. 90 del TUEL e la
necessità che la prescritta previsione regolamentare (ROUS)
abbia contenuti specifici ed analatici, con l'indicazione
del numero dei componenti (dette strutture) e, soprattutto,
delle modalità di conferimento dei relativi incarichi;
- evidenzia i limiti che la giurisprudenza ha individuato in
materia di assunzione/utilizzo di soggetti estranei alla
pubblica amministrazione che si desumono, in primo luogo,
dal principio secondo il quale le pubbliche amministrazioni
devono, di norma, svolgere i compiti istituzionali
avvalendosi del proprio personale; la conferma risiede anche
nell'art. 7, comma 6, d.lgs. 165/2001 che legittima gli
incarichi individuali ad esperti di provata competenza solo
per esigenze cui gli enti non possono far fronte con il
personale in servizio, per giustificati motivi e per una
effettiva utilità;
- sottolinea che occorre collocare la facoltà in contesto (affinché
sia corretta e legittima) "... nel solco dell'orientamento
giurisprudenziale tracciato dalla Corte di cassazione in
relazione ai principi di legalità, di economicità ed
efficacia - affermati dal primo comma dell'art. 1 della
legge 07/08/1990, n. 241, e strettamente collegati con il
fondamentale principio di buona amministrazione di cui
all'art. 97 della Costituzione"; pertanto, "il potere
discrezionale di ricorrere a professionalità esterne da abidire ad uffici di staff e di diretta collaborazione,
anche con esperti o consulenti, del vertice politico non può
ritenersi svincolato dal rispetto dei principi enunciati dal
citato primo comma dell'art. 1 della legge n. 241/1990".
L'inosservanza della normativa e dei sopracitati principi
generali è riscontrata dalla Corte in relazione al fatto che
gli incarichi esterni conferiti:
- non facevano alcun riferimento a concrete esigenze
dell'ufficio di supporto agli organi politici; la
motivazione riportata negli atti era una semplice ed
astratta affermazione dell'utilità di migliorare il grado di
efficienza dell'ufficio;
- non erano stati preceduti dalla preventiva verifica
dell'insussistenza di professionalità interne da adibire ai
compiti richiesti, così come mancanti anche della sola
indicazione delle ragioni di preferenza delle
professionalità esterne rispetto al personale in servizio;
in particolare "Questo principio del preventivo utilizzo
delle risorse già disponibili all'interno
dell'Amministrazione, affermato dalla giurisprudenza
contabile in relazione al conferimento di incarichi di
consulenza o di alta professionalità, assume una maggiore
valenza per l'attribuzione di compiti di Segreteria,
rispetto ai quali, nonostante l'indubbio carattere
fiduciario, può ragionevolmente presumersi la presenza
all'interno dell'Ente di soggetti in grado di assicurare lo
svolgimento di queste attività di assistenza del vertice
politico dell'Ente, che in astratto richiedono un normale
livello di competenze professionali e di diligenza,
reperibile senza particolari difficoltà tra i numerosi
dipendenti della Provincia di Palermo" (Corte dei Conti,
Sez. giurisdiz. Sicilia,
sentenza
16.05.2013 n. 1953 - tratto da www.publika.it). |
NEWS |
APPALTI: IL
PACCHETTO SVILUPPO / FOCUS /
Appalti senza responsabili in solido.
Cancellata la disposizione del 2006 - Addio anche alla
dichiarazione mensile sulle ritenute.
Abrogazione della responsabilità solidale negli appalti,
eliminazione del modello 770 mensile (di fatto un
adempimento mai diventato operativo) e modifiche alla
disciplina sul rilascio del Durc.
Sono alcuni degli
interventi di semplificazione adottati nel decreto legge
passato ieri al vaglio del Consiglio dei ministri.
Con la la soppressione all'articolo 35 del Dl n. 223/2006
(commi da 28 a 28-ter), viene meno la discussa disciplina
che prevede la responsabilità solidale dell'appaltatore e la
responsabilità "sanzionatoria" del committente (da 5mila a
200mila euro) per il versamento all'Erario delle ritenute
sui redditi di lavoro dipendente e dell'Iva dovuta dal
subappaltatore o dall'appaltatore.
Per non far scattare
queste forme di responsabilità l'appaltatore/committente è
obbligato ad acquisire una documentazione da cui emerga che
il subappaltatore/appaltatore, alla data del pagamento del
corrispettivo, abbia effettuato regolarmente i versamenti
fiscali. L'agenzia delle Entrate aveva già tentato di
alleggerire gli adempimenti con le circolari 40/12 e 2/13
concedendo all'appaltatore e al subappaltatore la chance di
fornire la prova di aver versato le ritenute fiscali sui
redditi da lavoro dipendente e l'Iva con
un'autocertificazione oppure mediante l'asseverazione
rilasciata da un professionista abilitato o dal responsabile
del Caf. Le complicazioni e i costi derivanti da questo
regime avevano provocato le critiche delle aziende e la
richiesta di una revisione radicale.
Semplificazioni rilevanti in arrivo anche per il Durc, il
documento unico di regolarità contributiva. In questa
prospettiva viene modificato il Codice degli appalti. Le
stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori dovranno
acquisire d'ufficio Durc (in formato elettronico) anche per
gli eventuali subappaltatori sia per l'accertamento delle
clausole di esclusione sia ai fini del pagamento delle
prestazioni. Il documento unico di regolarità contributiva
rilasciato per i tutti i contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture avrà validità di 180 giorni dalla data
di emissione e non più quindi di soli tre mesi. La validità
semestrale ha un'unica eccezione, in quanto per il pagamento
del saldo finale «in ogni caso necessaria l'acquisizione di
un nuovo Durc», a prescindere da quando sia stato rilasciato
il precedente.
Sempre per tutti i contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture, si stabilisce poi che «ai fini della verifica
amministrativo-contabile, i titoli di pagamento devono
essere corredati dal documento unico di regolarità
contributiva anche in formato elettronico». Il Durc una
volta rilasciato avrà efficacia per tutti gli appalti
promossi da una determinata stazione appaltante.
Infine, sarà codificata la norma di prassi che oggi prevede,
in caso di mancanza dei requisiti, l'obbligo per gli enti
autorizzati al rilascio (casse edili, Inps, Inail) di
invitare mediante posta elettronica certificata o con lo
stesso mezzo per il tramite del consulente del lavoro «a
regolarizzare la propria posizione entro un termine non
superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le
cause della irregolarità».
---------------
L'ANALISI
Una mossa corretta per cancellare la confusione.
La solidarietà negli appalti perde, con il decreto legge
approvato ieri dal Consiglio dei ministri, la componente
fiscale. In pratica l'appaltatore non risponderà più con il
subappaltatore del versamento all'Erario delle ritenute
fiscali sui redditi di lavoro dipendente e sull'Iva per le
prestazioni collegate ai lavori.
La norma, introdotta dal decreto legge 83/2012, aveva
provocato gravi problemi operativi per l'impossibilità delle
parti solidali di verificare la corretta esecuzione degli
obblighi di versamento da parte deil subappaltatore. La
norma interessa, in generale, le attività rilevanti ai fini
Iva ed era stata inserita nell'articolo 35 del Dl 223/2006.
La testimonianza della confusione collegata all'obbligo
della solidarietà fiscale tra appaltatore e subappaltatore è
stata raccolta nei mesi scorsi dalla casella di posta
elettronica normeetributi.ilmiogiornale@ilsole24ore.com. Nei
mesi scorsi sono arrivate centinaia di quesiti da parte dei
lettori per capire l'ambito soggettivo e oggettivo della
norma e le modalità per evitare la "brutta" sorpresa della
solidarietà. Solo un riflesso della confusione tra imprese e
fornitori e prestatori di servizi, con le prime alla ricerca
di pezze d'appoggio sulla regolarità dei versamenti.
La solidarietà fiscale costituisce solo un esempio di quanto
negativa possa essere la negligenza del legislatore,
indifferente alle conseguenze di una norma, al di là delle
buone intenzioni. Non è infatti in discussione la bontà
dell'obiettivo, quello di evitare che negli appalti ritenute
e Iva si disperdano in fiumi carsici. Tuttavia, la modalità
–l'affidare la verifica alle parti contraenti dell'appalto– costituisce la resa da parte dell'amministrazione rispetto
alle funzioni di controllo, caricando sul privato oneri non
commisurati al rischio dell'attività economica.
La norma si applica(va) ai contratti di appalto stipulati
dal 12.08.2012 e solo il 01.03.2013 l'agenzia delle
Entrate ne ha chiarito (circolare 2/2013) l'ambito
operativo. Non solo edilizia, hanno detto le Entrate, come
invece poteva far pensare la collocazione, all'interno della
disciplina sull'Iva immobiliare. La solidarietà si
estende(va) a tutti gli appalti dove prevale il servizio,
esclusi quelli di fornitura di beni e i contratti d'opera.
Per sette mesi, le imprese hanno dovuto fare i conti con
l'incertezza. Poco aiuto, vista la mancanza di chiarezza
rispetto al perimetro oggettivo, aveva infatti portato la
prima istruzione dell'Agenzia (circolare 40/2012), dove si
era specificata la possibilità di evitare la solidarietà con
un'autocertificazione sul versamento regolare delle
ritenute.
La solidarietà tra committente e appaltatore –va ricordato–
non sparisce ma sopravvive per quanto riguarda retribuzioni
e contributi previdenziali e assicurativi (per due anni),
così come stabilisce il decreto legislativo 276/2003. La
possibilità di porre un argine è affidata alla
contrattazione collettiva o agli accordi di prossimità in
base all'articolo 8 del decreto legge 138/2011. Anche in
questo campo, però, è necessario fare un po' di chiarezza:
per esempio occorre capire se la deroga alla responsabilità
può interessare solo le retribuzioni e come si intersecano
contrattazione collettiva nazionale e contratti di
prossimità
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.06.2013). |
SICUREZZA LAVORO: Sicurezza
lavoro. Possibile la redazione di un unico documento.
Valutazione dei rischi al committente.
Il decreto legge ieri all'esame di Palazzo Chigi modifica
diversi aspetti del testo unico della sicurezza sul lavoro (Dlgs
09.04.2008, n. 81).
Si prevede, tra le altre cose, che nell'ambito degli appalti
il datore di lavoro committente promuove la cooperazione e
il coordinamento elaborando un unico documento di
valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per
eliminare o, dove ciò non sia possibile, ridurre al minimo i
rischi da interferenze.
Limitatamente ai settori di attività a basso rischio
infortunistico sempre il datore di lavoro committente, in
alternativa può individuare un proprio incaricato, in
possesso di formazione, esperienza e competenza
professionali, tipiche di un preposto, nonché di periodico
aggiornamento e di conoscenza diretta dell'ambiente di
lavoro, per sovrintendere a tali cooperazione e
coordinamento. Nel caso in cui si opti per la redazione del
documento lo stesso va allegato al contratto di appalto o di
opera e deve essere adeguato in funzione dell'evoluzione dei
lavori, servizi e forniture.
Questo obbligo non si applica ai servizi di natura
intellettuale, alle mere forniture di materiali o
attrezzature, ai lavori o servizi la cui durata non è
superiore ai dieci "uomini-giorno", sempre che essi non
comportino rischi derivanti dalla presenza di agenti
cancerogeni, biologici, atmosfere esplosive o dalla presenza
dei rischi particolari indicati nell'allegato XI.
Con decreto del ministro del Lavoro, inoltre, dovranno
essere individuati settori di attività a basso rischio
infortunistico, sulla base di criteri e parametri oggettivi,
desunti dagli indici infortunistici di settore dell'Inail.
Vengono poi riviste le regole sulle notifiche all'organo di
vigilanza competente per territorio in caso di costruzione e
realizzazione di edifici o locali da adibire a lavorazioni
industriali, nonché nei casi di ampliamenti e di
ristrutturazioni di quelli esistenti e quelle sulle
verifiche periodiche volte a valutarne l'effettivo stato di
conservazione e di efficienza ai fini di sicurezza delle
attrezzature riportate nell'allegato VII
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.06.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: IL
PACCHETTO SVILUPPO / FOCUS /
Lo Stato pagherà se ritarda.
Date fisse (1° luglio e 1° gennaio) per i nuovi adempimenti
amministrativi.
L'INDENNIZZO/
Per il mancato rispetto dei termini 50 euro per ogni giorno
di ritardo Il tetto massimo fissato a duemila euro.
L'indennizzo in denaro per il ritardo nella conclusione di
un procedimento e la data unica di efficacia degli obblighi
amministrativi. Ecco i due provvedimenti più importanti,
anche sotto il profilo simbolico, per i cittadini. Il
decreto entrato in consiglio dei ministri ieri li conteneva
entrambi, nonostante la discussione sia rimasta apertissima
e, soprattutto sulla prima misura, il ministero
dell'Economia ha mantenuto le sue riserve fino all'ultimo.
Con il varo dell'indennizzo il cittadino o l'impresa
potranno contestare un rimborso al responsabile unico del
procedimento di ogni amministrazione, ottenendo un ristoro
in denaro per il mancato rispetto dei termini di 50 euro al
giorno per ogni giorno di ritardo, per un massimo di 2.000
euro. Lo strumento sarà avviato in via sperimentale per le
imprese per poi essere esteso ai cittadini.
Le date uniche per l'efficacia dei procedimenti
amministrativi, misura già adottata in diversi Paesi
europei, viene confermato il 1° luglio e il 1° gennaio per
qualsiasi adempimento che comporti informative e produzione
di documenti da parte di cittadini e imprese nei confronti
della Pa. Le nuove date entrano in vigore a partire dal 2
luglio prossimo e il ministro per la Pa e la Semplificazione
entro 90 giorni dall'entrata in vigore del decreto che dovrà
definire le modalità attuative.
Per il settore pubblico,
poi, sono stati prorogati i termini per la scadenza delle
attività delle società partecipate dalla Pa che erano
previste dalla spending review, una misura che consentirà di
gestire la posizione contrattuale di circa 200mila
dipendenti di oltre 3.200 aziende multiservizi.
Il Consiglio dei ministri ha rinviato a mercoledì prossimo
l'esame di un corposo disegno di legge che contiene cinque
nuove deleghe per il riordino della legislazione e la
semplificazione di procedimenti amministrativi di competenza
del ministro per la Pa e in diversi settori specifici come
l'ambiente, i beni culturali, la scuola, l'università e la
ricerca. L'obiettivo del Governo è di far viaggiare questo
testo parallelamente al decreto, tentando nell'iter di
approvazione il massimo di coordinamento con il Parlamento.
Tra le misure più rilevanti per i cittadini c'è l'invio
telematico dei certificati medici di gravidanza e la
possibilità di richiedere qualsiasi titolo di studio in
lingua inglese oltre a un'ulteriore semplificazione sul
cambio di residenza.
Diventerà inoltre più facile acquistare la cittadinanza
italiana per chi ha genitori stranieri ma è nato nel nostro
Paese: compiuti i 18 anni il diritto sarà maturato anche in
casi di inadempimenti amministrativi, non imputabili
all'interessato, se viene dimostrata con altra
documentazione la sua dimora in Italia fin dalla nascita
(come i certificati di frequenza scolastica).
Per migliorare i servizi amministrativi e assicurare
l'efficienza dell'attività amministrativa, nasce poi presso
gli sportelli unici per le attività produttive (Suap) il
tutor d'impresa: il suo compito sarà quello di assistere le
imprese dall'avvio alla conclusione dei procedimenti,
assicurando l'osservanza delle migliori prassi
amministrative. Rivolta anche agli imprenditori è la norma
che li equipara alle persone giuridiche per l'applicazione
del codice sulla privacy. Novità anche in materia fiscale:
meno adempimenti relativi alle comunicazioni al fisco da
parte delle imprese, nonché in materia di operazioni
intercomunitarie. Vengono infine introdotte norme per
accelerare l'utilizzo dei fondi Ue da parte delle pubbliche
amministrazioni.
--------------
L'ANALISI
Due passi importanti per dare certezze.
Si tratta sicuramente di due misure dal forte impatto
simbolico, oltreché pratico. L'indennizzo in denaro per il
ritardo nella conclusione di un procedimento e la data unica
di efficacia degli obblighi amministrativi. Il cittadino
saprà ora che che rivolgendosi al responsabile unico delle
procedure di un'amministrazione potrà ottenere un
risarcimento in denaro in caso di mancato rispetto dei
termini. Non si tratta di cifre enormi: 50 euro per ogni
giorno di ritardo fino a un massimo di 2mila euro.
Ma è un
fato che questa sanzione certa per gli uffici ritardatari è
finalmente arrivata. Se ne parlava da anni, fin dai tempi
della legge 59, quando ministro della Pa e era Franco Bassanini, e se ne ritornò a parlare fino a pochi anni fa,
con il ministro Nicolais (Governo Prodi). A stoppare sempre
l'iniziativa è stato il ministero dell'Economia, preoccupato
per uno strumento per il quale non si possono prevedere
coperture certe. Su un indennizzo per i ritardi della Pa si
erano pronunciati a più riprese anche diversi presidenti
dell'Antitrust e, da ultimo, persino i saggi del Colle
l'avevano indicata come strategica nella loro Agenda delle
misure possibili per il rilancio dell'economia.
Anche l'altra novità è importante: le date uniche per
l'osservanza degli obblighi amministrativi. L'Europa la
auspica da tempo e Paesi come la Francia, il Regno Unito e
l'Olanda la stanno sperimentando già. Ancora qualche
settimana fa questa misura di certezza dell'azione
amministrativa indicata come strategica nello Small business
act della Commissione europea è stata rilanciata dal
Consiglio per la competitività: garantisce una certezza
giudicata importante non solo per i cittadini ma anche per
le imprese che intendono effettuare investimenti.
Ora si
tratta di difendere fino in fondo la portata di queste due
misure e farle decollare il prima possibile. La tecnica
adottata anche questa volta dal legislatore, ovvero un
decreto omnibus, non lascia ben sperare. Ma è importante che
il ghiaccio si sia rotto. Ieri il ministro per la Pa e la
Semplificazione, Gianpiero D'Alia, ha parlato di misura
rivoluzionaria facendo riferimento all'indennizzo.
L'obiettivo è quello di innescare un circuito virtuoso tra
Pa e cittadini per garantire tempi certi di chiusura delle
procedure.
Abbiamo visto in passato che "norme-stimolo" come
questa hanno funzionato. Deve accadere anche questa volta
per l'indennizzo, che arriva proprio mentre lo Stato ha
iniziato a rimborsare vecchi debiti ai fornitori. Le
aspettativa cambiano, in meglio, proprio con misure come
queste, che ora vanno difese fino in fondo
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.06.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI: SEMPLIFICAZIONI/
Ora la burocrazia paga il conto.
Per i ritardi nelle pratiche 50 euro di indennizzo al giorno.
Per il Fascicolo sanitario
elettronico c'è tempo fino al 2014.
La burocrazia salderà il conto per la lentezza delle
pratiche. Scaduto il termine per l'adozione del
provvedimento (normalmente 30 giorni salvo espresse
eccezioni) più l'extra time (15 giorni) a disposizione del
funzionario che esercita il potere sostitutivo, i cittadini
potranno ricevere un indennizzo pari a 50 euro per ogni
giorno di ritardo fino a un massimo di 4.000 euro.
E se la p.a. continuerà a fare orecchie da mercante gli
interessati potranno ricorrere al Tar che deciderà non solo
sul merito del procedimento, ma anche sull'indennizzo.
Il
pacchetto semplificazioni che andrà oggi all'esame del
Consiglio dei ministri interviene a completare il ventaglio
di tutele contro le lentezze burocratiche introdotte nel
testo della legge 241/1990 sul procedimento amministrativo.
Nel 2009, la legge di semplificazione (n. 69) aveva previsto
il diritto al risarcimento del danno «per inosservanza
dolosa o colposa del termine di conclusione del
procedimento». Al risarcimento, il pacchetto semplificazione
aggiunge anche l'indennizzo che scatterà per il mero ritardo
nella definizione della pratica.
La bozza di provvedimento messa a punto dai tecnici del
governo inchioda gli enti pubblici alle proprie
responsabilità in caso di ritardo: pagare l'indennizzo entro
cinque giorni oppure iniziare un contenzioso davanti al Tar
a conclusione del quale la p.a. potrà essere condannata a
risarcire il dovuto senza ulteriori dilazioni.
Inoltre, in caso di accoglimento della domanda, gli atti
dovranno essere trasmessi alla procura della Corte dei conti
perché avvii il procedimento di responsabilità nei confronti
dei pubblici dipendenti.
Nelle comunicazioni di avvio del procedimento, il diritto
all'indennizzo dovrà essere espressamente menzionato e
portato a conoscenza degli utenti assieme a modalità e
termini per conseguirlo. Dovrà inoltre essere espressamente
indicato il soggetto a cui è attribuito il potere
sostitutivo.
Slitta il Fascicolo sanitario elettronico. Il Fascicolo
sanitario elettronico, che consentirà a tutti i pazienti di
conservare e visualizzare in ogni momento accertamenti
diagnostici ed esami, slitta al 2014. Le regioni avranno
tempo fino alla fine dell'anno prossimo per istituirlo, ma
entro il 31 dicembre 2013, dovranno già presentare un piano
all'Agenzia per l'Italia digitale. Sarà questa a curare la
progettazione e la realizzazione del Fascicolo sulla base
delle esigenze dei governatori.
L'Agenzia collaborerà con il ministero della salute.
Insieme, per le parti di rispettiva competenza, dovranno
valutare e approvare, entro 60 giorni, i piani di progetto
presentati dalle regioni e monitorare la realizzazione del
Fascicolo. L'operazione Fascicolo elettronico avrà a
disposizione un finanziamento di 10 milioni di euro per il
2014 e 5 a decorrere dal 2015
(articolo ItaliaOggi del 15.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Al comune il compito di recuperare i pareri per la Scia.
Lo sportello unico dovrà acquisire gli atti presupposti
all'inizio dei lavori.
Al comune il compito di recuperare i pareri necessari per la
Scia, agibilità edilizia parziale e semplificazioni nella
comunicazione di inizio attività per l'attività di edilizia
libera.
Sono queste alcune delle novità in materia edilizia
della bozza di decreto legge sulle semplificazioni, che va
oggi in Consiglio dei ministri. Partiamo proprio dai pareri
per esaminare le possibili innovazioni al Testo unico per
l'edilizia.
Pareri. Allo sportello unico andrebbe il compito di
acquisire i pareri anche prima della presentazione della
Scia. Il Testo unico edilizia non disciplina l'acquisizione,
da parte dello sportello unico per l'edilizia (Sue), degli
atti di assenso presupposti all'inizio dei lavori nel caso
in cui l'intervento edilizio sia soggetto alla presentazione
della comunicazione di inizio lavori di attività edilizia
libera o della Scia edilizia. Il decreto estenderebbe la
disciplina prevista oggi solo per il permesso di costruire.
Il provvedimento, infatti, propone che l'interessato possa,
prima di presentare la comunicazione o la Scia, richiedere
allo sportello unico l'acquisizione di tutti gli atti di
assenso necessari per l'intervento edilizio. Lo sportello si
deve attivare, come nel caso di richiesta di permesso di
costruire, ma con termini ridotti alla metà: se entro 30
giorni dalla domanda non sono stati rilasciati gli atti di
assenso delle altre amministrazioni pubbliche, o è
intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni
interpellate, il responsabile dello sportello unico indice
la conferenza di servizi per acquisirli.
In dettaglio si
propone l'inserimento nel Testo unico dell'edilizia di un
nuovo articolo che prevede che nei casi in cui si applica la
disciplina della segnalazione certificata di inizio attività
prima della presentazione della segnalazione, l'interessato
potrà richiedere allo sportello unico di provvedere
all'acquisizione di tutti gli atti di assenso, comunque
denominati, necessari per l'intervento edilizio, o
presentare istanza di acquisizione dei medesimi atti di
assenso contestualmente alla segnalazione.
Lo sportello
unico comunicherà tempestivamente all'interessato l'avvenuta
acquisizione degli atti di assenso. In caso di presentazione
contestuale della segnalazione certificata di inizio
attività e dell'istanza di acquisizione di tutti gli atti di
assenso, comunque denominati, necessari per l'intervento
edilizio, l'interessato potrà dare inizio ai lavori solo
dopo la comunicazione da parte dello sportello unico
dell'avvenuta acquisizione dei medesimi atti di assenso o
dell'esito positivo della conferenza di servizi. Le novità
proposte si applicheranno anche alla comunicazione
dell'inizio dei lavori per l'attività di edilizia libera
qualora siano necessari atti di assenso, comunque
denominati, per la realizzazione dell'intervento edilizio.
Agibilità parziale. Il decreto modificherebbe la disciplina
del certificato di agibilità, consentendone la richiesta
anche per singoli edifici o singole porzioni di uno stesso
stabile. Questo a condizione che le unità siano
funzionalmente autonome, e sempre che siano state realizzate
e collaudate le opere di urbanizzazione primaria relative
all'intero intervento edilizio e siano state completate le
parti comuni relative al singolo edificio o singola porzione
della costruzione.
L'agibilità parziale potrebbe essere
richiesta anche per singole unità immobiliari (se complete
delle opere strutturali, impianti, parti comuni e opere di
urbanizzazione primarie ultimate o dichiarate funzionali
rispetto all'edificio oggetto di agibilità parziale). Nei
casi di rilascio del certificato di agibilità parziale prima
della scadenza del termine entro il quale l'opera deve
essere completata, lo stesso è prorogato per una sola volta
di tre anni.
Attività edilizia libera.
Una dichiarazione in meno per la comunicazione di inizio
lavori. Il Testo unico per l'edilizia prevede per l'attività
edilizia libera l'invio di una comunicazione dell'inizio dei
lavori, a cui deve essere allegata una relazione asseverata
firmata da un tecnico abilitato, che dichiari di non avere
rapporti di dipendenza con l'impresa né con il committente.
Il decreto propone di eliminare tale dichiarazione da parte
del tecnico abilitato, consentendo di conseguenza di
rimuovere l'obbligo di assumere un tecnico indipendente: la
prescrizione che non trova riscontro nelle altre procedure
edilizie (Scia, Dia in alternativa al permesso di costruire,
permesso di costruire)
(articolo ItaliaOggi del 15.06.2013). |
APPALTI: SEMPLIFICAZIONI/ Stop agli adempimenti extra a carico di
committenti e appaltatori.
Gare, responsabilità solidale ko.
E a partire dal 2014 va in soffitta il mod. 770 mensile.
Stop alla responsabilità solidale fiscale negli appalti e al
futuro invio (a partire dal 2014) del 770 mensile.
Queste alcune novità introdotte all'interno del pacchetto di
semplificazioni, all'esame oggi del Consiglio dei ministri.
Responsabilità solidale. Si fa riferimento a quelle
disposizioni attraverso le quali il committente o
l'appaltatore hanno l'obbligo di verificare, di fatto in
surroga all'amministrazione finanziaria, l'esecuzione del
versamento delle ritenute e dell'Iva da parte
dell'appaltatore e/o del subappaltatore; detta disciplina si
applica ai contratti di opere e servizi, di cui all'art.
1655 c.c., con esclusione degli appalti riferibili alle
forniture di beni, ai contratti d'opera e a quelli di
trasporto.
La normativa pende, attualmente, sui soggetti che operano
nel campo di applicazione dell'Iva, con la conseguenza che
restano escluse, oltre alle stazioni appaltanti e ai
condomini, le persone fisiche private, senza esclusione di
alcun settore merceologico (tutti i settori e non solo
l'edilizia).
Sul tema è intervenuta a più riprese anche l'Agenzia delle
entrate (circolari n. 2/E/2013 e n. 40/E/2012), cercando di
limitare al massimo il perimetro applicativo e precisando
che l'applicazione resta limitata ai contratti stipulati a
partire dal 12/08/2012.
Peraltro, la norma ha previsto, in assenza del possesso di
un'idonea documentazione, attestante la correttezza dei
versamenti all'erario (Iva e ritenute), l'applicazione di
una sanzione da 5 a 200 mila euro, qualora il committente o
l'appaltatore esegua il pagamento delle prestazioni in
assenza di detti documenti, sostituibili anche mediante la
ricezione di un'asseverazione sottoscritta da un Caf o da un
professionista.
Con il provvedimento in commento si prende atto,
preliminarmente, dell'inefficacia della disciplina al
contrasto dell'evasione fiscale, con particolare riferimento
alla presenza di lavoratori in nero e, soprattutto,
dell'eccessiva produzione di documentazione, con aggravio di
oneri posti a carico dell'impresa, e dell'inutilità dello
stesso adempimento, per l'assenza di un vero e proprio
controllo a cura di chi riceve la documentazione prescritta.
Inoltre si da atto di una giurisprudenza comunitaria (su
tutte, Corte di giustizia Ue, sentenza 21/06/2012, cause
riunite C-80/11 e C-142/11) con la quale si sta consolidando
un indirizzo attraverso il quale «spetta (_) in linea di
principio, alle autorità fiscali effettuare i controlli
necessari presso i soggetti passivi al fine di rilevare
irregolarità e evasioni in materia di Iva nonché infliggere
sanzioni al soggetto passivo che ha commesso dette
irregolarità o evasioni».
Pertanto, stante la sussistente discriminazione in atto nei
confronti dei committenti e degli appaltatori con sede sul
territorio nazionale rispetto ai medesimi soggetti collocati
negli altri paesi comunitari, con il pacchetto
semplificazioni in commento, si prevede la soppressione dei
commi da 28 a 28-ter, dell'art. 35, dl n. 223/2006,
convertito nella legge 248/2006, con la conseguente
abrogazione della disciplina sulla responsabilità solidale
fiscale negli appalti.
Modello 770 mensile. L'adempimento, introdotto dal comma 1,
dell'art. 44-bis, del dl n. 269/2003, prevede «al fine si
semplificare la dichiarazione annuale presentata dai
sostituti d'imposta» di comunicare, necessariamente ogni
mese, i dati retributivi e le informazioni utili per il
calcolo delle ritenute fiscali e dei relativi conguagli.
I commi 122 e 123, dell'art. 1, della legge 244/2007 hanno
disposto che, con decreto del ministro dell'economia e delle
finanze, emanato di concerto con il ministro del lavoro e
della previdenza sociale, devono essere definite le modalità
attuative della comunicazione e stabilite le modalità di
condivisione dei dati tra l'Agenzia delle entrate e l'Inps,
provvedendo alla semplificazione e all'armonizzazione degli
adempimenti, di cui all'art. 4, dpr n. 322/1998 (modelli
sostituti, ex 770).
La citata comunicazione deve essere presentata
esclusivamente in via telematica, direttamente o tramite gli
intermediari incaricati di cui ai commi 2-bis e 3, dell'art.
3, dpr n. 322/1998 (dottori commercialisti, esperti
contabili, consulenti del lavoro, Caf e altri, comprese le
società del gruppo), entro l'ultimo giorno del mese
successivo a quello di riferimento.
Peraltro, detto adempimento doveva entrare in vigore a
decorrere dal 2011 ma, per effetto di alcune proroghe (da
ultimo, per effetto del comma 7, dell'art. 29, del dl n.
216/2011, convertito nella legge n. 14/2012), è stata
prevista la messa a regime solo a partire dall'01/01/2014.
Di conseguenza, la prima presentazione del 770 mensile, a
cura del sostituto d'imposta, dovrebbe avvenire entro il
28/02/2014, facendo riferimento alle retribuzioni erogate
nel mese di gennaio 2014, ma il pacchetto di semplificazioni
in commento ne ha previsto l'abrogazione totale
(articolo ItaliaOggi del 15.06.2013). |
LAVORI PUBBLICI: Ripartono gli espropri per pubblica utilità.
Pa. Possibilità riaperta dal Dl 35/2013 dopo i limiti posti
dai vincoli sulle spese.
LE INDICAZIONI/
L'unico elemento da tenere presente è il rispetto del patto
di stabilità interno.
Ripartono gli espropri per pubblica utilità, che erano stati
frenati dalla legge e da interpretazioni della Corte dei
conti: ciò è possibile grazie all'articolo 10-bis del
decreto legge 35/2013 in vigore dall'8 giugno.
Nel periodo
tra il gennaio 2013 (articolo 12, comma 1-quater, Dl 98/2011)
e il giugno di quest'anno (articolo 10-bis Dl 35/2013) le
norme sul contenimento delle spese hanno impedito qualsiasi
acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni da parte di
soggetti pubblici. Vi è stata quindi una paralisi nelle
compravendite, negli espropri, nelle permute e financo, per
analogia, nelle locazioni.
La Corte dei conti, poi, aveva
aggravato il divieto con una serie di delibere delle sezioni
locali (Toscana, Piemonte e Liguria, nn. 125, 52 e 9 del
2013) ipotizzando responsabilità erariali. Dall'8 giugno,
quindi, sono di nuovo possibili espropri, cessioni bonarie,
vendite finalizzate all'esecuzione di opere dichiarate di
pubblica utilità ai sensi del Testo unico
sull'espropriazione (327/2001); sono anche stipulabili
permute (ma solo a parità di prezzo, quindi senza
conguaglio) deliberate prima del 31.12.2012.
Via
libera anche alle cessioni attuative di convenzioni
urbanistiche, cioè alle cessioni di strade, verde, aree per
servizi pubblici che i piani regolatori prevedono come
corrispettivo dell'edificabilità. L'unico limite da tener
presente, secondo l'articolo 10-bis del Dl 35/2013, è un
generico «rispetto del patto di stabilità interno», la cui
violazione tuttavia non ha conseguenze dirette sui contratti
che risultino squilibrati rispetto al predetto accordo (al
più, vi può essere una responsabilità del dirigente).
In
questi mesi di difficoltà negli espropri per pubblica
utilità, si è assistito all'incremento degli accordi di
pianificazione, con ricorso a circuiti di scambio diversi da
quelli che per 150 anni (dalla legge 2359/1865) hanno reso
possibile l'esproprio per pubblica utilità. È stata proprio
la Corte dei conti, nelle delibere del 2013, a suggerire
agli enti locali di ricorrere, invece che a espropri, ad
accordi, perequazioni, transazioni, senza movimentazioni
finanziarie. La Corte ha infatti stimolato la crescita di
accordi di diritto pubblico, di traslazioni di
edificabilità, permute tra edificabilità e opere pubbliche,
premi di volumetria che evitassero pagamenti in moneta e
contestazioni.
Sul valore venale dei beni espropriati, si è
sempre discusso perché prima di giungere al valore venale
(oggi imposto dalla Corte di Strasburgo) ci si è sempre
affidati a espressioni generiche quali il “giusto prezzo in
libera contrattazione”, indennizzo “serio” e “non
irrisorio”, con una serie di brutte figure europee. Ad
esempio, l'esproprio Scordino (dal nome dell'ex
proprietario, in lite dagli anni '90) è costato all'Erario
diversi milioni di euro invece del previsto indennizzo di
pochi milioni di lire: il debito, causato dalle sentenza
della Corte dei diritti dell'uomo, causa oggi il dissesto
del Comune (Tar Reggio Calabria 378/2012), cioè dell'ente
espropriante cui lo Stato ha chiesto il rimborso in rivalsa
(articolo 43 legge 234/2012) per gli importi pagati per
ordine dei giudici di Stasburgo.
Avanzano quindi nuove forme
di partenariato pubblico privato, ad esempio nel social housing,
con presenza di fondi immobiliari e associazioni di imprese
con soci di solo capitale (Consiglio di Stato, 2059/2013),
ripensando alla possibilità di utilizzare la vendita o la
locazione di cosa futura, o i contratti di disponibilità,
eseguendo opere o servizi in cambio di volumi o concessioni
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.06.2013). |
CONDOMINIO:
In condominio anche criceti, pesci rossi e passerotti.
Circolare del notariato sulle novità
introdotte dalla riforma.
In condominio anche i criceti, i pesci rossi e i passerotti.
Non solo cani e gatti. E questo da subito, anche se il
vecchio regolamento di condominio lo vietava espressamente.
L'interpretazione della riforma del condominio (legge
220/2012), data dallo
studio
23.05.2013 n. 320-2013/C del Consiglio
nazionale del notariato, mette in evidenza l'immediata
incidenza delle nuove disposizioni in vigore dal 18.06.2013. Questo vale anche per la disciplina dei subentri nella
proprietà degli appartamenti condominiali e per le sanzioni
a carico di chi viola il regolamento.
Vediamo, dunque, i
passaggi salienti dello studio dei notai.
ANIMALI - Durante l'iter parlamentare si è passati
dall'ammettere in condominio gli animali da compagnia agli
animali domestici. Lo scopo è stato quello di tenere fuori
gli animali pericolosi, gli animali da fattoria e tutti gli
animali che non hanno consuetudini familiari. Ma la
disposizione deve essere interpretata con ragionevolezza e,
quindi, sono da ammettere non solo cani e gatti (che possono
anche fruire degli spazi comuni), ma anche pesci, criceti e
cavie e uccellini da gabbia (che stanno dentro la casa del
padrone). Questa nuova regola si applica automaticamente,
senza bisogno di modificare la difforme clausola del
regolamento condominiali, automaticamente sostituito.
SUBENTRI - La riforma del condominio ha previsto la nuova
regola per cui chi vende rimane responsabile delle spese
condominiali se non invia all'amministratore una copia
autentica dell'atto di vendita. Considerata la vessatorietà
della norma, lo studio notarile cerca, per lo meno, di
attenuarne il rigore, considerando che il venditore possa
far avere all'amministratore o la copia autentica o un
documento equivalente, come ad esempio una dichiarazione di
avvenuta vendita rilasciata dal notaio subito dopo il
rogito.
La riforma ripete invece la regola della
responsabilità di chi acquista anche per le spese
condominiali relative all'anno in corso e a quello
precedente. Lo studio notarile ricorda che per anno si
intende l'anno di gestione e non l'anno solare o civile. Lo
studio fa un esempio: se l'alienante di una unità
immobiliare trasferisce la stessa il 18.04.2013 e ha
debiti condominiali risalenti al mese di maggio 2011,
l'acquirente può essere chiamato a risponderne solidalmente
se l'esercizio condominiale si chiude il 30 aprile di ogni
anno, mentre non lo sarà se la gestione del condominio ha
come termine di chiusura annuale il 31 marzo. In ogni caso
lo studio notarile consiglia a chi vende e a chi acquista di
disciplinare espressamente in apposite clausole dell'atto
notarile i rispettivi carichi delle spese condominiali.
SANZIONI - Chi viola il regolamento condominiale rischia una
multa fino a 200 euro e in caso di recidiva fino a 800 euro.
Chissà, si legge nel documento, che questo non basti a
rivitalizzare l'istituto.
REGOLAMENTO
- Secondo le nuove norme il regolamento, una volta approvato
dall'assemblea, deve essere allegato al registro dei verbali
delle assemblee. Secondo i notai sarebbe opportuno estendere
l'obbligo di allegazione, introdotto dalla nuova norma,
anche al regolamento contrattuale: così si potrebbero
superare le frequenti difficoltà nel reperimento di
quest'ultimo regolamento, che deve essere allegato negli
atti di trasferimento
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2013). |
APPALTI:
Appalti, obbligo di verifica slittato a fine 2013.
Confermato lo slittamento a fine 2013 dell'obbligo di
verifica dei requisiti dichiarati in gara, tramite Avcpass.
Con il
comunicato 13.06.2013 pubblicato sul proprio sito l'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici, conferma la proroga a fine
anno delle scadenze previste dalla delibera 111 del 2012,
così come anticipato da ItaliaOggi, lo scorso 12 giugno.
In
sostanza per gli appalti di lavori oltre i 20 milioni di
euro, sarà possibile procedere alla verifica documentale in
via transitoria, fino al 31.12.2013. Analogo discorso
per tutti gli appalti di importo a base d'asta pari o
superiore a 40 mila euro, con esclusione di quelli svolti
attraverso procedure interamente gestite con sistemi
telematici, sistemi dinamici di acquisizione o mediante
ricorso al mercato elettronico, nonché quelli relativi ai
settori speciali per i quali una nuova delibera stabilirà il
regime.
Dal giorno successivo, le dichiarazioni relative
agli appalti di importo a base d'asta pari o superiore a 40
mila euro dovranno obbligatoriamente essere verificate
tramite Avcpass
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2013). |
CONDOMINIO: Condominio solare.
Il fotovoltaico, se c'è maggioranza.
La riforma (in vigore dal 18/6) apre al bonus del
65%.
Sarà più semplice installare impianti per la produzione di
energia rinnovabile sulle parti comuni dell'edificio: si
abbassa infatti il quorum delle assemblee di condominio. La
legge di riforma del condominio, al countdown per l'entrata
in vigore dal 18 giugno prossimo, prescrive infatti che con
la maggioranza dei presenti all'assemblea e la metà del
valore dell'edificio si possa decidere sulle innovazioni che
riguardano gli impianti fotovoltaici.
Ora, va ricordato che l'articolo 14 del decreto legge
63/2013, prevede che siano agevolati con detrazione fiscale
del 65% fino al 30/6/2014 gli interventi di riqualificazione
energetica su parti comuni dei condomini, o su tutte le
unità immobiliari del condominio. Dunque, l'agevolazione
c'è, ma ne restano esclusi impianti di riscaldamento,
impianti geotermici e scaldacqua a pompa di calore, già
agevolati dal conto termico.
Cosa cambia.
Dal 18 giugno con decisione a maggioranza sarà possibile
installare impianti per la produzione di energia da fonti
rinnovabili sul lastrico solare negli edifici condominiali o
nella parti private dei singoli condomini. Condomini che
potranno deliberare la realizzazione di interventi per la
riduzione dei consumi energetici dell'edificio e la
produzione di energia. Sia attraverso impianti di
cogenerazione sia attraverso fonti rinnovabili.
A prevederlo è l'art. 7 della legge 220/2012 (che, come
detto, entra in vigore il 18 giugno prossimo, decorsi sei
mesi di tempo per prepararsi alle novità).
La legge riforma l'intera disciplina del condominio. E
l'art. 7 introduce un nuovo articolo nel codice civile: dopo
l'articolo 1122 inserisce il 1122-bis. Questo dispositivo
consente l'installazione di impianti per la produzione di
energia da fonti rinnovabili destinati al servizio di
singole unità del condominio sul lastrico solare, su ogni
altra idonea superficie comune e sulle parti di proprietà
individuale dell'interessato. Qualora si rendano necessarie
modifiche di parti comuni, l'interessato ne dovrà dare
comunicazione all'amministratore indicando il contenuto
specifico e le modalità di esecuzione degli interventi.
L'assemblea potrà anche stabilire modalità alternative di
esecuzione o imporre cautele a salvaguardia di stabilità,
sicurezza o decoro architettonico dell'edificio stesso.
E, ai fini dell'installazione degli impianti di risparmio
energetico, la stessa assemblea provvederà, dietro richiesta
degli interessati, a ripartire l'uso del lastrico solare e
delle altre superfici comuni, salvaguardando diverse forme
di utilizzo previste dal regolamento di condominio
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2013). |
TRIBUTI: Il verde edificabile.
Aree e parcheggi, si può costruire.
Una sentenza della Ctr Lazio va contro la Cassazione.
In tema di edificabilità dei terreni, il terreno inserito in
una zona destinata a verde pubblico e parcheggi può essere
ritenuto edificabile; infatti la capacità edificatoria della
superficie può essere trasferita su altre aree contigue
nella medesima sottozona, ivi utilizzandone, a potenziali
fini edificatori complessivi, la pur limitata volumetria.
Queste motivazioni si leggono nella sentenza 04.04.2013 n. 147/38/13
emessa dalla Sez. XXXVIII della Commissione tributaria
regionale del Lazio.
L'Agenzia delle entrate di Roma 5, aveva emesso un
avviso di liquidazione e rettifica relativamente alla
compravendita di un terreno avente una destinazione
urbanistica inserita in zona F sottozona F/5 «spazi pubblici
riservati alle attività collettive, a verde pubblico e a
parcheggi». A parere delle Entrate, quindi, essendo il
terreno edificabile, la base imponibile ai fini dell'imposta
di registro, doveva essere quantificata in base al valore di
mercato. I contribuenti ricorrevano contro questo atto
sostenendo che al terreno non poteva essere attribuito alcun
maggior valore; il terreno, infatti, non era edificabile e
per di più era di soli mq 915 precludendo ogni possibile
attività edificatoria.
La Commissione provinciale rigettava
il ricorso.
La decisione è stata confermata dai colleghi di seconda
istanza, che condannando i ricorrenti alle spese, hanno
stabilito che, secondo un consolidato orientamento
giurisdizionale, in ordine alla definizione di area
edificabile, è sufficiente l'inserimento in uno strumento
urbanistico generale anche soltanto adottato e non ancora
approvato; «si deve osservare» osservano i giudici
romani d'appello, «che la zona in cui è ubicato il
terreno oggetto della compravendita risulta inserita nel
piano regolatore generale adottato dal comune ed approvato
dalla regione già al momento del negozio traslativo». Da
considerare che la possibilità di trasferire la capacità
edificatoria sopra un area contigua, è stato determinante ai
fini della decisione.
Di diverso parere la Corte di cassazione. I giudici di
piazza Cavour nella Sentenza n. 25522/2011 hanno invece
stabilito che, «ai fini fiscali, la destinazione di un
terreno ad attrezzature sportive prevista dal piano
regolatore comunale con l'attribuzione di un indice di
edificabilità minimo funzionale alla realizzazione di
strutture collegate a tale destinazione, impedisce la
qualificazione dell'area come «suscettibile di utilizzazione
edificatoria», e comporta la definizione della base
imponibile con il criterio tabellare ai sensi della
previsione di cui all'articolo 52, comma 4, del dpr n.
131/1986»
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2013
- tratto da www.fiscooggi.it). |
APPALTI: La Centrale unica può attendere.
Slitta il nuovo sistema di acquisizione di lavori e servizi.
Un emendamento approvato al senato proroga l'entrata in
vigore al 31 dicembre.
Differita al 31.12.2013 l'entrata in vigore della
Centrale unica di committenza per i comuni con popolazione
non superiore a 5 mila abitanti.
Lo stabilisce un
emendamento approvato dal senato al disegno di legge n. 576,
di conversione del decreto legge 26.04.2013, n. 43.
La
disposizione, introdotta dal decreto legge 201/2011
(articolo 23, comma 5) sarebbe dovuta entrare in vigore per
i bandi pubblicati dopo il 31.03.2013, sono quindi fatti
salvi i bandi e gli avvisi di gara pubblicati a far data dal
01.04.2013 fino alla data di entrata in vigore della
legge di conversione del decreto legge.
«La previsione della costituzione obbligatoria, entro il 31.03.2013, della Centrale unica di committenza per
l'acquisizione di lavori, servizi e forniture, prevista per
i comuni con popolazione inferiore ai 5 mila abitanti,
rischiava di determinare un ulteriore elemento di incertezza
e di blocco degli investimenti locali», afferma il
coordinatore nazionale Anci dei piccoli comuni, Mauro
Guerra.
«L'attuazione della Centrale unica di committenza sta già
provocando notevoli difficoltà attuative e interpretative
nelle imprese operanti nei territori dei piccoli comuni che
amministrano il 54% del territorio nazionale», aggiunge
Guerra, evidenziando la forte e diffusa preoccupazione di un
sistema imprenditoriale in palese sofferenza.
La proroga dell'entrata in vigore della Centrale unica di
committenza è destinata a semplificare la vita a molte
amministrazioni locali sotto i 5 mila abitanti alle prese
con gli obblighi di gestione associata che impongono la
cogestione delle nove funzioni fondamentali indicate dalla
spending review entro il 01.01.2014.
«Migliaia di piccoli comuni, pur nella difficoltà del quadro
attuale, si stanno adoperando per cercare di adempiere,
entro la fine del 2013, al complesso degli obblighi di
gestione associata delle funzioni fondamentali in Unione o
convenzione.
L'affidamento obbligatorio a un'unica Centrale di
committenza avrebbe complicato le cose», sottolinea il
parlamentare del Pd.
«È evidente l'irrazionale difformità dei termini previsti
per entrambi gli adempimenti con l'aggravio della previsione
della Centrale unica di committenza associata prima ancora
che i piccoli comuni abbiano definito i loro nuovi assetti
di cooperazione intercomunale», ha aggiunto Guerra.
L'Anci era più volte intervenuta chiedendo almeno una
proroga al 31/12/2013, in allineamento con la definizione
delle gestioni associate obbligatorie delle funzioni
fondamentali, oltre a sollecitare ogni possibile chiarimento
rispetto alle corrette modalità attuative di tale obbligo.
«Auspichiamo quindi», conclude Guerra, «che tale
differimento venga confermato nei successivi passaggi
parlamentari»
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Bollo più caro. Per l'Abruzzo. L'imposta aumenta per coprire
1,2 miliardi di euro. È quanto
prevede un emendamento al decreto emergenze approvato ieri
dal senato.
Un miliardo e 200 milioni di euro in più per la
ricostruzione in Abruzzo. A pagare saranno i contribuenti
attraverso l'aumento dell'imposta di bollo in misura fissa.
La marca da bollo da 1,81 e quella da 14,62 euro, a
prescindere dal contesto di utilizzo, diventeranno
rispettivamente di 2 di 16 euro.
Così facendo lo stato potrà assicurare tra il 2014 e il 2019
circa 197 milioni annui per la riparazione di immobili
danneggiati o l'acquisto di nuove abitazioni sostitutive.
È
quanto prevede uno degli emendamenti al dl n. 43/2013,
approvato ieri dal senato in prima lettura.
Ma arrivano pure
nuove agevolazioni alle imprese emiliane colpite dal sisma
del 2012: dalla facoltà di «congelare» civilisticamente per
cinque anni le perdite di esercizio maturate lo scorso anno
(senza quindi dover ricapitalizzare la società) alla
possibilità di ricostruire gli immobili strumentali
danneggiati con un bonus volumetrico fino al 20%, previo
assenso del comune.
Una nuova tornata di misure interessa
pure gli enti locali coinvolti dai terremoti del 2002, del
2009 e del 2012. A cominciare dalla deroga al patto di
stabilità, i cui obiettivi saranno ammorbiditi con le
procedure previste per il patto regionale verticale per 50
milioni di euro in Emilia-Romagna, per 5 milioni in
Lombardia e in Veneto, per 30 milioni in Abruzzo e per 15
milioni in Molise.
Terremoto Emilia. Vengono concessi sei mesi in più per
completare le verifiche di sicurezza su capannoni ed edifici
prefabbricati, volte al rilascio della certificazione di
agibilità sismica: il termine, già prorogato dalla legge n.
213/2012, era in scadenza il 07.06.2013, ma ora ci sarà
tempo fino a dicembre. Autorizzata fino a tutto il 2014
l'assunzione di personale extra con contratti flessibili per
fronteggiare situazioni emergenziali. A beneficiare del
permesso saranno i comuni colpiti dal sisma (che si
spartiranno l'80% del budget, pari nel triennio a circa 24
milioni di euro), la struttura commissariale istituita
presso la regione Emilia-Romagna (16% delle risorse) e le
prefetture delle province di Bologna, Ferrara, Modena e
Reggio Emilia (4%).
Con effetto già sull'esercizio in corso
al 31.12.2012, per le imprese che hanno sede o unità
locali nei comuni terremotati le perdite accumulate non
rileveranno per cinque anni ai fini degli artt. 2446, 2447,
2482-bis, 2482-ter, 2484, 2545-duodecies c.c. Si tratta
delle disposizioni che disciplinano la riduzione del
capitale sociale per perdite e le connesse ipotesi di
scioglimento o trasformazione societaria. Precisato inoltre
che i finanziamenti agevolati per la ricostruzione non
concorrono alla formazione del reddito d'impresa né ai fini
Irap.
Terremoto Abruzzo. Stanziati 1,8 milioni di euro a favore
della provincia de L'Aquila per il pagamento dei canoni di
locazione nel 2013 delle sedi istituzionali, in attesa della
ricostruzione. Arrivano criteri standard per l'assegnazione
degli alloggi nel capoluogo aquilano: il sindaco dovrà dare
precedenza, tra gli altri, alle nuove coppie formate dopo il
sisma o ai nuovi nuclei monoparentali di cui almeno un
componente abbia la casa inagibile. Concessa la proroga ai
contratti a tempo determinato dei lavoratori assunti dal
municipio sulla base della normativa emergenziale (dirigenti
inclusi).
Varata dal senato anche la modifica secondo cui i
pagamenti degli stati di avanzamento lavori (Sal) degli
edifici privati successivi al primo Sal sono effettuati solo
a fronte di autocertificazione rilasciata
dall'amministratore di condominio o dal proprietario
beneficiario: il documento deve attestare l'avvenuto
pagamento di tutte le fatture dei fornitori relative ai
lavori effettuati fino a quel momento. Garantita infine la
prosecuzione delle attività di rimozione delle macerie,
anche attraverso l'impiego di vigili del fuoco e forze
armate. Semplificata la disciplina per la gestione delle
terre e rocce da scavo.
Turismo. Le competenze statali sul turismo passano di mano.
Con una disposizione introdotta ex novo nel ddl di
conversione, le funzioni esercitate da palazzo Chigi in
materia di turismo vengono trasferite al ministero dei beni
culturali. Con un apposito dpcm saranno spostate anche le
relative risorse umane, strumentali e finanziarie, senza
alcun aggravio per la finanza pubblica
(articolo ItaliaOggi del 13.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: L'attestato
energetico va inserito anche nelle locazioni. Nuovi obblighi.
Il Dl 63/2013 uniforma le regole sui certificati green.
Accelera la certificazione energetica degli edifici.
Cambiano le regole per il rilascio degli attestati, che
dovranno essere allegati sia ai contratti di vendita che ai
nuovi contratti di locazione, con pesanti sanzioni per chi
non rispetterà le nuove regole.
Sono in vigore dal 6 giugno scorso le nuove disposizioni
introdotte dal Dl 63/2013, che recepisce la direttiva
2010/31/Ue. In risposta alla procedura di infrazione avviata
lo scorso settembre dalla Commissione Ue, il Governo ha
scelto di fissare nuovi requisiti e uniformarli a livello
nazionale. L'attestato, rilasciato da un professionista
abilitato, avrà una durata di 10 anni dal momento del
rilascio e dovrà essere aggiornato ad ogni ristrutturazione
o riqualificazione che interviene sulle performance
energetiche dell'immobile.
Negli edifici pubblici con
superficie maggiore ai 500 mq (250 mq dal 2015) dovrà essere
esposto «in un luogo ben visibile». Durante le trattative
private, invece, venditori e locatari dovranno «renderlo
disponibile» e nei contratti dovrà essere inserita
un'apposita clausola di "presa visione". Se si tratta di una
nuova costruzione, la futura prestazione energetica dovrà
essere messa in «evidenza» e l'attestato dovrà essere
prodotto congiuntamente alla dichiarazione di fine lavori.
A coinvolgere i certificatori, che finora hanno operato
facendo lo slalom tra le differenti disposizioni regionali,
è la promessa di un decreto che definirà un modello unico
sul territorio nazionale per i contenuti dell'attestato: a
definirlo sarà il ministero dello Sviluppo Economico e
diventerà obbligatorio in tutte le Regioni e Province
autonome. Per quanto riguarda gli annunci commerciali di
vendita o locazione, tramite qualsiasi mezzo di
comunicazione, dovranno tutti riportare l'Indice di
prestazione (Ipe) dell'involucro edilizio e quello globale
dell'edificio o dell'unità immobiliare, e la classe
energetica corrispondente. Altrimenti, «il responsabile
dell'annuncio» è punito con una sanzione amministrativa non
inferiore a 500 euro e non superiore a 3mila.
Inoltre, la sanzione amministrativa per i proprietari che
non si doteranno dell'attestato nell'ambito di una
trattativa di compravendita va da 3mila a 18mila euro; nel
caso di nuova locazione, invece, da 300 a 1.800 euro. «In
questo momento –ha ricordato il presidente della Confedilizia, Corrado Sforza Fogliani–
se c'è una cosa che non ha bisogno di essere ulteriormente
scoraggiata, con l'imposizione di nuovi oneri, è la
locazione e in particolare quella dei proprietari diffusi.
La direttiva europea prevede che gli Stati membri possano
rinviare fino al 31.12.2015 l'applicazione delle
disposizioni. Auspichiamo che il Parlamento si avvalga di
questa facoltà»
(articolo Il Sole 24 Ore - Casa 24
PLUS del 13.06.2013 - tratto da
www.fiscooggi.it). |
APPALTI:
Appalti, rinvio per le verifiche. Solo dal 2014 riscontro
dei requisiti tramite Avcpass. Il
consiglio dell'organismo di vigilanza pronto a prorogare la
scadenza di ottobre.
Verso la proroga a fine anno dell'obbligo di verifica dei
requisiti tramite il sistema informatico dell'Avcpass; è
quanto starebbe per deliberare, stando ad alcune
dichiarazioni filtrate dalla stessa Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici, lo stesso Consiglio
dell'organismo di vigilanza.
Finirebbe quindi per entrare in
vigore pienamente soltanto ad inizio 2014 l'obbligo per le
stazioni appaltanti di verifica dei requisiti dichiarati dai
concorrenti attraverso il sistema previsto dall'articolo
6-bis del codice dei contratti pubblici che, in realtà,
sarebbe dovuto divenire operativo, per legge, dal primo
gennaio 2013, mettendo in linea tutte le banche dati della
pubblica amministrazioni e le informazioni fornite in via
informatica dagli operatori economici.
A regime il sistema Avcpass dovrebbe snellire gli oneri per gli appaltatori (che
caricheranno su un fascicolo virtuale documenti che oggi
fotocopiano per ogni gara); e rendere più veloci le
verifiche attraverso la consultazione on-line delle banche
dati da parte delle stazioni appaltanti. Ad oggi, le
scadenze previste dalla delibera n. 111 del 20.12.2012
sarebbero tali da fare scattare, dopo il periodo facoltativo
partito a gennaio 2013, in assenza di una proroga, un vero e
proprio obbligo di utilizzazione della piattaforma
informatica dell'Avcpass dal primo luglio 2013 per gli
appalti oltre i 150.000 euro e dal primo ottobre 2013 per i
contratti di valore superiore a 40.000 euro.
L'ipotesi,
stando alle voci che circolano in questi giorni, danno per
scontato uno slittamento a fine anno della scadenza del
primo ottobre (contratti oltre 40.000 euro). Diverse le
ragioni che porterebbero allo slittamento dei termini; in
primis la difficoltà di completare i test sul sistema in
tempo utile date la complessità delle procedure e le diverse
tipologie di contratti coinvolti (lavori, forniture e
servizi), ognuno con le sue ulteriori tipicità.
Anche dagli
incontri che la stessa Autorità sta organizzando in queste
ultime settimane con operatori pubblici e privati
sembrerebbero emergere diversi problemi applicativi tali da
suggerire uno slittamento dei termini per avere il tempo di
mettere in linea correttamente tutte le banche dati e
testare a dovere il sistema
(articolo ItaliaOggi del 12.06.2013). |
CONDOMINIO: LA RIFORMA DEL CONDOMINIO/
Condominio, le maggioranze ora non sono più agevolate.
La legge 220/2012 ostacola l'utilizzo delle
corsie preferenziali per raggiungere il quorum.
Un vero e proprio giallo sulle maggioranze agevolate. Con la
legge n. 220/2012 di riforma della disciplina del condominio
negli edifici, che entrerà in vigore la prossima settimana,
diventerà per esempio più difficile installare un ascensore
in un edificio condominiale giovandosi di quello che fino a
oggi era il canale preferenziale dell'abbattimento delle
cosiddette barriere architettoniche.
La nuova legge, che
pure ha generalmente abbassato i quorum necessari per
l'approvazione delle deliberazioni assembleari, anche se nel
lodevole intento di far confluire nel codice civile gran
parte delle disposizioni speciali che prevedevano
maggioranze agevolate per le innovazioni di carattere
sociale, ha però comportato, per un probabile errore di
coordinamento testuale, un deciso innalzamento di alcune
delle predette maggioranze. Tanto da far fortemente dubitare
che in questi casi, salvo un auspicabile nuovo intervento
legislativo, possa continuarsi a parlare di maggioranze
agevolate.
L'efficacia delle deliberazioni assembleari e i criteri per
l'individuazione della maggioranza. Il criterio individuato
dalla legge per la formazione della volontà del condominio è
il c.d. principio maggioritario. In base a esso la volontà
della maggioranza vale per tutti i comproprietari,
vincolando anche la minoranza dissenziente.
Tuttavia sono numerosi i contrappesi inseriti dal
legislatore per equilibrare la posizione della minoranza dei
condomini. Innanzitutto a questi ultimi è garantita la
possibilità di invertire le sorti della votazione tramite la
forza persuasiva delle proprie argomentazioni esposte
durante la discussione assembleare. La minoranza, inoltre,
ha sempre la possibilità di impugnare le deliberazioni che
ritenga illegittime e dunque pregiudizievoli dei propri
interessi, come garantito dall'art. 1337 c.c. (si veda
l'altro articolo di questa settimana).
Ma una ulteriore e importante contromisura è certamente
rappresentata dal sistema di votazione assembleare. Da un
primo punto di vista, infatti, il legislatore ha inteso
contemperare le maggioranze numeriche frutto del voto
espresso da ciascun condomino (c.d. voto per testa) con
quelle derivanti dai millesimi di proprietà attribuiti a
ciascuno di essi. Il codice civile ha poi individuato in
modo preciso le maggioranze necessarie per l'adozione delle
varie deliberazioni di competenza dell'assemblea (c.d.
quorum), distinguendo quelle necessarie alla costituzione
della riunione condominiale (c.d. quorum costitutivo) da
quelle richieste per la validità della decisione (c.d.
quorum deliberativo). L'indicazione delle maggioranze che,
volta per volta, il legislatore ha ritenuto opportune per
l'adozione di una determinata deliberazione rappresenta il
frutto di una scelta discrezionale compiuta proprio
nell'interesse del condominio e dei singoli condomini. In
altre parole, esse costituiscono il contemperamento degli
opposti interessi della collettività condominiale.
Le maggioranze semplici. Il nuovo art. 1136, comma 1, c.c.,
prevede ora dei quorum più bassi e richiede, per l'assemblea
in prima convocazione, un quorum costitutivo di condomini
che rappresentino i due terzi del valore dell'edificio e la
maggioranza (non più dei due terzi) dei partecipanti al
condominio, e un quorum deliberativo della maggioranza degli
intervenuti e di almeno la metà del valore dell'edificio.
Tuttavia è raro che le assemblee si svolgano in prima
convocazione, in quanto le maggioranze prescritte dalla
legge per le riunioni in seconda convocazione sono molto più
basse e, di conseguenza, facilitano il raggiungimento del
numero di voti necessario all'adozione delle singole
deliberazioni. Il nuovo art. 1136, n. 3, c.c., ha quindi
introdotto per la prima volta un quorum costitutivo anche
per l'assemblea in seconda convocazione, pari a un terzo dei
partecipanti al condominio e a un terzo del valore
dell'edificio, mentre il quorum deliberativo è stato
diminuito alla maggioranza degli intervenuti che rappresenti
un terzo del valore dell'edificio.
Per quanto riguarda le materie per le quali è sufficiente il
raggiungimento della maggioranza semplice, in prima o in
seconda convocazione, che, facendo applicazione di un
criterio di residualità, sono tutte quelle che non rientrino
nelle competenze dell'assemblea e per le quali la legge non
preveda una maggioranza qualificata o agevolata, si
segnalano, a titolo esemplificativo, la manutenzione
ordinaria, l'approvazione del bilancio preventivo, la
ripartizione del bilancio preventivo tra i condomini,
l'approvazione del bilancio consuntivo, l'impiego degli
eventuali residui attivi della gestione ecc.
Le maggioranze qualificate. In una serie di casi, invece, il
legislatore ha preferito derogare alle maggioranze semplici
di cui sopra e ha previsto delle maggioranze qualificate,
che richiedono un numero di voti maggiore per l'adozione
delle deliberazioni assembleari. Si tratta di numerose
disposizioni codicistiche, molte delle quali introdotte
proprio dalla legge n. 220/2012, che prevedono dei quorum
deliberativi particolari nelle ipotesi di nomina e revoca
dell'amministratore, liti attive e passive relative a
materie che esorbitano dalle attribuzioni
dell'amministratore, ricostruzione dell'edificio,
riparazioni straordinarie di notevole entità, approvazione e
modifica del regolamento condominiale, scioglimento del
condominio, innovazioni dirette al miglioramento o all'uso
più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni,
modificazioni e tutela delle destinazioni d'uso,
videosorveglianza delle parti comuni, nomina del revisore
dei conti del condominio ecc.
Le maggioranze agevolate. La legislazione speciale
successiva all'entrata in vigore del codice civile aveva man
mano previsto tutta una serie di ipotesi nelle quali, allo
scopo di agevolare l'adozione di delibere assembleari per la
realizzazione di particolari interventi di interesse
sociale, erano state previste delle maggioranze agevolate
rispetto a quelle ordinariamente necessarie in caso di
innovazioni.
Si pensi alle opere finalizzate all'abbattimento delle c.d.
barriere architettoniche (legge n. 13/1989), alla
realizzazione dei parcheggi per gli autoveicoli (legge n.
122/89), al riscaldamento (legge n. 10/1991, dlgs n. 311/2006,
legge n. 99/2009), alle antenne e agli impianti satellitari
(legge n. 249/97, legge n. 66/2001), alle infrastrutture di
ricarica elettrica dei veicoli (legge n. 134/2012).
Il nuovo art. 1120 c.c. introdotto dalla legge di riforma
del condominio ha però comportato un deciso innalzamento di
alcune delle maggioranze previste in precedenza, tanto da
far fortemente dubitare che nei casi dell'abbattimento delle
barriere architettoniche e dell'installazione delle antenne
e degli impianti satellitari, salvo un auspicabile
intervento legislativo, possa continuarsi a parlare di
maggioranze agevolate. In tema di riscaldamento, invece, il
già difficile e articolato quadro normativo sembra essere
stato ulteriormente complicato, non essendo del tutto
chiaro, dalla lettura combinata degli articoli 5 e 28 della
legge n. 220/2012, quali siano le fattispecie realmente
prese di mira dal legislatore.
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Delibera invalida con citazione.
La riforma detta le regole per l'impugnazione. Atto da
indirizzare al giudice competente.
Delibere condominiali da impugnare con atto di citazione.
Che di per sé non comporta la sospensione dell'esecuzione
della volontà assembleare, salvo che quest'ultima sia
richiesta al giudice con apposita istanza, anche precedente
all'impugnazione. La nuova legge n. 220/2012 di riforma
della disciplina del condominio, che entrerà in vigore la
prossima settimana, ha riscritto le regole per
l'impugnazione delle deliberazioni assembleari, con
importanti chiarimenti sui principali snodi del relativo
procedimento.
Le delibere annullabili, in base all'art. 1137 c.c., possono
essere impugnate giudizialmente dai condomini dissenzienti e
da quelli astenuti, nonché da quelli che non abbiano
partecipato all'assemblea, nel termine di decadenza di 30
giorni, decorrente per i primi dalla data dell'assemblea e
per questi ultimi dalla data di comunicazione del relativo
verbale.
L'invalidità delle deliberazioni assembleari. Quello
dell'invalidità delle deliberazioni assembleari costituisce
da sempre un tema particolarmente delicato nell'ambito del
diritto condominiale. La tradizionale distinzione fra
ipotesi di nullità e annullabilità, in mancanza di precise
indicazioni da parte del legislatore, ha infatti portato
all'elaborazione di una casistica giurisprudenziale quanto
mai intricata e, a volte, contraddittoria.
Con il nuovo art. 1137 c.c. il legislatore, facendo propri i
più recenti sviluppi giurisprudenziali, ha eliminato alla
radice qualsiasi dubbio sull'applicabilità della procedura
di impugnazione ivi disciplinata anche ai casi di nullità
delle delibere condominiali. Nella nuova disposizione si
parla infatti espressamente di annullamento delle
deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di
condominio da promuovere dinanzi alla competente autorità
giudiziaria nel termine perentorio di trenta giorni. Mentre
in precedenza si poteva equivocare se l'azione diretta a
fare accertare in giudizio l'invalidità delle delibere
comprendesse o meno anche i casi di nullità delle stesse, la
nuova versione dell'art. 1137 c.c. chiarisce in modo
definitivo che la stessa è finalizzata esclusivamente
all'accertamento dell'annullabilità della volontà
assembleare. Resta quindi inteso che eventuali ragioni di
nullità potranno essere contestate, in base alle regole
generali, da chiunque vi abbia interesse con un ordinario
procedimento giurisdizionale di accertamento da avviare
negli ordinari termini di prescrizione del diritto.
La legittimazione all'azione. Per poter impugnare una
deliberazione assembleare è necessario che chi agisce in
giudizio sia fornito della relativa legittimazione. Anche in
questo caso la norma di riferimento è il nuovo art. 1337
c.c., che ha specificato come la stessa spetti tanto ai
condomini presenti in assemblea e che abbiano votato in
senso contrario all'approvazione della delibera quanto a
quelli assenti quanto, infine, a quelli che, pur avendo
partecipato alla riunione condominiale, si siano astenuti
dal voto. Il termine di decadenza di 30 giorni per
l'impugnazione decorre dalla data dell'assemblea per i
dissenzienti e gli astenuti e dalla data di comunicazione
della deliberazione per gli assenti. A parte le ipotesi di
nullità, la legittimazione attiva all'impugnazione delle
deliberazioni condominiali spetta di regola solo ai
condomini, ovvero ai proprietari delle unità immobiliari
site in condominio.
Le modalità dell'impugnazione delle deliberazioni
assembleari. Il secondo comma del vecchio art. 1137 c.c.,
nell'attribuire ai condomini il potere di impugnare le
deliberazioni invalide, qualificava come «ricorso» l'atto
introduttivo del relativo giudizio. Ciò sembrava comportare
un'evidente deroga al sistema ordinario, che prevede che il
giudizio civile sia introdotto mediante citazione a udienza
fissa. Anche in questo caso è bastato poco al legislatore
per risolvere un'annosa questione che, sebbene di recente
dipanata dalla giurisprudenza di legittimità, poteva
comunque risultare insidiosa dal punto di vista pratico e
originare nuovo contenzioso.
Nel nuovo art. 1137 c.c. sparisce quindi la parola
«ricorso», risolvendo brillantemente la questione se detto
termine dovesse essere inteso in senso tecnico o atecnico e
se l'impugnazione delle deliberazioni dovesse quindi
avvenire con ricorso o con atto di citazione. La nuova
disposizione si limita infatti a enunciare che chi intende
impugnare una deliberazione assembleare che si assuma
contraria alla legge o regolamento di condominio deve
chiederne l'annullamento all'autorità giudiziaria entro il
termine di 30 giorni. Se ne deve concludere che, come è
naturale, la questione di quale sia il mezzo tecnicamente
appropriato per svolgere la suddetta impugnazione in sede
giudiziaria sia di tipo squisitamente processuale, come tale
da risolvere alla luce dei criteri indicati dal vigente
codice di procedura civile. Ora, rientrando il procedimento
in questione tra quelli ordinari, non si può che concludere
che l'impugnazione giudiziale delle deliberazioni
assembleari debba essere introdotta con atto di citazione.
La sospensione dell'efficacia della deliberazione
condominiale. Con gli ultimi due commi del novellato art.
1337 c.c. il legislatore ha quindi voluto ulteriormente
chiarire la questione della sospensione dell'efficacia della
delibera condominiale impugnata. Se, infatti, il vecchio
testo della citata disposizione si limitava a prevedere che
il ricorso per non sospendeva di per sé l'esecuzione della
deliberazione, ma che era comunque necessario uno specifico
provvedimento dell'autorità giudiziaria, l'ultimo comma del
nuovo art. 1337 c.c. si occupa specificamente di
disciplinare, seppure in via soltanto analogica, il
procedimento da seguire per richiedere al giudice di
pronunciarsi sulla sussistenza o meno delle condizioni per
ottenere la sospensione dell'efficacia dell'atto impugnato.
L'istanza di sospensione in questione, secondo i criteri
ordinari, può essere proposta tanto in costanza di causa
quanto anteriormente alla stessa. Limitatamente a
quest'ultimo caso il legislatore ha però inteso specificare
che l'istanza di sospensione dell'efficacia di una delibera
condominiale proposta autonomamente e anteriormente
all'avvio della causa di merito non sospende il termine di
decadenza di 30 giorni di cui al medesimo art. 1337 c.c.
ovvero, detto in altri termini, non equivale all'atto di
impugnazione della volontà assembleare.
A quale giudice rivolgersi. L'atto di citazione per
l'impugnazione della deliberazione condominiale sarà volta
per volta indirizzato al giudice competente per territorio e
per valore. Quanto al primo aspetto occorre evidenziare come
l'art. 23 c.p.c., adeguatamente riformulato dal legislatore
con la recente legge n. 220/2012, stabilisca espressamente
che per le cause tra condomini e tra condomini e condominio
sia competente il giudice del luogo in cui si trovano i beni
comuni o la maggior parte di essi (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Edilizia, sconti a lunga durata.
Per gli interventi importanti incentivi fino a fine 2014.
Il dl che proroga la detrazione per
le ristrutturazioni e potenzia il bonus energetico.
Rafforzamento degli incentivi edilizi ad appeal progressivo.
La proroga della detrazione per le ristrutturazioni e il
bonus energetico potenziato al 65% saranno operativi per
interventi promossi entro fine anno; tuttavia, per gli
interventi di riqualificazione «importanti» lo sconto
sconfinerà a tutte le opere poste in essere nel 2014.
Il decreto legge approvato il 31.05.2013 dal Consiglio
dei ministri, introduce, accanto al recepimento della
direttiva comunitaria 2010/31/Ue, importanti e attesi
provvedimenti in tema di incentivi alla riqualificazione,
non solo energetica, del patrimonio immobiliare nazionale.
Al di là delle finalità comunitarie, riassunte nella tabella
in pagina, l'articolo 14 del decreto potenzia l'attuale
regime di detrazioni fiscali del 55% per gli interventi di
miglioramento dell'efficienza energetica degli edifici, in
scadenza al 30.06.2013; accanto alla proroga
dell'incentivo compare l'aumento della percentuale di
detrazione al 65%, con una importante differenziazione a
favore degli interventi strutturali sull'involucro edilizio,
ossia di quelli destinati a ridurre definitivamente il
fabbisogno di energia.
La detrazione del 65% si applica sulle spese sostenute dal
01.07.2013 al 31.12.2013 per gli interventi di
riqualificazione energetica effettuati sull'involucro
dell'edificio o dell'unità immobiliare esistente, ivi
comprese le parti comuni degli edifici condominiali ai sensi
degli articoli 1117 e 1117-bis del codice civile. Si tratta
di interventi concentrati sulla struttura edilizia
dell'edificio, con estensione globale o parziale (pavimenti,
coperture), e le finestre, comprensive di infissi.
Alcuni interventi restano esclusi dalla misura per il
semplice fatto che gli stessi sono ricompresi in diverse
norme agevolative. È il caso della spesa per gli impianti di
produzione di energia termica (pannelli solari per uso
termico e pompe di calore) che gode dello specifico
incentivo equivalente o dei costi per l'istallazione e
l'acquisto di caldaie a condensazione, ricomprese nelle
opere che possono comunque accedere alla detrazione del 50%
per ristrutturazioni edilizie.
Come anticipato l'incentivo è incrementato (non
quantitativamente ma temporalmente) per gli «interventi di
riqualificazione energetica importanti». Vengono così
definiti quelli che implicano la riqualificazione di almeno
il 25% della superficie dell'involucro. Il tutto con lo
scopo di favorire la riqualificazione strutturale e
definitiva del patrimonio immobiliare.
Questi interventi necessitano, fisiologicamente, di un
periodo più ampio per l'esecuzione dei lavori, anche per la
maggiore complessità e per i più lunghi tempi di
progettazione e autorizzazione che impedirebbero di
completare le opere entro un semestre. In considerazione dei
tempi tecnici necessari per assumere le decisioni a livello
condominiale e per la realizzazione di interventi
sull'involucro edilizio, in particolare per i progetti che
riguardano gli edifici plurifamiliari, le detrazioni in
questione sono quindi previste per interventi realizzati nel
periodo dal 01.07.2013 al 31.12.2014.
In verità il rafforzamento dell'incentivo, per le opere più
importanti, non si esaurisce con la maggior durata; per
queste ristrutturazioni complete è prevista la possibilità
di portare in detrazione anche le spese per l'acquisizione
per alcune tipologie di impianti di climatizzazione ad alta
efficienza (caldaie a condensazione).
Un ultimo importante intervento attiene alla introduzione di
apposite tabelle che individuano i nuovi «tetti» massimi
alla spesa detraibile e, soprattutto, parametri di «costo
unitario massimo» ammissibile per tipo di intervento, al
fine di tenere sotto controllo gli oneri ed evitare
traslazioni indebite dell'incentivo sui prezzi di mercato,
come verificato nell'esperienza fin qui maturata. In tal
modo, i valori di costo massimi sono compatibili con
interventi in edifici di media grandezza, costituiti da un
numero variabile tra 25 e 35 unità immobiliari indipendenti.
La volontà dichiarata è quella di fornire un forte impulso
all'economia di settore e in particolare al comparto
dell'edilizia specializzata, caratterizzato da una forte
base occupazionale, concorrendo in questo momento di crisi
al rilancio della crescita e dell'occupazione e allo
sviluppo di un comparto strategico per la crescita
sostenibile.
In tale ottica sono altresì importanti gli interventi in
materia di prestazione energetica, come illustrati dalla
tabella. In particolare importante appare la definizione di
«edifici a energia quasi zero» e viene redatta una strategia
per il loro incremento. Entro il 31.12.2020 tutti gli
edifici di nuova costruzione dovranno essere a «energia
quasi zero». Gli edifici di nuova costruzione occupati dalle
amministrazioni pubbliche e di proprietà di queste ultime
dovranno rispettare gli stessi criteri a partire dal 31.12.2018.
Viene, infine, previsto un sistema di certificazione della
prestazione energetica degli edifici che comprenda
informazioni sul consumo energetico, nonché raccomandazioni
per il miglioramento in funzione dei costi (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.06.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Assistenza ai disabili garantita.
Le ferie non riducono il diritto ai tre giorni di permesso
mensili che spetta al lavoratore che presta assistenza a
familiari disabili (legge n. 104/1992). Lo stesso per
malattia e festività, per maternità e permessi sindacali; in
tutte queste ipotesi i tre giorni restano tali.
Il principio
fissato dal Ministero del lavoro (interpello
01.08.2012 n. 24/2012)
vuole che il lavoratore conservi il diritto a fruire dei tre
giorni di permesso mensili in quanto aventi natura, funzione
e caratteri diversi.
Il principio apre a due differenti
trattamenti. Da una parte diventa illegittimo
riproporzionare i tre giorni di permesso mensili sulla base
dell'attività lavorativa effettivamente svolta, qualora il
lavoratore abbia legittimamente beneficiato di altre
tipologie di permessi o congedi a lui spettanti; d'altra
parte diventa legittimo riproporzionare i permessi nei casi
in cui ci sia stata riduzione di attività lavorativa per
altri motivi.
In tal caso il riproporzionamento del numero dei giorni
mensili di permesso disabili è possibile e avviene in base
ai criteri indicati dall'Inps, per cui viene concesso un
giorno di permesso ogni dieci giorni di assistenza
continuativa e, per periodi inferiori a dieci giorni, non si
ha diritto a nessuna giornata di permesso (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.06.2013). |
URBANISTICA: Procedure. Norme regionali sulla valutazione ambientale
strategica - Solo Sicilia e Basilicata hanno regole
precedenti la direttiva Ue.
Piani urbanistici, Vas in formato locale.
Puglia e Marche esonerano dall'esame di impatto le varianti
con scambio di cubature.
È un cantiere aperto quello delle leggi con cui le Regioni
recepiscono le norme europee e nazionali sulla valutazione
ambientale strategica (Vas) di piani e programmi di
intervento. Di recente l'Associazione dei costruttori (Ance)
ha fatto il punto con un monitoraggio delle disposizioni
delle singole Regioni.
Di fatto solo Sicilia e Basilicata non si sono ancora dotate
di una propria regolamentazione della Vas e continuano ad
applicare la legge statale oppure norme regionali approvate
prima della direttiva europea. Mentre, sul fronte degli
aggiornamenti, le ultime novità arrivano dalla Liguria che
ha appena fornito le linee guida per applicare la propria
legge del 2012 e dalla Puglia che ha individuato a fine 2012
gli ambiti di esclusione dalla Vas. Diverse altre Regioni,
comunque, hanno rivisto con aggiornamenti la propria
disciplina (si veda la tabella a fianco).
Gli obiettivi
Tra le diverse procedure pubbliche poste a salvaguardia
dell'ambiente, gli esiti della Vas offrono un quadro di
riferimento per le valutazioni ambientali più di dettaglio.
La Vas deve «garantire un elevato livello di protezione
dell'ambiente e contribuire all'integrazione di
considerazioni ambientali all'atto del l'elaborazione,
dell'adozione e approvazione dei piani e programmi
assicurando che siano coerenti e contribuiscano alle
condizioni per uno sviluppo sostenibile». Lo svolgimento
della procedura è disciplinata dal decreto legislativo 152/
2006, che ha recepito la direttiva 2001/42/Ce, con la quale
la salvaguardia e la tutela ambientale sono state anticipate
già alla fase di programmazione e pianificazione.
Le Regioni
Con la delibera della Giunta regionale 331 del 28.03.2013
la Liguria ha fornito gli indirizzi operativi per
l'applicazione della Lr 10.08.2012, n. 32.
Sulla scia dell'orientamento di altre Regioni, la Liguria
individua l'ambito di applicazione delle norme nei piani e
programmi che –per le modificazioni diffuse che possono
apportare al territorio– sono suscettibili di produrre
impatti rilevanti sull'ambiente. La lista comprende quelli
con i quali si interviene nei settori dell'agricoltura,
della foresta, della pesca, dell'energia, del turismo, della
pianificazione territoriale o della destinazione dei suoli;
nel settore dei trasporti, sono compresi anche i piani
regolatori dei porti di interesse internazionale.
Niente Vas, invece, per i piani di protezione civile per
salvaguardare l'incolumità pubblica, i progetti di
piano-stralcio per la tutela dal rischio idrogeologico e
quelli operativi dei piani urbanistici comunali.
Con la legge regionale 14.12.2012, n. 44 anche la
Puglia si è dotata di una propria disciplina di Vas.
Nell'individuare gli ambiti di esclusione da questo livello
di valutazione ambientale, il legislatore pugliese ha
riservato una particolare attenzione ai piani urbanistici.
Sono escluse le varianti urbanistiche assunte per
l'approvazione dei piani di alienazione e valorizzazione
immobiliari che riguardano piccole aree locali o modificano
marginalmente quelli già sottoposti a Vas.
Non necessitano della valutazione anche gli strumenti
attuativi di piani urbanistici già sottoposti a Vas, purché
la pianificazione generale definisca già l'assetto
localizzativo delle nuove previsioni e delle dotazioni
territoriali, gli indici di edificabilità, gli usi ammessi e
i contenuti planovolumetrici, tipologici e costruttivi degli
interventi.
Anche le Marche sottopongono a condizioni l'esonero dalla
Vas delle varianti ai Prg e ai loro strumenti di attuazione.
Non devono, tra l'altro, comportare incrementi del carico
urbanistico, né prevedere opere per le quali è richiesta la
valutazione di impatto ambientale o di incidenza.
Sono escluse anche le varianti che comportano il
trasferimento di capacità edificatoria in siti diversi da
quelli originari, purché l'incremento della stessa capacità
edificatoria per uso residenziale non ecceda il 20% del
volume esistente entro il tetto di 200 mc., o la stessa
percentuale ma entro il limite dei 400 mq per gli usi non
residenziali.
Di recente anche la Regione Veneto (articolo 40 della Lr
13/2012; Dgr 1646 del 07.08.2012) è intervenuta per
dettagliare l'applicazione della Vas ai piani urbanistici.
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Le scelte. Riparto in base al principio di sussidiarietà
verticale.
Competenze affidate a Province e Comuni.
Nella distribuzione, tra i diversi livelli istituzionali,
delle competenze in materia di Vas, le Regioni si sono mosse
in prevalenza in base al principio della sussidiarietà
verticale, ovvero cercando di affidare la competenza
all'ente più direttamente interessato al piano da valutare.
Alcune (Emilia-Romagna, Marche, Sardegna, Umbria)
condividono la competenza solo con le Province. A questo
schema si è adeguata anche la Liguria con la Lr 32/2012, di
regolamentazione della materia, mentre nel Lazio l'autorità
competente è individuata, per i piani e programmi relativi a
tutti i livelli di governo del territorio, nella struttura
regionale dell'assessorato all'Ambiente.
In via generale viene individuato il livello regionale per i
piani e programmi la cui paternità è interamente attribuita
alla Regione, ma in alcuni casi essa è autorità competente
anche per quelli sui quali è tenuta a esprimere anche solo
un parere obbligatorio. Per lo svolgimento della valutazione
le Regioni si avvalgono delle proprie strutture interne
oppure delle agenzie regionali per l'ambiente; la Toscana fa
ricorso al nucleo di valutazione degli investimenti
pubblici.
Le Province si occupano dei propri piani e programmi o di
quelli promossi dagli enti istituzionalmente sotto ordinati:
a esse compete quindi la Vas sui piani territoriali di
coordinamento territoriale e sui piani urbanistici dei
Comuni.
In alcune Regioni (tra le quali Abruzzo, Piemonte e Toscana)
i piani regolatori generali vengono sottoposti a Vas dagli
stessi Comuni, sulla base del criterio generale che della
valutazione debba essere responsabile lo stesso livello
istituzionale al quale compete l'approvazione dello
strumento di pianificazione o programmazione oggetto di Vas.
Questa è la ripartizione delle competenze che opera anche in
Lombardia.
Molte Regioni hanno istituito degli uffici tecnici di
supporto ai piccoli Comuni. La normativa della Campania (la
quale con la delibera n. 63 del 07.03.2013 ha modificato
il disciplinare organizzativo della valutazione) specifica
che l'ufficio dell'ente preposto alla valutazione ambientale
strategica deve obbligatoriamente essere diverso da quello
al quale sono attribuite le funzioni in materia urbanistica
ed edilizia.
La preoccupazione, di ordine più generale, di evitare che
controllato e controllore coincidano è anche di altre
Regioni. Lombardia e Toscana disciplinano l'argomento con
norme identiche, le quali prevedono che l'autorità
competente per la Vas sia individuata sulla base di questi
requisiti:
- separazione rispetto all'autorità procedente;
- adeguato grado di autonomia;
- competenza in materia di tutela, protezione e
valorizzazione ambientale e di sviluppo sostenibile.
L'autorità alla quale la normativa regionale attribuisce il
compito di svolgere la valutazione sull'approvazione dei
documenti originari di programmazione, è, ovviamente, la
stessa che si occuperà della Vas nel caso ai piani vengano
apportate varianti non esenti dalla valutazione.
Le normative regionali hanno posto attenzione a evitare o a
contenere l'accavallarsi di valutazioni. Il principio
ricorrente è quello di non sottoporre a Vas –o a verifica
di assoggettabilità a Vas– i piani e i programmi di rango
inferiore a quelli nei cui contesti si sviluppano, a
condizione che i piani di rango superiori siano già stati
oggetto di valutazione.
La regola non vale, naturalmente, se i piani attuativi
prevedono interventi e iniziative che non sono già state
oggetto di valutazione nei piani sovraordinati.
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Le leggi
01|I DUE LIVELLI
Alcune Regioni hanno suddiviso le competenze sulla Vas tra
Regione stessa e Provincia. Tra queste Emilia Romagna,
Sardegna, Marche, Umbria e Liguria. Campania, Puglia e
Friuli Venezia Giulia le hanno ripartite tra Regione e
Comuni
02|L'ACCENTRAMENTO
Nel Lazio e in Provincia di Bolzano la competenza è unica e
affidata all'ente regionale o provinciale. Altre Regioni
hanno affidato la Vas allo stesso ente che elabora il piano
o il programma (articolo
Il Sole 24 Ore del 10.06.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Pmi. Dal 13 giugno.
Arriva l'Aua, da verificare i permessi in scadenza.
Si chiama Aua (autorizzazione unica ambientale) il nuovo
strumento amministrativo nato per semplificare i rapporti
tra le imprese e la Pubblica amministrazione in materia
ambientale.
Oggetto del Dpr 59/2013, la disciplina entra in vigore
giovedì 13 giugno. L'autorità competente è la Provincia o
quella indicata dalla Regione, ma le imprese dovranno
presentare la domanda di autorizzazione esclusivamente al
Suap (Sportello unico attività produttive) il quale si
interfaccia con l'autorità competente.
L'avvio
Come primo effetto della nuova normativa, occorre chiedersi
come dovranno comportarsi le Pmi che da giovedì 13 giugno si
troveranno nella condizione di dover richiedere o gestire le
autorizzazioni per le numerose aree d'intervento dell'Aua.
L'articolo 10 del Dpr 59/ 2013 dispone che i procedimenti
avviati prima della sua entrata in vigore siano conclusi in
base alle norme vigenti al momento dell'avvio. Pertanto, la
nuova disciplina non tocca le imprese (Pmi) che hanno
presentato la domanda per uno degli atti sostituiti prima
del 13.06.2013.
Il Dpr 59/2013 chiarisce che l'Aua dura 15 anni e che il
rinnovo va richiesto almeno sei mesi prima della scadenza;
però, non chiarisce quanto tempo prima della scadenza del
primo titolo abilitativo sostituito vada richiesta l'Aua.
È ragionevole ritenere che il termine semestrale si applichi
anche alla prima richiesta di Aua; pertanto, è consigliabile
che dal 13 giugno le Pmi soggette ad Aua inizino a contare i
mesi che mancano alla scadenza del primo tra i titoli
abilitativi posseduti e, se del caso, si affrettino a
chiederne il rinnovo, tramite Aua presentata al Suap. In
questa occasione, l'Aua (in quanto unica) va richiesta per
tutti i titoli anche se non tutti sono in scadenza.
In attesa che il ministero dell'Ambiente adotti lo schema
unificato per la domanda di Aua, le imprese dovranno
presentarla corredata da documenti, dichiarazioni e
informazioni previste dalle norme di settore relative agli
atti abilitativi sostituiti, indicando gli atti per i quali
si chiede l'Aua.
Se la Pa non interviene entro il tempo di vigenza dei titoli
abilitativi sostituiti, si ritiene che questi continuino a
espletare la loro efficacia (escluso lo scarico di sostanze
pericolose, come già previsto dall'articolo 124, Dlgs
152/2006).
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I contenuti
L'Aua sostituisce i seguenti sette titoli abilitativi:
1- autorizzazione agli scarichi idrici;
2- comunicazione preventiva di cui all'articolo 112, Dlgs
152/2006 per l'uso agronomico di effluenti di allevamento,
acque di vegetazione dei frantoi oleari e acque reflue
provenienti dalle aziende ivi indicate;
3- autorizzazione alle emissioni in atmosfera;
4 autorizzazione generale in deroga per gli impianti a
emissioni in atmosfera scarsamente rilevanti;
5 comunicazione o nulla osta per le emissioni sonore delle
attività produttive o edilizie;
6- autorizzazione all'uso agricolo dei fanghi di depurazione;
7- comunicazioni e autorizzazioni per autosmaltimento e
recupero agevolato di rifiuti.
Destinatarie della nuova disciplina sono solo le Pmi di cui
all'articolo 2, Dpr 18.04.2005. Sono esclusi dall'Aua
gli impianti soggetti ad Aia (autorizzazioneintegrata
ambientale). Il gestore può scegliere di non richiedere l'Aua
se l'attività è soggetta solo a comunicazione oppure ad
autorizzazione generale per l'atmosfera
(articolo Il Sole 24 Ore del
10.06.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Con i nuovi sindaci debutta finalmente l'«esame» dei conti.
PER LA PRIMA VOLTA/
I politici usciti vincenti dalle urne dovranno mettere nero
su bianco situazione finanziaria e patrimonio.
Il 2013 sarà ricordato per il primo vero esame per sindaci.
Gli eletti nella tornata elettorale del 26/27 maggio e
quelli usciti dal ballottaggio di ieri e oggi saranno
infatti tenuti, entro 90 giorni dalla formalizzazione
dell'incarico, a redigere la relazione di inizio mandato.
In tutta Italia sono stati in 719 a votare. Record in
Sicilia (141). Meno di tutti in Trentino Alto Adige (1). Non
scherzano la Lombardia (95), la Campania (89) e il Piemonte
(50). Ma pure Calabria, Lazio, Puglia e Veneto con oltre 40
ciascuna.
Tanti (39) i Comuni al voto interessati dallo scioglimento
per mafia. È viva la speranza che i cittadini abbiano saputo
scegliere meglio di come hanno fatto ieri. I risultati che
sono usciti dalle urne misureranno il grado di civiltà
raggiunto dai Comuni afflitti da questo fenomeno nel fare
abortire ogni tentativo della "mafia" di reimpossessarsi
delle istituzioni.
Cos'è la relazione di inizio mandato? E' uno strumento,
introdotto nell'ordinamento con l'articolo 2, comma 3, del
Dl 174/2012.
Ogni sindaco eletto deve dar conto di tutto ciò che trova,
così come quello uscente deve dare conto di quanto lascia.
Più esattamente, il subentrante -a tre mesi dal suo
insediamento- dovrà sottoscrivere la relazione di inizio
mandato, predisposta dal responsabile del servizio
finanziario o dal segretario generale. Da un tale documento
dovrà emergere l'intervenuta verifica della situazione
finanziaria e patrimoniale, nonché la misura
dell'indebitamento dell'ente, rappresentato nella sua
specificità.
Un atto di particolare importanza, dal momento che dai suoi
esiti dipenderanno le sorti della gestione del nuovo
sindaco, anche in relazione alla scelta di ricorrere o meno
alle procedure anti-default. Costituirà lo strumento
giuridico-contabile con il quale doversi misurare a fine
sindacatura ma anche middle term.
Dunque, un appuntamento importante per i sindaci. Ma anche
per i cittadini che avranno, finalmente, la possibilità di
conoscere lo stato di salute dei conti del loro comune, in
rapporto al quale dovranno o meno pagare le fiscalità più
elevate possibili.
«Peccato non averlo saputo prima del voto», è ciò che
esclameranno in tanti.
Certo, perché la quasi totalità dei sindaci uscenti non ha
adempiuto a redigere, entro i 90 giorni antecedenti le
elezioni, la relazione di fine del mandato perché graziati
da una reiterata "disattenzione" nel predisporre il relativo
schema (Il Sole 24 Ore del 20 maggio scorso). Un adempimento
pensato per due ordini di motivi:
a) avere modo di conoscere
le malefatte gestionali dei sindaci uscenti e perseguirli
"secondo (de)merito";
b) garantire la consapevolezza ai
cittadini, utile a votare meglio e a scegliere chi più
merita.
I ritardi nel perfezionare il relativo schema, oggi
in Gazzetta Ufficiale (IlSole24Ore dell'1 giugno scorso),
hanno fatto sì che ciò non succedesse sia nel 2012 che nel
2013.
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La prima puntata
Sul Sole 24 Ore del 20 maggio è stato sottolineato il fatto
che le amministrazioni sono andate per l'ennesima volta al
voto senza l'obbligo di redigere la relazione di fine
mandato, prevista dal federalismo fiscale ma mai attuata. Il
provvedimento attuativo è andato in «Gazzetta Ufficiale» il
29 maggio, giorno del voto (articolo Il
Sole 24 Ore del 10.06.2013). |
GIURISPRUDENZA |
LAVORI PUBBLICI: Illegittimi gli albi regionali dei collaudatori.
La corte bacchetta il Piemonte: nessun privilegio per i
dipendenti.
Costituzionalmente illegittima la creazione di un «albo
regionale dei collaudatori», con privilegio nella sua
gestione per i dipendenti pubblici regionali. La fissazione
di regole di accesso ai collaudi, che di fatto impediscono
ai liberi professionisti di svolgere il servizio, contrasta
con la normativa contenuta nel codice dei contratti e con le
norme costituzionale in tema di potestà legislativa in
materia di ordinamento civile e tutela della concorrenza.
La Corte costituzionale, con la
sentenza 13.06.2013 n.
137 bolla di incostituzionalità l'articolo 47, commi da 1 a
9, della legge della regione Piemonte 04.05.2012, n. 5,
che aveva creato una disciplina regionale sull'affidamento
dei servizi di collaudo fortemente in contrasto con le
disposizioni del dlgs 163/2006, fondandosi ancora su una
malintesa potestà legislativa in tema di appalti che le
regioni insistono a ritenere di possedere, nonostante una
costante giurisprudenza della Consulta, a partire dal 2007,
abbia circoscritto in termini molto restrittivi l'estensione
del potere normativo regionale.
L'articolo 47 della legge regionale dichiarato
incostituzionale aveva costruito, in Piemonte, un vero e
proprio sistema «parallelo» a quello del codice dei
contratti, per l'assegnazione degli incarichi di collaudo.
Infatti, prevedeva che in prima battuta essi fossero
affidati a dipendenti della regione iscritti in un elenco
appositamente predisposto. Solo in mancanza di dipendenti
idonei la norma incostituzionale consentiva alla regione di
affidare i collaudi con procedure ad evidenza pubblica a
soggetti esterni, ma in questo caso essi potevano anche non
essere iscritti ad albi di collaudatori, a condizione che i
provvedimenti indicassero le ragioni di tale scelte; infine,
ancora, i collaudi potevano essere affidati a una
commissione composta di massimo tre membri; in tali casi,
l'appalto di servizio avrebbe potuto essere conferito col
criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
Infine, la norma demandava a un regolamento regionale il
compito di disciplinare ulteriori aspetti organizzativi,
economici e gestionali per la tenuta degli albi dei
collaudatori, definendo le categorie di opere e lavori per i
quali era possibile chiedere l'iscrizione all'albo per
l'effettuazione dei collaudi, i criteri e le modalità per le
iscrizioni negli albi, i compensi dei collaudatori e le
modalità per l'affidamento dell'incarico, fissando anche
alcune incompatibilità a svolgere il compito di
collaudatore.
Un insieme di disposizioni vistosamente incidenti
sull'ordinamento civilistico, tendenti, nella sostanza, a
introdurre vincoli allo svolgimento della professione,
creando in provetta un sistema regionale chiuso di
collaudatori, per altro caratterizzato da modalità di
affidamento molto divergenti da quelle previste dal codice
dei contratti.
Sicché, la norma della regione Piemonte non ha superato il
vaglio della costituzionalità. Infatti, ricorda la Consulta,
le norme riguardanti la fase privatistica dell'esecuzione
del contratto rientrano nella materia dell'ordinamento
civile, di competenza esclusiva del legislatore statale, a
eccezione delle sole disposizioni di tipo meramente
organizzativo o contabile, principio peraltro sottolineato
proprio con riferimento all'attività di collaudo con la
sentenza 431/2007.
La norma regionale piemontese non si è limitata a regolare
aspetti meramente organizzativi dell'attività di collaudo,
ma si è spinta a regolare la scelta dei collaudatori, a
fissarne il compenso e perfino a consentire di selezionare
collaudatori non inseriti nell'albo apposito. In tal modo,
la legge regionale si è posta in contrasto con l'articolo
117, comma 2, lettere e) (tutela della concorrenza) e l)
(potestà legislativa esclusiva dello Stato in tema di
ordinamento civile), della Costituzione
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il principio della cosiddetta "sanatoria
giurisprudenziale" è stato disatteso
da un diverso e più consolidato orientamento, secondo cui la
stessa, poiché introduce un atipico atto con effetti
provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione
normativa, non può ritenersi ammessa nel nostro ordinamento,
caratterizzato dal principio di legalità dell’azione
amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati
dall’Amministrazione, secondo il principio di nominatività,
poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la
violazione del principio di separazione dei poteri e pena
l’invasione nelle sfere di attribuzioni riservate
all’Amministrazione.
Alla luce di tali argomenti, è evidente che l’eccezione di
incostituzionalità della norma di cui all'art. 13, l.
28.02.1985, n. 47, così come dedotta dall’appellante, è
manifestamente infondata, poiché sarebbe, semmai,
l’eventuale istituto della sanatoria giurisprudenziale ad
essere sospetto di compatibilità con il nostro sistema
costituzionale.
Peraltro, la norma in esame, richiedente per la sanatoria
delle opere realizzate senza concessione e delle varianti
non autorizzate, che l'opera sia conforme tanto alla
normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione
dell'opera, quanto a quella vigente al momento della domanda
di sanatoria, è una disposizione la cui ratio è legata al
contrasto all'inerzia dell'Amministrazione; ciò significa
che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha
richiesto la sanatoria non può essere opposta una
modificazione della normativa urbanistica successiva alla
presentazione della domanda; tale ratio della norma è del
tutto comprensibile, quindi, e compatibile con i precetti
costituzionali di cui all’art. 97 Cost.
Pertanto, in sede di rilascio della concessione edilizia in
sanatoria, contenente l'accertamento di conformità ai sensi
dell'art. 13, l. 28.02.1985, n. 47, l'Autorità
amministrativa, che non è chiamata a compiere scelte
discrezionali, deve esclusivamente accertare la c.d. doppia
conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli
strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione),
oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni
rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati.
---------------
Nell'accertamento di conformità ai sensi dell'art. 13, l.
28.02.1985, n. 47, l'Autorità amministrativa non è chiamata
a compiere scelte discrezionali, bensì deve esclusivamente
accertare la c.d. doppia conformità dell'intervento
realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici
vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non
contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti
urbanistici solo adottati, rendendo pertanto irrilevante e
superflua una fase istruttoria specificamente destinata
all’esame di questioni che necessitano di valutazioni
tecnico-discrezionali, quali caratterizzano l’attività delle
commissioni edilizie.
Ritiene il Collegio che l’appello sia infondato.
Infatti, è pur vero che il principio della cd. “doppia
conformità” ex art. 13 1. n. 47 del 1985 può manifestarsi
nelle forme, secondo un certo orientamento
giurisprudenziale, definite “sanatoria giurisprudenziale”, e
può essere riferibile all'ipotesi di specie, in modo da
risultare conforme al principio di proporzionalità e
ragionevolezza nel contemperamento dell'interesse pubblico e
privato, poiché imporre per un unico intervento costruttivo,
comunque attualmente conforme, una duplice attività
edilizia, demolitoria e poi identicamente riedificatoria,
lederebbe lo stesso interesse pubblico tutelato (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835; sez. V,
29.05.2006, n. 3267).
Infatti, sulla base della succitata considerazione, è stato
ammesso che la sanatoria edilizia possa intervenire anche a
seguito di conformità sopraggiunta dell'intervento in un
primo tempo illegittimamente assentito, divenuto cioè
permissibile al momento della proposizione della nuova
istanza dell'interessato, posto che questa si profila come
del tutto autonoma rispetto all'originaria istanza che aveva
condotto al permesso annullato in sede giurisdizionale, in
quanto basata su nuovi presupposti normativi in materia
edilizia; all’opposto, si è ritenuto irragionevole negare
una sanatoria di interventi che sarebbero legittimamente
concedibili al momento della nuova istanza.
Tale principio, tuttavia, è stato disatteso da un diverso e
più consolidato orientamento, secondo cui la “sanatoria
giurisprudenziale”, in quanto introduce un atipico atto con
effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione
normativa, non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento,
caratterizzato dal principio di legalità dell’azione
amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati
dall’Amministrazione, secondo il principio di nominatività,
poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la
violazione del principio di separazione dei poteri e pena
l’invasione nelle sfere di attribuzioni riservate
all’Amministrazione.
Alla luce di tali argomenti, è altresì evidente che
l’eccezione di incostituzionalità della norma di cui
all'art. 13, l. 28.02.1985, n. 47, così come dedotta
dall’appellante, è manifestamente infondata, poiché sarebbe,
semmai, l’eventuale istituto della sanatoria
giurisprudenziale ad essere sospetto di compatibilità con il
nostro sistema costituzionale.
Peraltro, la norma in esame, richiedente per la sanatoria
delle opere realizzate senza concessione e delle varianti
non autorizzate, che l'opera sia conforme tanto alla
normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione
dell'opera, quanto a quella vigente al momento della domanda
di sanatoria, è una disposizione la cui ratio è legata al
contrasto all'inerzia dell'Amministrazione; ciò significa
che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha
richiesto la sanatoria non può essere opposta una
modificazione della normativa urbanistica successiva alla
presentazione della domanda; tale ratio della norma è del
tutto comprensibile, quindi, e compatibile con i precetti
costituzionali di cui all’art. 97 Cost.
Pertanto, in sede di rilascio della concessione edilizia in
sanatoria, contenente l'accertamento di conformità ai sensi
dell'art. 13, l. 28.02.1985, n. 47, l'Autorità
amministrativa, che non è chiamata a compiere scelte
discrezionali, deve esclusivamente accertare la c.d. doppia
conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli
strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione),
oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni
rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati (cfr.
Consiglio Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; sez.
V, 25.02.2009, n. 1126).
Peraltro, giova osservare che l’art. 36 del d.P.R. 06.06.20012, n. 380 - Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia, norma attualmente vigente
sul medesimo tema, e non innovativa rispetto alla norma
anteriormente vigente (l’art. 13 1. n. 47 del 1985), e che
disciplina l’accertamento di conformità richiesto dalla
ricorrente, recita: “In caso di interventi realizzati in
assenza di permesso di costruire…il responsabile dell’abuso,
o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il
permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento
della realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda” (cfr. Consiglio di Stato, sez.
I, parere 24.06.2011, n. 4162/2009; sez. V, 25.02.2009, n. 1126; sez. IV, 26.04.2006, n. 2306).
Pertanto, è la stessa norma, che come si ribadisce non ha
carattere innovativo, trattandosi di norma raccolta nel
predetto T.U. ai fini del coordinamento normativo ex art. 7
Legge 08.03.1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di
norme concernenti procedimenti amministrativi - Legge di
semplificazione 1998 – Bassanini Quater), che attualmente
conferma l’insussistenza dell’istituto sopra sunteggiato,
denominato “sanatoria giurisprudenziale”.
Conclusivamente, dall’art. 13 della l. 28.02.1985, n.
47 non è ricavabile alcun diritto ad ottenere la concessione
in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in
difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa
urbanistica vigente al momento in cui l'autorità comunale
provvede sulla domanda in sanatoria.
Nel caso di specie (come si evince dalla relazione
depositata dal comune intimato in primo grado) risulta che
le opere in assenza di concessione, ovvero la
sopraelevazione di porzione di edificio fino a mt. 9.50,
sono state realizzate nell’agosto 1999 mentre era vigente
l’art. 33.3.4. delle N.T.A del P.R.G. che permetteva
un’altezza massima di mt. 8.50; solo al momento della
presentazione dell’istanza di sanatoria il suddetto
articolo, nel frattempo modificato, autorizzava un’altezza
massima di mt. 10.50, così consentendo tale intervento, non
però anche l’eventuale sanatoria, che richiedeva la doppia
conformità e che è stata dunque legittimamente negata,
mancando la conformità originaria dell’opera.
Anche la censura d’appello relativa all’illegittimità
del diniego di sanatoria per omessa acquisizione del parere
della commissione edilizia è infondata, atteso che, come
detto, nell'accertamento di conformità ai sensi dell'art.
13, l. 28.02.1985, n. 47, l'Autorità amministrativa
non è chiamata a compiere scelte discrezionali, bensì deve
esclusivamente accertare la c.d. doppia conformità
dell'intervento realizzato alle previsioni degli strumenti
urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la
sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da
strumenti urbanistici solo adottati (cfr. Consiglio Stato,
sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; sez. V, 25.02.2009, n. 1126; sez. IV, 12.02.2010, n. 772), rendendo
pertanto irrilevante e superflua una fase istruttoria
specificamente destinata all’esame di questioni che
necessitano di valutazioni tecnico-discrezionali, quali
caratterizzano l’attività delle commissioni edilizie
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.06.2013 n. 3220 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La materia dell'inquadramento nel pubblico impiego si
connota per la presenza di atti autoritativi e, quindi, ogni
pretesa al riguardo, in quanto radicata su posizioni di
interesse legittimo, può essere azionata soltanto mediante
tempestiva impugnazione dei provvedimenti che si assumono
illegittimamente incidenti su tali posizioni; segue da ciò
che il pubblico impiegato, che contesti il proprio
inquadramento in una data qualifica o con determinate
modalità, temporali, giuridiche o patrimoniali che siano, ha
l'onere di impugnare il relativo provvedimento entro il
termine perentorio di decadenza, anche quando egli assume
che gli spetta un determinato inquadramento.
Infatti, i provvedimenti d'inquadramento giuridico ed
economico dei dipendenti pubblici non contrattualizzati,
così come i provvedimenti d’inquadramento nel pubblico
impiego anteriori alla contrattualizzazione, come nella
specie, si configurano come atti provvedimentali tout court,
soggetti ai comuni termini decadenziali d'impugnazione:
pertanto, in siffatta materia non sono proponibili azioni di
accertamento, ma domande di impugnazione degli atti
autoritativi che assegnano una qualifica funzionale ed un
corrispondente livello retributivo, posto che la posizione
del dipendente resta quella di un soggetto titolare di
interessi legittimi che devono essere fatti valere nei
termini decadenziali previsti dalla legge.
Il Collegio osserva, in punto di diritto, che la materia
dell'inquadramento nel pubblico impiego si connota per la
presenza di atti autoritativi e, quindi, ogni pretesa al
riguardo, in quanto radicata su posizioni di interesse
legittimo, può essere azionata soltanto mediante tempestiva
impugnazione dei provvedimenti che si assumono
illegittimamente incidenti su tali posizioni; segue da ciò
che il pubblico impiegato, che contesti il proprio
inquadramento in una data qualifica o con determinate
modalità, temporali, giuridiche o patrimoniali che siano, ha
l'onere di impugnare il relativo provvedimento entro il
termine perentorio di decadenza, anche quando egli assume
che gli spetta un determinato inquadramento (cfr. Consiglio
di Stato, sez. IV, 15.02.2013, n. 919).
Infatti, i provvedimenti d'inquadramento giuridico ed
economico dei dipendenti pubblici non contrattualizzati,
così come i provvedimenti d’inquadramento nel pubblico
impiego anteriori alla contrattualizzazione, come nella
specie, si configurano come atti provvedimentali tout court,
soggetti ai comuni termini decadenziali d'impugnazione:
pertanto, in siffatta materia non sono proponibili azioni di
accertamento, ma domande di impugnazione degli atti
autoritativi che assegnano una qualifica funzionale ed un
corrispondente livello retributivo, posto che la posizione
del dipendente resta quella di un soggetto titolare di
interessi legittimi che devono essere fatti valere nei
termini decadenziali previsti dalla legge (cfr: Consiglio di
Stato, sez. II, 09.10.2012, n. 1121; sez. V, 02.11.2011, n.
5848; sez. V, 28.02.2011, n. 1251; sez. V, 24.09.2010, n.
7104) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.06.2013 n. 3216 - link a
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APPALTI:
Deve essere esclusa la
teoria del “falso innocuo” poiché il falso è innocuo quando
non incide neppure minimamente sugli interessi tutelati.
Nelle procedure di evidenza pubblica la completezza delle
dichiarazioni, invece, è già di per sé un valore da
perseguire perché consente –anche in ossequio al principio
di buon andamento dell’amministrazione e di proporzionalità–
la celere decisione in ordine all’ammissione dell’operatore
economico alla gara.
Conseguentemente, una dichiarazione inaffidabile (perché
falsa o incompleta) è già di per sé stessa lesiva degli
interessi considerati dalla norma a prescindere dal fatto
che l’impresa meriti sostanzialmente di partecipare alla
gara.
In altri termini, nel diritto degli appalti occorre poter
fare affidamento su una dichiarazione idonea a far assumere
tempestivamente alla stazione appaltante le necessarie
determinazioni in ordine all’ammissione dell’operatore
economico alla gara o alla sua esclusione.
La vicenda riguarda il ricorso della società Impresig Srl
contro l’aggiudicazione definitiva dell’appalto dei lavori
di riqualificazione ambientale del molo Capo S. Giovano e
dell’area interessata APQ -interventi su ecomostri- in
favore del raggruppamento temporaneo di imprese Kronos
s.r.l. - Parasporo ing. Carlo, disposta dalla Stazione Unica
appaltante della Provincia di Reggio Calabria, in relazione
ad una gara per un importo a base d’asta di euro 740.000,00
oltre IVA (di cui euro 20.000 per oneri della sicurezza non
soggetti a ribasso).
La società Impresig Srl ha partecipato alla gara,
collocandosi al secondo posto della graduatoria (con un
ribasso del 31,7480% a fronte del ribasso del 31,7800 della
controinteressata; verbale di gara del 27.06.2011) e ha
lamentato l’omessa presentazione, da parte della prima
classificata, aggiudicataria, della dichiarazione inerente
il possesso dei requisiti ex art. 38 Codice appalti in capo
agli amministratori cessati nel triennio, in ossequio a
quanto esplicitamente previsto, in merito, dal bando di
gara, al punto 16.2.2.
Tale disposizione elenca, tra i documenti necessari alla
partecipazione (elencazione che, a pag. 11 del bando, è
descritta “a pena di esclusione dalla gara”), le
dichiarazioni attestanti o l’insussistenza di soggetti
cessati dalle cariche societarie indicate all’art. 38, comma
1, lett. c), del D.Lgs. 163-2006 o l’indicazione di tali
soggetti (ai fini della dichiarazione della insussistenza a
loro carico di sentenze di condanna o della dissociazione
dell’impresa dalla loro condotta), ivi compresi quelli
“cessati per acquisizioni, cessioni di azienda o fusioni,
rivestenti le qualifiche di cui all’art. 38, comma 1, lett.
c)”.
L’aggiudicataria ha dichiarato quale unico soggetto cessato
dalla carica nel triennio precedente il sig. Fabio Varacalli
(classe 1973), nella qualità di direttore tecnico della “GMC
Mediterranea Costruzioni Srl”, società cedente del ramo di
azienda alla Kronos s.r.l. che risultava già come direttore
tecnico della Kronos s.r.l., e quindi era comunque tenuto in
tale veste a rendere le prescritte dichiarazioni ex art. 38
cit., ma non ha reso alcuna dichiarazione relativamente al
sig. Luigi Varacalli (classe 1968), amministratore della
predetta società “GMC Mediterranea Costruzioni”.
Peraltro, il medesimo sig. Luigi Varacalli figurava anche
quale amministratore unico della società N.A.Edil s.r.l.
che, in data 19.02.2010, aveva trasferito l’azienda in
favore della Kronos s.r.l. mandataria del raggruppamento
aggiudicatario dell’appalto.
Il TAR ha dato rilievo alla circostanza che, in
giudizio, è stata prodotta da parte della difesa della controinteressata la documentazione inerente l’assenza di
condanne in capo al sig. Luigi Varacalli (carichi pendenti e
casellario giudiziale), trattandosi, pertanto, di un ipotesi
di cd. “falso innocuo”.
Secondo il Collegio, invece, tale circostanza è del
tutto influente, poiché altrimenti qualsiasi deficienza
delle dichiarazioni ex art. 38 Codice appalti potrebbe
essere surrogata in giudizio, in contrasto con il principio
della par condicio dei concorrenti che deve essere
assicurato nel procedimento amministrativo di selezione e
non nell’eventuale procedimento giurisdizionale, a
posteriori.
Infatti, deve essere esclusa la teoria del “falso innocuo”
poiché il falso è innocuo quando non incide neppure
minimamente sugli interessi tutelati. Nelle procedure di
evidenza pubblica la completezza delle dichiarazioni,
invece, è già di per sé un valore da perseguire perché
consente –anche in ossequio al principio di buon andamento
dell’amministrazione e di proporzionalità– la celere
decisione in ordine all’ammissione dell’operatore economico
alla gara. Conseguentemente, una dichiarazione inaffidabile
(perché falsa o incompleta) è già di per sé stessa lesiva
degli interessi considerati dalla norma a prescindere dal
fatto che l’impresa meriti sostanzialmente di partecipare
alla gara. In altri termini, nel diritto degli appalti
occorre poter fare affidamento su una dichiarazione idonea a
far assumere tempestivamente alla stazione appaltante le
necessarie determinazioni in ordine all’ammissione
dell’operatore economico alla gara o alla sua esclusione
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 16.03.2012, n. 1471,
cui si rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 74
e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.).
Pertanto, la motivazione della sentenza del TAR impugnata
non è condivisibile e deve essere corretta.
Nel caso di specie, l’appellante invoca anche i principi
autorevolmente sanciti dall’Adunanza plenaria di questo
Consiglio (04.05.2012, n. 10 e 07.06.2012, n. 21),
secondo cui, l’art. 38, comma 1, lett. c), codice appalti,
presenta un contenuto normativo che già di per sé comprende
ipotesi non testuali, ma pur sempre ad essa riconducibili
sotto il profilo della sostanziale continuità del soggetto
imprenditoriale a cui si riferiscono, quando il soggetto
cessato dalla carica sia identificabile come interno al
soggetto concorrente.
In tale quadro, la citata adunanza n. 10 del 2012 è stata
dell'avviso che sia necessaria la dichiarazione suddetta
nelle ipotesi di fusione o di incorporazione di società,
ancorché venute in essere antecedentemente all'avvio della
gara ove si realizza una successione a titolo universale fra
i soggetti interessati ovvero, alla luce della riforma del
diritto societario disposta dal d.lgs. 17.01.2003, n.
6, la loro mera trasformazione, lasciando dunque ferma la
continuità dell'attività imprenditoriale, ma anche e a
maggior ragione nelle ipotesi di cessione di azienda o di
ramo di azienda in cui si verifica una vicenda di
successione a titolo particolare e si ha comunque il
passaggio all'avente causa dell'intero complesso dei
rapporti attivi e passivi nei quali l'azienda stessa o il
suo ramo si sostanzia; il che rende la vicenda ben
suscettibile di comportare pur essa la continuità tra
precedente e nuova gestione imprenditoriale.
La plenaria n. 10 del 2012, affermato tale principio, ha
osservato che, tuttavia, possa aversi riguardo alla
peculiarità dei casi specifici:
a) anzitutto, è comunque dato al cessionario comprovare
l'esistenza nel caso concreto di una completa cesura tra
vecchia e nuova gestione, tale da escludere la rilevanza
della condotta dei precedenti amministratori e direttori
tecnici operanti nell'ultimo triennio e, ora, nell'ultimo
anno, presso il complesso aziendale ceduto;
b) resta altresì fermo -tenuto anche conto della non
univocità delle norme circa l'onere del cessionario- che in
caso di mancata presentazione della dichiarazione e sempre
che il bando non contenga al riguardo una espressa
comminatoria di esclusione, quest'ultima potrà essere
disposta soltanto là dove sia effettivamente riscontrabile
l'assenza del requisito in questione.
Tale orientamento è stato ribadito dalla menzionata sentenza
dell’adunanza plenaria 07.06.2012, n. 21 anche in
riferimento al novellato art. 2504-bis cod. civ. che
configura le operazioni di trasformazione o fusione
societaria non come successione universale, ma come vicenda
evolutiva dei medesimi soggetti originari partecipanti alla
operazione societaria (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.06.2013 n. 3214 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
E’ noto che i pareri sono da ritenersi atti
endoprocedimentali, mentre la valenza lesiva deve
attribuirsi soltanto al provvedimento, inteso come atto che
costituisce, modifica o estingue posizioni soggettive.
Nel caso di impugnativa di titolo edilizio a favore di
altri, la valenza lesiva deve essere attribuita soltanto
alla concessione, non sussistendo l’onere (ma solo
eventualmente la facoltà) di abbracciare nell’impugnativa
(che peraltro implicitamente li comprende quali atti
presupposti) i pareri di tenore positivo.
I pareri sono atti non provvedimentali, come tali valutativi
e strumentali alla emanazione di un determinato
provvedimento.
Gli atti non provvedimentali non sono direttamente
impugnabili, perché come tali insuscettibili di produrre
effetti lesivi nelle situazioni giuridiche facenti capo a
terzi. Fanno eccezione, caso che non rientra nella specie,
gli atti endoprocedimentali allorquando assumono carattere
di immediata lesività, come nel caso di pareri vincolanti
negativi, che non lasciano all’interessato alcun dubbio sul
contenuto e sull’esito della decisione finale.
Con il primo motivo l’appello principale e l’appello incidentale deducono
l’erroneità della sentenza per inammissibilità del ricorso
di primo grado, per mancanza della impugnativa del parere
della commissione edilizia comunale, del parere favorevole
del Ministero Beni e attività culturali e per mancata
notifica alle autorità ministeriali.
In sostanza, viene asserito che il ricorso originario
avrebbe dovuto farsi carico della impugnativa anche dei
pareri positivi (della commissione edilizia integrata e
dell’autorità ministeriale), che avrebbero una autonoma
valenza provvedimentale, e quindi in mancanza il primo
giudice avrebbe dovuto concludere per l’inammissibilità del
ricorso.
Il motivo è infondato.
E’ noto che i pareri sono da ritenersi atti
endoprocedimentali, mentre la valenza lesiva deve
attribuirsi soltanto al provvedimento, inteso come atto che
costituisce, modifica o estingue posizioni soggettive.
Nel caso di impugnativa di titolo edilizio a favore di
altri, la valenza lesiva deve essere attribuita soltanto
alla concessione, non sussistendo l’onere (ma solo
eventualmente la facoltà) di abbracciare nell’impugnativa
(che peraltro implicitamente li comprende quali atti
presupposti) i pareri di tenore positivo.
I pareri sono atti non provvedimentali, come tali valutativi
e strumentali alla emanazione di un determinato
provvedimento.
Gli atti non provvedimentali non sono direttamente
impugnabili, perché come tali insuscettibili di produrre
effetti lesivi nelle situazioni giuridiche facenti capo a
terzi. Fanno eccezione, caso che non rientra nella specie,
gli atti endoprocedimentali allorquando assumono carattere
di immediata lesività, come nel caso di pareri vincolanti
negativi, che non lasciano all’interessato alcun dubbio sul
contenuto e sull’esito della decisione finale (Cons. Stato,
IV, 28.03.2012, n.1829; Consiglio Stato, sez. V, 02.04.2001, n. 1902)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.06.2013 n. 3184 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
In presenza di una
variante di concessione edilizia originaria e recante
modifiche di non rilevante consistenza, è inammissibile il
ricorso avverso la concessione in variante in mancanza di
tempestiva impugnativa della originaria concessione, se la
incisione (la lesione) è avvenuta con il primo
provvedimento.
E' altresì evidentemente condivisibile il principio secondo
cui l’impugnativa della concessione in variante non può
certo comportare una rimessione in termini in caso di
decadenza per l’impugnativa avverso l’atto originario.
Come ha
correttamente osservato il primo giudice, è evidente che
vale il principio secondo cui in presenza di una variante di
concessione edilizia originaria e recante modifiche di non
rilevante consistenza, è inammissibile il ricorso avverso la
concessione in variante in mancanza di tempestiva
impugnativa della originaria concessione, se la incisione
(la lesione) è avvenuta con il primo provvedimento; è
altresì evidentemente condivisibile il principio secondo cui
l’impugnativa della concessione in variante non può certo
comportare una rimessione in termini in caso di decadenza
per l’impugnativa avverso l’atto originario.
Nella specie, tuttavia, la vicenda si pone in modo diverso,
in quanto dalla relazione tecnica risulta evidente che la
concessione in variante apporta un pregiudizio in sé
autonomo e diverso rispetto a quanto assentito dalla
concessione originaria, perché è essa variante (sul punto è
chiara la sentenza appellata) e non già il precedente titolo
abilitativo, a consentire la costruzione di un edificio di
tre piani fuori terra, in luogo di un edificio di soli due
piani fuori terra e cioè comporta la realizzazione di un
fabbricato edilizio di maggiore entità sia sotto il profilo
volumetrico che di superficie coperta.
A prescindere quindi dall’interesse a contestare da subito
in modo ammissibile anche i titoli precedenti, non vi è
dubbio che la variante assuma una autonoma valenza lesiva,
non potendosi ritenere che l’interesse a ricorrere sussista
soltanto per la contestazione in sé dell’intervento –in tal
caso sì sarebbe stata condivisibile la prospettazione degli
appellanti- in quanto investe anche le modalità, ritenute
illegittime (per esempio, per distanze o altezza, certamente
mutate con la variante) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.06.2013 n. 3184 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Il possesso del titolo di
legittimazione alla proposizione del ricorso per
l'annullamento di una concessione edilizia, che discende
dalla c.d. vicinitas, cioè da una situazione di stabile
collegamento giuridico con il terreno oggetto
dell'intervento costruttivo autorizzato –confinante che
contesta la violazione di distanze e altezze- può
addirittura esimere da qualsiasi indagine al fine di
accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall'atto
impugnato comportino o meno un effettivo pregiudizio per il
soggetto che propone l'impugnazione.
Con il terzo motivo
gli appelli deducono l’erroneità della sentenza appellata
per inammissibilità del ricorso originario, per l’errato
rigetto delle eccezioni di difetto di prova circa
legittimazione e interesse ad agire in giudizio dei
ricorrenti originari (punto 4 della sentenza) e per
genericità dei motivi.
Alla luce del consolidato orientamento in tema di condizioni
dell’azione dei vicini, non si vede come possano essere
degne di positiva valutazione le sopra riportate motivazioni
di appello: i ricorrenti originari sono comproprietari di
fabbricato con annesso giardino che confina per un lato con
via Matese e per un altro con una traversa interna di via
Matese, mentre il fabbricato oggetto della concessione in
variante sorge proprio al confine con la suddetta traversa
interna di via Matese.
E’ evidente l’interesse dei ricorrenti originari a
contrastare la costruzione di un fabbricato di tre piani
fuori terra, sostenendo essi che gli strumenti urbanistici
consentano soltanto la costruzione di un fabbricato di due
piani.
Al di là della considerazione che è evidente nella specie il
danno temuto dai ricorrenti rispetto al fabbricato di loro
proprietà, la giurisprudenza di questo Consesso, in ordine
alla impugnativa di titoli edilizi, ha da tempo affermato
che il possesso del titolo di legittimazione alla
proposizione del ricorso per l'annullamento di una
concessione edilizia, che discende dalla c.d. vicinitas,
cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con
il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato
–confinante che contesta la violazione di distanze e
altezze- può addirittura esimere da qualsiasi indagine al
fine di accertare, in concreto, se i lavori assentiti
dall'atto impugnato comportino o meno un effettivo
pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione (da
ultimo, Consiglio di Stato sez. IV, 29.08.2012, n. 4643) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.06.2013 n. 3184 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo
è meramente confermativo, e perciò non impugnabile, o di
conferma in senso proprio e, quindi, autonomamente lesivo e
da impugnarsi nei termini, occorre verificare se l'atto
successivo sia stato adottato o meno senza una nuova
istruttoria e una nuova ponderazione di interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo
rispetto a un atto precedente l'atto la cui adozione sia
stata preceduta da un riesame della situazione che aveva
condotto al precedente provvedimento, giacché solo
l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, come
nella specie, sia pure mediante la rivalutazione degli
interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto
e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata,
può dare luogo a un atto propriamente confermativo in grado,
come tale, di dare vita a un provvedimento diverso dal
precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre, invece, l'atto meramente confermativo (di c.d.
conferma impropria) quando l'Amministrazione, a fronte di
un'istanza di riesame, si limita a dichiarare l'esistenza di
un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova
istruttoria e senza una nuova motivazione.
Al fine di stabilire se un atto sia meramente confermativo
(e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio,
occorre verificare se sia stato adottato (o non) senza nuova
istruttoria e nuova ponderazione di interessi.
Allo scopo di
stabilire se un atto amministrativo è meramente
confermativo, e perciò non impugnabile, o di conferma in
senso proprio e, quindi, autonomamente lesivo e da
impugnarsi nei termini, occorre verificare se l'atto
successivo sia stato adottato o meno senza una nuova
istruttoria e una nuova ponderazione di interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo
rispetto a un atto precedente l'atto la cui adozione sia
stata preceduta da un riesame della situazione che aveva
condotto al precedente provvedimento, giacché solo
l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, come
nella specie, sia pure mediante la rivalutazione degli
interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto
e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata,
può dare luogo a un atto propriamente confermativo in grado,
come tale, di dare vita a un provvedimento diverso dal
precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre, invece, l'atto meramente confermativo (di c.d.
conferma impropria) quando l'Amministrazione, a fronte di
un'istanza di riesame, si limita a dichiarare l'esistenza di
un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova
istruttoria e senza una nuova motivazione.
Al fine di stabilire se un atto sia meramente confermativo
(e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio,
occorre verificare se sia stato adottato (o non) senza nuova
istruttoria e nuova ponderazione di interessi (Consiglio di
Stato sez. V, 03.10.2012, n. 5196; Consiglio di Stato
sez. VI, 31.03.2011, n. 1983) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.06.2013 n. 3184 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Laddove lo strumento
urbanistico comunale prescriva che, in una certa zona di
piano, l'altezza massima degli edifici di nuova costruzione
non possa superare la media dell'altezza di quelli
preesistenti circostanti, tale media non può che limitarsi
ai soli edifici limitrofi a quello costruendo, a rischio
altrimenti di svuotare la norma urbanistica di qualunque
significato, mentre essa è appunto preordinata ad evitare
che fabbricati contigui o vicini presentino altezze
marcatamente differenti, considerato, peraltro, che
l'assetto edilizio mira a rendere omogenei gli assetti
costruttivi rientranti in zone di limitata estensione.
Questo Consesso ha già avuto modo di affermare al riguardo
che, laddove lo strumento urbanistico comunale prescriva
che, in una certa zona di piano, l'altezza massima degli
edifici di nuova costruzione non possa superare la media
dell'altezza di quelli preesistenti circostanti, tale media
non può che limitarsi ai soli edifici limitrofi a quello
costruendo, a rischio altrimenti di svuotare la norma
urbanistica di qualunque significato, mentre essa è appunto
preordinata ad evitare che fabbricati contigui o vicini
presentino altezze marcatamente differenti, considerato,
peraltro, che l'assetto edilizio mira a rendere omogenei gli
assetti costruttivi rientranti in zone di limitata
estensione (così Consiglio Stato sez. V, 21.10.1995, n.
1448) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.06.2013 n. 3184 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Pacifica e datata giurisprudenza pone in rilievo
il carattere permanente dell’illecito edilizio ed evidenzia
come l’interesse pubblico alla repressione dell’abuso
risieda nella stessa natura del provvedimento repressivo,
essendo, come suol dirsi, “in re ipsa”.
L’applicazione dei due principi preclude che possano aver
rilievo, rispettivamente, il lungo lasso di tempo trascorso
tra l’epoca dell’abuso e la data del provvedimento
repressivo e, sul fronte della posizione incisa, che detto
arco temporale obblighi l’Amministrazione a valutare un
eventuale affidamento ingeneratosi nel responsabile
dell’abuso.
A quest’ultimo riguardo deve peraltro osservarsi che
l’affidamento può assumere rilevanza, originando la
necessità di un più intenso onere di motivazione, solo in
presenza di atti o comportamenti dell’amministrazione dai
quali esso possa effettivamente ed attendibilmente trarre
fonte.
Il gravame evidenzia in materia principi che da tempo sono stati messi in
rilievo da pacifica e datata giurisprudenza e che pongono in
rilievo anzitutto il carattere permanente dell’illecito
edilizio (cfr. ex multis, Cons. di Stato, sez. V,
n. 2544/2000) ed evidenziano come l’interesse pubblico alla
repressione dell’abuso risieda nella stessa natura del
provvedimento repressivo, essendo, come suol dirsi, “in re ipsa” (v., fra le numerose, Cons. di Stato, sez. V,
n. 104/1985).
L’applicazione dei due principi preclude che
possano aver rilievo, rispettivamente, il lungo lasso di
tempo trascorso tra l’epoca dell’abuso e la data del
provvedimento repressivo e, sul fronte della posizione
incisa, che detto arco temporale obblighi l’Amministrazione
a valutare un eventuale affidamento ingeneratosi nel
responsabile dell’abuso. A quest’ultimo riguardo deve
peraltro osservarsi che l’affidamento può assumere
rilevanza, originando la necessità di un più intenso onere
di motivazione, solo in presenza di atti o comportamenti
dell’amministrazione dai quali esso possa effettivamente ed
attendibilmente trarre fonte.
Ma tali elementi non è dato
nella fattispecie reperire; anzi, considerate, da un lato,
l’epoca cui risale il titolo edilizio non osservato e nel
contempo la mancata presentazione di alcuna istanza di
condono o sanatoria dell’abuso, possono semmai individuarsi
indici di una volontà di persistenza nella situazione di
illegalità (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.06.2013 n. 3183 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
E' ben vero che –a norma
dell’art. 2, comma 2, della legge n. 241 del 1990– il
procedimento amministrativo deve, di regola, concludersi
entro trenta giorni dal suo avvio.
Tuttavia, il mancato rispetto di tale termine non produce
l’illegittimità del provvedimento tardivo, per trattarsi di
un termine che, non essendo indicato come perentorio, ha
funzione solo acceleratoria, cosicché il ritardo
nell’adottare il provvedimento non comporta decadenza della
potestà amministrativa, né illegittimità del provvedimento
conclusivo.
Quanto al termine, è ben vero che –a norma dell’art. 2, comma 2,
della legge n. 241 del 1990– il procedimento amministrativo
deve, di regola, concludersi entro trenta giorni dal suo
avvio e che, nel caso di specie, tale termine risulta
ampiamente oltrepassato (il dato non è contestato).
Sennonché, per giurisprudenza costante, il mancato rispetto
di tale termine non produce l’illegittimità del
provvedimento tardivo, per trattarsi di un termine che, non
essendo indicato come perentorio, ha funzione solo
acceleratoria, cosicché il ritardo nell’adottare il
provvedimento non comporta decadenza della potestà
amministrativa, né illegittimità del provvedimento
conclusivo (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. VI, 01.12.2010, n. 8371; Id., sez. IV, 12.06.2012, n.
2264).
A questa conclusione non vale opporre –come invece vorrebbe
la parte appellata– la circostanza che l’inosservanza dolosa
o colposa del termine di conclusione del procedimento può
essere fonte di danno ingiusto risarcibile (art. 2-bis della
citata legge 241 del 1990). E ciò, sia perché la
disposizione ora ricordata è stata introdotta in epoca
successiva a quella dei fatti di causa (con legge
18.06.2009, n. 69), sia perché illegittimità dell’atto e
illiceità del comportamento discendono da giudizi di valore
di segno diverso e si muovono evidentemente su piani
differenti quanto a presupposti e conseguenze (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.06.2013 n. 3172 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Il soggetto che intenda partecipare alla gara per
l’affidamento di un appalto pubblico deve comunque indicare
la ripartizione dei servizi e delle attività oggetto di gara
fra le singole imprese affidatarie per consentire
all’Amministrazione di verificare se le imprese esecutrici
finali delle lavorazioni siano in possesso dei requisiti
necessari per lo svolgimento delle stesse, e che non può
ragionevolmente pervenirsi ad una conclusione diversa in
dipendenza della circostanza per cui l’offerta è stata
presentata da un consorzio di cooperative.
Anche di recente è stato del resto affermato che l’obbligo
di specificazione delle parti del servizio da eseguire dalle
singole imprese raggruppate o consorziate, sancito dall’art.
37 comma 4, del D.L.vo 12.04.2006 n. 163, costituisce
espressione di un principio generale che non consente
distinzioni legate alla natura morfologica del
raggruppamento (“verticale” o “orizzontale”), alla tipologia
delle prestazioni (principali o secondarie, scorporabili o
unitarie) o al dato cronologico del momento della
costituzione del raggruppamento temporaneo di imprese.
In termini generali, inoltre, a ragione il giudice di primo grado
ha evidenziato che il soggetto che intenda partecipare alla
gara per l’affidamento di un appalto pubblico deve comunque
indicare la ripartizione dei servizi e delle attività
oggetto di gara fra le singole imprese affidatarie per
consentire all’Amministrazione di verificare se le imprese
esecutrici finali delle lavorazioni siano in possesso dei
requisiti necessari per lo svolgimento delle stesse, e che
non può ragionevolmente pervenirsi ad una conclusione
diversa in dipendenza della circostanza per cui l’offerta è
stata presentata da un consorzio di cooperative.
Anche di recente è stato del resto affermato che l’obbligo
di specificazione delle parti del servizio da eseguire dalle
singole imprese raggruppate o consorziate, sancito dall’art.
37 comma 4, del D.L.vo 12.04.2006 n. 163, costituisce
espressione di un principio generale che non consente
distinzioni legate alla natura morfologica del
raggruppamento (“verticale” o “orizzontale”),
alla tipologia delle prestazioni (principali o secondarie,
scorporabili o unitarie) o al dato cronologico del momento
della costituzione del raggruppamento temporaneo di imprese
(cfr. sul punto Cons. Stato, Sez. V, 18.12.2012 n. 6513) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.06.2013 n. 3152 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Circa
il fatto che la "dichiarazione sostitutiva dell'atto di
notorietà" presentata sia priva
della prima pagina e, come tale, sarebbe nulla o inesistente
perché priva di elementi identificativi del soggetto
dichiarante oltre che della formula “dichiara”,
tuttavia è vero che le altre due pagine sono state
presentate, complete dei dati richiesti e sottoscritte,
datate e timbrate dal legale rappresentante, che le ha
espressamente qualificate come “dichiarazione” e con
allegazione della copia del documento identificativo fronte
retro.
Pertanto non si vede come non possano considerarsi atti
perfettamente idonei a comprovare le attestazioni in essi
contenute risultando del tutto irrilevante che la parola
“dichiarazione” e, si badi, il conseguente impegno, sia
rinvenibile nella terza pagina, prima della firma, e non
anche all’inizio della dichiarazione, quasi a configurare, a
pena di inesistenza, una rigidità sacramentale della
dichiarazione stessa, comunque sconosciuta al nostro
ordinamento.
---------------
Quanto al mancato richiamo delle sanzioni penali previste
per il caso di false dichiarazioni, la giurisprudenza ha da
tempo osservato che tale adempimento non costituisce un
requisito sostanziale per la validità delle dichiarazioni ai
sensi del d.P.R. n. 445/2000 in quanto la qualificazione
come falso, e le relative conseguenze penali, prescindono
dall’avvenuto uso in concreto della formula, mentre la
ignoranza della legge penale comunque non scusa il falso
dichiarante, sia che abbia invocato per iscritto l’art. 76
del d.P.R. 445/2000, sia che non lo abbia invocato.
In effetti l’art. 48 del t.u. n. 445/2000 non richiede, a
pena d’invalidità, che il soggetto si impegni esplicitamente
a rendere una dichiarazione veritiera, e neppure che si
dichiari consapevole delle sanzioni penali previste per le
false dichiarazioni. Al contrario, è la p.a. che deve
richiamare le sanzioni penali, nel momento in cui invita il
privato a rendere le dichiarazioni e gli fornisce il
relativo modello (peraltro facoltativo).
Insiste la appellante, nel secondo motivo, con argomentazione
sostenuta anche dalla stazione appaltante, che la
dichiarazioni prodotta dalla società Di Betta Giannino, in
quanto priva della prima pagina, sarebbe nulla o inesistente
perché priva di elementi identificativi del soggetto
dichiarante oltre che della formula “dichiara”, da non
potere giustificare neppure il soccorso istruttorio di cui
all’art. 46 del d.lgs. n. 163/2006.
Sotto un secondo profilo, che il mancato richiamo nella
dichiarazione sostitutiva della solenne formulazione di rito
e delle sanzioni penali previste per il caso di false
dichiarazioni renderebbe insanabilmente invalida la
dichiarazione. Si sostiene al riguardo che la possibilità di
certificare stati e capacità “in via sostitutiva” ex artt.
38 e 46 del d.P.R. n. 445/2000 sarebbe astretta a precise e
solenni formalità che per il loro rigore e per la
eccezionalità della previsione non ammettono equipollenti e
non consentono emenda, neppure ex art. 46 del d.lgs.
163/2006 non essendo, altrimenti, l’atto in grado di
dispiegare gli effetti certificativi per difetto di una
forma essenziale prescritta dalla legge, non altrimenti
sanabile.
Tali assunti non vengono condivisi dalla Sezione.
Se è vero che la prima pagina del fac simile di
dichiarazione risultava mancante, (salvo, come già
evidenziato, rinvenire aliunde i dati mancanti, come
consentito dalla lettera di invito), è altrettanto vero che
le altre due pagine erano senz’altro esistenti, complete dei
dati richiesti e sottoscritte, datate e timbrate dal legale
rappresentante, che le ha espressamente qualificate come
“dichiarazione” e con allegazione della copia del documento
identificativo fronte retro; pertanto non si vede come non
potessero considerarsi atti perfettamente idonei a
comprovare le attestazioni in essi contenute risultando del
tutto irrilevante che la parola “dichiarazione” e, si badi,
il conseguente impegno, fosse rinvenibile nella terza
pagina, prima della firma, e non anche all’inizio della
dichiarazione, quasi a configurare, a pena di inesistenza,
una rigidità sacramentale della dichiarazione stessa,
comunque sconosciuta al nostro ordinamento.
Quanto al mancato richiamo delle sanzioni penali
previste per il caso di false dichiarazioni, la
giurisprudenza ha da tempo osservato che tale adempimento
non costituisce un requisito sostanziale per la validità
delle dichiarazioni ai sensi del d.P.R. n. 445/2000 in quanto
la qualificazione come falso, e le relative conseguenze
penali, prescindono dall’avvenuto uso in concreto della
formula, mentre la ignoranza della legge penale comunque non
scusa il falso dichiarante, sia che abbia invocato per
iscritto l’art. 76 del d.P.R. 445/2000, sia che non lo abbia
invocato.
In effetti l’art. 48 del t.u. n. 445/2000 non richiede, a
pena d’invalidità, che il soggetto si impegni esplicitamente
a rendere una dichiarazione veritiera, e neppure che si
dichiari consapevole delle sanzioni penali previste per le
false dichiarazioni. Al contrario, è la p.a. che deve
richiamare le sanzioni penali, nel momento in cui invita il
privato a rendere le dichiarazioni e gli fornisce il
relativo modello (peraltro facoltativo) (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 10.06.2013 n. 3146 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Appalti segreti, il nulla osta sicurezza può essere girato
In un appalto pubblico «segreto», il nulla osta di sicurezza
(Nos) può essere prestato da una impresa a un'altra
attraverso l'istituto dell'avvalimento; si tratta di
requisito speciale che l'impresa ausiliaria deve però
mettere a disposizione assicurando gli indispensabili
livelli di segretezza nell'esecuzione dell'appalto.
È quanto
afferma la IV Sez. del Consiglio di Stato con la
sentenza
04.06.2013 n. 3059 relativa a un appalto
bandito dalla Procura della repubblica di Perugia, ai sensi
dell'art. 17 del codice dei contratti pubblici, per «la
fornitura di apparati per sistema di registrazione
intercettazioni telefoniche, telematiche, ambientali e Gps».
Il bando di gara, in particolare, richiedeva per la
presentazione dell'offerta, unitamente alla dimostrazione
dei requisiti di ordine generale di cui all'articolo 38 del
codice dei contratti pubblici, che fosse presentata una
copia autenticata o dichiarazione sostitutiva «...di
certificazione del nullaosta di sicurezza (Nos) previsto
dall'articolo 9 della legge n. 124/2007 e dell'articolo 17,
terzo comma del dlgs 163/2006».
Il Consiglio di stato,
dovendosi esprimere sull'utilizzabilità dell'avvalimento per
provare il possesso del Nos, chiarisce in primo luogo come
il nulla osta di sicurezza non concerna affatto un requisito
generale di partecipazione alle gare d'appalto. Per i
giudici, infatti, sia la «costruzione letterale», sia «la
collocazione sistematica della disposizione» rendono chiaro
che il legislatore non ha affatto considerato il Nos
nell'ambito dei requisiti generali di partecipazione
relativi ai c.d. «requisiti morali».
In secondo luogo non si
tratta neanche di un generico requisito di capacità tecnica
di cui di cui all'art. 42 del codice dei contratti pubblici,
all'interno dei quali figurano invece, qualificazioni
professionali, risorse umane e attrezzature tecniche,
ritenute necessarie per l'esecuzione del contratto tra
quelle individuate. Pertanto, considerando la specificità
della previsione dell'art. 17, comma 3, del codice dei
contratti, «il Nos deve essere configurato come requisito
speciale di capacità tecnica, analogamente alla fattispecie
di cui all'art. 43 del codice dei contratti relativa al
possesso del sistema di qualità».
Il Cds vede nel Nos un
«requisito soggettivo speciale» del profilo organizzativo,
rientrante fra quelli oggetto di avvalimento ex art. 49
codice contratti pubblici. Quindi, l'impresa ausiliata dovrà
avere a disposizione personale e risorse necessari ad
assicurare segretezza nell'esecuzione dell'appalto e non
potrà limitarsi a «prestare» l'attestato Nos
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2013). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Le valutazioni espresse
dalle Commissioni giudicatrici in merito alle prove di
concorso, seppure qualificabili quali analisi di fatti
(correzione dell’elaborato del candidato con attribuzione di
punteggio o giudizio) e non come ponderazione di interessi
costituiscono pur sempre l’espressione di ampia
discrezionalità, finalizzata a stabilire in concreto
l’idoneità tecnica e/o culturale ovvero attitudinale dei
candidati, con la conseguenza che le stesse valutazioni non
sono sindacabili dal giudice amministrativo se non nei casi
in cui sussistono elementi idonei ad evidenziarne uno
sviamento logico o un errore di fatto o, ancora una
contraddittorietà ictu oculi rilevabile.
Al riguardo vale qui richiamare il consolidato orientamento
giurisprudenziale, pure evocato dal Tar nella sentenza
impugnata, e pienamente condiviso da questo Collegio in
ordine ai limiti che incontra il sindacato giurisdizionale
in subjecta materia .
Più specificatamente, va qui ribadito ancora una volta che
le valutazioni espresse dalle Commissioni giudicatrici in
merito alle prove di concorso, seppure qualificabili quali
analisi di fatti (correzione dell’elaborato del candidato
con attribuzione di punteggio o giudizio) e non come
ponderazione di interessi costituiscono pur sempre
l’espressione di ampia discrezionalità, finalizzata a
stabilire in concreto l’idoneità tecnica e/o culturale
ovvero attitudinale dei candidati, con la conseguenza che le
stesse valutazioni non sono sindacabili dal giudice
amministrativo se non nei casi in cui sussistono elementi
idonei ad evidenziarne uno sviamento logico o un errore di
fatto o, ancora una contraddittorietà ictu oculi
rilevabile (tra le tante, Cons. Stato sez. IV n. 3855/2011
già citata; idem 02.03.2011 n. 1350; 03.12.2010 n. 8504;
29.02.2008 n. 774; 22.01.2007 n. 179) (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 04.06.2013 n. 3057 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ove consentito dalle
norme di attuazione, la “ristrutturazione edilizia” può
essere attuata attraverso la demolizione e la successiva
ricostruzione di un fabbricato, ma in tale ipotesi il nuovo
edificio deve essere comunque del tutto fedele a quello
preesistente, perché in caso contrario infatti si realizza
una “nuova costruzione”.
L’obbligo del rispetto delle preesistenze era infatti una
espressa prescrizione dell’articolo 31, lett. d), della
legge n. 457/1978 e smi. (ed oggi dell’art. 3, 1° co., lett.
d) del T.U. di cui al d.P.R. 06.06.2001 n. 380).
Certamente, ove consentito dalle norme di attuazione, la
“ristrutturazione edilizia” può essere attuata attraverso la
demolizione e la successiva ricostruzione di un fabbricato,
ma in tale ipotesi il nuovo edificio deve essere comunque
del tutto fedele a quello preesistente, perché in caso
contrario infatti si realizza una “nuova costruzione” (cfr.
Consiglio di Stato sez. V 07.04.2011 n. 2180; Consiglio
di Stato sez. IV 12.02.2013 n. 844).
L’obbligo del rispetto delle preesistenze era infatti una
espressa prescrizione dell’articolo 31, lett. d), della legge
n. 457/1978 e smi. (ed oggi dell’art. 3, 1° co., lett. d) del
T.U. di cui al d.P.R. 06.06.2001 n. 380)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.06.2013 n. 3056 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
L'esercizio dei poteri amministrativi di
annullamento in autotutela di precedenti statuizioni
illegittime non ha affatto natura eccezionale ma quando -al
contrario- sussistono precise esigenze di tutela della
civile convivenza e dell’ordinato sviluppo dell’attività
edilizia, e della salvaguardia degli insediamenti abitativi,
la p.a. ha il potere-dovere di emanare l'atto di
annullamento.
E’ dunque legittimo il comportamento dell’Amministrazione
che, come qui, emenda la propria precedente condotta
conformando seppure tardivamente, la propria azione al
rispetto concreto della legge..
Quanto al profilo temporale, l'art. 21-nonies L. 07.08.1990
n. 241 non fissa alcun termine ultimo oltre il quale
l'esercizio dell'attività di autotutela risulti illegittima,
lasciando all’Amministrazione la valutazione della
ragionevolezza in ordine alla tempistica della vicenda.
Pertanto, i lavori eseguiti nell’arco dei tre mesi e mezzo
precedenti l’avviso di avvio del procedimento di autotutela
non possono certo determinare alcun consolidamento ed alcuna
aspettativa giuridicamente tutelata in capo all’appellante.
Tutta l’eventuale attività edilizia svolta, successiva
all’avvio del procedimento, risulta essere stata
incautamente realizzata in base ad un relativo titolo
abilitativo in corso di verifica e revisione procedimentale.
Sotto il
profilo sostanziale poi, tenendo conto dei valori espressi
dall'art. 97 Cost., si deve ricordare che l'esercizio dei
poteri amministrativi di annullamento in autotutela di
precedenti statuizioni illegittime non ha affatto natura
eccezionale ma quando -al contrario- sussistono precise
esigenze di tutela della civile convivenza e dell’ordinato
sviluppo dell’attività edilizia, e della salvaguardia degli
insediamenti abitativi, la p.a. ha il potere-dovere di
emanare l'atto di annullamento.
E’ dunque legittimo il comportamento dell’Amministrazione
che, come qui, emenda la propria precedente condotta
conformando seppure tardivamente, la propria azione al
rispetto concreto della legge (arg. ex Consiglio Stato sez.
IV, 12.02.2013 n. 834; Consiglio Stato sez. V 24.02.1996 n. 232).
Quanto al profilo temporale, l'art. 21-nonies L. 07.08.1990 n. 241 non fissa alcun termine ultimo oltre il quale
l'esercizio dell'attività di autotutela risulti illegittima,
lasciando all’Amministrazione la valutazione della
ragionevolezza in ordine alla tempistica della vicenda (cfr.
Consiglio di Stato sez. VI 27.02.2012 n. 1081).
Nel caso concreto, si rileva anche che:
- i lavori erano
iniziati soltanto il 21.03.2000 (v. comunicazione al
Comune in atti);
- la voltura della concessione edilizia al
Tasselli era datata 24.03.2000;
- il successivo 09.07.2000 il Comune aveva inviato all’appellante la comunicazione
di avvio del procedimento relativo agli accertamenti sulla
legittimità del titolo rilasciato;
- il 06.03.2001 era
stato emesso il provvedimento impugnato in prime cure.
Pertanto, i lavori eseguiti nell’arco dei tre mesi e mezzo
precedenti l’avviso di avvio del procedimento di autotutela
non potevano certo determinare alcun consolidamento ed
alcuna aspettativa giuridicamente tutelata in capo
all’appellante. Tutta l’eventuale attività edilizia
successiva all’avvio del procedimento svolta era stata
incautamente svolta in base ad un relativo titolo
abilitativo in corso di verifica e revisione procedimentale.
Sotto il profilo sintomatico, non si ravvisa poi alcuno
sviamento di potere nel caso del Comune che, a seguito di un
esposto di un controinteressato che fondatamente assume di
subire un nocumento alla sua proprietà da un atto
illegittimo, annulla in autotutela il provvedimento
abilitativo.
Devono perciò condividersi pienamente le conclusioni del TAR
circa la sussistenza dei requisiti procedimentali,
codificati nell'art. 21-nonies L. 07.08.1990 n. 241, per
l’esercizio del potere di annullamento dei titoli edilizi in
questione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.06.2013 n. 3056 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
All'interno del sistema di cui al d.lgs. n.
267/2000 (T.U. enti locali) esiste una netta separazione di
ruoli tra organi di governo locale e relativa dirigenza,
dove ai primi spettano i compiti di indirizzo (la fissazione
delle linee generali cui attenersi e degli scopi da
perseguire), e alla seconda quelli di gestione.
Più in particolare, alla Giunta competono tutti gli atti
rientranti nelle funzioni "di indirizzo e controllo
politico-amministrativo" che non siano assegnati agli altri
organi di governo (artt. 48-107 T.U. cit.), e per converso
ai dirigenti è attribuita tutta la gestione, amministrativa,
finanziaria e tecnica, comprensiva dell'adozione di tutti i
provvedimenti, anche discrezionali, incluse le
autorizzazioni e concessioni (e quindi anche i loro
simmetrici atti negativi), e sugli stessi dirigenti incombe
la diretta ed esclusiva responsabilità della correttezza
amministrativa della medesima gestione (art. 107, commi 3 e
6, T.U. cit.).
Ne discende, da un lato, che è del tutto fisiologico
che la Giunta municipale, verificata la presenza di una
eventuale illegittimità dell’atto dirigenziale, esponga il
suo avviso compulsando il dirigente competente ad
intervenire mercé il potere di autotutela, che è a lui
riservato in quanto titolare in materia del potere di
amministrazione attiva; dall’altro, che non spetta
all’interessato alcuna facoltà di intervento nel
procedimento che si conclude con l’adozione da parte della
Giunta comunale dell’atto di indirizzo e controllo
politico-amministrativo, che non è atto immediatamente
lesivo delle ragioni dell’interessato, ma necessita della
successiva adozione del provvedimento dirigenziale in
autotutela che, ferma restando la correttezza delle ragioni
espresse dalla Giunta, potrebbe non seguire a causa della
necessità di far prevalere, ad esempio, l’affidamento del
privato, dovendosi confrontare l’organo procedente con i
limiti fissati dall’art. 21-nonies, l. n. 241/1990; ovvero a
causa dei fatti o interessi che potrebbero emergere
d’ufficio o su sollecitazione del privato in sede
istruttoria.
Come chiarito dalla giurisprudenza di questa Sezione
all'interno del sistema di cui al d.lgs. n. 267/2000 (T.U.
enti locali) esiste una netta separazione di ruoli tra
organi di governo locale e relativa dirigenza, dove ai primi
spettano i compiti di indirizzo (la fissazione delle linee
generali cui attenersi e degli scopi da perseguire), e alla
seconda quelli di gestione.
Più in particolare, alla Giunta competono tutti gli atti
rientranti nelle funzioni "di indirizzo e controllo
politico-amministrativo" che non siano assegnati agli
altri organi di governo (artt. 48-107 T.U. cit.), e per
converso ai dirigenti è attribuita tutta la gestione,
amministrativa, finanziaria e tecnica, comprensiva
dell'adozione di tutti i provvedimenti, anche discrezionali,
incluse le autorizzazioni e concessioni (e quindi anche i
loro simmetrici atti negativi), e sugli stessi dirigenti
incombe la diretta ed esclusiva responsabilità della
correttezza amministrativa della medesima gestione (art.
107, commi 3 e 6, T.U. cit.) (Cons. St., Sez. V, 07.04.2011,
n. 2154, cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett.
d), c.p.a.).
Ne discende, da un lato, che è del tutto fisiologico
che la Giunta municipale, verificata la presenza di una
eventuale illegittimità dell’atto dirigenziale, esponga il
suo avviso compulsando il dirigente competente ad
intervenire mercé il potere di autotutela, che è a lui
riservato in quanto titolare in materia del potere di
amministrazione attiva; dall’altro, che non spetta
all’interessato alcuna facoltà di intervento nel
procedimento che si conclude con l’adozione da parte della
Giunta comunale dell’atto di indirizzo e controllo
politico-amministrativo, che non è atto immediatamente
lesivo delle ragioni dell’interessato, ma necessita della
successiva adozione del provvedimento dirigenziale in
autotutela che, ferma restando la correttezza delle ragioni
espresse dalla Giunta, potrebbe non seguire a causa della
necessità di far prevalere, ad esempio, l’affidamento del
privato, dovendosi confrontare l’organo procedente con i
limiti fissati dall’art. 21-nonies, l. n. 241/1990; ovvero a
causa dei fatti o interessi che potrebbero emergere
d’ufficio o su sollecitazione del privato in sede
istruttoria.
In definitiva non si ravvisa alcuna lesione del diritto alla
partecipazione procedimentale effettiva a carico
dell’appellante (cfr., in materia di annullamento di titoli
edilizi, i principi sviluppati da Cons. Stato, sez. IV,
27.11.2010, n. 8291 cui si rinvia a mente dell’art. 88, co.
2, lett. d), c.p.a.) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 03.06.2013 n. 3024 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il diritto di accesso
–nella misura in cui concerne documenti anche non formati
dall’Amministrazione, ma comunque dalla stessa stabilente
detenuti– può riguardare anche documentazione archiviata.
L’accesso ai documenti amministrativi, d’altra parte,
costituisce “principio generale dell’attività
amministrativa, al fine di favorire la partecipazione e di
assicurarne l’imparzialità e la trasparenza”, pur
richiedendosi per l’accesso un “interesse diretto, concreto
ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata, collegata al documento al quale è chiesto
l’accesso”, con inammissibilità delle istanze di accesso
“preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato
delle pubbliche amministrazioni”, essendo tale controllo
estraneo alle finalità, perseguite attraverso l’istituto di
cui trattasi.
---------------
In base all’art. 22, comma 1, lettera d), L. 241/1990 per
“documento amministrativo” deve intendersi “ogni
rappresentazione grafica, foto cinematografica,
elettromagnetica o di qualunque altra specie di contenuto di
atti, anche interni o non relativi ad uno specifico
procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale”.
Pertanto, anche atti di natura privatistica, coinvolti in
una procedura di amministrazione straordinaria, effettuata
nell’interesse pubblico al sostegno delle imprese, va
considerata dunque documentazione amministrativa e può
essere oggetto di accesso, fino a quando (come dispone lo
stesso art. 22 L. n. 241/1990, al sesto comma)
l’Amministrazione abbia “l’obbligo di detenere i
documenti…ai quali si chiede di accedere”.
Quanto sopra, deve ritenersi, anche ove tale obbligo sia
riferibile solo ad attività materiali di passaggio di
consegne al termine della procedura, o abbia per oggetto la
mera archiviazione dei documenti stessi.
Non può porsi in dubbio, d’altra parte, che il diritto di accesso –nella misura in cui concerne documenti anche non formati
dall’Amministrazione, ma comunque dalla stessa stabilente
detenuti– può riguardare anche documentazione archiviata.
Non trovano conferma, pertanto, le ragioni poste a base
della sentenza di rigetto, mentre appaiono sussistenti anche
gli altri requisiti richiesti per la proposizione
dell’istanza di cui agli articoli 22 e seguenti della citata
legge n. 241/1990, di cui risulta la violazione.
A norma del già ricordato art. 24, comma 7, della legge n.
241/1991, infatti, “deve…essere garantito ai richiedenti
l’accesso ai documenti amministrativi, la cui conoscenza sia
necessaria per curare o per difendere i propri interessi
giuridici” (cfr. al riguardo, per il principio, Cons. St.,
Ad. Plen. 04.02.1997, n. 5; Cons. St., sez. VI, 24.03.1998, n.
498, 26.01.1999, n. 59, 20.04.2006, n. 2223; 27.10.2006, n.
6440, 13.12.2006, n. 7389; Cons. St., sez. V, 21.10.1998, n.
1529; circa la protezione preminente, accordata
dall’ordinamento giuridico all’accesso finalizzato alla
tutela in giudizio, rispetto ad eventuali interessi
contrapposti ed in particolare all’interesse alla
riservatezza di soggetti terzi cfr. anche Cons. St., sez. VI,
03.02.2011, n. 783; Cons. St, sez. V, 17.09.2010, n. 6953;
Cons. St., sez. IV, 09.05.2011, n. 2753; sull’obbligo delle
autorità amministrative di accogliere le istanze di accesso,
quando l’interesse pubblico tutelato dalla divulgazione sia
superiore all’interesse tutelato dal rifiuto di divulgare
cfr. anche Corte Giustizia CE, sez. IV, 16.12.2010, n. 266).
L’accesso ai documenti amministrativi, d’altra parte,
costituisce “principio generale dell’attività
amministrativa, al fine di favorire la partecipazione e di
assicurarne l’imparzialità e la trasparenza”, pur
richiedendosi per l’accesso un “interesse diretto, concreto
ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata, collegata al documento al quale è chiesto
l’accesso”, con inammissibilità delle istanze di accesso
“preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato
delle pubbliche amministrazioni”, essendo tale controllo
estraneo alle finalità, perseguite attraverso l’istituto di
cui trattasi (artt. 22, commi 3, 1 lettera b e 24, comma 3,
L. n. 241/1990 cit.).
---------------
Quanto alla natura
della documentazione richiesta, va osservato che, in base
all’art. 22, comma 1, lettera d), per “documento
amministrativo” deve intendersi “ogni
rappresentazione grafica, foto cinematografica,
elettromagnetica o di qualunque altra specie di contenuto di
atti, anche interni o non relativi ad uno specifico
procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale”: anche atti di natura
privatistica, coinvolti in una procedura di amministrazione
straordinaria, effettuata nell’interesse pubblico al
sostegno delle imprese, va considerata dunque documentazione
amministrativa e può essere oggetto di accesso, fino a
quando (come dispone lo stesso art. 22 L. n. 241/1990, al
sesto comma) l’Amministrazione abbia “l’obbligo di
detenere i documenti…ai quali si chiede di accedere”:
quanto sopra, deve ritenersi, anche ove tale obbligo sia
riferibile solo ad attività materiali di passaggio di
consegne al termine della procedura, o abbia per oggetto la
mera archiviazione dei documenti stessi (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 31.05.2013 n. 3012 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
L’elemento che contraddistingue la
ristrutturazione dalla nuova edificazione deve rinvenirsi
nella già avvenuta trasformazione del territorio, mediante
una edificazione di cui si conservi la struttura fisica,
(sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico
di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente") ovvero la cui
stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in
quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele"
comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della
costruzione preesistente.
---------------
Il concetto di ristrutturazione edilizia comprende la
demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e
sagoma, nel senso che debbano essere rispettate quantomeno
le “linee essenziali” della sagoma.
E’ così necessaria l’identità della complessiva volumetria
del fabbricato e, per l’area di sedime, il fabbricato deve
occupare la stessa area e sorgere sulla stessa superficie
utilizzata dal precedente senza compromettere un territorio
diverso, coerentemente con la ratio di recupero del
patrimonio esistente.
Se anche l’attuale art. 3 DPR 380/2001 non contiene più il
riferimento alla “fedele ricostruzione”, occorre però
considerare con rigore i criteri della medesima volumetria e
sagoma, in virtù della modifica dell’istituto.
Se quindi con la modifica introdotta dal D.Lgs. 301/2002 la
nozione di ristrutturazione è stata ulteriormente estesa, al
fine di conservare una logica normativa è necessaria una
interpretazione rigorosa e restrittiva del mantenimento
della sagoma precedente. Proprio perché non vi è più il
limite della “fedele ricostruzione” per la ristrutturazione
si richiede la conservazione delle caratteristiche
fondamentali dell’edificio preesistente nel senso che
debbono essere presenti le linee fondamentali per sagoma e
volumi.
Anche escludendo il superato criterio della fedele
ricostruzione, esigenze di interpretazione
logico-sistematica della nuova normativa inducono la
giurisprudenza a ritenere che la ristrutturazione edilizia,
per essere tale e non finire per coincidere con la nuova
costruzione, debba conservare le caratteristiche
fondamentali dell'edificio preesistente e la successiva
ricostruzione dell'edificio debba riprodurre le precedenti
linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi.
In caso di ristrutturazione mediante demolizione e
ricostruzione, lo scostamento di volumetria non può, dunque,
ritenersi ammissibile pena lo sconfinamento nella differente
ipotesi della nuova costruzione laddove vada ad incidere sul
requisito della identità di sagoma, superfici e volumi
richiesto dall'art. 3, d.P.R. n. 380/2001.
In linea generale, l’elemento che contraddistingue la
ristrutturazione dalla nuova edificazione deve rinvenirsi
nella già avvenuta trasformazione del territorio, mediante
una edificazione di cui si conservi la struttura fisica,
(sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico
di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente") ovvero la cui
stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in
quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele"
comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della
costruzione preesistente.
Ai sensi dell'art. 3, c. 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001
sono "interventi di ristrutturazione edilizia" (...) "gli
interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che possono portare
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le
sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica.".
Il concetto di ristrutturazione edilizia comprende la
demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e
sagoma, nel senso che debbano essere rispettate quantomeno
le “linee essenziali” della sagoma.
E’ così necessaria l’identità della complessiva volumetria
del fabbricato e, per l’area di sedime, il fabbricato deve
occupare la stessa area e sorgere sulla stessa superficie
utilizzata dal precedente senza compromettere un territorio
diverso, coerentemente con la ratio di recupero del
patrimonio esistente.
Se anche l’attuale art. 3 non contiene più il riferimento
alla “fedele ricostruzione”, occorre però considerare con
rigore i criteri della medesima volumetria e sagoma, in
virtù della modifica dell’istituto.
Se quindi con la modifica introdotta dal D.Lgs. 301/2002 la
nozione di ristrutturazione è stata ulteriormente estesa, al
fine di conservare una logica normativa è necessaria una
interpretazione rigorosa e restrittiva del mantenimento
della sagoma precedente. Proprio perché non vi è più il
limite della “fedele ricostruzione” per la ristrutturazione
si richiede la conservazione delle caratteristiche
fondamentali dell’edificio preesistente nel senso che
debbono essere presenti le linee fondamentali per sagoma e
volumi (così, Cons. Stato, IV, 28.07.2005, n.4011; Cons.
Stato, V, 14.04.2006, n. 2085).
Anche escludendo il superato criterio della fedele
ricostruzione, esigenze di interpretazione
logico-sistematica della nuova normativa inducono la
giurisprudenza a ritenere che la ristrutturazione edilizia,
per essere tale e non finire per coincidere con la nuova
costruzione, debba conservare le caratteristiche
fondamentali dell'edificio preesistente e la successiva
ricostruzione dell'edificio debba riprodurre le precedenti
linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi (fra
le tante Cons. Stato, sez. IV, 18.03.2008, n. 1177).
In caso di ristrutturazione mediante demolizione e
ricostruzione, lo scostamento di volumetria non può, dunque,
ritenersi ammissibile pena lo sconfinamento nella differente
ipotesi della nuova costruzione laddove vada ad incidere sul
requisito della identità di sagoma, superfici e volumi
richiesto dall'art. 3, d.P.R. n. 380/2001.
Né in senso diverso può essere invocata la normativa
regionale, in quanto l'art. 27, comma 1, lett. d), della l.reg. Lombardia 11.03.2005, n. 12 -che ricomprende tra
gli interventi di ristrutturazione edilizia quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione parziale o
totale nel rispetto della volumetria preesistente- deve
interpretarsi nel senso di prescrivere anche il rispetto
della sagoma dell'edificio preesistente, in quanto tale
requisito, previsto dall'art. 3, comma 1, lettera d), del
D.P.R. 380/2001 e s.m.i., costituisce espressione di un
principio generale che deve orientare anche
l'interpretazione della legislazione regionale.
Se anche si era ritenuto in senso contrario rispetto alla
sentenza appellata da parte di giudici regionali (in tal
senso TAR Brescia Lombardia sez. I, 13.04.2011, n.
552) che il legislatore lombardo ha ritenuto, attraverso
l'art. 22, comma 1, l.reg. 05.02.2010 n. 7, di
intervenire sull'art. 27 l.reg. n. 12 del 2005 e di
adottare in tal modo nel caso di "demolizione e
ricostruzione" un concetto di ristrutturazione più ampio di
quello accolto nella normativa nazionale, eliminando in
buona sostanza la sagoma quale vincolo da rispettare, sul
punto è stata fatta definitiva chiarezza. Infatti sul punto
è intervenuto il giudice delle leggi, stabilendo che sono
principi fondamentali della materia del governo del
territorio le disposizioni d.P.R. n. 380 del 2001, testo
unico in materia edilizia, che definiscono le categorie di
interventi, perché è in conformità di queste ultime che è
disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo
al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle
relative sanzioni, anche penali (Corte Costituzionale, 23.11.2011, n. 309).
È costituzionalmente illegittimo l'art. 27, comma 1, lett.
d), ultimo periodo, l.reg. Lombardia 11.03.2005 n. 12,
nella parte in cui, nel definire come ristrutturazione
edilizia interventi di demolizione e ricostruzione senza il
vincolo della sagoma, si pone in contrasto con il principio
fondamentale stabilito dall'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001, con conseguente violazione dell'art.
117, comma 3, cost., in materia di governo del territorio.
Si vedano, in tema di "governo del territorio", le citate
sentenze n. 367 del 2007 e n. 303 del 2003, punto 11.2.
Di
conseguenza, sono costituzionalmente illegittimi sia l'art.
27, comma 1, lett. d, ultimo periodo, l.reg. Lombardia n.
12 del 2005, come interpretato dall'art. 22 l.reg.
Lombardia n. 7 del 2010, che definisce come "ristrutturazione edilizia" interventi di demolizione e
ricostruzione senza il vincolo della sagoma, sia l'art. 103
l. reg. Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui,
qualificando come "disciplina di dettaglio" numerose
disposizioni legislative statali, prevede la disapplicazione
della legislazione di principio in materia di governo del
territorio dettata dall'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001 con
riguardo alla definizione delle categorie di interventi
edilizi (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.05.2013 n. 2972 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
L'emanazione di un
provvedimento espresso (sia positivo che negativo) dopo la
proposizione del ricorso giurisdizionale contro il
silenzio-rifiuto della P.A., non può non avere effetti
estintivi sulla materia del contendere, in quanto il privato
ha ottenuto il risultato al quale mira il giudizio, ossia il
superamento della situazione di inerzia procedimentale e di
violazione/elusione dell'obbligo di concludere il
procedimento con un provvedimento espresso entro i termini
all'uopo previsti; nel caso in cui il provvedimento
sopravvenuto sia ritenuto illegittimo, per motivi
evidentemente diversi dalla mera tardività, il privato deve
proporre contro di esso una nuova impugnazione.
Altresì, l'interesse all'impugnazione del silenzio della
P.A., perdurante malgrado la sussistenza dell'obbligo di
provvedere, e cioè di portare al termine il procedimento
amministrativo, non viene meno per il solo fatto che sia
stato emesso un atto meramente istruttorio o comunque
interno; esso trova invece un limite nell'adozione di un
atto che, sebbene endoprocedimentale, provochi un arresto
del procedimento. In tale caso, è l'atto endoprocedimentale
a dover essere impugnato secondo gli ordinari rimedi, avendo
esso un effetto preclusivo lesivo dell'interesse al
successivo sviluppo del procedimento
E’ quindi indubbio che l'interesse all'impugnazione del
silenzio non viene meno per il solo fatto che sia stato
emesso un atto meramente istruttorio o comunque interno.
E’ del pari certo che non basta un qualsiasi atto ad
interrompere l'inerzia e tanto meno un atto avente mero
contenuto endoprocedimentale, e non già provvedimentale. A
diverse conclusioni, invece, si deve giungere laddove ci si
trovi al cospetto di un atto che, sebbene endoprocedimentale,
provochi un arresto del procedimento.
Ciò in quanto scopo del ricorso avverso il silenzio-rifiuto,
è quello di ottenere un provvedimento esplicito
dell'amministrazione che elimini lo stato di inerzia e
assicuri al privato la definizione della propria pretesa.
Venendo all’esame del merito, infatti, si rimarca che costituisce approdo
consolidato in giurisprudenza quello secondo cui (si veda
ancora di recente Cons. Stato Sez. IV, 22.01.2013, n. 355)
l'emanazione di un provvedimento espresso (sia positivo
che negativo) dopo la proposizione del ricorso
giurisdizionale contro il silenzio-rifiuto della P.A., non
può non avere effetti estintivi sulla materia del
contendere, in quanto il privato ha ottenuto il risultato al
quale mira il giudizio, ossia il superamento della
situazione di inerzia procedimentale e di
violazione/elusione dell'obbligo di concludere il
procedimento con un provvedimento espresso entro i termini
all'uopo previsti; nel caso in cui il provvedimento
sopravvenuto sia ritenuto illegittimo, per motivi
evidentemente diversi dalla mera tardività, il privato deve
proporre contro di esso una nuova impugnazione.
E’ stato poi correttamente rimarcato, in passato, che (Cons.
Stato Sez. V, 17.09.2010, n. 6978) l'interesse
all'impugnazione del silenzio della P.A., perdurante
malgrado la sussistenza dell'obbligo di provvedere, e cioè
di portare al termine il procedimento amministrativo, non
viene meno per il solo fatto che sia stato emesso un atto
meramente istruttorio o comunque interno; esso trova invece
un limite nell'adozione di un atto che, sebbene endoprocedimentale, provochi un arresto del procedimento. In
tale caso, è l'atto endoprocedimentale a dover essere
impugnato secondo gli ordinari rimedi, avendo esso un
effetto preclusivo lesivo dell'interesse al successivo
sviluppo del procedimento
E’ quindi indubbio che l'interesse all'impugnazione del
silenzio non viene meno per il solo fatto che sia stato
emesso un atto meramente istruttorio o comunque interno
(Cons. St. Sez. VI 01.03.2010 n. 1168, Sez. IV, 10.04.2009,
n. 2241; Cons. St., sez. V, 25.02.2009, n. 1123).
E’ del pari certo che non basta un qualsiasi atto ad
interrompere l'inerzia e tanto meno un atto avente mero
contenuto endoprocedimentale, e non già provvedimentale. A
diverse conclusioni, invece, si deve giungere laddove ci si
trovi al cospetto di un atto che, sebbene endoprocedimentale,
provochi un arresto del procedimento.
Ciò in quanto scopo del ricorso avverso il silenzio-rifiuto, è quello di ottenere un provvedimento esplicito
dell'amministrazione che elimini lo stato di inerzia e
assicuri al privato la definizione della propria pretesa
(così, Cons. St., sez. IV, 15.09.2010, n. 6892) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.05.2013 n. 2968 - link a
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APPALTI:
L'informativa prefettizia, di cui agli art. 4
d.lgs. 29.10.1994 n. 490 e 10 d.P.R. 03.06.1998 n. 252, è
funzionale alla peculiare esigenza di mantenere un
atteggiamento intransigente contro rischi di infiltrazione
mafiosa, idonei a condizionare le scelte delle imprese
chiamate a stipulare contratti con la p.a., determinando
l'esclusione dell'imprenditore, sospettato di detti legami,
dal mercato dei pubblici appalti e, più in generale, dalla
stipula di tutti quei contratti e dalla fruizione di tutti
quei benefici, che presuppongono la partecipazione di un
soggetto pubblico e l'utilizzo di risorse della
collettività.
Di conseguenza, la misura è adottabile sulla base di
accertamenti sommari e probabilistici, che non raggiungono,
né possono raggiungere, le certezze che scaturiscono dai
giudizi penali; ed è irrilevante la preesistenza di
pregiudizi penali o procedimenti pendenti per reati di mafia
così come sono irrilevanti le risultanze negative dei
certificati penali delle persone interessate all’indagine.
Tuttavia, è altrettanto essenziale, in un sistema di
legalità, non attribuire valore esclusivo al mero rapporto
di parentela con soggetti pregiudicati o contigui ad
ambienti criminali; tale elemento, però, unito ad altri può
essere idoneo ad integrare il presupposto del tentativo di
infiltrazione mafiosa.
Osserva il Collegio
che la sentenza appellata ha esaminato puntualmente sia i
principi elaborati dalla giurisprudenza al fine di una
applicazione garantista delle norme concernenti la materia,
sia le risultanze istruttorie del caso in esame, non
rilevando vizi di illogicità e superficialità, e concludendo
correttamente che “gli accertamenti condotti, pur non
facendo palesare situazioni di effettiva e conclamata
infiltrazione mafiosa hanno dato conto della presenza di
circostanze poste alla soglia, giuridicamente rilevante,
dell’influenza e del condizionamento latente dell’attività
dell’impresa da parte delle organizzazioni criminali”.
Il Collegio condivide tali conclusioni: valore pregnante
nella fattispecie assume il contesto, la compagine familiare
sospetta; i fatti esaminati partitamente presentano nel loro
insieme una coerenza logica sufficiente a giustificare la
misura prefettizia, che, come più volte ribadito in
giurisprudenza, ha una forte valenza di anticipazione “della
soglia di prevenzione” rispetto ai tentativi di
infiltrazione mafiosa nelle attività economiche.
"L'informativa prefettizia, di cui agli art. 4 d.lgs.
29.10.1994 n. 490 e 10 d.P.R. 03.06.1998 n. 252, è
funzionale alla peculiare esigenza di mantenere un
atteggiamento intransigente contro rischi di infiltrazione
mafiosa, idonei a condizionare le scelte delle imprese
chiamate a stipulare contratti con la p.a., determinando
l'esclusione dell'imprenditore, sospettato di detti legami,
dal mercato dei pubblici appalti e, più in generale, dalla
stipula di tutti quei contratti e dalla fruizione di tutti
quei benefici, che presuppongono la partecipazione di un
soggetto pubblico e l'utilizzo di risorse della collettività.”
(Consiglio Stato , sez. VI, 17.07.2006, n. 4574).
Di conseguenza, la misura è adottabile sulla base di
accertamenti sommari e probabilistici, che non raggiungono,
né possono raggiungere, le certezze che scaturiscono dai
giudizi penali; ed è irrilevante la preesistenza di
pregiudizi penali o procedimenti pendenti per reati di mafia
così come sono irrilevanti le risultanze negative dei
certificati penali delle persone interessate all’indagine
(Consiglio Stato sez. VI, 03.03.2010, n. 1254).
Tuttavia, è altrettanto essenziale, in un sistema di
legalità, non attribuire valore esclusivo al mero rapporto
di parentela con soggetti pregiudicati o contigui ad
ambienti criminali; tale elemento, però, unito ad altri può
essere idoneo ad integrare il presupposto del tentativo di
infiltrazione mafiosa (Consiglio Stato sez. V, 07.11.2006 n.
6536)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 30.05.2013 n. 2941 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Ai sensi dell'art. 3, l. 07.08.1990 n. 241, in
via generale, la motivazione “per relationem” è consentita
con riferimento ad altri atti dell'Amministrazione, che
devono però essere indicati e resi disponibili, non
necessariamente attraverso la materiale allegazione al
provvedimento, ma attraverso la loro “accessibilità”.
La motivazione “per relationem” è sufficiente ad assolvere
l’obbligo motivazionale specialmente allorquando il
provvedimento amministrativo è preceduto da atti istruttori,
da pareri, o costituisce espressione sintetica di concrete
valutazioni operate da organi altamente qualificati,
nell'ambito di appositi sub procedimenti tecnici, a
condizione che dal complesso degli atti del procedimento
siano evincibili le ragioni giuridiche che supportano la
decisione.
Inoltre, sempre in via generale, la motivazione assume
connotati di minore pregnanza in caso di adesione alle
risultanze di atti presupposti e del complesso
dell’istruttoria, mentre richiede una espressione più
diffusa e approfondita solo nel caso di discostamento da
quelle risultanze.
Innanzitutto, va condiviso che ai sensi dell'art. 3, l.
07.08.1990 n. 241, in via generale, la motivazione “per
relationem” è consentita con riferimento ad altri atti
dell'Amministrazione, che devono però essere indicati e resi
disponibili, non necessariamente attraverso la materiale
allegazione al provvedimento, ma attraverso la loro “accessibilità”.
La motivazione “per relationem” è sufficiente ad
assolvere l’obbligo motivazionale specialmente allorquando
il provvedimento amministrativo è preceduto da atti
istruttori, da pareri, o costituisce espressione sintetica
di concrete valutazioni operate da organi altamente
qualificati, nell'ambito di appositi sub procedimenti
tecnici, a condizione che dal complesso degli atti del
procedimento siano evincibili le ragioni giuridiche che
supportano la decisione (Consiglio di Stato, sez. IV,
27.02.2013, n. 1202 e 31.03.2012, n. 1914; sez. VI,
24.02.2011, n. 1156; sez. V, 15.11.2012, n. 5772).
Inoltre, sempre in via generale, la motivazione assume
connotati di minore pregnanza in caso di adesione alle
risultanze di atti presupposti e del complesso
dell’istruttoria, mentre richiede una espressione più
diffusa e approfondita solo nel caso di discostamento da
quelle risultanze (Consiglio di Stato, sez. V, 24.01.2013,
n. 445; sez. VI, 23.02.2004, n. 685) (Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 30.05.2013 n. 2941 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Nei giudizi sul silenzio
dell’Amministrazione, il giudice amministrativo non può
andare oltre la declaratoria di illegittimità dell'inerzia e
l'ordine di provvedere; gli resta precluso il potere di
accertare direttamente la fondatezza della pretesa fatta
valere dal richiedente, sostituendosi all'Amministrazione
stessa. Le disposizioni relative, ove interpretate
diversamente, attribuirebbero illegittimamente, in modo
indiscriminato, una giurisdizione di merito.
Pertanto, nell'ambito del giudizio sul silenzio, il giudice
potrà conoscere della accoglibilità dell'istanza:
a) nelle ipotesi di manifesta fondatezza, allorché siano
richiesti provvedimenti amministrativi dovuti o vincolati in
cui non c'è da compiere alcuna scelta discrezionale che
potrebbe sfociare in diverse soluzioni e fermo restando il
limite della impossibilità di sostituirsi
all'Amministrazione;
b) nell'ipotesi in cui l'istanza sia manifestamente
infondata, sicché risulti del tutto diseconomico obbligare
l’Amministrazione a provvedere laddove l'atto espresso non
potrebbe che essere di rigetto.
D’altronde, in linea di massima, nei giudizi sul silenzio
dell’Amministrazione, il giudice amministrativo non può
andare oltre la declaratoria di illegittimità dell'inerzia e
l'ordine di provvedere; gli resta precluso il potere di
accertare direttamente la fondatezza della pretesa fatta
valere dal richiedente, sostituendosi all'Amministrazione
stessa. Le disposizioni relative, ove interpretate
diversamente, attribuirebbero illegittimamente, in modo
indiscriminato, una giurisdizione di merito (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 24.05.2010, n. 3270).
Pertanto, nell'ambito del giudizio sul silenzio, il giudice
potrà conoscere della accoglibilità dell'istanza:
a) nelle ipotesi di manifesta fondatezza, allorché siano
richiesti provvedimenti amministrativi dovuti o vincolati in
cui non c'è da compiere alcuna scelta discrezionale che
potrebbe sfociare in diverse soluzioni e fermo restando il
limite della impossibilità di sostituirsi
all'Amministrazione;
b) nell'ipotesi in cui l'istanza sia manifestamente
infondata, sicché risulti del tutto diseconomico obbligare
l’Amministrazione a provvedere laddove l'atto espresso non
potrebbe che essere di rigetto (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
12.03.2010, n. 1468) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.05.2013 n. 2902 - link a
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URBANISTICA:
La notificazione
individuale di strumenti urbanistici attuativi è prevista
esclusivamente nei confronti dei proprietari direttamente
incisi dalla nuova disciplina.
In caso d’impugnazione di strumenti urbanistici attuativi,
quali piani di lottizzazione o piani di recupero, da parte
di soggetti terzi perché non direttamente contemplati in
essi, quali i confinanti, il termine per l'impugnazione
decorre dall'ultimo giorno di pubblicazione della
deliberazione di approvazione nell'albo del comune.
Osserva il collegio che, in base ad una consolidata
giurisprudenza da cui non vi sono ragioni per discostarsi,
la notificazione individuale di strumenti urbanistici
attuativi è prevista esclusivamente nei confronti dei
proprietari direttamente incisi dalla nuova disciplina (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, sent. 29.12.2010 n. 9537) e che “in
caso d’impugnazione di strumenti urbanistici attuativi,
quali piani di lottizzazione o piani di recupero, da parte
di soggetti terzi perché non direttamente contemplati in
essi, quali i confinanti, il termine per l'impugnazione
decorre dall'ultimo giorno di pubblicazione della
deliberazione di approvazione nell'albo del comune”
(Cons. Stato, sez. VI, sent. 10.04.2003 n. 1910, e sez. IV,
sent. 25.07.2005 n. 3930) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.05.2013 n. 2848 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI:
La peculiare procedura di convalida di un atto
illegittimo per incompetenza è sopravvissuta alla riforma
della l. n. 241 del 1990 operata dalla l. n. 15 del 2005.
Sicché, l'illegittimo rilascio della concessione edilizia a
firma del sindaco risulta sanato (legittimamente) per
effetto della ratifica effettuata con atto adottato dal
segretario comunale in ossequio alle coordinate sancite
dall’art. 6, l. n. 249/1968, espressione del principio di
conservazione degli atti giuridici operante, anche in
pendenza di ricorso giurisdizionale, al fine di soddisfare
l’interesse pubblico da identificare in re ipsa
nell’eliminazione del vizio di incompetenza che affligge
l’atto.
Si deve, in particolare, rimarcare che:
a) il difetto di competenza del Sindaco a rilasciare la
concessione edilizia impugnata è stato sanato per effetto
della ratifica effettuata con atto adottato dal segretario
comunale in data del 13.01.1999 in ossequio alle coordinate
sancite dall’art. 6, l. n. 249/1968, espressione del
principio di conservazione degli atti giuridici operante,
anche in pendenza di ricorso giurisdizionale, al fine di
soddisfare l’interesse pubblico da identificare in re
ipsa nell’eliminazione del vizio di incompetenza che
affligge l’atto (in termini, Cons. Stato., ad. plen.,
09.03.1984 n. 5); è appena il caso di osservare, inoltre,
che tale peculiare procedura di convalida è sopravvissuta
alla riforma della l. n. 241 del 1990 operata dalla l. n. 15
del 2005 (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 2894 del 2007)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.05.2013 n. 2782 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA: Aria. Articolo 674 codice penale e limiti di tollerabilità
delle emissioni.
La necessità di accertare il superamento del limiti di
tollerabilità delle emissioni ai fini della configurabilità
del reato previsto dall'art. 674 cod. pen. si pone soltanto
per le attività autorizzate in quanto le emissioni di fumo
gas o vapori siano una conseguenza diretta dell‘attività;
diversamente, nel caso di attività non autorizzata ovvero di
emissioni autorizzate, ma che non siano conseguenza naturale
dell'attività, in quanto imputabili a deficienze
dell'impianto o a negligenza del gestore, ai fini della
configurabilità del reato è sufficiente la semplice idoneità
a recare molestia alle persone (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.05.2013 n. 21138 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sviluppo sostenibile. Impianti fotovoltaici ed impatto
sull'ambiente ed il paesaggio.
In tema di impianti fotovoltaici, la differenza fra gli
impianti minori, realizzabili mediante la presentazione di
D.i.a. conforme agli strumenti urbanistici e quelli di
maggiori dimensioni, che richiedono la più complessa
procedura autorizzatoria prevista dall’art. 12 del d.lgs.
29.12.2003, n. 387, risiede nella diversa incidenza degli
interventi sul bene paesaggio e ambiente.
La natura del bene tutelato e le caratteristiche della
procedura di autorizzazione rendono evidente come la
compromissione del paesaggio e dell’ambiente non si
esaurisce con la sola edificazione dell’impianto e danno
conto delle ragioni per cui l’art. 12, citato, affermi al
comma 4 che l'autorizzazione costituisce «titolo a
costruire ed esercire l’impianto in conformità al progetto».
Tale espressione giustifica l'interpretazione secondo cui
l’assenza dell’autorizzazione riveste rilevanza anche in
corso di esercizio ed esclude che la conclusione delle opere
di edificazione comporti il venir meno delle esigenze
cautelari che sostengono il provvedimento cautelare (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.05.2013 n. 20403 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Fotovoltaico
compromesso senza l'Aua.
Vi è compromissione ambiente continuata nel caso di
installazione di impianto fotovoltaico di grandi dimensioni
senza l'autorizzazione unica ambientale (dlgs n. 387/2003).
L'autorizzazione unica deve tenere conto infatti delle
caratteristiche complessive della zona a vocazione agricola
al fine di tutelare il paesaggio rurale.
Questo è quanto
afferma la Corte di Cassazione, III Sez. penale, con la
sentenza 13.05.2013 n. 20403.
I giudici di
cassazione infatti sostengono ai sensi dell'articolo 12 del dlgs
n. 387 del 2003 l'autorizzazione unica deve avere come
riferimento il rispetto della normativa in tema di ambiente,
di paesaggio e di patrimonio storico.
L'autorizzazione unica è «titolo a costruire ed esercire
l'impianto in conformità al progetto». Quindi l'assenza
dell'autorizzazione è rilevante anche in corso di esercizio
escludendo il venir meno delle esigenze cautelari alla base
del sequestro
(articolo ItaliaOggi del 13.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Responsabilità del muratore o operaio per l'abuso
edilizio.
L'esecutore dei lavori, anche se muratore od operaio, ben
può rispondere -in applicazione degli ordinari criteri del
concorso di persona ex art. 110 cod. pen. ed anche a titolo
di colpa quanto alla consapevolezza dell'abusività dei
lavori- delle contravvenzioni di cui all'art. 44, lett. b) e
c), del T.U. n. 380/2001, qualora sia accertata la sua
materiale collaborazione alla realizzazione.
Per la sussistenza dell’elemento soggettivo è sufficiente,
quindi, che il comportamento illecito sia derivato da
imperizia, imprudenza o negligenza (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.05.2013 n. 20383 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Legittimità irrogazione della sanzione
amministrativa per concessione in sanatoria di abuso
commesso dal proprietario precedente.
L'abuso edilizio costituisce, sotto il
profilo amministrativo, un illecito a carattere permanente e
pertanto non rileva che l’addizione abusiva sia stata
realizzata dal precedente proprietario dell’immobile.
Rispetto all’esercizio del potere sanzionatorio e, salva la
normativa sulla nullità del contratto in presenza dei
relativi presupposti, sono infatti irrilevanti le
alienazioni del manufatto, in tutto o in parte abusivo,
sotto il profilo privatistico.
Alla luce di ciò neppure è rilevante la tematica
dell’affidamento dei privati, peraltro considerata “per
taluni orientamenti giurisprudenziali, comunque di frequente
contestati” (Cons. Stato, sez. IV, 12.04.2011, n. 2266),
avendo invero chiarito questo Consiglio che <<il
complesso di norme introdotte ai fini della sanatoria degli
abusi edilizi assumono a riferimento le opere in base al
loro dato oggettivo (tipologia, consistenza, momento di
esecuzione, disciplina della zona interessata dall’abuso)
indipendentemente dall’elemento soggettivo (consapevolezza o
meno della condotta “contra legem”) che abbia accompagnato
la realizzazione delle opere stesse>> (Cons. Stato, sez.
VI, 09.07.2012, n. 4013; 02.02.2009, n. 537).
Del resto, “l’abuso edilizio costituisce –sotto il
profilo amministrativo– un illecito a carattere permanente e
pertanto non rileva che l’addizione abusiva sia stata
realizzata dal precedente proprietario dell’immobile”
(Cons. Stato, sez. VI, 05.04.2013, n. 1886).
Rispetto all’esercizio del potere sanzionatorio (e salva la
normativa sulla nullità del contratto in presenza dei
relativi presupposti), sono infatti irrilevanti le
alienazioni del manufatto (in tutto o in parte abusivo)
sotto il profilo privatistico.
L’acquirente, infatti, subentra nella situazione giuridica
del dante causa che –consapevolmente o meno- ha violato la
normativa urbanistica ed edilizia e poiché, se ignaro
dell’abuso al momento della alienazione, può agire nei
confronti del dante causa anche prima dell’esercizio dei
poteri repressivi da parte del Comune, a maggior ragione
quando riceva (come nella specie, pur nel contesto di un
provvedimento favorevole) un pregiudizio in conseguenza dei
doverosi atti amministrativi repressivi, può agire sia nei
confronti del notaio che in ipotesi non abbia rilevato
l’assenza del titolo edilizio, sia nei confronti del dante
causa e dell’autore dell’abuso (secondo un principio, ab
antiquo affermato dalla giurisprudenza amministrativa e
da quella civile) (massima tratta da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 30.04.2013 n. 2363 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Premesso
che l'art. 17 del RD 06.10.1912 n.
1306 include le opere relative ai cimiteri nel novero delle
"opere riguardanti la pubblica igiene", è pacifico in
giurisprudenza che la progettazione delle opere viarie,
idrauliche ed igieniche che non siano strettamente connesse
con i singoli fabbricati è di pertinenza esclusiva degli
ingegneri.
Appare dirimente, al fine di sostenere l’incompetenza dei
geometri alla progettazione delle opere di cui è causa (ndr:
nuovi loculi cimiteriali), la considerazione che in base
all'art. 16 del RD 11.02.1929 n. 274 la competenza
professionale dei geometri in materia di progettazione e
direzione dei lavori di opere edili riguarda le costruzioni
in cemento armato solo relativamente ad opere con
destinazione agricola che non richiedano particolari
operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non
comportino pericolo per la incolumità delle persone, mentre
per le costruzioni civili che adottino strutture in cemento
armato –tale è l’opera oggetto della presente controversia-,
sia pure di modeste dimensioni, ogni competenza è riservata
ad ingegneri ed architetti ai sensi dell'art. 1 del RD
16.11.1939 n. 2229: né tale disciplina professionale è stata
modificata dalla legge 05.11.1971 n. 1086 e dalla legge
02.02.1974 n. 64, le quali si sono limitate, pur senza
esplicito richiamo, a recepire la previgente ripartizione di
competenze.
... per l'annullamento:
- della delibera n. 18 del 13.02.2013 della Giunta Comunale
del Comune di Sona con la quale è stato approvato il
progetto definitivo-esecutivo relativo ai lavori di "realizzazione
di nuovi loculi presso il cimitero di Lugagnano" redatto
dal geom. Alessandro Colognato;
- della determinazione n. 143 dell'08.02.2013 con la quale è
stato affidato al geom. Alessandro Colognato l'incarico
professionale per la progettazione definitiva ed esecutiva
dei lavori di cui sopra;
...
- che nel merito –premesso che l'art. 17 del RD 06.10.1912
n. 1306 include le opere relative ai cimiteri nel novero
delle "opere riguardanti la pubblica igiene" e che “è
pacifico in giurisprudenza che la progettazione delle opere
viarie, idrauliche ed igieniche che non siano strettamente
connesse con i singoli fabbricati è di pertinenza esclusiva
degli ingegneri” (cfr. CdS, IV, 22.05.2000 n. 2938),
sicché in tale contesto va sicuramente esclusa la competenza
dei geometri- appare dirimente, al fine di sostenere
l’incompetenza dei geometri alla progettazione delle opere
di cui è causa, la considerazione che in base all'art. 16
del RD 11.02.1929 n. 274 la competenza professionale dei
geometri in materia di progettazione e direzione dei lavori
di opere edili riguarda le costruzioni in cemento armato
solo relativamente ad opere con destinazione agricola che
non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per
la loro destinazione non comportino pericolo per la
incolumità delle persone, mentre per le costruzioni civili
che adottino strutture in cemento armato –tale è l’opera
oggetto della presente controversia-, sia pure di modeste
dimensioni, ogni competenza è riservata ad ingegneri ed
architetti ai sensi dell'art. 1 del RD 16.11.1939 n. 2229:
né tale disciplina professionale è stata modificata dalla
legge 05.11.1971 n. 1086 e dalla legge 02.02.1974 n. 64, le
quali si sono limitate, pur senza esplicito richiamo, a
recepire la previgente ripartizione di competenze (cfr.
Cass. civ. II, 02.09.2011 n. 18038; 08.04.2009 n. 8543 e
14.04.2005 n. 7778);
- che, dunque, per le su estese considerazioni
il ricorso è fondato e va accolto, con conseguente
annullamento degli atti impugnati e declaratoria di
inefficacia del contratto (eventualmente) stipulato:
l’Amministrazione, pertanto, si rideterminerà in ordine
all’affidamento dei lavori di cui trattasi tenendo conto di
quanto stabilito con la presente decisione ...
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 30.04.2013 n. 633 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Rilascio di concessione edilizia e limiti
civilistici.
Il rispetto dei limiti civilistici e in
particolare di eventuali diritti vantati da terzi possono
rilevare in senso ostativo al rilascio di concessione
edilizia richiesta da chi assume di essere proprietario
dell’area o di avere titolo per richiederla solo quando
siano immediatamente conoscibili, effettivamente e
legittimamente conosciuti nonché del tutto incontestati, di
guisa che il controllo si traduca in una semplice presa
d’atto.
Al riguardo è il caso di ricordare che per giurisprudenza
costante l’amministrazione comunale, nel corso
dell’istruttoria sul rilascio della concessione edilizia,
deve sicuramente verificare che esista il titolo per
intervenire sull’immobile per il quale è richiesta la
concessione edilizia, anche se questa è sempre rilasciata
facendo salvi i diritti dei terzi; ma deve però “escludersi
un obbligo del comune di effettuare complessi accertamenti
diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la
titolarità dell’immobile, o di verificare l’inesistenza di
servitù o altri vincoli reali che potrebbero limitare
l’attività edificatoria dell’immobile, atteso che la
concessione edilizia è un atto amministrativo che rende
semplicemente legittima l’attività edilizia nell’ordinamento
pubblicistico, e regola solo il rapporto che, in relazione a
quell’attività, si pone in essere tra l’autorità
amministrativa che lo emette e il soggetto a favore del
quale è emesso, ma non attribuisce a favore di tale soggetto
diritti soggettivi conseguenti all’attività stessa, la cui
attività deve essere sempre verificata alla stregua della
disciplina fissata dal diritto comune” (Cons. di Stato,
Sez. V, 24.03.2011, n.1770).
La giurisprudenza ha avuto anche modo di precisare che il
rispetto dei limiti civilistici e in particolare di
eventuali diritti vantati da terzi possono rilevare in senso
ostativo al rilascio di concessione edilizia richiesta da
chi assume di essere proprietario dell’area o di avere
titolo per richiederla solo quando “siano immediatamente
conoscibili, effettivamente e legittimamente conosciuti
nonché del tutto incontestati, di guisa che il controllo si
traduca in una semplice presa d’atto” (Cons. di Stato,
Sez. IV, n. 6332/2007; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, n.
1165/2011) (massima tratta da
www.lexambiente.it -
TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 11.04.2013 n. 625 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 10.06.2013 |
ã |
Abusi edilizi e responsabile dell'UTC.
OKKIO, PAROLA D'ORDINE: DENUNCIARE, DENUNCIARE,
DENUNCIARE!!
(se non si vuole essere condannati ...) |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Uffici
tecnici.
Abusi edilizi. La denuncia è obbligata.
Il responsabile di un ufficio tecnico ha l'obbligo di
denunziare all'autorità giudiziaria gli abusi edilizi da lui
stesso riscontrati nel corso di sopralluogo effettuato
insieme al comandante della polizia municipale.
L'elemento
soggettivo del reato di omissione di denuncia consiste nella
consapevolezza e volontarietà dell'omissione della denuncia
allorché si sia verificato il presupposto da cui deriva
l'obbligo di informare l'autorità giudiziaria, ovvero la
conoscenza, da parte del pubblico ufficiale, del fatto
costituente reato a causa e nell'esercizio delle sue
funzioni.
È irrilevante che il pubblico ufficiale ritenga
che l'informativa della «notitia criminis» di cui sia venuto
a conoscenza, competa ad altro pubblico ufficiale ovvero
supponga che l'informativa medesima sia stata da questi già
fornita.
Questo è quanto afferma la Corte di Cassazione,
Sez. VI penale, con la
sentenza 03.06.2013 n. 23956
(articolo ItaliaOggi del 06.06.2013).
---------------
G.C. è imputato del reato di cui all'art. 361
c.p. per avere, in qualità di geometra dell'Ufficio
Tecnico del Comune di (omissis), omesso di
denunciare senza ritardo alla Autorità Giudiziaria
l'abuso edilizio da lui stesso riscontrato nel corso
di sopralluogo effettuato insieme al comandante
della Polizia Municipale in data 02.02.2009
presso la proprietà di T.D..
A Z.D. è contestato lo stesso reato per avere, in
qualità di responsabile dell'Ufficio Tecnico del
Comune di (OMISSIS), omesso di denunciare senza
ritardo alla Autorità Giudiziaria l'abuso edilizio
di cui era venuto a conoscenza a seguito della
ricezione di rapporto di servizio redatto dalla
Polizia locale in data 03.12.2009.
Il GUP di Pavia, dopo avere premesso che
doveva ritenersi pacifico in punto di fatto che alla
segnalazione dell'abuso edilizio ed alla sua
constatazione era seguita la totale inerzia degli
organi competenti, ha rilevato che tale condotta
aveva rilievo penale unicamente a carico degli
agenti e degli ufficiali di polizia giudiziaria, in
quanto la disposizione di cui all'art. 27, comma 4,
DPR 380/2001 costituirebbe norma speciale rispetto
all'art. 361 c.p.. In base a tale interpretazione
sistematica dall'obbligo di denuncia sarebbero
esonerati i dirigenti dell'Ufficio Tecnico e ciò
comporterebbe anche una razionalizzazione del
sistema, evitando onerose duplicazioni di
comunicazioni di reato.
Si tratta di una erronea interpretazione delle
disposizioni di legge in questione.
In primo luogo nessun rapporto di
specialità sussiste tra le due disposizioni, posto
che soltanto l'art. 361 c.p. è norma penale
incriminatrice a differenza dell'art. 27 DPR
380/2001, per la cui violazione non è prevista
alcuna sanzione penale.
In secondo luogo si tratta di norme con
differenti ambiti di applicazione: da un lato la
norma penale ha maggiore estensione, rivolgendosi in
generale al pubblico ufficiale come soggetto attivo
a differenza della norma amministrativa, che limita
la propria sfera ai soli ufficiali e agenti di
polizia giudiziaria; dall'altro l'art. 361 c.p.
circoscrive l'oggetto dell'obbligo di denuncia ai
soli reati, mentre il citato art. 27 estende
l'obbligo a tutti gli altri casi di presunta
violazione urbanistico - edilizia, anche quando non
rivestono carattere penale.
Ne deriva che tra le due disposizioni non
intercorre un rapporto di specialità, ma al più di
complementarietà, trattandosi di norme che prevedono
diversi doveri di comunicazione alla Autorità
Giudiziaria nell'ottica di un più accurato controllo
dell'assetto urbanistico-edilizio del territorio.
A parte il fatto che l'interpretazione del GUP di
Pavia rischia chiaramente di determinare inerzia ed
omissioni di denunce nei Comuni privi di corpi di
Polizia Municipale, allorquando i dirigenti degli
Uffici Tecnici vengano comunque a conoscenza di
abusi edilizi penalmente sanzionati, oltre in via
più generale a determinare un concreto pericolo di
diffusione di inaccettabili prassi di scarico
reciproco di responsabilità, come avvenuto nel caso
di specie.
Va, infine, ricordato che l'elemento soggettivo del
reato di omissione di denuncia consiste nella
consapevolezza e volontarietà dell'omissione della
denuncia allorché si sia verificato il presupposto
da cui deriva l'obbligo di informare l'autorità
giudiziaria, ovvero la conoscenza, da parte del
pubblico ufficiale, del fatto costituente reato a
causa e nell’esercizio delle sue funzioni.
È, invece, estraneo alla nozione del dolo di
omissione il motivo che induca il soggetto, su cui
grava l'obbligo di informazione, ad astenersene;
sicché è irrilevante che il pubblico ufficiale
ritenga che l'informativa della "notitia criminis"
di cui sia venuto a conoscenza, competa ad altro
pubblico ufficiale ovvero supponga che l'informativa
medesima sia stata da questi già fornita.
Infatti, l'errore in cui il soggetto possa
incorrere, al riguardo, non esclude la volontarietà
dell'omissione, ma concerne semmai la sua
legittimità ed è, pertanto, penalmente inscusabile
(Sez. 6, Sentenza n. 1407 del 05/11/1998, Rv.
212551, Pirari; sez. 6, sentenza n. 9701 del
23.09.1996, RV 206014, Gobbi). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI
(Agenzia delle Entrate, maggio 2013). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
TRIBUTI:
OGGETTO: Imposta municipale propria (IMU) di cui all’art.
13 del D.L. 06.12.2011, n. 201, convertito, con
modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214. Modifiche
recate dall’art. 10, comma 4, lett. b), del D.L. 08.04.2013,
n. 35. Quesiti in materia di pagamento dell’imposta relativa
all’anno 2013 per gli enti di cui alla lett. i), comma 1,
art. 7, del D.Lgs. 30.12.1992, n. 504 (Ministero
dell'Economia e delle Finanze,
risoluzione 05.06.2013 n. 7/DF). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
APPALTI: G.U.
07.06.2013 n. 132 "Testo
del decreto-legge 08.04.2013, n. 35, coordinato con la legge
di conversione 06.06.2013, n. 64, recante: “Disposizioni
urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica
amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti
territoriali, nonché in materia di versamento di tributi
degli enti locali. Disposizioni per il rinnovo del Consiglio
di presidenza della giustizia tributaria”". |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
PUBBLICO IMPIEGO: T.
Grandelli e M. Zamberlan,
I titolari di posizione organizzativa: il fulcro per molte
amministrazioni
(Risorse Umane n. 2/2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: T.
Grandelli e M. Zamberlan,
Le criticità e le prospettive delle progressioni economiche
(Risorse Umane n. 6/2012). |
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
LAVORI PUBBLICI:
Determina dell'Autorità vigilanza sul Codice dei contratti
pubblici.
Leasing in associazione.
Finanziatori raggruppati con i costruttori.
Il leasing finanziario è un unico contratto, di lavori, con
prestazione finanziaria accessoria; l'affidamento può
avvenire con tutte le procedure previste dal Codice dei
contratti pubblici; per la fase progettuale è necessario
dimostrare appositi requisiti di progettazione; il
contraente generale può partecipare ma in associazione con
il soggetto finanziatore.
È quanto afferma l'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici con la
determinazione 22.05.2013 n. 4 , che detta le linee guida sulle
operazioni di leasing finanziario di cui all'articolo
160-bis del Codice dei contratti pubblici, e sul contratto
di disponibilità di cui all'articolo 160-ter.
La determina
affronta in primis il tema della natura del contratto,
considerato come unitario, specificando che il servizio
finanziario, accessorio al risultato complessivo
dell'operazione, qualificabile come appalto di lavori, in
ogni caso non può essere considerato come mera prestazione o
assimilato a semplice contratto separato di finanziamento,
alternativo, per esempio, a un contratto di mutuo.
Per
l'Autorità il leasing in costruendo va inquadrato come
complessiva prestazione di risultato, non assimilabile a una
mera sommatoria di contratto di finanziamento e di contratto
d'appalto di lavori pubblici; è però necessario che siano
dettagliatamente disciplinate e distinte le diverse
obbligazioni contrattuali delle parti, anche per i profili
di responsabilità. Un secondo profilo di interesse riguarda
le procedure di affidamento; secondo la determina, data la
qualificazione normativa come contratto di appalto di lavori
con una componente accessoria di servizi, possono trovare
applicazione tutte le procedure contemplate dal Codice
(procedura aperta, ristretta, negoziata, dialogo competitivo
ecc.).
In relazione alle diverse prestazioni, l'Autorità
ritiene che si debba seguire la stessa procedura di
qualificazione prevista dal Codice per l'appalto integrato,
chiedendo quindi i requisiti progettuali per la redazione
della progettazione definitiva ed esecutiva anche
all'impresa di costruzioni che, a sua volta, potrà associare
o indicare un progettista qualificato. Per quel che riguarda
i soggetti ammessi alla gara la determina conferma che il
soggetto finanziatore deve rispondere ai requisiti fissati
dal dlgs 01.09.1993, n. 385, Testo unico delle leggi
in materia bancaria e creditizia, mentre il costruttore deve
essere necessariamente un soggetto qualificato ai sensi
dell'art. 40 del Codice e non può essere un finanziatore.
Si
chiarisce anche che i contraenti generali possono
partecipare ma solo in associazione con soggetti
finanziatori, perché, diversamente, vi sarebbero problemi di
compatibilità con la disciplina bancaria e creditizia. Molto
articolata è la parte sull'aggiudicazione delle offerte
attraverso il criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, con elementi migliorativi dell'offerta
tecnico-progettuale. Per quel che attiene ai parametri di
natura finanziaria, la determina suggerisce alle
amministrazioni di evidenziare i valori dello spread e del
tasso d'interesse fisso di riferimento (Irs) adottati per
determinare il canone a base di gara, oltre alla durata del
finanziamento (numero delle rate) e al prezzo per il
riscatto finale dell'opera.
Per il contratto di disponibilità si chiarisce che stante il
carattere privato dell'opera, il contratto di disponibilità
non può riguardare opere demaniali o da realizzarsi sul
demanio pubblico, quali, per esempio, strade, cimiteri,
porti, carceri, mentre risulta compatibile con la
realizzazione di aree immobiliari per collocarvi uffici
pubblici, complessi direzionali, spazi espositivi, edilizia
economica e popolare
(articolo ItaliaOggi del 05.06.2013). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/
Edilizia senza segreti. Permessi di costruire accessibili ai
consiglieri. Ma l'utilizzo deve
essere limitato alle sole finalità istituzionali.
Il responsabile del servizio che riceve, da parte di un
consigliere comunale, la richiesta di accesso agli atti
relativi al rilascio di un permesso di costruire è obbligato
a comunicarlo al titolare del permesso stesso, in qualità di
interessato al procedimento, in virtù dell'asserita natura
riservata dei documenti? Sussiste, nel caso di accesso agli
atti, un dovere di «astensione», per eventuale conflitto di
interesse, in capo al consigliere richiedente?
Come sostenuto dalla commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi, il «diritto di accesso» ed il «diritto di
informazione» dei consiglieri comunali nei confronti della
p.a. trovano la loro disciplina specifica nell'art. 43 del dlgs n. 267/2000, che riconosce ai consiglieri comunali e
provinciali il «diritto di ottenere dagli uffici,
rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle
loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del
proprio mandato».
Al consigliere comunale viene, pertanto,
riconosciuto un diritto dai confini più ampi sia del diritto
di accesso ai documenti amministrativi, attribuito al
cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10, Tuel) sia, più in generale, nei confronti della p.a., quale
disciplinato dalla legge n. 241/1990. Ciò in ragione del ruolo
di garanzia democratica svolto dal consigliere comunale; del
particolare munus espletato, affinché questi possa valutare
con piena cognizione di causa la correttezza e l'efficacia
dell'operato dell'amministrazione; della funzione
pubblicistica dallo stesso esercitata (a maggior ragione
qualora il consigliere comunale appartenga alla minoranza,
istituzionalmente deputata allo svolgimento di compiti di
controllo e verifica dell'operato della maggioranza).
Il
consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta
di informazioni, poiché, la p.a. si ergerebbe ad arbitro
delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche
dell'organo deputato all'individuazione e al perseguimento
dei fini collettivi. Conseguentemente, gli uffici comunali
non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra
l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un
consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da
questi espletato. Ciò, anche nel rispetto della separazione
dei poteri sancita per gli enti locali dall'art. 107 del
dlgs n. 267/2000 che richiama il principio per cui i poteri
di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano
agli organi di governo, essendo riservata ai dirigenti la
gestione amministrativa, finanziaria e tecnica.
La
giurisprudenza del Consiglio di stato si è orientata nel
senso di ritenere che ai consiglieri comunali spetti
un'ampia prerogativa a ottenere informazioni, senza che
possano essere opposti profili di riservatezza nel caso in
cui la richiesta riguardi l'esercizio del mandato
istituzionale, restando fermi, peraltro, gli obblighi di
tutela del segreto e i divieti di divulgazione di dati
personali secondo la vigente normativa sulla riservatezza.
L'eventuale segretezza (delle indagini o professionale) che
pure opera nei confronti del consigliere comunale non è
quella legata alla natura dell'atto ma al divieto di
divulgare, «nei casi specificamente determinati dalla
legge», il contenuto degli atti ai quali ha avuto accesso,
stante il vincolo previsto in capo al consigliere comunale
dal citato art. 43 all'osservanza del segreto d'ufficio
nelle ipotesi specificatamente determinate dalla legge
nonché al divieto di divulgazione dei dati personali ai
sensi del dlgs 196/2003 e successive modificazioni
In merito al caso di specie deve farsi riferimento alla
decisione n. 549 del 23.05.1997 con cui, la V sezione
del Consiglio di stato ha riconosciuto che «in virtù
dell'art. 22 della legge 241 del 1990, qualsiasi soggetto
abitante nel comune ha diritto di accesso agli atti relativi
ad una concessione edilizia rilasciata dal sindaco». In
particolare, trattandosi di diritto del cittadino di
accedere ai documenti del proprio comune, la materia è
soggetta non alla disciplina generale della legge n.
241/1990 ma a quella particolare della legge 17.08.1942,
n. 1150, che all'art. 31, comma 8, stabilisce che «chiunque
può prendere visione presso gli uffici comunali della
concessione edilizia e dei relativi atti di progetto», e del dlgs n. 267/2000, art. 10.
I permessi per costruire non sono, pertanto, soggetti a
particolare riservatezza, potendo essere conosciuti da
qualsiasi cittadino. A maggior ragione, il consigliere
comunale, non può essere escluso dall'accesso e
conseguentemente ha diritto a ottenere copia di tali atti,
fatto salvo il loro utilizzo per finalità esclusivamente
istituzionali
(articolo ItaliaOggi del 07.06.2013). |
TRIBUTI: Area edificabile o fabbricato?
Domanda
Come deve essere trattato ai fini Imu un fabbricato per il
quale non sono stati ancora ultimati i lavori nel senso che
solo il piano terreno è accatastato e utilizzato, mentre i
piani superiori non sono stati ancora completati? Come
fabbricato, come area edificabile o in parte l'uno e in
parte l'altro?
Risposta
L'interessante questione è stata approfondito in vigenza
dell'Ici dalla Corte di cassazione con la sent. n.
23347/2004.
Le considerazioni svolte restano valide anche per l'Imu.
Nell'occasione il comune aveva preteso di tassare non solo
l'appartamento al piano terra, già accatastato e utilizzato,
ma anche di scorporare –per tassarla come area edificabile- la quota dell'area dalla quale si sviluppava la cubatura
relativa al secondo appartamento, al 1° piano, non ancora
ultimato, né utilizzato, e dichiarato al catasto come
fabbricato ancora in corso di costruzione, quindi senza
rendita.
La Cassazione, così come la Commissione tributaria
di secondo grado di Bolzano, hanno riconosciuto le ragioni
del contribuente nel senso che il solo appartamento ultimato
deve essere assoggettato a imposizione. Non è infatti
possibile individuare astrattamente un'area edificabile
ancora tassabile oltre a quella su cui insiste la
costruzione, ossia il sedime, mentre il piccolo lembo di
terreno residuo circostante alla costruzione è stato censito
al Catasto come pertinenza dell'appartamento al piano terra.
Tale conclusione trae origine dalla norma espressa dall'art.
2, 1° c., lettera a) del dlgs n. 504/1992, come già detto
applicabile anche all'Imu, ai sensi della quale «Ai fini
dell'imposta: a) per fabbricato si intende l'unità
immobiliare iscritta o che deve essere iscritta nel catasto
edilizio urbano, considerandosi parte integrante del
fabbricato l'area occupata dalla costruzione e quella che ne
costituisce pertinenza; il fabbricato di nuova costruzione è
soggetto all'imposta a partire dalla data di ultimazione dei
lavori di costruzione ovvero, se antecedente, dalla data in
cui è comunque utilizzato».
Ultimato o comunque utilizzata
l'unità al piano terra non si ha più area edificabile
tassabile e viene meno la regola di cui all'art. 5, 6° c.
del medesimo dlgs n. 504/1992 secondo la quale «in caso
di utilizzazione edificatoria dell'area, di demolizione di
fabbricato, di interventi di recupero a norma dell'articolo
31, comma 1, lettere c), d) ed e), della legge 05.08.1978,
n. 457, la base imponibile è costituita dal valore
dell'area, la quale è considerata fabbricabile anche in
deroga a quanto stabilito nell'art. 2, senza computare il
valore del fabbricato in corso d'opera, fino alla data di
ultimazione dei lavori di costruzione, ricostruzione o
ristrutturazione ovvero, se antecedente, fino alla data in
cui il fabbricato costruito, ricostruito o ristrutturato è
comunque utilizzato» (articolo ItaliaOggi
Sette del 03.06.2013). |
LAVORI PUBBLICI:
Linee guida sponsorizzazioni.
Domanda
Mi dicono dell'approvazione delle linee guida per
sponsorizzazioni di beni culturali, ma non riesco a
reperirne notizia. Chiedo di avere riferimenti al riguardo.
Risposta
Il decreto del ministero per i beni e le attività culturali
19.12.2012 recante «Approvazione delle norme tecniche
e linee guida in materia di sponsorizzazioni di beni
culturali e di fattispecie analoghe o collegate» è stato
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 60 del 12.03.2013.
Il decreto si pone come compimento di una serie di atti
volti a regolare la prassi di sponsorizzazione di beni
culturali (percorso iniziato con l'art. 120 del codice dei
beni culturali, proseguito con gli articoli 26 e 27 del dlgs
163/2006 e la legge 35/2012) (articolo ItaliaOggi
Sette del 03.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parcheggi «Tognoli».
Domanda
Ho letto di recente che è stata modificata la disciplina che
regolamenta la possibilità di trasferire i parcheggi
pertinenziali. Potreste darmi qualche delucidazione?
Risposta
È vero. L'art. 10 del dl «Semplificazione e Sviluppo» n.
5/2012 (conv. dalla legge n. 35/2012) ha sostituito l'art.
9, 5° c. , della legge «Tognoli» n. 122/1989. L'art. 9, 5° c.,
ora stabilisce che, fermo restando l'art. 41-sexies, legge
n. 1150/1942 e l'immodificabilità dell'esclusiva destinazione
a parcheggio, la proprietà dei parcheggi realizzati a norma
del 1° comma può essere trasferita, anche in deroga a quanto
previsto nel titolo edilizio e nei successivi atti
convenzionali, solo con contestuale destinazione del
parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità
immobiliare sita nello stesso comune mentre i parcheggi
realizzati ai sensi del 4° c. del medesimo art. 9 continuano
a non poter essere ceduti separatamente dall'unità
immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale
a pena di nullità dei relativi atti di cessione, a eccezione
di espressa previsione contenuta nella convenzione stipulata
con il comune, ovvero quando quest'ultimo abbia autorizzato
l'atto di cessione.
La modifica riguarda solo i parcheggi di cui all'art. 9, 1°
c., legge n. 122/1989 ai sensi del quale: «I proprietari di
immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi
ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati
parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità
immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai
regolamenti edilizi vigenti.
Tali parcheggi possono essere realizzati, a uso esclusivo
dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali
esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani
urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie
sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi
idrici.
Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla
legislazione in materia paesaggistica e ambientale e i
poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e
ai ministeri dell'ambiente e per i beni culturali e
ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90
giorni.
I parcheggi stessi ove i piani del traffico non siano stati
redatti, potranno comunque essere realizzati nel rispetto
delle indicazioni di cui al periodo precedente».
Il 4° c.
dell'art. 9 stabilisce invece che i comuni, previa
determinazione dei criteri di cessione del diritto di
superficie e su richiesta dei privati interessati o di
imprese di costruzione o di società anche cooperative,
possono prevedere, nell'ambito del programma urbano dei
parcheggi, la realizzazione di parcheggi da destinare a
pertinenza di immobili privati su aree comunali o nel
sottosuolo delle stesse. (_).
La costituzione del diritto di superficie è subordinata alla
stipula di una convenzione nella quale siano previsti la
durata della concessione del diritto di superficie per un
periodo non superiore a novanta anni e altri elementi tra i
quali le sanzioni previste per gli eventuali inadempimenti.
Prima della recente modifica normativa, anche i parcheggi di
cui al 1° c. dell'art. 9 (quelli, cioè, su proprietà
privata) non potevano essere ceduti separatamente dall'unità
immobiliare alla quale erano legati da vincolo pertinenziale,
a pena di nullità dei relativi atti di cessione, preclusione
tuttora prevista per i parcheggi realizzati su area comunale
di cui al 4° comma dell'art. 9 della legge n. 122/1989 (articolo ItaliaOggi
Sette del 03.06.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Assenza per testimonianza e
missione.
Nel caso di dipendente chiamato a
rendere testimonianza giudiziale, lo stesso deve essere
considerato in servizio solo qualora la deposizione sia resa
nell'interesse dell'ente di appartenenza, riferendosi a
'fatti inerenti al servizio'. In caso contrario, il
dipendente dovrà utilizzare altri istituti, quali ferie o
permesso a recupero.
Il Comune chiede un parere in ordine ad una testimonianza, che
verrà resa da un agente di polizia municipale, in qualità di
agente accertatore di fatto delittuoso, nello svolgimento
della normale attività di servizio presso la precedente
amministrazione comunale. L'interessato è, infatti,
transitato presso il richiedente mediante procedura di
mobilità.
Preliminarmente si osserva che la questione prospettata
appare alquanto complessa e dibattuta in quanto si insinua
in una lacuna normativa e regolamentare, poiché, né nella
legislazione nazionale e regionale vigente, né nella
contrattazione collettiva è possibile rinvenire una puntuale
disciplina della materia. Inoltre, né a livello di pronunce
giurisprudenziali, né a livello di contributo di dottrina,
si è reperito un orientamento specifico in proposito, che
possa fare definitiva chiarezza e fugare alcuni dubbi,
atteso che, nel caso concreto, la testimonianza attiene ad
attività svolta presso un comune diverso da quello di
attuale appartenenza.
Premesso un tanto, sulla scorta degli elementi comunque
rinvenuti, si esprimono le seguenti considerazioni.
E' incontestabile il diritto del pubblico dipendente ad
assentarsi per rendere testimonianza, diritto che deriva,
peraltro, da un preciso dovere in capo al soggetto intimato,
cui non è ammissibile sottrarsi. Tale obbligo, infatti, se
non adempiuto spontaneamente, può comportare anche
l'accompagnamento coattivo, su ordine del giudice.
Come precisato anche dall'ARAN, solo nel caso in cui la
testimonianza giudiziale non sia svolta nell'interesse della
pubblica amministrazione, l'assenza è imputata, secondo
autonomo giudizio del dipendente, a ferie, permesso a
recupero o permesso per particolari motivi personali
[1].
Per quanto concerne, nello specifico, l'interpretazione
della locuzione 'nell'interesse dell'amministrazione', in
merito alla quale la predetta Agenzia non fornisce elementi
certi per l'esatta individuazione, si ritiene utile
richiamare l'art. 48 del d.p.r. 115/2002, che disciplina il
rimborso spese e le indennità spettanti ai dipendenti
pubblici chiamati a rendere testimonianza 'per fatti
inerenti al servizio'.
La citata disposizione
[2], prevede, nel caso di dipendenti
pubblici, la corresponsione del rimborso spese e delle
indennità di cui agli artt. 45 e 46
[3]
del medesimo decreto
(spese di giustizia gravanti sull'amministrazione della
giustizia), salva l'integrazione, sino a concorrenza del
trattamento di missione, corrisposta dall' 'amministrazione
di appartenenza'.
Nel caso prospettato, la particolarità consiste però nel
fatto che la testimonianza non è resa nell'interesse
dell'attuale amministrazione di appartenenza, ma per un
diverso ente, presso cui il dipendente ha in precedenza
svolto il proprio servizio.
Al riguardo, non si è avuto riscontro, giurisprudenziale o
dottrinale, sul fatto che, qualora un dipendente pubblico
renda una testimonianza per un fatto inerente al servizio
prestato presso un'amministrazione diversa da quella di
appartenenza attuale, debba essere comunque considerato in
servizio, intendendo quindi l'accezione 'amministrazione'
come pubblica amministrazione in senso lato e non solo
riferita a quella d'attuale appartenenza.
Anche se, dal punto di vista della ragionevolezza, può
sembrare illogico che un dipendente debba essere costretto
ad utilizzare istituti quali le ferie o i permessi orari a
recupero per prestare testimonianza su fatti relativi al
servizio effettuato, sia pure presso altra amministrazione,
resta dubbio se l'amministrazione di attuale appartenenza
debba sopportare un onere economico (autorizzazione di
missione con relative spese), per una motivazione estranea
all'attività prestata presso la medesima.
D'altra parte, non si è rinvenuta alcuna norma (di legge o
contrattuale) che preveda l'accollo degli oneri in argomento
al comune di provenienza.
---------------
[1] Cfr. RAL 917, consultabile sul sito:
www.aranagenzia.it. Si evidenzia peraltro che il ricorso a
permessi per particolari motivi personali non è più
utilizzabile dal personale del comparto unico, alla luce
dell'intervenuta disposizione di cui all'art. 19, comma 3,
del CCRL del 07.12.2006, che ha disposto la disapplicazione
dell'art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995.
[2] 'Ai dipendenti pubblici, chiamati come testimoni per
fatti inerenti al servizio, spettano il rimborso spese e le
indennità di cui agli articoli 45 e 46, salva
l'integrazione, sino a concorrenza dell'ordinario
trattamento di missione, corrisposta dall'amministrazione di
appartenenza'.
[3] Nella fattispecie prospettata non si rientra peraltro
neanche nell'ipotesi di cui all'art. 43 del d.p.r. n.
115/2002 (compimento di atti del processo penale fuori sede
da parte di ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria per
atti ad essi direttamente delegati dal magistrato). Ad ogni
buon conto, si osserva che le spese, in tale caso, sono a
carico dell'Amministrazione giudiziaria
(30.05.2013
- link a www.regione.fvg.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
D.Lgs. n. 33/2013. Responsabile per la trasparenza.
Ai sensi dell'art. 43, D.Lgs. n.
33/2013, le funzioni di responsabile in materia di
trasparenza sono, di norma, di competenza del responsabile
della prevenzione della corruzione. Il responsabile della
trasparenza concorre con l'organismo indipendente di
valutazione (OIV) alla realizzazione delle attività
concernenti la trasparenza nelle p.a., con differenti
funzioni. Il legislatore considera, infatti, il responsabile
della trasparenza quale organo di controllo
dell'applicazione della trasparenza nelle p.a. e di
segnalazione alle Autorità previste, tra cui all'OIV, delle
eventuali criticità riscontrate, mentre configura l'OIV
quale organo che esercita un'attività di impulso
('promuove') e attestazione ('attesta') degli obblighi
relativi alla pubblicazione dei dati.
Le disposizioni di cui all'art. 45, D.Lgs. n. 33/2013,
disciplinanti i compiti della Commissione per la
valutazione, la trasparenza e l'integrità delle
amministrazioni pubbliche (CIVIT) in materia di trasparenza,
sono applicabili anche agli enti locali del FVG, essendo la
CIVIT investita di dette competenze anche nella sua qualità
di Autorità nazionale anticorruzione e costituendo le
disposizioni del D.Lgs. n. 33/2013, espressione della
competenza legislativa statale di cui all'art. 117, secondo
comma, lett. m), Cost..
Il Comune chiede un parere in ordine alla figura del
responsabile per la trasparenza nei comuni del Friuli
Venezia Giulia, in particolare se lo stesso vada individuato
nel responsabile della prevenzione della corruzione ai sensi
dell'art. 43, D.Lgs. n. 33/2013 [1], ovvero nell'Organismo
indipendente di valutazione (OIV), di cui alla L.R. n.
16/2010 [2], che investe tale organo, tra le altre, di
funzioni relative alla trasparenza. Il Comune chiede,
inoltre, di sapere se le disposizioni relative alle funzioni
della CIVIT in materia di trasparenza trovino applicazione
anche nella regione FVG.
La disamina della questione rende opportuno delineare le
figure del responsabile della trasparenza e dell'OIV nonché
i rapporti intercorrenti tra i due organi, avuto riguardo
alle attività di rispettiva competenza.
L'art. 43, D.Lgs. n. 33/2013, in vigore dal 20.04.2013,
disciplina la figura del responsabile per la trasparenza:
all'interno di ogni amministrazione il responsabile per la
prevenzione della corruzione, di cui all'art. 1, comma 7, L.
n. 190/2012, svolge, di norma, le funzioni di responsabile
per la trasparenza e il suo nominativo è indicato nel
Programma triennale per la trasparenza e l'integrità
[3]
(comma 1); il responsabile per la trasparenza svolge
stabilmente un'attività di controllo sull'adempimento da
parte dell'amministrazione degli obblighi di pubblicazione
previsti dalla normativa vigente, assicurando la
completezza, la chiarezza e l'aggiornamento delle
informazioni pubblicate, nonché segnalando all'organo di
indirizzo politico, all'Organismo indipendente di
valutazione (OIV), all'Autorità nazionale anticorruzione e,
nei casi più gravi, all'ufficio di disciplina i casi di
mancato o ritardato adempimento degli obblighi di
pubblicazione (comma 1).
La norma richiamata evidenzia l'attribuzione al responsabile
per la trasparenza di un'attività di controllo
sull'osservanza delle disposizioni sulla trasparenza nelle
pubbliche amministrazioni e di un'attività di segnalazione,
tra gli altri, all'OIV, dei casi di mancato o ritardato
adempimento [4].
Per quanto concerne l'OIV, sul piano della normativa
statale, lo stesso è previsto dall'art. 14, D.Lgs. n.
150/2009, che lo istituisce in sostituzione del Servizio di
controllo interno e ne disciplina le attività,
attribuendogli, tra le altre competenze, per quanto qui di
interesse, quella di monitorare il funzionamento complessivo
della trasparenza [(comma 4, lett. b)] e quelle di
promuovere e attestare l'assolvimento degli obblighi
relativi alla trasparenza [(comma 4, lett. g)].
Sul piano dell'ordinamento regionale, la regione FVG,
nell'ambito della sua autonomia statutaria, ha dettato una
propria disciplina dell'Organismo indipendente di
valutazione, che ricalca, invero, quella nazionale sopra
delineata [5]. Specificamente, l'art. 6, L.R. n. 16/2010,
prevede che ogni amministrazione del comparto unico FVG si
doti di un organismo indipendente di valutazione della
prestazione, in sostituzione del nucleo di valutazione, che
esercita in piena autonomia le attività ivi indicate, tra
cui, quella di monitorare il funzionamento complessivo della
trasparenza [(comma 6, lett. a)] e quelle di promuovere e
attestare l'assolvimento degli obblighi relativi alla
trasparenza e all'integrità di cui alle vigenti disposizioni
[(comma 6, lett. g)].
Le normative richiamate conducono alle considerazioni che
seguono.
Il responsabile per la trasparenza e l'Organismo
indipendente di valutazione sono individuati come diversi
soggetti coinvolti nella realizzazione delle attività
concernenti la trasparenza [6], distintamente configurati in
funzione delle differenti funzioni di propria competenza. Il
legislatore considera, infatti, il responsabile della
trasparenza quale organo di controllo dell'applicazione
della trasparenza nelle p.a. e di segnalazione alle Autorità
previste, tra cui all'OIV, delle eventuali criticità
riscontrate, mentre considera l'OIV quale organo che
esercita un'attività di impulso ('promuove') e attestazione
('attesta') degli obblighi relativi alla pubblicazione dei
dati [7]. Sotto tale profilo, un eventuale sovrapporsi dei
due organi verrebbe a configurare una situazione per cui il
soggetto investito dell'attività di controllo della
trasparenza e chiamato a segnalarne le criticità è lo stesso
deputato a ricevere le segnalazioni. Pertanto, venendo al
quesito posto dal Comune, le funzioni in materia di
trasparenza sono, di norma, di competenza del responsabile
della prevenzione della corruzione, ai sensi dell'art. 43, D.Lgs. n. 33/2013
[8].
Il Comune pone un'ulteriore questione circa l'applicazione
nella regione FVG delle disposizioni di cui all'art. 45,
D.Lgs. n. 33/2013, concernenti le funzioni della CIVIT in
materia di trasparenza.
Per espressa previsione della legge delega n. 190/2012 (art.
1, comma 36), nonché dell'art. 1, comma 3, D.Lgs. n.
33/2013, le disposizioni di cui al medesimo decreto
integrano l'individuazione del livello essenziale delle
prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche a fini
di trasparenza, prevenzione, contrasto della corruzione e
della cattiva amministrazione, a norma dell'art. 117,
secondo comma, lettera m), della Costituzione, e
costituiscono altresì esercizio della funzione di
coordinamento informativo statistico e informatico dei dati
dell'amministrazione statale, regionale e locale, di cui
all'art. 117, secondo comma, lettera r), della Costituzione.
Come noto, già per l'art. 11, D.Lgs. n. 150/2009, la
trasparenza costituisce livello essenziale delle prestazioni
erogate dalle amministrazioni pubbliche ai sensi dell'art.
117, secondo comma, lettera m), Cost..
Inoltre, l'art. 45, D.Lgs. n. 33/2013, attribuisce alla
CIVIT i compiti di controllare l'esatto adempimento degli
obblighi di pubblicazione inerenti alla trasparenza con
riferimento anche alla sua qualità di Autorità nazionale
anticorruzione [9]. La Commissione per la valutazione, la
trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche
(istituita dall'art. 13, D.Lgs. n. 150/2009), infatti, è
individuata ed opera quale Autorità nazionale anticorruzione
ai sensi dell'art. 1, comma 1, L. n. 190/2012
[10],
applicabile a tutte le p.a., quindi anche agli enti locali,
in quanto norma di diretta attuazione del principio di
imparzialità di cui all'art. 97 della Costituzione
[11].
La combinazione dell'espressa qualificazione delle norme del
D.Lgs. n. 33/2013 come attinenti al livello essenziale delle
prestazioni (prerogativa dello Stato) e dell'attribuzione
alla CIVIT dei compiti in materia di trasparenza anche nella
sua qualità di Autorità nazionale anticorruzione (istituita
e disciplinata con norme di diretta attuazione dell'art. 97,
Cost.) induce a ritenere l'applicabilità delle disposizioni
di cui all'art. 45, D.Lgs. n. 33/2013, anche negli enti
locali del FVG.
---------------
[1] D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, recante: 'Riordino della
disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità,
trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle
pubbliche amministrazioni'.
[2] L.R. 11.08.2010, n. 16, recante: 'Norme urgenti in
materia di personale e di organizzazione nonché in materia
di passaggio al digitale terrestre'.
[3] Con l'emanazione del D.Lgs. n. 33/2013, diventa
obbligatoria per tutte le pubbliche amministrazioni, e
dunque anche per gli enti locali, l'adozione del programma
triennale per la trasparenza e l'integrità (cfr. ANCI,
Disposizioni in materia di trasparenza nelle pubbliche
amministrazioni, Nota informativa sul D.Lgs. n. 33/2010,
Aprile 2013).
Tale strumento era già previsto dall'art. 11, D.Lgs. n.
150/2009, in materia di trasparenza. Tuttavia, Le
disposizioni dell'art. 11, non trovando diretta applicazione
presso le amministrazioni locali, per effetto dell'art. 16,
rimettevano alla volontà degli enti l'adozione degli
strumenti indicati dalla norma per garantire l'attuazione
della trasparenza, tra cui l'adozione del programma
triennale per la trasparenza. Ai sensi dell'art. 16,
infatti, solo le disposizioni di cui ai commi 1 e 3
dell'art. 11, qualificate dal legislatore come livello
essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni
pubbliche ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lett. m),
Cost., riferite alla definizione della 'trasparenza', alla
sua qualificazione come livello essenziale delle prestazioni
erogate dalle amministrazioni pubbliche e alla sua
determinazione quale obiettivo che deve essere garantito in
ogni fase del ciclo di gestione della performance, trovano
diretta applicazione negli enti locali (Cfr. ANCI, Linee
guida agli enti locali in materia di trasparenza ed
integrità, 30.10.2012, p. 4).
[4] Cfr. nota Anci del 12.04.2013.
[5] Ai sensi dell'art. 16 del D.Lgs. n. 150/2009, non
trovano diretta applicazione presso le autonomie locali le
disposizioni (di dettaglio) recate dall'art. 14 del decreto
(caratteristiche e funzioni dell'organismo) (cfr. ANCI,
L'applicazione del decreto legislativo n. 150/2009 negli
enti locali: Le linee guida dell'Anci in materia di ciclo
della performance, p. 36).
[6] Cfr. ANCI, Linee guida agli enti locali in materia di
trasparenza ed integrità, p. 12.
[7] Cfr. ANCI, Linee guida agli enti locali in materia di
trasparenza ed integrità, p. 12.
[8] Come noto, già la circolare della funzione pubblica n.
1/2013 suggeriva (paragrafo 2.5), valutata la necessità di
stabilire un raccordo in termini organizzativi tra il
Responsabile della prevenzione della corruzione ed il
responsabile della trasparenza, la possibilità di optare per
la concentrazione delle responsabilità in capo ad un unico
dirigente. In quell'occasione, alla data del 21.01.2013, la
Funzione pubblica richiamava la delibera n. 105/2010 della
CIVIT che demandava a ciascuna amministrazione il compito di
designare il responsabile della trasparenza e riferiva
dell'intervenuta approvazione in via preliminare dello
schema di decreto legislativo recante 'Riordino della
disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità,
trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle
pubbliche amministrazioni', evidenziando la previsione
contenuta nel decreto secondo cui, di norma, le figure dei
responsabili della prevenzione della corruzione e della
trasparenza sono accorpate in un unico soggetto. Con
l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 33/2013, si osserva che il
tenore letterale dell'art. 1, comma 43, rivela che di
regola, 'di norma', appunto, il responsabile della
trasparenza coincide con quello per la 'prevenzione della
corruzione' (nella Relazione illustrativa allo schema del
D.Lgs. n. 33/2013 si evidenzia l'obiettivo dell'art. 43 di
individuare nel soggetto responsabile della prevenzione
della corruzione anche il responsabile della trasparenza e
della integrità), ma le amministrazioni potrebbero anche
scegliere di distinguere le due figure (Federica Caponi,
Trasparenza: dal 20 aprile in vigore i nuovi obblighi di
pubblicità e diffusione, su Universopa, n. 4/2013; Antonello
Cherchi e Valeria Uva, La Trasparenza nella PA, su Il Sole24
ore, 06.05.2013).
[9] Nella Relazione illustrativa allo schema del D.Lgs. n.
33/2013, in commento all'art. 45, si evidenzia il
collegamento tra il dovere di adempimento agli obblighi di
trasparenza posti a carico dei dirigenti e gli obiettivi di
prevenzione della corruzione voluti dal legislatore.
[10] Con la legge 190 la Civit si sostituisce nel ruolo di
Autorità nazionale anticorruzione al Dipartimento della
funzione pubblica, che ha ricoperto tale veste sino a quel
momento (cfr. Camera dei deputati, Temi dell'attività
parlamentare, 'Legge 190/2012 - Misure anticorruzione nella
p.a.', 20.02.2013, all'indirizzo web: http://www.camera.it).
[11] Cfr. Dipartimento della funzione pubblica, circolare
25.01.2013, n. 1
(29.05.2013
- link a www.regione.fvg.it). |
URBANISTICA:
Parere in merito alla procedura ed agli effetti
urbanistici della rimozione di un accordo di programma in
variante allo strumento urbanistico generale - Comune di
Castel Gandolfo (Regione Lazio,
parere 17.05.2013 n. 165202 di prot.). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Controllo sulle assenze: Inps o Asl?
(Risorse Umane n. 2/2013). |
NEWS |
ATTI
AMMINISTRATIVI - APPALTI: Indennizzi
per i ritardi della burocrazia.
Pronte le semplificazioni: Durc «d'ufficio» - Scadenze
unificate per adempimenti amministrativi e fiscali.
MENO ONERI PER LE IMPRESE/
Micro-liberalizzazioni e procedure veloci per edilizia,
lavoro, ambiente Sull'opzione dei risarcimenti le
perplessità del Tesoro.
Soddisfatti o rimborsati. Per le lentezze della burocrazia
cittadini e imprese potrebbero beneficiare, per la prima
volta, di un indennizzo, seppure in misura simbolica. Che
scatterebbe automaticamente entro 60 giorni
dall'accertamento del ritardo, ovvero del mancato rispetto
dei termini fissati per la conclusione dei procedimenti
amministrativi.
Il nuovo meccanismo, con la funzione di
"deterrente" nei confronti della lentocrazia e di incentivo
per i comportamenti virtuosi, potrebbe essere attivato dal
nuovo piano di semplificazione che dovrebbe essere varato
giovedì o venerdì dal Consiglio dei ministri. Anche se la
misura sui "risarcimenti" resta a rischio viste le
perplessità del Tesoro sui costi. Il piano è comunque a
vasto raggio: spazierà dall'edilizia al lavoro passando per
gli appalti e l'ambiente. E potrebbe contenere anche un
capitolo fiscale.
Tra gli interventi ormai certi, l'accorpamento in due sole
scadenze fisse all'anno delle date degli adempimenti
amministrativi e fiscali (1° luglio e 1° gennaio successivi
all'entrata in vigore dei provvedimenti di legge) per
ridurre gli oneri burocratici per cittadini e imprese. E la
procedura accelerata per il Durc (il documento di regolarità
contributiva).
In particolare, sarà possibile il rilascio
d'ufficio del Durc (necessario per gli appalti pubblici).
Che avrà una durata di 180 giorni, senza più dover essere
richiesto a ogni contratto, come accade attualmente. E che
manterrà la propria validità nei confronti di tutte le
stazioni appaltanti e degli enti aggiudicatori. Un
dispositivo che dovrebbe consentire di accelerare i tempi di
pagamento e di ridurre gli oneri a carico delle stesse
amministrazioni.
Uno dei pilastri del piano di semplificazione sarà
costituito dalle misure in chiave di mini-liberalizzazione
per l'avvio delle attività produttive, sulle quali si sta
concentrando il tavolo tecnico attivato allo Sviluppo
economico dal ministro Flavio Zanonato e seguito in prima
persona dal sottosegretario Simona Vicari.
Nel pacchetto verrebbe inserito l'obbligo di rilasciare i
titoli di studio anche in lingua inglese.
Dovrebbe poi essere prevista una velocizzazione delle
procedure per la dichiarazione per la tassa dei rifiuti e
un'ulteriore accelerazione del percorso per il cambio di
resistenza, sulla base delle indicazioni che arrivano dallo
staff tecnico del ministro della Pubblica amministrazione,
Gianpiero D'Alia.
Non dovrebbe mancare poi un nuova fase di delegificazione. I
tecnici del ministero della Pubblica amministrazione, in
collaborazione con quelli di Palazzo Chigi, dello Sviluppo
economico e anche dell'Economia, stanno valutando un
intervento di ripulitura definitiva del "bosco e del
sottobosco" normativo con l'obiettivo di sopprimere
espressamente tutte le disposizioni legislative statali
oggetto di abrogazioni tacita o implicita: si tratta di
quelle norme considerate obsolete.
A confermare che «il Governo presenterà presto un pacchetto
di misure sulle liberalizzazioni» sul fronte burocratico è
stato ieri il ministro dell'Economia, Fabrizio Saccomanni.
Il punto di partenza è il Ddl semplificazioni bis targato
Patroni Griffi che fu lasciato su un binario morto alla fine
della scorsa legislatura. Ma con molte integrazioni.
L'obiettivo è varate il pacchetto nel prossimo Consiglio dei
ministri (v. Il Sole 24 Ore di ieri).
Alcuni nodi devono
comunque essere ancora sciolti, a cominciare da quello
dell'eventuale capitolo fiscale. E da definire è anche lo
strumento legislativo da adottare: sul tavolo ci sono al
momento due opzioni: un provvedimento unico oppure un doppio
testo. Con il ricorso a un decreto legge per le
semplificazioni più urgenti soprattutto sul versante delle
imprese, come ad esempio quelle sull'accelerazione del Durc
o quelle sul lavoro (che potrebbero anche finire nel Dl sul
piano per l'occupazione giovanile su cui sta lavorando il
ministro Enrico Giovannini).
In ogni caso il decreto
verrebbe accompagnato da un disegno di legge con gli altri
interventi anti-burocrazia al quale sarebbe garantita
comunque una corsia preferenziale in Parlamento
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.06.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: I sindaci faranno testamento politico.
Via alla relazione di fine mandato.
Pronti gli schemi su cui si devono fondare le relazioni di
fine mandato che sindaci e presidenti di province sono
tenuti a redigere secondo le previsioni dell'articolo 4 del
decreto legislativo n. 149/2011, istitutivo dei meccanismi
sanzionatori e premiali relativi a regioni, province e
comuni.
A mettere nero su bianco gli schemi di cui sopra, ci
ha pensato il decreto interministeriale 26.04.2013, firmato
congiuntamente dal Viminale e dal Mineconomia.
Il dm si
compone di tre allegati. Il primo è riservato allo schema
tipo di relazione che i presidenti delle province devono
sottoscrivere al termine del loro mandato. Il secondo
allegato, invece, è riservato allo schema di pertinenza dei
sindaci di comuni con popolazione pari o superiore a 5 mila
abitanti, mentre l'ultimo allegato, redatto in forma ultra
semplificata, è riservato ai primi cittadini dei comuni con
meno di 5 mila abitanti.
La forma dei predetti schemi
ricalca, nell'ottica di uno snellimento dell'attività
amministrativa, la struttura di quelli già utilizzati dagli
enti locali per comunicare telematicamente le risultanze del
bilancio consuntivo e di quelli con cui, ai sensi della
legge finanziaria del 2006, ci si «interfaccia» con la
competente sezione regionale di controllo della Corte dei
conti. Le relazioni, poi, dovranno essere inviate alla
Conferenza Stato-città (nelle more dell'avvio del Tavolo
tecnico interistituzionale previsto dal citato dlgs
n. 149/2011) e alla Corte dei conti competente per
territorio, entro dieci giorni dalla loro sottoscrizione.
Schema per le province. Dovranno essere indicati gli
investimenti per l'edilizia scolastica, quelli per la rete
viaria e gli interventi di manutenzione del territorio e
ambiente. Si dovrà altresì indicare se durante il mandato,
l'ente ha dichiarato o meno il dissesto finanziario o il predissesto previsto dal nuovo articolo 243-bis del Tuel.
Particolare attenzione al Patto di stabilità interno. In
caso di mancato rispetto dei vincoli, le sanzioni cui l'ente
è stato soggetto nonché gli eventuali rilievi oggetto da
parte della Corte dei conti o quelli sollevati dall'organo
di revisione contabile. Infine, spazio alle azioni
intraprese per contenere la spesa.
Schema per i comuni. Lo schema previsto per le
amministrazioni comunali non differisce molto da quello
previsto per le amministrazioni provinciali per quanto
riguarda le informazioni sull'attività generale. Sotto i
riflettori, in questo caso, passa la politica tributaria
locale esercitata durante il mandato.
Lo schema, infatti, si
propone di acquisire informazioni sulle aliquote Ici o Imu
deliberate nel corso del mandato, differenziandole per
abitazione principale, altri immobili e fabbricati rurali.
Spazio anche all'indicazione delle aliquote delle
addizionali Irpef ed eventuali differenziazioni e fasce
d'esenzione, così come alla descrizione del tasso di
copertura del prelievo sui rifiuti e il suo costo pro
capite. Come per le province, la relazione dovrà indicare i
principali obiettivi inseriti nel programma di mandato e il
livello della loro realizzazione.
Tra questi, il numero
delle concessioni edilizie rilasciate, la percentuale della
raccolta differenziata registrata all'inizio e al termine
del governo della città, la quantificazione dei lavori
pubblici. Sul versante del Patto, la musica non cambia. La
relazione infatti si propone di sapere se l'ente ha sforato
o meno i vincoli e a quali sanzioni è andato incontro
(articolo ItaliaOggi dell'08.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Attestati energetici in stand by. Per far
scattare il nuovo obbligo serve un dm apposito.
L'analisi di Confedilizia sugli adempimenti
previsti dal decreto energia (63/2013).
Norma
sull'attestato di prestazione energetica non immediatamente
operativa. Lo sostiene Confedilizia, in una nota relativa al
decreto legge n. 63/2013, recante disposizioni in materia di
prestazioni energetiche, in vigore da ieri.
Il provvedimento dispone, su imposizione dell'Unione
europea, che, in occasione di trattative per la
compravendita o la locazione di unità immobiliari, debba
essere reso disponibile per il potenziale acquirente o per
il nuovo locatario l'Attestato di prestazione energetica
istituito dal nuovo provvedimento, attestato che dovrà
essere consegnato alla conclusione delle trattative di cui
si è detto (mentre rimane invariata, in materia, la
situazione degli edifici storici).
Ma è da ritenersi, a parere dell'Ufficio legale della
Confedilizia e nonostante l'equivocità e genericità del
testo, che le diposizioni in parola non siano di immediata
applicazione, atteso che il nuovo testo di legge prevede
l'emanazione di un decreto interministeriale per
l'adeguamento del precedente provvedimento sulla
documentazione energetica, fissando criteri e contenuti
obbligatori del nuovo Attestato di prestazione energetica.
Di conseguenza, pur dopo l'emanazione del decreto legge deve
ritenersi, secondo Confedilizia, che debbano continuare a
osservarsi le previgenti norme nazionali o regionali.
«La direttiva europea prevede che gli stati membri
possano rinviare fino al 31.12.2015 l'applicazione delle
disposizioni concernenti la messa a disposizione e consegna
degli Attestati di prestazione energetica. In questo
momento, se c'è una cosa che non ha bisogno di essere
ulteriormente scoraggiata, con l'imposizione oltretutto di
oneri buroindotti, è la locazione e in particolare quella
dei proprietari diffusi, che ci ha finora in gran parte
salvati da una più grave emergenza abitativa. Auspichiamo
che il parlamento, in sede di conversione del decreto legge
imposto dall'Ue, si avvalga di questa facoltà concessa dalla
normativa europea», afferma il presidente della
Confedilizia, Corrado Sforza Fogliani
(articolo ItaliaOggi del 07.06.2013). |
ENTI LOCALI: Partecipate, la trasparenza paga. Niente fondi se la p.a.
omette informazioni sulla governance.
L'obbligo previsto dal dlgs 33/2013 deve essere considerato
immediatamente operativo.
Niente soldi agli enti di qualsiasi genere partecipati dagli
enti pubblici, se non garantiscono la trasparenza.
L'articolo 22, comma 4, del dlgs 33/2013 impone alle
amministrazioni ed agli enti partecipati di accelerare in
modo bruciante nell'applicazione delle disposizioni
contenute nell'articolo 22 stesso, pena l'illegittimità di
erogazioni finanziarie.
Il comma 4 citato dispone che nel caso di mancata o
incompleta pubblicazione dei dati relativi agli enti
partecipati «è vietata l'erogazione in loro favore di somme
a qualsivoglia titolo da parte dell'amministrazione
interessata».
Poiché nel dlgs 33/2013 non è indicata alcuna disposizione
di diritto transitorio, né si prevede per l'adempimento in
argomento un termine iniziale, è da ritenere che il divieto
posto dall'articolo 22, comma 4, sia immediatamente
operante.
L'onere di pubblicare i dati ricade in capo alle
amministrazioni pubbliche, chiamate a inserire nel sito
istituzionale, nell'apposita sotto sezione della sezione
amministrazione trasparente: l'elenco degli enti pubblici
(comunque denominati, istituiti, vigilati e finanziati dalla
amministrazione medesima ovvero per i quali
l'amministrazione abbia il potere di nomina degli
amministratori dell'ente); l'elenco delle società di cui
detiene direttamente quote di partecipazione anche
minoritaria indicandone l'entità; l'elenco degli enti di
diritto privato, comunque denominati, in controllo
dell'amministrazione.
Per ciascuno di detti enti, inoltre, occorre elencare le
funzioni attribuite e le attività svolte in favore
dell'amministrazione o le attività di servizio pubblico
affidate.
Infine, occorre pubblicare anche una o più rappresentazioni
grafiche che evidenziano i rapporti tra l'amministrazione e
gli enti partecipati.
Come si nota, la norma coinvolge sostanzialmente qualsiasi
soggetto partecipato, qualunque ne sia la natura. Si va,
infatti, dagli enti pubblici (nel caso degli enti locali
l'esempio è un'azienda speciale) alle società, fino a
qualsiasi altro soggetto di diritto privato. L'estensione
soggettiva della norma è amplissima. Del resto, è lo stesso
articolo 22 a precisare che «ai fini delle presenti
disposizioni sono enti di diritto privato in controllo
pubblico gli enti di diritto privato sottoposti a controllo
da parte di amministrazioni pubbliche, oppure gli enti
costituiti o vigilati da pubbliche amministrazioni nei quali
siano a queste riconosciuti, anche in assenza di una
partecipazione azionaria, poteri di nomina dei vertici o dei
componenti degli organi». Basta, dunque, che lo statuto
anche di una fondazione o di un'associazione assegnino
all'ente pubblico un potere di nomina o prevedano
direttamente che un componente dell'ente partecipante faccia
parte degli organi di amministrazione, che scatta l'obbligo
di pubblicità fissato dalla norma.
Le amministrazioni, dunque, debbono effettuare il più presto
possibile una ricognizione accurata di tutti i soggetti ai
quali partecipino o rispetto ai quali svolgono funzioni di
controllo, nel senso esplicitato dal legislatore.
Nessun provvedimento di erogazione di somme di denaro a
vantaggio di detti soggetti può legittimamente essere
adottato, se sul sito non siano presenti le informazioni
previste.
È, dunque, compito dell'ufficio istruttore curare di
verificare che sul sito siano pubblicati i dati come
richiesto dall'articolo 22, per poter adottare il
provvedimento. E della pubblicazione è opportuno che si dia
espresso riscontro nel provvedimento, anche per permettere
agli uffici finanziari di effettuare i necessari controlli.
In effetti, la pubblicazione richiesta costituisce, anche se
il legislatore non lo ha precisato espressamente, condizione
di legalità del pagamento delle erogazioni finanziarie.
Poiché dette erogazioni sono vietate «a qualsiasi titolo»,
se le pubblicazioni non sono rispettate, qualsiasi tipologia
di pagamento agli enti è vietato: dal contributo al
corrispettivo del contratto di servizio, alla stessa
eventuale erogazione di quote associative o di
partecipazione
(articolo ItaliaOggi del 07.06.2013). |
CONDOMINIO: La riforma del condominio.
Distacco dall'impianto centralizzato sulla carta.
Il distacco dall'impianto centralizzato di riscaldamento
condominiale rischia di rimanere sulla carta. Sebbene il
nuovo art. 1118 c.c., introdotto dalla legge n. 220/2012 che
entrerà in vigore la prossima settimana, abbia previsto il
diritto del singolo comproprietario di rinunciare
all'utilizzo dell'impianto comune, il suo esercizio rimane
subordinato a una serie di presupposti tecnici di difficile
realizzazione, senza per questo esentare il condomino dal
pagamento delle spese di manutenzione straordinaria e per la
conservazione e messa a norma del medesimo.
La nuova formulazione dell'art. 1118 c.c. conferma che nel
condominio la disciplina delle parti comuni si fonda sul
principio dell'indivisibilità e del pari utilizzo delle
stesse. Scopo della norma è evidentemente quello di impedire
che il singolo condomino si sottragga al contributo
obbligatorio per le spese relative ai beni e ai servizi
comuni, rinunciando al relativo diritto di utilizzo. Anche
l'impianto di riscaldamento centralizzato è un bene comune
e, come tale, il suo funzionamento dovrebbe essere regolato
dai medesimi principi di cui sopra, ivi incluso il divieto
di rinunciare al relativo diritto (e di sopportarne gli
oneri economici).
Tuttavia, con riferimento a questo
specifico impianto (e a quello, simmetrico, di
condizionamento), la giurisprudenza di legittimità aveva di
fatto elaborato il principio per cui il comproprietario ben
poteva operarne il distacco, restando però obbligato a
sostenere le spese relative alla sua conservazione (restando
pur sempre l'impianto un bene comune). La nuova legge n.
220/2012, volendo in qualche modo asseverare tale
orientamento giurisprudenziale, ha quindi previsto
espressamente il diritto di distacco del singolo condomino,
subordinandolo però alla prova rigorosa del fatto che da
tale operazione non derivino notevoli squilibri di
funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini.
Tuttavia non sembra che tale operazione sia fattibile dal
punto di vista tecnico e che risulti particolarmente
appetibile dal punto di vista economico, ferma restando la
necessità di operare valutazioni caso per caso. Appare
infatti generalmente difficile che il distacco di un
condomino possa davvero avvenire senza squilibrio alcuno per
l'impianto comune. E che dire, poi, degli eventuali
distacchi successivi al primo? Ammesso pure che il distacco
originario sia stato valutato tecnicamente fattibile, è di
tutta evidenza che quelli che dovessero seguire avrebbero
sempre meno possibilità di essere attuabili.
E ciò
comporterebbe un'indubbia disparità di trattamento tra il
primo condomino che dovesse optare per tale operazione e
tutti quelli che dovessero eventualmente decidere in
seguito. Dal punto di vista economico è poi tutto da
verificare se il distacco possa essere davvero conveniente
per il singolo comproprietario. Quest'ultimo, infatti, a
parte i costi che dovrebbe sopportare per installare il
nuovo impianto esclusivo, rimarrebbe comunque tenuto a
concorrere nelle spese per la manutenzione straordinaria
dell'impianto condominiale e per la sua conservazione e
messa a norma.
Occorre poi evidenziare come in alcune regioni la nuova
disposizione di cui all'art. 1118 c.c. potrebbe non essere
recepita o addirittura vietata. Poiché, infatti, quello del
distacco dall'impianto centralizzato è un argomento connesso
alla materia dell'efficienza energetica degli impianti
termici, che come tale ricade in un ambito di legislazione
concorrente tra stato e regioni, queste ultime potrebbero
anche dettare discipline più rigorose rispetto ai criteri
nazionali.
Dal punto di vista pratico è utile poi sottolineare come, a
stretto rigore, il condomino che voglia distaccarsi
dall'impianto comune non sia tenuto ad avvertire
preventivamente né l'amministratore né l'assemblea, anche se
tale modus procedendi non appare consigliabile. Il
condominio, infatti, ove non ritenesse legittimo l'operato
del singolo condomino potrebbe chiedergli di provare con una
perizia tecnica l'assenza delle predette controindicazioni
tecniche e, in ogni caso, potrebbe rivolgersi all'autorità
giudiziaria per la tutela dei propri interessi
(articolo ItaliaOggi del 06.06.2013). |
APPALTI: Appalti, bandi senza trucchi. Serve la supervisione di un
responsabile del procedimento.
Gare d'appalti senza trucchi con la supervisione del
Responsabile unico del procedimento (Rup).
Dal Consiglio superiore dei lavori
pubblici ok al decreto con osservazioni. Il dm allunga il
passo.
È questo in
sostanza il rilievo più significativo che il Consiglio
superiore dei lavori pubblici esprime nel parere sul decreto
che determina «i corrispettivi a base di gare per gli
affidamenti di contratti di servizi attinenti
all'architettura e all'ingegneria».
Un passaggio che non
compromette il parere di qualche giorno fa (si veda ItaliaOggi del 18/05/2013) sul decreto che resta positivo, né
l'iter di un provvedimento atteso da circa un anno dalle
professioni di area tecnica. Ma che, secondo il Consiglio
superiore dei lavori pubblici, andrebbe meglio esplicitato
nel provvedimento in questione. In sostanza, secondo
l'organo consultivo del governo, il ministero della
giustizia dovrebbe precisare «che compete al responsabile
del procedimento accertare che il corrispettivo da porre a
base di gara non superi quello derivante dall'applicazione
delle tariffe professionali vigenti prima dell'entrata in
vigore del provvedimento de quo».
Del resto, come ricorda
ancora il Cslp, era stata proprio la norma primaria a
prevedere un paletto preciso, cioè che i nuovi parametri non
avrebbero dovuto determinare un importo a base di gara
superiore a quello che derivava dall'applicazione delle
tariffe professionali vigenti prima dell'entrata in vigore
dello stesso decreto. E poiché, per il Consiglio superiore,
per verificare il vincolo di non superamento delle
precedenti tariffe non sono sufficienti le esemplificazioni
allegate spetta al Rup «procedere, sempre e comunque, alla
verifica, per ogni singola ipotesi di affidamento, del
rispetto del calmiere imposto dalla norma primaria». A
questo punto ora sta ai ministeri competenti inserire tener
conto di questa previsione oppure no.
Il testo ora è sul tavolo dell'ufficio legislativo del
ministero delle infrastrutture per il parere di concerto e
sarà poi inviato al Consiglio di stato.
Cresce, quindi, l'attesa per le categorie tecniche dopo che
lo scorso anno il decreto legge sulle liberalizzazioni (n.
1/12) aveva cancellato ogni riferimento tariffario, privando
le stazioni appaltanti di regole certe per calcolare gli
importi e per determinare, di conseguenza, le corrette
procedure per l'affidamento
(articolo ItaliaOggi del 06.06.2013). |
INCARICHI PROFESSIONALI: La p.a. pagherà i professionisti. Crediti ammessi alla
certificazione e cedibili alle banche.
Il senato ha approvato il dl 35 che ora torna alla
camera per la conversione in legge.
Al banchetto dei pagamenti della p.a. siederanno anche i
professionisti. I crediti da loro vantati verso la pubblica
amministrazione si affiancano a pieno titolo a quelli per
somministrazioni, forniture e appalti che potranno essere
oggetto di certificazione da parte delle regioni e degli
enti locali per essere poi ceduti a banche e intermediari
finanziari.
Doveva essere un passaggio lampo e limitato a poche,
fondamentali, modifiche quello del dl 35 al senato. E invece
il testo che ieri è stato licenziato con larghissima
maggioranza dall'aula di palazzo Madama (247 voti
favorevoli, 7 astenuti, tutti del gruppo di Sel e nessun
voto contrario) presenta molte sostanziali novità, a
cominciare proprio dall'ampliamento della platea dei
beneficiari. Che ovviamente non può non piacere ai diretti
interessati.
«Si tratta di una boccata d'ossigeno anche per
i liberi professionisti, che entrano a pieno titolo tra i
beneficiari del decreto», ha commentato il presidente di Confprofessioni, Gaetano Stella. «In una fase economica
difficilissima, il provvedimento approvato dal senato
potrebbe sbloccare ingenti risorse a favore di migliaia di
professionisti, soprattutto dell'area tecnica e sanitaria,
che vantano crediti certi, liquidi ed esigibili per svariati
milioni di euro nei confronti della pubblica amministrazione
centrale e locale».
Anche il Consiglio nazionale degli
architetti plaude alle modifiche introdotte dai relatori
Antonio D'Alì (Pdl) e Giorgio Santini (Pd) in un momento in
cui «gli architetti stanno soffrendo, quanto o più delle
imprese, lo scandalo dei ritardati o mai avvenuti pagamenti
da parte delle pubbliche amministrazioni che stanno
strozzando migliaia di professionisti e le loro famiglie,
già colpite duramente dalla crisi».
Tra gli emendamenti
approvati a palazzo Madama si segnalano anche quelli
presentati in extremis dai relatori e che hanno portato a
uno slittamento di un giorno della tabella di marcia,
costringendo la camera dei deputati a un vero superlavoro
per la definitiva conversione in legge del decreto che dovrà
avvenire entro il 7 giugno.
Lunedì sera infatti (si veda ItaliaOggi di ieri) il duo
Santini-D'Alì aveva partorito tre sostanziali modifiche in
materia di finanza locale, molto attese e richieste dai
comuni. Dalla proroga dell'uscita di scena di Equitalia
dalla riscossione locale (che è slittata al 2014) a quella
dei bilanci comunali (che a causa delle incertezze legate
alla sospensione della prima rata dell'Imu potranno essere
chiusi solo quando si conoscerà l'esito della riforma dei
tributi immobiliari locali e quindi entro la nuova dead line
del 30 settembre), passando per la restituzione dei 600
milioni che i sindaci si aspettavano a titolo di rimborso
dell'Imu sui fabbricati di proprietà comunale.
Il farraginoso meccanismo messo in piedi dal Mef l'anno
scorso prevedeva infatti che i comuni dovessero pagare (per
di più a sé stessi) l'Imu sui propri fabbricati. L'equivoco
normativo però non si limitava a creare una semplice partita
di giro, ma incideva direttamente sui trasferimenti erariali
ai comuni ridotti nel 2012 proprio in funzione del gettito
Imu potenziale. L'emendamento Santini-D'Alì, su
sollecitazione del governo, ha chiuso la partita non senza
qualche polemica. Sono stati infatti stanziati 600 milioni
di euro, ma 400 di questi sono stati reperiti dai fondi a
disposizione delle imprese. Il fondo per pagare i debiti
degli enti locali si riduce così di 200 milioni nel 2013 e
di altri 200 milioni nel 2014. «È stata una scelta del
governo», ha spiegato il relatore Santini, aggiungendo che
«il fondo verrà rimpolpato nel 2014».
Approvato infine un emendamento che salva le elezioni per il
rinnovo del Consiglio di presidenza della giustizia
tributaria in programma il prossimo 23 giugno. I giudici
sovrannumerari che entro quella data non siano stati immessi
nelle funzioni giurisdizionali non potranno né votare né
essere eletti
(articolo ItaliaOggi del 05.06.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Approda sulla Gazzetta Ufficiale il codice di comportamento
dei pubblici impiegati.
Il Galateo per i dipendenti p.a.. Al bando i regali e le
collaborazioni da soggetti privati.
Regali al bando. Divieto di accettare collaborazioni dai
privati. Obbligo di segnalare di essere membri di
associazioni e, per i dirigenti, di essere in possesso di
partecipazioni azionarie. Niente premi a chi viola la
deontologia.
Il codice di comportamento dei dipendenti pubblici è stato
pubblicato ieri sera in Gazzetta Ufficiale, aggiungendo così
un altro tassello alla normativa «anticorruzione», con la
riforma che mette in soffitta il dpcm del 28.02.2000 e
i codici allegati ai contratti nazionali collettivi.
Ambito
Tra le maggiori novità del codice, l'estensione della sua
applicazione che non si ferma ai soli lavoratori subordinati
delle pubbliche amministrazioni. Infatti le disposizioni
varranno per quanto compatibili, per tutti i collaboratori o
consulenti, con qualsiasi tipologia di contratto o incarico
e a qualsiasi titolo, per titolari di organi e di incarichi
negli uffici di diretta collaborazione delle autorità
politiche, e infine anche per collaboratori a qualsiasi
titolo di imprese fornitrici di beni o servizi e che
realizzano opere in favore dell'amministrazione. Di
conseguenza, i contratti regolanti i rapporti con questi
soggetti dovranno contenere apposite disposizioni o clausole
di risoluzione o decadenza del rapporto in caso di
violazione degli obblighi derivanti dal codice.
Limite ai regali
Il nuovo codice ribadisce il divieto di chiedere per sé o
per altri, regali o altre utilità. Il divieto riguarda anche
l'accettazione di regali, ammessa solo per quelli d'uso di
modico valore, nell'ambito delle relazioni di cortesia.
I regali o altre utilità di modico valore non possono
superare orientativamente i 100 euro, ma i piani di
prevenzione della corruzione possono modificare detto limite
sia per ridurlo, sia per portarlo a un limite non superiore
a 150 euro.
Collaborazioni
Allo scopo di scongiurare conflitti di interesse, si vieta
ai dipendenti di accettare incarichi di collaborazione da
soggetti privati che abbiano, o abbiano avuto nel biennio
precedente, un interesse economico significativo in
decisioni o attività inerenti all'ufficio di appartenenza.
Associazionismo
Sempre per contrastare il conflitto di interessi, i
dipendenti debbono anche segnalare di essere membri di
associazioni i cui ambiti di interessi siano coinvolti o
possano interferire con lo svolgimento dell'attività
dell'ufficio. Il datore di lavoro potrà valutare
l'opportunità dell'appartenenza dei dipendenti a tali
soggetti associativi. Il divieto non riguarda l'adesione a
partiti politici o sindacati.
Niente incentivo a chi vìola il codice
Non rispettare le previsioni del codice di comportamento può
costare caro: chi lo vìola non può aspirare ad avere
incentivi individuali.
Infatti, si prevede che la grave o reiterata violazione,
debitamente accertata, delle regole contenute nel codice,
esclude la corresponsione di qualsiasi forma di premialità
comunque denominata, a favore del dipendente.
Per la prima volta si innesta nell'ordinamento giuridico un
collegamento diretto tra l'esclusione dalla produttività e i
comportamenti. Si tratta di una sorta di responsabilità
oggettiva: anche laddove il dipendente abbia espletato la
propria attività in modo produttivo, ma in violazione delle
regole di comportamento, rimane escluso da qualsiasi tipo di
incentivazione.
Dirigenza
Il codice per la prima volta contiene una sezione
specificamente dedicata ai dirigenti. Essi debbono
dichiarare il possesso di partecipazioni azionarie o,
comunque, di interessi anche del coniuge, in società o
soggetti che abbiano frequenti relazioni con gli uffici da
loro diretti.
I dirigenti sono chiamati a porsi come esempio per il
restante personale, e specifici loro obblighi sono garantire
il benessere dei dipendenti e un'equa ed efficiente
ripartizione dei carichi di lavoro, nella distribuzione
delle responsabilità procedimentali
(articolo ItaliaOggi del 05.06.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Decreto
«vistato» dalla Ragioneria, oggi in Gazzetta.
LA RELAZIONE TECNICA/
Per i conti dello Stato effetto positivo nel 2013 con
l'aumento di Iva, Irpef, Irap e Ires - Copertura necessaria
dal 2014.
È prevista sulla «Gazzetta Ufficiale» di oggi (disponibile
da stasera) la pubblicazione del decreto-legge che proroga
fino alla fine dell'anno in corso i due bonus «lavori in
casa» per il risparmio energetico (rafforzato al 65%) e per
il recupero edilizio (al 50%), con l'eccezione dello sgravio
65% per i condomini che continuerà fino al 30.06.2014.
Ieri in tarda serata il testo del decreto legge è stato "bollinato"
dalla Ragioneria generale e inviato da Palazzo Chigi al
Quirinale per la firma.
La relazione tecnica allegato al decreto conferma le
anticipazioni del Sole 24 Ore. Sono soltanto due le
modifiche ai bonus introdotte dal decreto legge rispetto al
passato: l'innalzamento, appunto, dal 55% al 65% del bonus
energetico e l'esclusione da questa incentivazione delle
spese sostenute per la sostituzione degli scaldacqua
tradizionali con «scaldacqua a pompe di calore» (rientrati
nelle agevolazioni del conto energia).
Vengono smentite quindi preoccupazioni e notizie affrettate
diffuse ieri da alcune associazioni di categoria in merito a
forti limitazioni imposte (per esempio in materia di
infissi) dalle nuove norme rispetto alle agevolazioni
passate.
La relazione tecnica messa a punto dalla Ragioneria utilizza
le previsioni già usate dal governo Monti per la precedente
proroga al 30.06.2013, con le limitate correzioni dette.
Il Governo stima in 1.065 milioni per il bonus 50%
l'incremento degli investimenti indotti dalla conferma
dell'agevolazione nel secondo semestre 2013 (2.130 su base
annua) e in 270 milioni la stima prudenziale degli
investimenti indotti nel semestre dal bonus 65 per cento.
Per un totale 1.335 milioni, inferiore alle stime Cresme e
Ance (si veda Il Sole 24 Ore di ieri), ma la relazione
tecnica non considera per il 65% l'ulteriore elemento
incentivante dato dall'aumento del l'aliquota.
Sui conti dello Stato l'effetto prodotto dagli incentivi è
positivo per l'anno in corso, a causa dell'incremento di
Iva, Irpef, Irap e Ires prodotto dai lavori, mentre
l'effetto negativo partirà dal 2014 e toccherà la punta
massima nel 2015. Nel primo semestre 2014, infatti,
l'agevolazione del 65% si applicherà ancora ai lavori
realizzati dai condomìni.
Vediamo nel dettaglio l'impatto sui conti pubblici. Per il
bonus 65% la Ragioneria stima un effetto positivo pari +20,4
milioni nel 2013, mentre l'effetto sarà negativo per -43,4
milioni nel 2014, -159,4 milioni nel 2015 per poi scendere a
-109,8 milioni nel 2016 e stabilizzarsi a -106,9 milioni dal
2017 al 2023. Per il bonus 50% (solo recupero edilizio senza
l'incentivo per l'acquisto di mobili) la previsione è +19,2
milioni nel 2013, -64,1 milioni per il 2014, -172,4 milioni
nel 2015, -115,7 milioni dal 2016 al 2023.
Per il «bonus mobili» del 50%, con tetto di spesa
agevolabile di 10mila euro e uno sgravio massimo di 5mila
euro, il beneficio sui conti pubblici è di 8,2 milioni nel
2013, mentre nel 2014 diventa negativo a -42,3 milioni, nel
2015 a -41,7 milioni, dal 2016 al 2023 a -35,2 milioni
(articolo Il Sole 24 Ore 05.06.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Lavoro.
Il Tribunale di Roma ha reintegrato un dipendente che
inviava mail volgari ai collaboratori.
Non licenziabile per insulti.
Il comportamento non è stato ritenuto offensivo ma
goliardico.
LE CONSEGUENZE/
Con il vecchio articolo 18 il lavoratore ha riottenuto il
posto ed è stato disposto il risarcimento integrale del
danno.
Il dipendente che invia a una propria collaboratrice un'email
dai contenuti pornografici, offensivi e lesivi della sua
dignità sessuale non merita il licenziamento, se la società
non dimostra l'intenzione del dipendente di fare qualcosa di
più grave di una semplice goliardata.
Questa la conclusione –per molti versi sconcertante e
inaccettabile– cui giunge una recente sentenza 09.05.2013 del
TRIBUNALE di Roma,
chiamato a giudicare il licenziamento intimato da una
compagnia telefonica ai danni di un dipendente cui era stata
contestata l'adozione di pratiche commerciali contrarie alle
procedure e alle regole aziendali.
Nell'ambito di questi comportamenti illeciti, la società
aveva contestato al dipendente anche il fatto di aver
sottoposto i propri collaboratori a forti pressioni affinché
utilizzassero determinati fornitori. I lavoratori che non
avevano seguito tali direttive o, comunque, erano stati
ritenuti meno produttivi, avevano ricevuto dal dipendente
poi licenziato delle email dai contenuti volgari e
offensivi.
La società, in particolare, aveva contestato a questo
dipendente l'invio, a una propria collaboratrice, di un file
Excel contenente un gioco di parole nel quale le iniziali
dei cognomi di altri colleghi formavano un insulto molto
pesante e lesivo della dignità sessuale della donna. La
sentenza del Tribunale di Roma non ritiene sufficiente
questi fatti a giustificare il licenziamento: osserva
infatti il giudice che l'email incriminata non conteneva
espressioni che potessero ritenersi direttamente offensive
per la collaboratrice cui era stata inviata. In particolare,
non risulterebbe provato che il testo della mail avesse un
contenuto offensivo e discriminatorio, e pertanto il
messaggio in essa contenuto era animata soltanto da un
«malinteso spirito goliardico».
Il giudice rinforza il concetto, sostenendo che il
comportamento del lavoratore licenziato può reputarsi
incauto o di cattivo gusto, ma non può essere giudicato come
un gesto intenzionalmente offensivo o discriminatorio.
Inutile nascondere le grandi perplessità che desta una
pronuncia del genere, in quanto scaturisce da
un'incomprensibile sottovalutazione di alcuni comportamenti
e offese che, invece, posso danneggiare profondamente la
dignità personale di chi li riceve.
La sentenza, peraltro, è sorprendente anche in altri
passaggi, in quanto il giudice del lavoro annulla tutte le
altre contestazioni disciplinari mosse al dipendente,
lamentando l'eccessiva genericità della lettera di addebito,
anche quando i fatti erano stati descritti in maniera
circostanziata.
È utile osservare che il licenziamento è stato intimato
quando ancora non era stata approvata la legge Fornero e,
quindi, sulla base della vecchia formulazione dell'articolo
18. Per questo motivo, il giudice ha disposto la
reintegrazione sul posto di lavoro e il risarcimento del
danno integrale.
Se il recesso fosse stato intimato dopo il 18.07.2012, il
giudice avrebbe dovuto scegliere se applicare la
reintegrazione sul posto di lavoro, più un'indennità
risarcitoria non superiore a 12 mesi, oppure riconoscere
solo il risarcimento del danno, in misura compresa tra le 12
e le 24 mensilità
(articolo Il Sole 24 Ore 05.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Edilizia
privata. Si rafforza la tendenza normativa
all'autocertificazione ma non senza difficoltà.
Semplificazioni in mezzo al guado.
Gli Sportelli unici restano al palo - Il silenzio-assenso è
poco usato.
QUESTIONI DA CHIARIRE/
La Scia e il silenzio-assenso, non vengono quasi mai
riconosciuti dai notai e dalle banche; resta il nodo delle
asseverazioni.
Silenzio-assenso sul permesso di costruire di fatto
inutilizzato. Interventi edilizi in autocertificazione che
non cancellano del tutto il rischio di un intervento
successivo di controllo. Sportello unico edilizia
rafforzato, ma il cui successo si infrange sulle
inefficienze e le carenze di informatica dei Comuni, specie
i piccoli.
L'ultimo Dossier di «Edilizia e Territorio» fa il punto
sulle molte novità legislative e giurisprudenziali degli
ultimi tre anni in materia di edilizia privata. E quello che
emerge è un percorso di riforma ancora accidentato.
La tendenza legislativa è stata di fatto costante negli
ultimi 15 anni, con una accelerazione negli ultimi tre, nel
senso di ampliare le categorie di interventi realizzabili
con semplice autocertificazione "asseverata" dal progettista
abilitato (geometra, architetto, ingegnere).
Nel 2010 ha debuttato la "comunicazione di inizio lavori"
(Cia), con la quale si possono fare interventi di
manutenzione straordinaria (senza incidere su parti
strutturali), avviando subito i lavori senza attendere i 30
giorni della Dia.
Poi nel 2011 arriva la Scia in edilizia, con possibilità di
avvio immediato del cantiere fino a interventi di
ristrutturazione edilizia "minore" (demolizione e
ricostruzione con rispetto di volume e sagoma). Restano
soggetti al permesso edilizio solo i grandi interventi,
quali nuove costruzioni, ampliamenti e ristrutturazioni
pesanti. Per i quali nel 2011 arriva il silenzio-assenso: se
il Comune non si pronuncia entro i termini di legge il
privato può partire con i lavori.
Tutto bene, dunque? Non proprio, perché tutti continuano a
preferire i provvedimenti espressi, e di fatto il cittadino
fatica a veder riconosciuto quanto fissato dalle leggi. I
professionisti sono da sempre molto prudenti nelle
asseverazioni (sono responsabili civilmente e penalmente) e
finiscono per chiedere sempre l'ok preventivo degli uffici,
annullando l'effetto snellimento. Gli stessi tecnici
comunali spingono in questa direzione, per non perdere
potere discrezionale e controllo sui processi edilizi.
La Scia, d'altra parte, e soprattutto il silenzio-assenso,
non vengono quasi mai riconosciuti dai notai, nella
trascrizione degli atti, e dalle banche nel concedere mutui
per costruzione o ristrutturazione. D'altra parte anche la
Corte Costituzionale, con la sentenza 188/2012, ha affermato
che il Comune può sempre esercitare i suoi poteri di
autotutela anche dopo i 60 giorni di legge dal deposito per
controllare la Scia, potendo così annullare la stessa in
caso di interventi edilizi illegittimi.
Ci sono dei
"paletti", certo (interesse pubblico a intervenire,
tempestività), ma resta una "spada di Damocle" che porta
incertezza alle autocertificazioni
(articolo Il Sole 24 Ore 05.06.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Permessi di costruire, monito Ue alle p.a..
Promossa con riserva la norma
introdotta dal decreto salva-italia.
Gli uffici della Commissione europea hanno promosso, con
qualche riserva, il comma 2-bis dell'art. 16 del Testo unico
sull'edilizia, dpr n. 380/2001, approvato con il
decreto-legge n. 201/2001 (cosiddetto «salva-Italia», del
governo Monti).
La norma esonera dall'obbligo di applicare
il codice dei contratti i titolari dei permessi di costruire
(che possono realizzare le opere di urbanizzazione, a
scomputo dei contributi dovuti per il rilascio del
permesso), nel caso in cui il valore economico delle sole
opere di urbanizzazione primaria sia inferiore alla soglia
comunitaria di 5 milioni di euro.
Pronunciandosi su un reclamo concernente l'incompatibilità
della norma col diritto europeo degli appalti pubblici, la
Commissione ha deciso di non procedere nei confronti dello
stato italiano con motivazioni che è bene siano conosciute
soprattutto dalle amministrazioni tenute ad applicare tale
disposizione
Il reclamo è stato respinto perché la
Commissione afferma che l'obbligo, a carico degli stati
membri, di applicare le direttive 2004/17/Ce e 2004/18/Ce
vale soltanto per gli appalti d'importo uguale o superiore
alle soglie fissate in tali direttive, e non per quelli
d'importo inferiore, come quelli disciplinati appunto
dall'art. 16, c. 2-bis.
Ma su questo punto la Commissione
precisa che, «qualora vi sia un interesse» trans-frontaliero
certo nell'esecuzione di opere di urbanizzazione primaria,
un affidamento diretto dei lavori «senza alcuna trasparenza
ad un soggetto appartenente allo stato membro» può
configurarsi come violazione dei princìpi del Trattato.
Il reclamo evidenzia pure la possibilità che la norma
riproduca una situazione giuridica (analoga a un'altra, già
oggetto di condanna dalla Corte di Giustizia Ue) in base
alla quale il valore della soglia comunitaria possa essere
calcolato rispetto ai singoli lotti della Convenzione e non
rispetto al valore globale dei differenti lavori, eludendo
così gli obblighi stabiliti dalle direttive comunitarie. A
questo proposito la Commissione ha affermato che il problema
non si presenta, dal momento che l'art. 29, c. 7, lett. a),
del codice dei contratti pubblici riproduce il testo
dell'art. 9, c. 5, lett. a), della direttiva 2004/18/Ch,
disponendo che quando un'opera prevista possa dar luogo ad
appalti aggiudicati contemporaneamente per lotti distinti,
il valore da considerare è quello complessivo stimato della
totalità di tali lotti.
All'obiezione mossa sulla base del
fatto che il comma 2-bis in questione preveda di
disapplicare il codice dei contratti nella sua totalità, e
non solo di alcune norme contenute in esso, la Commissione
ha risposto dicendo che l'art. 29 del codice, in quanto
norma strumentale, si deve applicare a tutti gli appalti
pubblici e che (indipendentemente da quanto scritto
nell'art. 16, c. 2-bis) il metodo di calcolo fissato da
questo articolo deve essere applicato comunque per
individuare gli appalti rispetto ai quali trova applicazione
il regime derogatorio del comma 2-bis, e quelli rispetto ai
quali continuerà a trovare applicazione, integralmente, il
codice dei contratti
L'ultima motivazione in base alla quale gli uffici hanno
deciso di non avviare una procedura d'infrazione rispetto
all'Italia suona come un'accusa nei confronti di questa
norma e della tecnica legislativa adottata. Infatti la
Commissione scrive: «L'interpretazione della norma non è
univoca. In particolare non è chiaro se l'esecuzione diretta
delle opere di urbanizzazione primaria “a carico” del
titolare del permesso di costruire sia complementare o
alternativa all'obbligo previsto dal comma 1 dello stesso
articolo, e in particolare se anche in tal caso sia prevista
la possibilità di scomputo totale o parziale della quota
relativa agli oneri di urbanizzazione».
Non si tratta di una
formale messa in mora del nostro paese, ma di un invito a
parlamento e governo a precisare la norma contenuta nel
decreto «salva-Italia» e a vigilare sull'attuazione da parte
delle amministrazioni aggiudicatrici
(articolo ItaliaOggi del 04.06.201). |
EDILIZIA PRIVATA:
DECRETO ENERGIA/ La proroga di sei mesi cambia le scelte del
mod. 730 e di Unico.
Bonus 50% con vista sul 2014.
Per massimizzare lo sgravio meglio non detrarre subito.
Ristrutturazione, la proroga dei maggiori limiti di
detrazione cambia le scelte del 730 e di Unico. In caso di
prosecuzione dei lavori e di prospettive di spese entro il
prossimo 31 dicembre, non conviene detrarre le spese
sostenute fino al 25.06.2012: prima è necessario
massimizzare la detrazione al 50%.
Di fatto superate le istruzioni di Unico 2013: sussiste la
possibilità di recupero massimo della detrazione pari a
6.720 euro. La conferma, prevista dal decreto legge
approvato venerdì scorso dal governo, per tutto il 2013 dei
maggiori limiti riconosciuti per i lavori di recupero del
patrimonio edilizio, agevolati fino ad un importo massimo di
spesa di 96 mila euro e nella misura del 50%, alla luce dei
chiarimenti forniti nella circolare n. 13 del 2013, obbliga
a precisi calcoli di convenienza in sede di dichiarazione
per il 2012, in quanto potrebbe essere conveniente
addirittura non detrarre per lo scorso anno.
Il tutto nasce
dall'analisi delle regole di detrazione e dai citati
chiarimenti di prassi che hanno superato le medesime
istruzioni ad Unico 2013 (in particolare l'esempio n. 4 in
chiusura di pagina 60 di Unico PF1). Come è noto, nelle
ipotesi di prosecuzione del medesimo lavoro agevolato, nel
conteggio del limite di spesa si tiene conto di quanto speso
e detratto negli anni precedenti: nella particolare
situazione di pagamenti effettuati entro il 25.06.2012 e
dal 26 giugno in poi, proprio l'esempio n. 4 di cui sopra
evidenzia che il limite di 96 mila euro deve (o meglio,
dovrebbe) essere ridotto delle spese sostenute e detratte in
precedenza, incluso quelle fino al 25.06.2012.
Ad
esempio, se un soggetto ha speso 50 mila euro entro il 25.06.2012 ed altri 60 mila euro dopo tale data, secondo le
istruzioni al modello dovrebbe detrarre il 36% di 48 mila
euro (secondo le vecchie regole del 36% fino al 25.06.2012 esistenti) e in relazione alle spese successive
dovrebbe calcolare il limite nel seguente modo: 96 mila – 48
mila (ossia non la vera spesa sostenuta in precedenza, pari
a 50 mila euro, ma solo quella effettivamente detratta).
Così procedendo, le istruzioni ad Unico evidenziano che in
dichiarazione, per le spese post 25 giugno, il limite di
spesa sarebbe 48 mila euro, con la conseguenza che l'importo
di 60 mila euro non sarebbe interamente capiente.
Il
condizionale è d'obbligo in quanto le richiamate istruzioni
sono state implicitamente superate dai chiarimenti della
circolare n. 13 del 2013, secondo cui i contribuenti che
nell'anno 2012 si ritrovano nella situazione sopra descritta
possono optare per la massimizzazione del beneficio fiscale.
Il contribuente del nostro esempio infatti può
legittimamente decidere anzitutto di detrarre al massimo la
spesa sostenuta nel periodo di vigenza della detrazione al
50%, e poi detrarre la spesa al 36%.
Tornando all'esempio, è
possibile adottare il seguente comportamento:
- detrarre al 50% tutta la spesa di 60 mila euro (con
indicazione del codice 3 in colonna 2 e riporto della rata
di 6 mila euro in colonna 9);
- detrarre al 36% per la differenza. Posto il limite
complessivo di 96 mila euro del 2012, il ragionamento sarà
il seguente: far residuare la capienza di 60 mila euro per
le spese dal 26.06.2012 in poi. In pratica, dei 50 mila
euro spesi entro il 25.06.2012, la detrazione deve
fermarsi a 36 mila euro (codice 2 in colonna 2 e indicazione
della rata di 3.600 euro in colonna 9). In tal modo, il
limite per le spese successive sarà pari a 96 mila diminuito
di 36 mila, ossia 60 mila, realizzandosi l'intera capienza
di 60 mila euro per la spesa successiva al 25.06.2012.
Ciò posto come principio, l'estensione delle regole più
favorevoli a tutto il 2013 obbliga ad effettuare precise
scelte di convenienza. Ad esempio, se il soggetto in
questione ha già speso altri 40 mila euro a gennaio 2013 per
il medesimo lavoro, allora conviene detrarre solo i 60 mila
euro per il 2012, rinunciare ai 36 mila euro che fruirebbero
della detrazione del 36% e conservare tale capienza
residuale per i lavori del 2013, fruibili a decorrere di
Unico 2014, ma con una detrazione innalzata al 50%: in
sostanza, tale comportamento permette di recuperare la
detrazione effettiva pari al 14% di 36 mila euro
(articolo ItaliaOggi del 04.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
pacchetto del 65% pavimenti, finestre, caldaie.
In caso di ristrutturazioni «importanti» l'eco-bonus del 65%
spetterà fino a fine dicembre 2014; compresa, oltre a
interventi per isolamento pavimenti, coperture e pareti
perimetrali, anche l'installazione di finestre e di caldaie
a condensazione.
È quanto previsto nelle nuove norme sui
cosiddetti «eco-bonus» di cui all'articolo 14 del
decreto-legge approvato dal consiglio dei ministri che
prevede la proroga fine 2013 degli incentivi per le spese
documentate per interventi su edifici esistenti (fra cui
anche le parti comuni degli edifici condominiali e le parti
di edifici o unità immobiliari esistenti) che passano dal 55
al 65%.
Si dovrà trattare di interventi che abbiano ad
oggetto l'isolamento di strutture opache verticali,
strutture opache orizzontali e l'installazione di finestre
comprensive di infissi, che delimitino lo spazio interno da
uno spazio esterno o non climatizzato. La detrazione sarà
estesa, invece, fino alla fine del 2014 laddove si tratti di
interventi dello stesso tipo (e con l'aggiunta delle
installazione delle caldaie a condensazione), ma con in più
l'elemento della «ristrutturazione importante» dell'intero
edificio.
A tale proposito è lo stesso decreto a precisare
cosa si debba intendere per «ristrutturazione importante»:
deve trattarsi di i lavori in qualunque modo denominati (ad
esempio lavori di manutenzione ordinaria o straordinaria,
lavori di ristrutturazione e di risanamento conservativo)
che insistono su oltre il 25% della superficie
dell'involucro dell'intero edificio, comprensivo di tutte le
unità immobiliari che lo costituiscono. Si tratta quindi, a
titolo esemplificativo e non esaustivo, del rifacimento di
pareti esterne, di intonaci esterni, del tetto o
dell'impermeabilizzazione delle coperture. Sono le tabelle A
e B dell'Allegato 1 al decreto-legge a definire nuovi
«tetti» massimi alla spesa detraibile e, soprattutto, a
indicare i parametri di «costo unitario massimo» ammissibile
per tipo di intervento.
Lo scopo, si legge nella relazione
tecnica, è quello di tenere sotto controllo gli oneri ed
evitare traslazioni indebite dell'incentivo sui prezzi di
mercato. Per gli interventi sulle strutture opache
orizzontali (isolamento pavimenti, coperture e pareti
perimetrali) come requisiti tecnici si confermano i
cosiddetti «valori di trasmittanza» del decreto Mise del 28
dicembre 2012 e si prevede un valore massimo detraibile di
400.000 euro con costi unitari massimi di 200 euro/mc per
l'isolamento delle coperture e di 120 euro/mc per gli altri
due tipi di intervento. Per le finestre e gli infissi,
quando installate insieme a sistemi di termoregolazione o
quando comunque ci siano già questi sistemi (o valvole
termostatiche) variano i «valori di trasmittanza» a seconda
delle regioni, mentre è comune il tetto massimo (180 mila
euro) e il costo unitario è di 400 euro/mc.
I valori di
costo massimi introdotti garantiscono, secondo le stime del
Governo, interventi in edifici di media grandezza,
costituiti da un numero variabile tra 25 e 35 unità
immobiliari indipendenti. Per le caldaie a condensazione, se
di potenza inferiore a 35 kW la detrazione massima è di 4
mila euro, con un costo unitario di 120/euro/kWt, mentre per
le caldaie dio potenza superiore a 35kW il valore massimo di
detrazione è di 60 mila euro con un costo unitario massimo
di 100/euro/ kWt
(articolo ItaliaOggi del 04.06.2013). |
VARI: Codice
strada. Circolare Motorizzazione.
Carrelli elevatori vietati su strada.
CONSEGUENZE ARRETRATE/
Le norme sono cambiate dal 22.08.2008: potrebbero
cambiare le responsabilità su incidenti del passato.
Le imprese che utilizzano carrelli elevatori per carico e
scarico di merci fuori dai loro piazzali sono fuori legge.
Lo ha chiarito, a sorpresa, la Motorizzazione, con la
circolare 24.04.2013 n. 4041/Segr/DGT, di cui si è
avuta notizia soltanto in questi giorni. Ciò potrebbe anche
avere ripercussioni nella determinazione di responsabilità e
risarcimenti relativi a incidenti (anche sul lavoro)
avvenuti negli anni scorsi.
Infatti, la circolare del 24 aprile si esprime su una realtà
che dovrebbe essere acquisita dal 2008, ma che in realtà
finora è stata sostanzialmente ignorata.
Tutto nasce con la legge 39/1982, con cui 31 anni fa veniva
ammessa la circolazione saltuaria su strade aperte al
traffico anche per le macchine operatrici non immatricolate.
Il decreto ministeriale del 28.12.1989 dava attuazione
a tale previsione, fissando le cautele da adottare affinché
anche questi veicoli potessero essere utilizzati su strade
aperte al traffico. Poi però la legge 39/1982 è stata superata
dal Dl 112/2008, che di fatto avrebbe reso necessario un nuovo
Dm. In mancanza di esso, secondo la Motorizzazione, quello
del 28.12.1989 è da ritenersi anch'esso superato e
quindi non più applicabile.
Il risultato finale è che si applicano le regole generali
del Codice della strada. In particolare, c'è il comma 2
dell'articolo 114, che per la circolazione su strada delle
macchine operatrici prescrive l'obbligo di immatricolazione,
senza distinguere o prevedere eccezioni.
La circolazione senza targa non è un fenomeno raro: basta
pensare a cosa accade nei depositi e nei magazzini in cui il
carico e lo scarico delle merci avvengono da o verso
autocarri parcheggiati in aree aperte al traffico. Peraltro,
durante queste operazioni avvengono incidenti, che possono
coinvolgere sia gli addetti sia semplici passanti.
Alla luce della circolare del 24 aprile, potrebbero essere
riesaminati i sinistri accaduti dal 22.08.2008, data di
entrata in vigore del Dl 112/2008: da quel giorno l'utilizzo
dei carrelli non immatricolati non era più permesso, anche
se all'epoca non se n'era accorto nessuno
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.06.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
I nuovi illeciti. La relazione del massimario.
Reato di induzione: non serve l'incasso.
Il nuovo reato di «induzione a dare o promettere utilità»
–previsto dalla legge anticorruzione– scatta anche se non è
stato consegnato nulla all'agente pubblico.
Lo ha evidenziato l'ufficio del massimario della Cassazione
nella relazione 19 del 03.05.2013. Questa interpretazione,
dato che il delitto in questione rappresenta uno dei nuovi
reati-fonte per la responsabilità amministrativa delle
società, può avere riflessi anche sulla predisposizione e
l'aggiornamento dei modelli organizzativi societari in base
al decreto legislativo 231/2001.
La legge 190 del 2012 ha modificato vari articoli del Codice
penale contenuti nel titolo dedicato ai «Delitti contro
la pubblica amministrazione». Si tratta, tra l'altro,
dei delitti di corruzione, peculato e concussione.
In particolare, la fattispecie di concussione prevista in
precedenza dall'articolo 317 del Codice penale sanzionava la
condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un
pubblico servizio, il quale, abusando della sua qualità o
dei suoi poteri, costringeva o induceva taluno a dare o a
promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra
utilità.
Ora, la legge anticorruzione ha eliminato la concussione per
induzione, mantenendo solo quella per costrizione. L'attuale
articolo 317 del Codice penale, quindi, punisce, con una
pena maggiore nel minimo di quella precedente (passa da 4 a
6 anni), il pubblico ufficiale, e non più anche l'incaricato
di un pubblico servizio, che, abusando della sua qualità o
dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere
indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità.
La condotta di induzione, però, non è stata del tutto
eliminata. Infatti il nuovo articolo 319-quater («Induzione
indebita a dare o promettere utilità») sanziona, con la
pena della reclusione da tre a otto anni, salvo che il fatto
non costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o
l'incaricato di un pubblico servizio che, abusando della
loro qualità o dei loro poteri, inducono taluno a dare o
promettere indebitamente, a loro stessi o a un altro, denaro
o altra utilità. Peraltro, questa norma non punisce solo il
soggetto che "induce" ma anche il soggetto "indotto",
ovvero chi dà o promette il denaro o altra utilità.
Quest'ultimo potrà incorrere nella pena della reclusione
fino a tre anni.
Con la relazione 19 del 2013, l'ufficio del massimario,
della Cassazione ha approfondito, tra l'altro, il tema del
momento in cui questo delitto viene consumato. Esso è stato
individuato nell'accoglimento da parte del terzo della
richiesta del pubblico agente, anche con la sola promessa da
parte dell'indotto. A nulla rileva la circostanza che,
subito dopo la promessa, il privato si sia rivolto alla
polizia perché la consegna dell'utilità avvenga sotto il
controllo di essa o che la promessa sia stata fatta con la
riserva mentale, fin dall'inizio, di non volere poi
effettuare la dazione.
Dato che questa fattispecie rappresenta anche un nuovo
reato-fonte per la responsabilità amministrativa degli enti
appare opportuno –soprattutto per le società che
intrattengono rapporti quotidiani e costanti con la pubblica
amministrazione– aggiornare i modelli organizzativi, per
monitorare tutti i processi aziendali in cui sia
prevedibile, anche astrattamente, una simile condotta. Ciò
al fine di prevedere un sistema idoneo a prevenire la
commissione dell'illecito ed evitare così le gravi sanzioni
che scatterebbero per l'impresa se i manager dovessero
commettere il nuovo delitto (articolo
Il Sole 24 Ore del 03.06.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sui lavori in corso c'è la chance del 65%.
L'elemento decisivo per ottenere il maggior beneficio è
rappresentato dalla data di effettuazione della spesa.
Detrazione del 50% sugli interventi edilizi prorogata fino
al 31 dicembre di quest'anno. Bonus per il risparmio
energetico in edilizia aumentato dal 55 al 65% fino alla
stessa data per gli interventi sulle singole unità
immobiliari e fino al 30.06.2014 in ambito condominiale.
Richiamando le norme esistenti che disciplinavano le
detrazioni fiscali sull'efficienza energetica, il
provvedimento varato venerdì scorso dal Governo rinnova e
innalza il bonus per la sostituzione di finestre, infissi,
coperture, pavimenti, pannelli solari per la produzione di
acqua calda, impianti di climatizzazione invernale e così
via. Restano invece espressamente escluse dalla proroga le
opere per la sostituzione di impianti di riscaldamento con
pompe di calore e la sostituzione di scalda-acqua
tradizionali.
Più tempo in condominio
Per i lavori sulle parti comuni condominiali –come facciate,
tetti e caldaie– la detrazione si applica per sei mesi in
più rispetto a quanto accade per gli immobili con un unico
proprietario fino al 30.06.2014. Una scelta chiaramente
ispirata dalla volontà di lasciare il tempo di discutere e
approvare in assemblea di condominio la decisione sui
lavori.
Tra l'altro, le maggioranze per la deliberazione degli
interventi finalizzati al risparmio energetico verranno
modificate dalla legge di riforma del condominio, in vigore
a partire dal prossimo 18 giugno. In particolare, in seconda
convocazione viene previsto un quorum "leggero" di 334
millesimi e metà più uno degli intervenuti in assemblea per
dare il via libera agli interventi finalizzati al risparmio
energetico che siano consigliati da una diagnosi o da una
certificazione energetica. Senza questo documento tecnico
–comunque decisamente consigliabile– i millesimi necessari a
decidere salgono invece a 500. Peraltro, la stessa riforma
interviene nella legge n. 10/1991 imponendo sempre il quorum
"pesante" di 500 millesimi e metà più uno degli intervenuti
per deliberare i lavori di termoregolazione e
contabilizzazione del calore.
Data e bonifico: la scelta
Dalla lettura della nuova norma, pare di comprendere che
l'elemento discriminante per il maggior beneficio, sia la
spesa effettuata, a nulla rilevando la data di effettivo
inizio delle opere. Tanto più che nel testo varato venerdì
scorso, ad eccezione dell'esclusione prima indicata per i
lavori diretti all'efficienza energetica, non sono
modificate le soglie già previste e la tipologia di
intervento per le quali è possibile sfruttare il beneficio.
Da ciò consegue che al contribuente potrebbe convenire
posticipare i pagamenti all'impresa fino alla data del
01.07.2013, così da poter portare in detrazione somme
maggiori.
Tra l'altro è verosimile, salvo chiarimenti in senso
contrario, che in sede di dichiarazione annuale si possa
decidere quali bonifici utilizzare ai fini della detrazione.
Si pensi ad esempio a un soggetto che abbia iniziato un
intervento a gennaio 2013 e lo abbia ultimato a settembre.
Fermo restando il limite massimo di spesa previsto, in sede
di dichiarazione annuale, questo contribuente potrebbe
scegliere di indicare nella propria dichiarazione i bonifici
effettuati dopo il 1° luglio, così da poter massimizzare la
detrazione.
Va dett0, però, che questo caso sarà piuttosto raro, dal
momento che l'importo medio della spesa è ben al di sotto
del livello massimo. Inoltre, chi dovesse arrivare al limite
massimo di spesa dovrebbe valutare attentamente la propria
capienza fiscale, per non trovarsi ad avere una detrazione
più alta dell'imposta lorda, perdendo così parte del
beneficio.
Vale la pena ricordare che l'agevolazione del 55-65% spetta
anche ai soggetti Ires, i quali dovranno dare evidenza delle
spesa nel modello Unico presentato.
Lo sconto del 50%
Per le ristrutturazioni troveranno ancora applicazione le
disposizioni introdotte il 26.06.2012, che prevedevano una
detrazione nella misura del 50% fino ad un limite di spesa
di 96mila euro. In questo caso, si tratta di una mera
proroga di una disposizione già in corso: nel 2012, infatti,
con il Dl 83 si era già innalzata la soglia massima di spesa
da 48mila euro a 96mila euro aumentando, contestualmente
anche la percentuale di detrazione dal 36% al 50 per cento.
Ora, si potranno considerare tutti i bonifici effettuati
sino al 31.12.2013.
Nel perimetro dei lavori agevolati rientrano le opere di
ristrutturazione e manutenzione straordinaria degli edifici
residenziali esistenti, oltre che gli acquisti di box
pertinenziali all'abitazione, compresa la manutenzione
ordinaria sulle parti comuni degli edifici condominiali (articolo
Il Sole 24 Ore del 03.06.2013 - tratto da
www.fiscooggi.it). |
TRIBUTI:
Imu in slalom tra le eccezioni.
Le variazioni relative all'immobile incidono sull'importo.
Scade il 17 giugno il termine per il
versamento dell'acconto 2013: guida ai calcoli.
Scade lunedì 17 giugno il termine per il versamento
dell'acconto relativo all'Imu 2013 e per molti contribuenti
(cittadini e imprese) le modalità di calcolo sono ancora un
rebus. La regola generale, stabilita nella legge di
conversione del dl 35/2013, è che l'importo della prima rata
è pari alla metà dell'imposta dovuta per l'anno precedente,
ma è una regola che conosce non poche eccezioni.
La prima riguarda coloro che avessero già adempiuto
all'obbligo applicando le aliquote stabilite dal comune e
pubblicate sul sito del Mef entro il 16 maggio (secondo la
disciplina dettata dalla versione originaria del dl 35): in
tali casi, il pagamento già effettuato rimane valido.
Tale modalità di calcolo, tuttavia, non sarà più ammessa
dopo che il dl 35 (il cosiddetto decreto sblocca debiti
delle p.a.) sarà stato convertito.
Dal pagamento dell'acconto sono ovviamente esclusi i
titolari degli immobili che beneficiano della sospensione
disposta dal dl 54/2013, ovvero abitazioni principali (ad
eccezione di quelle accatastate in A1, A8 e A9), case
popolari appartenenti a Iacp e cooperative edilizie a
proprietà indivisa, terreni agricoli e fabbricati rurali
strumentali. Anche in tali casi, tuttavia, possono insorgere
complicazioni, laddove la situazione immobiliare sia variata
nel corso di quest'anno. Per esempio, per l'immobile già
posseduto lo scorso anno e divenuto prima casa solo a fine
aprile 2013, occorrerà comunque versare un'Imu pari ai 4/12
(e quindi un acconto pari a 2/12) di quella versata nel
2012.
Ciò in quanto, come chiarito dalla circolare del
dipartimento delle finanze n. 2/2013, il riferimento
all'anno precedente vale solo per le aliquote e le
detrazioni, ma non anche per gli altri elementi relativi al
tributo, quali il presupposto impositivo e la base
imponibile, per i quali, invece, si dive fare riferimento
esclusivamente al 2013.
La stessa circolare propone alcuni esempi pratici. Il primo
caso è analogo a quello già richiamato: se un immobile dal
01.01.2013 è divenuto prima casa, il versamento della
prima rata dell'Imu è sospeso. Viceversa, nel caso opposto
di un immobile che quest'anno (a differenza del 2012) non è
più adibito ad abitazione principale, l'acconto dovrà essere
calcolato applicando l'aliquota prevista lo scorso anno per
le seconde case.
Analogamente, nel caso in cui il contribuente possiede
un'area fabbricabile che, nel 2013, è divenuta terreno
agricolo, il versamento di giugno è sospeso. Se invece un
terreno agricolo è divenuto da quest'anno area edificabile,
esso sarà soggetto a imposizione e, conseguentemente, la
prima rata dovrà essere calcolata applicando l'aliquota
prevista per il 2012.
Lo stesso ragionamento si applica ai fabbricati
inagibili/inabitabili, per i quali la normativa Imu prevede
il dimezzamento della base imponibile limitatamente ai mesi
dell'anno in cui tale condizione si protrae: ciò che conta è
lo stato attuale dell'immobile, per cui il venire meno
dell'inagibilità/inabitabilità eventualmente sussistente nel
2012 determina l'insorgenza dell'obbligo di pagare
l'aliquota prevista dell'anno scorso sull'intero valore.
La sospensione dell'acconto riguarda anche le pertinenze
delle abitazioni principali richiamate dal dl 54, ma
limitatamente a quelle che beneficiano dello stesso regime
agevolato previsto per la prima casa.
Quest'ultimo, come noto, può estendersi a un massimo di tre
unità, di cui non più di una accatastata in C2 (soffitte,
cantine e magazzini), una in C6 (autorimesse) e una in C7
(tettoie e posti auto). Sulle altre eventuali pertinenze l'Imu
va pagata applicando le aliquote 2012 e i relativi titolari
devono presentarsi alla cassa già a giugno.
La prima rata è congelata anche per gli immobili assimilati
dai comuni alle abitazioni principali, ovvero ai fabbricati
degli anziani ricoverati in case di riposo e dei residenti
all'estero. Ciò sia nel caso in cui l'assimilazione sia
avvenuta nel 2013, sia in quello in cui la stessa sia stata
disposta nel 2012 e non sia stata modificata.
Della sospensione può beneficiare anche il coniuge separato
non assegnatario dell'ex casa coniugale relativamente
all'immobile eventualmente adibito ad abitazione principale.
Anche in tal caso, l'acconto di giugno non è dovuto.
Ovviamente, come già detto, occorre prestare attenzione ai
cambiamenti intervenuti in corso d'anno, rapportando il
calcolo ai mesi e alla tipologia di possesso. Anche al
riguardo, la circolare offre alcune esemplificazioni. Un
contribuente che abbia venduto il proprio immobile (non
destinato ad abitazione principale) il 28.03.2013, dovrà
versare l'Imu (e quindi il relativo acconto) commisurandolo
ai 3/12 dell'importo calcolato sulla base dell'aliquota dei
dodici mesi dell'anno precedente. Al contrario, chi ha
acquistato una seconda casa il 1° ottobre scorso dovrà
calcolare l'Imu dovuta per l'anno 2013 (a partire dalla
prima rata) sulla base dell'aliquota 2012, indipendentemente
dalla circostanza che in tale anno abbia avuto il possesso
per soli tre mesi (articolo
ItaliaOggi Sette del 03.06.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: L'eco-burocrazia è semplificata.
Il titolo dello Suap legittimerà emissioni e gestione
rifiuti. Operativa dal 13 giugno la
nuova procedura di Autorizzazione ambientale unica.
Potranno essere presentate a partire dal prossimo 13.06.2013 ai competenti sportelli unici per le attività
produttive (Suap) le domande per ottenere la tanto attesa
autorizzazione unica ambientale, ossia il provvedimento che
raccoglie in un unico documento le licenze per emettere
inquinanti in aria, acqua e suolo e per gestire i rifiuti
prodotti.
Con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del
29.05.2013 (S.o. n. 42) del dpr 13.03.2013 n. 59 ha,
infatti, acquistato tempi certi l'operatività del nuovo
istituto modellato sulla falsariga della (più sofisticata)
autorizzazione integrata ambientale e dedicato sia alle
piccole e medie imprese sia alle industrie a ridotto impatto
sull'ecosistema.
Soggetti interessati. Ad accedere al nuovo istituto saranno
in particolare tre categorie: le piccole e medie imprese
rientranti nei parametri disegnati dal dm 18.04.2005; le
imprese non soggette alla (citata) autorizzazione integrata
ambientale; le imprese obbligate a valutazione di impatto
ambientale «parziale» (ossia da integrare con altri e
necessari atti autorizzatori).
Titoli unificabili. A geometria variabile il novero dei
titoli ambientali condensabili nell'autorizzazione unica.
Regioni e province autonome avranno, infatti, la facoltà di
aggiungere ulteriori titoli al novero dei sette
provvedimenti «base» che il dpr 59/2013 indica come
concentrabili nell'autorizzazione unica ambientale, ossia:
autorizzazione allo scarico nelle acque ex Dlgs 152/2006
(c.d. «Codice ambientale»); comunicazione preventiva per
utilizzo agronomico di effluenti di allevamento, acque di
vegetazione di frantoi oleari, acque reflue da parte di
aziende del settore ex dlgs 152/2006; autorizzazione alle
emissioni in atmosfera per gli stabilimenti produttivi ex
dlgs 152/2006; autorizzazione generale per le emissioni
«scarsamente rilevanti» in aria ex dlgs 152/2006; nulla osta
alle emissioni sonore ex legge 447/1995 da parte degli
impianti produttivi, sportivi, ricreativi commerciali;
autorizzazione per utilizzo fanghi da depurazione in
agricoltura ex dlgs 99/1992; comunicazione per
auto-smaltimento e/o recupero rifiuti in procedura
semplificata ex dlgs 152/2006.
Obbligo della procedura. Il ricorso all'autorizzazione unica
ambientale costituirà un obbligo per le imprese interessate
al rilascio anche di uno solo dei titoli ambientali previsti
dal dpr 59/2013, mentre costituirà una mera facoltà (fermo
restando, però, l'obbligo di rivolgersi comunque al Suap)
per quelle che dovranno ottenere unicamente la citata
autorizzazione generale alle emissioni o effettuare una mera
«comunicazione ambientale».
Iter e costi. Oltre alla domanda, unica sarà (come
accennato) anche l'interfaccia con l'impresa istante. Il
rilascio dell'Aua andrà infatti chiesto allo Sportello unico
delle attività produttive (Suap) del comune in cui è
collocato l'impianto interessato. Nell'immediato corredando
l'istanza di tutti i documenti, le dichiarazioni e le altre
attestazioni previste dalla vigente normativa ambientale, in
futuro utilizzando invece il «modello semplificato e
unificato» di domanda che il MinAmbiente dovrà predisporre
in attuazione del nuovo dpr 59/2013. Il costo massimo
dell'istruttoria non potrà essere superiore alla somma dei
singoli tributi previsti per i diversi provvedimenti
ambientali e l'autorizzazione sarà rilasciata entro un
termine «standard» compreso (in base alla complessità del
procedimento) tra 90 e 120 giorni.
Rinnovo titoli e modifiche impianti. Il rinnovo dell'Aua
dovrà essere richiesto allo stesso Suap almeno sei mesi
prima della scadenza a pena della sospensione dell'attività.
Rispettato tale termine, l'istante potrà proseguire
l'attività fino al rilascio del provvedimento di rinnovo.
Ancora, una domanda analoga a quella di prima autorizzazione
dovrà essere inoltrata allo stesso sportello nel caso di
«modifiche sostanziali», ossia di variazioni ad attività o
impianti considerate tali dalle norme ambientali di
riferimento. Per le «semplici modifiche» sarà invece
sufficiente una semplice comunicazione (disciplinata dal
meccanismo del «silenzio-assenso») indirizzata direttamente
all'Autorità territorialmente competente per il particolare
tipo di autorizzazione sottesa.
Regime transitorio.
La nuova disciplina varrà unicamente per le domande di
autorizzazione presentate dal 13.06.2013. Alle domande
presentate prima di tale data si continuerà invece ad
applicare la disciplina di genesi, così come alle
autorizzazioni già rilasciate nello stesso termine, che
dovranno essere rinnovate in base al nuovo regime solo dopo
la loro naturale scadenza (articolo ItaliaOggi
Sette del 03.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Energia, efficienza da contratto.
Riscaldamento senza sprechi e chiarezza nei prezzi.
Regolamentazione standard per le relazioni con i
fornitori redatta dalla Cciaa di Milano
Stop allo spreco di energia per il riscaldamento e la
produzione di acqua calda sanitaria. Diventa, infatti, un
onere dell'impresa sorvegliare costantemente l'efficienza
dell'impianto nel rispetto dell'ambiente, pena l'addebito
dei maggiori costi energetici rilevati alla fine
dell'esercizio annuale (salvo che la stessa riesca a
giustificarli con oggettive argomentazioni tecniche).
È uno
dei passaggi più significativi del contratto tipo per il
servizio di energia (Cse) messo a punto da un tavolo di
lavoro organizzato dalla Camera di commercio di Milano e che
ha visto la partecipazione delle principali associazioni di
categoria e delle associazioni dei consumatori.
Il documento
si propone come utile strumento di confronto per i
proprietari di casa e gli amministratori condominiali che
debbano individuare sul mercato un'impresa cui assegnare il
servizio di riscaldamento/raffrescamento degli immobili e
stilare pertanto il relativo contratto.
Il ruolo svolto dalla Camera di commercio. Per favorire le
condizioni di equilibrio in un settore tecnicamente
complesso come è quello dei servizi energetici, la Cciaa
meneghina, su sollecitazione delle imprese, ha istituito un
tavolo di lavoro con le più importanti associazioni di
categoria e con le associazioni dei consumatori. Frutto di
questo lavoro è un contratto tipo che potrà fungere da punto
di riferimento per regolare le operazioni contrattuali tra
imprese e consumatori.
Il contratto tipo è stato redatto alla luce delle novità
introdotte dal dlgs n. 115/2008 che, in attuazione della
direttiva comunitaria n. 226/32/Ce, ha introdotto
nell'ordinamento i principi di efficienza energetica e
rispetto dell'ambiente nella gestione degli impianti di
riscaldamento per le abitazioni private e le aziende,
determinando i fabbisogni di energia primaria per la
climatizzazione invernale/estiva e per la produzione di
acqua calda sanitaria per gli edifici. Il contratto tipo,
nelle due versioni base e plus, è consultabile sul sito
internet della Camera di commercio, all'indirizzo
www.mi.camcom.it.
Il contratto tipo messo a punto dalla Cciaa milanese. Il
contratto tipo si compone di una parte relativa alle
condizioni generali e di una nella quale sono invece
riportate le condizioni particolari. Ecco i punti
principali:
a) attenzione alla scelta dell'impresa. Per operare in
questo settore è necessario che l'impresa sia in possesso
dell'abilitazione professionale all'esecuzione del contratto
di erogazione dei servizi di energia richiesta dal dlgs n.
115/2008, la quale deve essere comprovata con l'esibizione
(e l'allegazione al contratto) di specifica certificazione
rilasciata dalla medesima Camera di commercio. È inoltre
necessario possedere i requisiti e quindi attestare
l'idoneità ad assumere la qualifica e la mansione di terzo
responsabile dell'esercizio e della manutenzione
dell'impianto ai sensi del dpr 412/1993;
b) che cosa è compreso nel servizio energia che forma
oggetto del contratto? Con la stipula del contratto
l'impresa si obbliga a fornire al proprietario dell'immobile
una serie di interventi di adeguamento normativo e/o di
riqualificazione funzionale degli impianti e la fornitura di
servizi energetici con sistema di contabilizzazione a
megawattora (MWh) che, nell'osservanza dei criteri dettati
dal dlgs n. 115/2008, dovranno consentire la gestione
ottimale dell'impianto e il miglioramento del processo di
trasformazione e utilizzo dell'energia. L'impresa sarà
inizialmente tenuta anche a verificare la validità e
l'efficacia dell'attestato di certificazione energetica
dell'impianto e, ove questo manchi, a eseguire le attività
necessarie per ottenere l'emissione di un valido attestato;
c) basta con lo spreco di energia. Il nuovo impianto di
riscaldamento/affrescamento dell'immobile, in adempimento
alle prescrizioni del dlgs n. 115/2008, deve condurre a un
contenimento dell'utilizzo di energia. Viene quindi
contrattualmente stabilito che la quantità massima di
energia termica erogata consuntivata a fine esercizio non
potrà risultare superiore al valore risultante dalla
sommatoria del fabbisogno presunto di energia termica,
revisionato in modo proporzionale al variare dei gradi
giorno utilizzati, dei giorni di funzionamento dell'impianto
e degli orari, somma finale maggiorata però di un'alea
tecnica del 10% (si vedano le tabelle A e B). È importante
evidenziare come eventuali eccedenze di consumo energetico
che l'impresa non riesca a giustificare con oggettive
argomentazioni tecniche rimarranno per contratto a carico
della stessa;
d) prezzi chiari e trasparenti. Il contratto tipo
messo a punto dal tavolo di lavoro istituito dalla Camera di
commercio di Milano propone di pattuire distintamente i
costi dei singoli servizi che l'impresa è chiamata a
garantire per le opere di riqualificazione impiantistica,
riassumendoli in un'apposita tabella (si veda la tabella C).
Gli stessi criteri di trasparenza valgono poi per il
corrispettivo dovuto a fronte del servizio di
climatizzazione invernale/estiva e per la produzione di
acqua calda (si veda la tabella D) (articolo
ItaliaOggi Sette del 03.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'edilizia diventa trasparente.
Accesso civico per i permessi di costruire e gli abusi.
Il nuovo strumento introdotto dal dlgs 33/2013 comporta
anche la diffusione online.
Accesso civico per i permessi di costruire e per gli abusi
edilizi: tutte informazioni che devono andare anche online.
Il nuovo strumento di trasparenza per la pubblica
amministrazione (introdotto dal
D.Lgs. 14.03.2013 n. 33) comporta sia
l'obbligo di diffusione dei dati in rete, sia, in caso di
dimenticanza dell'ufficio pubblico, la pubblicazione dei
dati a richiesta di chiunque.
Deve, comunque, trattarsi di dati per cui una norma prevede
l'obbligo di pubblicazione. E questo restringe di molto le
possibilità di accesso civico. In ogni caso, l'accesso
civico impone di fare una ricognizione di tutte le
specifiche disposizioni in cui è previsto un obbligo di
pubblicazione. Attenzione, però, al fatto che una volta
reperita una disposizione che contiene un obbligo di
pubblicazione, bisogna raccordare questa disposizione con lo
stesso decreto legislativo 33/2013, che prevede limiti
generali (articolo 4) e specifici alla diffusione, e anche
con le specifiche disposizioni di legge che vietano la
diffusione. Anche questo restringe il campo di applicazione
dell'accesso civico, che serve, in sostanza, per sopperire a
dimenticanze e per sanzionare il funzionario negligente.
La regola di partenza è, comunque, la possibilità di
diffondere attraverso internet documenti, informazioni e
dati per cui la legge prevede l'obbligo di pubblicazione,
con la eccezione dei dati sensibili e dei dati giudiziari
(articolo 4, comma 1). Su questo punto sono due le novità:
la prima riguarda la dichiarazione formale dell'abilitazione
a pubblicare in rete le informazioni a diffusione
obbligatoria; la seconda novità riguarda l'estensione del
divieto di diffusione a tutti a dati sensibili e giudiziari.
Quest'ultimo divieto era previsto per i dati sanitari
dall'articolo 22 del codice della privacy; ora l'articolo 4
del decreto 33/2013 consente la diffusione dei dati
attraverso siti istituzionali dell'ente pubblico solo in
caso di obbligo di pubblicazione dei dati personali diversi
dai dati sensibili e dai dati giudiziari.
Quindi, l'obbligo di pubblicazione significa anche
diffusione online, salvo eccezioni. Tra le deroghe più
importanti c'è il divieto di pubblicazione dei dati
identificativi delle persone fisiche destinatarie di
benefici economici, qualora da tali dati sia possibile
ricavare informazioni relative allo stato di salute ovvero
alla situazione di disagio economico-sociale degli
interessati (art. 26). Come si può notare chi riceve un
sussidio sociale non deve essere nominato nell'atto da
pubblicare; inoltre devono essere omessi non solo dati
sensibili e giudiziari, ma anche dati ordinari, se
descrivono uno stato di disagio sociale (livello culturale,
economico, curriculum scolastico ecc.).
Il decreto 33/2013 si occupa, poi, del caso in cui la
pubblica amministrazione ometta la pubblicazione, nonostante
sia obbligatoria. A questo proposito scatta l'accesso
civico. Accesso, che in effetti, vuole rimediare alla
negligenza dell'amministrazione, ma che riguarda solo atti e
informazioni a pubblicazione obbligatoria. Per gli altri
atti rimane sempre la possibilità di acceso ai sensi
dell'articolo 22 della legge 241/1990.
Ad esempio si può prendere l'articolo 10 del Testo unico per
l'edilizia (dpr 380/2001), in cui si legge che «dell'avvenuto
rilascio del permesso di costruire è data notizia al
pubblico mediante affissione all'albo pretorio». Oppure
si può richiamare l'articolo 31, sempre del Testo unico per
l'edilizia, che prescrive la pubblicazione mensile dei dati
relativi agli immobili e alle opere realizzati abusivamente
e delle relative ordinanze di sospensione. In caso di
omissione scatta il diritto di accesso civico e, quindi,
l'obbligo di pubblicazione tardiva.
È chiaro che chi chiede l'accesso civico deve avere notizia
dell'atto non diffuso e non può fare richiesta esplorative
(alla ricerca di eventuali atti di cui sia stata omessa la
pubblicazione). L'obiettivo di chi fa l'istanza sarà,
dunque, di poter ottenere la conoscenza generalizzata
dell'atto e di attivare le sanzioni disciplinari contro il
funzionario pubblico che ha violato l'obbligo di trasparenza (articolo
ItaliaOggi Sette del 03.06.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Apre il registro del conto termico.
Da oggi si possono inoltrare in via telematica le prime
richieste di contributo.
Il conto alla rovescia è terminato. Da questa mattina, alle
9, apre la possibilità di iscrizione ai registri del conto
termico, un passaggio necessario per gli interventi di
sostituzione di impianti di climatizzazione invernale
esistenti con sistemi dotati di pompa di calore o di
generatori di calore alimentati a biomasse, con potenza
termica nominale complessiva superiore a 500 kW e fino a 1
MW.
È un primo step sulla strada dell'attuazione dell'intera
misura, che discende dal decreto dei ministeri dello
Sviluppo economico e dell'Ambiente del 28.12.2012,
pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale» del 02.01.2013.
L'intero conto termico, gestito dal Gse, mette infatti a
disposizione un tesoro di 900 milioni annui (700 per i
privati e il resto riservato alla Pa) per il sostegno
economico dei piccoli interventi di miglioramento energetico
degli immobili.
Per quanto riguarda le opere che devono passare attraverso
l'iscrizione al registro, le risorse a disposizione sono di
7 milioni per la Pa e 23 per i privati: le domande dovranno
essere trasmesse sul Portaltermico per via telematica e
saranno aperte fino alle 21 del 01.08.2013.
Nelle prossime settimane, poi, per gli altri interventi, il
Gse renderà disponibile l'applicazione informatica anche per
la trasmissione delle richieste di prenotazione (riservate
alla Pa) e per l'accesso diretto agli incentivi (Pa e
privati). Ma vediamo come funziona l'intera misura, al di là
del primo passo operativo.
Che cosa è incentivato
Gli interventi ammessi al contributo sono di due categorie.
La prima, riservata all'uso della pubblica amministrazione,
comprende azioni per incrementare l'efficienza energetica di
edifici esistenti, come l'isolamento e la schermatura
solare, la sostituzione di infissi o di vecchi impianti per
la climatizzazione invernale con generatori a condensazione.
La seconda categoria, aperta ai privati, guarda ai piccoli
interventi di sostituzione di impianti obsoleti, sia per il
riscaldamento, sia per la produzione di acqua calda
sanitaria, con nuovi apparati alimentati da fonti
rinnovabili o tramite sistemi ad alta efficienza.
Chi può fare domanda
Il sostegno è aperto sia alle amministrazioni pubbliche sia
ai privati (persone fisiche, condomini o soggetti titolari
di reddito d'impresa o agrario). Il decreto prevede che a
inoltrare domanda e a stipulare il contratto con il Gse sia
il soggetto responsabile, cioè colui che ha sostenuto le
spese per l'efficientamento. Nel caso in cui i lavori siano
stati eseguiti con il supporto di una Esco (Energy service
company), è quest'ultima il soggetto responsabile.
L'ammontare degli incentivi
La somma annua a disposizione per il sostegno del conto
termico è di 900 milioni. Di questi, 200 milioni sono
destinati a coprire gli interventi di categoria 1 (Pa)
mentre 700 milioni andranno a incentivare le azioni comprese
nella categoria 2 (privati). Il rimborso sarà corrisposto
fino all'esaurimento dei fondi. Nel caso della Pa, la
copertura massima è fino al 40% delle spese sostenute,
compresa diagnosi e certificazione energetica. L'incidenza
del rimborso per i lavori effettuati da privati dipende
dalla taglia del generatore installato, dall'efficienza in
rapporto alla zona climatica in cui è inserito e da altri
coefficienti.
Le differenze con il passato
A differenza di altri meccanismi, come la detrazione
sull'imposta lorda del 50% e del 55% per chi ristruttura una
casa esistente o per chi fa efficienza, il conto termico
funziona in modo opposto. Non è infatti un recupero a
posteriori, ma prevede un rimborso su conto corrente, da
parte del Gse, di una parte delle spese sostenute, suddivisa
in rate annuali costanti, da un minimo di due anni, fino a
un massimo di cinque anni, a seconda del tipo di intervento.
Il meccanismo ricalca, in parte, quello del conto energia
usato per il solare fotovoltaico, anche perché tende a
premiare le soluzioni realmente produttive ed efficaci.
Cumulabilità
L'aiuto può essere assegnato solo a chi non accede ad altre
forme di sostegno statale (salvo fondi di garanzia, fondi di
rotazione o contributi in conto interesse). Per gli edifici
a uso pubblico, però, il conto termico è cumulabile con
incentivi in conto capitale (articolo
Il Sole 24 Ore del 03.06.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI
LOCALI:
Più aiuti ai Comuni in difficoltà.
Sessanta giorni per rivedere il piano di riequilibrio dopo
le anticipazioni dalla Cdp.
Sblocca-debiti. Superato il divieto di acquisto di immobili
e l'utilizzo degli oneri di urbanizzazione per la spesa
corrente.
Le novità in arrivo nella versione definitiva del decreto
sblocca-debiti (decreto legge 35/2013) -che sarà discusso
questo pomeriggio al Senato per poi tornare mercoledì alla
Camera- mostrano un occhio di favore per gli enti locali in
difficoltà, con una serie di interventi che introducono
novità e ripristinano vecchi strumenti di flessibilità del
bilancio.
Gli enti che hanno deliberato il ricorso alla procedura di
riequilibrio finanziario pluriennale (articolo 243-bis del
Dlgs 267/2000) e che hanno ottenuto l'anticipazione da parte
della Cdp il legislatore concede 60 giorni anziché 30 dalla
concessione, per modificare il piano di riequilibrio.
Sempre in tema di procedura anti-dissesto prevista dal
decreto legge 174/2012, è cancellata la sottocommissione del
Viminale, interna alla Commissione per la finanza e gli
organici degli enti locali, composta da rappresentanti dei
ministeri dell'Interno, del Tesoro e di Anci. I compiti di
istruttoria sul piano restano esclusivamente in capo al
ministero dell'Interno.
In tema di dissesto una nuova norma (articolo 250, comma 1,
del Dlgs 267/2000) prevede che nei casi in cui la
dichiarazione di dissesto sia adottata nel corso del secondo
semestre dell'esercizio finanziario, per il quale risulta
non essere stato ancora deliberato il bilancio di
previsione, o sia adottata nell'esercizio successivo, il
consiglio dell'ente locale presenti una ipotesi di bilancio
che garantisca l'effettivo riequilibrio entro il secondo
esercizio. L'ipotesi va presentata per l'approvazione al
ministero dell'Interno entro il termine perentorio di tre
mesi dalla data di emanazione del decreto di nomina
dell'organo straordinario di liquidazione.
Infine, in tema di vincoli di spesa arriva la norma di
interpretazione autentica per il divieto di acquistare
immobili a titolo oneroso (articolo 12, comma 1-quater, del
Dl 98/2011) per cui esso non si applica: alle procedure
relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni
effettuate per pubblica utilità; alle permute a parità di
prezzo; alle operazioni di acquisto programmate da delibere
di Consiglio assunte prima del 31.12.2012 che
individuano con esattezza i compendi immobiliari e alle
procedure relative a convenzioni urbanistiche previste dalle
normative regionali e provinciali.
Anche negli anni 2013 e 2014 i Comuni potranno poi
continuare a destinare alle spese correnti i proventi dalle
concessioni edilizie e dalle sanzioni. È stata infatti
estesa fino al 2014 la disciplina derogatoria in base alla
quale, dal 2008 al 2012, è stato possibile destinare fino al
50% degli oneri alla spesa corrente e un ulteriore 25% alle
manutenzioni ordinarie del verde, delle strade e del
patrimonio comunale (si veda Il Sole 24 del 1° giugno).
Gli enti locali possono chiedere di escludere dal Patto di
stabilità interno per l'anno 2013 anche i debiti di parte
capitale riconosciuti alla fine del 2012 oppure che avevano
i requisiti per il riconoscimento ai sensi della normativa
sui debiti fuori bilancio (articolo 194 del Dlgs 267/2000),
requisiti che sono certezza, liquidità e esigibilità
dell'obbligazione. Per gli enti inadempienti al Patto per il
2012, che non hanno rispettato i vincoli di finanza pubblica
per il pagamento dei debiti di parte capitale certi liquidi
ed esigibili a fine dicembre 2012, non si applica la
sanzione relativa al taglio delle risorse statali per la
parte imputabile ai suddetti pagamenti.
---------------
Le misure
01 | ANTI-DISSESTO
Sale da 30 a 60 giorni il tempo concesso per la revisione
dei piano di riequilibrio agli enti locali che hanno
deliberato il ricorso al fondo di riequilibrio e hanno anche
ottenuto anticipazioni dalla Cassa depositi e prestiti per
il pagamento dei debiti pregressi. Cancellata la
sottocommissione, l'istruttoria sui piani rimane in capo al
Viminale
02 | ENTI IN DEFAULT
Se il dissesto è dichiarato nel secondo semestre
dell'esercizio finanziario, e non è stato deliberato il
bilancio di previsione, l'ente deve elaborare un'ipotesi di
bilancio che garantisca l'effettivo riequilibrio entro il
secondo esercizio.
03 | ONERI CONCESSORI
Estesa fino al 2014 la possibilità di destinare fino al 50%
degli oneri di urbanizzazione alla spesa corrente, e un
ulteriore 25% alle manutenzioni ordinarie del verde, delle
strade e del patrimonio comunale
04 | SANZIONI
Esclusi dal taglio al fondo di solidarietà i Comuni che nel
2012 non hanno rispettato il Patto di stabilità per
effettuare il pagamento di debiti in conto capitale certi,
liquidi ed esigibili al 31.12.2012 (articolo Il
Sole 24 Ore del 03.06.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
I paradossi del decreto «anticorruzione».
Tutti incompatibili tranne i deputati.
Il Dlgs 39/2013 vieta gli incarichi a chi ha contratto il
"virus" della politica, e impone a chi la pratica un congruo
periodo di quarantena prima di avere un ruolo dirigenziale
in una Pa: un anno, se è stato amministratore delegato di
una Spa; due anni se è entrato in un consiglio comunale,
assai di più se ha preso una condanna per reati contro la Pa
(non importa, in quest'ultimo caso, se la condanna è non
definitiva o se si tratta di patteggiamento).
Sopra ogni cosa, il decreto punta a impedire che un politico
vada a svolgere attività di gestione, o che un dirigente
pubblico ambisca a fare politica, senza esitazioni o
sottigliezze: è un politico, ad esempio, anche l'ad o il
presidente di una società. Nominato, e quindi incompatibile
perfino col suo stesso ruolo e con ciò (secondo alcuni) non
riconfermabile neppure se ha svolto bene il suo compito, e
certo non nominabile in un'altra partecipata, non solo dal
Comune "untore" ma da qualsiasi ente della stessa regione.
Triste destino anche per i dirigenti delle società pubbliche
e per i pochi dirigenti comunali che si erano prestati alla
nomina per rispetto dell'articolo 4 della spending review.
Credevano di svolgere il loro dovere prestandosi a fare gli
amministratori con deleghe di gestione diretta delle aziende
controllate. Ingenui: il decreto li costringe a scegliere
tra mantenere il posto di lavoro o fare gli amministratori
di società.
Le incompatibilità e le inconferibilità colpiscono, come
detto, anche la politica (quella vera, quella degli eletti):
chi è stato amministratore provinciale o comunale o anche
semplice consigliere, per due anni non potrà essere nominato
in nessun ente partecipato da Province e Comuni della sua
regione. L'ex assessore o consigliere regionale avrà anche
lui la sua quarantena biennale, ma limitatamente alle nomine
di provenienza regionale. Colta la differenza? Se sei stato
assessore a Mirandola devi cercarti un posto in Lombardia a
meno che tu non abbia strette amicizie in Regione Emilia
Romagna (dove ti possono nominare), mentre se sei uscito dal
consiglio regionale puoi farti designare dal sindaco del tuo
Comune.
E che sanzione vi aspettereste per chi ha fatto il ministro
o il deputato? Semplice: assolutamente nulla. Potrà essere
tranquillamente nominato in una società nazionale, regionale
o comunale.
L'incompatibilità più divertente? Quella dell'articolo 8:
gli incarichi di direttore generale, direttore sanitario e
direttore amministrativo nelle Asl non possono essere dati a
coloro che nei «cinque anni precedenti siano stati candidati
in elezioni europee, nazionali, regionali e locali, in
territori che comprendano il territorio della Asl».
Candidati, non eletti: chi è stato eletto, si gode il
mandato e poi è pronto per fare il direttore generale della
Asl sotto casa (articolo Il
Sole 24 Ore del 03.06.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Paletti agli staff.
Assunzioni entro i limiti di spesa.
La Consulta boccia i tentativi di deroga del Piemonte.
Il carattere fiduciario degli uffici di diretta
collaborazione, se può autorizzare deroghe al principio del
concorso pubblico nella scelta dei collaboratori, non
consente eccezioni ai princìpi fondamentali dettati dalla
legge statale in materia di contenimento delle spese di
personale.
Con la
sentenza
07.06.2013 n. 130, depositata ieri in
cancelleria, la Corte costituzionale ha bacchettato la
regione Piemonte che con una legge del 2011 aveva tentato di
aggirare i rigidi paletti in materia di spese per il
personale fissati da Giulio Tremonti con il dl 78/2010.
Paletti che, pur non avendo immediata operatività nei
confronti delle regioni e degli enti locali, costituiscono
per le autonomie norme di principio a cui devono adeguarsi.
Si tratta in particolare del limite alle assunzioni parametrato sul 50% della spesa 2009 e al divieto di
assumere personale oltre il limite del 20% della spesa
corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente.
La
regione, con la legge n. 7/2011 finita nel mirino della
Consulta, aveva tentato di sottrarre dalle tenaglie della
manovra Tremonti non solo i contratti che non comportavano
un aggravio per il bilancio regionale, ma anche tutta una
serie di rapporti contrattuali di diritto privato. Dalle
assunzioni finanziate con fondi Ue agli uffici di diretta
collaborazione con gli organi politici (comunicazione,
portavoce, capo di gabinetto, oltre a svariate
professionalità esterne di supporto alla giunta e al
consiglio) fino alle sostituzioni di maternità negli enti
strumentali.
Ma tutte queste deroghe sono finite nel mirino
di palazzo Chigi che vi ha ravvisato un tentativo di
aggirare l'art. 117, terzo comma, della Costituzione che
affida la materia del coordinamento della finanza pubblica
alla competenza concorrente stato-regione, affidando
comunque allo stato il compito di dettare i princìpi
fondamentali a cui i governatori devono adeguarsi nelle
normative di dettaglio. La Consulta ha accolto le tesi del
governo, smontando punto per punto la legge piemontese. Le
assunzioni finanziate dall'Ue, per esempio, rientrano nei
tetti di spesa perché «immancabilnente, impongono un
contributo anche a carico dell'ente pubblico beneficiario».
Il limite del 20%, poi, all'epoca dei fatti era riferito
anche a tutti i tipi di contratti, anche a quelli a termine
(è stata la legge di stabilità 2012 ad aver limitato
l'ambito di applicazione della norma taglia-spese ai soli
contratti a tempo indeterminato). E quanto agli uffici di
diretta collaborazione, conclude la sentenza redatta da
Luigi Mazzella, «la particolare rilevanza del carattere
fiduciario, non consente deroghe ai princìpi fondamentali
dettati dal legislatore statale in materia di coordinamento
della finanza pubblica»
(articolo ItaliaOggi dell'08.06.2013). |
URBANISTICA:
Le scelte sottese alla pianificazione
urbanistica, al momento dell'adozione del piano regolatore
generale o di variante al medesimo, costituiscono
apprezzamenti di merito sottratti al sindacato
giurisdizionale, salvo che non siano affette da errori di
fatto o da abnormi illogicità: ciò implica –quale necessario
corollario– che trattandosi di scelte discrezionali in
merito alla destinazione di singole aree, queste non
necessitano di apposita motivazione oltre a quelle che si
possono evincere dai criteri generali, di ordine
tecnico-discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano
stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla
relazione di accompagnamento del progetto di Piano.
A quest’ultimo proposito possono affiorare casi di
arbitrarietà, irrazionalità, irragionevolezza ovvero di
palese travisamento dei fatti –quali l'incoerenza con
l'impostazione di fondo del nuovo intervento pianificatorio
o la manifesta incompatibilità con le caratteristiche
oggettive del territorio– ovvero carenze nell'istruttoria e
nelle conclusioni del procedimento.
Poi, le singole scelte urbanistiche devono soltanto obbedire
al superiore criterio di razionalità nella definizione delle
linee dell'assetto territoriale, nell'interesse pubblico
alla sicurezza delle persone e dell'ambiente, ma non anche a
criteri di proporzionalità distributiva degli oneri e dei
vincoli.
---------------
In capo ai privati interessati dalle nuove previsioni
urbanistiche non è mai configurabile un'aspettativa
qualificata alla destinazione edificatoria prevista da
precedenti determinazioni dell’amministrazione, ma soltanto
un'aspettativa generica sia al mantenimento della
destinazione urbanistica "gradita" sia ad una "reformatio in
melius", analogamente a quanto si aspetta ogni altro
proprietario di aree che aspira a utilizzare più
proficuamente i propri immobili.
Va tenuto conto che il generico affidamento alla "non
reformatio in pejus" della precedente destinazione richiede
solo che una motivazione possa agevolmente evincersi dai
criteri seguiti per la redazione del nuovo strumento
pianificatorio, in modo che siano chiari ed espliciti le
finalità e gli obiettivi che hanno indotto il pianificatore
comunale a disattendere precedenti scelte. Ebbene, già alla
luce di tali consolidati canoni si può sottolineare come,
ove l’amministrazione (respingendo l’istanza di parte
ricorrente) avesse rifiutato di introdurre la previsione di
un nuovo ambito di trasformazione a destinazione produttiva
(e si fosse limitata a confermare la programmazione
preesistente) parte ricorrente non avrebbe potuto avanzare
obiezioni: sarebbe stata una semplice modalità di esercizio
dell’ampia discrezionalità che –come già rilevato– connota
le scelte in materia di pianificazione del territorio, non
potendo certo il privato vantare alcuna legittima
aspettativa ad un regime più favorevole.
Al riguardo, i giudici di Palazzo Spada hanno valorizzato la
potestà conformativa in materia del governo del territorio
“alla quale è connaturata la facoltà di porre condizioni e
limiti al godimento del diritto di proprietà non di singoli
individui, ma di intere categorie e tipologie di immobili
identificati in termini generali e astratti”.
---------------
Nell’area dei privati ricorrenti la possibilità di
beneficiare della trasformazione da “agricola” a
“produttiva” è subordinata al concorso alla realizzazione
dei servizi di interesse generale riferibili all’intero
territorio comunale, da attuare mediante percorsi e modalità
da trasfondere nei Piani attuativi in accordo con i soggetti
coinvolti.
Da questo punto di vista il ricorso a moduli convenzionali
nella fase della pianificazione attuativa è ormai un dato
consolidato del sistema ordinamentale urbanistico, e gli
strumenti consensuali –utili al perseguimento di finalità
perequative– traggono fondamento nel combinato disposto
degli artt. 1, comma 1-bis, e 11 della L. 241/1990, con
piena fungibilità del modello consensuale rispetto a quello
autoritativo, sul presupposto della maggiore idoneità del
primo al perseguimento degli obiettivi di pubblico
interesse.
Sul punto si richiama il consolidato principio
sostenuto dalla costante giurisprudenza, in virtù del quale
le scelte sottese alla pianificazione urbanistica, al
momento dell'adozione del piano regolatore generale o di
variante al medesimo, costituiscono apprezzamenti di merito
sottratti al sindacato giurisdizionale, salvo che non siano
affette da errori di fatto o da abnormi illogicità: ciò
implica –quale necessario corollario– che trattandosi di
scelte discrezionali in merito alla destinazione di singole
aree, queste non necessitano di apposita motivazione oltre a
quelle che si possono evincere dai criteri generali, di
ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell’impostazione del
piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento
alla relazione di accompagnamento del progetto di Piano
(cfr. da ultimo Consiglio di Stato, sez. IV – 15/02/2013 n.
921).
A quest’ultimo proposito possono affiorare casi di
arbitrarietà, irrazionalità, irragionevolezza ovvero di
palese travisamento dei fatti –quali l'incoerenza con
l'impostazione di fondo del nuovo intervento pianificatorio
o la manifesta incompatibilità con le caratteristiche
oggettive del territorio– ovvero carenze nell'istruttoria e
nelle conclusioni del procedimento (cfr. TAR Trentino
Alto Adige Trento – 11/07/2012 n. 219 e la giurisprudenza ivi
richiamata).
Puntualizza poi il Collegio che le singole
scelte urbanistiche devono soltanto obbedire al superiore
criterio di razionalità nella definizione delle linee
dell'assetto territoriale, nell'interesse pubblico alla
sicurezza delle persone e dell'ambiente, ma non anche a
criteri di proporzionalità distributiva degli oneri e dei
vincoli (cfr. sentenza sez. I – 28/11/2012 n. 1859).
---------------
Nell’affrontare
il caso in esame, si può premettere ulteriormente che in
capo ai privati interessati dalle nuove previsioni
urbanistiche non è mai configurabile un'aspettativa
qualificata alla destinazione edificatoria prevista da
precedenti determinazioni dell’amministrazione, ma soltanto
un'aspettativa generica sia al mantenimento della
destinazione urbanistica "gradita" sia ad una "reformatio in
melius", analogamente a quanto si aspetta ogni altro
proprietario di aree che aspira a utilizzare più
proficuamente i propri immobili (cfr. Consiglio di Stato,
sez. IV – 12/05/2010 n. 2843; si veda anche sez. IV –
04/12/2008 n. 5988).
Va tenuto conto che il generico
affidamento alla "non reformatio in pejus" della precedente
destinazione (ipotesi non realizzatasi nella specie)
richiede solo che una motivazione possa agevolmente
evincersi dai criteri seguiti per la redazione del nuovo
strumento pianificatorio, in modo che siano chiari ed
espliciti le finalità e gli obiettivi che hanno indotto il
pianificatore comunale a disattendere precedenti scelte.
Ebbene, già alla luce di tali consolidati canoni si può
sottolineare come, ove l’amministrazione (respingendo
l’istanza di parte ricorrente) avesse rifiutato di
introdurre la previsione di un nuovo ambito di
trasformazione a destinazione produttiva (e si fosse
limitata a confermare la programmazione preesistente) parte
ricorrente non avrebbe potuto avanzare obiezioni: sarebbe
stata una semplice modalità di esercizio dell’ampia
discrezionalità che –come già rilevato– connota le scelte
in materia di pianificazione del territorio, non potendo
certo il privato vantare alcuna legittima aspettativa ad un
regime più favorevole.
Peraltro, al di là delle possibili conseguenze in rito,
ritiene il Collegio di poter evocare le statuizioni
elaborate dal Consiglio di Stato (cfr. sentenza sez. IV –
13/07/2010 n. 4542). In particolare i giudici di Palazzo
Spada hanno valorizzato la potestà conformativa in materia
del governo del territorio “alla quale è connaturata la
facoltà di porre condizioni e limiti al godimento del
diritto di proprietà non di singoli individui, ma di intere
categorie e tipologie di immobili identificati in termini
generali e astratti” (cfr. sentenza Corte costituzionale
20/05/1999 n. 179, la quale ha escluso che potessero
qualificarsi in termini di vincolo espropriativo tutte le
condizioni e i limiti che possono essere imposti ai suoli in
conseguenza della loro specifica destinazione, ivi compresi
i limiti di cubatura connessi agli indici di fabbricabilità
previsti dal PRG per le varie categorie di zone in cui il
territorio viene suddiviso).
---------------
Nell’area dei
privati ricorrenti la possibilità di beneficiare della
trasformazione da “agricola” a “produttiva” è subordinata al
concorso alla realizzazione dei servizi di interesse
generale riferibili all’intero territorio comunale, da
attuare mediante percorsi e modalità da trasfondere nei
Piani attuativi in accordo con i soggetti coinvolti.
Da questo punto di vista il ricorso a moduli convenzionali
nella fase della pianificazione attuativa è ormai un dato
consolidato del sistema ordinamentale urbanistico, e gli
strumenti consensuali –utili al perseguimento di finalità
perequative– traggono fondamento nel combinato disposto
degli artt. 1, comma 1-bis, e 11 della L. 241/1990, con piena
fungibilità del modello consensuale rispetto a quello autoritativo, sul presupposto della maggiore idoneità del
primo al perseguimento degli obiettivi di pubblico
interesse.
Nel premettere quanto appena rilevato, la già
citata sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV – 13/07/2010
n. 4542 ha statuito che <<Pertanto, nel caso di specie
l’Amministrazione altro non ha fatto che predeterminare le
condizioni alle quali potranno attivarsi i ridetti
meccanismi convenzionali, solo se e quando i proprietari
interessati ritengano di voler avvalersi degli incentivi cui
sono collegati (e, cioè, di voler fruire della volumetria
aggiuntiva assegnata ai loro suoli dal P.R.G.); ove ciò non
avvenga, il Comune che fosse interessato alla realizzazione
di opere di urbanizzazione e infrastrutture dovrà attivarsi
con gli strumenti tradizionali all’uopo predisposti
dall’ordinamento, in primis le procedure espropriative
(naturalmente, se del caso, previa localizzazione delle aree
su cui operare gli interventi e formale imposizione di
vincoli preordinati all’esproprio con apposita variante
urbanistica).
È proprio la natura facoltativa degli istituti
perequativi de quibus, nel senso che la loro applicazione è
rimessa a una libera scelta degli interessati, a escludere
che negli stessi possa ravvisarsi una forzosa ablazione
della proprietà nonché, nel caso del contributo
straordinario, che si tratti di prestazione patrimoniale
imposta in violazione della riserva di legge ex art. 23
Cost. Tale rilievo non è scalfito del fatto che la detta
facoltatività dovrebbe essere esclusa, a cagione della
predeterminazione autoritativa, a livello delle stesse
N.T.A. del P.R.G. e quindi in via generale e astratta, dei
contenuti essenziali degli accordi che l’Amministrazione e i
privati andranno a concludere (e, segnatamente, dell’entità
delle cubature da cedere al Comune e della misura del
contributo straordinario).
A tale rilievo, è agevole
replicare che siffatta predeterminazione è coerente con
l’interesse pubblico al cui perseguimento, giusta il citato
art. 11 della legge nr. 241 del 1990, gli accordi in
questione sono finalizzati: a tale interesse invero, proprio
in quanto ricomprende gli obiettivi perequativi più volte
richiamati, è intrinsecamente connessa l’esigenza di
garantire la par condicio fra i privati proprietari di suoli
soggetti a eguale disciplina urbanistica, esigenza che
all’evidenza sarebbe frustrata qualora fosse rimesso
integralmente al momento della contrattazione privata –quasi
che questa fosse espressione di mera autonomia privata, e
non coinvolgesse invece interessi di rilevanza
pubblicistica- la definizione dei termini e delle modalità
della “contropartita” che ciascun privato dovrà assicurare
all’Amministrazione in cambio della volumetria edificabile
aggiuntiva riconosciutagli dal Piano>>.
Anche nella fattispecie esaminata, in conclusione, non si
registra la violazione dell’art. 23 della Costituzione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 06.06.2013 n. 539 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittima l'ordinanza sindacale che impone
lo spostamento di una concimaia troppo vicina alle
abitazioni tenuto conto che:
- il provvedimento impugnato non considera che l'attività di
allevamento della ricorrente ha acquisito una priorità d'uso
rispetto agli edifici residenziali realizzati ad una
distanza inferiore a cinquanta metri dalla concimaia di cui
si è ordinato lo spostamento;
- il regolamento locale di igiene, nel fissare le distanze
tra allevamenti e edifici residenziali, ed il cui scopo è
quello di ricercare un equo contemperamento tra le opposte
esigenze produttive delle attività di allevamento e che
determina l’obliterazione di possibili fonti di inquinamento
e pregiudizio per la salubrità delle aree residenziali, va
declinato con l’insistenza con lo ius edificandi dei
proprietari di immobili posti in prossimità di zone agricole
ma, in primo luogo, secondo il principio civilistico della
prevenzione temporale;
- pertanto appare incongruo l'ordine di spostamento della
vecchia concimaia anziché quello di adottare tutti gli
accorgimenti tecnici necessari per la tutela di carattere
igienico-sanitario indicati nella relazione agronomica a suo
tempo presentata dalla ricorrente o indicati dallo stesso
Comune (quali, ad esempio, la sistemazione della concimaia
stessa, da realizzare in materiale impermeabile a doppia
tenuta con vasca di contenimento del colaticcio; idonea
struttura di copertura atta ad impedire la diluizione con le
acque meteoriche; aggiunta di additivi di tipo biologico
enzimatico atti alla deodorizzazione dei reflui; utilizzo di
prodotti moschicidi).
... per l'annullamento dell'ordinanza del Sindaco 08.04.2005
n. 2 che impone al ricorrente di presentare entro 30 giorni
un progetto per nuova concimaia da insediare lontano dalle
abitazioni circostanti.
...
L’atto di cui in rubrica impone alla parte ricorrente la
costruzione di una nuova concimaia a tenuta ed altrimenti da
tenersi lontano dalle abitazioni circostanti.
La detta parte, pacificamente impegnata nel settore primario
dell’agricoltura, declina al riguardo la priorità temporale
d’uso della diversa concimaia in essere ed il travisamento
dei fatti per la inesatta percezione della vicenda e per il
fatto che la detta attività è presente in loco da moltissimo
tempo e perciò ancor prima dell’insediamento progressivo di
abitazioni nella zona circostante.
Il Comune non si è costituito in giudizio e, all’Udienza
Pubblica del 22/05/2013, la causa è stata spedita a sentenza.
Il Collegio ritiene che il ricorso sia fondato.
Al riguardo
richiama le argomentazioni contenute, nella a suo tempo,
emessa ordinanza cautelare (911/2005) qui facendole proprie.
Ed invero in tale sede si affermava che:
- il ricorso appare assistito dal requisito del fumus boni
iuris nella parte in cui censura il provvedimento impugnato
per la mancata considerazione che l'attività di allevamento
della ricorrente ha acquisito una priorità d'uso rispetto
agli edifici residenziali realizzati ad una distanza
inferiore a cinquanta metri dalla concimaia di cui si è
ordinato lo spostamento;
- il regolamento locale di igiene, nel fissare le distanze
tra allevamenti e edifici residenziali, ed il cui scopo è
quello di ricercare un equo contemperamento tra le opposte
esigenze produttive delle attività di allevamento e che
determina l’obliterazione di possibili fonti di inquinamento
e pregiudizio per la salubrità delle aree residenziali, va
declinato con l’insistenza con lo ius edificandi dei
proprietari di immobili posti in prossimità di zone agricole
ma, in primo luogo, secondo il principio civilistico della
prevenzione temporale;
- pertanto appare incongruo l'ordine di spostamento della
vecchia concimaia anziché quello di adottare tutti gli
accorgimenti tecnici necessari per la tutela di carattere
igienico-sanitario indicati nella relazione agronomica a suo
tempo presentata dalla ricorrente o indicati dallo stesso
Comune (quali, ad esempio, la sistemazione della concimaia
stessa, da realizzare in materiale impermeabile a doppia
tenuta con vasca di contenimento del colaticcio; idonea
struttura di copertura atta ad impedire la diluizione con le
acque meteoriche; aggiunta di additivi di tipo biologico
enzimatico atti alla deodorizzazione dei reflui; utilizzo di
prodotti moschicidi)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 05.06.2013 n. 524 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: CONSULTA/ Illegittimo l'art. 63 del Tuel.
Sindaci-parlamentari incompatibili a 360°.
L'incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di
sindaco di un comune con più di 20.000 abitanti diventa la
regola. Tanto che anche il Tuel, il Testo unico sugli enti
locali (dlgs 267/2000) si dovrà adeguare a questo principio.
E soprattutto l'incompatibilità sarà «biunivoca», nel senso
che non sarà ammessa al parlamentare la candidatura a
sindaco e viceversa.
Lo ha deciso la Corte costituzionale
nella
sentenza
05.06.2013 n. 120, depositata ieri in cancelleria,
che ha ribadito quanto già affermato nel 2011 a proposito
dell'incompatibilità del sindaco di Catania Raffaele Stancanelli, costretto alle dimissioni da palazzo Madama,
proprio per effetto della sentenza 277/2011.
Ora la Corte,
giudicando su un'azione popolare promossa nel 2011 da un
elettore del comune di Afragola contro il sindaco del tempo
ed ex senatore Pdl Vincenzo Nespoli, è tornata
sull'argomento. Questa volta spazzando via non la legge
sulle incompatibilità parlamentari (n. 60/1953), come era
accaduto nel 2011, ma direttamente il Tuel (art. 63).
La Corte ha riaffermato che è irragionevole non prevedere
«una naturale corrispondenza biunivoca» delle cause di
ineleggibilità e incompatibilità che per forza di cose
devono incidere su entrambe le cariche coinvolte.
Diversamente, infatti, se l'esclusione operasse solo in una
direzione (come si riteneva prima della sentenza del 2011,
ossia solo nel senso di precludere l'elezione a parlamentare
di un sindaco, ma non viceversa) verrebbe in concreto fatta
dipendere «da una circostanza meramente casuale, connessa
alla cadenza temporale delle relative tornate elettorali».
E
questo determinerebbe «una lesione non soltanto del canone
di uguaglianza e ragionevolezza, ma anche della stessa
libertà di elettorato attivo e passivo». Di qui
l'illegittimità costituzionale della norma del Tuel nella
parte in cui non prevedeva la suddetta causa di
incompatibilità
(articolo ItaliaOggi del 06.06.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità.
Illegittimo anche il Testo unico.
Stop finale ai sindaci-deputati.
Per il Testo unico degli enti locali un sindaco di una città
con più di 20mila abitanti che si candida in Parlamento
decade dalla carica, mentre un Parlamentare che si candida a
sindaco o a un altro vertice amministrativo locale ha via
libera.
Tutto questo fino a ieri, quando la
sentenza
05.06.2013 n. 120 della
Corte costituzionale (presidente Gallo, relatore Grossi) ha
bocciato come irragionevole questa incompatibilità a
corrente alternata, attenta al «senso di marcia» degli
eletti più che alla sostanza delle cariche.
A motivare
l'incompatibilità sono infatti i potenziali conflitti di
interesse che si possono generare se la stessa persona è
impegnata a scrivere le leggi nazionali e ad amministrare
una comunità di peso che dalle stesse leggi è regolata.
La questione non è nuova, e aveva già impegnato la Corte due
anni fa quando con la sentenza 277/2011 i giudici delle
leggi dissero la stessa cosa. All'epoca il tema del
contendere erano le incompatibilità disciplinate da una
legge del 1953, ritenuta incostituzionale nella parte in cui
non prevedeva l'incompatibilità tout court tra la carica di
parlamentare e quella di sindaco di un Comune con più di
20mila abitanti.
La sentenza all'epoca aveva spinto alle dimissioni dal
Parlamento alcuni sindaci-deputati (per esempio Adriano
Paroli di Brescia o Raffaele Stancanelli a Catania), ma non
aveva potuto colpire il cuore del problema, che si annida
appunto nel Testo unico degli enti locali: che all'articolo
62 fa decadere i sindaci delle città sopra 20mila abitanti
che decidono di puntare a Montecitorio o Palazzo Madama, e
all'articolo 63, sulle incompatibilità, ignora chi fa il
percorso inverso.
Con la nuova sentenza non ci sono più dubbi: peccato però
che la decisione della Consulta arrivi proprio quando il
caso che l'ha innescata, quello del politico del Pdl
Vincenzo Nespoli, sia superato dai fatti, perché Nespoli ha
lasciato con le ultime elezioni il Parlamento e non
partecipa nemmeno al turno amministrativo che nel
ballottaggio di domenica e lunedì prossimo deciderà il nuovo
sindaco di Afragola (Napoli), la città di cui Nespoli era
primo cittadino e primo deputato
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.06.2013). |
APPALTI: Appalti aperti ai debitori a rate. In regola col fisco anche
con la dilazione di pagamento.
L'adunanza plenaria del Consiglio di
stato sui requisiti per la partecipazione alle gare.
Gli appalti aprono le porte alla rateizzazione fiscale. Il
contribuente può partecipare alle gare indette dalla
pubblica amministrazione anche quando gli è stata accordata
la possibilità di pagare a rate il proprio debito con
l'erario. Il requisito della regolarità fiscale, necessario
per la partecipazione alle gare, sussiste infatti anche con
la rateizzazione.
Il tutto purché il parere positivo da parte
dell'amministrazione finanziaria, arrivi prima della
scadenza dei termini per la presentazione della domanda di
partecipazione.
A mettere la parola fine sulla questione, la
sentenza
05.06.2013 n. 15, dell'Adunanza plenaria del Consiglio di
stato.
Il problema.
Si scioglie quindi il nodo relativo al concetto di
regolarità fiscale. I giudici di palazzo Spada erano infatti
stati chiamati, in più occasioni a trovare una soluzione al
problema (si veda ItaliaOggi del 7 marzo e del 7 maggio). In
particolare, la decisione doveva sciogliere il dubbio
relativo alla possibilità per le imprese di poter
partecipare alle gare di appalto anche nel caso in cui
versassero in situazione di irregolarità fiscale.
A questo
proposito infatti, l'orientamento del Consiglio di stato, a
più riprese, era stato nel senso di escludere dalla
partecipazione alle gare tutte quelle imprese che non
fossero in regola con il versamento dei tributi, comprese
quelle che avevano avuto accesso al pagamento rateizzato. Un
orientamento in questo senso, per quanto garantisse da un
lato la stazione appaltate, non lasciava però possibilità di
lavoro a quelle imprese che, per le ragioni più varie, non
erano rimaste in pari con il versamento dei tributi.
La sentenza.
Un'inversione di rotta quella assunta dall'Adunanza
plenaria. In base a quanto stabilito nella sentenza infatti,
le imprese possono partecipare alle gare di appalto, anche
nel caso in cui l'intero importo dei tributi non sia stato
versato.
C'è però un limite temporale da rispettare. È
infatti necessario che l'impresa sia stata ammessa alla
procedura di rateizzazione del debito prima della scadenza
dei termini previsti per depositare la domanda di
partecipazione. Il tutto, fermo restando che prima di ogni
adempimento in questo senso è necessaria la presentazione
dell'autodichiarazione circa il possesso del requisito di
regolarità fiscale.
Secondo l'Adunanza plenaria infatti «è
inammissibile una dichiarazione che attesti il possesso di
un requisito in data futura». Da una pronuncia in questo
senso, ne consegue che il contribuente versa in una
situazione di irregolarità fiscale solo nel momento in cui,
la richiesta di poter accedere alle dilazioni di pagamento,
a seguito di un accertamento nei suoi confronti, gli venga
negata.
L'accesso alla procedura di rateizzazione infatti,
non solo non è un atto dovuto da parte dell'amministrazione
finanziaria, ma non è nemmeno un meccanismo del tutto
automatico. «La decisione dell'amministrazione finanziaria
infatti, non è solo discrezionale», spiega il Consiglio di
stato, «ma si basa sulla verifica della sussistenza in capo
al contribuente interessato del requisito di obiettiva
difficoltà economica».
La ratio.
Una decisione quindi, volta ad ampliare quanto più possibile
la platea dei partecipanti. Fermo restando però che, come
spiega la pronuncia dell'Adunanza «l'ampliamento del
novero dei partecipanti non è un valore assoluto ma deve
essere ricondotto al suo alveo naturale, dato dalla sua
funzione di strumento volto al conseguimento dell'obiettivo
di assicurare la scelta del miglior contraente all'interno
di una gara».
In quest'ottica quindi, si pone la decisione di stabilire
alla scadenza della presentazione delle domande il termine
ultimo per essere entrati in possesso del requisito di
regolarità fiscale. Per i giudici infatti, il principio
della certezza del quadro delle regole e dei tempi delle
gare di appalto impone che «i requisiti di partecipazione
siano verificati in modo compiuto al momento della scadenza
dei termini di presentazione delle domande per impedire che
si verifichi un'ammissione condizionata che si rifletterebbe
negativamente sui valori dell'efficienza e della
tempestività dell'azione amministrativa»
(articolo ItaliaOggi dell'08.06.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: La
tutela del diritto all'informazione e alla conoscenza dei
documenti della Pubblica Amministrazione assicurata dal
Legislatore al consigliere comunale con le norme
sull'accesso non può dilatarsi al punto da imporre alla P.A.
un vero e proprio facere, che esula completamente dal
concetto di accesso configurato dalla legge, consistente
soltanto in un pati, ossia nel lasciare prendere visione ed
al più in un facere meramente strumentale, vale a dire in
quel minimo di attività materiale che occorre per estrarre i
documenti indicati dal richiedente e metterli a sua
disposizione.
E’ noto che la materia dell’accesso del consigliere comunale
agli atti dell’ente, ex art. 43 del d.lgs. 267/2000, ha
trovato un’esaustiva sistemazione giurisprudenziale, i cui
capisaldi possono ritenersi, ormai, ius receptum, per
la cui illustrazione risulta sufficiente richiamare in
questa sede ex multis Cons. St. n. 846 del
12.02.2013, siccome condivisa.
“L’art. 43 del TUEL prevede il diritto dei consiglieri
comunali di ottenere dagli uffici tutte le notizie e
informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del
loro mandato.
Pertanto, la ratio della norma è nel principio democratico
dell’autonomia locale e della rappresentanza esponenziale,
sicché tale diritto è direttamente funzionale non tanto
all’interesse del consigliere comunale (o provinciale) ma
alla cura dell’interesse pubblico connessa al mandato
conferito, controllando il comportamento degli organi
decisionali del Comune.
Quanto ai presupposti, si è osservato come non sia
necessaria una connessione tra la conoscenza dei dati
richiesti con l’attività espletata nel mandato di
consigliere.
Il diritto di accesso dei Consiglieri comunali non è
soggetto ad alcun onere motivazionale giacché diversamente
opinando sarebbe introdotto una sorta di controllo
dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del
mandato del consigliere comunale. Gli unici limiti
all'esercizio di tale diritto si rinvengono nel fatto che
l’esercizio di tale diritto deve avvenire in modo da
comportare il minor aggravio possibile per gli uffici
comunali e che non deve sostanziarsi in richieste
assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo
restando che la sussistenza di tali caratteri deve essere
attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al
fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili
limitazione al diritto stesso (tra tanti, Consiglio di Stato
sez. V, 29.08.2011, n. 4829).
I consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di
accesso a tutti gli atti che possano essere di utilità
all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di
permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza
e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per
esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza
del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del
Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli
rappresentanti del corpo elettorale locale. Di conseguenza
sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare
onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso
che diversamente opinando sarebbe introdotta una sorta di
controllo dell'ente, attraverso i propri uffici,
sull'esercizio del mandato del consigliere comunale; dal
termine "utili", contenuto nell'articolo 43 del D. Lgs.
18.08.2000, n. 267, non può conseguire alcuna limitazione al
diritto di accesso dei consiglieri comunali, detto aggettivo
garantendo in realtà l’estensione di tale diritto di accesso
a qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio del mandato
(così Consiglio Stato sez. V, 17.09.2010, n. 6963).
In base all'art. 43, d.lgs. 18.08.2000 n. 267 i consiglieri
comunali, ivi inclusi ovviamente quelli di minoranza, hanno
un diritto di accesso incondizionato -purché non invada
l'ambito riservato all'apparato amministrativo e non integri
però un abuso del diritto- a tutti gli atti che possano
essere "utili" all'espletamento del loro mandato, anche al
fine di permettere di valutare con piena cognizione la
correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione,
nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di
competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito
del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli
rappresentanti del corpo elettorale locale; sul consigliere
comunale, inoltre, non può gravare alcun onere di motivare
le proprie richieste di accesso atteso che, diversamente
opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo
dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del
mandato del consigliere comunale.
I consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di
accesso a tutti gli atti che possano essere di utilità
all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di
permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e
l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per
esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza
del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del
Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli
rappresentanti del corpo elettorale locale. Sul consigliere
comunale, inoltre, non può gravare alcun onere di motivare
le proprie richieste di accesso, atteso che diversamente
opinando sarebbe introdotta una sorta di controllo
dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del
mandato del consigliere comunale; dal termine ««utili»,
contenuto nell'art, 43, d.lgs. 18.08.2000 n. 267, non può
conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei
consiglieri comunali, detto aggettivo garantendo in realtà
l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto
ravvisato utile per l'esercizio del mandato. Dette
conclusioni si appalesano stringenti ove ad azionare
l'istituto siano consiglieri di minoranza, come nel caso di
specie, cui i principi fondanti delle democrazie e la legge
attribuiscono compiti di controllo dell'operato della
maggioranza e, quindi, dell'esecutivo, qui inteso nella sua
più larga accezione di apparato politico ed apparato
amministrativo, se pur, si intende, da esplicarsi nel
rispetto della legge, ovvero senza indebite incursioni in
ambiti riservati all'apparato amministrativo dalla legge
stessa e senza porre in essere atti e/o comportamenti
qualificabili come abuso del diritto.
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali quindi si
atteggia quale latissimo diritto all’informazione al quale
si contrappone l’obbligo degli uffici di fornire ai
richiedenti tutte le notizie e informazioni in loro
possesso, fermo il divieto di perseguire interessi personali
o di tenere condotte emulative.”
Siffatti principi risultano ormai consolidati in
giurisprudenza che ha rimarcato l’impossibilità di
utilizzare l’istituto dell’accesso per sconvolgere
l’ordinato assetto dell’ente con strategie ostruzionistiche
o paralizzanti l’attività degli uffici. Ed infatti, è dato
leggere nella citata decisione che “…il riconoscimento da
parte dell'articolo 43 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (Testo
Unico sugli Enti Locali) di una particolare forma di accesso
costituita dall'accesso del consigliere comunale per
l'esercizio del mandato di cui è attributario, non può
portare allo stravolgimento dei principi generali in materia
di accesso ai documenti e non può comportare che, attraverso
uno strumento dettato dal legislatore per il corretto
svolgimento dei rapporti cittadino-pubblica amministrazione,
il primo, servendosi del baluardo del mandato politico,
ponga in essere strategie ostruzionistiche o di paralisi
dell'attività amministrativa con istanze che a causa della
loro continuità e numerosità determinino un aggravio
notevole del lavoro negli uffici ai quali sono rivolte e
determinino un sindacato generale sull'attività
dell'amministrazione oramai vietato dall'art. 24, comma 3
della l. n. 241 del 1990".
Soprattutto, la particolare disposizione del Testo Unico
degli Enti Locali va coordinata con la modifica introdotta
all'art. 22 della l. n. 241 del 1990, dalla l. n. 15 del
2005, di tal che anche il consigliere comunale deve essere
portatore di un interesse diretto, concreto ed attuale
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento per il quale richiede l'accesso,
aggiungendosi subito dopo che “…non si può pretendere,
secondo costante giurisprudenza di questo Consesso, che
l’Amministrazione costruisca una documentazione allo stato
non ancora esistente. Anche a voler ritenere che la nozione
di “notizie e informazioni” sia più lata della nozione di
“documenti” ravvisabile nell’art. 22 della l. n. 241 del
1990 –e cioè ogni elemento conoscitivo in possesso
dell’amministrazione, anche non riferibile alle competenze
del Consiglio Comunale, perché sempre inerente al munus
rivestito e non solo i provvedimenti adottati, ma anche gli
atti preparatori, anche di provenienza privata-, anche in
tale situazione soggettiva speciale non può non valere il
principio, affermato dalla Sezione (così Consiglio Stato
sez. IV, 30.11.2010, n. 8359), secondo cui il rimedio dell'
accesso non può essere utilizzato per indurre o costringere
l'Amministrazione a formare atti nuovi rispetto ai documenti
amministrativi già esistenti, ovvero a compiere un'attività
di elaborazione di dati e documenti, potendo essere invocato
esclusivamente al fine di ottenere il rilascio di copie di
documenti già formati e materialmente esistenti presso gli
archivi dell'Amministrazione che li possiede.”
Nel caso di specie, il punto di diritto che viene in
evidenza è proprio quest’ultimo avendo il sindaco,
sostanzialmente, opposto l’inesistenza agli atti dell’ente,
della documentazione richiesta (contratto di lavoro del
segretario comunale; calendario di lavoro settimanale del
segretario comunale con indicazione dei giorni e degli orari
garantiti su ognuna delle sedei cui presta servizio; report
mensili redatti e trasmessi dai Comuni convenzionati per il
servizio di segreteria utili alla rendicontazione e
controllo dell’attività e propedeutici al calcolo della
busta paga; cartellini di presenza), il tutto sulla scorta
di argomentazioni esatte e sostanzialmente condivisibili,
giusta previsione di cui agli artt. 15 e 19 del C.C.N.L.
16.05.2001.
Non può, infatti, condividersi quanto asserito dal
ricorrente che pone a base dell’illegittimità del diniego il
“comportamento” dell’ente di non essersi attivato per
acquisire tutto quanto richiesto, dal momento che la
giurisprudenza amministrativa ha chiarito (cfr. Cons. St.
Sezione V, 27.09.2004, n. 6326; 24.05.2004, n. 3364;
01.06.1998, n. 718; 15.06.1998, n. 854; Sezione IV,
17.01.2002, n. 231) che la tutela del diritto
all'informazione e alla conoscenza dei documenti della
Pubblica Amministrazione assicurata dal Legislatore al
consigliere comunale con le norme sull'accesso non può
dilatarsi al punto da imporre alla P.A. un vero e proprio
facere, che esula completamente dal concetto di accesso
configurato dalla legge, consistente soltanto in un pati,
ossia nel lasciare prendere visione ed al più in un
facere meramente strumentale, vale a dire in quel minimo
di attività materiale che occorre per estrarre i documenti
indicati dal richiedente e metterli a sua disposizione.
Donde l'inammissibilità di una domanda, quale quella del
ricorrente, che comporterebbe l’inevitabile carteggio con i
comuni sottoscrittori della convenzione, accompagnato
dall’onere per la P.A., di adibire, per un certo periodo di
tempo, apposito personale alla effettuazione delle dette
operazioni.
Può concludersi per la reiezione del ricorso, non risultando
censure in ordine all’ostensione dell’ultima busta paga,
evidentemente satisfattiva, nelle modalità utilizzate, della
pretesa azionata
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 04.06.2013 n. 1234 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione della domanda di sanatoria dell’abuso
-successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di
demolizione o alla notifica del provvedimento di irrogazione
delle altre sanzioni per gli abusi edilizi- rende inefficaci
i precedenti atti sanzionatori.
Sul piano procedimentale il comune è tenuto, innanzi tutto,
a esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di
sanatoria, effettuando, comunque, una nuova valutazione
della situazione, mentre dal punto di vista processuale, la
documentata presentazione di detta istanza comporta la
improcedibilità del ricorso per carenza di interesse avverso
i provvedimenti repressivi.
L’esercizio della facoltà di regolarizzare la propria
posizione da parte del privato impedisce, dunque,
l'esercizio del potere repressivo dell'amministrazione, in
quanto quest’ultima dovrà rideterminarsi in ordine alla
sanzione, ma solo dopo il riesame dell’abusività dell’opera
ai fini della verifica della sua sanabilità.
L'istanza di sanatoria, infatti, comporta la necessaria
formazione di un nuovo provvedimento esplicito o implicito
(di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare
il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
L’interesse del responsabile dell’abuso si sposta
dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio già
adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento
(esplicito o implicito) di rigetto.
E’ orientamento consolidato di questo Tribunale quello in
forza del quale la presentazione della domanda di sanatoria
dell’abuso -successivamente alla impugnazione dell'ordinanza
di demolizione o alla notifica del provvedimento di
irrogazione delle altre sanzioni per gli abusi edilizi-
rende inefficaci i precedenti atti sanzionatori (v. anche
Consiglio di Stato sez. V 31.10.2012 n. 5553 , sez. V,
08.06.2011, n. 3460; sez. V, 29.12.2009, n. 8935; sez. II,
11.07.2007, n. 624/05, cui si rinvia in forza del combinato
disposto degli artt. 74, co. 1, e 88, co. 2, lett. d),
c.p.a.).
Sul piano procedimentale il comune è tenuto, innanzi tutto,
a esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di
sanatoria, effettuando, comunque, una nuova valutazione
della situazione, mentre dal punto di vista processuale, la
documentata presentazione di detta istanza comporta la
improcedibilità del ricorso per carenza di interesse avverso
i provvedimenti repressivi (Così, Consiglio di Stato sez. V,
31.10.2012, n. 5553).
L’esercizio della facoltà di regolarizzare la propria
posizione da parte del privato impedisce, dunque,
l'esercizio del potere repressivo dell'amministrazione, in
quanto quest’ultima dovrà rideterminarsi in ordine alla
sanzione, ma solo dopo il riesame dell’abusività dell’opera
ai fini della verifica della sua sanabilità.
L'istanza di sanatoria, infatti, comporta la necessaria
formazione di un nuovo provvedimento esplicito o implicito
(di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare
il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa
(cfr. ex multis TAR Campania Salerno, sez. I,
22.02.2011 , n. 350 e TAR Campania Napoli, sez. VII,
10.03.2011, n. 1401).
L’interesse del responsabile dell’abuso si sposta
dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio già
adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento
(esplicito o implicito) di rigetto (TAR Sicilia, Catania,
Sez. II, 16.03.1991, n. 67, Palermo, Sez. II, 27.03.2002, n.
826; TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5559, 22.02.2003,
n. 1310)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 04.06.2013 n. 1231 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI - VARI:
Se l'autovelox è nascosto può scattare la truffa.
Occultare l'autovelox per favorire gli accertamenti
sanzionatori a danno degli ignari automobilisti con il piede
pesante può costare caro al noleggiatore privato che rischia
anche di collezionare una denuncia per truffa.
Lo ha
evidenziato la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la
sentenza 23.05.2013 n. 22158.
Una ditta coinvolta in una censurabile vicenda di multe a
percentuale per conto di un comune calabrese ha subito il
sequestro degli strumenti di controllo elettronico della
velocità e per questo ha richiesto ripetutamente la
restituzione dei preziosi strumenti sempre negata
dall'autorità giudiziaria. Anche i giudici del palazzaccio
confermano il sequestro degli autovelox in attesa degli
sviluppi processuali.
Posizionare gli autovelox in modo tale da occultare gli
strumenti agli automobilisti in transito può anche
configurare un reato di truffa «a nulla valendo che la res
impiegata per commettere la truffa abbia natura lecita,
allorché assolva, nell'ordine truffaldino, una valenza
causale ai fini della realizzazione del reato» (articolo
ItaliaOggi Sette del 03.06.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Niente acqua se c'è la mora. I gestori negano le forniture.
Il Tar Puglia sull'utilizzo delle
ordinanze extra ordinem da
parte del sindaco.
È escluso che il sindaco del Comune possa imporre
all'acquedotto di ripristinare la fornitura ai rubinetti di
chi non paga la bolletta. Questo, anche se si tratta di
interi condomini morosi. O almeno, lo strumento non può
essere l'ordinanza contingibile e urgente, se si tratta di
intervenire in rapporti fra privati e non si motiva sul
rischio per l'incolumità pubblica. È il frutto, amaro per
gli amministratori locali, che nasce dalla sentenza 115/2011
della Corte costituzionale, con la bocciatura di una norma
del primo pacchetto sicurezza (dl 92/2008), che toglie i
superpoteri ai sindaci, costretti a emanare provvedimenti
straordinari soltanto di fronte a eventi davvero pericolosi
per la collettività.
Questo è quanto emerge dalla
sentenza
23.05.2013 n. 1206, pubblicata dal TAR Puglia-Lecce,
I Sez..
Fuori dal comune.
Accolto il ricorso della società che garantisce la fornitura
idrica nella città. Risulta infatti illegittimo, ed è
annullato, il provvedimento del primo cittadino con cui si
diffidava il gestore a non staccare l'acqua ai morosi e,
anzi, a riallacciarla in caso di sospensione già effettuata.
Il punto è che i rubinetti non restano a secco
all'improvviso ma all'esito di una trattativa infruttuosa
sulle bollette arretrate con tanto di raccomandate
dell'azienda che avvisavano dell'imminente stop alla
fornitura a chi non avesse regolato le pendenze.
E
soprattutto non è il sindaco del Comune che può intervenire
a dirimere la controversia sorta fra privati con l'ordinanza
extra ordinem. Si tratta infatti, di uno strumento che può
essere adottato soltanto quando ne va dell'igiene, della
sanità o dell'incolumità pubblica. Risulta tuttavia
necessario che si tratti di un pericolo eccezionale, dunque
tale da legittimare un provvedimento che, dopo l'intervento
demolitorio della Consulta, risulta espressione di un potere
residuale in capo al sindaco.
La Corte costituzionale con la sentenza 115/2011 ha infatti
escluso l'esistenza di un generale potere del sindaco di
emettere ordinanze del genere, dichiarando illegittima la
norma su cui si fonda il potere extra ordinem (art. 54,
comma 4, dlgs 267/2000 sostituito dall'art. 6 del dl 92/2008)
nella parte in cui comprendeva la locuzione «anche» prima
delle parole «contingibili e urgenti»
(articolo ItaliaOggi del 05.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
PAESAGGIO/Sentenza del Tar Emilia Romagna.
Commissione qualità sempre contestabile.
L'ordine degli architetti è pienamente legittimato a
contestare la composizione della Commissione qualità
architettonica e paesaggio del comune.
Lo ha sancito il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, con la
sentenza 22.05.2013 n. 383.
Nel caso in esame, ai fini del rinnovo
della Commissione per la qualità architettonica e il
paesaggio, il Comune di Rimini aveva chiesto agli ordini
professionali di procedere alle rispettive designazioni
nell'ambito delle quali effettuare la scelta dei componenti.
L'Ordine degli architetti di Rimini, quindi, insieme ad
altri ordini e collegi interpellati, aveva effettuato le
proprie nomine. Dopo averle ricevute, però,
l'amministrazione comunale, recependo una proposta dello
sportello unico dell'edilizia, che aveva suddiviso per aree
tematiche le competenze richieste ai candidati, e dopo aver
ritenuto idonee quattro designazione e inidonee
cumulativamente tutte le altre, senza altra specificazione
né dei nominativi né delle ragioni, emanava un avviso
pubblico rivolto ai professionisti per la presentazione
delle candidature.
L'Ordine degli architetti, preso atto della dichiarata
inidoneità dei propri professionisti designati, aveva
impugnato gli atti deducendone l'illegittimità.
Il Tar, nell'accogliere il ricorso, innanzitutto riconosce
la legittimazione degli ordini ad agire anche contro
procedure di evidenza pubblica, «se l'interesse fatto valere
è quello all'osservanza di prescrizioni a garanzia della par
condicio dei partecipanti, anche nel caso in cui, dalla
procedura selettiva, sia stato avvantaggiato un singolo
professionista» (Cons. st., sez. IV, 23.01.2002 n. 391;
n. 1339/2001 cit.).
Il Collegio ritiene che questo orientamento ben possa
applicarsi anche nel caso in cui le designazioni dell'Ordine
professionale, previste per legge, siano state disattese,
senza alcuna motivazione, nella composizione della
Commissione per la Qualità architettonica e il paesaggio.
Per quanto concerne il merito della questione, poi, il
regolamento edilizio comunale dispone che la Commissione per
la qualità architettonica sia composta da sette membri e non
prevede alcuna suddivisione per aree tematiche, ma prevede
dei requisiti identici per tutti i membri.
L'inidoneità di quasi tutti i candidati designati, tra
l'altro, a esclusione dei quattro individuati, è avvenuta
con una dichiarazione cumulativa e neppure nominativa, senza
alcuna motivazione e senza alcuna valutazione comparativa
rispetto ai quattro candidati prescelti. Per i giudici
amministrativi ciò è sufficiente a determinare
l'illegittimità degli atti impugnati
(articolo ItaliaOggi del 05.06.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso di ufficio ed elemento soggettivo
nell'ambito dei reati edilizi.
In tema di
abuso di ufficio, per la configurabilità dell’elemento
soggettivo è richiesto il dolo intenzionale, ossia la
rappresentazione e la volizione dell'evento come conseguenza
diretta ed immediata della condotta dell'agente ed obiettivo
primario da costui perseguito.
L'elemento soggettivo del delitto di cui all'art. 323 cod.
pen., pertanto, nell’ambito dei reati edilizi, consiste
nella consapevolezza dell'ingiustizia del vantaggio
patrimoniale e nella volontà di agire per procurarlo e può
essere desunta anche dalla macroscopica illiceità dell’atto
e dai tempi di emanazione dello stesso (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.05.2013 n. 20732 -
tratto da www.lexambiente.it). |
APPALTI: Esclusi
dalla gara e termini per il ricorso: rilevante come si
''comporta'' chi partecipa all'apertura.
Il Consiglio di Stato afferma che nonostante non vi sia
stata formale comunicazione dell’esclusione dalla gara, è
indubbio il fatto che la ditta esclusa era perfettamente a
conoscenza della decisione della commissione di gara perché,
nella seduta di apertura delle offerte, vi erano dei
soggetti rappresentanti che erano entrati in contrasto con
la commissione stessa per tale motivo.
Nell’ottobre del 2010 una stazione appaltante indiceva una
procedura di gara ristretta per la fornitura triennale del
servizio di pulizia di autobus, veicoli ausiliari e impianti
fissi di proprietà o in uso alla stessa stazione appaltante,
da aggiudicare con il metodo dell'offerta economicamente più
vantaggiosa.
Alla gara partecipavano due SRL specializzate nel settore.
Nella seduta pubblica del novembre 2010 la Commissione,
sottoponendo a una verifica di congruità le offerte
economiche presentate dalle partecipanti, dava
comunicazione, in presenza di due delegati di una della due
SRL , dell’ esclusione di detta società dalla gara,
ritenendo inammissibile l’offerta presentata dalla stessa,
alla stregua della normativa dettata dal disciplinare di
gara.
Successivamente la stazione appaltante negava la richiesta
riammissione in gara, sostenendo, altresì, che la società
aveva appreso della propria esclusione, mediante i suoi
rappresentanti, durante la seduta di gara.
La ricorrente ha, pertanto, proposto ricorso al TAR che,
tuttavia, ha riconosciuto che il decorso del termine
decadenziale di trenta giorni, decorreva dalla seduta in cui
l’esclusione era stata comunicata ai rappresentanti della
società.
La SRL ha impugnato la sentenza del TAR, davanti al
Consiglio di Stato.
La comunicazione di esclusione o di
aggiudicazione nelle gare di appalto
La stazione appaltante nelle gare di appalto comunica di
ufficio:
a) l'aggiudicazione definitiva, tempestivamente e comunque
entro un termine non superiore a cinque giorni,
all'aggiudicatario, al concorrente che segue nella
graduatoria, a tutti i candidati che hanno presentato
un'offerta ammessa in gara, a coloro la cui candidatura o
offerta siano state escluse se hanno proposto impugnazione
avverso l'esclusione, o sono in termini per presentare dette
impugnazioni, nonché a coloro che hanno impugnato il bando o
la lettera di invito, se dette impugnazioni non siano state
ancora respinte con pronuncia giurisdizionale definitiva;
b) l'esclusione, ai candidati e agli offerenti esclusi,
tempestivamente e comunque entro un termine non superiore a
cinque giorni dall'esclusione;
c) la decisione, a tutti i candidati, di non aggiudicare un
appalto ovvero di non concludere un accordo quadro; d) la
data di avvenuta stipulazione del contratto con
l'aggiudicatario, tempestivamente e comunque entro un
termine non superiore a cinque giorni, ai soggetti di cui
alla lettera a).
Con il parere n. 181 del 07/11/2012, l’Autorità di Vigilanza
sui Contratti Pubblici ha osservato che ai sensi dell’art.
79, D.Lgs. 163/2006, comma 5, l’amministrazione è tenuta a
comunicare d’ufficio a ciascun candidato l’esclusione entro
un termine non superiore a cinque giorni dall’esclusione.
La ratio che sorregge la norma è duplice:
1. da un lato, garantire la celere conclusione della
procedura ad evidenza pubblica a tutela dell’interesse
pubblico, che sorregge indizione della stessa;
2. dall’altro assicurare al concorrente quella piena
conoscenza dell’atto lesivo, dalla quale decorre il termine
decadenziale per l’impugnazione dinanzi al giudice
amministrativo
L’analisi del Consiglio di Stato
I giudici di Palazzo Spada evidenziano che appare evidente
dalla documentazione prodotta che, nel verbale alla seduta
di gara del novembre 2010, è stata data comunicazione alla
ricorrente dell’esclusione; a tale seduta erano presenti due
rappresentanti della società ricorrente.
La qualifica di rappresentanti attribuita ai soggetti
risulta evidente dal ruolo effettivamente svolto dagli
stessi nel corso della seduta in esame, tale da evidenziare,
al di là dell’ esistenza di un mandato formale o della
specifica carica sociale rivestita, il ruolo “decisionale”
che avevano in rappresentanza della società esclusa.
Osserva il Consiglio di Stato che è significativo il fatto
che uno dei due rappresentanti non si sia limitato ad
assistere alle operazioni di gara, ma vi abbia partecipato
attivamente, criticando le decisioni della Commissione ed
istituendo un vero e proprio contraddittorio.
Le conclusioni: le conseguenze del
comportamento
Per il Consiglio di Stato il ricorso deve essere respinto;
il dies a quo per l’impugnazione dell’atto è
rappresentato dalla comunicazione di esclusione avvenuta
durante la seduta della commissione di gara; il ricorso è
stato, pertanto, proposto dalla ditta ricorrente oltre i
trenta giorni previsti dalla normativa vigente in materia.
Emerge in maniera evidente dalla sentenza del Consiglio di
Stato che le modalità di comportamento tenuta durante la
seduta di gara, dai due soggetti incaricati della società
ricorrente, fa propendere che non si trattava di due persone
“chiamate” ad assistere alle operazioni di apertura
delle offerte, ma di veri e propri rappresentanti,
legittimati a manifestare la volontà dell’impresa e,
conseguentemente, a rappresentarla anche ai fini della piena
conoscenza.
La piena conoscenza delle motivazioni dell’atto di
esclusione implica la decorrenza del termine decadenziale a
prescindere dall’invio di una formale comunicazione ex art.
79, comma 5, del D.Lgs. 163/2006 (commento tratto da
www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.05.2013 n. 2614 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La Polizia locale può essere guidata da un «non» vigile.
Consiglio di Stato. Bastano i
requisiti.
LA GERARCHIA/
Il comandante risponde direttamente al sindaco e non va
messo alle dipendenze di un altro funzionario.
I dirigenti della polizia municipale non devono
necessariamente essere vigili, essendo sufficiente che ne
abbiano i requisiti; il corpo della polizia locale non si
deve occupare di compiti gestionali sui quali è chiamato ad
esercitare compiti di controllo; a guidare tali strutture
non vi deve essere per forza un dirigente.
Sono queste le principali indicazioni contenute nella
sentenza 14.05.2013 n. 2607 della V Sez. del Consiglio di Stato.
La sentenza ha un grande rilievo sia per i
principi innovativi che la caratterizzano sia per l'ampiezza
delle indicazioni dettate in tema di organizzazione della
polizia locale.
La pronuncia in primo luogo fissa i margini di autonomia
entro cui le singole amministrazioni locali possono
regolamentare la polizia locale: «La disciplina contenuta
nella legge 65/1986, vieta che, una volta eretto a corpo, la
polizia municipale sia inserita all'interno di un più ampio
settore nel quale assuma una posizione intermedia quale
un'unità operativa complessa, ma non esclude che il corpo di
polizia municipale possa acquisire funzioni ulteriori sempre
nell'ambito di quelle di polizia amministrativa, la cui
individuazione è rimessa alla legislazione regionale».
Questo principio non si applica nei piccoli Comuni in cui
non viene istituito il corpo per il ridotto numero di vigili
in servizio.
Le funzioni attribuite ai vigili non devono però determinare
un conflitto con le attribuzioni tipiche della polizia
amministrativa, per cui il corpo non deve essere chiamato a
svolgere funzioni attive di amministrazione in materie per
le quali è deve effettuare attività di prevenzione e
repressione. In questa ipotesi, infatti, si determina «il
pericolo che il ruolo di controllore e di controllato
finiscano per sommarsi in un'unica figura».
La sentenza detta poi numerosi principi innovativi che si
devono applicare al comandante.
In primo luogo essa ci dice che egli «è responsabile verso
il sindaco, il quale a sua volta è l'organo titolare delle
funzioni di polizia locale che competono al Comune. Di
conseguenza, porre il comandante della polizia municipale
alle dipendenze di un funzionario del Comune equivale a
trasferire a quest'ultimo funzioni di governo che per legge
competono al sindaco. Ma la nomina a comandante del corpo
non deve essere necessariamente accompagnata
dall'assegnazione di una qualifica dirigenziale».
È questo un principio che si applica anche nei Comuni in cui
al vertice della struttura burocratica vi sono i dirigenti.
Inoltre, «al vertice del corpo di polizia municipale è posto
un comandante, anche egli vigile urbano, che ha la
responsabilità del corpo e ne risponde direttamente al
sindaco. Tale posizione, deve aggiungersi, non è affidabile
ad un dirigente amministrativo che non abbia lo status di un
appartenente al corpo di polizia municipale».
La sentenza aggiunge il seguente principio innovativo: «L'individuazione
del comandante del corpo deve avvenire tra soggetti dotati
di adeguata preparazione professionale attestata da
frequenza del corso regionale citato al quale ha partecipato
il dr. .. che del pari ha acquisito dal prefetto su
richiesta dell'amministrazione comunale la qualità di agente
di pubblica sicurezza. Inoltre, il comandante del corpo non
può che rivestire anche la qualifica di vigile urbano, ma
non appare necessario ai fini della sua nomina il previo
possesso di tale qualifica» (articolo Il
Sole 24 Ore del 03.06.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: a)
in merito alla posizione del Corpo di Polizia Municipale
rispetto alle altre strutture amministrative comunali,
stante l'ampia discrezionalità di cui dispongono i Comuni in
ordine al tipo concreto di organizzazione del corpo dei
vigili urbani in virtù dell'art. 7 l. 07.03.1986, n. 65, la
circostanza che quest'ultimo sia posto alle dirette
dipendenze del sindaco non lo qualifica come struttura di
massima dimensione, ben potendo accadere che la mera
mancanza di livelli direttivi intermedi tra il sindaco
stesso ed il responsabile del servizio di polizia municipale
determini il riconoscimento, in capo a detto corpo, di un
maggior rilievo rispetto alle altre quanto ad autonomia e
dimensione.
Inoltre, il Corpo di polizia municipale rappresenta
un'entità organizzativa unitaria ed autonoma da altre
strutture organizzative del Comune. Tale Corpo è costituito
dall'aggregazione di tutti i dipendenti comunali che
esplicano, a vari livelli, i servizi di polizia locale e al
cui vertice è posto un comandante, anche egli vigile urbano,
che ha la responsabilità del Corpo e ne risponde
direttamente al Sindaco. Ciò premesso, la polizia
municipale, una volta eretta in Corpo, non può essere
considerata una struttura intermedia inserita in una
struttura burocratica più ampia; né attraverso un simile
incardinamento, può essere posta alle dipendenze del
dirigente amministrativo che dirige tale più ampia
struttura.
Pertanto, è a seguito dell’elezione della Polizia municipale
a Corpo che si determina l’impossibilità di determinarne
l’inserimento quale struttura intermedia (come Sezione) in
una struttura burocratica più ampia (in un Settore
amministrativo) né, per tale incardinamento, può essere
posta alle dipendenze del dirigente, amministrativo che
dirige tale più ampia struttura. Mentre nel caso in cui il
servizio di Polizia municipale non sia eretto a Corpo,
considerato che l’art. 3, l. n. 65/1986 ha valore
programmatico e demanda al regolamento comunale di polizia
municipale la concreta attuazione del principio in virtù del
quale al relativo servizio è attribuita una posizione
particolare, piuttosto che un'altra, nell'ambito
dell'organizzazione comunale, ben può essere realizzata
l'incardinazione del servizio medesimo all'interno di una
struttura dirigenziale più ampia, senza che ciò elida la
relazione diretta che deve essere assicurata tra il Sindaco
e il Comandante;
b) quanto, invece, al ruolo e all’autonomia del Comandante del
Corpo l'art. 9 l. n. 65/1986, prevede che il comandante
della polizia municipale è responsabile verso il sindaco, il
quale a sua volta è l'organo titolare delle funzioni di
polizia locale che competono al Comune (artt. 1 e 2);
conseguentemente porre il comandante della polizia
municipale alle dipendenze di un funzionario del Comune
equivale a trasferire a quest'ultimo funzioni di governo che
per legge competono al sindaco. Ma la nomina a Comandante
del Corpo non deve essere necessariamente accompagnata
dall’assegnazione di una qualifica dirigenziale;
c) in ordine alla natura della relazione tra Sindaco e Comandante,
l’art. 9 l. n. 65/1986 istituzionalizza una diretta
relazione tra il sindaco ed il comandante della polizia
municipale, finalizzata ad assicurare, all’autorità posta al
vertice dell’Amministrazione ed in relazione ai poteri ed ai
compiti ad essa conferiti dai precedenti articoli 2 e 3, il
diretto controllo dei profili organizzativi e funzionali del
servizio (addestramento, disciplina, impiego
tecnico-operativo) che presentano la maggiore specificità e
delicatezza, proprio indipendentemente dalla collocazione
del servizio stesso all’interno del modello organizzativo
prescelto dall’Ente nell’esercizio del suo potere di
autorganizzazione;
d) quanto, invece, alla provenienza del Comandante, al vertice del
Corpo di Polizia municipale è posto un comandante, anche
egli vigile urbano, che ha la responsabilità del Corpo e ne
risponde direttamente al Sindaco. Tale posizione, deve
aggiungersi, non è affidabile ad un dirigente amministrativo
che non abbia lo status di un appartenente al Corpo di
polizia municipale.
Residua a questo punto l’esame delle censure relative al
corretto inquadramento nell’ambito dell’amministrazione
comunale del Corpo di Polizia municipale secondo la
disciplina nazionale e regionale vigente. Il loro esame deve
essere preceduto sia da una precisazione in merito alla
disciplina applicabile, che da una rassegna dei principi
elaborati dal Consiglio di Stato, che possa fungere da guida
nel prosieguo della motivazione.
La normativa di riferimento è rappresentata dalla l. 07.03.1986, n. 65 e dalla l.r. Toscana,
03.04.2006, n.
12. I rapporti tra le due discipline sono fissati dall’art.
6, l. n. 65/1986, sicché nel rispetto dei principi dalla
legislazione statale, la legge regionale provvede a:
a) stabilire le norme generali per la istituzione del
servizio tenendo conto della classe alla quale sono
assegnati i comuni;
b) promuovere servizi ed iniziative per la formazione e
l'aggiornamento del personale addetto al servizio di polizia
municipale;
c) promuovere tra i comuni le opportune forme associative
con idonee iniziative di incentivazione;
d) determinare le
caratteristiche delle uniformi e dei relativi distintivi di
grado per gli addetti al servizio di polizia municipale dei
comuni della regione stessa e stabilire i criteri generali
concernenti l'obbligo e le modalità d'uso; le uniformi
devono essere tali da escludere la stretta somiglianza con
le uniformi delle Forze di polizia e delle Forze armate
dello Stato;
e) disciplinare le caratteristiche dei mezzi e degli
strumenti operativi in dotazione ai Corpi o ai servizi,
fatto salvo quanto stabilito dal comma 5 dell’articolo 5
della stessa legge.
La compresenza di fonti di livello territoriale diverso
(statale e regionale), si spiega alla luce delle funzioni
che sono attribuite alla Polizia municipale:
f) compiti di “polizia di sicurezza”, consistenti in misure
preventive e repressive dirette al mantenimento dell'ordine
pubblico, inteso come il complesso dei beni giuridici
fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si
regge l'ordinata e civile convivenza nella comunità
nazionale, nonché alla sicurezza delle istituzioni, dei
cittadini e dei loro beni;
g) compiti di “polizia amministrativa”, consistenti in
attività di prevenzione o di repressione dirette a evitare
danni o pregiudizi che possono essere arrecati alle persone
o alle cose nello svolgimento delle materie sulle quali si
esercitano le competenze regionali, senza che ne risultino
lesi o messi in pericolo i beni o gli interessi tutelati in
nome dell'ordine pubblico (Corte cost., 09.02.2011, n.
35). La disciplina dei primi rientra nella competenza
legislativa statale esclusiva ex art. 117, secondo comma,
lettera h), Cost., quella dei secondi, invece, rientra nella
competenza legislativa regionale (Corte cost., 06.05.2010, n. 167).
Quanto ai principi cardini della materia, elaborati dal
Consiglio di Stato, va rammentato che:
a) in merito alla posizione del Corpo rispetto alle altre
strutture amministrative comunali, stante l'ampia
discrezionalità di cui dispongono i Comuni in ordine al tipo
concreto di organizzazione del corpo dei vigili urbani in
virtù dell'art. 7 l. 07.03.1986, n. 65, la circostanza che
quest'ultimo sia posto alle dirette dipendenze del sindaco
non lo qualifica come struttura di massima dimensione, ben
potendo accadere che la mera mancanza di livelli direttivi
intermedi tra il sindaco stesso ed il responsabile del
servizio di polizia municipale determini il riconoscimento,
in capo a detto corpo, di un maggior rilievo rispetto alle
altre quanto ad autonomia e dimensione (Cons. St., Sez. V,
17.05.2012, n. 2817; 24.10.2001, n. 5598).
Inoltre,
il Corpo di polizia municipale rappresenta un'entità
organizzativa unitaria ed autonoma da altre strutture
organizzative del Comune. Tale Corpo è costituito
dall'aggregazione di tutti i dipendenti comunali che
esplicano, a vari livelli, i servizi di polizia locale e al
cui vertice è posto un comandante, anche egli vigile urbano,
che ha la responsabilità del Corpo e ne risponde
direttamente al Sindaco. Ciò premesso, la polizia
municipale, una volta eretta in Corpo, non può essere
considerata una struttura intermedia inserita in una
struttura burocratica più ampia; né attraverso un simile incardinamento, può essere posta alle dipendenze del
dirigente amministrativo che dirige tale più ampia struttura
(Cons. St., Sez. V, 27.08.2012, n. 4605).
Pertanto, è a
seguito dell’elezione della Polizia municipale a Corpo che
si determina l’impossibilità di determinarne l’inserimento
quale struttura intermedia (come Sezione) in una struttura
burocratica più ampia (in un Settore amministrativo) né, per
tale incardinamento, può essere posta alle dipendenze del
dirigente, amministrativo che dirige tale più ampia
struttura (Cons. St., sez. V, 17.02.2006, n. 616; sez.
V, 04.09.2000, n. 466). Mentre nel caso in cui il
servizio di Polizia municipale non sia eretto a Corpo,
considerato che l’art. 3, l. n. 65/1986 ha valore
programmatico e demanda al regolamento comunale di polizia
municipale la concreta attuazione del principio in virtù del
quale al relativo servizio è attribuita una posizione
particolare, piuttosto che un'altra, nell'ambito
dell'organizzazione comunale, ben può essere realizzata
l'incardinazione del servizio medesimo all'interno di una
struttura dirigenziale più ampia, senza che ciò elida la
relazione diretta che deve essere assicurata tra il Sindaco
e il Comandante (Cons. St., sez. V, 12.03.1996, n. 262);
b) quanto, invece, al ruolo e all’autonomia del Comandante
del Corpo l'art. 9 l. n. 65/1986, prevede che il comandante
della polizia municipale è responsabile verso il sindaco, il
quale a sua volta è l'organo titolare delle funzioni di
polizia locale che competono al Comune (artt. 1 e 2);
conseguentemente porre il comandante della polizia
municipale alle dipendenze di un funzionario del Comune
equivale a trasferire a quest'ultimo funzioni di governo che
per legge competono al sindaco (Cons. St., sez. V, 17.05.2012, n. 2817). Ma la nomina a Comandante del Corpo non deve
essere necessariamente accompagnata dall’assegnazione di una
qualifica dirigenziale (Cons. St., sez. V, 14.11.1997,
n. 1303);
c) in ordine alla natura della relazione tra Sindaco e
Comandante, l’art. 9 l. n. 65/1986 istituzionalizza una
diretta relazione tra il sindaco ed il comandante della
polizia municipale, finalizzata ad assicurare, all’autorità
posta al vertice dell’Amministrazione ed in relazione ai
poteri ed ai compiti ad essa conferiti dai precedenti
articoli 2 e 3, il diretto controllo dei profili
organizzativi e funzionali del servizio (addestramento,
disciplina, impiego tecnico-operativo) che presentano la
maggiore specificità e delicatezza, proprio
indipendentemente dalla collocazione del servizio stesso
all’interno del modello organizzativo prescelto dall’Ente
nell’esercizio del suo potere di autorganizzazione (Cons.
St., Sez. V, 07.02.2003, n. 644);
d) quanto, invece, alla provenienza del Comandante, al
vertice del Corpo di Polizia municipale è posto un
comandante, anche egli vigile urbano, che ha la
responsabilità del Corpo e ne risponde direttamente al
Sindaco. Tale posizione, deve aggiungersi, non è affidabile
ad un dirigente amministrativo che non abbia lo status di un
appartenente al Corpo di polizia municipale (Cons. St.,
sez. V, 27.08.2012, n. 4605; sez. V, 04.09.2000,
n. 4663) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.05.2013 n. 2607 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Prescrizione del reato urbanistico ed onere
probatorio.
In tema di decorrenza della data di prescrizione del reato
edilizio e di spostamento di essa ad una data diversa da
quella dell'accertamento -fermo restando l'onere incombente
sull'accusa di fornire la prova dell'inizio della decorrenza
del termine in oggetto- non è sufficiente la semplice e
diversa affermazione da parte dell’imputato per ritenere che
il reato si sia realmente estinto per prescrizione, o quanto
meno per ritenere incerta la data con conseguente ricorso al
principio “in dubio pro reo".
Invero, in base alla regola iuris secondo la quale
chiunque affermi un fatto o una circostanza determinati è
tenuto a darne prova, è preciso onere dell'imputato che
voglia avvalersi della invocata causa estintiva, in
contrasto o in aggiunta a quanto già risulta in proposito
dagli atti di causa, quello di allegare gli elementi in suo
possesso, dei quali è il solo a potere concretamente
disporre, onde determinare la data di inizio del decorso del
termine di prescrizione.
In assenza di una prova siffatta non può che valere la
diversa data prospettata dall'accusa e coincidente con la
data di accertamento della condotta illecita (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.05.2013 n. 20381 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abuso edilizio e conseguenze dannose per il
proprietario dell’immobile confinante.
L'abuso
edilizio può integrare un fatto potenzialmente produttivo di
conseguenze dannose per il proprietario dell’immobile
confinante, sia per i problemi statici e di sicurezza sia
poiché un aumento di volumetria dell’immobile limitrofo è
idoneo a comportare una diminuzione di amenità del luogo a
causa dell'aumento della rumorosità e di ogni altro fenomeno
collegato alla possibilità di maggiore utilizzazione ed
all'incremento abitativo per la destinazione residenziale
(fattispecie relativa ad incremento di volumetria
residenziale di vani sottotetto) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.05.2013 n. 20378 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Omessa bonifica e responsabilità per il
reato.
L’art. 239,
lett. D), del D.Lgs. n. 152/2006 definisce bonifica “l'insieme
degli interventi atti ad eliminare le fonti di inquinamento
e le sostanze inquinanti o a ridurre le concentrazioni delle
stesse presenti nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque
sotterranee ad un livello uguale o inferiore ai valori della
concentrazione soglia di rischio”. Il livello di
concentrazione soglia di rischio (CSR) è un livello
superiore a quelli della concentrazione soglia di
contaminazione (CSC) nonché al livelli di accettabilità già
definiti dal DM. 25.10.1999, n. 471.
Del reato di omessa bonifica risponde solo il responsabile e
il superamento delle concentrazioni soglia di rischio (CSR)
costituisce in ogni caso il presupposto per la
configurabilità del reato medesimo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.05.2013 n. 19962 -
tratto da www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione: confisca e posizione dell'erede.
Un erede subentra nella stessa posizione di fatto e di
diritto del suo dante causa, per cui non può far valere una
posizione di terzo estraneo in buona fede rispetto alla
commissione del reato (fattispecie relativa ad opposizione
all'esecuzione con la quale si chiedeva la revoca della
confisca di terreni oggetto di lottizzazione abusiva) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.05.2013 n. 19959 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Attività di recupero soggette e
procedura semplificata.
Il decreto
ministeriale del 05.02.1998 è riferibile esclusivamente alle
attività di recupero soggette a procedura semplificata, come
è indicato nel titolo e come si rileva dall'esame del
preambolo, dall'articolato e dal richiamo ad esso effettuato
dall'articolo 214 d.lgs. 152/2006. Tali attività riguardano
esclusivamente il recupero di materia (riciclaggio) e non
anche il recupero di energia.
Le prescrizioni apposte all'autorizzazione devono ritenersi
vincolanti per il soggetto autorizzato non soltanto quando
traggano origine da specifiche disposizioni normative che
l'atto autorizzatorio semplicemente recepisce, ma anche
quando siano apposte direttamente dall'amministrazione che
le rilascia nell'esercizio del suo potere discrezionale (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.05.2013 n. 19955 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Rifiuti. Inerti e terre e rocce da scavo.
La non assimilazione degli inerti derivanti da demolizione
di edifici o da scavi di strade alle terre e rocce da scavo
è stata ribadita con il decreto legislativo n. 152 del 2006.
Però anche lo smaltimento delle sole terre e rocce da scavo,
prive dei requisiti previsti per essere esonerate dal regime
dei rifiuti, conserva rilevanza penale ex art. 256 D.L.vo
152/2006 (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 09.05.2013 n. 19942 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Inottemperanza all'ordinanza di rimozione e reato
permanente.
Il reato di mancata ottemperanza all'ordine sindacale di
rimozione dei rifiuti, di cui all'art. 255, comma terzo, D.Lgs. n. 152 del 2006, ha natura di reato permanente, nel
quale la scadenza del termine per l'adempimento non indica
il momento di esaurimento della fattispecie, bensì l'inizio
della fase di consumazione che si protrae sino al momento
dell'ottemperanza all'ordine ricevuto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.05.2013 n. 19461 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Raccolta e trasporto di rifiuti in forma ambulante.
L'applicazione
della disciplina derogatoria in materia di raccolta e
trasporto di rifiuti effettuate in forma ambulante non può
prescindere dal contenuto letterale dell'art. 266, comma 5,
d.lgs. 152/2006 e, segnatamente, dell'ultima parte della
disposizione, laddove l'esonero dall'osservanza della
disciplina generale è chiaramente circoscritta ai soli
rifiuti che formano oggetto del commercio del soggetto
abilitato. La verifica del settore merceologico entro il
quale il commerciante è abilitato ad operare deve essere
pertanto oggetto di adeguata verifica, così come la
riconducibilità del rifiuto trasportato con l'attività
autorizzata.
E' peraltro evidente che l'attività espletata resta
sottratta alla disciplina generale dei rifiuti avendo il
legislatore considerato la minima pericolosità per la salute
e per l'ambiente di un'attività pacificamente riconducibile
a quella dei c.d. robivecchi. Per tale ragione deve invece
escludersi che la disciplina in esame possa essere
utilizzata per legittimare attività diverse che richiedono,
invece, il rispetto delle disposizioni di carattere generale (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.05.2013 n. 19111 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Comunicazioni di inizio e fine lavori.
Le
comunicazioni di inizio e fine lavori hanno lo scopo
evidente di agevolare l'accertamento, da parte
dell'amministrazione comunale, dell'inizio e del
completamento dell'intervento edilizio nei termini e
consentire una tempestiva verifica sull'attività posta in
essere e non rappresentano, quindi, una semplice formalità
amministrativa, bensì di un adempimento strettamente
connesso ai contenuti ed alle finalità del permesso di
costruire ed agli obblighi di vigilanza imposti dall'art. 27
e segg. del Testo Unico.
E' tuttavia evidente che la comunicazione è comunque un atto
del privato senza alcuna valenza probatoria privilegiata ed
il cui contenuto può essere oggetto di specifica verifica
sulla effettiva situazione di fatto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.05.2013 n. 19110 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione e morte del reo.
L'ordine, disposto con sentenza di condanna per reato
edilizio, non si estingue per la morte del reo sopravvenuta
alla irrevocabilità della sentenza, a motivo della sua
natura di sanzione amministrativa accessoria (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.05.2013 n. 19077 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AGGIORNAMENTO AL 06.06.2013 |
ã |
06.06.2013: IL
P.R.G. E' RISUSCITATO!! |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 23 del 05.06.2013,
"Disposizioni transitorie per la pianificazione
comunale. Modifiche alla legge regionale 11.03.2005,
n. 12 (Legge per il governo del territorio)" (L.R.
04.06.2013 n. 1). |
Quindi, quei comuni che non hanno adottato il P.G.T.
entro il 31.12.2012 da oggi si vedono risuscitato il
vecchio e caro P.R.G. e "tirano una boccata
d'ossigeno" per le esangui casse comunali
essendo ora possibile sbloccare quelle poche (o
tante, non si sa) pratiche edilizie "onerose"
sino al 05.06.2013 non assentibili.
Ma c'è un cruccio (ovviamente solo per chi è sensibile
e odora la "strizza" del verosimile danno
contabile ...) e cioè che
dall'01.01.2013 al
05.06.2013 l'I.M.U. sui terreni fabbricabili NON E'
DOVUTA dai relativi proprietari,
con relativo mancato introito nelle casse comunali e
felicità alle stelle del ragioniere capo. |
E chi paga?? Chi
rifonde il danno erariale?? Il Sindaco?? La Giunta
Comunale?? Il responsabile dell'UTC?? |
Invero, l'ignavia dell'amministratore locale
nell'aver NON adottato il P.G.T. entro il
31.12.2012, dopo numerose proroghe regionali del
termine ultimo, non può trovare scusanti di sorta.
Allora, non ci resta che aspettare l'anno prossimo e
vedere se la Corte dei Conti "batterà un colpo"
-o meno- quando spulcerà il conto consuntivo 2013 e
constaterà il ragguardevole "buco di cassa"
rispetto agli anni passati ...
06.06.2013 - LA SEGRETERIA PTPL |
UTILITA' |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Manuale:
il ciclo della performance nei comuni
(maggio 2013 - tratto da www.qualitapa.gov.it). |
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
LAVORI PUBBLICI:
Linee guida sulle operazioni di leasing finanziario e sul
contratto di disponibilità (determinazione
22.05.2013 n. 4
- link a www.autoritalavoripubblici.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 05.06.2013 n. 130 "Disposizioni urgenti per il
recepimento della Direttiva 2010/31/UE del Parlamento
europeo e del Consiglio del 19.05.2010, sulla prestazione
energetica nell’edilizia per la definizione delle procedure
d’infrazione avviate dalla Commissione europea, nonché altre
disposizioni in materia di coesione sociale" (D.L.
04.06.2013 n. 63). |
PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
04.06.2013 n. 129 "Regolamento recante codice di
comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo
54 del decreto legislativo 30.03.2001 n. 165"
(D.P.R.
16.04.2013 n. 62). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 04.06.2013, "Sostegno
finanziario agli enti locali ed agli enti gestori delle aree
regionali protette per l’esercizio delle funzioni
paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 79) - Determinazioni per
l’anno 2013" (deliberazione
G.R. 31.05.2013 n. 206). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA: A.
Gustapane,
SCIA edilizia e responsabilità penale dei funzionari
comunali
(maggio 2013 - tratto da www.filodirittto.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Tapetto,
INTERMEDIAZIONE E COMMERCIO DI RIFIUTI - Nuove
considerazioni alla luce della normativa vigente
(31.05.2013 - link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
S. Deliperi,
Il residence non può essere una villa privata
(interessante pronuncia del Tribunale penale di Reggio
Emilia in materia di abusivismo edilizio in conseguenza
della violazione del vincolo di destinazione alberghiera
...) (27.05.2013
- link a www.lexambiente.it). |
APPALTI: M.
Belli,
Responsabilità precontrattuale della p.a. nella fase
antecedente all’aggiudicazione del contratto - Nota a
Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 25.07.2012 n. 4236
(24.05.2013 - link a www.filodirittto.com). |
APPALTI: F.
Di Chio,
Esclusione dalla gara d’appalto per deficit di fiducia:
rilevanza dell’onere motivazionale
(21.05.2013 - link a www.filodirittto.com). |
PUBBLICO IMPIEGO: F.
V. Rinaldi,
Costrizione e induzione nella nuova legge anticorruzione: il
recente dibattito giurisprudenziale
(15.05.2013 - link a www.filodirittto.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI: R.
Musone,
Concezioni del potere di riesame e tutela del legittimo
affidamento
(15.05.2013 - link a www.filodirittto.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: E.
Gregoraci,
(In)Sindacabili le valutazioni numeriche della Commissione
giudicatrice fondate su criteri analitici predeterminati -
Nota a Consiglio di Stato, sentenza del 15.04.2013 n. 2034
(08.05.2013 - link a www.filodirittto.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
M. Sanna,
I trattamenti delle terre da scavo ed il D.M. 161/2012
(maggio 2013 - link a www.industrieambiente.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Dalla Regione 200.000 euro per la tutela del paesaggio.
Regione Lombardia ha deciso di destinare 200.000 euro agli
Enti locali e agli Enti gestori delle aree protette
regionali per la gestione delle competenze paesaggistiche.
A darne notizia è l'assessore regionale all'Ambiente,
Energia e Sviluppo sostenibile. "Il provvedimento è stato
approvato durante la Giunta dello scorso 31 maggio -ha
spiegato-, per sostenere gli Enti nel dotarsi degli
strumenti necessari a esercitare funzioni in materia di
tutela dei beni paesaggistici, come previsto dalla legge. In
questo modo confermiamo il nostro impegno a favore
dell'azione di responsabilità condivisa per la
valorizzazione del territorio e dei paesaggi lombardi,
compito delle istituzioni, ma anche di tutti i cittadini".
A usufruire dei contributi saranno gli Enti che abbiano
rilasciato almeno 30 provvedimenti paesaggistici nel periodo
compreso tra il 1° gennaio e il 31.12.2012 con parere della
Commissione per il Paesaggio. Il bando attuativo verrà
pubblicato a giorni (05.06.2013 - link a
www.regione.lombardia.it). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI:
Cosa è la White list? (27.05.2013 - link a
www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
La “pollina” è rifiuto, sottoprodotto di origine animale o
biomassa? (13.05.2013 - link a
www.ambientelegale.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso a
registri scolastici.
L’istituto scolastico in indirizzo ha rappresentato che -pur
avendo ottemperato alla decisione di questa Commissione, che
ha accolto un ricorso presentato da un genitore di una
alunna avverso il diniego di accesso ai registri dei
professori, concedendo la visione ed estrazione di copia dei
citati documenti, mediante oscuramento dei nominativi degli
altri alunni- tuttavia non intende concedere l’accesso ai
registri in originale essendovi il rischio di pregiudicare
l’anonimato degli altri alunni. Al fine di dirimere la
questione segnalata, ha chiesto un parere a questa
Commissione.
La documentazione a suo tempo richiesta dal genitore
dell’alunna risulta fornita in copia dall’amministrazione
scolastica, con contestazioni ormai limitate agli originali
dei registri di classe, per la parte riferita ad alunni
diversi dalla figlia dell’istante. Anche in relazione a tali
soggetti, come già indicato nella decisione di questa
Commissione del 13.09.2011 e in conformità alla
giurisprudenza amministrativa (cfr CdS Sez. VI Sent.,
11.11.2008, n. 5626), non pare elusivo della menzionata
decisione il comportamento dell'Istituto scolastico che,
fornendo in copia la documentazione richiesta dal genitore
di una alunna, l'abbia condizionata all'oscuramento dei
nominativi degli altri alunni.
Infatti -tenuto conto che ai sensi dell’art. 24, comma 7,
della legge n. 241/1990 "nel caso di documenti contenenti
dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei
limiti in cui sia strettamente indispensabile"- pare a
questa Commissione che la verifica della correttezza
dell’operato degli insegnanti nella valutazione dei singoli
allievi, onde appurare eventuali disparità di trattamento
nei confronti della figlia dell’istante, possa essere
effettuata anche indipendentemente dai nominativi di ciascun
alunno.
Pertanto, la Commissione ritiene che un genitore abbia
diritto di ottenere copia dei registri personali dei docenti
al fine di poter giudicare la legittimità delle valutazioni
e degli scrutini, mentre non pare possa consentirsi con
riguardo al nome degli alunni diversi dal proprio figlio,
essendo necessario tutelare la loro riservatezza per i
possibili pregiudizi morali ed anche materiali. Pertanto, i
registri potranno recare l’oscuramento dei nomi degli alunni
e non dei voti
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 28.02.2012 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Chiarimenti in tema di diritto di accesso del
cittadino residente.
L’ente in indirizzo, a fronte di un parere reso da questa
Commissione sul tema in oggetto
(parere plenum 20.12.2011), chiede un chiarimento
sull’ammissibilità di un generalizzato diritto di
accesso del cittadino alle delibere comunali ai sensi
dell’art. 10 del TUEL anche “al di fuori del
quadro normativo di cui alla legge n. 241/1990”.
In conformità all’orientamento già espresso da questa
Commissione (e da cui non v’è
motivo di discostarsi), si precisa che la diversità di
posizione tra cittadino residente e quello non
residente nel Comune dà luogo ad un doppio regime del
diritto di accesso secondo quanto disposto
dall’art. 10 del d.lgs. n. 267/2000 che ha presupposti
diversi dal diritto di accesso previsto dalla
normativa generale di cui all’art. 22 della l. n. 241/1990
(arg. ex TAR Puglia Lecce Sez. II, 12.04.2005, n. 2067; TAR Marche, 12.10.2001, n. 1133).
Si chiarisce, pertanto, che nel caso in cui l’istante sia un
cittadino residente nel comune, il
diritto di accesso non è soggetto alla disciplina dettata
dalla legge n. 241/1990 -che richiede la
titolarità di un interesse diretto, concreto ed attuale
corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento richiesto- bensì alla
speciale disciplina di cui all’art. 10, co. 1, del
d.lgs. n. 267/2000, che sancisce espressamente ed in linea
generale il principio della pubblicità di
tutti gli atti ed il diritto dei cittadini di accedere agli
atti ed alle informazioni in possesso delle
autonomie locali, senza fare menzione alcuna della necessità
di dichiarare la sussistenza di tale
situazione al fine di poter valutare la legittimazione
all’accesso del richiedente
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 28.02.2012 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso del
consigliere comunale.
Un consigliere comunale ha chiesto a questa Commissione se
il comune sia tenuto al rilascio
della documentazione inerente all’incarico professionale
conferito ad un legale dallo stesso ente
civico, il quale ha negato l’accesso ai documenti poiché
riguardano un procedimento penale ove il
consigliere istante risulta indagato ed il Comune è parte
offesa.
Per orientamento consolidato, la Commissione ritiene che il
diritto di accesso riconosciuto ai
consiglieri degli organi elettorali locali ex art. 43 d.lgs.
n. 267/2000 è strettamente funzionale
all'esercizio del proprio mandato, alla verifica e al
controllo del comportamento degli organi
istituzionali decisionali dell'ente territoriale, ai fini
della tutela degli interessi pubblici, e si
configura come peculiare espressione del principio
democratico dell'autonomia locale e della
rappresentanza esponenziale della collettività (arg. ex CdS,
Sez. V, 08.11.2011, n. 5895).
In tale ottica, al consigliere comunale -che esercita il
diritto di accesso dichiarando
all’amministrazione che i documenti richiesti sono utili
all’espletamento del mandato, piuttosto che
ad interessi privati e personali- non può essere opposto
alcun diniego, altrimenti gli organi di
governo dell'ente sarebbero arbitri di stabilire essi stessi
l'estensione del controllo sul proprio
operato
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 28.02.2012 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Diritto di accesso ad esposto.
Un cittadino ha chiesto a questa Commissione un parere
sull’accessibilità di eventuali
esposti presentati alle forze dell’ordine nei suoi confronti
da privati (ignoti o vicini di casa) al fine
di innescare controlli nella propria abitazione o nella sua
attività imprenditoriale.
La Commissione ribadisce il proprio costante orientamento
secondo cui - poiché nell'ambito
dell'ordinamento giuridico generale non è riconosciuto il
diritto all'anonimato di colui che rende una
dichiarazione a carico di terzi - ogni soggetto deve poter
conoscere con precisione i contenuti e gli
autori di segnalazioni, esposti o denunce che, fondatamente
o meno, possano costituire le basi per
l'avvio di un procedimento ispettivo, di controllo o
sanzionatorio nei suoi confronti, non potendo in
proposito la Pubblica Amministrazione procedente opporre
all’interessato esigenze di riservatezza
(così TAR Lombardia Brescia, sez. I, 29.10.2008, n.
1469, nello stesso senso cfr., CdS, Sez. V
19.05.2009 n. 3081; Sez. V, 27.05.2008 n. 2511; Sez. VI,
23.10.2007 n. 5569; Sez. VI, 25.06.2007 n.
3601; Sez. VI, 12.04.2007, n. 1699)
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta dell'01.02.2012 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Richiesta di parere in ordine al diritto di accesso
dei consiglieri comunali
cessati dalla carica per scioglimento del consiglio
comunale.
A fronte della sospensione del Consiglio Comunale, adottata
con decreto prefettizio e nelle
more dell’emanazione del decreto presidenziale di
scioglimento del Consiglio, il segretario
comunale di Cerveteri chiede a questa Commissione se -stante la perdita dell’effettivo esercizio
della funzione di consigliere comunale e del relativo status- permanga in capo all’ente civico
l’obbligo di rilasciare i documenti richiesti dai
consiglieri e/o di completare l’istruttoria della pratica
di accesso.
L’adozione di provvedimenti cautelari o definitivi, che
incidano sull’esercizio della funzione
di consigliere comunale, esclude senza dubbio l’accoglibilità
delle istanze di accesso già formulate
dai consiglieri alla stregua del regime ex art. 43 TUEL,
essendo venute meno le funzioni politiche
cui detta norma ricollega l’esercizio della prerogativa
dell’accesso, fatti salvi gli altri regimi
giuridici in tema di accesso ai documenti amministrativi (ex
art. 22 e ss legge n. 241/1990 o art. 10
d.lgs. n. 267/2000)
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta dell'01.02.2012 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Diritto di accesso ad atti in materia edilizia.
A fronte dell’istanza di un cittadino per l’accesso alla
pratica edilizia in sanatoria di opere
realizzate da un confinante, quest’ultimo si è opposto
all’accesso, difettando -a suo dire- un
interesse qualificato alla conoscenza degli atti. Pertanto,
il Comune ha chiesto alla Commissione di
esprimere un parere sulla legittimità dell’opposizione
all’accesso manifestata dal controinteressato.
Come già indicato in precedenza da questa Commissione (cfr.
plenum 15.03.2011 in
relazione ad analoga richiesta di codesto ente), qualora -come nella specie- l’accedente risieda nel
territorio comunale, egli può conoscere tutti i documenti
inerenti la pratica edilizia del vicino ai
sensi dell’art. 10, co. 1, d.lgs. n. 267/2000, senza
necessità di motivare la sua istanza con
riferimento ad uno specifico interesse all’accesso.
Ed a nulla può valere l’opposizione manifestata dal
controinteressato, dal momento che nella
fattispecie non si applica l’art. 3 del d.P.R. n. 184 del
2006, la cui applicazione anche all’ambito
delle autonomie locali finirebbe per operare un’indebita
compressione dei più ampi diritti
riconosciuti dalla disciplina speciale in favore dei
cittadini residenti
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta dell'01.02.2012 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Accesso di un consigliere comunale ai verbali
dell'Organismo Indipendente di
Valutazione.
Il Segretario Generale del Comune di Imperia chiede se vi
siano eventuali limiti o vincoli
all’accesso del Consigliere comunale ai verbali
dell’Organismo Indipendente di Valutazione tenuto
conto che la lett. b) dell’art. 14, IV comma, del D.lgs. n.
150 del 2009 prevede che tale Organismo –al di là della relazione annuale sicuramente accessibile–
comunichi eventuali criticità e/o
disfunzioni riscontrate all’organo Esecutivo, alla Corte dei
Conti, all’Ispettorato della Funzione
Pubblica e alla Civit, esprimendo quindi anche eventuali
valutazioni inerenti aspetti e profili
squisitamente personali, anche potenzialmente soggetti alla
legge sulla privacy.
Questa Commissione, nella scia di una ormai consolidata
giurisprudenza del Giudice
amministrativo, ha avuto più volte occasione di riaffermare
che il “diritto di accesso” e il “diritto di
informazione" dei Consiglieri comunali sono specificatamente
disciplinati dall’art. 43 del d.lgs. n.
267 del 2000 (T.U. Enti locali) che riconosce loro (e ai
Consiglieri provinciali) il diritto di ottenere
dagli Uffici tutte le notizie e le informazioni in loro
possesso, utili all’espletamento del loro
mandato.
Si tratta, all’evidenza, di un diritto dai confini più ampi
del diritto di accesso riconosciuto al
cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10 T.U.
Enti locali) o, più in generale, nei
confronti della P.A., disciplinato dalla legge n. 241 del
1990.
Tale maggiore ampiezza trova la propria giustificazione nel
particolare “munus” espletato
dal Consigliere comunale, affinché questi possa valutare con
piena cognizione di causa la
correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione,
onde poter esprimere un giudizio
consapevole sulle questioni di competenza della P.A.,
opportunamente considerando il ruolo di
garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi
esercitata.
Per queste ragioni il Consigliere comunale non deve neppure
motivare la propria richiesta di
informazioni, perché altrimenti la P.A. si ergerebbe ad
arbitro delle forme di esercizio delle potestà
pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al
perseguimento dei fini collettivi, con la
conseguenza che gli uffici comunali non hanno il potere di
sindacare il nesso intercorrente tra
l’oggetto delle richieste d’informazione e le modalità di
esercizio della funzione esercitata dal
Consiglio comunale.
Tutte queste considerazioni valgono anche per ciò che
concerne, come nel caso di specie,
l’esercizio del diritto di accesso del Consigliere comunale
ai verbali dell’’Organismo Indipendente
di Valutazione, che sicuramente costituiscono documentazione
amministrativa detenuta
dall’Amministrazione civica. Ed invero, al di là
dell’obbligo imposto a tale Organismo dall’art. 14,
IV comma, del d.lgs. n. 150/2009 richiamato nella richiesta
di parere, eventuali criticità o
disfunzioni desumibili dai suddetti verbali possono
costituire un valido elemento di conoscenza che
permetta al Consigliere comunale, per il tramite e
nell’ambito della competenza dell’organo
collegiale cui appartiene, di poter ovviare alle disfunzioni
stesse con opportuni atti di indirizzo
politico–amministrativo.
Sottolinea infine la Commissione che anche nel caso di
specie, il diritto di accesso agli atti
del Consigliere comunale non può subire compressioni per
pretese esigenze di ordine burocratico
dell’Ente, tali da ostacolare l’esercizio del suo mandato
istituzionale; l’unico limite è rappresentato
dal fatto che il Consigliere comunale non può abusare del
diritto all’informazione riconosciutagli
dall’ordinamento, interferendo pesantemente sulla
funzionalità e sull’efficienza dell’azione
amministrativa dell’Ente civico (nel caso di specie sulle
funzioni dell’Organismo Indipendente di
Valutazione), con richieste che travalichino i limiti della
proporzionalità e della ragionevolezza
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 17.01.2012 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Richieste di parere sull’obbligo di notifica ai controinteressati in caso di
accesso a dati personali da parte di soggetti terzi.
Il responsabile del Centro per l’Impiego della provincia di
Piacenza chiede se -a fronte delle
richieste di accesso formulate da parte di rappresentanti di
creditori al fine di conoscere i dati
identificativi del datore di lavoro relativi a dipendenti
insolventi- sia corretto o meno l’obbligo, per
i Centri, di notifica dell’istanza di accesso ai
controinteressati, così come previsto dall’art. 3, d.P.R.
n. 184/2006.
Questa Commissione ha già avuto modo di affrontare la
problematica relativa all’accesso di
soggetti terzi ai dati in possesso dei Centri per l’Impiego
e relativi ai dati identificativi del datore di
lavoro, precisando (cfr. parere Plenum 17.06.2010), nei
limiti di quanto qui interessa, che ai
sensi dell’art. 3, d.P.R. n. 184/2006, al controinteressato,
e dunque anche nella fattispecie in esame,
dovrà essere comunicata la richiesta di accesso formulata
dal terzo, anche se la sua eventuale
probabile opposizione dovrà essere riconosciuta recessiva di
fronte al diritto di tutela giudiziaria
dell’accedente
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 17.01.2012 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Diritto di accesso dei consiglieri comunali.
Modifiche al Regolamento del
Comune di Selvazzano (PD). Richiesta parere.
Alcuni consiglieri comunali chiedono parere in ordine alle
modifiche che il Consiglio
comunale ha apportato con delibera n. 54 del 30.09.2011 al
Regolamento per la disciplina del diritto
di accesso, segnalando l’aumento del termine per evadere le
richieste da 5 a 30 gg., con facoltà
dell’amministrazione di superare il termine di 30 gg. in caso
di quantità del materiale o per
complessità del provvedimento. Gli istanti, ritenendo le
modifiche contrarie agli orientamenti di
questa Commissione (in particolare parere plenum
12.10.2010), chiedono il ripristino delle
disposizioni antecedentemente adottate.
La Commissione è del parere che:
-) l’innalzamento del termine di conclusione da 5 a 30 gg. -pur nel rispetto dell’obbligo
generale di cui all’art. 25, co. 4, della legge n. 241/1990-
potrebbe in concreto generare una lesione
delle prerogative del consigliere comunale, in quanto
l’accesso ai documenti deve comunque essere
concesso prima possibile in modo tale da consentire,
mediante una valutazione caso per caso, il
concreto espletamento del mandato da parte del consigliere
ex art. 43 TUEL, fatti salvi i casi di
abuso del diritto all’informazione, attuato con richieste
non contenute entro i limiti della
proporzionalità e della ragionevolezza e che determini un
ingiustificato aggravio dell’ente;
-) la facoltà dell’ente di superare, pur motivando, il
termine di 30 gg. in caso di complessità
o quantità dei documenti richiesti non pare giustificato.
Infatti, da un lato il diritto al rilascio delle
copie dei documenti al consigliere comunale non può comunque
essere ritardato per esigenze di
natura burocratica dell’ente che, al pari di tutte le
pubbliche amministrazioni, deve dotarsi di mezzi
(personale, strumentazioni tecniche e materiali vari)
necessari all'assolvimento dei loro compiti
(CdS, Sez. V, 04.05.2004, n. 2716; TARVeneto, II, n.
770/2005). Dall’altro, la facoltà del
responsabile del procedimento dilazionare opportunamente nel
tempo il rilascio delle copie, salva
sempre la facoltà del consigliere di prendere visione degli
atti, va comunque contenuta nell’ambito
del termine generale di cui all’art. 25 citato.
Il rimedio per rimuovere le predette illegittimità è solo il
ricorso al Tar (avverso l’eventuale
diniego opposto dall’amministrazione ad una richiesta
specifica, atteso che il termine per ricorrere
direttamente avverso la delibera di modifica del Regolamento
è maturato), fatto salvo il maturare di
una nuova delibera consiliare nell’ambito del circuito
politico istituzionale locale (Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 17.01.2012 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Diritto di accesso dei consiglieri comunali.
Modifiche al Regolamento del
Comune di Castelli Caleppio (BG). Richiesta parere.
Un consigliere comunale chiede a questa Commissione un
parere in ordine alle modifiche
che il Consiglio comunale vorrebbe apportare al Regolamento
per la disciplina del diritto di accesso
approvato. In particolare, rappresenta che con o.d.g. del
29.11.2011 il Comune vorrebbe cancellare
il termine di 5 gg. per l’evasione delle richieste di accesso
(art. 20, co. 1) nonché l’obbligo di
motivare per iscritto i ritardi nella consegna della
documentazione; aggiunge che alcune delibere,
specificamente indicate, sono state consegnate e/o
pubblicate dopo molti mesi dalla richiesta o
dall’adozione. L’istante chiede pertanto di conoscere se le
variazioni adottande siano legittime.
La Commissione ribadisce che -fermo restando l’obbligo
generale, in difetto di diversa e
specifica norma regolamentare, di conclusione nel termine di
gg. 30 dalla richiesta (ex art. 25, co. 4,
della legge n. 241/1990)- l’accesso ai documenti debba essere
concesso nei tempi più celeri e
ragionevoli possibili in modo tale da consentire il concreto
espletamento del mandato da parte del
consigliere ex art. 43 TUEL, fatti salvi i casi di abuso del
diritto all’informazione, attuato con
richieste non contenute entro i limiti della proporzionalità
e della ragionevolezza e che determini un
ingiustificato aggravio dell’ente.
Nel caso che ne occupa -più che la cancellazione del
termine di 5 gg. e dell’obbligo di
motivazione dei ritardi che di per sé non sembra contenere
irregolarità, tenuto conto che nell’ambito
delle due disposizioni è previsto comunque che l’istanza
deve essere evasa “senza ritardi
ingiustificati” e “prima possibile” - si stigmatizzano i
notevoli ritardi con cui l’amministrazione
provvede in concreto alla pubblicazione (anche superiori al
semestre) o sulle istanze di accesso
(oltre i due mesi), con probabile ed illegittima
compressione delle prerogative dei consiglieri.
Pertanto, al di là della legittimità delle adottande
modifiche regolamentari, è necessario che
il Comune garantisca l’accesso al consigliere comunale
nell’immediatezza, e comunque nei tempi
più celeri e ragionevoli possibili (soprattutto nei casi di
procedimenti urgenti o che richiedano
l’espletamento delle funzioni politiche). Qualora l’accesso
non possa essere garantito subito (per
eccessiva gravosità della richiesta), rientrerà nelle
facoltà del responsabile del procedimento
dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle
copie, ferma restando la facoltà del
consigliere comunale di prendere visione, nel frattempo, di
quanto richiesto negli orari stabiliti
presso gli uffici comunali competenti, anche con mezzi
informatici (Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 17.01.2012 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Richiesta di parere in ordine all’acquisizione di
documenti ed informazioni nel
corso di indagini di polizia giudiziaria.
Il Segretario comunale del Comune di Cernusco Lombardone
(LC) fa presente che tra il
Responsabile del servizio di polizia locale ed il
Commissario aggiunto suo collaboratore esiste da
tempo uno stato di tensione sfociato in vari procedimenti
disciplinari, ed in numerose missive
indirizzate al Sindaco ed al Segretario comunale.
Da ultimo il Commissario aggiunto con nota indirizzata al
Sindaco e al Segretario, in qualità
di ufficiale di Polizia giudiziaria, chiede di conoscere se
il Responsabile del servizio di polizia
locale sia stato preventivamente autorizzato a frequentare
un “Corso” e se lo abbia concretamente
frequentato nel 2005; se in alcuni giorni del 2005 abbia
prestato servizio presso il Comune
svolgendo attività di controllo del territorio comunale con
la cosiddetta “pattuglia serale” e, in caso
affermativo se abbia percepito un compenso e in che forma.
A tal fine il Commissario aggiunto ha chiesto il rilascio di
copia autentica della preventiva
autorizzazione rilasciata al Responsabile del Servizio di
polizia locale per la frequenza del “Corso”;
copia autentica dell’ordine di servizio adottato dal
Responsabile del Servizio, riguardante i turni e
gli orari di servizio degli operatori della polizia locale
relativi ad alcuni mesi del 2005; copia
autentica dei cartellini segnatempo/presenza in servizio del
responsabile riguardanti il suddetto
periodo, anche nella versione appositamente predisposta per
evidenziare all’Ufficio ragioneria i
servizi rientranti nel c.d. “Progetto finalizzato”
retribuito in modo del tutto particolare; copia
autentica di ulteriori documenti quali l’eventuale lettera
di iscrizione al corso di cui trattasi e
l’eventuale diploma all’uopo rilasciato.
Tutto ciò premesso, il Segretario del Comune di Cernusco
Lombardone chiede di conoscere
se sia possibile, obbligatorio o vietato evadere la
richiesta di documenti avanzata dal Commissario
aggiunto.
Ad avviso della Commissione l’istanza di accesso presentata
dal Commissario aggiunto, per
come è stata formulata e per le ragioni che espressamente la
sostengono non può trovare
accoglimento.
L’interessato, invero, non intende esercitare il diritto di
accesso alla documentazione
amministrativa, detenuta dal proprio Comune per tutelare
interessi propri, ma, al contrario, quale
ufficiale di polizia giudiziaria, chiede documenti ed
informazioni al dichiarato fine “di eseguire una
indagine conoscitiva volta a poter escludere oppure
documentare la possibilità che sussistano o
meno violazioni di legge”.
All’evidenza una tale ipotesi è fuori dall’ambito di
applicazione delle norme sul diritto di
accesso, per la decisiva ragione che le modalità di
acquisizione di documenti ed informazioni nel
corso di indagini di polizia giudiziaria sono disciplinate
da norme tutt’affatto diverse
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 20.12.2011 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Richiesta di parere sulla accessibilità delle videoispezioni fognarie, quali
documenti amministrativi ai sensi dell’articolo 22, comma 1,
lettera d).
La ASSM, società per azioni a totale partecipazione pubblica
operante nel Comune di
Tolentino (MC) nei settori acqua, gas, energia elettrica,
ecc. premesso che effettua ispezioni negli
impianti di sua proprietà o affidatile in gestione anche
mediante realizzazione di filmati della
condotta fognaria, chiede se tali videoispezioni possano
essere oggetto di diritto di accesso.
Al riguardo ritiene questa Commissione che tali
videoispezioni debbano essere qualificati
documenti amministrativi detenuti da una pubblica
amministrazione e concernenti attività di
pubblico interesse -ai sensi dell’articolo 22, comma 1,
lettera d)- come tali accessibili nelle forme
della visione e della estrazione di copia da parte di
soggetti che dimostrino un interesse qualificato,
in mancanza di pregresse norme regolamentari che
disciplinino il diritto di accesso anche ai fini di
“mantenere la segretezza aziendale”
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 20.12.2011 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso ad una
relazione ispettiva.
L’istante, quale partecipante ad una selezione per
l’attribuzione di incarichi di insegnamento
presso un istituto comprensivo statale, ha rappresentato che
-a fronte dell’istanza presentata
all’Ufficio scolastico regionale della Campania di acquisire
copia di una relazione ispettiva redatta
per la verifica di eventuali irregolarità della procedura-
l’amministrazione l’aveva rigettata per
inesistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale
all’accesso, preordinato, secondo l’ente,
soltanto ad un mero controllo generalizzato della p.a..
Viene pertanto chiesto alla Commissione un
parere sulla legittimità del diniego di accesso,
rappresentando l’istante di avere personalmente
segnalato le irregolarità commesse nella gestione della gara
e di voler valutare eventuali ricorsi.
La Commissione ritiene che sia illegittima la motivazione
addotta dalla p.a. per negare
l’accesso.
Infatti, l’istante, come partecipante alla gara ed autrice
delle segnalazioni di irregolarità a
base del procedimento ispettivo, ha indubbiamente un
interesse giuridicamente rilevante a
verificare, mediante l’esame della documentazione richiesta,
la correttezza dello svolgimento della
procedura da parte dell’Istituto scolastico, tanto più che
deve essere garantito l’accesso agli atti
relativi a procedimenti amministrativi, la cui conoscenza
sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 20.12.2011 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Interrogazione parlamentare.
Il Ministero dell’Istruzione chiede se un professore
universitario possa accedere ad una
relazione predisposta per rispondere ad un’interrogazione
parlamentare formulata da un senatore
della Repubblica.
A dire dell’amministrazione, la relazione
sarebbe inaccessibile, costituendo un
atto non di natura amministrativa ma politica e comunque non
relativo ad un procedimento
amministrativo. La p.a. istante segnala che il professore ha
chiesto l’accesso per tutelare il proprio
diritto al corretto inquadramento professionale e
pensionistico.
Come affermato dal TAR Lazio Roma Sezione prima, con la
decisione n 9637 del 2008 il
diritto di accesso, disciplinato dall’art. 22, lett. d), della
legge n 241/1990, dopo la modifica apportata
dalla legge n 15/2005, prescinde sia dalla “natura” dei
documenti richiesti sia, soprattutto, dalla
loro pertinenza ad un “determinato” procedimento.
Tale interpretazione -che la Commissione condivide- trova
conferma nella ampia
formulazione dell’attuale art. 22 lett d) -il quale
definisce “documento amministrativo” ogni atto
“concernente attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o
privatistica della loro disciplina sostanziale”- rispetto a
quella del testo originario (ante novella del
2005) che, invece, definiva “documento amministrativo” ogni
atto formato dalla p.a. o, comunque,
utilizzato ai fini dell'attività amministrativa.
La sostituzione dell’espressione “attività amministrativa”
con “attività di pubblico interesse”
nonché l’eliminazione del termine “utilizzato ai fini
dell’attività amministrativa” conferma
l’assoluta irrilevanza, ai fini dell’accesso, sia della
connessione fra atto detenuto e procedimento
amministrativo sia della finalità e natura dell’atto che si
chiede di conoscere.
Alla luce di quanto sopra, pare sussistere l’obbligo del
Ministero di consentire l’accesso
dell’interessato alla documentazione richiesta
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 20.12.2011 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Diritto di accesso agli atti relativi ad una
concessione cimiteriale.
Il Comune istante chiede quali siano le modalità più
opportune per individuare eventuali
controinteressati all’accesso ad una concessione cimiteriale
intestata ad un soggetto deceduto,
sottolineando come il richiedente sia una nipote non erede
del de cuius e sia in atto una disputa
familiare per l’utilizzo dello spazio cimiteriale oggetto di
concessione.
La Commissione rappresenta che se l’istante fosse un
cittadino residente nel comune,
sarebbe applicabile la speciale disciplina dell’art. 10 TUEL
che non fa menzione alcuna della
necessità di individuare controinteressati, con la
conseguenza che sarebbe ultronea la ricerca di
controinteressati, imperniata su disposizioni normative che
non si applicano.
Anche nel caso in cui l'istanza provenisse da cittadino non
residente nel Comune -con
applicazione della disciplina generale ex lege n 241/1990 e
conseguente obbligo della p.a. di
valutare di volta in volta eventuali controinteressati
all’accesso in base alla natura del documento
richiesto, tenendo anche conto del contenuto di atti
connessi (ex art. 22, co. 1, lett. c) legge n. 241/1990,
art, 3 e 7 dpr n 184/2006)- prevarrebbe comunque il diritto
di accesso rispetto alla riservatezza
opposta da terzi controinteressati, quando (come pare nella
specie) il diritto di accesso sia esercitato
per la cura o la difesa di un interesse giuridico ai sensi
dell'art. 24, co. 7, della legge n. 241/1990 (Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 20.12.2011 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso a
delibere comunali.
Un cittadino residente nel comune di Nocera Inferiore chiede
se il diritto di accesso ad una
delibera comunale sia assoggettata al regime giuridico
previsto dalla legge n. 241/1990 ovvero a
quello contenuto nell’art. 10 del d.lgs. n 267/2000 poiché
l’ente acceduto lo aveva invitato a
specificare l’interesse diretto, concreto ed attuale
all’accesso.
A parere della Commissione l’istanza di accesso è
indubbiamente assoggettata, provenendo
da un cittadino residente nel comune destinatario della
richiesta, alla disciplina dell’art. 10 del
TUEL che configura il diritto di accesso alla stregua di
un’azione popolare.
Pertanto, va garantito il
diritto all’accesso al cittadino istante, senza la
dimostrazione di alcuno specifico interesse
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 20.12.2011 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il Comune di Cropani chiede se un candidato ad un concorso
pubblico, bandito
ed espletato dallo stesso Comune, possa avere accesso, con
estrazione di copia, ai
verbali della Commissione esaminatrice ed agli elaborati
degli altri candidati.
Al riguardo questa Commissione, nella scia di una copiosa
giurisprudenza del
giudice amministrativo, in tema di concorsi pubblici ha
avuto più volte occasione di
affermare la pressoché totale accessibilità dei documenti
formati dalla Commissione
esaminatrice e prodotti dagli altri candidati
Chiara ed esaustiva, in materia, la pronuncia della III
Sezione del Tar Lazio, n.
6450 dell’08.07.2008, secondo cui “Le domande ed i
documenti prodotti dai
candidati, i verbali, le schede di valutazione e gli stessi
elaborati costituiscono
documenti rispetto ai quali deve essere esclusa in radice
l’esigenza di riservatezza a
tutela dei terzi, posto che i concorrenti, prendendo parte
alla selezione, hanno
evidentemente acconsentito a misurarsi in una competizione
di cui la comparazione dei
valori di ciascuno costituisce l’essenza.
Tali atti, quindi, una volta acquisiti alla procedura,
escono dalla sfera personale
dei partecipanti che, pertanto, non assumono la veste di
controinteressati in senso
tecnico nel presente giudizio”
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 29.11.2011 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Il sig. Massimiliano ..., consigliere di
opposizione del Comune di
Massalengo (LO), premesso che da un paio di anni effettua
controlli sugli atti e
documenti dell’amministrazione comunale relativi ad appalti
di lavori pubblici al fine di
verificare ed assicurare la regolarità degli atti stessi, fa
presente che questo suo
comportamento ha urtato la suscettibilità sia dell’organo
politico che del segretario
comunale, il quale gli ha comunicato che ogni sua richiesta
di visionare atti e documenti
dovrà essere formulata per iscritto ed esaminata prima di
fornire le conseguenti
disposizioni al personale degli uffici.
Il sig. ... fa ancora presente che gli sono
stati forniti dei moduli di
richiesta e che sulle sue istanze gli sarà data risposta nei
termini di legge; nel
rappresentare che ormai gli viene negato ogni contatto con
il personale dell’Ufficio
Tecnico o del RUP, chiede di conoscere se un tale
atteggiamento dell’amministrazione
civica costituisca un ostacolo all’espletamento del suo
mandato di consigliere comunale.
Ritiene questa Commissione che il comportamento
ostruzionistico assunto dal
Comune di Massalengo nei confronti del sig.
... non possa essere condiviso.
La Commissione invero, nella scia di una ormai consolidata
giurisprudenza del
Giudice amministrativo, ha avuto più volte occasione di
affermare che il “diritto di
accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri
comunali sono specificamente
disciplinati dall’art. 43 del d.lgs. 267/2000 (T.U. Enti
locali) che riconosce loro (e ai
consiglieri provinciali) il diritto di ottenere dagli uffici
tutte le notizie e le informazioni
in loro possesso, utili all’espletamento del loro mandato.
Si tratta, all’evidenza, di un diritto dai confini più ampi
del diritto di accesso
riconosciuto al cittadino nei confronti del Comune di
residenza (art. 10 T.U. Enti locali)
o, più in generale, nei confronti della P.A., disciplinato
dalla legge n. 21 del 1990.
Tale maggiore ampiezza trova la propria giustificazione nel
particolare “munus”
espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa
valutare con piena cognizione
di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato
dell’Amministrazione, onde poter
esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di
competenza della P.A.,
opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica
e la funzione
pubblicistica da questi esercitata, soprattutto se, come nel
caso di specie, il consigliere
comunale appartenga alla minoranza, istituzionalmente
deputata allo svolgimento di
compiti di controllo e verifica dell’operato della
maggioranza.
Per queste ragioni il consigliere comunale non deve neppure
motivare la propria
richiesta di informazioni, perché altrimenti la P.A. si
ergerebbe ad arbitro delle forme di
esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato
all’individuazione ed al
perseguimento dei fini collettivi, con la conseguenza che
gli uffici comunali non hanno
il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto
delle richieste di informazione e
le modalità di esercizio della funzione esercitata dal
consigliere comunale.
Va infine sottolineato che, per antico principio
giurisprudenziale, il diritto di
accesso agli atti di un consigliere comunale non può subire
compressioni per pretese
esigenze di ordine burocratico dell’Ente, tali da ostacolare
l’esercizio del suo mandato
istituzionale; l’unico limite è rappresentato dal fatto che
il consigliere comunale non
può abusare del diritto all’informazione riconosciutagli
dall’ordinamento, interferendo pesantemente sulla
funzionalità e sull’efficienza dell’azione amministrativa
dell’Ente
civico, con richieste che travalicano i limiti della
proporzionalità e della ragionevolezza (Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 29.11.2011 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Richiesta di parere concernente il diritto di
accesso dei consiglieri
comunali di minoranza.
Un consigliere comunale ha chiesto parere in ordine alla
legittimità del
Regolamento per il diritto di accesso dei consiglieri
comunali, approvato con delibera
consiliare del 30.09.2011, lamentando la lesione
delle prerogative in materia di
accesso stabilite per i consiglieri comunali, secondo quanto
previsto dall’art. 43 TUEL.
In particolare, l’istante segnala che:
a) l’art. 3, co. 6, non ammette richieste di accesso che
riguardino intere aree di
attività o intere materie perché incoerenti con i compiti
del consigliere che non riguarda
il controllo specifico ma il controllo politico generale;
b) l’art. 4, co. 3, prevede limiti all’accesso per il
trattamento dei dati riservati ai
sensi del d.lgs. n 196/2003;
c) l’art. 5, co. 2, prevede il differimento dell’accesso per gli
atti legali o tecnici
afferenti liti in atto o in potenza;
d) l’art. 5, co. 3, rinvia al D.Lgs. n 163/2006 per l’accesso
alle procedure di
affidamento di contratti pubblici;
e) l’art. 5, co. 4, subordina al nulla osta dell’autorità
competente l’accesso dei
consiglieri per atti coperti da segreto;
f) l’art. 6, co 2 (secondo, terzo e quarto capoverso), non
consente l’accesso a
tutti gli atti adottatati dopo una certa data, o se
l’accesso riguardi atti ancora da adottare
o intere categorie di atti;
g) l’art. 7, commi 2, 6, 7 prevedono per l’amministrazione
termini di 5, 10 o 30
gg. per concedere l’accesso, con necessità che il consigliere
formuli l’istanza
personalmente;
h) l’art. 8 prevede un’istanza di riesame al segretario
comunale in caso di
diniego di accesso con termine di 15 gg. per la pronuncia.
Preliminarmente, la Commissione rileva che il regolamento
Comunale non
risulta a suo tempo trasmesso a questa Commissione, in
contrasto con quanto stabilito
dal dPR 12.04.2006 n. 184, art. 11, commi 1 e 3. Si
segnala pertanto l’esigenza che a
ciò venga provveduto.
La disposizione sub a), così come formulata, potrebbe dare
adito a qualche
dubbio di legittimità, ponendo una limitazione dell’accesso
funzionale al controllo di
intere attività o materia. Infatti, l’oramai consolidato
orientamento giurisprudenziale
amministrativo e di questa Commissione riconosce ai
consiglieri comunali alla stregua
dell’art. 43 del D.Lgs n. 267/2000 un diritto ampio e non
comprimibile all’informazione
finalizzato, nell’esercizio del munus del consigliere
comunale, al controllo sulla legalità
ed economicità nella gestione dell’ente civico da
esercitarsi in tutti gli ambiti dei
compiti di indirizzo e controllo riservati al Consiglio
comunale (cfr Consiglio di Stato,
Sez. V, 02.09.2005, n. 4471; TAR Liguria, Sez. I,
01/07/2003, n. 827).
La disposizione sub b) non appare legittima. Infatti, l’art
59 del Codice di
protezione dei dati personali fa salve espressamente le
disposizioni relative all’accesso
ai documenti amministrativi contenenti dati personali e,
quindi, fa salva anche la specifica disposizione dell’art.
43, comma 2, TUEL prevista per l’accesso dei
consiglieri ai quali non possono essere opposti limiti per
esigenze di tutela della
riservatezza dei terzi, essendo i consiglieri comunali
tenuti al segreto nei casi
specificamente determinati dalla legge (cfr. Consiglio di
Stato n 5879/2005; Cons. Stato,
Sez. V, 04.05.2004 n 2716; Tar Sardegna, sez. II, 30.11.2004 n
1782).
La disposizione sub c) non pare legittima perché il potere
di differimento
previsto dalla generale disciplina della legge n. 241/1990
(art. 24) e del DPR n 184/2006
(art. 9) risulta incompatibile con l’ampio e speciale diritto
di accesso dei consiglieri
comunali ex art. 43 TUEL che non tollera limitazioni.
Altrimenti, gli Uffici comunali
potrebbero sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto
delle richieste di informazioni
avanzate da un Consigliere comunale e le modalità di
esercizio del munus da questi
espletato, in tal modo pregiudicando la cura di un interesse
pubblico connesso al
mandato conferito.
La disposizione sub d) che rinvia al codice dei contratti
pubblici è fuori luogo in
quanto l’accesso dei consiglieri comunali è regolato
esclusivamente dall’art. 43 TUEL e
non anche dall’art 13 del d.lgs. n 163/2006.
Quanto alla disposizione sub e) si rammenta che la
segretezza che pure opera nei
confronti del consigliere comunale è disciplinata dalle
singole leggi speciali in materia.
Le disposizioni sub f) non paiono conformi a legge in quanto
la limitazione
dell’accesso:
-) in caso di atti ancora da adottare, confligge con
l’ampiezza del diritto di
accesso come riconosciuto dall’art 43 TUEL che oltre a
ricomprendere le informazioni,
determina, di riflesso, un vis espansiva verso tutti gli
atti non ancora formalmente
emanati, e cioè atti interni preparatori, relazioni o pareri
informali anche se non hanno
una autonoma rilevanza, bozze o a brogliacci;
-) in caso di atti adottati successivamente ad una certa
data o intere categorie di
documenti, è ingiustificata. Infatti, se anche le richieste
di accesso ai documenti
avanzate dai Consiglieri comunali ai sensi dell’art. 43, co.
2, d.lgs. n. 267/2000 debbano
rispettare il limite di carattere generale -valido per
qualsiasi richiesta di accesso agli atti- della non genericità della richiesta medesima (cfr.
C.d.S., Sez. V, n. 4471 del 02.09.2005
e n. 6293 del 13.11.2002), non è generica l’istanza relativa
all’accesso a tutti gli atti
precedenti e successivi a quelli specificamente indicati
qualora nell’istanza siano
indicati gli elementi necessari e sufficienti alla puntuale
identificazione dei documenti
richiesti.
La disposizione sub g) potrebbe in astratto determinare la
concreta soppressione
delle prerogative del consigliere nei casi di procedimenti
urgenti o discussioni in corso
che richiedano l’espletamento delle funzioni politiche entro
un termine inferiore a
quello previsto. Onde scongiurare tale pericolo, è
necessario che l’ente garantisca
l’accesso al consigliere comunale nell’immediatezza, e
comunque nei tempi più celeri e ragionevoli possibili da valutare caso per caso in funzione
delle diverse esigenze del
mandato (ad es. consentendo al consigliere nei casi di
urgente necessità o gravosità della
richiesta di prendere subito visione degli atti, anche con
mezzi informatici, dilazionando
nel tempo il rilascio delle copie).
Diversamente, la
disposizione potrebbe dare adito a
qualche dubbio di legittimità in quanto motivazioni di
carattere meramente
organizzatorio o economico non possono impedire di per sé
l’esercizio del diritto di
accesso, essendo obbligo dell'amministrazione di dotarsi,
per quanto possibile, di un
apparato comunque in grado di soddisfare gli adempimenti di
propria competenza (arg.
ex TAR Veneto Venezia Sez. I Sent., 15.02.2008, n. 385).
Quanto alla norma sub h), si osserva che è pienamente
ammissibile, come
indicato dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato n.
2938/2003) l’introduzione di
una sorta di ricorso amministrativo comunque configurato o
denominato avverso il
rigetto dell’istanza di accesso e comunque pare opportuna la
scelta del segretario
comunale (organo non politico) quale soggetto destinatario.
Appare poi eccessiva la
previsione che obblighi il consigliere a presentare
personalmente l’istanza di accesso,
tenuto conto che appare compatibile con la specificità
dell’accesso dei consiglieri
comunali la generale facoltà di legittimare terzi a
formulare la richiesta di accesso ai
documenti amministrativi
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 29.11.2011 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
APPALTI: OGGETTO: richiesta di parere sull’accessibilità di
informazioni relative alla
certificazione antimafia ai sensi del d.lgs. n 490/1994 e
DPR n 252/1998.
La Prefettura in indirizzo ha rappresentato che -a seguito
della richiesta di
certificazione antimafia da parte di un’autorità portuale-
aveva interdetto (ex art. 10
DPR n. 252/1998 e art. 4 d.lgs. n. 490/1994) dai rapporti con
la p.a. una ditta individuale
il cui titolare era amministratore unico di un consorzio
stabile di cui facevano parte due
soggetti contigui alla criminalità organizzata. Rilasciata
copia dell’informativa
antimafia (con mascheramento dei nominativi dei soci del
consorzio), la Prefettura
aveva ricevuto dal titolare della ditta un’istanza di
accesso per conoscere l’identità dei
soci consorziati appartenenti al sodalizio mafioso, al fine
di provvedere alla loro
immediata esclusione.
Tanto premesso, l’amministrazione ha chiesto di conoscere se
il principio di
inaccessibilità degli atti rientranti nelle categorie
indicate dall’art. 3 del D.M. n.
415/1994 a tutela della prevenzione e repressione della
criminalità organizzata debba o
meno ritenersi prevalente rispetto al diritto di accesso a
fini di difesa ai sensi dell'art. 24,
co. 7, legge n. 241/1990.
La Commissione ritiene di dover preliminarmente richiamare
sinteticamente il
quadro normativo di riferimento.
L'art. 24 della legge n. 241/1990 prevede una serie di
esclusioni all'esercizio del
diritto di accesso, alcune obbligatorie, precisamente quelle
elencate al comma 1, altre
facoltative e da individuare con regolamenti, in riferimento
agli interessi elencati al
comma 6. Il successivo comma 7 dispone che "deve comunque
essere garantito ai
richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per
curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel
caso di documenti contenenti dati
sensibili o giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in
cui sia strettamente
indispensabile e nei termini previsti dall'articolo 60 del
decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di
salute la vita sessuale".
Tale ultimo disposto non pare riferibile a tutti i casi di
esclusione dell'accesso
previsti dalla normativa vigente, e in particolare a quelli
previsti dall’art 3 del D.M. 10.05.1994 n. 415 (modificato con il D.M. 17.11.1997
n. 508) che alla lett. b),
per quanto qui rileva, sottrae all’accesso "relazioni di
servizio, informazioni ed altri atti
o documenti inerenti ad adempimenti istruttori relative a
licenze, concessioni od
autorizzazioni comunque denominate o ad altri provvedimenti
di competenza di autorità
o organi diversi, compresi quelli relativi al contenzioso
amministrativo, che contengono
notizie relative a situazioni di interesse per l'ordine e la
sicurezza pubblica e all'attività
di prevenzione e repressione della criminalità, salvo che,
per disposizione di legge o di
regolamento, ne siano previste particolari forme di
pubblicità o debbano essere uniti a
provvedimenti o atti soggetti a pubblicità".
Infatti, se, prima facie, l’art. 24, co. 7, sembra riferito a
tutti gli interessi indicati
nel comma 6 (e nel comma 1) della citata disposizione,
tuttavia è significativo che esso
preveda alcune eccezioni al generale principio di
accessibilità dei documenti “riservati”,
qualora il richiedente ne abbia necessità per difendersi in
giudizio, laddove negli stessi siano presenti altrui
informazioni personali qualificabili come dati sensibili o
giudiziari,
con una tutela particolarmente accentuata per quelli idonei
a rivelare l'altrui stato di
salute o vita sessuale.
In tale ottica, la norma in questione è “figlia” del vecchio
testo dell'art. 24, co. 2,
lett. d), della legge n 241/1990 che escludeva l'accesso nei
casi, previsti da regolamento,
in cui risultasse necessario tutelare la "riservatezza di
terzi, persone, gruppi ed imprese,
garantendo peraltro agli interessati la visione degli atti
relativi ai procedimenti
amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare
o per difendere i loro
interessi giuridici".
La ratio della norma era quella di contemperare l'esercizio
dell'accesso a fini di
difesa con la tutela della riservatezza dei terzi,
bilanciando la posizione dell’accedente
con uno solo degli interessi contrapposti (appunto la
riservatezza): non era invece
riferibile agli altri interessi, la cui salvaguardia poteva
giustificare il diniego
dell'accesso. Ciò induce a ritenere che anche il nuovo comma
7 dell'art. 24, legge
241/1990 (modificato dall’art. 16 della legge n. 15/2005) sia
riferibile solo ai conflitti tra
diritto d'accesso a fini di difesa e tutela della
riservatezza, e non sia invece destinato a
risolvere situazioni nelle quali il primo confligga con gli
altri interessi elencati al
comma 6 (o comma 1) dell'art. 24. Si noti, in tal senso,
anche la relazione di
accompagnamento alla legge n. 15/2005, modificativa della
legge 241/1990, che riferisce il
nuovo comma 7 dell'art. 24 unicamente all'esigenza di
tutelare la riservatezza dei terzi.
D’altro canto, se così non fosse, l’art. 24, comma 7, si
esporrebbe a censure di
incostituzionalità in quanto garantirebbe maggiormente la
riservatezza delle persone -che può costituire un limite all'accesso ove i documenti
richiesti contengano dati
sensibili o giudiziari di terzi- mentre non riserverebbe
un'eguale protezione ai pur
preminenti interessi alla tutela dell'ordine pubblico e
della prevenzione e repressione
della criminalità, non essendo previsti analoghi limiti
all’accesso. Non si
giustificherebbe però il differente trattamento riservato
alla tutela della riservatezza
rispetto agli altri interessi della prevenzione della
criminalità. Anche tali interessi,
infatti, assumono preminente rilevanza costituzionale e
dunque debbono trovare analoga
tutela legislativa rispetto alla riservatezza.
Alla luce di quanto sopra, la Commissione ritiene che, alla
stregua di
un'interpretazione costituzionalmente orientata del nuovo
testo dell'art. 24, comma 7,
legge n. 241/1990, siffatta disposizione debba ritenersi
applicabile unicamente alla
risoluzione dei conflitti tra diritto di accesso e tutela
della riservatezza altrui.
Pertanto,
non venendo nella fattispecie in rilievo un conflitto di tal
genere, essendo i dati sottratti
all’accesso motivati dalla esigenza di tutela dell'ordine e
della sicurezza pubblica o della
prevenzione e repressione della criminalità, si ritiene che
i nominativi richiesti
dall’istante non siano conoscibili, quand’anche il
richiedente ne abbia necessità per
difendere i propri interessi giuridici
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 29.11.2011 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Richiesta di parere concernente il diritto di
accesso dei consiglieri
comunali di minoranza.
Un consigliere comunale ha chiesto parere in ordine alla
legittimità della
modifica del Regolamento per il diritto di accesso agli
atti, approvato con delibera
consiliare del 04.10.2011, lamentando che le modifiche
lederebbero le prerogative in
materia di accesso stabilite per i consiglieri comunali,
secondo quanto previsto dall’art.
43 TUEL.
In particolare, l’istante segnala:
a) art. 14, co. 2, secondo cui l’accesso del consigliere non
può configurarsi
come “generalizzato ed indiscriminato”;
b) art. 14, co. 3, che prevede l’obbligo in ogni caso di dare
“..idonea
comunicazione preventiva al soggetto….controinteressato”;
c) art. 15, co. 3, che prevede l’inammissibilità di “…richieste
generalizzate
relative ad intere pratiche”;
d) art. 15, co. 11, relativo ai criteri di contemperamento del
diritto di accesso del consigliere con le esigenze di
funzionamento degli uffici.
Preliminarmente, la Commissione rileva che il regolamento
Comunale non
risulta a suo tempo trasmesso a questa Commissione, in
contrasto con quanto stabilito
dal dPR 12.04.2006 n. 184, art. 11, commi 1 e 3. Si
segnala pertanto l’esigenza che a
ciò venga provveduto.
Quanto al punto sub a) la Commissione ritiene opportuno
rammentare che l’art.
43 del TUEL riconosce ai consiglieri comunali un diritto
pieno e non comprimibile
“all’informazione”. Tuttavia, il diritto di accesso del
consigliere comunale non ha
carattere generalizzato ed indiscriminato in quanto vanno
rispettate alcune forme e
modalità di esercizio, tra cui la necessità che
l’interessato alleghi la sua qualità, posto
che l’accesso è funzionale ad acquisire notizie ed
informazioni connesse all'esercizio del
proprio munus ed è attribuito al fine di compiere,
attraverso la visione dei
provvedimenti adottati, una compiuta valutazione della
correttezza e dell'efficacia
dell'operato dell'amministrazione comunale.
E comunque
occorre valutare di volta in
volta se le istanze di accesso siano irragionevoli,
sproporzionate e come tali se abbiano
o meno aggravato gli uffici pregiudicandone la funzionalità.
In questi ristretti limiti, la
declaratoria di principio dell’inammissibilità di un
“accesso indiscriminato e
generalizzato” di per sé non costituisce un limite alle
prerogative del consigliere.
Quanto al punto sub b) si segnala che alla fattispecie
normativa delineata dall'art.
43 del d.lgs. n. 267/2000 non pare compatibile la regola
procedimentale che prevede
l’obbligo di notifica ai controinteressati ex art. 3, d.p.r.
n. 184/2006 (arg. ex Cons. Stato
Sez. V, 02.09.2005, n. 4471) in quanto contrastante con
l’ampiezza del diritto
soggettivo pubblico riconosciuto ai consiglieri comunali, di
fronte al quale recede ogni
altro interesse, ivi inclusa la riservatezza di eventuali
contro interessati. Quindi,
l’obbligo di notifica ai contro interessati appare
illegittimo in quanto volta a costituire
un ingiustificato limite all’accesso.
Quanto al punto sub c), si rammenta che, seppur anche le
richieste di accesso ai
documenti avanzate dai Consiglieri comunali ai sensi
dell’art. 43, co. 2, d.lgs. n. 267/2000 debbano rispettare
il limite di carattere generale –valido per qualsiasi
richiesta di accesso agli atti- della non genericità della
richiesta medesima (cfr. C.d.S.,
Sez. V, n. 4471 del 02.09.2005 e n. 6293 del 13.11.2002), non
è generica l’istanza relativa
all’accesso agli atti inerenti a intere pratiche, qualora
nell’istanza siano indicati gli
elementi necessari e sufficienti alla puntuale
identificazione dei documenti richiesti.
Quanto al punto sub d) si rammenta che il contemperamento
tra esigenze di
accesso e funzionalità degli uffici non potrà mai tradursi
in limitazioni o impedimenti di
fatto dell’esercizio del diritto del consigliere. Infatti,
la giurisprudenza amministrativa
ha affermato che il diritto di accesso del consigliere
comunale non può subire
compressioni per pretese esigenze di natura burocratica
dell’Ente, tali da ostacolare
l’esercizio del suo mandato istituzionale, con l’unico
limite di poter esaudire la richiesta
(qualora essa sia di una certa gravosità sia organizzativa
che economica per gli uffici
comunali) secondo i tempi necessari per non determinare
interruzione alle altre attività
di tipo corrente (cfr., fra le molte, Cons. Stato, sez. V,
22.05.2007 n. 929).
Rientrerà
nelle facoltà del responsabile del procedimento dilazionare
opportunamente nel tempo il
rilascio delle copie richieste, al fine di contemperare tale
adempimento straordinario con
l’esigenza di assicurare il normale funzionamento
dell’attività ordinaria degli uffici
comunali, ma giammai potrà essere negato l’accesso. Inoltre,
non può essere giustificato
un diniego di accesso con l'impossibilità di rilasciare
l'eccessiva documentazione
richiesta, in quanto è obbligo dell'amministrazione di
dotarsi di un apparato burocratico
in grado di soddisfare gli adempimenti di propria competenza
(cfr. TAR Veneto
Venezia Sez. I Sent., 15.02.2008, n. 385).
Proprio al fine
di evitare che le continue
richieste di accesso si trasformino in un aggravio della
ordinaria attività amministrativa
dell’ente locale, la Commissione per l’accesso ha
riconosciuto la possibilità per il
consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema
informatico interno (anche
contabile) dell’ente attraverso l’uso di password di
servizio e, più recentemente, anche
al protocollo informatico
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 29.11.2011 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
APPALTI:
OGGETTO: Richiesta di parere concernente il diritto di
accesso ai documenti
relativi a gara telematica per appalto del servizio di
manovalanza relativo ai trasporti per
esigenze del Ministero della Difesa.
Il Ministero istante riferisce che, dopo aver indetto una
gara d’appalto per il
servizio di manovalanza connesso ai trasporti relativi ad
esigenze centrali e periferiche
ministeriali, un consorzio stabile, classificatosi al
secondo posto nella graduatoria della
pubblica gara citata in oggetto, aveva richiesto di accedere
ai sensi della legge
n. 241/1990 a tutti gli atti di gara, ivi compresi quelli
relativi all’offerta di una
cooperativa risultata aggiudicataria dell’appalto, al fine
di verificare il possesso da parte
di quest’ultima dei requisiti di partecipazione ed
eventualmente di valutare ipotesi di
invalidità del contratto d’appalto ormai stipulato.
L’amministrazione istante precisa che
l’aggiudicataria controinteressata aveva espresso la propria
opposizione all’accesso ad
atti contenenti dati sensibili e riservati (relativi a
contratti, progetti base ed altre
informazioni concernenti il know how aziendale).
L’amministrazione, esprimendo dubbi sull’utilità
dell’istanza di accesso, in
quanto sarebbero decorsi i termini per impugnare
l’aggiudicazione definitiva e
difetterebbe la legittimazione dell’impresa partecipante,
non aggiudicataria ad intentare
azione di annullamento del contratto, chiede a questa
Commissione se debba prevalere
il principio di trasparenza amministrativa ovvero se
l’accesso vada negato essendo
finalizzato ad un controllo generalizzato sull’operato della
p.a., tenuto anche conto della
motivata opposizione del controinteressato per esigenze di
riservatezza a tutela di
segreti industriali.
Il primo tema al quale il Ministero ha fatto cenno nella
richiesta di parere è
precisamente quello dell’utilità dell’accesso ai documenti
richiesti. Univoca è la
giurisprudenza del G.A., alla quale anche questa Commissione
si è uniformata, secondo
cui l’Amministrazione, in sede di esame della istanza di
accesso, non deve svolgere
nessun apprezzamento sull’utilità di detto accesso, ovvero
in ordine alla fondatezza o
alla ammissibilità della domanda che si intenda proporre a
difesa della propria posizione
posta a base della relativa istanza (cfr., Cons. Stato, sez.
IV, 15.11.2004 n. 7349).
Il secondo tema riguarda il “contemperamento” fra
l’esercizio del diritto
all’accesso e la tutela della riservatezza. Anche in tal
caso, è costante nella
giurisprudenza amministrativa il principio generale secondo
cui il diritto d’accesso ai
documenti amministrativi prevale sull’esigenza di
riservatezza del terzo, ogniqualvolta
l’accesso venga in rilievo per la cura o la difesa di
interessi giuridici del richiedente (fra
le molte, cfr. Cons. Stato, sez. VI 26.04.2005 n. 1896). Con
particolare riguardo al caso
in esame, l’articolo 13, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006
stabilisce che, anche in caso di
segreti industriali o commerciali "è comunque consentito
l'accesso al concorrente che lo
chieda in vista della difesa in giudizio dei propri
interessi in relazione alla procedura di
affidamento del contratto nell'ambito della quale viene
formulata la richiesta di
accesso".
Seppur in astratto non paiono configurabili
segreti di sorta, tenuto conto della
natura del servizio appaltato (servizio di manovalanza
connessa a trasporti), tuttavia, al più, l'Amministrazione
potrà intervenire con opportuni accorgimenti (cancellature o
omissis) in relazione alle eventuali parti dell'offerta
idonee a rivelare i segreti industriali
a condizione che queste ultime "non siano state in alcun
modo prese in considerazione
in sede di gara" (Consiglio Stato, sez. VI, 07.06.2006,
n. 3418 e Consiglio Stato,
sez. VI, 20.04.2006, n. 2223)
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 29.11.2011 -
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ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Richiesta di parere inerente i rapporti tra accesso
ai documenti
amministrativi e ricorso gerarchico amministrativo.
Con e-mail del 31.10.2011 l’istante ha chiesto di
conoscere se il ricorso
proposto a questa Commissione avverso un diniego di accesso
a curriculum personali da
parte di una fondazione interrompa o meno i termini per
proporre il ricorso gerarchico
avverso provvedimenti amministrativi adottati in pregiudizio
dell’accedente.
La questione inerisce al coordinamento tra la disciplina
dell’esercizio del diritto
di accesso, nella parte in cui attribuisce la possibilità di
ricorrere in via amministrativa
alla Commissione avverso i dinieghi di accesso e le regole
vigenti in tema di ricorsi
gerarchici avverso i provvedimenti lesivi degli interessi
dell’accedente.
Ciò premesso, la Commissione, pur comprendendo l’importanza
e la delicatezza
del problema prospettato, non si ritiene competente ad
esprimere un parere ai sensi
dell’art. 27 legge n 241/1990, inerendo ad una materia
diversa da quella strettamente
concernente l’esercizio del diritto di accesso.
Compito della Commissione è infatti quello di garantire la
trasparenza
dell'attività delle pubbliche amministrazioni, provvedendo
anche a dare impulso al
governo per modificare il tessuto normativo vigente in tema
di accesso ai documenti
amministrativi, ma senza poter entrare in altri ambiti, pur
connessi, come quello del
coordinamento tra la tutela giustiziale amministrativa in
materia di accesso e quello
della tutela, sempre amministrativa, avverso provvedimenti
lesivi degli interessi degli
amministrati
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
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CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Accesso dei consiglieri comunali agli elenchi delle
cancellazioni
anagrafiche predisposti dal Sindaco quale Ufficiale del
Governo.
Il Sindaco del Comune istante manifesta dubbi sul diritto di
accesso di un
consigliere comunale agli elenchi anagrafici dei cittadini
in quanto si tratta di atti che,
essendo compiuti dal Sindaco quale Ufficiale del Governo,
sarebbero esclusi, a dire
dell’amministrazione, dal diritto riconosciuto ai
consiglieri.
Si ritiene superfluo ricordare che, secondo l’orientamento
giurisprudenziale (del
Giudice amministrativo e della Commissione) in tema di
diritto di accesso dei
consiglieri comunali, ex art. 43, co. 2, TUEL è riconosciuta
al consigliere comunale e
provinciale un’ampia potestà di accesso a tutte le notizie
ed informazioni, non
comprimibile in nessun caso e per alcun motivo, essendo
sufficiente che la richiesta di
accesso attenga a informazioni inerenti allo svolgimento del
mandato consiliare.
Né,
tantomeno, rileva in senso contrario il fatto che le
informazioni richieste concernano
dati riservati trattati dal Sindaco nell’esercizio delle
funzioni di Ufficiale di Governo (ai
sensi dell’art. 54, comma 3, TUEL in materia di tenuta dei
registri di stato civile e di
popolazione). Infatti, ai sensi dell’art. 43, comma 2, TUEL
ai consiglieri comunali è
imposto l’obbligo di non divulgare il contenuto delle
informazioni e degli atti segreti o
riservati ai quali ha avuto accesso, incorrendo in caso
negativo in responsabilità
personale, ma nessun documento o atto può essere loro
sottratto in ragione della sua
eventuale segretezza o riservatezza.
Alla luce di quanto esposto, la Commissione ritiene
sussistere il diritto del
consigliere comunale di accedere agli elenchi e alle
cancellazioni anagrafiche richieste
al fine di esercitare le prerogative connesse all’esercizio
del proprio mandato politico (Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 29.11.2011 -
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ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Pagamento dell'imposta di bollo sull'istanza di
accesso alle copie
di documenti amministrativi.
L’amministrazione istante chiede se sia o meno “confermato”
quanto previsto
nella direttiva di questa Commissione n 27720/1749 del 28.02.1994 che ha
escluso l’obbligo di pagamento dell’imposta di bollo sulla
istanza di accesso e sulla
copia informe rilasciata. Il dubbio che l’amministrazione si
pone nascerebbe dal fatto
che, diversamente dalla citata direttiva, una recente
rivista di aggiornamento per enti
locali ricomprenderebbe tra gli atti soggetti ad imposta di
bollo anche l’istanza di
accesso ai documenti amministrativi.
Questa Commissione ribadisce il contenuto della direttiva
citata, rammentando
che l’amministrazione non può sentirsi “vincolata” ad un non
meglio precisato
orientamento espresso in una rivista del settore enti
locali
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 29.11.2011 -
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CORTE DEI CONTI |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Ritiene questo Collegio che, con riferimento all’incarico conferito ad un libero
professionista, avvocato esterno all’Amministrazione,
destinato sostanzialmente a sfociare in un parere legale,
questo rientra sicuramente nell’ambito di previsione
dell’art. 3, commi da 54 a 57, della legge finanziaria per il
2008.
Peraltro,
appare possibile ricondurre solo la
rappresentanza/patrocinio legale nell’ambito dell’appalto di
servizi, dovendosi fare in generale riferimento alla
tipologia dei “servizi legali” di cui all’allegato 2B del
d.lgs. n. 163/2006, che costituisce, ai sensi dell’art. 20
del decreto, uno dei contratti d’appalto di servizi
cosiddetti “esclusi”, assoggettato alle sole norme del
codice dei contratti pubblici richiamate dal predetto art.
20, nonché i principi indicati dal successivo art. 27
(trasparenza, efficacia, non discriminazione).
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Con la richiamata nota
il Sindaco del Comune di Nocciano (PE) sottopone al parere
della scrivente Sezione diversi quesiti:
1. se al servizio di consulenza legale, consistente nella
redazione di pareri, in valutazioni, in espressione di
giudizi utili per orientare le scelte dell'amministrazione
su problematiche in materia amministrativa, civile o penale,
debba applicarsi la normativa di cui all'art. 7, comma 6 e
ss., del D.lgs 165/2001 o se invece debba applicarsi la
normativa di cui al D.lgs 263/2006, allegato 118 ed in
particolare quella sul cottimo fiduciario (art. 125, comma
11) mediante affidamento diretto;
2. se qualora la normativa applicabile risulti essere
quella sugli incarichi esterni, l'ente sia tenuto alla
liquidazione delle spettanze in favore del professionista e
debba successivamente, -posto che la norma statuisce che in
caso di omessa pubblicazione la liquidazione del
corrispettivo per gli incarichi di collaborazione o
consulenza di cui al presente comma costituisce illecito
disciplinare e determina responsabilità erariale del
dirigente preposto- attivare procedura di rivalsa nei
confronti di chi, in assenza della pubblicazione, ha dato
seguito ad un contratto inefficace, o se invece
l'inosservanza di quanto stabilito dall'art. 3, comma 18,
legge 244/2007 determina l'assoluta impossibilità dell'ente
a provvedere alla liquidazione del compenso in favore del
professionista che ha reso la propria prestazione
professionale sulla base di un contratto valido ma
inefficace.
In particolare, il Sindaco fa presente che,
• con delibera G.C. n. 29/2009 veniva affidato ad avvocato
il servizio di assistenza legale in merito a problematiche,
di diritto amministrativo, civile e penale, che non abbiano
assunto la forma di contenzioso, per 1 anno, al fine di
fornire un supporto sia agli amministratori che ai
funzionari, con la stessa delibera veniva approvato apposito
disciplinare di incarico;
• con successiva determina il responsabile competente
provvedeva ad assumere impegno di spesa per € 5.000 oltre
iva e cap;
• allo scadere del primo anno con delibera di G.C. n.
35/2010 veniva affidato, per un ulteriore anno, il servizio
di assistenza legale al medesimo professionista;
In ottemperanza a detto incarico il professionista forniva
la propria prestazione professionale rilasciando pareri sia
scritti che verbali sia su richiesta degli organi politici
che dei responsabili di servizio, per i periodi stabiliti e
richiedeva il pagamento del corrispettivo pattuito.
L'attuale responsabile, nell'eseguire l'istruttoria per la
liquidazione delle spettanze del prefato professionista, e
ritenendo applicabile alla fattispecie la normativa sugli
incarichi ad esterni, rileva quanto segue:
1. il conferimento dell'incarico in oggetto sembrerebbe
avvenuto in assenza di procedura comparativa in ossequio dei
principi di pubblicità, trasparenza e obiettività e comunque
senza confronto fra più curricula.
2. L'attività di cui è stato incaricato il professionista,
oggetto dell'incarico, non ha un contenuto dettagliato.
3. Non risulta adottata dall'ente una disciplina
regolamentare della materia ai sensi dei commi 55 e ss.
dell'art. 3 della Legge finanziaria 2008.
4. risulta una inosservanza dell'obbligo di pubblicazione
sul sito web del provvedimento di incarico, secondo quanto
stabilito dall'art. 3, comma 18, legge 244/2007, in forza
del quale: "I contratti relativi a rapporti di consulenza
con le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1,
comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, sono
efficaci a decorrere dalla data di pubblicazione del
nominativo del consulente, dell'oggetto dell'incarico e del
relativo compenso sul sito istituzionale
dell'amministrazione stipulante."
La norma in esame non specifica quando deve essere
pubblicato l'incarico sul sito internet, ma di fatto rende
inefficace un contratto che (pur giuridicamente valido) non
è stato ancora reso pubblico, tuttavia nel caso di specie
non è stato provveduto ad inserire sul proprio sito web
nominativo, oggetto e compenso previsto per l'incarico né
prima della stipula del disciplinare né dopo.
...
L’art. 3, commi da 54 a 57, della legge 24.12.2007, n. 244
ha fissato regole di carattere procedimentale e sostanziale
alle quali gli enti locali debbono conformarsi per il
conferimento di incarichi di collaborazione, di studio e di
ricerca nonché di consulenze a soggetti estranei
all’amministrazione.
Il dato di maggiore rilievo della disciplina dettata dalla
legge finanziaria 2008 è, da una parte, l’obbligo di
normazione regolamentare dei limiti, criteri e modalità di
affidamento degli incarichi di cui sopra nonché del tetto di
spesa annua, dall’altro la subordinazione del conferimento
dell’incarico e delle consulenze ad un documento
programmatico approvato dal Consiglio.
Le disposizioni operano su piani diversi.
Le norme regolamentari dettano una disciplina generale ed
astratta per l’affidamento dell’incarico, disciplina alla
quale deve uniformarsi ciascun provvedimento in concreto
adottato dall’amministrazione.
Il primo contenuto precettivo del comma 56 dell’art. 3 della
legge finanziaria per il 2008 è l’obbligo, posto in capo
all’ente locale, di dettare norme regolamentari compiute in
materia (debbono essere infatti fissati limiti, modalità e
criteri per l’affidamento dell’incarico o della consulenza).
Prima della emanazione del citato comma 56, art. 3, legge
244/2007 non
necessariamente l’ente locale era munito di una disciplina
regolamentare degli incarichi. E’ sufficiente ricordare in
proposito il quarto comma dell’art. 89 del T.U.E.L.
L’adozione delle norme regolamentari deve avvenire nel
rispetto delle competenze e delle procedure previste dal
T.U.E.L.
Va allora posta in evidenza l’autonomia statutaria degli
enti locali, con la conseguenza che lo statuto è il punto di
riferimento primario nell’adozione dei regolamenti, sia per
quanto riguarda la dislocazione delle competenze per la loro
emanazione, sia per quanto riguarda i principi ai quali deve
conformarsi il testo normativo.
In mancanza di norme statutarie derogatorie la competenza ad
adottare regolamenti degli uffici e dei servizi appartiene
alla Giunta, nel rispetto però dei criteri generali
stabiliti dal consiglio (art. 48, terzo comma, ed art. 42,
secondo comma, lett. a, del T.U.E.L.)
Altro punto di riferimento relativamente al contenuto delle
norme regolamentari sono i criteri generali fissati dal
Consiglio. Il testo del comma 56 citato sembra in ogni caso
presupporre la necessità di comunque rivalutare in sede
regolamentare la materia degli incarichi e delle consulenze
per stabilire più stringenti criteri ed in ogni caso il
limite massimo della spesa (complessiva).
Può, pertanto, affermarsi che, sia nella ipotesi in cui non
siano state precedentemente inserite nel regolamento di
organizzazione disposizioni sul conferimento di incarichi e
consulenze, sia nella ipotesi in cui sia necessario
modificare “in parte qua” detto regolamento, il
Consiglio comunale deve previamente fissare i criteri ai
quali la Giunta dovrà attenersi nell’adozione delle norme
regolamentari.
Le attività da regolamentare secondo le disposizioni
contenute nell’art. 3, commi 54-57, della legge finanziaria
per il 2008 riguardano una pluralità di ipotesi non
omogenee, in quanto la disciplina ivi prevista si applica
sia agli incarichi di collaborazione sia a quelli di studio
e ricerca, sia alle consulenze.
In particolare gli incarichi di collaborazione attengono a
due finalità diverse, e cioè integrare gli organi di staff
del sindaco o degli assessori ovvero supportare l’attività
degli ordinari uffici dell’ente. Le differenze non sono
irrilevanti.
Nella prima ipotesi gli incarichi di collaborazione possono
essere conferiti dal Sindaco o dagli assessori competenti “intuitu
personae” a soggetti che rispondono a determinati
requisiti di professionalità entro i limiti, anche di spesa,
secondo i criteri e con le modalità previste nel regolamento
sull’ordinamento degli uffici e dei servizi e fermo restando
il limite massimo di durata dell’incarico da conformarsi
alla permanenza in carica del soggetto competente.
Nella seconda ipotesi il discorso è più complesso.
Va innanzitutto ricordato che le norme regolamentari intese
a disciplinare detti incarichi debbono adeguarsi, in forza
dell’art. 34, comma 6-ter, della legge n. 248/2006 di
conversione del D.l. n. 223/2006, ai principi contenuti
nell’art. 32 della medesima legge, dettati a fini di
contenimento della spesa e del coordinamento della finanza
pubblica. La vicenda, peraltro, si inserisce nel più
complesso discorso della provvista di personale a tempo
determinato per lo svolgimento dell’attività dell’ente. Le
disposizioni regolamentari vanno, pertanto, coordinate con
le norme di cui all’art. 3, commi da 90 a 96, dell’art. 3
della legge finanziaria 2008.
In ogni caso qualsiasi contratto di lavoro a tempo
determinato o di collaborazione coordinata e continuativa
deve essere preceduto da procedure selettive di natura
concorsuale in forza dei noti principi costituzionali, oltre
che delle specifiche disposizioni da ultimo richiamate
(cfr., sulla esigenza di rispettare i principi
costituzionali di organizzazione, la sentenza della Corte
Cost. n. 27 del 21.02.2008), senza far riferimento alle
soglie di ricorso alle procedure selettive previste in
materia di lavori pubblici, del tutto estranee alla materia.
L’organo competente a conferire l’incarico è il dirigente
preposto al settore, secondo il normale ordine delle
attribuzioni.
Più ampi sono gli adempimenti previsti per l’affidamento di
incarichi di studio o di ricerca, ovvero di consulenze a
soggetti estranei all’amministrazione.
Infatti ai sensi dell’art. 3, comma 55, della legge
finanziaria per il 2008 “l’affidamento da parte degli
enti locali di incarichi di studio o di ricerca, ovvero di
consulenze, a soggetti estranei all’amministrazione può
avvenire solo nell’ambito di un programma approvato dal
Consiglio ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. b), T.U.E.L.”
La norma da ultimo citata comprende un’ampia tipologia di
documenti programmatici di competenza del Consiglio; di
conseguenza gli incarichi di cui si parla debbono essere
previsti nel loro oggetto da documenti programmatici, che
scontino con adeguata motivazione la necessità/opportunità
di ricorrere all’incarico. La spesa prevista dovrà poi
essere inserita, concorrendo al limite massimo fissato nel
regolamento, nell’apposito stanziamento del bilancio
annuale. Va, peraltro, precisato che il limite massimo di
spesa indicato nel regolamento deve essere fissato
discrezionalmente dall’ente secondo criteri di razionalità e
rapportato alle dimensioni dell’ente con particolare
riguardo alla spesa per il personale.
Infatti, secondo giurisprudenza amministrativa consolidata
(cfr. Cons. di St., sez. IV, sentenza n. 263/2008)
l’incarico professionale (di consulenza, studio o ricerca)
in linea generale si configura come contratto di prestazione
d’opera ex artt. 2222-2238 c.c. riconducibile al modello
della locatio operis, rispetto al quale assume
rilevanza la personalità della prestazione resa
dall’esecutore. Concettualmente distinto rimane, pertanto,
l’appalto di servizi, il quale ha ad oggetto la prestazione
imprenditoriale di un risultato resa da soggetti con
organizzazione strutturata e prodotta senza
caratterizzazione personale. Ciò fatto salvo quanto disposto
dall’art. 91 D.Lgs. n. 163/2006 per gli incarichi di
progettazione.
Esemplificativamente
con riferimento all’incarico conferito
ad un libero professionista avvocato esterno
all’Amministrazione, va distinta l’ipotesi della richiesta
di una consulenza, studio o ricerca, destinata
sostanzialmente a sfociare in un parere legale, rispetto
alla rappresentanza e patrocinio giudiziale.
La prima ipotesi rientra sicuramente nell’ambito di
previsione dell’art. 3, commi da 54 a 57, della legge
finanziaria per il 2008.
La seconda, invece, esorbita concettualmente dalla nozione
di consulenza, e quindi ad essa non potrà applicarsi la
disciplina della legge finanziaria per il 2008 sopra
indicata.
Peraltro, appare possibile ricondurre la
rappresentanza/patrocinio legale nell’ambito dell’appalto di
servizi, dovendosi fare in generale riferimento alla
tipologia dei “servizi legali” di cui all’allegato 2B
del D.Lgs. n. 163/2006, che costituisce, ai sensi dell’art.
20 del decreto, uno dei contratti d’appalto di servizi
cosiddetti “esclusi”, assoggettato alle sole norme
del codice dei contratti pubblici richiamate dal predetto
art. 20, nonché i principi indicati dal successivo art. 27
(trasparenza, efficacia, non discriminazione ecc.).
Va affermato che
il legislatore, positivizzando principi di
origine pretoria,
segnatamente della giurisprudenza contabile, all’art. 7 del
D.Lgs. n. 165/2001
ha indicato i presupposti essenziali per
il ricorso agli incarichi esterni:
- l’oggetto della
prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite
dall’ordinamento all’amministrazione conferente e ad
obiettivi e progetti specifici e determinati;
- l’amministrazione deve avere preliminarmente accertato
l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane
disponibili al suo interno;
- la prestazione deve essere di
natura temporanea e altamente qualificata;
- devono essere
preventivamente determinati durata, luogo, oggetto e
compenso della collaborazione.
Inoltre è previsto che le amministrazioni pubbliche
disciplinino e rendano pubbliche, secondo i propri
ordinamenti, procedure comparative per il conferimento degli
incarichi e che i regolamenti di cui all’art. 110, co. 6, del
D.Lgs. n. 267/2000 si adeguino ai principi suindicati.
Le leggi finanziarie, oltre a fissare precisi limiti di
spesa per gli incarichi esterni, hanno rafforzato il regime
di trasparenza degli stessi, attraverso l’obbligo della
pubblicità e dell’adeguata motivazione, ed il controllo sui
medesimi in capo agli organi interni e alla Corte dei conti
(L. n. 662/1996, D.l n. 168/2004, L. n. 311/2004, L. n.
266/2005).
Com’è noto
il D.L. n. 168/2004 ha distinto tre tipologie di
incarichi esterni: di studio, di ricerca, di consulenza.
La Corte dei conti SS.RR. in sede di controllo (delib. n. 6
del 15.02.2005) ne ha fornito una definizione:
per gli incarichi di studio il riferimento è all’art. 5 D.P.R. n.
338/1994 che richiede sempre la consegna di una relazione
scritta; gli incarichi di ricerca presuppongono
la preventiva definizione del programma da parte
dell’amministrazione; le consulenze si sostanziano nella
richiesta di un parere ad un esperto esterno.
Il tratto che accomuna le differenti tipologie è, secondo le
SS.RR., la sostanziale riconducibilità di tali fattispecie
alla categoria del contratto di lavoro autonomo, più
precisamente il contratto di prestazione d’opera
intellettuale ex artt. 2229-2239 c.c.
Restano esclusi, quindi, da questo ambito i “rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa”, che, com’è noto,
rappresentano una posizione intermedia fra il lavoro
autonomo, proprio dell’incarico professionale, e il lavoro
subordinato (art. 409, n. 3 c.p.c.). Gli incarichi di
collaborazione coordinata e continuativa, infatti, per la
loro stessa natura, che prevede la continuità della
prestazione ed un potere di direzione dell’amministrazione,
in via concettuale apparirebbero incompatibili con gli
incarichi esterni, caratterizzati (di norma) dalla
temporaneità e dall’autonomia della prestazione.
Resta fermo peraltro, secondo le SS.RR., che, qualora un
atto rechi il nome di collaborazione coordinata e
continuativa, ma, per il suo contenuto, rientri nella
categoria degli incarichi di studio o di ricerca o di
consulenza, il medesimo sarà soggetto al limite di spesa,
alla motivazione, ai controlli ed alle altre prescrizioni
imposte dalla normativa generale sugli incarichi esterni.
In particolare gli incarichi di studio possono essere
conferiti a soggetti particolarmente qualificati nella
materia. Essi debbono avere ad oggetto materie di interesse
del soggetto che li conferisce, avere durata certa e
concludersi con la presentazione di elaborati espositivi dei
risultati dello studio o della ricerca. Tutti questi
elementi debbono risultare dall’atto di
conferimento dell’incarico di studio, che regola il rapporto
tra soggetto conferente ed incaricato.
Il comma 56 dell’art. 3 della legge finanziaria per il 2008
sottopone alla dettagliata disciplina regolamentare, oltre
che gli incarichi di “studio o di ricerca ovvero di
consulenze”, anche quelli di “collaborazione”.
Del tutto al di fuori dell’ambito di applicazione del comma
56 risultano essere gli incarichi conferiti ex art. 90 del
TUEL (Uffici di supporto agli organi di direzione politica),
ossia le cosiddette “collaborazioni di staff”. Infatti
l’art. 90 TUEL fa espresso riferimento a dipendenti
dell’ente ovvero a “collaboratori assunti con contratto a
tempo determinato” (collocati, se dipendenti da una pubblica
amministrazione, in aspettativa senza assegni), cui si
applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del
personale degli enti locali e, quindi, a figure
professionali sostanzialmente riconducibili al rapporto di
lavoro subordinato.
Più complesso è il discorso relativo all’esatta
delimitazione delle cosiddette “collaborazioni coordinate e
continuative” (ex art. 409 n. 3 c.p.c.) e alla loro
distinzione rispetto agli incarichi di consulenza.
Costituisce ormai un principio condiviso (cfr. Corte dei
conti delib. SS.RR. n. 6/2005 nonché circolare Dip. Funz.
Pubbl. 15.03.2005) quello secondo cui dalla lettura
sistematica delle disposizioni delle leggi finanziarie più
recenti (cfr. legge n. 311/2004 finanziaria per il 2005 e
legge n. 266/2005 finanziaria per il 2006 le quali fissano
tetti di spesa separati per incarichi di consulenza e co.co.co., in particolare conglobando contratti a termine e
co.co.co. in un unico tetto di spesa) emerge l’intenzione
del legislatore di stabilire una linea di demarcazione tra
le collaborazioni ad alto contenuto professionale e le altre
“semplici”
collaborazioni coordinate e continuative. Le prime hanno ad
oggetto prestazioni implicanti un’alta specializzazione (non
rinvenibile nelle normali competenze del personale della
P.A.) e una correlativa attività lavorativa sostanzialmente
autonoma. Le altre co.co.co. sono state spesso utilizzate
negli ultimi anni (analogamente ai contratti di lavoro a
tempo determinato e a fronte dei tagli o blocchi delle
assunzioni di lavoratori subordinati nella P.A.) per
l’espletamento di prestazioni ordinarie non richiedenti un
elevato grado di autonomia organizzativa.
Pertanto, il criterio per distinguere le collaborazioni ad
alto contenuto professionale dalle semplici co.co.co. va
ravvisato in un canone di sostanzialità, in base al
contenuto della prestazione ed alle modalità di svolgimento
della stessa (cfr. anche Corte conti sez. giur. reg. Umbria
n. 447/2005).
Questa logica distintiva appare ancora attuale nell’impianto
della legge finanziaria per il 2008, ed anzi è portata
all’estreme conseguenze.
Da un lato l’utilizzo delle “ordinarie” co.co.co. appare
attualmente fortemente ristretto: la logica della legge
finanziaria per il 2008 è, infatti, quella di evitare il
formarsi di precariato nella P.A., anche attraverso un
rigido contenimento del lavoro flessibile (cfr. art. 3, comma
79), con la conseguenza che per l’espletamento delle
ordinarie attività amministrative varrà il principio
generale “dell’autosufficienza”.
Dall’altro lato, vengono ulteriormente fissati i limiti alle
collaborazioni esterne ad elevata professionalità
prevedendo, per queste ultime, gli adempimenti di cui ai
commi 53-57 dell’art. 3.
L’individuazione dell’alta professionalità risulta peraltro
subordinata al requisito della “particolare e comprovata
specializzazione universitaria” di cui al comma 76 dell’art.
3 della legge finanziaria per il 2008.
Le collaborazioni ad elevata professionalità, pertanto,
rientrano nell’ambito di applicazione del comma 56 dell’art.
3 legge finanziaria per il 2008 e quindi necessitano della
disciplina ad opera del regolamento dell’ente locale. Le
altre “semplici” co.co.co., al contrario, ne sono escluse;
peraltro l’utilizzo di quest’ultime non risulta conforme
alla logica sottostante alla legge finanziaria 2008, che è
quella di limitare l’instaurazione di rapporti di lavoro
parasubordinato e/o flessibile per l’esercizio di attività
amministrative ordinarie.
Conseguentemente,
ritiene questo Collegio, così come
previsto nelle “Linee di Indirizzo e criteri interpretativi
dell’art. 3, commi 54-57 della l. 244/2007 in materia di
regolamento degli enti locali per l’affidamento di incarichi
di collaborazione, studio, ricerca e consulenza” emanate
dalla Sezione Autonomie nell’Adunanza del 14.03.2008,
che, con riferimento all’incarico conferito ad un libero
professionista, avvocato esterno all’Amministrazione,
destinato sostanzialmente a sfociare in un parere legale,
questo rientra sicuramente nell’ambito di previsione
dell’art. 3, commi da 54 a 57, della legge finanziaria per il
2008.
Peraltro,
appare possibile ricondurre solo la
rappresentanza/patrocinio legale nell’ambito dell’appalto di
servizi, dovendosi fare in generale riferimento alla
tipologia dei “servizi legali” di cui all’allegato 2B del
d.lgs. n. 163/2006, che costituisce, ai sensi dell’art. 20
del decreto, uno dei contratti d’appalto di servizi
cosiddetti “esclusi”, assoggettato alle sole norme del
codice dei contratti pubblici richiamate dal predetto art.
20, nonché i principi indicati dal successivo art. 27
(trasparenza, efficacia, non discriminazione).
Per ciò che concerne la richiesta relativa al comportamento
del Comune ed in particolare se “l'ente sia tenuto alla
liquidazione delle spettanze in favore del professionista e
debba successivamente, attivare procedura di rivalsa nei
confronti di chi, in assenza della pubblicazione, ha dato
seguito ad un contratto inefficace, o se invece
l'inosservanza di quanto stabilito dall'art. 3, comma 18,
legge 244/2007 determina l'assoluta impossibilità dell'ente
a provvedere alla liquidazione del compenso in favore del
professionista che ha reso la propria prestazione
professionale sulla base di un contratto valido ma
inefficace” si ricorda che l’attività consultiva di cui
all’art. 7, comma 8, della Legge 131/2003, intestata alle
Sezioni regionali di controllo della Corte, non può
riferirsi a scelte o a comportamenti amministrativi
specifici, riconducibili all’ambito di esercizio della
discrezionalità amministrativa del singolo ente.
Nei documenti d’indirizzo sopra richiamati, viene infatti
precisato che possono rientrare nella funzione consultiva
della Corte dei Conti le sole “questioni volte ad ottenere
un esame da un punto di vista astratto e su temi di
carattere generale”, dovendo quindi ritenersi inammissibili
le richieste concernenti valutazioni su casi o atti
gestionali specifici.
Per questo motivo, il Collegio ritiene di
non poter effettuare una valutazione sulla correttezza del
comportamento dell’Ente per non incorrere nel coinvolgimento
diretto di questa Sezione nell’amministrazione attiva di
competenza dell’Ente interessato, non rientrante nei canoni
dalla funzione consultiva demandata alla Corte dei conti
(Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo,
parere 30.04.2013
n. 25). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire - Annullamento in
autotutela poi annullato in giudizio: chi decide sulla
restituzione dell'oblazione?
Applicando alla controversia sottoposta alla sua cognizione
principi già elaborati in caso di domanda di restituzione
dell’oblazione corrisposta per la sanatoria di un immobile
abusivo, la Suprema Corte pone un limite alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo in ipotesi di
controversia attinente ad un provvedimento di annullamento
in autotutela del permesso di costruzione, a sua volta
successivamente annullato in sede giurisdizionale.
L’interpretazione costituzionalmente orientata, alla luce
dell’art. 103, primo comma, della Costituzione, il quale
richiede che la P.A. abbia agito nella veste di autorità,
dell’art. 38 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, al pari di
quella del D.lgs. 31.03.1998, n. 80, art. 34, comma 1, che
ha devoluto alla giurisdizione esclusiva del Giudice
amministrativo le controversie aventi per oggetto l’attività
delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti alle stesse
equiparati in materia di urbanistica ed edilizia (come
sostituito dalla legge 21.07.2000, n. 205, art. 7, lett. b),
e quale risulta dalla declaratoria della sua parziale
illegittimità costituzionale con sentenza n. 281/2004), non
consente di ricomprendere nella giurisdizione esclusiva
attribuita al Giudice amministrativo in tema di sanzione
pecuniaria le controversie nelle quali, essendo assente ogni
profilo riconducibile all’esercizio dei poteri autoritativi,
le parti vengono a porsi in una posizione sostanzialmente
paritaria.
In particolare, mentre rientrano nella giurisdizione
esclusiva quelle concernenti la regolarità del procedimento
di sanatoria dell’abuso edilizio, e quelle aventi ad oggetto
il diritto dell’interessato a giovarsi del procedimento ex
art. 38 citato ed a ottenere il rimborso delle somme di cui
risulta creditore a seguito della determinazione definitiva
dell’importo della sanzione pecuniaria da parte del
dirigente dell’ufficio competente, diversamente deve essere
affermato quanto alle somme versate, nel caso in cui sia
divenuta definitiva la sentenza di annullamento del
provvedimento in autotutela, che annullava il permesso di
costruzione, e sul quale ultimo si fondava il procedimento
di cui all’art. 38 T.U. n. 380/2001 e la conseguente
sanzione pecuniaria irrogata.
In tale ipotesi, infatti, l’atto di irrogazione della
sanzione è sine causa, sia pure non originaria ma
sopravvenuta, e quindi nullo, con la conseguenza che
l’interessato ha diritto di ripetere a titolo di indebito la
somma versata.
Tuttavia, alla parte che agisce per la restituzione
dell’indebito si contrappone una pubblica amministrazione
che, esaurito il procedimento sanzionatorio di cui al citato
art. 38, non è qualificata in ordine ai tempi ed ai modi del
pagamento delle somme richieste da alcun residuo potere, che
valga a ricomprendere la controversia relativa al diritto
alla restituzione nella materia attribuita alla
giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo soltanto
in ragione dell’originario esercizio rispetto ad essa di una
attività discrezionale dell’amministrazione, coinvolgente
anche i diritti soggettivi dell’interessato.
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La decisione in sintesi
● Esito del ricorso:
- Cassa con rinvio, Consiglio di Stato, sentenza 15.12.2011,
n. 6613
● I precedenti giurisprudenziali:
- Cassazione civile, Sez. Un, sentenza 31.05.2011, n. 11965
- Cassazione civile, Sez. Un, sentenza 15.12.2008, n. 29291
- Corte costituzionale, sentenza 28.07.2004, n. 281
● Riferimenti normativi:
- Cod. Civ. art. 2033 Cost.
- art. 103 Cost. art. 111
- D.P.R. 06/06/2001 num. 380
- art. 38 D.lgs. 31/03/1998 num. 80 art. 34 (Corte di
Cassazione civile, sentenza 24.05.2013 n. 12899 -
tratto da www.ispoa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 03.06.2013 |
ã |
IN EVIDENZA |
APPALTI - LAVORI PUBBLICI: Anche
dopo le modifiche introdotte dal c.d. decreto
sviluppo di cui al d.l. n. 70/2011, è rimasta
inalterata la facoltà delle amministrazioni
aggiudicatrici di richiedere, a pena di esclusione,
tutti i documenti e gli elementi ritenuti necessari
o utili per identificare e selezionare i
partecipanti ad una procedura concorsuale nel
rispetto del principio di proporzionalità, ai sensi
degli art. 73 e 74 del Codice dei contratti.
---------------
Con riferimento all’attestazione del r.u.p. di presa
visione dei luoghi dove devono eseguirsi i lavori,
imposta dal disciplinare di gara, un orientamento
ha affermato che con il richiedere tale attestazione
“la stazione appaltante pone a carico
dell'appaltatore un preciso dovere cognitivo, cui
corrisponde una altrettanto precisa responsabilità
contrattuale di quest’ultimo. La provenienza di
detto documento dall’amministrazione aggiudicatrice
assicura a quest’ultima maggiore tutela, a presidio
dell'interesse, di ordine imperativo,
all’individuazione del contraente più idoneo nonché
alla correttezza e regolarità della gara, in un
ottica dunque di rafforzamento degli adempimenti
dichiarativi imposti dall'art. 71, comma 2, del
D.P.R. n. 554/1999 e dunque in coerenza con
l'interesse pubblico sotteso a tale norma di
azione”.
Tuttavia, nel caso di specie, il Comune ha
introdotto un requisito di partecipazione
ingiustamente limitativo della concorrenza in quanto
ha imposto alle imprese di partecipare ad un
sopralluogo prima della scadenza del termine di
presentazione delle istanza di partecipazione.
In questo modo le imprese che hanno conosciuto
all’ultimo momento il bando od hanno deciso di
partecipare alla gara nel periodo intercorrente tra
il giorno del sopralluogo e la scadenza del termine
per la partecipazione, erano in sostanza già escluse
dalla gara in quanto non in grado di presentare la
suddetta attestazione del r.u.p.
L’adempimento richiesto viola quindi il principio di
proporzionalità ed il termine di partecipazione alla
gara, in quanto imponendo l’obbligo di maturare
requisiti di partecipazione alla gara in data
anteriore al termine finale di partecipazione, ha
sostanzialmente ridotto i termini di partecipazione
ed ha introdotto un adempimento non assolvibile
dalle imprese che venivano a conoscenza del bando in
data successiva alla data del sopralluogo ma prima
della scadenza dei termini di partecipazione alla
gara.
A ciò si aggiunge che l’attestazione del r.u.p. di
presa visione dei luoghi dove devono eseguirsi i
lavori è requisito che non trova adeguato supporto
normativo in quanto l’art. 106 del D.P.R. 207/2010,
nell’intento evidente di semplificare le modalità di
partecipazione alla gara, si limita a prevedere la
dichiarazione di sopralluogo a cura del partecipante
e la richiede esclusivamente per gli appalti e le
concessioni di lavori pubblici.
Occorre rammentare in merito che lo scopo della
riforma delle cause di esclusione è stata quella di
porre un freno al proliferare delle cause di
esclusione inventate dall’amministrazione e giungere
a rendere più omogenei e prevedibili i bandi,
ottenendo così un freno al proliferare della
litigiosità giudiziaria.
Con riferimento alla conoscenza dei luoghi occorre
rammentare che la giurisprudenza amministrativa
precedente la riforma considerava generalmente
sufficiente ai fini dell’ammissione alla gara la
dichiarazione di sopralluogo a prescindere dalle
modalità con cui esso sia stato eseguito, a meno che
non fosse espressamente richiesto anche uno
specifico verbale di sopralluogo sulle relativa
modalità.
La prescrizione del bando di gara che richiede, tra
i documenti da allegare all’offerta, la
certificazione, con la quale la stazione appaltante,
e per essa il responsabile del procedimento, attesti
l'effettiva presa visione del progetto e dei luoghi
in cui debbono eseguirsi i lavori, è stata sempre
considerata una previsione derivante da una scelta
discrezionale della stazione appaltante ispirata
all’intento di integrare e rafforzare, ma
soprattutto verificare, con apposita certificazione
del responsabile del procedimento, la dichiarazione
prevista dall’art. 71, comma 2, del D.P.R. n.
554/1999 già resa dai concorrenti.
Si tratta quindi in sostanza dell’introduzione di un
adempimento formale, privo di base normativa e con
funzione esclusivamente rafforzativa delle garanzie
di legge, che si pone in contrasto con le esigenze
di semplificazione e standardizzazione dei bandi
perseguita dal c.d. decreto sviluppo e da altre
disposizioni normative, quali quelle introduttive
dei bandi tipo.
Ne consegue che deve ritenersi sufficiente ai fini
dell’ammissione ad una gara la dichiarazione di
sopralluogo a prescindere dalle modalità con cui
esso sia stato eseguito, e deve escludersi che la
mancanza dell’attestazione del r.u.p. possa
costituire causa di esclusione, avendo il
legislatore già disciplinato la materia della
conoscenza dei luoghi senza prevedere tale
adempimento meramente formale.
In merito ai requisiti richiesti dal bando
di gara per la partecipazione, la giurisprudenza ha già
avuto modo di precisare come anche dopo le modifiche
introdotte dal c.d. decreto sviluppo di cui al d.l.
n. 70/2011, sia rimasta inalterata la facoltà delle
amministrazioni aggiudicatrici di richiedere, a pena di
esclusione, tutti i documenti e gli elementi ritenuti
necessari o utili per identificare e selezionare i
partecipanti ad una procedura concorsuale nel rispetto del
principio di proporzionalità, ai sensi degli art. 73 e 74
del Codice dei contratti (cfr. Cons. Stato, Sez, V, 12.06.2012, n. 3884).
Con riferimento in particolare all’attestazione del r.u.p.
di presa visione dei luoghi dove devono eseguirsi i lavori,
imposta dal disciplinare di gara, un orientamento ha
affermato che con il richiedere tale attestazione “la
stazione appaltante pone a carico dell'appaltatore un
preciso dovere cognitivo, cui corrisponde una altrettanto
precisa responsabilità contrattuale di quest’ultimo. La
provenienza di detto documento dall’amministrazione
aggiudicatrice assicura a quest’ultima maggiore tutela, a
presidio dell'interesse, di ordine imperativo,
all’individuazione del contraente più idoneo nonché alla
correttezza e regolarità della gara, in un ottica dunque di
rafforzamento degli adempimenti dichiarativi imposti
dall'art. 71, comma 2, del D.P.R. n. 554/1999 e dunque in
coerenza con l'interesse pubblico sotteso a tale norma di
azione”.
Venendo al caso in questione occorre rilevare che il
Comune di Canegrate ha introdotto un requisito di
partecipazione ingiustamente limitativo della concorrenza in
quanto ha imposto alle imprese di partecipare ad un
sopralluogo prima della scadenza del termine di
presentazione delle istanza di partecipazione.
In questo modo le imprese che hanno conosciuto all’ultimo
momento il bando od hanno deciso di partecipare alla gara
nel periodo intercorrente tra il giorno del sopralluogo e la
scadenza del termine per la partecipazione, erano in
sostanza già escluse dalla gara in quanto non in grado di
presentare la suddetta attestazione del r.u.p.
L’adempimento richiesto viola quindi il principio di
proporzionalità ed il termine di partecipazione alla gara,
in quanto imponendo l’obbligo di maturare requisiti di
partecipazione alla gara in data anteriore al termine finale
di partecipazione, ha sostanzialmente ridotto i termini di
partecipazione ed ha introdotto un adempimento non
assolvibile dalle imprese che venivano a conoscenza del
bando in data successiva alla data del sopralluogo ma prima
della scadenza dei termini di partecipazione alla gara.
A ciò si aggiunge, secondo il Collegio, che
l’attestazione del r.u.p. di presa visione dei luoghi dove
devono eseguirsi i lavori è requisito che non trova adeguato
supporto normativo in quanto l’art. 106 del D.P.R. 207/2010,
nell’intento evidente di semplificare le modalità di
partecipazione alla gara, si limita a prevedere la
dichiarazione di sopralluogo a cura del partecipante e la
richiede esclusivamente per gli appalti e le concessioni di
lavori pubblici.
Occorre rammentare in merito che lo scopo della riforma
delle cause di esclusione è stata quella di porre un freno
al proliferare delle cause di esclusione inventate
dall’amministrazione e giungere a rendere più omogenei e
prevedibili i bandi, ottenendo così un freno al proliferare
della litigiosità giudiziaria.
Con riferimento alla conoscenza dei luoghi occorre
rammentare che la giurisprudenza amministrativa precedente
la riforma considerava generalmente sufficiente ai fini
dell’ammissione alla gara la dichiarazione di sopralluogo a
prescindere dalle modalità con cui esso sia stato eseguito,
a meno che non fosse espressamente richiesto anche uno
specifico verbale di sopralluogo sulle relativa
modalità (Cons. St., sez. V, 07.07.2005 n. 3729).
La prescrizione del bando di gara che richiede, tra i
documenti da allegare all’offerta, la certificazione, con la
quale la stazione appaltante, e per essa il responsabile del
procedimento, attesti l'effettiva presa visione del progetto
e dei luoghi in cui debbono eseguirsi i lavori, è stata
sempre considerata una previsione derivante da una scelta
discrezionale della stazione appaltante ispirata all’intento
di integrare e rafforzare, ma soprattutto verificare, con
apposita
certificazione del responsabile del procedimento, la
dichiarazione prevista dall’art. 71, comma 2, del D.P.R. n.
554/1999 già resa dai concorrenti (TAR Lazio, Latina, 24.10.2003 n. 868; cfr., altresì, Cons. St., sez. IV, 13.09.2001 n. 4805; TAR Basilicata, Potenza,
05.11.2004 n. 742).
Si tratta quindi in sostanza dell’introduzione di un
adempimento formale, privo di base normativa e con funzione
esclusivamente rafforzativa delle garanzie di legge, che si
pone in contrasto con le esigenze di semplificazione e
standardizzazione dei bandi perseguita dal c.d. decreto
sviluppo e da altre disposizioni normative, quali quelle
introduttive dei bandi tipo.
Ne consegue che deve ritenersi sufficiente ai fini
dell’ammissione ad una gara la dichiarazione di sopralluogo
a prescindere dalle modalità con cui esso sia stato
eseguito, e deve escludersi che la mancanza
dell’attestazione del r.u.p. possa costituire causa di
esclusione, avendo il legislatore già disciplinato la
materia della conoscenza dei luoghi senza prevedere tale
adempimento meramente formale
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 31.05.2013 n. 1434 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Disposizioni transitorie per la pianificazione comunale.
Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per
il governo del territorio) (LCR n.
1 approvata nella seduta del 28.05.2013 in attesa di
pubblicazione sul BURL - tratto da
www.consiglio.regione.lombardia.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - VARI: G.U.
21.05.2013 n. 117 "Regole tecniche in materia di
generazione, apposizione e verifica delle firme elettroniche
avanzate, qualificate e digitali, ai sensi degli articoli
20, comma 3, 24, comma 4, 28, comma 3, 32, comma 3, lettera
b) , 35, comma 2, 36, comma 2, e 71"
(D.P.C.M.
22.02.2013). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L.
Spallino,
Proroga dei termini per l'approvazione dei PGT: cosa cambia
per chi ha adottato ma non ancora approvato (30.05.2013
- link a http://studiospallino.blogspot.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI:
Oggetto: Lavori pubblici e iscrizioni a piattaforme
telematiche (ANCE Bergamo,
circolare 31.05.2013 n. 132). |
UTILITA' |
SICUREZZA LAVORO: Testo
Unico della Sicurezza sul Lavoro, ecco la versione
aggiornata a maggio 2013 con note e commenti.
Il Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi
di lavoro, in vigore dal 15.05.2008 (D.Lgs. 81/2008), nel
corso del tempo ha subito diverse modifiche ed integrazioni.
In allegato a questo articolo proponiamo la
versione aggiornata a maggio 2013 pubblicata sul sito
del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Il testo, corredato da allegati, note e commenti e da
un’ampia appendice normativa, è coordinato con le più
recenti disposizioni integrative e correttive:
●
Decreto Interministeriale 04.03.2013: criteri generali di
sicurezza relativi alle procedure di revisione, integrazione
e apposizione della segnaletica stradale destinata alle
attività lavorative che si svolgono in presenza di traffico
veicolare;
●
Decreto Interministeriale 06.03.2013: criteri di
qualificazione della figura del formatore per la salute e
sicurezza sul lavoro;
●
Circolare n. 9/2013 del 05/03/2013: D.M. 11.04.2011 –
chiarimenti;
●
Circolare n. 12/2013 del 11/03/2013: accordo 22.02.2012 in
attuazione dell’articolo 73, comma 5, del decreto
legislativo 09.04.2008, n. 81 – chiarimenti.
●
Decreto Interministeriale del 27.03.2013: semplificazione in
materia di informazione, formazione e sorveglianza sanitaria
dei lavoratori stagionali del settore agricolo;
●
Decreto Legislativo 13.03.2013, n. 32 che modifica l’art. 6,
comma 8;
●
Interpelli dal n. 1 al 7 del 2013;
●
sostituzione del Decreto Dirigenziale del 19.12.2012 con il
Decreto Dirigenziale del 24.04.2013 dei soggetti abilitati
per l’effettuazione delle verifiche periodiche di cui
all’art. 71, comma 11
(30.05.2013 - link a www.acca.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA- SICUREZZA LAVORO: Dall’INAIL
la guida su come valutare il rischio biologico nella
bonifica dei siti contaminati.
Il problema dell’inquinamento dei suoli e delle falde
acquifere da parte dei contaminanti organici di svariata
natura chimica (idrocarburi, naftoli, pesticidi) è
particolarmente rilevante in numerose zone dell'Italia e
molto spesso è aggravato dalla elevata persistenza e
tossicità di questi composti.
In base a quanto disposto dal Titolo X del D.Lgs. 81/2008,
il rischio biologico per i lavoratori deve essere valutato
al pari degli altri rischi al fine di definirne le corrette
modalità di gestione e controllo alla luce delle più
aggiornate conoscenze scientifiche in materia.
Allo scopo di offrire agli operatori coinvolti in questo
tipo di attività precisi indirizzi in materia di
prevenzione, valutazione e gestione dei rischi lavorativi,
l’INAIL ha realizzato la pubblicazione “Il rischio
biologico nel settore della bonifica dei siti contaminati”.
La monografia fornisce importanti indicazioni per le diverse
fasi operative, dal sopralluogo conoscitivo alla fase di
allestimento del cantiere ed alle operazioni di bonifica
vera e propria.
Di particolare interesse le sezioni del documento dedicate
ai seguenti argomenti:
►
classificazione degli agenti biologici (infettività,
patogenicità, trasmissibilità, neutralizzabilità)
►
criteri di individuazione, identificazione, la valutazione e
la gestione del rischio
►
tipi di esposizione nelle varie tecniche di bonifica
►
casistica epidemiologica
►
sorveglianza sanitaria
(30.05.2013 - link a www.acca.it). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Consigli, permessi limitati. Assenze dal lavoro per la
durata della seduta. Ma se la riunione va oltre la mezzanotte si ha diritto a un
giorno di riposo
Quale disciplina è prevista a favore dei lavoratori
dipendenti, pubblici o privati, componenti dei consigli
comunali e provinciali, in merito ai permessi di cui
all'art. 79 del Tuel?
Con la modifica del primo periodo del comma 1 dell'art. 79
del Tuel, disposta dal comma 21 dell'art. 16 dl 13/08/2011, n.
138, convertito nella legge 14/09/2011, le parole «per
l'intera giornata in cui sono convocati i rispettivi
consigli» sono state sostituite dalle seguenti: «per il
tempo strettamente necessario per la partecipazione a
ciascuna seduta dei rispettivi consigli e per il
raggiungimento del luogo di suo svolgimento».
La parte rimanente del comma citato, rimasta invariata,
prevede che «nel caso in cui i consigli si svolgano in
orario serale, i predetti dipendenti hanno diritto di non
riprendere il lavoro prima delle ore 8 del giorno
successivo; nel caso in cui i lavori dei consigli si
protraggano oltre la mezzanotte, hanno diritto di assentarsi
dal servizio per l'intera giornata»
(articolo ItaliaOggi del 31.05.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Costituzione dei gruppi.
È consentita a un consigliere, dissociatosi dal gruppo di
appartenenza originario, la possibilità di costituire un
nuovo gruppo consiliare composto da un unico consigliere?
La materia dei gruppi consiliari è regolata dalle apposite
norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti
locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei
consigli, riconosciuta espressamente agli stessi dall'art.
38, comma 3, del Tuel n. 267/2000.
In linea di principio, sono ammissibili i mutamenti che
possono sopravvenire all'interno delle forze politiche
presenti in consiglio comunale comportanti la costituzione
di nuovi gruppi consiliari, ovvero l'adesione a diversi
gruppi esistenti.
Tali mutamenti sono ammissibili secondo un principio
fondamentale del nostro ordinamento, confermato dalla
giurisprudenza (vedi Tar Lazio, sentenza n. 649/2004) per il
quale non è configurabile alcun obbligo giuridico che
vincoli l'eletto al proprio partito ovvero ai propri
elettori, sicché «nulla impedisce che, nel corso della consiliatura, uno o più consiglieri abbandonino la
coalizione d'origine e transitino in altra coalizione».
Sono i singoli enti locali, nell'ambito della propria
potestà di organizzazione, i titolari della competenza a
dettare norme, statutarie e regolamentari nella materia;
pertanto le relative problematiche dovrebbero trovare
adeguata soluzione nella specifica disciplina di cui l'ente
stesso si è dotato.
Nel caso di specie, sia la normativa statutaria sia quella
regolamentare dell'ente non contengono disposizioni che
prescrivono un numero minimo di consiglieri per la
costituzione di nuovi gruppi consiliari.
In particolare, il regolamento del consiglio comunale
prevede che «nel caso in cui una lista abbia avuto eletto un
solo consigliere, allo stesso sono riconosciuti i diritti e
la rappresentanza di un gruppo consiliare».
Il fatto che tale disposizione preveda espressamente la
possibilità per il consigliere unico eletto nell'ambito di
una lista di costituire un gruppo uni personale non sembra
preclusiva del riconoscimento di tale opzione anche al
consigliere dissociatosi, in corso di consiliatura, dal
gruppo di riferimento originario.
Il regolamento dispone, altresì, che «il consigliere che
vuole dissociarsi dal proprio gruppo o non intende
appartenere a un gruppo già costituito può aderire a un
gruppo indipendente o misto o di nuova formazione».
Tale disposizione sembrerebbe consentire anche al
consigliere fuoriuscito da un gruppo consiliare la
possibilità di costituire un gruppo, anche unipersonale, «di
nuova formazione».
Tuttavia, soltanto il consiglio comunale, nella sua
autonomia e in quanto titolare della competenza a dettare le
norme cui conformarsi in tale materia, è abilitato a fornire
un'interpretazione autentica delle norme statutarie e
regolamentari di cui l'ente è dotato. Nel caso in questione,
il regolamento del consiglio comunale attribuisce alla
conferenza dei capigruppo la competenza a proporre soluzioni
ai problemi relativi all'interpretazione ed applicazione del
regolamento stesso
(articolo ItaliaOggi del 31.05.2013). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nel Patto le assunzioni over quota di disabili.
Escluse solo le spese per la dotazione minima di 15 unità
Le spese relative alle assunzioni di personale appartenente
alle categorie protette non rientrano nel computo delle
spese di personale e non rilevano ai fini dei vincoli
imposti dal Patto di stabilità solo ed esclusivamente in
presenza dello specifico obbligo previsto dal legislatore,
relativo alla dotazione organica minima di quindici unità
del soggetto che vuole procedere alle predette assunzioni.
È
quanto ha precisato la sezione regionale di controllo della
Corte dei conti per la regione Veneto, nel testo del
parere
28.05.2013 n. 143, fornendo un'interessante precisazione in merito
agli stretti rapporti tra vincoli di finanza pubblica e
spese per assunzioni di lavoratori appartenenti alle
categorie protette.
Nei fatti oggetto del parere, il comune
di Pozzoleone ha posto un quesito in ordine alla possibilità
per l'ente locale, soggetto al patto di stabilità a
decorrere dal 2013, di non conteggiare tra la spesa di
personale le assunzioni effettuate per il personale ex lege
n. 68/1999 nonostante non ricorra, per l'ente in questione,
l'obbligo giuridico di procedere all'assunzione, in quanto
la dotazione di personale fosse inferiore a quindici unità.
L'ente ha motivato l'assunzione in eccedenza di tale
personale come «aiuto nel recupero di soggetti altrimenti
inoccupati, principio, questo, particolarmente rilevante in
momenti di crisi occupazionale». Il collegio della Corte
veneta ha preliminarmente osservato che le disposizioni
della richiamata legge n. 68/1999 impongono l'assunzione di
lavoratori appartenenti alle categorie protette da parte di
datori di lavoro pubblici o privati. Ma che tale obbligo,
per espressa previsione, non su sussiste nel caso in cui il
numero delle unità lavorative già in organico sia inferiore
a quindici.
Sul punto, la giurisprudenza consultiva della Corte è
intervenuta più volte (da ultimo Corte conti Emilia-Romagna,
parere n. 60/2013), sostenendo che le spese sostenute
dall'ente locale per il personale appartenente alle
«categorie protette» vanno escluse dal computo della spesa
di personale. E per rafforzare il concetto di obbligatorietà
delle assunzioni, il legislatore non è certo andato con la
mano leggera, prevedendo che la mancata copertura della
quota d'obbligo riservata alle categorie protette, viene
espressamente sanzionata sul piano penale, amministrativo e
disciplinare (ex art. 15, comma 3, della legge 68/1999).
Tuttavia, sia nei pareri Corteconti che nei documenti di
prassi ministeriale (su tutte, la circolare n. 9/2006 della
Ragioneria generale dello stato e la circolare n. 6/2009
della funzione pubblica) è stato sempre ribadito e precisato
che tale esclusione opera esclusivamente nei confronti del
personale appartenente alle categorie protette rientranti
nell'obbligo assunzionale, vale a dire solo con riferimento
al personale assunto nell'ambito della percentuale d'obbligo
o quota di riserva, stabilita dal legislatore in funzione
del numero dei dipendenti dell'ente procedente alle
assunzioni.
La ratio di tale esclusione dal computo della spesa
di personale, pertanto, non può che ravvisarsi
nell'obbligatorietà di tali assunzioni, non lasciando alcun
margine di discrezionalità al datore di lavoro. Da ciò,
conclude la Corte nel parere in osservazione, ne consegue
che l'assunzione di personale appartenente alle categorie
protette effettuata in eccedenza alla quota di riserva o in
assenza dello specifico obbligo previsto dal legislatore,
rientra nel computo delle spese di personale rilevante ai
fini del rispetto del Patto di stabilità
(articolo ItaliaOggi dell'01.06.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI:
Vincolati i fondi anti dissesto. Le anticipazioni ricevute
vanno accantonate in bilancio. I
chiarimenti della Corte conti. Dismissioni immobiliari solo
per finanziare investimenti.
L'importo dell'anticipazione concesso a valere sul fondo di
rotazione previsto dal decreto legge salva enti, deve essere
iscritto in bilancio in un apposito fondo vincolato
dell'entrata. Negli esercizi successivi, tale fondo sarà
progressivamente ridotto dell'importo pari alle somme che
annualmente l'ente locale rimborserà al mininterno.
Inoltre, i proventi da beni patrimoniali disponibili devono
essere destinati, in generale, alla copertura di spese di
investimento. Fanno però eccezione i casi di dissesto
dell'ente e di accesso al predetto fondo di rotazione, in
cui detti proventi concorrono al ripiano dell'intera massa
passiva.
Sono questi gli importanti chiarimenti forniti dalla Sezione
autonomie della Corte dei conti, nel testo della
delibera 20.05.2013 n. 14, con cui sono state messe nero su
bianco rilevanti questioni di massima scaturenti dalle
disposizioni contenute nel dl n. 174/2012
Fondo vincolato
Un primo quesito di rimessione è fondato sulla corretta
allocazione in bilancio delle somme che l'ente locale riceve
in virtù dell'accesso al fondo di rotazione previsto dal
decreto legge n. 174/2012. Sul punto, la Corte ha ricordato
come la natura di tale fondo, alla stessa stregua
dell'anticipazione di tesoreria prevista dal recente decreto
sblocca pagamenti della pubblica amministrazione, sia quella
di permettere agli enti locali di far fronte a momentanee
carenze di liquidità e di favorire il ripristino di una
normale liquidità di bilancio. Sotto il profilo contabile,
l'imputazione dell'anticipazione nelle entrate di bilancio,
pone il problema della corretta allocazione della
corrispondente voce di uscita. Ciò in quanto tale
anticipazione, una volta acquisita, viene restituita in un
arco temporale massimo di dieci anni.
Con il rischio, ammette la Corte, che la quota delle risorse
acquisite e non immediatamente impegnate per la
restituzione, andrebbero a fornire copertura per nuove e
maggiori spese, arrecando distorsioni sul risultato di
amministrazione effettivo. In tal modo, verrebbero
irrimediabilmente vanificate le finalità della disposizione
contenuta nel citato decreto legge n. 174/2012.
Occorre pertanto, che si sterilizzino gli effetti sul
versante della spesa, a partire dal primo anno di
attivazione dell'anticipazione e sino alla completa
restituzione dell'anticipazione ottenuta.
L'obiettivo, a detta dei magistrati contabili, viene
conseguito iscrivendo, nei fondi vincolati dell'esercizio di
accertamento, una somma pari all'importo dell'anticipazione
assegnata dal Fondo di rotazione, e rubricandola come «Fondo
destinato alla restituzione dell'anticipazione ottenuta del
fondo di rotazione per assicurare la stabilità finanziaria
dell'ente». Negli esercizi successivi al primo, pertanto,
questo neonato fondo sarà progressivamente ridotto
dell'importo pari alle somme che l'ente locale rimborserà
annualmente con rate semestrali. La soluzione portata dalla
Corte, in pratica, si allinea alle previsioni impartite dal
dlgs n. 118/2011 in materia di armonizzazione dei sistemi
contabili, in cui tutte le obbligazioni, attive e passive,
giuridicamente perfezionate, sono imputate all'esercizio nel
quale vengono a scadenza.
Proventi delle alienazioni immobiliari
Sulla corretta destinazione dei proventi da alienazioni
immobiliari, la Corte, dopo aver svolto un excursus sulla
normativa in vigore, ha chiarito che la volontà del
legislatore è di rafforzare la virtuosità nella gestione del
bilancio degli enti locali, ponendo il divieto della
destinazione di risorse provenienti dal patrimonio al
finanziamento della spesa corrente.
Così, ha ammesso che i
proventi da alienazione di beni patrimoniali disponibili,
non possono avere destinazione diversa da quella indicata
all'articolo 1, comma 443 della legge di stabilità 2013,
ovvero la destinazione alla copertura delle spese di
investimento o alla riduzione del debito (solo in assenza
delle prime). L'eccezione è altresì riservata ai casi in
materia di dissesto dell'ente e di accesso al fondo di
rotazione. In questi casi, i predetti proventi concorreranno
a finanziare l'intera massa passiva
(articolo ItaliaOggi del 31.05.2013). |
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI:
Prevenzione e repressione della corruzione e dell'illegalità
nella pubblica amministrazione.
In una delibera e in un comunicato le prime indicazioni per
l’adempimento agli obblighi di pubblicazione e trasmissione
all’Avcp dei dati inerenti la trasparenza dell’azione
amministrativa.
Per dare seguito alla norma che dispone che le pubbliche
amministrazioni devono assicurare livelli essenziali di
trasparenza in merito ai procedimenti di scelta del
contraente per l’affidamento di lavori, servizi e forniture,
inclusa la modalità di selezione prescelta (Art. 1, comma
32, Legge n. 190/2012 recante ‘Disposizioni per la
prevenzione e la repressione della corruzione e
dell’illegalità nella pubblica amministrazione’),
l’Autorità ha emanato la Deliberazione n. 26 del 2013, che
fornisce le prime indicazioni sull’assolvimento degli
obblighi di pubblicazione e trasmissione delle informazioni
all’Avcp.
Contestualmente Sono state emanate, con il Comunicato del
Presidente del 22 maggio, le specifiche tecniche per
l’adempimento degli obblighi di pubblicazione.
Nella sezione Modulistica del sito è disponibile il modulo
per la dichiarazione di adempimento agli obblighi di
pubblicazione dei dati (30.05.2013).
---------------
►
Prime indicazioni sull’assolvimento degli obblighi di
trasmissione delle informazioni all’Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture, ai sensi dell’art. 1, comma 32, della legge n.
190/2012 (deliberazione
22.05.2013 n. 26
- link a www.autoritalavoripubblici.it)
e correlate
►
Indicazioni operative per l’attuazione della Deliberazione
n. 26 del 22.05.2013
(comunicato
del Presidente del 22.05.2013 -
link a www.autoritalavoripubblici.it)
e correlato
►
Modulo per la dichiarazione di adempimento agli obblighi
di pubblicazione dei dati ai sensi dell’art. 1, comma 32,
Legge 190/2012 conforme alle disposizioni di cui alla
Deliberazione n. 26 del 22.05.2013 e al Comunicato del
Presidente dell’Autorità del 27.05.2013 (dichiarazione
adempimento Legge 190/2012 -
link a www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI:
Anagrafe unica delle stazioni appaltanti.
Il Comunicato del presidente riguarda gli adempimenti
transitori relativi alla Anagrafe Unica delle Stazioni
Appaltanti (art. 33-ter, decreto legge n. 179/2012
convertito con legge n. 221/2012).
Le amministrazioni appaltanti già registrate presso la Banca
Dati Nazionale dei Contratti Pubblici sono tenute ad
acquisire sul sito dell'Autorità, a partire dal 10.07.2013,
l'Attestato di iscrizione all'Anagrafe Unica delle Stazioni
Appaltanti, che avrà validità per tutto il 2013.
Dal 1° settembre prossimo ed entro il 31.12.2013, le
stazioni appaltanti dovranno comunicare il nominativo del
responsabile che provvederà alla iniziale verifica o
compilazione ed al successivo aggiornamento delle
informazioni nell’Anagrafe Unica delle Stazioni Appaltanti.
Il Comunicato sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del
28 maggio prossimo (comunicato
del presidente 16.05.2013
- link a www.autoritalavoripubblici.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: AVCP:
i bandi con affidamento di incarichi a titolo gratuito sono
sempre irregolari!
I bandi di gara contenenti affidamenti di incarichi “a
titolo gratuito” sono irregolari.
Lo ha ribadito l’AVCP (Autorità per la Vigilanza sui
Contratti Pubblici di Lavori) con la
nota 10.05.2013 n. 44496 di prot..
L’AVCP ha stabilito l’irregolarità di un bando del Comune di
Brolo (Messina) riguardante il “conferimento di incarico
a titolo gratuito per la redazione dello studio geologico
relativo al piano particolareggiato di recupero del centro
storico”.
Nel testo del bando si rilevava esplicitamente la gratuità
della prestazione professionale, salvo un “rimborso
forfettario di 15.000 euro per le spese necessarie alla
produzione degli elaborati tecnici”!
L’Autorità ricorda che la Normativa vigente in tema di
affidamenti di servizi non prevede la possibilità di
prestazione professionale gratuita a favore di una Stazione
Appaltante.
Gli importi di tali prestazioni devono essere sempre
determinati dalla Stazione Appaltante, al fine di stabilire
la procedura di affidamento da eseguire ex artt. 91 e 92 del
Codice Appalti.
L’eventuale gratuità della prestazione costituisce un “indebito
arricchimento da parte della S.A.”.
Infine, l’AVCP ha precisato che la gratuità di questa
prestazione è in contrasto col principio stabilito dall’art.
2233 del Codice Civile secondo cui il compenso “deve
essere commisurato ed adeguato all’importanza dell’opera e
al decoro professionale”
(30.05.2013 - link a www.acca.it). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA: Eco-bonus,
premi a largo raggio.
L'aumento del beneficio al 65% conviene sempre anche se
scende l'importo agevolabile.
IL PROBLEMA/
L'agevolazione passa al 65% dal 1° luglio L'unica incognita
deriva dalle conseguenze del possibile aumento Iva.
L'ATTENUANTE/
In molti casi l'imposta sul valore aggiunto resterà al 10%
Impatto negativo per le spese più elevate.
L'aumento dal 1° luglio della detrazione Irpef ed Ires dal
55% al 65% per le spese sul risparmio energetico qualificato
degli edifici rende il regime più conveniente rispetto
all'attuale, nonostante la diminuzione dei tetti per la
spesa agevolata. L'unica incognita è l'aumento dell'Iva dal
21 al 22%, in programma anch'esso per il 1° luglio se il
Governo non riuscirà a posticiparlo nuovamente, che potrebbe
"mangiarsi" una quota dei risparmi aggiuntivi.
La maggiore convenienza rispetto al regime attuale emerge
chiara da alcuni esempi pratici. Se devono essere spesi
importi inferiori ai vecchi limiti (ad esempio, per la
coibentazione dell'edificio fino a 109.090,91 euro), il
costo dell'investimento netto (cioè "pulito" dalla
detrazione da ripartire comunque in dieci anni) è sempre
inferiore se si sposta il pagamento delle fatture dopo il 1°
luglio. Nel caso in cui, invece, la spesa supera i nuovi
tetti, il costo finale è uguale, a prescindere dalla data
del pagamento.
Il decreto approvato dal Consiglio dei ministri venerdì, con
la proroga fino a fine anno e l'innalzamento al 65% del
scaldacqua a pompa di calore), nel caso di persone fisiche o
lavoratori autonomi (professionisti). Per le imprese,
invece, vale il periodo di competenza economica del costo,
che coincide con il momento dell'ultimazione dell'intervento
per le prestazioni (difficilmente è agevolato il solo
acquisto del bene, senza la sua installazione).
Di
conseguenza, l'aumento della detrazione dal 55% al 65% solo
da luglio 2013 può comportare un ritardo dei pagamenti da
parte di persone fisiche e professionisti, e un ritardo
della fine dei lavori per gli interventi commissionati dalle
imprese. Un effetto recessivo (per il solo mese di giugno)
che poteva essere evitato, copiando quanto fatto nel
precedente aumento dell'agevolazione sulle ristrutturazioni
edilizie: in quel caso, l'aumento dal 36% al 50% è partito
il 26.06.2012, cioè il giorno di pubblicazione in
«Gazzetta Ufficiale» del decreto che l'ha previsto (articolo
11, comma 1, del decreto-legge 22.06.2012, n. 83).
Nella tabella a lato sono stati riportati i quattro
interventi agevolati (manca solo quello per i condomini),
ipotizzando i tre possibili importi di spesa: sotto il nuovo
limite (inferiore al vecchio), tra il nuovo e il vecchio e
superiore al vecchio limite. Nei primi due casi, si nota la
convenienza a posticipare la spesa dopo il 30.06.2013,
mentre se la spesa da fare supera i vecchi limiti (terzo
caso), la data è indifferente (i limiti sono però molto alti
e difficilmente vengono superati.
In tutti i casi, non è stato calcolato l'effetto
dell'aumento dell'Iva dal 21% al 22%, previsto dal 01.07.2013, anche perché la tabella vale anche per i soggetti Iva,
che possono detrarre l'imposta; in ogni caso, conviene
comunque posticipare la spesa, perché l'eventuale maggiore
Iva che colpirà solo le persone fisiche (è in generale
detraibile per imprese e professionisti) è ampiamente
coperto dalla minore Irpef (pari al 10% della spesa
sostenuta).
Solo per il privato che supera i vecchi limiti di spesa,
l'aumento dell'Iva dal 21% al 22% potrebbe nuocere, perché
anche senza considerare l'Iva il costo netto è uguale
qualunque sia la data di sostenimento della spesa. In questi
casi, se proprio volesse sterilizzare l'aumento dell'Iva,
potrebbe chiedere al fornitore di emettere la fattura
anticipata dei lavori, prima del primo luglio 2013,
applicando l'Iva al 21 per cento.
Sono comunque poche le spese agevolate per cui non si
applica l'Iva del 10%, non interessata dall'aumento in
programma a luglio. Ad esempio, per gli interventi
agevolati, rientranti tra i restauri e risanamenti
conservativi e le ristrutturazioni edilizie (su qualunque
fabbricato, abitativo e non), l'aliquota Iva del 10% si
applica alle prestazioni dipendenti da contratti di appalto
o d'opera (voce n. 127-quaterdecies, Parte III, Tabella A,
allegata al dpr 633/1972) e all'acquisto di beni, escluse le
materie prime e semilavorate (voce n. 127-terdecies, Parte III, Tabella A, allegata al Dpr 633/72).
Si applica l'Iva ordinaria del 21% (22% dal primo luglio),
invece, alle prestazioni rese dai professionisti (ingegneri,
architetti, geometri, eccetera) o alla parte del valore dei
beni significativi (ad esempio, infissi) che eccedono il
valore della prestazione (posa in opera o manodopera), delle
materie prime e semilavorate, nell'ambito dell'agevolazione
Iva del 10%, prevista dall'articolo 7, comma 1, lettera b),
legge 23.12.1999, n. 488.
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Pressing per estendere lo sconto a opere antisismiche
L'INDICAZIONE/
Per il presidente della commissione Ambiente della Camera,
Realacci, «necessario intervenire in Parlamento».
«La proroga e l'innalzamento al 65% dello sgravio fiscale
per il risparmio energetico sono davvero un punto di svolta
nelle politiche per la crescita che forse Palazzo Chigi
avrebbe potuto comunicare meglio. Senza togliere importanza
al disegno di legge sui partiti, penso che queste siano le
prime vere misure per la crescita e, aggiungo, per una
crescita che va nella direzione giusta della sostenibilità e
della qualità edilizia».
Ermete Realacci, presidente della
commissione Ambiente della Camera, capofila storico dell'ala
ambientalista del Pd e ora vicino a Matteo Renzi, non fa
mistero della soddisfazione per il varo del bonus
potenziato. È la sua battaglia da anni, convinto com'è che
lo sgravio del 55%, ora 65%, sia il tipo di politica
economica necessaria all'Italia per rilanciare e
riconvertire l'industria in chiave verde e di qualità,
decisiva anche per il medio-lungo periodo. Un rammarico,
tuttavia, Realacci c'è l'ha: che nel nuovo sgravio al 65%
non siano rientrati gli investimenti per la prevenzione
antisismica: «Prendo atto –spiega– delle dichiarazioni del
governo che la prevenzione sismica è una priorità ma allora
non possiamo prendere in giro gli italiani riconfermando lo
sgravio del 50% che c'era già. Dobbiamo intervenire in
Parlamento estendendo il 65% agli interventi di prevenzione
sismica. Lo sgravio del 50% si è dimostrato insufficiente
per farli decollare».
Realacci è ottimista sulla possibilità
di intervenire nella fase di conversione del decreto. «Credo
ci siano margini. Questa è comunque la mia posizione e ho
già cominciato a lavorare perché diventi largamente
condivisa. D'altra parte, la commissione che presiedo ha già
votato una risoluzione che chiedeva due cose: la
stabilizzazione del bonus e l'estensione agli interventi di
prevenzione antisismica. Ora che c'è anche il rafforzamento
al 65%, stiamo creando un'occasione che non possiamo
sprecare».
Realacci aggiunge di aver trovato disponibilità
nel ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi.
Un'apertura esplicita in questo senso è venuta anche dal
ministro dell'Ambiente, Andrea Orlando, che in questa
partita ha sposato in pieno le tesi di Realacci, anche
quando venerdì ha detto che era necessario allargare la
forbice fra il bonus energetico e quello per le
ristrutturazioni per creare un maggiore incentivo
all'investimento più sostenibile sul piano energetico e
ambientale.
Per Realacci il completamento dell'operazione
65% contribuirebbe «a riorientare i cittadini a una nuova
idea di casa, considerando che fra una casa ben fatta e una
fatta male passa anche una differenza di bolletta energetica
di 1.500 euro annui. C'è un gran discutere di Imu che pesa
meno di 500 euro su gran parte delle famiglie e dobbiamo
imparare a cogliere queste altre opportunità». Il 65% «può
contribuire anche a rilanciare il settore dell'edilizia
dandogli competitività nella direzione giusta della qualità
e della bellezza». A patto che si pensi fin da ora «a una
qualche forma di stabilizzazione, tale da consentire una
politica che duri negli anni».
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Nuova
certificazione. Le penalità per il proprietario.
Sanzione fino a 18mila euro se manca l'attestato.
TRASPARENZA/
I parametri energetici vanno riportati anche negli annunci
di vendita/affitto Multa da 3mila euro per chi non adempie.
Compravendite di immobili e locazioni con Ape (attestato di
prestazione energetica) al posto dell'Ace (attestato di
certificazione energetica): è quanto dispone il decreto
legge sul bonus energia.
Il nuovo attestato Ape (che avrà vigore solo dal momento in
cui ne verrà apprestato lo schema dal ministro dello
Sviluppo economico, come previsto dall'articolo 6 del
decreto) dovrà essere rilasciato da esperti qualificati e
indipendenti, dovrà attestare la prestazione energetica di
un edificio attraverso l'utilizzo di specifici descrittori e
fornirà raccomandazioni per il miglioramento dell'efficienza
energetica.
L'Ace non andrà del tutto in pensione, ma potrà continuare a
essere «predisposto al fine di semplificare il successivo
rilascio della prestazione energetica»; inoltre, è precisato
che l'obbligo di dotare l'edificio di un Ape non sussiste
«ove sia già disponibile un attestato in corso di validità,
rilasciato conformemente alla direttiva 2002/91/CE».
L'Ape (che avrà una validità temporale di dieci anni e che
comunque perderà vigore per effetto di qualsiasi intervento
di ristrutturazione o riqualificazione che modifichi la
classe energetica dell'immobile) dovrà essere rilasciato al
termine dei lavori e a cura di chi li ha effettuati, per gli
edifici di nuova costruzione o fatti oggetto di lavori di
ristrutturazione "importante" (e cioè quando i lavori in
questione insistano su oltre il 25% della superficie
dell'involucro dell'intero edificio). Anche il proprietario
dell'immobile è però tenuto, in caso di vendita o locazione,
a rendere disponibile l'Ape al potenziale acquirente o al
nuovo locatario fin dall'avvio delle trattative, e
consegnarlo alla fine delle medesime. Se a essere venduto o
locato è un edificio ancora non costruito, il venditore o il
locatore dovrà fornire evidenza della futura prestazione
energetica dell'edificio e dovrà produrre l'Ape insieme alla
dichiarazione di fine lavori.
Nei contratti di vendita o nei nuovi contratti di locazione
andrà inoltre inserita una clausola con la quale
l'acquirente o il conduttore diano atto di aver ricevuto le
informazioni e la documentazione, comprensiva dell'Ape,
sull'attestazione della prestazione energetica degli
edifici. La prestazione energetica è rilevante anche prima
della stipula di questi contratti, poiché è prescritto che
nel caso di offerta di vendita o di locazione, gli annunci
(contenuti in qualsiasi mezzo di comunicazione) debbano
riportare «l'indice di prestazione energetica dell'involucro
edilizio e globale dell'edificio o dell'unità immobiliare e
la classe energetica corrispondente».
Tutte queste prescrizioni sono assistite da sanzioni non
lievi. Se non vengano dotati di Ape gli edifici nuovi o
ristrutturati oppure oggetto di vendita, il costruttore o il
proprietario sono puniti con la sanzione amministrativa non
inferiore a 3mila euro e non superiore a 18mila euro. Se di
Ape non sia dotato un edificio oggetto di un nuovo contratto
di locazione, il proprietario è punito con la sanzione
amministrativa da 300 a 1800 euro. In caso di violazione
dell'obbligo di riportare i parametri energetici
nell'annuncio di offerta di vendita o locazione, il
responsabile dell'annuncio è punito con la sanzione
amministrativa non inferiore da 500 a 3mila euro.
Di Ape dovranno essere dotati anche gli edifici utilizzati
da Pubbliche amministrazioni e aperti al pubblico: il
proprietario dovrà produrlo e affiggerlo con «con
evidenza all'ingresso dell'edificio stesso o in altro luogo
chiaramente visibile al pubblico»
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.06.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: CONSIGLIO DEI MINISTRI/Incentivi fiscali più ampi. Estesi
all'arredo e ai lavori antisismici.
L'edilizia spinta a colpi di sgravi.
Il bonus energetico al 65%, per le ristrutturazioni al 50%.
Il bonus per gli interventi di riqualificazione energetica
sale al 65%, mentre la detrazione al 50% vale sia per le
ristrutturazioni sia per l'arredo degli immobili oggetto
dell'intervento. Sono stati così prorogati al 31.12.2013 i termini per fruire delle due detrazioni. Mentre, una
nuova agevolazione, accessibile fino al 31/12/2014,
consentirà di incassare un bonus fiscale del 65% per gli
interventi di risparmio energetico eseguiti sull'intero
edificio.
Queste le novità rilevabili dal decreto legge
licenziato dal Consiglio dei ministri di ieri, per recepire
la direttiva comunitaria 2010/31/Ue sulle prestazioni
energetiche in edilizia, per cui l'Italia è soggetta a
procedure di infrazione Ue.
Il dl prevede una proroga al 31/12/2013 di quanto disposto
dal comma 1, dell'art. 11, dl 83/2012 che aveva innalzato,
fino al prossimo 30 giugno, la detrazione sulle
ristrutturazioni edilizie dal 36% al 50%, raddoppiando il
tetto da 48 mila a 96 mila euro.
Di fatto, per le spese
sostenute (vale la data del bonifico) dal prossimo 1° luglio
e fino alla fine dell'anno, la detrazione sarà pari al 50%
su un tetto di spesa di 96 mila euro, per quelle relative
alle ristrutturazioni edilizie, e del 65% da tarare su un
tetto (soglia) variabile per tipologia di spesa
(riqualificazione per euro 100 mila, sostituzione impianti
di climatizzazione invernale per euro 30.000 e quant'altro)
per quelle destinate al risparmio energetico, con obbligo di
ripartizione in 10 quote annuali, a prescindere dall'età del
beneficiario.
Come si evince dal testo e dagli allegati (A e B), sono
state inserite alcune nuove tipologie come quelle
dell'isolamento delle coperture, dei pavimenti e delle
pareti perimetrali (euro 400 mila), delle finestre e degli
infissi, se installate con sistemi di termoregolazione (euro
180.000), e dell'installazione di caldaie a condensazione
(per potenza fino a 35 kW, euro 4.000 e per quelle di
potenza superiore, euro 60 mila).
La proroga è stata estesa, inoltre, all'acquisto di mobili
per l'arredo dell'immobile oggetto di ristrutturazione fino
a 10 mila euro (bonus di 5.000 euro). E le detrazioni del
50% copriranno anche gli interventi di ristrutturazione
inerenti all'adozione di misure antisismiche e alla messa in
sicurezza statica delle parti strutturali degli edifici
(lett. i, c. 1, art. 16-bis, Tuir). Si ricorda che, con
decorrenza dall'01/01/2012, il legislatore ha messo a regime
le detrazioni sulle ristrutturazioni e sul risparmio
energetico, introducendo, nel dpr n. 917/1986, l'art.
16-bis, che prevede l'incorporazione (lett. h, c. 1) delle
spese destinate alla seconda tipologia e la detrazione
(comma 1) del 36% su un tetto di spesa fissata a 48 mila
euro.
La proroga è stabilita fino alla fine di quest'anno (a
partire dall'01/07/2013) per le detrazioni fruibili sugli
interventi per l'efficienza energetica eseguiti su edifici
esistenti, comprese le parti a comune degli edifici, di cui
agli artt. 1117 e 1117-bis c.c., che abbiano anche per
oggetto l'isolamento di strutture opache, verticali,
orizzontali e l'installazione di finestre e infissi e di
caldaie a condensazione. Mentre il lasso di tempo per
accedere al beneficio fiscale risulta più ampio (31/12/2014)
per gli interventi degli edifici e parti a comune che
implicano la riqualificazione di almeno il 25% della
superficie dell'involucro, secondo i criteri definiti dalla
direttiva richiamata (2010/31/Ue). Restano esclusi, a quanto
si evince dalla relazione illustrativa, le spese inerenti
agli impianti di produzione di energia termica (pannelli
solari per uso termico e pompe di calore) oggetto di altro
incentivo, di cui al dm 28/12/2012.
Dopo la soppressione dell'obbligo di comunicazione di inizio
lavori al Centro operativo di Pescara (Cop) e di indicazione
separata della manodopera in fattura, gli adempimenti si
sono notevolmente ridotti, dovendo solo tenere a
disposizione la documentazione relativa (Agenzia delle
entrate, provvedimento 02/11/2011), indicando taluni dati in
dichiarazione (dati catastali ed estremi dell'atto che
costituisce il titolo per la detenzione, in particolare). Il
contribuente che intenda fruire dell'agevolazione per gli
interventi, di cui all'art. 1 della legge n. 449/1997, è
tenuto al rispetto delle disposizioni, di cui al decreto
ministeriale n. 41/1998, con riguardo alle modalità di
pagamento con utilizzo del bonifico bancario dal quale
risulti la causale del versamento, il codice fiscale del
beneficiario della detrazione e il numero di partita Iva
ovvero il codice fiscale del soggetto a favore del quale il
bonifico è effettuato. Infine, si ricorda la possibilità
(comma 8, art. 16-bis, Tuir) di mantenere la detrazione non
utilizzata in capo al venditore in caso di trasferimento (a
titolo gratuito o oneroso) dell'unità abitativa, con la
possibilità di far detrarre il bonus anche dal subentrante
di un contratto di locazione, al decesso del conduttore
(circ. 13/E/2013).
Reazioni. Per Rete Imprese Italia, la proroga del bonus del
50% per le ristrutturazioni con l'estensione agli arredi « è
un importante sostegno alla ripresa». Il sodalizio delle
imprese chiosa: «Questa agevolazione, insieme all'ecobonus,
portato al 65% ed esteso a privati cittadini e condomini,
darà slancio al settore edilizio. E auspica: «Il
provvedimento venga esteso anche a tutto il 2014 e sia
ridotto il numero degli anni su cui ripartire il beneficio
del credito d'imposta, al fine di amplificarne gli effetti
sull'economia»
(articolo ItaliaOggi dell'01.06.2013). |
ENTI
LOCALI: Il mattone paga le spese.
Oneri urbanistici per coprire le uscite correnti.
Un emendamento al dl pagamenti proroga la chance
fino al 2014.
Fino al 2014 i comuni potranno continuare a utilizzare gli
oneri di urbanizzazione per finanziare le proprie spese
correnti.
Lo prevede uno degli emendamenti al decreto
«sblocca debiti» presentati in commissione bilancio al
senato. Se passerà questa modifica al dl 35/2013 (che a
questo punto dovrà tornare alla Camera per il via libera
definitivo), i sindaci recupereranno un'importante leva per
far quadrare i propri bilanci.
Come in passato, gli oneri (ovvero, più correttamente, i
proventi dei permessi di costruire e delle sanzioni previste
dal Testo unico dell'edilizia) potranno coprire, per una
quota non superiore al 50%, spese correnti indifferenziate
e, per una quota non superiore ad un ulteriore 25%, spese di
manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del
patrimonio comunale.
Tecnicamente, la nuova norma interviene sull'art. 2, comma
8, della legge 244/2007, che nel testo attualmente vigente
(quale risultante dalle modifiche apportate dall'art. 2,
comma 41, del dl 225/2009) consente tale possibilità solo
fino al 2012.
Ora, come detto, la dead line dovrebbe spostarsi nuovamente
in avanti di 24 mesi, coprendo anche il secondo anno del
triennio oggetto del bilancio pluriennale 2013-2015.
Tale intervento era stato richiesto da diversi comuni (anche
di grandi dimensioni) fortemente in difficoltà nel
compensare i ripetuti tagli alle spettanze subiti negli
ultimi anni. Esso sgombra anche il campo dai dubbi
interpretativi che erano sorti in diversi operatori a causa
della presenza nell'ordinamento di alcune norme che
sembravano ancora ammettere la deroga (si veda ItaliaOggi
del 24.05.2013).
Oltre all'alleggerimento delle sanzioni per chi non ha
rispettato il Patto 2012 (si veda ItaliaOggi di ieri),
palazzo Madama ha introdotto altre rilevanti novità per gli
enti locali.
Innanzitutto, le amministrazioni beneficiarie delle
anticipazioni erogate dalla Cassa depositi e prestiti che
dovessero avanzare delle somme dopo aver pagato tutti i
propri debiti dovranno destinarle all'estinzione anticipata
del prestito alla prima scadenza di pagamento della rata
prevista dal relativo contratto. L'eventuale inadempimento
peserà sulla valutazione delle performance individuali e
sarà causa di responsabilità dirigenziale e disciplinare per
dirigenti e funzionari. Tale eccesso di liquidità potrebbe
essere causato dai pagamenti che le regioni effettueranno
grazie alle iniezioni di cassa a loro volta ottenute grazie
all'art. 2 del dl 35 e che esse devono destinare
prioritariamente a province e comuni. Il relativi piani di
pagamenti, prevede un altro emendamento, dovranno essere
definiti dai governatori di concerto con le Anci e le Upi
regionali.
Da segnalare, infine, l'introduzione di deroghe al divieto
di acquistare immobili a titolo oneroso previsto dall'art.
12, comma 1-quater, del dl 98/2011. Fermo restando il
rispetto dei vincoli di finanza pubblica, la tagliola non
scatterà per gli acquisti a titolo oneroso effettuati per
pubblica utilità ai sensi del dpr 327/2001, per le permute a
parità di prezzo, per le operazioni programmate da delibere
assunte prima del 31.12.2012 e per le procedure relative a
convenzioni urbanistiche previste dalle normative regionali
e provinciali
(articolo ItaliaOggi dell'01.06.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Acconto.
La legge di stabilità ha cancellato l'esenzione.
Il Comune paga allo Stato per la palestra.
LE CONSEGUENZE/
Gli enti locali devono versare la quota erariale per gli
immobili di categoria D, come stadi, teatri e campi sportivi.
L'incertezza delle norme crea problemi di versamenti
dell'acconto Imu anche per i Comuni. Succede per gli
immobili di categoria D (produttivi) e, in particolare, per
l'aliquota del 7,6 per mille che su tali edifici spetta allo
Stato.
L'aliquota dovrebbe essere pagata anche dai Comuni per
stadi, teatri, arene e campi sportivi di loro proprietà che
appunto rientrano nella predetta categoria D.
Il problema si pone per la seconda volta, poiché già per il
2012, quando l'aliquota per lo Stato era del 3,8 per mille,
i Comuni hanno rischiato di dover pagare all'Erario l'Imu
per i propri fabbricati di categoria D.
Il panico, all'epoca, è durato pochi mesi perché al momento
di istituire, nel 2011, la quota Imu di competenza statale,
non era stata prevista alcuna esenzione per gli immobili di
proprietà comunale: l'esenzione è sopravvenuta con
l'articolo 4, comma 5, del decreto legge 16/2012, che riguarda
gli immobili posseduti dai Comuni nel loro territorio. Il Dl
16/2012 ha modificato a posteriori il decreto legge 201/2011
all'articolo 13, comma 11.
La questione si ripropone oggi perché l'articolo 1, comma
380 lettera h) della legge 228/2012 istituisce l'aliquota
statale del 7,6 per mille, abrogando tutto ciò che era stato
prima previsto per assicurare allo Stato un gettito e cioè
abrogando sia l'aliquota per l'Erario (del 2011) che
l'esenzione per le proprietà comunali (del 2012).
L'articolo 1. comma 380, lettera h), prevede oggi un'aliquota
del 7,6 per mille a favore dello Stato, senza esenzioni per
i Comuni.
Se non sopravverrà una modifica normativa che introduca
un'esenzione simile a quella prevista dall'articolo 13,
comma 11 del decreto legge 201/2011, i Comuni saranno
obbligati a pagare il 7,6 per mille per stadi, teatri, arene
e campi sportivi di loro proprietà: ogni ente locale
dovrebbe prevedere in questi giorni un capitolo di uscita,
conteggiando l'imposta da versare entro il 17.06.2013
come acconto.
Se non si paga e non sopravviene una norma che reintroduca
il beneficio di esenzione per i manufatti D del Comune, gli
enti locali dovranno prepararsi a un ravvedimento operoso
per l'imposta che spetta allo Stato.
Lo scenario è paradossale, in quanto lo Stato ha calcolato
proprie entrate sulla base del 7,6 per mille sugli immobili
di categoria catastale D a sua conoscenza, ma se dovesse
effettuare accertamenti o recuperi non riuscirebbe a
distinguere, tra tutti i fabbricati "D", quelli di proprietà
dei Comuni. Lo Stato, infatti, non possiede elenchi o banche
dati specifiche, ma dovrebbe rivolgersi, per accertare
evasioni, ai Comuni stessi
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Le
risposte ai temi dei lettori. Il caso di un fabbricato
oggetto di conversione e riaccatastamento
Imu legata alla nuova rendita.
L'obbligo dalla data di presentazione della denuncia Docfa.
L'ECCEZIONE/
Con le modifiche a destinazione o consistenza viene meno il
principio del valore risultante al Catasto il 1° gennaio.
Gli immobili d'impresa che subiscono una trasformazione
strutturale e vengono conseguentemente riaccatastati devono
pagare l'Imu considerando la nuova rendita a partire dalla
data di presentazione del Docfa.
Questa è la risposta al quesito posto da Gianandrea Todesco,
riguardante un immobile industriale di categoria D1,
originariamente composto da fabbricati e piazzali asserviti,
poi riconvertito per usi logistici attraverso la demolizione
di alcuni impianti presenti nei fabbricati. Viene
conseguentemente avviata la procedura di riaccatastamento
presentando a dicembre 2012 il nuovo "tipo mappale" e a
febbraio 2013 il Docfa con la proposta di rendita.
Sorge tuttavia il dubbio sulla base imponibile da utilizzare
per il calcolo dell'Imu 2013, in particolare riguardo alla
possibilità di pagare considerando solo la rendita proposta
e ritenendo che l'avvio della pratica di riaccatastamento
(richiesta tipo mappale) comporti la "perdita" della vecchia
rendita catastale.
Sul punto va preliminarmente evidenziato il principio
contenuto nell'articolo 5, comma 2, del Dlgs 504/1992, in forza
del quale devono assumersi le rendite risultanti in catasto
al 1° gennaio dell'anno di imposizione. Con la conseguenza
che le risultanze catastali definitive sono efficaci a
decorrere dall'anno d'imposta successivo a quello nel corso
del quale sono state annotate negli atti catastali
(cosiddetta "messa in atti").
Si tratta tuttavia di una
regola generale che ammette alcune eccezioni, tra cui
l'ipotesi in cui la nuova rendita sia conseguente a
modificazioni della consistenza o della destinazione
dell'immobile dichiarate dallo stesso contribuente, dovendo
in questi casi trovare applicazione dalla data della
denuncia. In tal senso si è espressa la Cassazione con
alcune pronunce, tra cui la 17863/2010, la 18023/2004 e la
20854/2004. Stesso orientamento si è affermato anche in
ordine al passaggio dal criterio del valore contabile alla
rendita catastale per i fabbricati D, che attribuisce
rilevanza alla presentazione della richiesta (Cassazione
3160/2011).
Nel caso in questione la nuova rendita proposta
con il Docfa dovrebbe quindi avere efficacia solo a partire
dalla domanda, presentata a febbraio 2013, trattandosi di
sopravvenuto mutamento dello stato o della destinazione del
fabbricato.
Non si ritiene invece possibile aderire integralmente alla
soluzione proposta dal lettore, considerando cioè il momento
di avvio della pratica di riaccatastamento, in quanto il
"tipo mappale" ha la funzione di inserire sulla cartografia
catastale i nuovi fabbricati edificati sul territorio o i
fabbricati esistenti che abbiano subito modifiche di sagoma.
Ma il "tipo mappale" non agisce sulla base imponibile dei
fabbricati, che viene determinata solo in sede di
presentazione della denuncia, avvenuta nel caso in questione
con il Docfa. Peraltro la Cassazione ha chiarito che in
questi casi il fatto che la situazione materiale risalga a
data anteriore non ne giustifica un'applicazione retroattiva
rispetto alla denuncia.
Conseguentemente l'Imu 2013 andrebbe calcolata considerando
la vecchia rendita per i primi due mesi dell'anno (se il
Docfa è stato presentato nella seconda metà di febbraio),
mentre si dovrà utilizzare la nuova rendita per il periodo
residuo dell'anno, salvo conguaglio da effettuare all'esito
delle verifiche. Va infatti ricordato che l'eventuale
rettifica della rendita da parte dell'agenzia del Territorio
ha efficacia retroattiva, quindi il nuovo valore sarebbe
applicabile sin dalla presentazione del Docfa e imporrebbe
di rifare i calcoli
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2013). |
ENTI LOCALI: Oneri di urbanizzazione «liberi».
Nuova deroga biennale per l'uso del 75% delle entrate per
coprire le uscite correnti.
Debiti della Pa. Torna l'obbligo di segnalazione dai
revisori per il taglio di due stipendi ai funzionari che non
pagano.
Gli oneri di urbanizzazione tornano liberi, e anche
quest'anno (e il prossimo) possono essere destinati dai
Comuni per tre quarti alla copertura delle spese correnti:
la deroga, avviata nel 2008 e tramontata a fine 2012,
consente di utilizzarne il 50% per spese correnti
indifferenziate, e un altro 25% per le uscite (sempre di
parte corrente) destinate a «spese di manutenzione ordinaria
del verde, delle strade e del patrimonio comunale».
La riesumazione dell'articolo 2, comma 8, della legge
244/2007, operata con gli emendamenti dei relatori
all'articolo 10 del decreto «sblocca-pagamenti» approvati al
Senato (l'Aula se ne occuperà lunedì, per poi ripassare il
testo alla Camera per la conversione definitiva) è una spia
ulteriore delle difficoltà finanziarie in cui versano i
Comuni.
La deroga estesa al 2013-2014 va infatti in netta
controtendenza rispetto all'obbligo di utilizzare le entrate
straordinarie solo per finanziare uscite altrettanto extra,
obbligo rafforzato da ultimo con la legge di stabilità
(articolo 1, comma 443, della legge 228/2012) che ha imposto
di destinare solo a spese di investimento o abbattimento del
debito le risorse raccolte dai Comuni attraverso le
operazioni di alienazione di beni patrimoniali disponibili.
Negli anni "d'oro", gli oneri concessori hanno avuto un
ruolo cruciale nel garantire gli equilibri dei bilanci, al
punto che i soli capoluoghi di Provincia destinavano nel
complesso oltre un miliardo di euro annui di questi proventi
straordinari per finanziare spese correnti stabili. Con la
crisi dell'edilizia, e il conseguente crollo delle entrate
comunali, questa voce sarà in grado di dare un contributo
molto più contenuto: essenziale, però, nella fase
complicatissima che stanno vivendo i bilanci locali (ancora
in attesa dell'ufficializzazione dell'ennesima proroga per i
preventivi 2013).
Lo stesso decreto sblocca-debiti, del resto, è già
intervenuto nello stesso senso aumentando del 66% (da tre a
cinque dodicesimi delle entrate) la possibilità per i Comuni
di attingere alle «anticipazioni di cassa», cioè gli "aiuti"
statali per chi non ha liquidità, da ripagare con gli
interessi.
Sempre sul versante delle «anticipazioni» è poi intervenuto
il decreto «sblocca-Imu» (Dl 54/2013), che ha utilizzato
questo strumento per compensare i Comuni dei 2,4 miliardi di
mancata entrata per lo stop all'acconto relativo ad
abitazioni principali, edilizia sociale e fabbricati e
terreni agricoli.
Questa pioggia di interventi tampona l'emergenza, ma rischia
di crearne una nuova a breve per una ragione semplice: in
attesa di approvare i preventivi, le amministrazioni locali
viaggiano «in dodicesimi», cioè con la possibilità di
spendere ogni mese non più di un dodicesimo degli
stanziamenti di spesa complessivi nell'ultimo bilancio
approvato. Quest'anno, però, le risorse totali dovrebbero
diminuire di circa il 10% rispetto al 2012 per effetto della
sola spending review, che chiede ai Comuni un taglio (per
ora fondato sui livelli dei consumi intermedi di ogni ente)
da 2,25 miliardi di euro.
Un'altra novità spuntata negli emendamenti dei relatori al
Senato riguarda il taglio di due mensilità di stipendio ai
responsabili dei servizi (in particolare i servizi
finanziari) negli enti che non chiedono abbastanza bonus sul
Patto entro il 5 luglio o che non pagano entro l'anno una
somma pari almeno al 90% degli "incentivi" ottenuti.
Torna l'obbligo di segnalazione da parte dei revisori dei
conti, previsto dal decreto originario e scomparso
provvisoriamente alla Camera, e viene prevista una nuova
normativa di trasparenza: le somme dei due stipendi, dopo
che la sezione giurisdizionale della Corte dei conti ha
irrogato la sanzione, vengono iscritte nel bilancio
dell'ente, ma fino a che non sono recuperate integralmente
vanno pubblicati sul sito istituzionale del Comune gli
estremi della sentenza e gli importi da recuperare (tacendo
per ragioni di privacy i nomi dei funzionari sanzionati)
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: In
«Gazzetta» la relazione di fine mandato.
Federalismo attuato fuori tempo massimo.
Dopo infinita gestazione, è sbarcato sulla «Gazzetta
Ufficiale» il decreto di Viminale ed Economia che fissa le
regole per la «relazione di fine mandato» in cui sindaci e
presidenti di Provincia devono mettere in chiaro i numeri
della loro gestione e farli giudicare ai cittadini.
L'arrivo
in Gazzetta è avvenuto con una tempistica perfetta, giusto
pochi giorni dopo che 719 Comuni sono andati al voto senza
la relazione perché il decreto, pronto da mesi, sulla
Gazzetta non era ancora arrivato.
All'appello mancano solo i
Comuni della Sicilia, tra cui città importanti come Catania
e Messina, dove si voterà il 9 e 10 giugno: ma la Sicilia è
a Statuto speciale, e nelle regioni autonome la relazione
non c'è. Niente di nuovo, per carità: anche il 6 e 07.05.2012 andarono alle urne 942 Comuni disinteressandosi del
nuovo strumento di trasparenza, previsto per legge da un
anno ma all'epoca privo dei provvedimenti attuativi.
Peccato, perché la relazione doveva rappresentare uno
strumento di svolta nel rapporto fra politici locali ed
elettori secondo i fan del federalismo fiscale. A introdurla
è stato il decreto «premi e sanzioni» (Dlgs 149/2011), che
ha attuato la «legge Calderoli» prevedendo anche il
fallimento politico: cioè l'incandidabilità degli
amministratori responsabili dei dissesti che il decreto
salva-enti dell'ottobre scorso ha evitato a decine e decine
di enti.
Nella relazione, certificata dai revisori,
dovrebbero trovar posto i dati chiave di bilancio e
patrimonio, gli esiti dei controlli e gli ammonimenti della
Corte dei conti. Lo scopo, evidente, sarebbe di puntare le
campagne elettorali sullo stato del Comune anziché su
Berlusconi o i «comunisti». Nel 2014 si voterà in 4mila
Comuni: sarà la volta buona?
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2013). |
VARI: GUARDIE
MEDICHE/
Rifiuto di visita punibile come omissione.
Omissione di atti d'ufficio e lesioni colpose per il medico
di guardia che rifiuta la visita domiciliare.
La Corte di Cassazione (sentenza n. 23817/2013)
punisce la condotta del camice bianco che, nella sua qualità
di pubblico ufficiale, durante il turno di guardia deve fare
tutti gli interventi richiesti dall'utente o, quando c'è,
dalla centrale operativa. Se non lo fa il reato di omissione
di atti d'ufficio scatta anche se si verifica che il
paziente non era grave.
Nel caso esaminato erano state invece sottovalutate le
indicazioni date dalla moglie del malato nelle numerose
chiamate. In ospedale all'uomo era stata diagnosticata una
polmonite. E all'omissione di atti d'ufficio si è unito il
reato di lesioni colpose
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2013). |
TRIBUTI: Per
l'Imu versamento unificato. Non necessario separare quota
statale e comunale tranne che per i capannoni.
Le risposte ai temi dei lettori. Come pagare
l'imposta municipale nel caso in cui non si possa usufruire
del rinvio
IL CALCOLO/ Sulla base del decreto legge sulla Pa l'acconto
può essere determinato sulla base di quanto versato l'anno
scorso.
Rispetto al 2012 sono molti meno i codici tributo da
indicare nel modello F24 per pagare l'Imu del 2013: non va
più calcolata la quota per lo Stato (tranne per i fabbricati
produttivi). Inoltre si può versare la prima rata 2013
calcolando l'imposta con le aliquote e le detrazioni del
2012 (non la base imponibile), quindi indipendentemente
dalla pubblicazione o meno delle delibere comunali nel sito
delle Finanze.
Il ritardo nella consegna della versione definitiva del
programma per gli studi di settore (Gerico 2013), però, ha
ritardato la predisposizione delle dichiarazioni dei redditi
e il calcolo di eventuali crediti compensabili col pagamento
della prima rata Imu, in scadenza il 17 giugno. L'eventuale
proroga all'08.07.2013 solo dei versamenti di Unico 2013 e
non dell'Imu, quindi, renderà impossibile utilizzare in
compensazione coi debiti Imu eventuali crediti generati
dalla dichiarazione dei redditi.
La legge di stabilità 2013 (la 228/2012) ha previsto che,
per gli anni 2013 e 2014, non spetti allo Stato la metà
dell'Imu, calcolata con l'aliquota standard dello 0,76%
(articolo 1, comma 380, lettera h): è stata temporaneamente
soppressa la disposizione che per tutti gli immobili (tranne
l'abitazione principale, le sue pertinenze e i fabbricati
rurali a uso strumentale), riservava allo Stato parte
dell'imposta. Da quest'anno, quindi, in F24 non occorre più
suddividere l'importo da pagare tra il codice tributo
destinato al Comune e quello destinato allo Stato.
Un'unica eccezione è costituita dall'Imu dovuta per gli
immobili ad uso produttivo classificati nel gruppo catastale
D. La legge di stabilità 2013, infatti, sempre per gli anni
2013 e 2014 (ed erroneamente «al fine di assicurare la
spettanza ai Comuni del gettito» dell'Imu), ha previsto
che spetti allo Stato l'Imu, calcolata con l'aliquota
standard dello 0,76%, sugli immobili di categoria D. Va
usato il codice tributo 3925 per la quota statale e 3930 per
l'eventuale maggiorazione comunale.
Dopo la semplificazione dell'unico codice tributo per gli
immobili non produttivi, sta per arrivare anche la
possibilità di pagare la prima rata Imu, applicando le
aliquote e le detrazioni in vigore lo scorso anno, senza
dover controllare le delibere comunali pubblicate nel sito
delle Finanze al 16.05.2013. Entro il 07.06.2013, infatti,
al Senato dovrà essere convertito il decreto legge 35/2013 e
«il versamento della prima rata» dell'Imu sarà «eseguito
sulla base dell'aliquota e delle detrazioni dei dodici mesi
dell'anno precedente», indipendentemente, quindi, dalla
pubblicazione o meno delle delibere nel sito delle Finanze
(articolo 9, comma 3 del Dlgs 23/2011).
Secondo il dipartimento delle Finanze (circolare 23 maggio
2013, n. 2/DF), comunque, anche «prima della citata
conversione» è possibile pagare la prima rata Imu
considerando queste novità. Infatti, in caso di accertamento
da parte del Comune potrà essere applicato l'articolo 10,
comma 3 della legge 212/2000, che prevede la disapplicazione
delle sanzioni «quando la violazione dipende da obiettive
condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di
applicazione della norma tributaria»
(articolo Il Sole 24 Ore del
31.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Risposta
del ministero dell'economia a un'interrogazione parlamentare
sul dl 83.
Solidarietà negli appalti a 360°. Applicazione in tutti i
settori e non solo nell'edilizia.
La solidarietà a favore del fisco vige in tutti gli appalti,
e non solo nell'edilizia.
L'articolo 35 del decreto legge 223/2206 (modificato dal
decreto legge 83/2012) va interpretato in senso estensivo,
in quanto ispirato all'obiettivo della lotta all'evasione
fiscale, che vale per tutti i settori merceologici.
È quanto
chiarito in una risposta del Mef a un'interrogazione
parlamentare in commissione finanze alla camera, che ha
sollevato il dubbio dell'ambito di applicazione dell'obbligo
solidale.
Ma partiamo dall'esame della disciplina. Nei contratti di
appalto e di subappalto l'appaltatore risponde in solido con
il subappaltatore del versamento all'Erario delle ritenute
fiscali sui redditi di lavoro dipendente e del versamento
dell'Iva dovuta dal subappaltatore all'Erario. Questo
significa che l'appaltatore deve pagare le ritenute e l'Iva
dovuta dal subappaltatore, anche se la responsabilità è
contenuta nei limiti dell'ammontare del corrispettivo
dovuto.
Per non incorrere nella responsabilità l'appaltatore deve
acquisire la documentazione relativa all'avvenuta esecuzione
degli obblighi fiscali (anche mediante una attestazione
asseverata di soggetto abilitato). Tra l'altro si può
sospendere il pagamento del corrispettivo fino a che non sia
esibita la documentazione sulla regolarità tributaria:
questo vale sia per l'appaltatore nei confronti del
subappaltatore, sia per il committente nei confronti dell'
appaltatore (se non osserva gli obblighi a suo carico).
Il problema interpretativo affrontato dall'interrogazione
parlamentare è se la speciale procedura riguardi solo il
settore dell'edilizia o si estenda ad altri campi. La
risposta del Mef parte dallo scopo della normativa:
contrastare l'evasione. Dunque il «nero» va combattuto,
creando conflitti di interesse, non solo nel settore edile,
ma in tutti gli appalti e subappalti a prescindere dal
settore economico.
Altro tema è la definizione dei contratti di appalto e di
subappalto coinvolti. L'articolo 28 citato si riferisce ai
contratti di appalto di opere e servizi. A questo proposito
si segnala che la risposta all'interrogazione elenca i
contratti esclusi dalla procedura di solidarietà,
individuandoli nei contratti diversi da quello tipico
previsto dall'articolo 1655 del codice civile.
Rimangono, dunque, esclusi il contratto di opera, il
contratto di trasporto, il contratto di subfornitura e le
prestazioni rese nell'ambito di un rapporto consortile.
Quanto agli appalti di fornitura dei beni, questi sono
menzionati espressamente dal comma 28-ter dell'articolo 35
del decreto legge 223/2006, che dettaglia il campo di
applicazione; tuttavia i precedenti commi 28 e 28-bis
(dedicati alla descrizione dell'istituto della
responsabilità solidale e dei suoi effetti) non ne parlano e
si limitano a citare solo gli appalti di opere e servizi.
Per questa asimmetria l'agenzia delle entrate ha ritenuto
gli appalti di fornitura di beni estranei alla disciplina
della solidarietà. Disciplina che, dove applicabile, vige
sia nei rapporti trilaterali (committente, appaltatore e
subappaltatore) sia nei rapporti bilaterali (committente e
appaltatore)
(articolo ItaliaOggi del 31.05.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rinnovabili, ciambella ai tecnici. Un anno in più per
abilitarsi. E l'esperienza maturata vale.
Nel decreto legge sull'efficienza energetica, oggi
in Cdm,
una norma salva installatori.
Proroga di un anno della scadenza per abilitarsi (01.08.2014) come installatore e manutentore di impianti da fonti
rinnovabili e possibilità di qualificarsi utilizzando
l'esperienza lavorativa già maturata. Potranno infatti
svolgere attività di installazione e manutenzione
straordinaria anche i soggetti che hanno già lavorato, per
almeno tre anni, alle dipendenze di una impresa abilitata
nel ramo degli impianti da fonti rinnovabili.
Sono queste
alcune delle importanti novità contenuta nello
schema di
decreto legge di recepimento della direttiva 2010/31/Ue che
il governo dovrebbe approvare domani. Novità che vanno
incontro all'allarme lanciato il 16/05/2013 da ItaliaOggi e
che ha innescato la mobilitazione di Cna, Confartigianato e
Casartigiani.
Nell'articolo 16 dello schema di decreto legge viene
esaminata infatti un'importante questione che rischiava di
togliere dal mercato, da agosto, 80 mila imprese di
installazione impianti, con circa 200 mila addetti nel campo
delle energie rinnovabili (fotovoltaico, a biomasse, solare
termico, pompe di calore e geotermia). Una modifica
all'articolo 15 del dlgs 03.03.2011 n. 28 (il cosiddetto
decreto rinnovabili) riconosce l'attività di installatore
già svolta e dà più tempo agli stessi di partecipare ai
corsi di formazione.
Questi soggetti dovranno anche
conseguire la qualifica di installatori e manutentori, ma
avranno tempo fino al 31.03.2014 per iscriversi agli
appositi corsi di formazione e fino al 01.08.2014 per
conseguire il relativo attestato. I corsi di formazione
dovranno essere attivati dalle regioni e province autonome
entro il 31.10.2013.
L'articolo 15 del dlgs 03.03.2011 n. 28 stabilisce che per svolgere l'attività di
installazione e manutenzione straordinaria di impianti da
fonti rinnovabili (caldaie, caminetti e stufe a biomassa,
sistemi fotovoltaici e termici su edifici, sistemi
geotermici a bassa entalpia e pompe di calore), è necessario
essere in possesso di almeno uno dei seguenti requisiti:
diploma di laurea in materia tecnica specifica; diploma o
qualifica di scuola superiore con specializzazione relativa
al settore degli impianti, seguiti da un periodo di
inserimento in un'impresa del settore; titolo o attestato di
formazione professionale, previo periodo di inserimento in
un'impresa del settore
(articolo ItaliaOggi del 31.05.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Dal 13/06 l'Aua è in vigore Stop a sette autorizzazioni.
Al via, dal 13 giugno, l'autorizzazione unica ambientale,
che sostituirà sette provvedimenti autorizzativi; durerà 15
anni e dovrà essere richiesta allo sportello unico
ambientale; riguarderà gli impianti non soggetti a
autorizzazione integrale ambientale.
Sono questi i punti principali del corposo (380 pagine)
D.P.R. 13.03.2013 n. 59, pubblicato sul supplemento ordinario
alla gazzetta ufficiale n. 124 del 29.05.2013.
Il
provvedimento, in vigore dal prossimo 13 giugno e previsto
dall'art. 23 del decreto legge 5/2012 (il cosiddetto
«decreto Semplificazioni»), procede alla semplificazione
degli adempimenti amministrativi in materia ambientale per
le imprese e gli impianti non soggetti ad autorizzazione
integrata ambientale. L'autorizzazione unica ambientale (Aua)
attua una prima fase di semplificazione delle procedure di
autorizzazione, già previste nel decreto semplificazioni e
sostituisce fino a sette procedure diverse che prima
dovevano essere ottenute singolarmente (per esempio:
l'autorizzazione allo scarico di acque reflue industriali,
l'autorizzazione alle emissioni in atmosfera, la
documentazione previsionale di impatto acustico ecc.).
Dal
13.06.2013 basterà quindi un'unica domanda da presentare
per via telematica allo Sportello Unico per le attività
produttive (Suap) per richiedere l'unica autorizzazione
necessaria. Le Regioni potranno estendere ulteriormente il
numero di atti compresi nell'Aua. Il regolamento, semplifica
la vita delle imprese di piccole dimensioni («pmi») e degli
impianti di dimensioni diverse da quelle per le quali è
previsto che si debba procedere alla richiesta di Aia
(autorizzazione integrata ambientale, ai sensi dell'articolo
29-ter e seguenti, dlgs 152/200. Saranno quindi interessate
le microimprese, le piccole e medie imprese di cui
all'articolo 2 del decreto del ministro delle attività
produttive 18.04.2005.
L'autorizzazione unica, che avrà
la durata di 15 anni, non sarà necessaria per i progetti
sottoposti alla valutazione di impatto ambientale, se la
normativa statale e regionale dispone che il provvedimento
di Via comprende e sostituisce tutti gli altri atti di
assenso, comunque denominati, in materia ambientale. In un
unico procedimento verranno raccolte fino a sette
autorizzazioni ambientali che prima dovevano essere ottenute
singolarmente. Si prevede anche che le regioni possano
aumentare l'elenco delle autorizzazioni ambientali.
Il dpr
stabilisce anche tempi certi per il rilascio: entro trenta
giorni occorrerà verificare il contenuto della domanda;
entro 90 o 120 giorni dalla presentazione della domanda deve
essere adottato il provvedimento. Sono previsti poteri
sostitutivi in caso di inerzia dell'amministrazione, sarà
poi l'autorità competente a trasmettere in modalità
telematica ogni comunicazione al gestore tramite lo
sportello unico. Si ricorda che l'autorizzazione unica
ambientale non è applicabile ai progetti sottoposti a
valutazione di impatto ambientale. In quel caso è la Via a
essere il provvedimento che comprende e sostituisce tutti
gli altri atti di assenso, comunque denominati, in materia
ambientale.
Dal punto di vista della disciplina transitoria
il decreto stabilisce che i procedimento avviati prima del
13 giugno si concludano secondo le norme vigenti al momento
della presentazione della domanda. Con successivo dm
dell'ambiente, verrà messo a punto un modello semplificato e
unificato per la richiesta di Aua. Che può essere richiesta
alla scadenza del primo titolo abilitativo da essa
sostituito
(articolo ItaliaOggi del 31.05.2013). |
ENTI LOCALI - TRIBUTI: Doppia proroga per i comuni. Bilanci in autunno, l'addio di
Equitalia slitta a fine anno. L'ok
all'incontro dell'Anci con Saccomanni. Cattaneo: spending
review insostenibile per il 2013.
Riforma dell'Imu già entro giugno e slittamento di almeno
sei mesi dell'addio di Equitalia ai comuni (la proroga è
stata inserita nel decreto sui debiti della p.a. all'esame
del senato, si veda altro pezzo in pagina). Il governo è
intenzionato a fare presto e a non arrivare con l'acqua alla
gola alla dead line per la riforma della fiscalità locale
fissata per fine agosto.
Lo chiedono i sindaci, che hanno bisogno di certezze per
chiudere i bilanci (e a questo punto pare certo l'ulteriore
proroga del termine per l'approvazione dei preventivi che
potrebbe essere spostato al 30 settembre). E lo vuole lo
stesso esecutivo guidato da Enrico Letta, intenzionato a
gestire il capitolo Imu assieme a quello della Tares, in una
prospettiva unitaria che potrebbe portare alla nascita di un
nuovo tributo legato all'insediamento residenziale e ai
servizi resi, come richiesto dall'Anci.
Una timida apertura
verso la service tax? È ancora troppo presto per dirlo.
Perché nell'incontro di ieri tra i rappresentanti
dell'associazione dei comuni e il ministro dell'economia
Fabrizio Saccomanni si è parlato sì di futuro, ma
soprattutto di passato. I comuni hanno infatti molti
contenziosi ancora in essere col Mef e l'obiettivo dell'Anci
è chiuderli il prima possibile in modo da facilitare
l'approvazione dei bilanci.
Il primo riguarda i tagli della spending review lasciata in
eredità da Mario Monti che per il 2013 chiede ai municipi un
sacrificio di 2 miliardi e 250 milioni calcolati sui consumi
intermedi e non sui fabbisogni standard come vorrebbero i
sindaci. L'anno scorso l'Anci riuscì a spuntare in extremis
una sterilizzazione dei tagli, convincendo il governo Monti
a dirottare una cifra equivalente sulla riduzione
dell'indebitamento. Ma quest'anno il problema si ripropone
in tutta la sua gravità. «Calcolare i tagli sui consumi
intermedi significa penalizzare le amministrazioni più
virtuose perché si tratta di un criterio che non distingue
tra spesa buona e spesa cattiva», ha osservato il sindaco di
Livorno Alessandro Cosimi, presente all'incontro.
Saccomanni ha assicurato l'impegno del governo a risolvere
il capitolo spending assieme alle altre criticità in materia
di fiscalità locale che per i comuni valgono circa 900
milioni di euro. Il riferimento è ai disallineamenti tra le
stime comunali e quelle governative sull'Imu 2012, ma anche
al capitolo ancora aperto dell'Ici 2010, per non parlare del
nodo dell'Imu sugli immobili comunali che i sindaci sono
costretti a pagare. «Il governo ha ammesso che il problema
esiste e si è impegnato a risolverlo in tempo utile per
l'approvazione dei bilanci», ha commentato il presidente
dell'Anci e sindaco di Pavia, Alessandro Cattaneo. «Per il
momento l'80% dei comuni non è in grado di chiudere i
preventivi», ha proseguito, «e questo rende necessaria una
proroga che non avremmo mai voluto chiedere, perché varare i
bilanci 2013 quasi con un anno di ritardo è una sconfitta
per tutti, ma purtroppo è il governo ad averci messo in
questa condizione».
Nell'incontro di ieri con Saccomanni l'Anci ha anche
incassato il nullaosta politico alla proroga di sei mesi
dell'uscita di scena di Equitalia dalla riscossione locale,
prevista a partire dal 1° luglio. E subito dopo l'ok di via
XX Settembre, lo slittamento è stato messo nero su bianco in
un emendamento al decreto sui pagamenti della p.a. (dl
35/2013) presentato dai relatori, Giorgio Santini (Pd) e
Antonio D'Alì (Pdl) e approvato in commissione bilancio del
senato. Tutto a rimandato a fine 2013, dunque, in attesa che
giunga a compimento la riforma della riscossione locale. Una
riforma attesa invano da oltre due anni
(articolo ItaliaOggi del 31.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI:
Sfori il Patto per pagare i debiti? Niente tagli ai
trasferimenti. Gli emendamenti dei
relatori al dl 35 all'esame del senato.
In arrivo una boccata d'aria fresca per i comuni.
All'interno del decreto pagamenti, sono confluiti, infatti,
gli emendamenti relativi sia alla proroga al mandato di
Equitalia, sia all'allentamento delle sanzioni per quei
comuni che, per pagare i debiti in conto capitale, hanno
sforato il patto di stabilità.
Questo è quanto emerso ieri,
a termine delle votazioni degli emendamenti al dl 35,
presentati in Commissione bilancio al Senato. Il testo
definitivo, arriverà in aula lunedì, giusto in tempo per
poter rispettare la scadenza del 7 giugno, termine ultimo
entro cui il decreto può essere convertito in legge.
Equitalia. La proroga a Equitalia diventa realtà. La
scadenza del mandato dell'ente di riscossione, era infatti
stabilita per il 30 giugno. Molte però, sono state le
richieste di proroga, avanzate da quei comuni che, al 30
giugno, non sarebbero stati in grado di gestire il servizio
di riscossione in modo autonomo o tramite l'affidamento del
servizio a soggetti terzi o a apposite società in house.
Tanto hanno chiesto, tanto hanno ottenuto.
Allo scadere del
termine del 30 giugno, quei comuni sprovvisti di una
soluzione per la gestione del servizio, potranno avvalersi
dei servizi forniti da Equitalia (si veda ItaliaOggi del 10
maggio) per altri sei mesi «nella speranza» ha dichiarato il
relatore Giorgio Santini «che questo sia un tempo
sufficiente affinché i comuni trovino una soluzione». La
proroga però, che ha la scadenza fissata per il 31 dicembre,
non sarà vincolante. Quei comuni pronti a gestire in modo
autonomo il servizio di riscossione, saranno infatti liberi
di iniziare la gestione in proprio, dal 1 luglio.
Patto di stabilità. Un piccolo spiraglio anche sul fronte
patto di stabilità. È infatti stato accolto l'emendamento
che prevede l'allentamento delle sanzioni per quei comuni
che per restare in regola con i pagamenti verso le imprese,
o per saldare debiti precedenti, hanno sforato il patto di
stabilità. Per questi enti, che in Italia sono poco meno di
un centinaio, verrà interdetta la sanzione relativa al
blocco dei trasferimenti. Restano ferme però, le altre
tipologie di sanzione, come quella del blocco delle
assunzioni.
I professionisti. Novità anche per i professionisti. Per
quanto i mancati pagamenti da parte della p.a. nei confronti
di questi, siano considerati debiti a tutti gli effetti,
agli albori del decreto pagamenti, non erano stati
annoverati nell'elenco previsto dall'art. 5, rubricato
pagamento dei debiti delle amministrazioni dello stato.
A
dichiararsi soddisfatto, ma solo parzialmente, il presidente
nazionale della Cna professioni (Confederazione nazionale
dell'artigianato e della piccola e media impresa), Giorgio
Berloffa, secondo cui «per quanto i professionisti siano
stati inclusi nell'elenco dell'art. 5, restano ancora
esclusi dall'art. 9 relativo alla possibilità che le
prestazioni professionali possano accedere alle
compensazioni». I professionisti quindi, con l'approvazione
dell'emendamento, hanno ottenuto solo una virtuale
possibilità di avere quanto gli è dovuto.
Gli intermediari finanziari. Via libera poi anche
all'emendamento che autorizza l'individuazione di
intermediario finanziari, che possano essere incaricati di
gestire i fondi che lo stato dovrà mettere a disposizione
nel 2014, per finire di saldare i debiti che le pubbliche
amministrazioni hanno maturato entro il 31.12.2012.
Una vera e proprio garanzia da parte dello stato, per
rendere più cogente l'impegno a svuotare nel 2014 il plafond
di crediti che le aziende hanno maturato nei confronti della
pubblica amministrazione.
L'ordine dei pagamenti.
Nessuna novità invece sul fronte delle priorità dei
pagamenti. Le prime infatti, ad aver diritto al pagamento
del quantum, resteranno le imprese che non hanno
effettuato operazioni di cessione dei crediti nei confronti
delle banche. «Le imprese», ha concluso il relatore
Santini «avranno la priorità su tutti i pagamenti»
(articolo ItaliaOggi del 31.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La p.a. nasconde? Class action. Non adempiere agli obblighi
di trasparenza costerà caro. La
legge anticorruzione affida a successivi dm la definizione
delle informazioni essenziali.
La poca trasparenza farà scattare la class action. Una volta
approvati i decreti ministeriali previsti dall'articolo 1,
comma 31, della legge anticorruzione, potrebbe costare caro
alle pubbliche amministrazioni non adempiere agli obblighi
di pubblicità, previsti dalla legge 190/2012 e dal dlgs
33/2013: infatti, l'inciampo sull'opacità dei dati è causa
dell'azione collettiva di risarcimento del danno.
Per i cittadini singoli o associati, la possibilità di
ricorrere contro le amministrazioni poco propense a
rispettare gli obblighi di trasparenza è fissato
dall'articolo 1, comma 33, della legge 190/2012, ai sensi
del quale «la mancata o incompleta pubblicazione, da parte
delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni di cui
al comma 31 costituisce violazione degli standard
qualitativi ed economici ai sensi dell'articolo 1, comma 1,
del decreto legislativo 20.12.2009, n. 198, ed è
comunque valutata ai sensi dell'articolo 21 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive
modificazioni.
Eventuali ritardi nell'aggiornamento dei contenuti sugli
strumenti informatici sono sanzionati a carico dei
responsabili del servizio».
Il dlgs 198/2009 è, appunto, la norma che regola la class
action, che può scattare proprio quando un'amministrazione
pubblica gestisca le proprie attività violando obiettivi di
qualità minimi inderogabili, cioè gli standard previsti
dall'articolo 1, comma 1, del medesimo decreto.
L'articolo 1, comma 31, della legge anticorruzione rinvia ad
uno o più decreti ministeriali il compito di determinare le
informazioni rilevanti ai fini dell'applicazione delle norme
sulla trasparenza, in particolare riferite agli ambiti
operativi a maggior rischio di corruzione: procedimenti di
autorizzazione/concessione, appalti, concessione di
sovvenzioni e contributi, concorsi.
I decreti fisseranno anche le relative modalità di
pubblicazione, nonché le indicazioni generali per
l'applicazione dei commi 29 e 30 sempre della legge anti
corruzione, commi che specificano le modalità con le quali i
cittadini, sia mediante la posta elettronica, sia attraverso
l'utilizzo dei portali, potranno relazionarsi con le
amministrazioni per avere notizie o addirittura gestire i
procedimenti amministrativi di loro interesse.
Le amministrazioni, dunque, debbono stare sull'avviso. La
normativa anticorruzione e sulla trasparenza non ha dato ai
cittadini che pretendono la pubblicità dei dati
obbligatoriamente pubblici solo l'arma dell'accesso civico,
previsto dall'articolo 5 del dlgs 33/2013.
L'accesso civico è stato da molti considerato e presentato
come uno sviluppo o potenziamento del diritto di accesso già
regolato dalla legge 241/1990. Nulla di tutto questo. Le due
fattispecie restano autonome e distinte. L'articolo 5 del
dlgs 33/2013 è semplicemente un sistema non contenzioso, col
quale qualsiasi cittadino può chiedere per le vie brevi
(mail) alle amministrazioni di pubblicare informazioni,
documenti e dati che dovrebbero essere contenute nei siti
istituzionali, ma che risultino assenti.
Nel caso dell'accesso civico, il responsabile della
trasparenza deve rispondere entro 30 giorni, accogliendo la
richiesta o chiarendo che l'informazione era già presente.
Il dlgs 33/2013 non prevede espressamente rimedi contro
l'eventuale inerzia dell'amministrazione. Ma il rimedio è
appunto previsto dall'articolo 1, comma 33, della legge
anticorruzione, che qualificando gli obblighi di trasparenza
come standard qualitativi ed economici, permette di attivare
l'azione di risarcimento conto le amministrazioni
inadempienti.
In sintesi, i cittadini possono diffidare l'amministrazione,
invitandoli alla pubblicazione entro il termine di novanta
giorni. La diffida è notificata all'organo di vertice
dell'amministrazione, che dovrebbe individuare il settore in
cui si è verificata la violazione: nel caso di specie,
ovviamente, il carico di responsabilità incomberà sul
responsabile della trasparenza, che negli enti locali
coincide (salvo motivate ragioni) col segretario comunale.
Il responsabile, di conseguenza, stabilirà come procedere
per rimediare alla diffida e scongiurare il ricorso al Tar,
proponibile se, decorso il termine di 90 giorni perduri la
violazione alle regole sulla trasparenza.
Il giudice può ordinare, accogliendo il ricorso,
l'adempimento e dalla decisione debbono derivare le
conseguenze sanzionatorie a carico dei soggetti responsabili
(articolo ItaliaOggi del 31.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI
LOCALI:
Conti locali a rischio. La sanatoria dei debiti fuori
bilancio non paga. L'emendamento al
dl 35 penalizza le amministrazioni più virtuose.
Dagli emendamenti al dl 35/2013 sullo sbocco dei pagamenti
della p.a. spunta una sanatoria generalizzata per i debiti
fuori bilancio maturati al 31/12/2012 e riconoscibili dal
consiglio degli enti locali, ai sensi dell'art. 194 del dlgs
267/2000.
In pratica, con la nuova formulazione dell'art. 1, comma 1,
sarà possibile conteggiare anche i debiti fuori bilancio
relativi a spese in conto capitale, ai fini della
distribuzione degli «spazi finanziari» esclusi dai vincoli
del patto di stabilità interno e, quindi, consentirne il
pagamento in deroga agli obiettivi stabiliti dagli artt. 30
e seguenti della legge 183/2011, circ. 5 del 07/02/2013 e dm
14/05/2013.
Però, il lodevole intento di procedere all'immediato
pagamento di tutti i debiti scaduti della p.a., rischia di
fare d'ogni erba un fascio; infatti, così facendo si
considerano irrazionalmente allo stesso modo sia i debiti
regolarmente contabilizzati da parte di enti virtuosi che
hanno comunque adeguato i loro investimenti alle restrizioni
del patto di stabilità ed ai vincoli dell'indebitamento, sia
i debiti generati da comportamenti non conformi alla legge,
definiti per l'appunto «debiti fuori bilancio» dall'art. 194
del Tuel e dal principio contabile n. 2 dell'Osservatorio
per la finanza locale.
Si tratta, ad esempio, di palesi violazioni delle procedure
di trasparenza nella scelta del contraente, delle norme
sulla programmazione di bilancio, progettazione ed
esecuzione dei lavori pubblici, indebitamento e così via,
senza contare la pratica (purtroppo) diffusa di realizzare
opere pubbliche fuori da qualsiasi regola nella
consapevolezza di avviare in un secondo momento il
riconoscimento della spesa quale debito fuori bilancio.
La nuova formulazione dell'art. 1, fa saltare anche il
pesante sistema sanzionatorio previsto per gli enti che non
rispettano i vincoli di finanza pubblica: taglio
trasferimenti pari allo sforamento dell'obiettivo, blocco
assoluto delle assunzioni di personale e dell'indebitamento,
contenimento delle spese correnti, riduzione del 30%
indennità e gettoni degli amministratori (art. 1, comma 439,
legge 228/2012).
Di fatto, vengono premiati gli enti meno virtuosi e,
contemporaneamente, penalizzati quelli che hanno rispettato
le regole, perché non avendo questi ultimi debiti da pagare
né debiti fuori bilancio, non possono richiedere «spazi
ulteriori» ai fini del patto di stabilità.
D'altro canto, un simile ragionamento vale anche per i
fornitori degli enti locali che vantano crediti inevasi:
sono posti tutti sullo stesso piano, sia quelli risultanti i
migliori offerenti a seguito di regolari gare pubbliche sia
quelli assegnatari di lavori/forniture in assenza di un
analogo percorso di trasparenza amministrativa.
Inoltre, non si dispone al momento attuale di nessuna stima
sull'entità del fenomeno dei debiti fuori bilancio che
potrebbero rientrare nella fattispecie considerata dalla
nuova riformulazione dell'art. 1 anche in relazione alla
possibilità di riformulare la richiesta di spazi finanziari
entro il 05/07/2013.
In ultima analisi, si pone un grande problema di disparità
di trattamento tra enti e tra fornitori della p.a., che
comunque potrebbe essere ancora corretto prima della
conversione in legge del dl 35/2013
(articolo ItaliaOggi del 31.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente.
Nell'«Aua» potranno essere assorbiti atti degli enti.
L'Autorizzazione unica darà spazio alle Regioni.
IL PASSAGGIO/ Nuove disposizioni in vigore dal 13 giugno Le
procedure in corso continueranno con le vecchie modalità.
Dalla comunicazione d'impatto acustico alle autorizzazioni
per inquinamento atmosferico poco significativo,
l'Autorizzazione unica ambientale (Aua) gioca a tutto campo
nel sistema delle autorizzazioni ambientali delle Pmi.
La nuova disciplina è contenuta nel
D.P.R. 13.03.2013 n. 59, pubblicato nella Gazzetta ufficiale numero 42 del 29
maggio scorso (si veda Il Sole 24 Ore di ieri) e,
finalmente, grazie a essa il rapporto tra le imprese e
l'amministrazione pubblica in materia di autorizzazioni
ambientali dovrebbe diventare meno complicato.
Il sistema (previsto dall'articolo 23 della legge 35/2012)
entrerà in vigore il prossimo 13 giugno, ma i procedimenti
iniziati prima saranno conclusi in base alle norme vigenti
all'atto del loro avvio. La platea interessata è quella
delle Pmi di cui all'articolo 2 del Dm attività produttive
18.04.2005 e degli impianti non soggetti ad
Autorizzazione integrata ambientale (Aia), di cui alla parte II del Dlgs 152/2006 (Codice ambientale). Quindi, attenzione a
non confondere nomi e acronimi, poiché a ciascuno di essi
sottendono procedimenti amministrativi molto diversi.
Grazie all'Aua, un unico procedimento riunirà ora fino a
sette autorizzazioni ambientali. Ma non finisce qui, perché
le Regioni potranno anche individuare ulteriori atti di
comunicazione, notifica e autorizzazione in materia
ambientale da far confluire nell'Autorizzazione unica
ambientale. Inoltre, in caso di inerzia di uno degli enti
coinvolti, è previsto l'esercizio di poteri sostitutivi, il
che induce maggiore certezza sui tempi di rilascio.
L'Aua non si applica agli impianti soggetti ad Aia, né ai
progetti sottoposti a Via (Valutazione impatto ambientale)
se le norme statali e regionali dispongano che il
provvedimento finale di Via comprende e sostituisce tutti
gli altri atti di assenso, comunque denominati, in materia
ambientale, ai sensi dell'articolo 26, comma 4, del Dlgs
152/2006. Se il progetto è sottoposto a screening per la Via,
l'Aua può essere richiesta solo dopo l'esito negativo di
tale screening.
L'Aua dura 15 anni ed è rilasciata dal Suap, lo Sportello
unico per le attività produttive di cui al Dpr 160/2010. Essa
sostituisce più atti di comunicazione, notifica ed
autorizzazione in materia ambientale (anche in ordine ai
rinnovi). Si tratta dell'autorizzazione agli scarichi; della
comunicazione preventiva per l'uso agronomico di effluenti
di allevamento, di acque di vegetazione dei frantoi oleari e
di acque reflue provenienti dalle aziende di cui
all'articolo 112, del Codice ambientale; dell'autorizzazione
alle emissioni in atmosfera; dell'autorizzazione generale
per gli impianti con emissioni scarsamente rilevanti agli
effetti dell'inquinamento atmosferico di cui all'articolo
272 del Dlgs 152/2006 (salva la facoltà del gestore di aderire
tramite il Suap a tale autorizzazione generale).
Sostituisce, inoltre, la comunicazione o nulla osta di cui
all'articolo 8 della legge 447/1995 per l'impatto acustico;
l'autorizzazione all'uso agronomico dei fanghi di
depurazione di cui al Dlgs 92/1999; le comunicazioni in
materia di autosmaltimento e recupero agevolato di rifiuti
pericolosi e non pericolosi.
Sul fronte procedurale, la domanda per il rilascio dell'Aua
(completa di documenti, dichiarazioni e altre attestazioni
previste dalle norme di riferimento) si presenta al Suap,
che la trasmette in via telematica alle amministrazioni che
intervengono nei procedimenti sostituiti dall'Aua.
L'eventuale richiesta d'integrazione documentale è
comunicata al Suap entro 30 giorni dalla presentazione della
domanda. Se l'impresa non deposita la documentazione
richiesta entro il termine fissato dall'autorità competente,
l'istanza è archiviata a meno che l'impresa non richieda una
proroga in ragione della complessità della documentazione da
presentare.
Se l'Aua sostituisce le autorizzazioni per le quali la
conclusione del procedimento è fissata in un termine
inferiore o pari a 90 giorni, l'autorità competente adotta
il provvedimento entro 90 giorni dalla presentazione della
domanda e lo trasmette al Suap. che rilascia l'Aua. Un Dm
introdurrà un modello unificato per la richiesta di Aua. Gli
oneri istruttori sono a carico delle imprese richiedenti
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.05.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Fittasi con attestato. Certificato energetico per locazioni.
L'obbligo è nel dl in arrivo sul
risparmio energetico.
Il nuovo «attestato di prestazione energetica» è vincolante
anche per le locazioni di edifici o unità immobiliari.
Il
vincolo delle attestazioni di prestazioni energetiche anche
per le locazioni viene previsto con l'articolo 6 dello
schema di decreto legge, rubricato «recepimento della
direttiva 2010/31/Ue del Parlamento europeo e del consiglio
del 19.05.2010, n. 31 sulla prestazione energetica
nell'edilizia», che dovrebbe essere approvato al prossimo
consiglio dei ministri.
Questo articolo,
nello schema di decreto, va a sostituire
integralmente l'art. 6 del dlgs 19.08.2005, n. 192 e
stabilisce, quanto segue: l'attestato di certificazione
energetica degli edifici è denominato «attestato di
prestazione energetica» ed è rilasciato per gli edifici
o le unità immobiliari costruiti, venduti o locati a un
nuovo locatario e per gli edifici utilizzati da pubbliche
amministrazioni e aperti al pubblico con superficie utile
totale superiore a 500 m2; nel caso di vendita o di nuova
locazione di edifici o unità immobiliari, ove l'edificio o
l'unità non ne sia già dotato, il proprietario è tenuto a
produrre l'attestato di prestazione energetica; nei
contratti di vendita o nei nuovi contratti di locazione di
edifici o di singole unità immobiliari deve essere inserita
apposita clausola con la quale l'acquirente o il conduttore
danno atto di aver ricevuto le informazioni e la
documentazione, comprensiva dell'attestato, in ordine
all'attestazione della prestazione energetica degli edifici.
L'attestato di prestazione energetica ha una validità
temporale massima di dieci anni a partire dal suo rilascio
ed è aggiornato a ogni intervento di ristrutturazione che
modifichi la classe energetica dell'edificio o dell'unità
immobiliare. La validità temporale massima è subordinata al
rispetto delle prescrizioni per le operazioni di controllo
di efficienza energetica degli impianti termici, comprese le
eventuali necessità di adeguamento.
È necessario ricordare che il decreto legge interviene per
porre rimedio alla procedura d'infrazione aperta da parte
della Commissione europea nei confronti dell'Italia
(articolo ItaliaOggi del 30.05.2013). |
TRIBUTI: Stop
ai pagamenti anche se il conduttore non è rurale. E anche
l'impianto solare schiva l'onere.
I campi senza Imu. Prima rata sospesa su tutti i terreni.
Non sono soggetti al pagamento dell'acconto Imu, la cui
scadenza è fissata per il prossimo 17 giugno, i terreni
agricoli anche se non condotti da coltivatori diretti e
imprenditori agricoli professionali.
Questa interpretazione
si ricava dalla formulazione letterale dell'articolo 1 del
dl 54/2013 che concede la sospensione del pagamento
richiamando l'articolo 13, comma 5 del dl «salva Italia»
(201/2011), in base al quale il valore dei terreni agricoli
su cui calcolare l'imposta è ottenuto moltiplicando il
reddito dominicale risultante in catasto, vigente al 1°
gennaio dell'anno di imposizione, rivalutato del 25%, per
135.
Per i coltivatori diretti e gli imprenditori professionali
iscritti nella previdenza agricola, invece, il
moltiplicatore è ridotto a 110. La norma, quindi,
ricomprende nella nozione di terreno agricolo anche quello
che non viene condotto direttamente da un coltivatore o
imprenditore agricolo professionale. L'articolo 1 si limita
però a concedere la sospensione dal pagamento dell'imposta
solo per i terreni agricoli, mentre sono tenuti a passare
alla cassa i titolari di terreni incolti, a meno che non
siano posseduti e condotti da un agricoltore. Dal 2012,
infatti, sono soggetti al pagamento dell'Imu anche i terreni
incolti che prima erano esclusi dal campo di applicazione
dell'Ici.
Va ricordato che i benefici fiscali sui terreni agricoli non
sono più limitati alle persone fisiche, ma si estendono
anche alle società agricole. Per la qualificazione di
coltivatore diretto o imprenditore agricolo professionale
occorre fare riferimento all'articolo 1 del decreto
legislativo 99/2004 e non più, come avveniva per l'Ici,
all'articolo 58 del decreto legislativo 446/1997.
Quest'ultima disposizione qualificava coltivatori diretti e
imprenditori agricoli solo le persone fisiche iscritte negli
elenchi comunali e soggette alla contribuzione obbligatoria
per invalidità, vecchiaia e malattia. Dunque, escludeva le
aziende agricole (società di persone, cooperative e di
capitali, anche a scopo consortile). Tra l'altro, con le
modifiche apportate alla disciplina Imu dall'articolo 4 del
dl 16/2012, il trattamento agevolato per i terreni non è più
circoscritto alla finzione giuridica di non edificabilità
del suolo, ma abbraccia anche le riduzioni d'imposta.
In
particolare, i terreni agricoli posseduti e condotti da
coltivatori diretti o da imprenditori agricoli sono soggetti
all'Imu limitatamente alla parte di valore eccedente 6 mila
euro e con le seguenti riduzioni: a) del 70% dell'imposta
gravante sulla parte di valore eccedente i 6 mila euro e
fino a 15. 500; b) del 50% di quella gravante sulla parte di
valore eccedente 15.500 euro e fino a 25.500; c) del 25%
sulla parte di valore eccedente 25.500 euro e fino a 32 mila
(articolo ItaliaOggi del 30.05.201). |
TRIBUTI: Così
il fotovoltaico dribbla l'imposta.
Imu sospesa anche per i fabbricati rurali in cui sono
installati impianti fotovoltaici. La sospensione, prevista
dal dl n. 54/2013 entrato in vigore il 22.05.2013,
infatti riguarda anche agli impianti fotovoltaici connessi
all'attività agricola.
Con nota dell'agenzia del territorio
del 06.06.2012 n. 3189, infatti, viene previsto che «agli
immobili ospitanti le installazioni fotovoltaiche, censiti
autonomamente e per i quali sussistono i requisiti per il
riconoscimento del carattere di ruralità, nel caso in cui
ricorra l'obbligo di dichiarazione in catasto (...) è
attribuita la categoria D/10 - fabbricati per funzioni
produttive connesse ad attività agricole».
Dalla nota del Territorio pertanto possiamo dedurre che gli
impianti fotovoltaici connessi ad attività agricole,
accatastati nella categoria D/10 (immobili strumentali per
le attività agricole), rientrino tra le categorie di
immobili ammessi alla sospensione della rata Imu di giugno.
Ricordiamo che il decreto legge 21.05.2013, n. 54
(articolo 1, comma 1, lettera c), ha stabilito che la
sospensione della prima rata di giugno vale anche per i
«terreni agricoli e fabbricati rurali di cui all'articolo
13, commi 4, 5 e 8, del decreto-legge 06.12.2011, n.
201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214, e successive modificazioni». In seguito il
ministero dell'economia e delle finanze ha diramato la
circolare del 23.05.2013 n. 2/DF al fine chiarire i
numerosi dubbi sorti in capo ai contribuenti in merito al
versamento della prima rata Imu 2013.
Tra i dubbi chiariti
vi è quello riguardante la sospensione dell'acconto 2013
dell'Imu relativa ai terreni agricoli e i fabbricati rurali.
Pertanto dal combinato esame della nota del territorio e
della circolare delle finanze possiamo ritenere valida la
sospensione della prima rata Imu per gli impianti
fotovoltaici connessi alle attività agricole. Nell'ottica
dell'incentivazione della produzione di energia elettrica
mediante fonti rinnovabili, il legislatore ha introdotto,
negli ultimi anni, disposizioni di carattere fiscale volte a
promuovere l'esercizio di tali attività da parte degli
imprenditori agricoli.
Infatti la produzione e la cessione di energia elettrica e
calorica da fonti rinnovabili agroforestali e fotovoltaiche
nonché di carburanti ottenuti da produzioni vegetali
provenienti prevalentemente dal fondo e dì prodotti chimici
derivanti da prodotti agricoli provenienti prevalentemente
dal fondo effettuate dagli imprenditori agricoli,
costituiscono attività connesse ai sensi dell'articolo 2135,
terzo comma, del codice civile (articolo 1, comma 423, della
legge 23.12.2005, n. 266)
(articolo ItaliaOggi del 30.05.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Inps-inail.
Ex Inpdap, call center unico.
Dal 1° giugno anche gli iscritti alle gestioni
pensionistiche dei lavoratori dello spettacolo (ex Enpals) e
dei dipendenti pubblici (ex Inpdap) potranno chiamare, per
avere informazioni telefoniche, il Contact Center
Multicanale Inps-Inail.
Si tratta, spiega una nota Inps, un ulteriore passo verso la
completa integrazione degli enti soppressi, che permetterà
agli utenti (lavoratori assicurati e pensionati) ex Enpals
ed ex Inpdap di ricevere informazioni componendo:
• il numero verde gratuito 803.164 per le chiamate da
telefono fisso;
• il numero 06.164164 per le chiamate da telefono cellulare
(in questo caso la chiamata è a pagamento e il costo dipende
dal piano tariffario applicato dai gestori telefonici ai
cittadini che chiamano il Contact Center).
Il servizio è attivo dal lunedì al venerdì dalle 8 alle 20 e
il sabato dalle 8 alle 14. Nelle restanti ore (e nei giorni
festivi) rimane attivo un servizio automatico di risposta in
funzione 24 ore su 24
(articolo ItaliaOggi del 30.05.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente.
In Gazzetta il Dpr 59/2013. Dal 13 giugno parte l'autorizzazione unica ambientale.
SEMPLIFICAZIONI/ In un unico procedimento fino a sette
provvedimenti Certezze sui tempi grazie a poteri sostitutivi
in caso di inerzia degli enti.
Dopo un lungo limbo rispetto alla delibera del Consiglio dei
ministri del 15.02.2013, è finalmente approdato alla
Gazzetta Ufficiale di ieri (S.o. n. 42) il
D.P.R. 13.03.2013 n. 59 che riporta la disciplina dell'autorizzazione
unica ambientale (Aua) e la semplificazione di adempimenti
amministrativi in materia ambientale gravanti sulle pmi e
sugli impianti non soggetti all'autorizzazione integrata
ambientale (Aia). Il decreto entrerà in vigore giovedì 13
giugno, i procedimenti avviati prima di tale data saranno
conclusi in base alle norme vigenti al momento del loro
avvio.
Grazie all'Aua, ora un unico procedimento riconduce da una
fino a sette autorizzazioni ambientali. Inoltre, poiché ora
è previsto l'esercizio di poteri sostitutivi in caso di
inerzia di uno degli enti coinvolti, le imprese avranno
maggiore certezza sui tempi di rilascio.
L'Aua può essere richiesta alla scadenza del primo titolo
abilitativo sostituito, un futuro Dm individuerà un modello
unificato per la sua richiesta. Fino ad allora per le
domande valgono le attuali procedure. La domanda va
presentata al Suap (Sportello unico attività produttive) di
cui al Dpr 160/2010 che la trasmette telematicamente alle
autorità competenti.
L'Aua non si applica agli impianti soggetti ad Aia né ai
progetti sottoposti a Via (Valutazione impatto ambientale)
ove le norme statali e regionali dispongano che il
provvedimento finale di Via comprende e sostituisce tutti
gli altri atti di assenso, comunque denominati, in materia
ambientale, ai sensi dell'articolo 26, comma 4, Dlgs
152/2006. Se il progetto è sottoposto a "screening" per la
Via, l'Aua può essere richiesta solo dopo che l'autorità
competente per tale "screening" abbia valutato di non
assoggettare il progetto a Via.
L'Aua sostituisce i seguenti atti di comunicazione, notifica
ed autorizzazione in materia ambientale (anche per quanto
riguarda i rinnovi): autorizzazione agli scarichi;
comunicazione preventiva per l'uso agronomico di effluenti
di allevamento, di acque di vegetazione dei frantoi oleari e
di acque reflue provenienti dalle aziende di cui
all'articolo 112, Codice ambientale; autorizzazione alle
emissioni in atmosfera; autorizzazione generale per gli
impianti con emissioni scarsamente rilevanti agli effetti
dell'inquinamento atmosferico di cui all'articolo 272, Dlgs
152/2006 (salva la facoltà del gestore di aderire tramite il
Suap a tale autorizzazione generale); comunicazione o nulla
osta di cui all'articolo 8, commi 4 o 6, legge 447/1995 per
l'impatto acustico; autorizzazione all'uso agronomico dei
fanghi di depurazione di cui al Dlgs 92/1999; comunicazioni
in materia di autosmaltimento e recupero agevolato di
rifiuti pericolosi e non pericolosi.
Tuttavia, la
semplificazione potrà essere ancora maggiore ove si
consideri che le Regioni hanno la facoltà di individuare
ulteriori atti di comunicazione, notifica e autorizzazione
in materia ambientale da far confluire nella nuova tipologia autorizzatoria
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.05.2013). |
ENTI
LOCALI: Dopo
Corte conti. Le indicazioni. L'«in house» evita il blocco in
busta.
LE ISTRUZIONI/ Per Federambiente e Federutility alle aziende
non si applica lo stop ai contratti.
Le società affidatarie in house di servizi pubblici locali
devono adottare i criteri del pubblico impiego per il
reclutamento e disciplinare, con un proprio provvedimento
interno, il loro contributo al rispetto dei limiti previsti
per assunzioni e spesa di personale dell'ente controllante,
ma non sono obbligate al congelamento di contratti e
retribuzioni individuali che riguarda le amministrazioni
pubbliche e le società inserite nell'elenco Istat per il
consolidato della Pa. I contratti nazionali di settore
continuano ad applicarsi, mentre i decentrati devono essere
compatibili con i vincoli finanziari.
Con queste indicazioni una circolare firmata da
Federambiente e Federutility prova a sbrogliare la matassa
delle norme che estendono alle in house i vincoli previsti
per il personale delle amministrazioni controllanti: questa
estensione, sancita da ultimo con l'articolo 3-bis, comma 6,
del Dl 138/2011, si articola in una serie di regole spesso
non lineari e non coordinate con i principi di diritto
privato che regolano i rapporti di lavoro nelle società, e
hanno dato luogo a frequenti e contrastanti interpretazioni
della Corte dei conti.
Di qui la nuova circolare, che prova a fare chiarezza
indicando in chiave operativa obblighi e possibilità di
azione all'interno dell'autonomia contrattuale e gestionale
che caratterizza le società. Sul congelamento di contratti e
stipendi, che nelle Pa sarà esteso a tutto il 2014, la
circolare sostiene l'esclusione delle società di servizi
pubblici locali, che non trovano spazio nell'elenco Istat
richiamato nella norma con cui si è introdotto il blocco
(articolo 9 del Dl 78/2010, comma 29 per le società). Ciò
non cancella però gli altri obblighi a carico delle aziende
affidatarie dirette, che in base al Dl 138/2011 si vedono
estendere lo stop alle assunzioni quando le spese di
personale del gruppo formato da ente e società superano il
50% delle spese correnti.
Sul tema sono ancora numerose le incertezze che circondano i
parametri di calcolo e di consolidamento, ma la circolare
mette dei punti fermi, anche per superare controversie già
emerse in alcune città: l'eventuale superamento del limite,
prima di tutto, deve essere segnalato dall'ente locale,
perché la singola società non è naturalmente in grado di
sapere in modo autonomo se il gruppo si mantiene o meno nei
limiti di spesa dettati dalla legge.
Insieme alla segnalazione, è sempre l'amministrazione locale
a dover impartire direttive alle società nella sua qualità
di azionista unico, meglio se «operando le opportune
distinzioni» fra le aziende in equilibrio e quelle che
pesano sui conti del gruppo. Dal canto suo, l'azienda deve
assumere i propri provvedimenti in campo assunzionale
tenendo conto dei vincoli "piovuti" dall'ente, ma
anche degli obblighi di servizio pubblico: tra gli strumenti
a disposizione dell'azienda, la circolare ricorda la
rinegoziazione degli accordi collettivi, il freno ai bonus e
l'eventuale attivazione di contratti di solidarietà o altri
ammortizzatori sociali.
Dalle regole sono escluse le quotate, le società di gas ed
energia e quelle miste che hanno scelto il socio con gara a
doppio oggetto, perché non rientrano nella definizione di in
house (articolo Il
Sole 24 Ore del 30.05.2013). |
GIURISPRUDENZA |
INCARICHI PROFESSIONALI: La parcella vistata non è intangibile.
Avvocati. Il giudice può diminuirla.
Il visto di conformità dell'Ordine non è vincolante nel
procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo
sull'ammontare della parcella del legale.
Lo ha stabilito la
II Sez. civile della Corte di Cassazione con la
sentenza
31.05.2013 n. 13858.
La controversia riguardava la liquidazione delle spettanze
di un professionista che aveva patrocinato un comune laziale
davanti al Consiglio di Stato, compenso ridotto della metà
(circa 45mila euro), rispetto a quanto "vistato" dal
consiglio dell'ordine, in sede di opposizione al decreto
ingiuntivo da lui stesso richiesto, decisione poi confermata
dalla Corte d'appello di Roma.
Proprio questa Corte, nel
disattendere le conclusioni del professionista, aveva
stabilito che il parere dell'associazione professionale sul
quantum è vincolante soltanto per la pronuncia del decreto
ingiuntivo e non anche del giudizio di opposizione, e che in
questo contesto non è rilevante il fatto che il comune
avesse chiesto il parere per avviare la procedura di
liquidazione della parcella. A giudizio della Cassazione,
che ha avallato questa tesi, la richiesta di preventivo al
consiglio dell'ordine non perfeziona in alcun caso un
accordo contrattuale fuori e prima del giudizio, e meno
ancora rappresenta l'individuazione di un terzo super partes
cui rimettere la valutazione dell'ammontare della parcella.
Un ulteriore motivo di ricorso era relativo
all'individuazione del momento di cessazione dell'incarico
professionale, considerato che anche dopo la rinuncia al
mandato il legale aveva svolto altre attività di difesa,
compresa la partecipazione a un'udienza in regime di
prorogatio. In sostanza, secondo il professionista,
la rinuncia al mandato sarebbe una fattispecie a formazione
progressiva che si completerebbe solo con l'atto di nomina
di un nuovo difensore, «persistendo il dovere del
rinunciante a compiere atti nell'interesse della parte»
fino a quel momento.
Ma secondo la Cassazione la rinuncia al mandato è un atto a
effetto immediato anche se il difensore conserva, fino alla
sua sostituzione, la legittimazione a ricevere gli atti
indirizzati dalla controparte al suo assistito, e nulla più.
Quindi nel calcolo della parcella si potrò semmai tener
conto, secondo tariffe, della sola attività di ricezione
degli atti
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2013). |
APPALTI FORNITURE:
Sul divieto di introdurre nelle clausole
contrattuali specifiche tecniche che indicano prodotti di
una determinata fabbricazione o provenienza.
Le specifiche tecniche devono consentire pari accesso agli
offerenti e non devono comportare la creazione di ostacoli
ingiustificati all'apertura dei contratti pubblici alla
concorrenza.
In materia di gare d'appalto opera il principio della libera
concorrenza, che trova applicazione in primo luogo nella
fase della determinazione del contenuto del contratto
oggetto di gara, con particolare riferimento alla
individuazione delle prestazioni richieste; quindi, in caso
di gara per l'affidamento di un appalto di fornitura,
sussiste il divieto di introdurre nelle clausole
contrattuali specifiche tecniche che indicano prodotti di
una determinata fabbricazione o provenienza (art. 68, c. 3,
lett. a), del d.lgs. n. 163/2006) ed esso può essere
derogato inserendo nel bando la menzione "o equivalente",
che è però autorizzata solo quando le Amministrazioni non
possano fornire una descrizione dell'oggetto dell'appalto
mediante specifiche tecniche sufficientemente precise, o
formulando la "lex specialis" in termini funzionali
(art. 68, c. 3, lett. b e lett. c, del d.lgs. n. 163/2006).
In tal senso, è stato ritenuto che, qualora le specifiche
tecniche siano plasmate su quelle del prodotto coperto da
brevetto e sia, altresì, carente la indicazione della
menzionata espressione, ha luogo una evidente violazione dei
principi in materia di par condicio e di non discriminazione
nelle gare, con conseguente annullamento, per illegittimità,
del provvedimento di esclusione della concorrente il cui
prodotto non possegga quelle esatte e specifiche
caratteristiche menzionate.
---------------
L'art. 68 del d.lgs. n. 163/2006 (Codice dei contratti)
intende tutelare la concorrenza e la par condicio dei
partecipanti alle gare fin dalla determinazione del
contenuto del contratto, ed è proprio a tal fine che (c. 2)
"le specifiche tecniche devono consentire pari accesso
agli offerenti e non devono comportare la creazione di
ostacoli ingiustificati all'apertura dei contratti pubblici
alla concorrenza".
In questo senso, il divieto di "menzione" o comunque
di "riferimento" (o utilizzazione comparativa) a "un
marchio, a un brevetto o a un tipo, a un'origine o a una
produzione specifica che avrebbero come effetto di favorire
o eliminare talune imprese o taluni prodotti", si pone
come attuativo del principio generale di cui al c. 2
dell'art. 68.
In altre parole, il legislatore -nel prevedere come regola
il citato divieto (costituendo la possibilità di menzione o
di riferimento una espressa eccezione)- afferma appunto che
la menzione o il riferimento ad un tipo o a una produzione
specifica costituiscono ex se un "ostacolo
ingiustificato" alla concorrenza, ed in particolare alla
par condicio dei concorrenti, posto che uno di essi
(anche solo potenzialmente) beneficia nella partecipazione
alla gara di una posizione di vantaggio.
Né è sufficiente la mera menzione della possibilità di
presentare tipi o prodotti "equivalenti" a
giustificare la menzione o il riferimento suddetti (ed in
via generale vietati) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.05.2013 n. 2976 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
legittima un’ordinanza di rimozione, comunicata al
destinatario, senza che sia materialmente allegato il
verbale di accertamento della violazione, ancorché esso
contenga l’esplicitazione della motivazione sottesa
all'irrogazione della sanzione, poiché il concetto di
disponibilità di cui all'art. 3 L. n. 241/1990 non comporta
che l'atto amministrativo richiamato “per relationem” debba
essere unito a pena d'illegittimità al provvedimento che lo
evoca, essendo invece sufficiente che l'atto sia reso
disponibile a norma della stessa legge, cioè che esso possa
essere acquisito utilizzando il procedimento di accesso ai
documenti amministrativi.
---------------
Il provvedimento demolitorio di abusi edilizi costituisce
atto doveroso e vincolato nel contenuto, per cui la sua
adozione non abbisogna di essere preceduta dall'avviso di
avvio del relativo procedimento.
Anche l’omessa indicazione del responsabile del procedimento
non integra un vizio di illegittimità dell’atto, ma una mera
irregolarità, dovendosi considerare responsabile del
procedimento il funzionario preposto alla struttura
amministrativa, da cui promana l’atto.
Sotto un primo profilo la ricorrente lamenta il
difetto di motivazione del provvedimento impugnato, il quale
farebbe un mero riferimento ad un precedente verbale di
sopralluogo, redatto in data 06.07.1996.
Il motivo è infondato poiché, per giurisprudenza pacifica, è
legittima un’ordinanza di rimozione, comunicata al
destinatario, senza che sia materialmente allegato il
verbale di accertamento della violazione, ancorché esso
contenga l’esplicitazione della motivazione sottesa
all'irrogazione della sanzione, poiché il concetto di
disponibilità di cui all'art. 3 L. n. 241/1990 non comporta
che l'atto amministrativo richiamato “per relationem” debba
essere unito a pena d'illegittimità al provvedimento che lo
evoca, essendo invece sufficiente che l'atto sia reso
disponibile a norma della stessa legge, cioè che esso possa
essere acquisito utilizzando il procedimento di accesso ai
documenti amministrativi (TAR Campania, Napoli, Sez. IV
16.12.2011 n. 5912).
---------------
Con un
ulteriore argomento la ricorrente deduce la violazione
dell’art. 7 L. n. 241/1990, in conseguenza della mancata
comunicazione di avvio del procedimento.
La censura è infondata poiché, per giurisprudenza unanime,
il provvedimento demolitorio di abusi edilizi costituisce
atto doveroso e vincolato nel contenuto, per cui la sua
adozione non abbisogna di essere preceduta dall'avviso di
avvio del relativo procedimento (TAR Campania, Napoli,
Sez. VII 11.01.2013 n. 255).
Anche l’omessa indicazione del responsabile del procedimento
non integra un vizio di illegittimità dell’atto, ma una mera
irregolarità, dovendosi considerare responsabile del
procedimento il funzionario preposto alla struttura
amministrativa, da cui promana l’atto (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 29.05.2013 n. 1412 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Qualora
l'entità di un deposito di materiali su un fondo, e la
stabilità di tale utilizzazione dell’area, emergano con una
certa evidenza, è da ritenersi realizzata una trasformazione
permanente dell'assetto edilizio del territorio, come tale
necessitante di concessione edilizia.
In base a quanto disposto dall’art. 7 L. n. 47/1985,
applicabile rationae temporis, le opere realizzate in
assenza di concessione edilizia, tra le quali vanno
ricomprese quelle insistenti sull’area di che trattasi,
devono essere rimosse, e non semplicemente sanzionate con
un’ammenda.
Preliminarmente,
in linea generale, deve prendersi atto che la giurisprudenza
amministrativa ha costantemente affermato che, qualora
l'entità di un deposito di materiali su un fondo, e la
stabilità di tale utilizzazione dell’area, emergano con una
certa evidenza, è da ritenersi realizzata una trasformazione
permanente dell'assetto edilizio del territorio, come tale
necessitante di concessione edilizia (TAR Lombardia,
Milano, Sez. IV, 20.12.2011 n. 3307; id., sez. II, 11.03.2010 n. 583).
In relazione a quanto precede, il Collegio prende atto che
la ricorrente non ha contestato il fatto che la concreta
entità dei materiali fosse effettivamente tale da dare luogo
ad una trasformazione del suolo, limitandosi invece a
censurare il provvedimento sotto il profilo giuridico, ciò
che consente di ritenere acquisita la valutazione effettuata
dall’Amministrazione sul punto.
Il motivo va pertanto rigettato poiché, in base a quanto
disposto dall’art. 7 L. n. 47/1985, applicabile rationae
temporis, le opere realizzate in assenza di concessione
edilizia, tra le quali vanno ricomprese quelle insistenti
sull’area di che trattasi, devono essere rimosse, e non
semplicemente sanzionate con un’ammenda, come invece
erroneamente sostenuto dalla ricorrente (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 29.05.2013 n. 1412 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: L’art.
6 della L. 24/12/1993, n. 537, pur escludendo la legittimità
di ogni rinnovo tacito dei contratti di acquisito di beni o
servizi stipulati da pubbliche amministrazioni, prevedeva la
possibilità che queste, nei tre mesi precedenti alla
scadenza, dovessero accertare la eventuale sussistenza di
ragioni di convenienza e di pubblico interesse per la
rinnovazione espressa dei contratti medesimi, comunicando al
contraente l’esito di tale valutazione.
Il secondo periodo del comma 2 della richiamata norma, che
accordava alle amministrazioni la suddetta facoltà, è stato,
tuttavia, abrogato dall’art. 23 della L. 18/04/2005, n. 62
(legge comunitaria per il 2004) il quale prevede soltanto
una facoltà di ”proroga” dei contratti scaduti per il tempo
necessario per espletare le gare ad evidenza pubblica per il
nuovo affidamento a condizione che la proroga non superi
comunque i sei mesi.
La richiamata disposizione è stata intesa dalla
giurisprudenza come ostativa ad ogni possibilità di rinnovo
contrattuale espresso.
In ordine al preteso diritto al rinnovo il
Collegio deve osservare che l’art. 6 della L. 24/12/1993, n.
537, pur escludendo la legittimità di ogni rinnovo tacito
dei contratti di acquisito di beni o servizi stipulati da
pubbliche amministrazioni, prevedeva la possibilità che
queste, nei tre mesi precedenti alla scadenza, dovessero
accertare la eventuale sussistenza di ragioni di convenienza
e di pubblico interesse per la rinnovazione espressa dei
contratti medesimi, comunicando al contraente l’esito di
tale valutazione (sul punto si veda Cons. Stato, V,
11/05/2004, n. 2961).
Il secondo periodo del comma 2 della richiamata norma, che
accordava alle amministrazioni la suddetta facoltà, è stato,
tuttavia, abrogato dall’art. 23 della L. 18/04/2005, n. 62
(legge comunitaria per il 2004) il quale prevede soltanto
una facoltà di ”proroga” dei contratti scaduti per il tempo
necessario per espletare le gare ad evidenza pubblica per il
nuovo affidamento a condizione che la proroga non superi
comunque i sei mesi.
La richiamata disposizione è stata intesa dalla
giurisprudenza come ostativa ad ogni possibilità di rinnovo
contrattuale espresso (Cons. Stato, V, 08.07.2008. n. 3391;
Cons. Stato, V, 07/04/2011, n. 6724).
La gara indetta dal Conservatorio con bando pubblicato nel
luglio 2005, ricadendo ratione temporis sotto la disciplina
introdotta dalla richiamata legge comunitaria, non poteva
discostarsene, introducendo disposizioni ad essa difformi,
sicché nulla può imputarsi all’Amministrazione, che alla
scadenza del rapporto contrattuale, anziché addivenire ad un
illegittimo rinnovo, ha ritenuto di bandire una nuova
procedura competitiva per l’affidamento del servizio
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 29.05.2013 n. 1401 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
mancata impugnazione del diniego di accesso nel termine
prescritto non consente la reiterabilità dell'istanza, né la
conseguente impugnazione del successivo diniego qualora esso
sia meramente confermativo del primo, potendo l'interessato
riproporre la domanda di accesso e pretendere riscontro alla
stessa solo in presenza di fatti nuovi, sopravvenuti o meno,
non rappresentati nell'originaria istanza o anche a fronte
di una diversa prospettazione dell'interesse giuridicamente
rilevante, cioè della posizione che legittima all'accesso.
Il ricorso è inammissibile.
L’istanza di accesso del 06.11.2012 è meramente confermativa
di quella presentata in data 05.06.2012: l’unico fatto nuovo
od elemento sopravvenuto rispetto ad essa è costituito dal
diniego di accesso alle condizioni economiche di ciascun
affidamento, nel frattempo manifestato dall’Autorità
Portuale con la nota 06.09.2012, prot. 20631 (doc. 2 delle
produzioni 21.02.2013 di A.P.G.).
Sennonché, tale (parziale) diniego non è stato
tempestivamente impugnato.
Orbene, “la mancata impugnazione del diniego di accesso
nel termine prescritto non consente la reiterabilità
dell'istanza, né la conseguente impugnazione del successivo
diniego qualora esso sia meramente confermativo del primo,
potendo l'interessato riproporre la domanda di accesso e
pretendere riscontro alla stessa solo in presenza di fatti
nuovi, sopravvenuti o meno, non rappresentati
nell'originaria istanza o anche a fronte di una diversa
prospettazione dell'interesse giuridicamente rilevante, cioè
della posizione che legittima all'accesso” (così TAR
Puglia-Lecce, II, 08.03.2012, n. 453; nello stesso senso
cfr. Cons. di St., IV, 24.01.2013, n. 428; id., V,
26.03.2012, n. 1724)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 29.05.2013 n. 852 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di tempestività dell’impugnazione di titoli edilizi
da parte di terzi, la giurisprudenza è ferma nel ritenere
che la piena conoscenza dalla quale decorre il termine
decadenziale per la proposizione dell'impugnazione va
riferita al momento dell'ultimazione dei lavori, ovvero al
momento nel quale la costruzione realizzata riveli in modo
inequivoco le caratteristiche essenziali dell'opera agli
effetti della sua eventuale difformità rispetto alla
disciplina urbanistico edilizia vigente, fermo (altresì)
restando che la prova della tardività dell'impugnazione deve
essere fornita rigorosamente e incombe, secondo le regole
generali, alla parte che la deduce.
In materia di tempestività dell’impugnazione di titoli
edilizi da parte di terzi, la giurisprudenza –anche della
Sezione– è ferma nel ritenere che la piena conoscenza dalla
quale decorre il termine decadenziale per la proposizione
dell'impugnazione va riferita al momento dell'ultimazione
dei lavori, ovvero al momento nel quale la costruzione
realizzata riveli in modo inequivoco le caratteristiche
essenziali dell'opera agli effetti della sua eventuale
difformità rispetto alla disciplina urbanistico edilizia
vigente, fermo (altresì) restando che la prova della
tardività dell'impugnazione deve essere fornita
rigorosamente e incombe, secondo le regole generali, alla
parte che la deduce (Cons. di St., IV, 07.11.2012, n. 5657;
TAR Liguria, I, 24.04.2013, n. 719) (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 29.05.2013 n. 851 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’installazione
dell’ascensore può certamente ricondursi al novero degli
interventi di manutenzione straordinaria, a patto che non
siano alterati i volumi e le superfici delle singole unità
immobiliari.
---------------
La disposizione di cui all’art. 10 del D.P.R. n. 380/2001
costituisce un principio fondamentale dell’ordinamento che
determina l’abrogazione, ex art. 10 della legge 10.02.1953,
n. 62, delle eventuali disposizioni regionali previgenti
difformi, potendo le regioni soltanto ampliare –e non
ridurre– il catalogo degli interventi sottoposti al
preventivo rilascio del permesso di costruire.
Ai fini della
corretta qualificazione dell’intervento occorre fare
riferimento all’art. 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, il
quale, alle lettere b) e d), chiarisce cosa debba intendersi
–rispettivamente- per interventi di manutenzione
straordinaria e di ristrutturazione.
In particolare, si intendono per "interventi di
manutenzione straordinaria" le opere e le modifiche
necessarie per rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre
che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità
immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di
uso.
Dunque, l’installazione dell’ascensore può certamente
ricondursi al novero degli interventi di manutenzione
straordinaria, a patto che non siano alterati i volumi e le
superfici delle singole unità immobiliari.
Nel caso di specie, invece, è pacifico e non contestato che
vi sia stato un innalzamento della parete perimetrale
(immediatamente apprezzabile dalla documentazione
fotografica di cui ai docc. 16 e 19 delle produzioni
22.03.2013 di parte ricorrente, oltreché dalla tavola “superficie
di riferimento per calcolo oneri” allegata al doc. 12
delle produzioni 21.07.2010 di parte comunale), con
conseguente incremento volumetrico dell’unità immobiliare
sottostante, sicché l’intervento non è qualificabile come “manutenzione
straordinaria”.
Come correttamente rilevato dalla difesa del ricorrente, la
errata qualificazione dell’intervento rileva ai fini del
titolo necessario alla sua realizzazione, posto che, ai
sensi dell’art. 10, comma 2, lett. c), del D.P.R. n.
380/2001, sono soggetti a permesso di costruire –e dunque
non sono realizzabili mediante D.I.A.– gli interventi di
ristrutturazione così detta “pesante”, cioè quelli
che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente e che comportino –come nel caso di
specie- modifiche del volume, della sagoma e dei prospetti.
Ed è appena il caso di precisare che la disposizione di cui
all’art. 10 del D.P.R. n. 380/2001 costituisce un principio
fondamentale dell’ordinamento (cfr. C. cost., 23.11.2011, n.
309), che determina l’abrogazione, ex art. 10 della legge
10.02.1953, n. 62, delle eventuali disposizioni regionali
previgenti difformi (Cons. di St., Ad. Plen., 07.04.2008, n.
2; TAR Liguria, I, 14.12.2012, n. 1658), potendo le regioni
soltanto ampliare –e non ridurre– il catalogo degli
interventi sottoposti al preventivo rilascio del permesso di
costruire (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 29.05.2013 n. 851 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
convalida di un provvedimento amministrativo impugnato in
sede giurisdizionale determina l'improcedibilità del ricorso
per sopravvenuta carenza d'interesse.
Occorre innanzitutto dare atto che, con l’adozione del
provvedimento di convalida n. 168/2010, è venuto meno
l’interesse all’impugnazione del provvedimento impugnato con
il ricorso introduttivo.
Difatti, la convalida di un provvedimento amministrativo
impugnato in sede giurisdizionale determina
l'improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza
d'interesse (TAR Lombardia, III, 12.12.2011, n. 3144; TAR
Marche, 05.04.1995, n. 170)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 29.05.2013 n. 850 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria,
ex art. 13 L. n. 47 del 1985 (ora art. 36 D.P.R. n. 380 del
2001, che si riferisce agli interventi “realizzati” in
assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso),
relativa soltanto a parte degli interventi abusivi
realizzati, ovvero parziale, o subordinata alla esecuzione
di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli
elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali
presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la
loro integrale conformità alla disciplina urbanistica.
---------------
Le opere di sistemazione esterna strumentali ad un edificio
principale abusivo ripetono le caratteristiche di
illegittimità dall'opera principale alla quale ineriscono,
sicché –attesa la loro unitarietà funzionale, attestata
anche dalla presentazione di un’unica istanza di sanatoria–
non sono autonomamente sanabili se, rispetto all’edificio
principale, difetta il requisito della doppia conformità.
---------------
L'obbligo di esame ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. b),
l. n. 241 del 1990 delle memorie procedimentali presentate
dal privato non impone un'analitica confutazione in merito
ad ogni argomento utilizzato dalle parti stesse, essendo
sufficiente un iter motivazionale che renda nella sostanza
percepibile la ragione del mancato adeguamento dell'azione
amministrativa alle deduzioni difensive del privato stesso.
--------------
La presentazione di un’istanza di accertamento di conformità
condiziona al più l’efficacia della precedente ordinanza di
demolizione, ma non può giammai -per il principio tempus
regit actum- costituire parametro della sua legittimità
(viepiù se non impugnata, come nel caso di specie), sicché
l'amministrazione è tenuta a mandare ad esecuzione l’ordine
di demolizione non appena abbia rigettato tale domanda.
Più precisamente, la presentazione dell’istanza di
accertamento di conformità determina un arresto
dell’efficacia della misura ripristinatoria, nel senso che
questa è soltanto sospesa, determinandosi uno stato di
temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente fine di
evitare, in caso di accoglimento dell’istanza, la
demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o
difformità dal permesso di costruire, è conforme alla
strumentazione urbanistica vigente.
Ne consegue che, in caso di accoglimento della domanda di
sanatoria, l’ordine di demolizione viene inevitabilmente
meno per il venir meno del suo presupposto, vale a dire del
carattere abusivo dell’opera realizzata, in ragione
dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso sia al momento della
presentazione della domanda.
In caso di rigetto, invece, il provvedimento sanzionatorio a
suo tempo adottato riacquista la sua efficacia –che non era
definitivamente cessata ma solo sospesa in attesa della
conclusione del nuovo iter procedimentale– con la sola
specificazione che il termine concesso per l’esecuzione
spontanea della demolizione decorre dal momento in cui il
diniego perviene a conoscenza dell’interessato, che non può
rimanere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di
legge e deve, pertanto, poter usufruire dell’intero termine
a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le
conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello
stesso.
Quanto al primo motivo si osserva che, secondo un
consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale il
collegio non vede motivo per discostarsi, non è ammissibile
il rilascio di una concessione in sanatoria, ex art. 13 L.
n. 47 del 1985 (ora art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, che si
riferisce agli interventi “realizzati” in assenza di
permesso di costruire, o in difformità da esso), relativa
soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati, ovvero
parziale, o subordinata alla esecuzione di opere, atteso che
ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali
dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la
già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale
conformità alla disciplina urbanistica (Cass. Pen., III,
14.06.2007, n. 23129).
Quanto all’estensione del diniego impugnato anche ad opere
(percorso di accesso, cancello, recinzione, muri di fascia e
scavo per la piscina) che non fanno volume né superficie, è
dirimente il rilievo che le opere di sistemazione esterna
strumentali ad un edificio principale abusivo ripetono le
caratteristiche di illegittimità dall'opera principale alla
quale ineriscono (in tal senso cfr. TAR Toscana, III,
12.06.2012, n. 1124; id., 11.01.2012, n. 25), sicché –attesa
la loro unitarietà funzionale, attestata anche dalla
presentazione di un’unica istanza di sanatoria– non sono
autonomamente sanabili se, rispetto all’edificio principale,
difetta il requisito della doppia conformità.
Quanto al secondo motivo, è sufficiente richiamare il
costante orientamento della giurisprudenza, secondo il quale
l'obbligo di esame ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. b),
l. n. 241 del 1990 delle memorie procedimentali presentate
dal privato non impone un'analitica confutazione in merito
ad ogni argomento utilizzato dalle parti stesse, essendo
sufficiente un iter motivazionale che renda nella sostanza
percepibile la ragione del mancato adeguamento dell'azione
amministrativa alle deduzioni difensive del privato stesso
(cfr., per tutte, Cons. di St., VI, 11.3.2010, n. 1439).
Il ricorso per motivi aggiunti è invece inammissibile per
difetto di interesse, attesa l’inoppugnabilità della
precedente provvedimento di ingiunzione della demolizione
delle medesime opere abusive 04.05.2007, n. 50 prot. 20907,
espressamente richiamata nel preambolo dell’atto impugnato.
Difatti, la presentazione di un’istanza di accertamento di
conformità condiziona al più l’efficacia della precedente
ordinanza di demolizione, ma non può giammai -per il
principio tempus regit actum- costituire parametro
della sua legittimità (viepiù se non impugnata, come nel
caso di specie), sicché l'amministrazione è tenuta a mandare
ad esecuzione l’ordine di demolizione non appena abbia
rigettato tale domanda (così TAR Lazio, I, 09.07.2012, n.
6197; TAR Liguria, I, 11.07.2011, n. 1084).
Più precisamente, la presentazione dell’istanza di
accertamento di conformità determina un arresto
dell’efficacia della misura ripristinatoria, nel senso che
questa è soltanto sospesa, determinandosi uno stato di
temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente fine di
evitare, in caso di accoglimento dell’istanza, la
demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o
difformità dal permesso di costruire, è conforme alla
strumentazione urbanistica vigente (cfr., tra le tante, TAR
Campania, II Sezione, 04.02.2005, n. 816 e 13.07.2004, n.
10128).
Ne consegue che, in caso di accoglimento della domanda di
sanatoria, l’ordine di demolizione viene inevitabilmente
meno per il venir meno del suo presupposto, vale a dire del
carattere abusivo dell’opera realizzata, in ragione
dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso sia al momento della
presentazione della domanda.
In caso di rigetto, invece, il provvedimento sanzionatorio a
suo tempo adottato riacquista la sua efficacia –che non era
definitivamente cessata ma solo sospesa in attesa della
conclusione del nuovo iter procedimentale– con la sola
specificazione che il termine concesso per l’esecuzione
spontanea della demolizione decorre dal momento in cui il
diniego perviene a conoscenza dell’interessato, che non può
rimanere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di
legge e deve, pertanto, poter usufruire dell’intero termine
a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le
conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello
stesso (così TAR Campania-Napoli, II, 02.03.2010, n. 1259;
TAR Liguria, I, 05.02.2011, n. 226)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 29.05.2013 n. 848 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
nostro ordinamento, ai sensi del noto art. 19 della
Costituzione, nessun soggetto può ordinare ad altro, in
sintesi estrema, di non pregare a casa propria.
Identico precetto, va aggiunto per completezza, si desume
dall’ordinamento europeo, cui ai sensi degli artt. 11 e 117
Cost. il nostro si conforma: in primo luogo, la libertà di
religione e di culto è riconosciuta anche dall’art. 9 della
Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, esecutiva in
Italia per la l. 04.08.1955 n. 848; in secondo luogo, la
libertà di religione è riconosciuta anche dall’art. 10 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, o Carta
di Nizza, 07.12.2000, che come è noto ha ora il
medesimo valore giuridico dei Trattati europei, ai sensi
dell’art. 6 del Trattato di Lisbona 13.12.2007.
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Il Comune è senz’altro titolare dell’astratto potere di
sanzionare l’uso di un locale difforme dalla destinazione,
ma che nel caso di specie l’uso difforme non può essere
identificato con il mero fatto che nel locale si svolga la
preghiera, del venerdì o di altra ricorrenza. Infatti, come
risulta dalla giurisprudenza già richiamata e dalla prassi,
per ravvisare la presenza di una moschea in senso rilevante
per le norme edilizie e urbanistiche sono necessari due
requisiti, l’uno intrinseco, dato dalla presenza di
determinati arredi e paramenti sacri, l’altro estrinseco,
dato dal dover accogliere “tutti coloro che vogliano
pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali o alle
attività in essi svolte” e “consentire la pratica del culto
a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e donne, di
qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o sciita, o
nazionalità essi siano”.
Allo stesso modo, si ribadisce, una chiesa consacrata nei
termini della religione cattolica, e anche di altri culti,
può esistere anche all’interno di una proprietà privata
-come nel caso delle cappelle gentilizie, di conventi o di
istituti, dove è ben possibile dir regolarmente Messa- ma
non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non
permetta il libero accesso dei fedeli. Pertanto, l’uso
incompatibile potrebbe verificarsi nel caso in cui l’accesso
per la libera attività di preghiera fosse non riservato ai
membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in
quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico
urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di
costruire, fermo che ciò dovrebbe essere in concreto
accertato dall’autorità, attraverso una corretta e completa
istruttoria.
... per l’annullamento, previa sospensione, del
provvedimento 24.09.2012 prot. n. 3329 e n. 54/2012 del
registro ordinanze, notificato il 01.10.2012, con il quale
il Responsabile dell’area tecnica del Comune di Cologne ha
ingiunto all’Associazione Dialogo e Convivenza il divieto di
effettuare attività di culto (preghiera del venerdì) presso
il locale seminterrato del condominio Edera, sito in Cologne
alla via ..., a decorrere dalla data di notifica;
...
Ciò posto, va ribadito il rilievo valorizzato per cui nel
nostro ordinamento, ai sensi del noto art. 19 della
Costituzione, nessun soggetto può ordinare ad altro, in
sintesi estrema, di non pregare a casa propria. Identico
precetto, va aggiunto per completezza, si desume
dall’ordinamento europeo, cui ai sensi degli artt. 11 e 117
Cost. il nostro si conforma: in primo luogo, la libertà di
religione e di culto è riconosciuta anche dall’art. 9 della
Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, esecutiva in
Italia per la l. 04.08.1955 n. 848; in secondo luogo, la
libertà di religione è riconosciuta anche dall’art. 10 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, o Carta
di Nizza, 07.12.2000, che come è noto ha ora il
medesimo valore giuridico dei Trattati europei, ai sensi
dell’art. 6 del Trattato di Lisbona 13.12.2007.
In tal senso, la difesa del Comune intimato ha continuato
a fondarsi su un presupposto diverso, che però all’evidenza
non può ricavarsi a fronte di un dispositivo del
provvedimento che dice altro. Il Comune deduce infatti che
il locale per cui è causa, legittimamente adibito a sede
dell’associazione ricorrente, sarebbe in fatto adibito ad
altro uso, a sede dedicata di culto islamico ovvero a
moschea, uso per il quale, a differenza che per la sede di
una associazione, è richiesto il permesso di costruire ai
sensi dell’art. 52, comma 3-ter, della l.r. Lombardia 12/2005,
nella specie mancante.
In tal senso, deve allora osservarsi che il Comune è
senz’altro titolare dell’astratto potere di sanzionare l’uso
di un locale difforme dalla destinazione, ma che nel caso di
specie l’uso difforme non può essere identificato con il
mero fatto che nel locale si svolga la preghiera, del
venerdì o di altra ricorrenza. Infatti, come risulta dalla
giurisprudenza già richiamata e che qui si riproduce –in tal
senso C.d.S., sez. IV, 28.01.2011, n. 683- e dalla
prassi, che pure si torna a citare –in tal senso il parere
al Ministero dell’Interno espresso il 27.01.2011 dal
Comitato per l’Islam italiano- per ravvisare la presenza di
una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e
urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco,
dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri,
l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro
che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali
o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del
culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e
donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o
sciita, o nazionalità essi siano” (così il parere stesso).
Allo stesso modo, si ribadisce, una chiesa consacrata nei
termini della religione cattolica, e anche di altri culti,
può esistere anche all’interno di una proprietà privata
-come nel caso delle cappelle gentilizie, di conventi o di
istituti, dove è ben possibile dir regolarmente Messa- ma
non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non
permetta il libero accesso dei fedeli. Pertanto, l’uso
incompatibile potrebbe verificarsi nel caso in cui l’accesso
per la libera attività di preghiera fosse non riservato ai
membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in
quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico
urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di
costruire, fermo che ciò dovrebbe essere in concreto
accertato dall’autorità, attraverso una corretta e completa
istruttoria.
Va quindi accolta la domanda di annullamento del
provvedimento 24.09.2012 prot. n. 3329 per cui è causa, e
rimane da scrutinare se vada accolta la contestuale domanda
risarcitoria, che è espressamente qualificata (ricorso, p. 9
settimo rigo dal basso) come relativa a un danno non
patrimoniale da liquidare secondo equità
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 29.05.2013 n. 522 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
CONSULTA/ Illegittime le soglie dell'art. 15
della Comunitaria 2009. Case, rumore off-limits. Requisiti
acustici obbligatori per i costruttori.
Case al riparo dall'inquinamento acustico. Bocciata la norma
che neutralizzava retroattivamente, nei rapporti tra
privati, la conformità degli edifici ai requisiti previsti
dalla normativa anti-rumore.
È quanto deciso dalla Corte costituzionale con la
sentenza 29.05.2013 n. 103 che
ha dichiarato l'illegittimità dell'articolo 15, comma 1,
lett. c), della legge comunitaria 2009.
La norma, sostituendo l'articolo 11, comma 5, della legge
comunitaria 2008, ha stabilito che, in attesa
dell'emanazione dei decreti legislativi attuativi della
legge 447/1995, legge quadro sull'inquinamento acustico,
l'articolo 3, comma 1, lett. e), della medesima legge 447
(relativa ai requisiti acustici degli edifici), doveva
essere interpretata nel senso che la disciplina relativa ai
requisiti acustici passivi degli edifici e dei loro
componenti non trovava applicazione nei rapporti tra privati
e, in particolare, nei rapporti tra costruttori anche
venditori e acquirenti di alloggi.
In un primo momento l'azzeramento della rilevanza dei
requisiti tra privati, era stata stabilita solo per il
futuro (articolo 11 della legge comunitaria del 2008), ma
successivamente l'articolo 15 della legge comunitaria del
2009 ha esteso a ritroso l'inapplicabilità ai privati.
Quindi, con la normativa del 2009 non è stato più possibile
continuare a pretendere dai costruttori il rispetto dei
requisiti acustici.
Il problema di costituzionalità è emerso, non a caso,
proprio nel corso di una causa tra un costruttore e
l'acquirente di una abitazione. Quest'ultimo ha fatto causa
all'appaltatore per ottenere i risarcimento del danni per il
difetto dell'immobile, consistente proprio nel mancato
rispetto dei requisiti acustici passivi degli edifici
fissati dal dpcm sulla determinazione dei requisiti acustici
passivi degli edifici, risalite al 05.12.1997.
Questo decreto ha determinato i requisiti acustici passivi e
quelli delle sorgenti sonore interne agli edifici, al fine
di ridurre l'esposizione umana al rumore. Prescrive inoltre,
i limiti espressi in decibel, che gli edifici costruiti dopo
la sua entrata in vigore devono rispettare. La norma della
legge del 2009, oggetto della verifica di costituzionalità,
ha bloccato retroattivamente, autodefinendosi di
interpretazione autentica, l'applicazione del dpcm
05.12.1997 nei rapporti tra privati. Il mancato rispetto dei
valori di isolamento acustico quindi, di cui al dpcm citato,
non ha più potuto essere invocato a sostegno di una
richiesta di risarcimento dei danni.
La disposizione è stata portata al vaglio della consulta
perché, tra le altre cose, pur dichiarandosi interpretativa
è, in realtà, innovativa. Inoltre, viola il principio di
uguaglianza, in quanto produce una ingiustificata disparità
di trattamento tra coloro che hanno già conseguito un
risarcimento a fronte dell'acquisto di un immobile
acusticamente viziato e coloro che, pur trovandosi nella
stessa situazione, non possano, invece, più conseguirlo. Tra
l'altro non si capisce perché la norma in questione, pur non
abrogando il dpcm 05.01.1997 nei rapporti pubblicistici,
nello stesso tempo lo disapplica ai rapporti tra privati. La
conseguenza, è infatti che non vengono tutelati i diritti
del cittadino che acquista l'unità abitativa.
La consulta, nel dichiarare incostituzionale la norma, ha
anche rilevato che la stessa incide su rapporti ancora in
corso e vanifica il legittimo affidamento di coloro che
hanno acquistato beni immobili nel periodo nel quale vigeva
ancora la norma della Comunitaria del 2008, la quale
specificava che la sospensione dell'applicazione nei
rapporti tra privati delle norme sull'inquinamento acustico
degli edifici valesse per il futuro, in riferimento agli
alloggi sorti successivamente
(articolo
ItaliaOggi del 30.05.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
La svolta. La Consulta. Il costruttore paga
l'edificio rumoroso.
STOP ALLA RETROATTIVITÀ/ Per la Consulta è illegittima la
legge che aveva sanato gli immobili realizzati tra il 1997 e
il 2009.
Via libera alla responsabilità del costruttore per gli
edifici "rumorosi" realizzati tra la fine del 1997 e il
luglio del 2009.
La Corte Costituzionale, con la
sentenza
29.05.2013 n. 103
ha infatti dichiarato
l'illegittimità della Comunitaria per il 2009 (legge
96/2010) nella parte in cui sanava gli immobili non in linea
con i parametri di isolamento acustico edificati prima
dell'entrata in vigore della legge 88/2009 (Comunitaria per
il 2008).
La questione era stata rimessa alla Consulta dal Tribunale
di Busto Arsizio, che nel febbraio dello scorso anno aveva
rilevato varie ipotesi di iniquità nella causa per «difetti
di immobili» (articolo 1669 del Codice civile) intentata
all'immobiliare venditrice dall'acquirente di un
appartamento. In particolare, la controversia riguardava il
mancato isolamento acustico della facciata –o meglio, il
mancato rispetto dei parametri tecnici del Dpcm 05.12.1997–
visto che tutti gli altri limiti di rumorosità
dell'edificio, compresi quelli interni dei servizi e delle
parti confinanti, non erano mai stati in discussione.
Dal punto di vista legislativo, la vicenda risultava
complicata dall'intervento "interpretativo" della
Comunitaria per il 2009 (legge 96/2010), che tornando a un
anno di distanza a regolamentare la "questione rumore",
aveva specificato che l'esclusione dei parametri di
silenziosità nei contratti tra privati (già prevista dalla
Comunitaria per il 2008, legge 88/2009) era da considerarsi
«retroattiva». Con questo intervento autodefinito «interpretativo»
il legislatore aveva sanato tutte le compravendite tra
privati concluse tra il dicembre del 1997 e il 20.07.2009.
Ma è proprio sul carattere «interpretativo» della
legge 96/2010 che si è abbattuta la scure costituzionale,
perché «la norma che deriva dalla legge di
interpretazione autentica –scrive il redattore della
sentenza, Sergio Mattarella– non può dirsi
costituzionalmente illegittima qualora si limiti ad
assegnare alla disposizione interpretata un significato già
in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili
letture del testo originario». In sostanza, la legge
interpretativa ha lo scopo di chiarire «situazioni di
oggettiva incertezza del dato normativo», in ragione di
«un dibattito giurisprudenziale irrisolto» (sentenza
311 del 2009), o di «ristabilire un'interpretazione più
aderente alla originaria volontà del legislatore».
L'articolo in questione, invece, aveva di fatto introdotto
una retroattività che non solo non era prevista in alcuna
parte, ma di cui non c'era traccia nemmeno nei lavori
parlamentari né era rinvenibile «dal suo intrinseco
contenuto normativo».
Non ultimo –considerato che è poi la ragione giuridica della
incostituzionalità– la Comunitaria 2010 aveva creato una
ingiustificata disparità tra chi aveva già ottenuto con
sentenza definitiva (come tale intangibile) il risarcimento
"per rumorosità" dal costruttore e chi invece ne
veniva privato con una legge retroattiva.
Resta invece fuori dal perimetro della sentenza –e quindi
fuori discussione– che la legge antirumore non si applica ai
contratti tra privati stipulati dopo il luglio del 2009 e
fino all'atteso riordino della materia
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.05.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
INQUINAMENTO ACUSTICO – Procedimento di
formazione delle leggi – Divieto di retroattività – Norme di
interpretazione autentica – Principi giustificativi della
retroattività.
Il divieto di retroattività della legge, previsto dall’art.
11 delle disposizioni sulla legge in generale, pur
costituendo valore fondamentale di civiltà giuridica, non
riceve nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui
all’art. 25 Cost. (sentenze n. 78 e n. 15 del 2012, n. 236
del 2011, e n. 393 del 2006); il legislatore –nel rispetto
di tale previsione– può emanare norme retroattive, anche di
interpretazione autentica, purché la retroattività trovi
adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi,
diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono
altrettanti «motivi imperativi di interesse generale», ai
sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali (CEDU).
La norma che deriva dalla legge di interpretazione
autentica, quindi, non può dirsi costituzionalmente
illegittima qualora si limiti ad assegnare alla disposizione
interpretata un significato già in essa contenuto,
riconoscibile come una delle possibili letture del testo
originario (ex plurimis: sentenze n. 271 e n. 257 del
2011, n. 209 del 2010 e n. 24 del 2009). In tal caso,
infatti, la legge interpretativa ha lo scopo di chiarire «situazioni
di oggettiva incertezza del dato normativo», in ragione di
«un dibattito giurisprudenziale irrisolto» (sentenza n.
311 del 2009), o di «ristabilire un’interpretazione più
aderente alla originaria volontà del legislatore»
(ancora sentenza n. 311 del 2009), a tutela della certezza
del diritto e dell’eguaglianza dei cittadini, cioè di
principi di preminente interesse costituzionale.
INQUINAMENTO ACUSTICO – Art. 3, c. 1,
lett. e) L. n. 447/1995 – Requisiti acustici passivi degli
edifici – Art. 15, c. 1, lett. c), L. n. 96/2010 – Norma di
interpretazione autentica – Illegittimità costituzionale.
L’art. 15, c. 1, lettera c), della legge 04.06.2010, n. 96,
sostitutivo dell’art. 11, comma 5, della legge 07.07.2009,
n. 88, seppure formulato quale norma di interpretazione
autentica dell’art. 3, c. 1, lett. e), della L. n. 447/1995,
non interviene ad assegnare alla disposizione interpretata
un significato già in questa contenuto, «riconoscibile
come una delle possibili letture del testo originario»,
al fine di chiarire «situazioni di oggettiva incertezza
del dato normativo» in ragione di «un dibattito
giurisprudenziale irrisolto» o di «ristabilire
un’interpretazione più aderente alla originaria volontà del
legislatore» a tutela della certezza del diritto e degli
altri principi costituzionali richiamati.
La norma “interpretata” disciplina infatti la
modalità di esercizio della competenza statale nella
individuazione dei requisiti acustici degli edifici,
regolando il procedimento per l’adozione del relativo
d.P.C.M., ma non considera in alcun modo i riflessi di tali
disposizioni nei rapporti tra privati. La retroattività
della disposizione impugnata non trova inoltre
giustificazione nella tutela di «principi, diritti e beni
di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti
“motivi imperativi di interesse generale”, ai sensi della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU)».
Al contrario, la norma, oltre a ledere il legittimo
affidamento sorto in coloro che hanno acquistato beni
immobili nel periodo nel quale vigeva ancora la norma “sostituita”,
di cui all’art. 11, comma 5, della legge n. 88 del 2009,
contrasta con il principio di ragionevolezza, in quanto
produce disparità di trattamento tra gli acquirenti di
immobili in assenza di alcuna giustificazione, e favorisce
una parte a scapito dell’altra, incidendo retroattivamente
sull’obbligo dei privati, in particolare dei
costruttori-venditori, di rispettare i requisiti acustici
degli edifici stabiliti dal d.P.C.M. 02.12.1997, di
attuazione dell’art. 3, comma 1, lettera e), della legge n.
447 del 1995. La norma deve quindi essere dichiarata
costituzionalmente illegittima (Corte Costituzionale,
sentenza 29.05.2013 n. 103 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Illegittime le soglie dell'art. 15 della Comunitaria 2009.
Case, rumore off-limits. Requisiti acustici obbligatori per
i costruttori.
Case al riparo dall'inquinamento acustico. Bocciata la norma
che neutralizzava retroattivamente, nei rapporti tra
privati, la conformità degli edifici ai requisiti previsti
dalla normativa anti-rumore.
Va dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 15, comma 1, lettera c), della
legge 04.06.2010, n. 96 (Disposizioni per l’adempimento di
obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle
Comunità Europee. Legge comunitaria 2009), sostitutivo
dell’art. 11, comma 5, della legge 07.07.2009, n. 88
(Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti
dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee. Legge
comunitaria 2008).
Nel merito, la questione è fondata.
Questa Corte ha ripetutamente affermato che il divieto di
retroattività della legge, previsto dall’art. 11 delle
disposizioni sulla legge in generale, pur costituendo valore
fondamentale di civiltà giuridica, non riceve
nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25
Cost. (sentenze n. 78 e n. 15 del 2012, n. 236 del 2011, e
n. 393 del 2006), e che «il legislatore –nel rispetto di
tale previsione– può emanare norme retroattive, anche di
interpretazione autentica, purché la retroattività trovi
adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi,
diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono
altrettanti «motivi imperativi di interesse generale»,
ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali (CEDU). La norma che deriva dalla
legge di interpretazione autentica, quindi, non può dirsi
costituzionalmente illegittima qualora si limiti ad
assegnare alla disposizione interpretata un significato già
in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili
letture del testo originario (ex plurimis: sentenze
n. 271 e n. 257 del 2011, n. 209 del 2010 e n. 24 del 2009).
In tal caso, infatti, la legge interpretativa ha lo scopo di
chiarire «situazioni di oggettiva incertezza del dato
normativo», in ragione di «un dibattito
giurisprudenziale irrisolto» (sentenza n. 311 del 2009),
o di «ristabilire un’interpretazione più aderente alla
originaria volontà del legislatore» (ancora sentenza n.
311 del 2009), a tutela della certezza del diritto e
dell’eguaglianza dei cittadini, cioè di principi di
preminente interesse costituzionale. Accanto a tale
caratteristica, questa Corte ha individuato una serie di
limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi,
attinenti alla salvaguardia, oltre che dei principi
costituzionali, di altri fondamentali valori di civiltà
giuridica, posti a tutela dei destinatari della norma e
dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il
rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si
riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità
di trattamento; la tutela dell’affidamento legittimamente
sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di
diritto; la coerenza e la certezza dell’ordinamento
giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente
riservate al potere giudiziario (sentenza n. 209 del 2010,
citata, punto 5.1, del Considerato in diritto).
La norma impugnata nel presente giudizio travalica i limiti
individuati dalla giurisprudenza della Corte ora richiamata.
Innanzitutto, seppure formulata quale norma di
interpretazione autentica, essa non interviene ad assegnare
alla disposizione interpretata un significato già in questa
contenuto, «riconoscibile come una delle possibili letture
del testo originario», al fine di chiarire «situazioni di
oggettiva incertezza del dato normativo» in ragione di «un
dibattito giurisprudenziale irrisolto» o di «ristabilire
un’interpretazione più aderente alla originaria volontà del
legislatore» a tutela della certezza del diritto e degli
altri principi costituzionali richiamati.
La ricostruzione del quadro normativo nel quale si inserisce
la disposizione censurata conferma questa conclusione. La
norma “interpretata” [art. 3, comma 1, lettera e),
della legge n. 447 del 1995] disciplina infatti la modalità
di esercizio della competenza statale nella individuazione
dei requisiti acustici degli edifici, regolando il
procedimento per l’adozione del relativo d.P.C.M., ma non
considera in alcun modo i riflessi di tali disposizioni nei
rapporti tra privati. La successiva disposizione innovativa
contenuta nell’art. 11, comma 5, della legge n. 88 del 2009,
ha stabilito che «In attesa del riordino della materia,
la disciplina relativa ai requisiti acustici passivi degli
edifici e dei loro componenti di cui all’art. 3, comma 1,
lettera e), della legge 26 ottobre 1995, n. 447, non trova
applicazione nei rapporti tra privati e, in particolare, nei
rapporti tra costruttori-venditori e acquirenti di alloggi
sorti successivamente alla data di entrata in vigore della
presente legge». Infine, la norma impugnata, sostituendo
quest’ultima disposizione, è formulata quale norma
interpretativa, ad effetto retroattivo, dell’art. 3, comma
1, lettera e), della legge n. 447 del 1995, che, come si è
visto, attiene all’attribuzione della competenza statale
nella materia, ma non riguarda i rapporti tra privati.
In particolare, questa Corte ha affermato che «per quanto
attiene alle norme che pretendono di avere natura meramente
interpretativa, la palese erroneità di tale
auto-qualificazione, ove queste non si limitino ad assegnare
alla disposizione interpretata un significato già in essa
contenuto e riconoscibile come una delle possibili letture
del testo originario, potrà costituire un indice di
manifesta irragionevolezza» (ex plurimis,
sentenze n. 41 del 2011, n. 234 del 2007, n. 274 del 2006).
In secondo luogo, la retroattività della disposizione
impugnata non trova giustificazione nella tutela di «principi,
diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono
altrettanti “motivi imperativi di interesse generale”, ai
sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali (CEDU)».
Una tale finalità della disposizione censurata non emerge né
dai lavori parlamentari, né dal suo intrinseco contenuto
normativo. Tale contenuto viene ad incidere su rapporti
ancora in corso, vanificando il legittimo affidamento di
coloro che hanno acquistato beni immobili nel periodo nel
quale vigeva ancora la norma “sostituita”, di cui
all’art. 11, comma 5, della legge n. 88 del 2009, che, a
tutela di tale affidamento e della certezza del diritto,
specificava che la sospensione dell’applicazione nei
rapporti tra privati delle norme sull’inquinamento acustico
degli edifici valesse per il futuro, in riferimento agli «alloggi
sorti successivamente alla data di entrata in vigore della
presente legge».
Al contrario, la norma impugnata, oltre a ledere il
legittimo affidamento sorto nei soggetti suddetti, contrasta
con il principio di ragionevolezza, in quanto produce
disparità di trattamento tra gli acquirenti di immobili in
assenza di alcuna giustificazione, e favorisce una parte a
scapito dell’altra, incidendo retroattivamente sull’obbligo
dei privati, in particolare dei costruttori-venditori, di
rispettare i requisiti acustici degli edifici stabiliti dal
d.P.C.M. 02.12.1997, di attuazione dell’art. 3, comma 1,
lettera e), della legge n. 447 del 1995.
Di conseguenza la questione sollevata è fondata, e la norma
censurata deve essere dichiarata costituzionalmente
illegittima, a causa della violazione dell’art. 3 Cost.,
restando assorbite le censure prospettate in riferimento
agli altri parametri costituzionali invocati.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 15, comma 1, lettera c), della legge 04.06.2010,
n. 96 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti
dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee. Legge
comunitaria 2009), sostitutivo dell’art. 11, comma 5, della
legge 07.07.2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di
obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle
Comunità Europee. Legge comunitaria 2008)
(Corte Costituzionale,
sentenza
29.05.2013 n. 103). |
URBANISTICA:
L’art. 14 della
legge reg. Lombardia n. 5 del 2007 −nel prevedere misure di
salvaguardia per la zona dell’aeroporto di Montichiari in
contrasto con il principio fondamentale stabilito al
riguardo dall’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001−
è costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art.
117, terzo comma, Cost. in materia di governo del
territorio.
Va dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’articolo 14 della legge della Regione
Lombardia 27.02.2007, n. 5 (Interventi normativi per
l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e
integrazione di disposizioni legislative – Collegato
ordinamentale 2007), come risultante a seguito delle
modifiche introdotte, successivamente, dall’art. 1, comma 8,
lettera a), della legge della Regione Lombardia 31.03.2008,
n. 5 (Interventi normativi per l’attuazione della
programmazione regionale e di modifica e integrazione di
disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2008),
dall’art. 4 della legge della Regione Lombardia 23.12.2008,
n. 33, recante «Disposizioni per l’attuazione del documento
di programmazione economico-finanziaria regionale, a sensi
dell’articolo 9-ter della legge regionale 31.03.1978, n. 34
(Norme sulla procedura della programmazione, sul bilancio e
sulla contabilità della Regione – Collegato 2009)», e
dall’art. 23 della legge della Regione Lombardia 05.02.2010,
n. 7 (Interventi normativi per l’attuazione della
programmazione regionale e di modifica e integrazione di
disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2010).
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Relativamente all’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del
2001, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che la
disciplina sulle misure di salvaguardia di cui al citato
art. 12, comma 3, del T.U. edilizia, abbia una valenza
mista: edilizia, in quanto è volta ad incidere sui
tempi dell’attività edificatoria, ed urbanistica, in
quanto finalizzata alla salvaguardia, in definiti ambiti
temporali, degli assetti urbanistici in itinere e, medio
tempore, dell’ordinato assetto del territorio.
Si tratta di una valutazione condivisibile, da cui consegue,
secondo consolidata giurisprudenza costituzionale, che
l’urbanistica e l’edilizia devono essere ricondotte alla
materia «governo del territorio», di cui all’art. 117, terzo
comma, Cost., materia di legislazione concorrente in cui lo
Stato ha il potere di fissare i principi fondamentali,
spettando alle Regioni il potere di emanare la normativa di
dettaglio.
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L’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 avendo
recepito i contenuti sostanziali dell’articolo unico della
legge 03.11.1952, n. 1902 (Misure di salvaguardia in
pendenza dell’approvazione dei piani regolatori), esprime il
principio secondo cui le amministrazioni debbono definire in
tempi congrui l’iter procedimentale conseguente all’adozione
degli strumenti urbanistici generali con il loro tempestivo
invio agli organi deputati alla loro approvazione.
In conseguenza, quindi, di quanto questa Corte ha affermato
con la sentenza n. 402 del 2007, ed a prescindere dall’autodefinizione
(in questo caso corretta) di norme di principio che le
disposizioni del Testo unico dell’edilizia danno della
normativa in esso contenuta, anche all’art. 12, comma 3, del
d.P.R. n. 380 del 2001 deve essere riconosciuto il valore di
norma statale di principio in materia di governo del
territorio, di cui all’art. 117, terzo comma, Cost..
3.– Nel
merito, in relazione alla violazione dell’art. 117, terzo
comma, Cost., la questione è fondata.
3.1.– Come già ricordato, il TAR per la Lombardia ritiene
che la norma regionale denunciata –emanata dal legislatore
regionale nell’esercizio della competenza concorrente in
materia di governo del territorio– prevedendo una durata
temporale delle misure di salvaguardia eccedente quella
fissata dalla norma nazionale (art. 12, comma 3, del d.P.R.
n. 380 del 2001), violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost.
3.1.1.– L’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001,
infatti, stabilisce che: «In caso di contrasto
dell’intervento oggetto della domanda di permesso di
costruire con le previsioni di strumenti urbanistici
adottati, è sospesa ogni determinazione in ordine alla
domanda. La misura di salvaguardia non ha efficacia decorsi
tre anni dalla data di adozione dello strumento urbanistico,
ovvero cinque anni nell’ipotesi in cui lo strumento
urbanistico sia stato sottoposto all’amministrazione
competente all’approvazione entro un anno dalla conclusione
della fase di pubblicazione».
La ratio della normativa statale, quindi, è quella di
evitare che la non ancora intervenuta approvazione da parte
della Regione, o comunque di altra autorità competente, di
eventuali previsioni di non edificabilità previste dal piano
in vigore consenta ai proprietari delle aree interessate di
realizzare nuove costruzioni nel periodo intercorrente tra
la predisposizione di un nuovo piano e l’approvazione di
questo da parte della Regione, in tal modo eludendo, durante
tale fase, le stesse previsioni contenute nel progettato
nuovo piano. L’adozione del piano, pertanto, ha funzione
cautelativa nei riguardi di quei progetti che non si
conformano allo stesso: da ciò deriva che l’effetto di
salvaguardia previsto dal comma 3 dell’art. 12 del d.P.R. n.
380 del 2001, è strettamente collegato all’adozione del
piano, cioè dello strumento urbanistico modificativo della
precedente previsione.
4.– Lo stesso legislatore regionale, con l’art. 36, comma 4,
della legge reg. n. 12 del 2005, ha modificato il termine
massimo di efficacia delle misure di salvaguardia
adeguandolo a quello previsto dal legislatore statale (tre
anni dall’adozione dello strumento urbanistico, ovvero
cinque anni nell’ipotesi in cui questo sia stato sottoposto
all’amministrazione competente per la approvazione entro un
anno dalla conclusione della fase di pubblicazione),
seguendo, peraltro, l’orientamento stabilito dalla
giurisprudenza amministrativa, la quale, pronunciandosi in
casi analoghi, ha ritenuto che dovrebbero trovare
applicazione in via residuale «gli stessi limiti di
validità temporanea del potere di salvaguardia fissati, in
sede nazionale, dall’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del
2001» (Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza n. 3834
del 2005).
Infatti, con il sopra citato art. 36, comma 4, si è
stabilito che «Sino all’adozione degli atti di PGT
secondo quanto previsto nella parte prima della presente
legge, in caso di contrasto dell’intervento oggetto della
domanda di permesso di costruire con le previsioni degli
strumenti urbanistici adottati, è sospesa ogni
determinazione in ordine alla domanda stessa. La misura di
salvaguardia non ha efficacia decorsi tre anni dalla data di
adozione dello strumento urbanistico, ovvero cinque anni
nell’ipotesi in cui lo strumento urbanistico sia stato
sottoposto all’amministrazione competente per la
approvazione entro un anno dalla conclusione della fase di
pubblicazione».
4.1. – Relativamente all’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380
del 2001, è opportuno sottolineare che la giurisprudenza
amministrativa (in particolare il Consiglio di Stato, Ad.
Plenaria, con la sentenza n. 2 del 2008) ha ritenuto che la
disciplina sulle misure di salvaguardia di cui al citato
art. 12, comma 3, del T.U. edilizia, abbia una valenza
mista: edilizia, in quanto è volta ad incidere sui
tempi dell’attività edificatoria, ed urbanistica, in
quanto finalizzata alla salvaguardia, in definiti ambiti
temporali, degli assetti urbanistici in itinere e, medio
tempore, dell’ordinato assetto del territorio.
Si tratta di una valutazione condivisibile, da cui consegue,
secondo consolidata giurisprudenza costituzionale, che
l’urbanistica e l’edilizia devono essere ricondotte alla
materia «governo del territorio», di cui all’art.
117, terzo comma, Cost., materia di legislazione concorrente
in cui lo Stato ha il potere di fissare i principi
fondamentali, spettando alle Regioni il potere di emanare la
normativa di dettaglio (da ultimo, ordinanza n. 314 del
2012; sentenza n. 309 del 2011, vedi anche sentenze n. 362 e
n. 303 del 2003).
4.1.1.– Nella sentenza di questa Corte n. 402 del 2007 si è
precisato come il d.P.R. n. 380 del 2001 –in relazione a
quanto disposto dall’art. 1, comma 1, nonché dai commi 1 e 3
dell’art. 2 del medesimo d.P.R.– costituisca disciplina
recante i principi fondamentali e generali in materia di
attività edilizia, ai quali il legislatore regionale deve
attenersi.
Infatti, l’art. 1, comma 1, del T.U. dell’edilizia, prevede
che: «il presente testo unico contiene i principi
fondamentali e generali e le disposizioni per la disciplina
dell’attività edilizia»; mentre i commi 1 e 3 dell’art.
2, rispettivamente, stabiliscono che: «le regioni
esercitano la potestà legislativa concorrente in materia
edilizia nel rispetto dei principi fondamentali della
legislazione statale desumibili dalle disposizioni contenute
nel testo unico» e che «le disposizioni, anche di dettaglio,
del presente testo unico, attuative dei principi di riordino
in esso contenuti, operano direttamente nei riguardi delle
regioni a statuto ordinario, fino a quando esse non si
adeguano ai principi medesimi».
Inoltre, l’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001
–come puntualizza anche il Consiglio di Stato nella
ricordata sentenza– avendo recepito i contenuti sostanziali
dell’articolo unico della legge 03.11.1952, n. 1902 (Misure
di salvaguardia in pendenza dell’approvazione dei piani
regolatori), esprime il principio secondo cui le
amministrazioni debbono definire in tempi congrui l’iter
procedimentale conseguente all’adozione degli strumenti
urbanistici generali con il loro tempestivo invio agli
organi deputati alla loro approvazione.
In conseguenza, quindi, di quanto questa Corte ha affermato
con la sentenza n. 402 del 2007, ed a prescindere dall’autodefinizione
(in questo caso corretta) di norme di principio che le
disposizioni del Testo unico dell’edilizia danno della
normativa in esso contenuta, anche all’art. 12, comma 3, del
d.P.R. n. 380 del 2001 deve essere riconosciuto il valore di
norma statale di principio in materia di governo del
territorio, di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.
L’illegittimità della legislazione regionale, quando la
stessa viola i principi fondamentali espressi dalla
legislazione statale nella materia governo del territorio, è
stata più volte dichiarata da questa Corte (sentenze n. 309
del 2011, n. 341 del 2010, n. 340 del 2009 e n. 271 del
2008).
4.1.2.– La disposizione regionale impugnata –pur perseguendo
finalità proprie delle misure di salvaguardia, cioè impedire
quei cambiamenti degli assetti urbanistici ed edilizi, che
potrebbero contrastare con le nuove previsioni
pianificatorie, in pendenza della loro approvazione– si
discosta da quanto previsto dall’art. 12, comma 3, del
d.P.R. n. 380 del 2001. Essa non correlerebbe l’applicazione
di misure di salvaguardia all’intervenuta adozione di un
piano urbanistico, essendo la deliberazione della Giunta
regionale della Lombardia n. IX/1812, avente ad oggetto l’«Adozione
della proposta di Piano territoriale regionale d’area
“Aeroporto di Montichiari”» (ex artt. 20 e 21 della
legge reg. n. 12 del 2005) intervenuta in periodo
notevolmente successivo all’entrata in vigore della
normativa impugnata.
Inoltre, la stessa, come già sottolineato, in luogo di una
mera sospensione della decisione in ordine al rilascio dei
permessi edificatori, come stabilito dall’art. 12, comma 3,
del d.P.R. n. 380 del 2001, prevede un vero e proprio
divieto di realizzazione di nuovi interventi edificatori.
Ed infine, tale divieto –in forza di successive proroghe del
termine finale di efficacia della norma in esame, disposte
con leggi regionali successive– è stato protratto per un
periodo di tempo ben superiore a quello stabilito dall’art.
12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, realizzando, come
sottolineato nell’ordinanza di rimessione, «un
congelamento di aree, […] classificate come edificabili dal
PRG, per una durata superiore ai 7 anni».
4.2.– Nella fattispecie di cui trattasi, dunque, devono
riscontrarsi i seguenti vizi: a) la violazione dei principi
fondamentali dettati dalla legislazione statale in materia
di attività edilizia (nel caso di specie il differimento
temporale dello ius aedificandi, riconosciuto per un
periodo di anni ben superiore a quello fissato dalla
legislazione statale); b) l’indeterminatezza dei tempi
dell’iter procedimentale (dato che i differimenti a volta a
volta operati hanno indicato dei termini finali che venivano
successivamente prorogati); c) l’adozione di misure non
meramente sospensive, ma di divieto all’attività
edificatoria.
4.3.– Sotto altro profilo, si deve sottolineare che la norma
impugnata, costituendo una surrettizia violazione del
principio della ragionevole temporaneità delle misure di
salvaguardia, si pone anche in contrasto con altro principio
reiteratamente affermato dalla giurisprudenza
costituzionale, precisamente quello del necessario
indennizzo nel caso di reiterazione di vincoli urbanistici
che comportino l’inedificabilità (sentenze n. 243 del 2011;
n. 314 del 2007; n. 167 del 2009; n. 179 del 1999 e n. 262
del 1997).
Né si può ritenere –come sostenuto dalla Regione– che la
scelta del legislatore regionale di prorogare le
disposizioni di salvaguardia sia stata necessitata stante la
complessità e l’articolazione delle procedure volte
all’approvazione del piano territoriale regionale d’area,
misure dettate dalla esistenza di interessi di natura
nazionale e non solo strettamente regionali, quali, ad
esempio, il dover tener conto delle osservazioni espresse
dall’ENAC e dal Ministero della difesa.
Al di là della considerazione che tali circostanze sono
riconducibili a meri inconvenienti di fatto che non possono
incidere sul piano della valutazione di legittimità della
norma, è proprio per ovviare a tali possibili inconvenienti
che la norma di principio in esame àncora la possibilità di
prevedere misure di salvaguardia all’adozione dello
strumento urbanistico (nel caso di specie il PTRA), elemento
questo, come già sottolineato, non previsto dalla norma
regionale censurata.
Inoltre, è senz’altro esatto che la giurisprudenza
costituzionale citata dalla Regione (sentenze n. 344 del
1995 e n. 575 del 1989) si è espressa negativamente circa le
proroghe dei vincoli sine die o «quando il limite
temporale sia, indeterminato, cioè non sia certo, preciso e
sicuro», mentre ha ritenuto che «la proroga in via
legislativa o la particolare durata dei vincoli […] non sono
fenomeni di per sé inammissibili» se ancorati a date
certe e mantenuti «entro i limiti della non
irragionevolezza e non arbitrarietà», ma sono proprio
queste ultime condizioni che, nel caso in esame, non si sono
verificate. Infatti, il sopravvenire, dopo l’iniziale
imposizione delle misure di salvaguardia per un periodo che
non doveva superare i quindici mesi (disposta con l’art. 14
della legge regionale n. 5 del 2007), di ben quattro
ulteriori provvedimenti legislativi che ne hanno prorogato
la durata fino al 31.12.2011, determina che il termine
finale fissato dalla legge n. 5 del 2007 «non sia (stato)
certo, preciso e sicuro» e che, proprio ai sensi della
citata giurisprudenza, ricorrano le condizioni per
dichiararne l’illegittimità costituzionale.
Restano assorbiti i restanti profili di illegittimità
costituzionale dedotti dal rimettente.
5.– Conclusivamente, l’art. 14 della legge reg. n. 5 del
2007 −come risultante per effetto delle modifiche apportate
successivamente dalle sopra ricordate leggi regionali, nel
prevedere misure di salvaguardia per la zona dell’aeroporto
di Montichiari in contrasto con il principio fondamentale
stabilito al riguardo dall’art. 12, comma 3, del d.P.R. n.
380 del 2001− è costituzionalmente illegittimo per
violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. in materia di
governo del territorio.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’articolo 14 della legge della Regione Lombardia
27.02.2007, n. 5 (Interventi normativi per l’attuazione
della programmazione regionale e di modifica e integrazione
di disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2007),
come risultante a seguito delle modifiche introdotte,
successivamente, dall’art. 1, comma 8, lettera a), della
legge della Regione Lombardia 31.03.2008, n. 5 (Interventi
normativi per l’attuazione della programmazione regionale e
di modifica e integrazione di disposizioni legislative –
Collegato ordinamentale 2008), dall’art. 4 della legge della
Regione Lombardia 23.12.2008, n. 33, recante «Disposizioni
per l’attuazione del documento di programmazione
economico-finanziaria regionale, a sensi dell’articolo 9-ter
della legge regionale 31.03.1978, n. 34 (Norme sulla
procedura della programmazione, sul bilancio e sulla
contabilità della Regione – Collegato 2009)», e dall’art. 23
della legge della Regione Lombardia 05.02.2010, n. 7
(Interventi normativi per l’attuazione della programmazione
regionale e di modifica e integrazione di disposizioni
legislative – Collegato ordinamentale 2010)
(Corte Costituzionale,
sentenza
29.05.2013 n. 102). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
rilascio della sanatoria ex art. 36 dpr 380/2001 presuppone
la "doppia conformità" anche per il rispetto delle norme
tecniche previste per le zone sismiche.
Va dichiara
l’illegittimità costituzionale degli articoli 5, commi 1, 2
e 3, 6 e 7 della legge della Regione Toscana 31.01.2012, n.
4 (Modifiche alla legge regionale 03.01.2005, n. 1 «Norme
per il governo del territorio» e della legge regionale
16.10.2009, n. 58 «Norme in materia di prevenzione e
riduzione del rischio sismico»).
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Il principio della doppia conformità è previsto dall’art. 36
del d.P.R. n. 380 del 2001, che così recita: «1. In caso di
interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o
in difformità da esso, ovvero in assenza di denuncia di
inizio attività nelle ipotesi di cui all’articolo 22, comma
3, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini
di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1,
e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni
amministrative, il responsabile dell’abuso, o l’attuale
proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in
sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda.
2. Il rilascio del permesso in sanatoria è subordinato al
pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di
costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a
norma di legge, in misura pari a quella prevista
dall’articolo 16. Nell’ipotesi di intervento realizzato in
parziale difformità, l’oblazione è calcolata con riferimento
alla parte di opera difforme dal permesso.
3. Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o
il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia
con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i
quali la richiesta si intende respinta.»
Come è evidente dal contenuto letterale della norma, tale
principio risulta finalizzato a garantire l’assoluto
rispetto della «disciplina urbanistica ed edilizia» durante
tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione
dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere
l’accertamento di conformità.
Il rigore insito nel principio in questione trova conferma
anche nell’interpretazione della giurisprudenza
amministrativa, la quale afferma che, ai fini della
concedibilità del permesso di costruire in sanatoria, di cui
all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, è necessario che le
opere realizzate siano assentibili alla stregua non solo
della disciplina urbanistica vigente al momento della
domanda di sanatoria, ma anche di quella in vigore all’epoca
di esecuzione degli abusi.
In tal senso, la stessa giurisprudenza afferma che la
sanatoria in questione –in ciò distinguendosi da un vero e
proprio condono– è stata deliberatamente circoscritta dal
legislatore ai soli abusi «formali», ossia dovuti alla
carenza del titolo abilitativo, rendendo così palese la
ratio ispiratrice della previsione della sanatoria in esame,
«anche di natura preventiva e deterrente», finalizzata a
frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture
«sostanzialiste» della norma che consentano la possibilità
di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina
urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro
realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della
presentazione dell’ istanza per l’accertamento di
conformità.
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In particolare, il capo IV della parte II del testo
unico di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, reca il titolo
«Provvedimenti per le costruzioni con particolari
prescrizioni per le zone sismiche». Il termine «particolari»
indica evidentemente che si tratta di prescrizioni
aggiuntive, e non alternative, a quelle generali per
l’edilizia, come è confermato dall’inserimento del citato
capo IV nell’ambito della Parte II dello stesso testo unico,
dedicata alla «Normativa tecnica per l’edilizia».
Pertanto, le «particolari prescrizioni» antisismiche sono
parte della normativa tecnica generale sull’edilizia e non
ne sono separate o autonome, come invece sostiene la Regione
Toscana.
In secondo luogo, dall’esame delle norme statali di
principio e financo da quelle regionali, traspare evidente
il necessario collegamento tra i vari accertamenti
concernenti il rispetto delle normative di settore e il
rilascio dell’accertamento di conformità in sanatoria di cui
all’art. 36 del testo unico. In riferimento alle prime,
l’art. 20, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, che
disciplina il procedimento per il rilascio del permesso di
costruire, prevede che la relativa domanda sia accompagnata
dalla dichiarazione del progettista che asseveri la
conformità del progetto oltre che agli strumenti urbanistici
e ai regolamenti edilizi, anche alle altre normative di
settore, tra le quali la disposizione statale,
significativamente, richiama «in particolare» le «norme
antisismiche, di sicurezza, antincendio,
igienico-sanitarie».
Parimenti, l’art. 23, comma 1-bis, dello stesso decreto,
collocato nel capo III, concernente la denuncia di inizio
attività, esclude che l’autocertificazione consentita in
tali casi possa estendersi al rispetto, tra le altre, della
«normativa antisismica». Inoltre, l’art. 94, comma 1, del
d.P.R. n. 380 del 2001, dispone che «Fermo restando
l’obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio,
nelle località sismiche […] non si possono iniziare i lavori
senza preventiva autorizzazione scritta del competente
ufficio tecnico della regione», e questa Corte ha ritenuto
illegittima la sostituzione dell’autorizzazione con un
semplice preavviso.
Se pertanto, nel sistema dei principi delineati dalla
normativa statale, sia gli interventi edilizi soggetti a
permesso di costruire, sia quelli consentiti a seguito di
denuncia, presuppongono sempre la previa verifica del
rispetto delle norme sismiche, non pare possa dubitarsi che
la verifica della doppia conformità, alla quale l’art. 36
del testo unico subordina il rilascio dell’accertamento di
conformità in sanatoria, debba riferirsi anche al rispetto
delle norme sismiche, da comprendersi nelle norme per
l’edilizia, sia al momento della realizzazione
dell’intervento che al momento di presentazione della
domanda di sanatoria.
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L’accertamento del rispetto delle specifiche norme tecniche
antisismiche è sempre un presupposto necessario per
conseguire il titolo che consente di edificare, al quale si
riferisce il criterio della doppia conformità.
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Quanto alla ratio del principio statale sul quale si fonda
la previsione della sanatoria di cui all’art. 36 dpr
380/2001, deve osservarsi che il requisito della doppia
conformità risulta strettamente correlato alla natura della
violazione edilizia sottostante, che come si è visto deve
essere di tipo «puramente formale».
Questa Corte ha ritenuto che tale intento è «palesemente
orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni
riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene
protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del
territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità
pubblica che fanno capo alla materia della protezione
civile, in cui ugualmente compete allo Stato la
determinazione dei principi fondamentali».
La Corte ha anche affermato che le norme sismiche dettano
«una disciplina unitaria a tutela dell’incolumità pubblica,
mirando a garantire, per ragioni di sussidiarietà e di
adeguatezza, una normativa unica, valida per tutto il
territorio nazionale».
3.— Nel merito, la questione è fondata.
Al fine di individuare la materia nella quale rientrano le
disposizioni impugnate, è opportuno premettere che
l’accertamento di conformità in sanatoria per le opere
edilizie è stato previsto, per la prima volta, dall’art. 13
della legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo
dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e
sanatoria delle opere edilizie), e successivamente è stato
recepito dalla più recente e completa regolazione prevista
dal testo unico approvato con d.P.R. n. 380 del 2001 che,
all’art. 1, comma 1, qualifica le norme in esso contenute
come «principi fondamentali e generali […] per la
disciplina dell’attività edilizia».
In particolare, si osserva che le norme censurate
intervengono nell’ambito della disciplina delle costruzioni
nelle zone sismiche, dettando specifiche disposizioni ai
fini del conseguimento del suddetto accertamento di
conformità nei casi di interventi edilizi realizzati nelle
zone sismiche e nelle zone a bassa sismicità, o in corso di
realizzazione in tali zone.
Questa Corte si è, in più occasioni, pronunciata con
riguardo alla legittimità di disposizioni regionali
intervenute nella disciplina delle costruzioni nelle zone
sismiche, valutandone la coerenza con le norme statali di
principio contenute nel richiamato testo unico di cui al
d.P.R. n. 380 del 2001. Nella sentenza n. 182 del 2006, la
Corte ha dichiarato illegittima, per violazione dell’art.
117, terzo comma, Cost., una disposizione della legge della
Regione Toscana n. 1 del 2005 in considerazione del mancato
rispetto, sotto un diverso profilo, di una norma statale di
principio prevista dall’art. 94 del d.P.R. n. 380 del 2001
sul controllo delle costruzioni a rischio sismico, nella
parte in cui non stabiliva che non si possono iniziare
lavori senza preventiva autorizzazione scritta del
competente ufficio tecnico della Regione. La disposizione
regionale prevedeva, infatti, il semplice preavviso alla
struttura regionale competente, senza richiedere la predetta
autorizzazione.
Più in generale, in questa pronuncia la Corte ha affermato
che «l’intento unificatore della legislazione statale è
palesemente orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle
costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza
del bene protetto, che trascende anche l’ambito della
disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela
dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia della
protezione civile, in cui ugualmente compete allo Stato la
determinazione dei principi fondamentali».
Inoltre, con sentenza n. 201 del 2012, è stata dichiarata
l’illegittimità di una disposizione della legge della
Regione Molise 09.09.2011, n. 25 (Procedure per
l’autorizzazione sismica degli interventi edilizi e la
relativa vigilanza, nonché per la prevenzione del rischio
sismico mediante la pianificazione urbanistica), che,
disciplinando le procedure per l’autorizzazione sismica per
gli interventi edilizi, prevedeva, in caso di modifica
architettonica che comportasse un aumento dei carichi
superiore al 20%, l’obbligo di redazione di una variante
progettuale da depositare preventivamente, mentre per le
modifiche inferiori a questo limite si richiedeva il
deposito della sola verifica strutturale nell’ambito della
direzione dei lavori. Questa Corte ha ritenuto che la norma
regionale violasse il principio di cui all’art. 88 del
d.P.R. n. 380 del 2001.
Anche in questo caso la Corte ha ribadito che «la
normativa regionale impugnata, occupandosi degli interventi
edilizi in zone sismiche e della relativa vigilanza, rientra
nella materia della protezione civile, oggetto di competenza
legislativa concorrente ai sensi dell’art. 117, terzo comma,
Cost.».
Tale inquadramento, recentemente ribadito nella sentenza n.
64 del 2013, era peraltro già stato affermato nelle sentenze
n. 254 del 2010 e n. 248 del 2009, in riferimento alla
illegittimità di deroghe regionali alla normativa statale
per l’edilizia in zone sismiche, ed in relazione al titolo
competenziale di tale normativa: la Corte ha ritenuto che
essa rientri nell’ambito del governo del territorio, nonché
nella materia della protezione civile, per i profili
concernenti «la tutela dell’incolumità pubblica»
(sentenza n. 254 del 2010).
Di conseguenza, nel contesto legislativo e
giurisprudenziale, ora sinteticamente richiamato, deve
ritenersi che le norme impugnate nel presente giudizio –che
riguardano la disciplina dei requisiti per ottenere
l’accertamento di conformità in sanatoria per gli interventi
edilizi realizzati nelle zone sismiche e nelle zone a bassa
sismicità, il relativo procedimento, ed il collegamento di
tali disposizioni con la procedura di accertamento di
conformità in sanatoria per le opere edilizie di cui
all’art. 140 della legge regionale n. 1 del 2005– rientrano
anch’esse nelle materie relative al governo del territorio
e, per i profili indicati, alla protezione civile, e non
costituiscono norme tecniche che esulano da tali ambiti.
4.— Il principio della doppia conformità, invocato dal
Presidente del Consiglio dei ministri, è previsto dall’art.
36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che così recita: «1. In
caso di interventi realizzati in assenza di permesso di
costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di
denuncia di inizio attività nelle ipotesi di cui
all’articolo 22, comma 3, o in difformità da essa, fino alla
scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33,
comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle
sanzioni amministrative, il responsabile dell’abuso, o
l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il
permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento
della realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda.
2. Il rilascio del permesso in sanatoria è subordinato al
pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di
costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a
norma di legge, in misura pari a quella prevista
dall’articolo 16. Nell’ipotesi di intervento realizzato in
parziale difformità, l’oblazione è calcolata con riferimento
alla parte di opera difforme dal permesso.
3. Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o
il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia
con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i
quali la richiesta si intende respinta.»
Come è evidente dal contenuto letterale della norma, tale
principio risulta finalizzato a garantire l’assoluto
rispetto della «disciplina urbanistica ed edilizia»
durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione
dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere
l’accertamento di conformità.
Il rigore insito nel principio in questione trova conferma
anche nell’interpretazione della giurisprudenza
amministrativa, la quale afferma che, ai fini della
concedibilità del permesso di costruire in sanatoria, di cui
all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, è necessario che le
opere realizzate siano assentibili alla stregua non solo
della disciplina urbanistica vigente al momento della
domanda di sanatoria, ma anche di quella in vigore all’epoca
di esecuzione degli abusi (pronunce del Consiglio di Stato,
sezione IV, 21.12.2012, n. 6657; sezione IV, 02.11.2009, n.
6784; sezione V, 29.05.2006, n. 3267; sezione IV,
26.04.2006, n. 2306).
In tal senso, la stessa giurisprudenza afferma che la
sanatoria in questione –in ciò distinguendosi da un vero e
proprio condono– è stata deliberatamente circoscritta dal
legislatore ai soli abusi «formali», ossia dovuti
alla carenza del titolo abilitativo, rendendo così palese la
ratio ispiratrice della previsione della sanatoria in
esame, «anche di natura preventiva e deterrente»,
finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da
escludere letture «sostanzialiste» della norma che
consentano la possibilità di regolarizzare opere in
contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente
al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi
solo al momento della presentazione dell’ istanza per
l’accertamento di conformità (citata pronuncia del Consiglio
di Stato, sezione IV, 21.12.2012, n. 6657).
Ora, risulta pacifico, anche dalle argomentazioni della
Regione Toscana, che le disposizioni di cui all’art. 5 della
legge regionale impugnata non rispettano il principio di
doppia conformità, inteso nel senso sopra descritto, ma
prevedono tre distinte ipotesi di contrasto con le norme
sismiche di opere già realizzate, ovvero in corso di
realizzazione, senza richiedere che la sostanziale
conformità alle medesime norme sussista sia nel momento
della realizzazione che in quello di presentazione
dell’istanza per ottenere la sanatoria. Discostandosi
nettamente da tale principio, il comma 3 dell’art. 5
consente persino la regolarizzazione di opere realizzate o
in corso di realizzazione, mediante la presentazione di un «progetto
di adeguamento conforme alla normativa tecnica vigente al
momento di presentazione della stessa».
La Regione Toscana giustifica il mancato rispetto del
principio della doppia conformità edilizia ed urbanistica
nelle norme impugnate con una serie di argomentazioni
fondate sul presupposto interpretativo secondo il quale tale
principio non possa applicarsi alla disciplina antisismica,
che per sua natura rientrerebbe nelle norme tecniche di
costruzione.
Peraltro, dall’esame del quadro normativo di riferimento nel
quale si inseriscono le norme censurate, tale presupposto
interpretativo risulta errato.
In primo luogo, la Regione afferma che l’art. 36 del d.P.R.
n. 380 del 2001 è collocato nella parte I (Attività
edilizia), titolo IV (Vigilanza sull’attività urbanistico
edilizia, responsabilità e sanzioni), capo II (Sanzioni),
mentre la disciplina per le costruzioni nelle zone sismiche
è contenuta nella parte II (Normativa tecnica per
l’edilizia), capo IV (Provvedimenti per le costruzioni con
particolari prescrizioni per le zone sismiche) del medesimo
decreto recante il testo unico dell’edilizia. Da tale
collocazione la Regione desume un argomento a favore
dell’autonomia della verifica dell’osservanza delle norme
sismiche rispetto a quella richiesta dall’art. 36 del d.P.R.
n. 380 del 2001, che si riferisce alla normativa urbanistica
ed edilizia, nella quale non rientrerebbe la disciplina
delle costruzioni in zone sismiche.
Questa ricostruzione non è condivisibile, dal momento che
risulta contraddetta dalla stessa lettura sistematica delle
norme richiamate.
In particolare, il capo IV della parte II del testo
unico di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, reca il titolo «Provvedimenti
per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone
sismiche». Il termine «particolari» indica
evidentemente che si tratta di prescrizioni aggiuntive, e
non alternative, a quelle generali per l’edilizia, come è
confermato dall’inserimento del citato capo IV nell’ambito
della Parte II dello stesso testo unico, dedicata alla «Normativa
tecnica per l’edilizia».
Pertanto, le «particolari prescrizioni» antisismiche
sono parte della normativa tecnica generale sull’edilizia e
non ne sono separate o autonome, come invece sostiene la
Regione Toscana.
In secondo luogo, dall’esame delle norme statali di
principio e financo da quelle regionali, traspare evidente
il necessario collegamento tra i vari accertamenti
concernenti il rispetto delle normative di settore e il
rilascio dell’accertamento di conformità in sanatoria di cui
all’art. 36 del testo unico. In riferimento alle prime,
l’art. 20, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, che
disciplina il procedimento per il rilascio del permesso di
costruire, prevede che la relativa domanda sia accompagnata
dalla dichiarazione del progettista che asseveri la
conformità del progetto oltre che agli strumenti urbanistici
e ai regolamenti edilizi, anche alle altre normative di
settore, tra le quali la disposizione statale,
significativamente, richiama «in particolare» le «norme
antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie».
Parimenti, l’art. 23, comma 1-bis, dello stesso decreto,
collocato nel capo III, concernente la denuncia di inizio
attività, esclude che l’autocertificazione consentita in
tali casi possa estendersi al rispetto, tra le altre, della
«normativa antisismica». Inoltre, l’art. 94, comma 1,
del d.P.R. n. 380 del 2001, dispone che «Fermo restando
l’obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio,
nelle località sismiche […] non si possono iniziare i lavori
senza preventiva autorizzazione scritta del competente
ufficio tecnico della regione», e questa Corte ha
ritenuto illegittima la sostituzione dell’autorizzazione con
un semplice preavviso (sentenza n. 182 del 2006).
Se pertanto, nel sistema dei principi delineati dalla
normativa statale, sia gli interventi edilizi soggetti a
permesso di costruire, sia quelli consentiti a seguito di
denuncia, presuppongono sempre la previa verifica del
rispetto delle norme sismiche, non pare possa dubitarsi che
la verifica della doppia conformità, alla quale l’art. 36
del testo unico subordina il rilascio dell’accertamento di
conformità in sanatoria, debba riferirsi anche al rispetto
delle norme sismiche, da comprendersi nelle norme per
l’edilizia, sia al momento della realizzazione
dell’intervento che al momento di presentazione della
domanda di sanatoria.
Inoltre, il collegamento tra la verifica del rispetto della
normativa per gli interventi in zone sismiche e il
procedimento di accertamento di conformità edilizia,
disciplinato dall’art. 140 della legge regionale toscana n.
1 del 2005, nel testo in vigore fino all’approvazione delle
norme impugnate, è evidente anche nel richiamo, operato dal
comma 3 di quest’ultimo articolo, all’art. 83 della stessa
legge regionale, al fine di indicare le norme generali sul
procedimento ed i requisiti per ottenere il permesso di
costruire in sanatoria. In particolare, il comma 4 dell’art.
83 prevede che «la domanda è accompagnata da una
dichiarazione del progettista abilitato che assevera la
conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati
oppure adottati, ai regolamenti edilizi vigenti e alle altre
normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell’attività edilizia e, in particolare, alle norme
antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico sanitarie
[…]».
Nel medesimo senso, va osservato che l’art. 140, come
riconosciuto anche dalla Regione, richiama l’art. 84 della
stessa legge regionale n. 1 del 2005, che per le opere
soggette a SCIA dispone che la relazione del progettista
abilitato asseveri la conformità delle opere a tutte le
norme edilizie, e «in particolare, alle norme
antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie
[…]».
Sotto un ulteriore profilo, va rilevato che la pretesa
autonomia del procedimento di «accertamento di conformità
in sanatoria per gli interventi realizzati nelle zone
sismiche e nelle zone a bassa sismicità» non trova alcun
riferimento nella normativa statale di principio contenuta
nel testo unico approvato con il d.P.R. n. 380 del 2001, che
disciplina esclusivamente l’accertamento di conformità di
cui all’art. 36, a sua volta riferito alla sanatoria di «interventi
realizzati in assenza di permesso di costruire, o in
difformità da esso, ovvero in assenza di denuncia di inizio
attività nelle ipotesi di cui all’art. 22, comma 3, o in
difformità da essa».
4.1.— Deve pertanto ritenersi che l’accertamento del
rispetto delle specifiche norme tecniche antisismiche è
sempre un presupposto necessario per conseguire il titolo
che consente di edificare, al quale si riferisce il criterio
della doppia conformità.
Inoltre, non può essere condivisa l’argomentazione della
difesa della Regione, che desume dalle disposizioni
contenute negli articoli 98 e 100 del d.P.R. 380 del 2001 un
indirizzo legislativo favorevole all’adeguamento alle norme
antisismiche, piuttosto che alla sanzione, nei casi di opere
edilizie non in regola con tali norme.
In particolare, il richiamato art. 98 prevede che il
giudice, con il provvedimento di condanna in sede penale, in
alternativa alla demolizione del manufatto, possa impartire
le prescrizioni necessarie per rendere le opere conformi
alle norme sismiche. Al riguardo, si osserva che
l’applicazione di tale disposizione, che disciplina una
facoltà del giudice penale, presuppone l’accertamento del
reato e, quindi, la violazione delle norme sismiche.
Tutt’altra ipotesi si rinviene nella norma impugnata che
consente una possibilità di sanatoria delle violazioni delle
norme sismiche e che attribuisce al privato interessato una
posizione soggettiva tutelata nei confronti
dell’amministrazione, al fine di ottenere l’accertamento di
conformità.
Parimenti, anche la competenza rimessa alla regione
dall’articolo 100 del d.P.R. 380 del 2001, secondo la quale
la regione può ordinare «la demolizione delle opere o
delle parti di esse eseguite in violazione delle norme del
capo I del testo unico e delle norme tecniche di cui agli
articoli 52 e 83, ovvero l’esecuzione di modifiche idonee a
renderle conformi alle norme stesse», presuppone sempre
l’accertamento di un reato, anche se estinto per qualsiasi
causa, e pertanto disciplina una fattispecie nettamente
distinta da quelle previste dall’articolo 5 impugnato.
4.2.— Infine, quanto alla ratio del principio statale
sul quale si fonda la previsione della sanatoria di cui
all’art. 36, deve osservarsi che il requisito della doppia
conformità risulta strettamente correlato alla natura della
violazione edilizia sottostante, che come si è visto deve
essere di tipo «puramente formale».
All’opposto, sembra invece evidente che l’interpretazione
proposta dalla Regione condurrebbe alla previsione di un
vero e proprio condono edilizio, vanificando l’intento
perseguito dal legislatore statale con l’adozione delle
norme antisismiche. Come si è ricordato, questa Corte ha
ritenuto che tale intento è «palesemente orientato ad
esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al
rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che
trascende anche l’ambito della disciplina del territorio,
per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica
che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui
ugualmente compete allo Stato la determinazione dei principi
fondamentali» (sentenza n. 182 del 2006). La Corte ha
anche affermato che le norme sismiche dettano «una
disciplina unitaria a tutela dell’incolumità pubblica,
mirando a garantire, per ragioni di sussidiarietà e di
adeguatezza, una normativa unica, valida per tutto il
territorio nazionale» (sentenze n. 201 del 2012 e n. 254
del 2010).
5.— Un ulteriore argomento prospettato dalla Regione Toscana
si fonda sulla valenza da attribuire alla giurisprudenza
della Corte di cassazione, che limita ai soli reati edilizi
gli effetti estintivi, a norma dell’art. 45 del d.P.R. n.
380 del 2001, del rilascio dell’accertamento di conformità
ai sensi dell’art. 36 dello stesso decreto, restando
punibili i connessi reati previsti dalle norme sismiche. Da
questa limitazione, la Regione ricava un argomento
aggiuntivo per sostenente l’autonomia delle norme sismiche
rispetto a quelle edilizie e, di conseguenza, la
riferibilità del principio della doppia conformità alle sole
norme edilizie e non anche a quelle sismiche.
In particolare, la Regione afferma che la Corte di
cassazione, valutando gli effetti estintivi dei reati che
derivano dal rilascio di provvedimenti di sanatoria, ha
costantemente affermato che il permesso di costruire
rilasciato ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001
estingue, a norma dell’art. 45 dello stesso decreto, «i
reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche
vigenti e non si estende ad altri reati correlati alla
tutela di interessi diversi rispetto a quelli che riguardano
l’assetto del territorio sotto il profilo edilizio, quali i
reati previsti dalla normativa sulle opere in cemento
armato, sulle costruzioni in zone sismiche, sulla tutela
delle zone di particolare interesse paesaggistico ed
ambientale» (sentenza della Corte di cassazione,
05.03.2009, n. 9922; nello stesso senso, la Regione richiama
le sentenze della medesima Corte 09.03.2011, n. 9277, e
23.03.2006, n. 10205).
Anche questa argomentazione non risulta conferente.
Al riguardo, deve innanzitutto rilevarsi che l’oggetto del
giudizio penale di accertamento dei vari reati previsti
dall’ordinamento a tutela del rispetto delle norme edilizie,
urbanistiche, sismiche, igieniche, paesaggistiche ed
ambientali, risulta nettamente distinto da quello del
presente giudizio.
Nella materia dell’edilizia il legislatore ha previsto che
vari comportamenti siano puniti con sanzioni amministrative
e penali, a maggior tutela del rispetto delle disposizioni
contenute nei diversi settori in cui si articola la medesima
materia. In tal senso, nel testo unico contenuto nel d.P.R.
n. 380 del 2001, si rinvengono sanzioni penali in caso di
comportamenti che vanno dalla lottizzazione abusiva (art.
44) alla violazione di tutte le norme sismiche previste dal
capo IV dello stesso decreto (art. 95). Nella sede penale il
giudice è pertanto tenuto alla individuazione dei reati
sulla base dei principi di stretta legalità e di tipicità,
accertando caso per caso la sussistenza dei requisiti
richiesti dalle singole fattispecie criminose che il
legislatore ha previsto nei vari ambiti suddetti.
In particolare, i reati previsti a tutela della normativa
sismica non sono considerati dall’art. 45, del d.P.R. n. 380
del 2001, specificamente dedicato alle «norme relative
all’azione penale», che al comma 3 prevede che «il
rilascio in sanatoria del permesso di costruire estingue i
reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche
vigenti».
Come risulta evidente dal suo contenuto letterale, tale
disposizione è finalizzata a disciplinare gli effetti
estintivi per i soli reati contravvenzionali previsti dalle
norme urbanistiche, ma non contribuisce in alcun modo a
definire il contenuto e la portata delle norme che delineano
il principio della doppia conformità ai sensi dell’art. 36
del d.P.R. n. 380 del 2001, che presuppone il rispetto delle
norme edilizie.
Pertanto, l’oggetto dei giudizi penali definiti dalla
richiamata giurisprudenza della Corte di cassazione, e le
disposizioni in quei casi applicate, previste dall’art. 45
del d.P.R. n. 380 del 2001, sono del tutto estranee
all’oggetto del presente giudizio, nel quale rileva
l’individuazione dell’area applicativa del principio
generale della doppia conformità alla disciplina urbanistica
ed edilizia, contenuto nell’ articolo 36 dello stesso
decreto e compreso nell’ambito delle materie del governo del
territorio e della protezione civile alle quali afferiscono
le norme sismiche, come ha chiarito la giurisprudenza di
questa Corte sopra richiamata.
6.— In riferimento al censurato art. 6 della legge della
Regione Toscana n. 4 del 2012, la Regione afferma che non
potrebbe essere dichiarato illegittimo neppure se si
ritenesse fondata la questione relativa all’art. 5, dal
momento che esso introduce l’art. 118-bis nella legge
regionale n. 1 del 2005, che si limita a regolare il
procedimento mediante il quale l’ufficio tecnico regionale
procede all’accertamento di conformità in sanatoria per gli
interventi realizzati nelle zone sismiche e nelle zone a
bassa sismicità, senza condizionarne l’esito in alcun modo.
In questa prospettazione, si sostiene che la neutralità di
tale disciplina procedimentale, impedisce di ritenere la
consequenzialità dell’illegittimità dell’art. 6 in virtù del
semplice richiamo operato dall’art. 5 della legge impugnata.
Anche questa affermazione della Regione contrasta con il
contenuto della disposizione impugnata che, in particolare,
recita: «1. Dopo l’articolo 118 della L.R. 1/2005 è
inserito il seguente: “Art. 118-bis - Procedimento per
accertamento di conformità in sanatoria per gli interventi
realizzati nelle zone sismiche e nelle zone a bassa
sismicità.
1. Per le opere realizzate nelle zone sismiche, nei casi di
cui all’articolo 118, commi 1 e 2, la struttura regionale
competente rilascia l’autorizzazione in sanatoria entro
sessanta giorni dalla trasmissione della relativa istanza.
2. Per le opere realizzate nelle zone a bassa sismicità, nei
casi di cui all’articolo 118, commi 1, 2 e 3, la struttura
regionale competente rilascia l’attestato di avvenuto
deposito in sanatoria nei quindici giorni successivi alla
trasmissione della relativa istanza. Il progetto delle opere
da sanare è assoggettato alle procedure di cui all’articolo
105-quater, comma 5.
3. Entro sessanta giorni dalla trasmissione della relativa
istanza, per le opere realizzate nelle zone sismiche, nei
casi di cui all’articolo 118, comma 3, la struttura
regionale competente accerta la conformità del progetto di
adeguamento alle norme tecniche vigenti e rilascia
l’autorizzazione in sanatoria a condizione che siano
eseguite le opere di adeguamento ivi previste.
4. Il progetto delle opere di adeguamento di cui
all’articolo 118, comma 3, lettera b) è trasmesso anche al
comune, per le relative verifiche di conformità urbanistica
ed edilizia. Le opere di adeguamento sono eseguite a seguito
del rilascio da parte del comune del titolo edilizio in
sanatoria di cui all’articolo 140, che ne autorizza
l’esecuzione. Il titolo edilizio in sanatoria acquista
efficacia a seguito della trasmissione al comune degli atti
di cui al comma 5.
5. Al termine dei lavori relativi alle opere di adeguamento,
l’interessato inoltra gli atti, di cui all’articolo 109,
alla struttura regionale competente, che provvede alla
vidimazione e all’inoltro al comune interessato. A tale
inoltro al comune, può provvedere direttamente anche
l’interessato».
Come emerge dal loro contenuto letterale, le disposizioni
dell’art. 6 si pongono in stretta correlazione con quelle
previste dall’art. 5 della legge regionale impugnata, come
confermato dai richiami ai commi 1, 2, e 3 del nuovo testo
dell’art. 118 della legge regionale n. 1 del 2005,
introdotto dallo stesso art. 5.
In particolare, le norme procedimentali di cui all’art. 6
sono direttamente strumentali al rilascio dell’
autorizzazione in sanatoria per gli interventi realizzati
nelle zone sismiche secondo le previsioni contenute nel
censurato art. 5, e costituiscono il necessario
completamento della disciplina del rilascio
dell’accertamento di conformità in violazione del principio
della doppia conformità. Consegue da questa stretta
compenetrazione tra le norme impugnate, l’illegittimità
dell’art. 6 della legge della Regione Toscana n. 4 del 2012
per le motivazioni sopra indicate.
7.— Infine, il censurato art. 7, facendo salva
l’applicazione delle disposizioni contenute nel nuovo testo
dell’art. 118 della legge della Regione Toscana n. 1 del
2005, sancisce la separazione e l’autonomia
dell’accertamento di conformità relativo alle norme sismiche
dal generale accertamento di conformità relativo alle norme
edilizie ed urbanistiche, garantendo l’effetto voluto dalla
Regione con la normativa impugnata, ma che, per le ragioni
anzidette, risulta lesivo del richiamato principio
fondamentale della doppia conformità.
Pertanto, va dichiarata l’illegittimità costituzionale anche
dell’art. 7 della legge della Regione Toscana n. 4 del 2012.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale
degli articoli 5, commi 1, 2 e 3, 6 e 7 della legge della
Regione Toscana 31.01.2012, n. 4 (Modifiche alla legge
regionale 03.01.2005, n. 1 «Norme per il governo del
territorio» e della legge regionale 16.10.2009, n. 58 «Norme
in materia di prevenzione e riduzione del rischio sismico»)
(Corte Costituzionale,
sentenza
29.05.2013 n. 101). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: (a)
per i parcheggi privati di uso pubblico è possibile una
doppia qualificazione. In quanto infrastrutture destinate
all’uso collettivo e inserite nel sistema della viabilità,
questi parcheggi devono essere assimilati ai parcheggi
pubblici, a loro volta qualificati ex lege come opere di
urbanizzazione primaria (v. art. 16, comma 7, del DPR
06.06.2001 n. 380; art. 44, comma 3, della LR 11.03.2005 n.
12).
Se considerati, invece, come infrastrutture che integrano
i servizi a disposizione degli spazi edificati, i
parcheggi privati di uso pubblico assumono la stessa
funzione degli standard urbanistici (v. art. 22 della LR
51/1975; art. 9, comma 10, della LR 12/2005), e possono
quindi essere equiparati in via interpretativa alle opere di
urbanizzazione secondaria (come fa la Regione nella DGR n.
7/7586 del 21.12.2001, allegato A, punto III.2.b);
(b) la prima qualificazione, tenendo conto della
sedes materiae scelta dal legislatore nazionale e da quello
regionale (disciplina del contributo per il rilascio del
permesso di costruire), appartiene specificamente alla sfera
degli oneri concessori. Sembra quindi corretto ritenere che,
salvo accordo in senso contrario tra l’amministrazione e i
proprietari, la realizzazione di parcheggi privati di uso
pubblico abbia quale effetto ex lege lo scomputo dei soli
oneri di urbanizzazione primaria. Una volta effettuato lo
scomputo, la differenza rispetto al costo effettivo dei
lavori sostenuto dai privati rimane a carico degli stessi;
(c) le convenzioni urbanistiche dei piani attuativi sono la
sede naturale, anche se non esclusiva, per introdurre
criteri diversi di compensazione tra gli oneri concessori e
le opere di interesse pubblico eseguite direttamente a spese
dei privati. Qui si rivela l’utilità della seconda
qualificazione: poiché i parcheggi privati di uso
pubblico possono essere apprezzati come standard
urbanistici, l’amministrazione è legittimata a incentivarne
la realizzazione rinunciando, in tutto o in parte, agli
oneri di urbanizzazione secondaria, nella ricerca
(ampiamente discrezionale) di un punto di equilibrio tra le
esigenze pubbliche e l’interesse dei proprietari.
Per quanto riguarda i privati, le posizioni giuridiche
relative agli oneri concessori sono considerate disponibili,
e dunque non vi sono ostacoli alla definizione di un
sinallagma che preveda anche l’accettazione di condizioni
meno vantaggiose rispetto a quelle risultanti dalla
normativa regionale o comunale, purché sia salvaguardata
l’utilità economica finale dell’intervento edilizio.
... per l'accertamento:
- del diritto allo scomputo degli oneri di urbanizzazione
(pari a € 33.266,93) corrispondenti all’equivalente
monetario delle opere di urbanizzazione secondaria di cui
alla convenzione urbanistica del 15.01.2003;
- con la conseguente condanna alla restituzione della
suddetta somma, erroneamente trattenuta dal Comune
nonostante l’esecuzione delle opere da parte della società
ricorrente;
...
FATTO
2. La convenzione urbanistica stabilisce (v. art. 2, 3 e 5)
il seguente schema di obbligazioni a carico dei lottizzanti:
(a) cessione gratuita al Comune delle aree necessarie per le
opere di urbanizzazione primaria (27.500 mq) e per il verde
pubblico (25.500 mq);
(b) contestuale costituzione di una servitù di uso pubblico
sulle aree private destinate a parcheggio (66.544 mq),
ulteriori rispetto a quelle di cui è prevista la cessione
gratuita;
(c) esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria
descritte nella tavola 2 del progetto di piano (tra cui le
reti tecnologiche, la massicciata stradale e il collettore
esterno delle acque nere), con integrale scomputo degli
oneri di urbanizzazione primaria (€ 972.609,65), essendo
questi ultimi inferiori al costo risultante dal computo
metrico estimativo (€ 2.281.485,65);
(d) assunzione degli oneri relativi alle opere di
urbanizzazione secondaria e smaltimento rifiuti, da
ripartire tra i proprietari in proporzione alle superfici
per cui sono richiesti i singoli titoli edilizi.
3. I lottizzanti hanno realizzato i parcheggi privati di uso
pubblico nella convinzione che il loro costo, trattandosi di
opere di urbanizzazione secondaria, sarebbe stato scomputato
dai relativi oneri. Il Comune ha invece assunto la posizione
opposta.
...
DIRITTO
13. Sulle questioni proposte nel ricorso si possono svolgere
le seguenti considerazioni:
(a) per i parcheggi privati di uso pubblico è possibile una
doppia qualificazione. In quanto infrastrutture destinate
all’uso collettivo e inserite nel sistema della viabilità,
questi parcheggi devono essere assimilati ai parcheggi
pubblici, a loro volta qualificati ex lege come opere di
urbanizzazione primaria (v. art. 16, comma 7, del DPR 06.06.2001 n. 380; art. 44, comma 3, della LR 11.03.2005 n. 12).
Se considerati, invece, come infrastrutture che integrano i
servizi a disposizione degli spazi edificati, i parcheggi
privati di uso pubblico assumono la stessa funzione degli
standard urbanistici (v. art. 22 della LR 51/1975; art. 9,
comma 10, della LR 12/2005), e possono quindi essere
equiparati in via interpretativa alle opere di
urbanizzazione secondaria (come fa la Regione nella DGR n.
7/7586 del 21.12.2001, allegato A, punto III.2.b);
(b) la prima qualificazione, tenendo conto della sedes
materiae scelta dal legislatore nazionale e da quello
regionale (disciplina del contributo per il rilascio del
permesso di costruire), appartiene specificamente alla sfera
degli oneri concessori. Sembra quindi corretto ritenere che,
salvo accordo in senso contrario tra l’amministrazione e i
proprietari, la realizzazione di parcheggi privati di uso
pubblico abbia quale effetto ex lege lo scomputo dei soli
oneri di urbanizzazione primaria. Una volta effettuato lo
scomputo, la differenza rispetto al costo effettivo dei
lavori sostenuto dai privati rimane a carico degli stessi;
(c) le convenzioni urbanistiche dei piani attuativi sono la
sede naturale, anche se non esclusiva, per introdurre
criteri diversi di compensazione tra gli oneri concessori e
le opere di interesse pubblico eseguite direttamente a spese
dei privati. Qui si rivela l’utilità della seconda
qualificazione: poiché i parcheggi privati di uso pubblico
possono essere apprezzati come standard urbanistici,
l’amministrazione è legittimata a incentivarne la
realizzazione rinunciando, in tutto o in parte, agli oneri
di urbanizzazione secondaria, nella ricerca (ampiamente
discrezionale) di un punto di equilibrio tra le esigenze
pubbliche e l’interesse dei proprietari. Per quanto riguarda
i privati, le posizioni giuridiche relative agli oneri
concessori sono considerate disponibili (v. CS Sez. IV 28.07.2005 n. 4015; TAR Brescia Sez. I 14.05.2010 n.
1739), e dunque non vi sono ostacoli alla definizione di un
sinallagma che preveda anche l’accettazione di condizioni
meno vantaggiose rispetto a quelle risultanti dalla
normativa regionale o comunale, purché sia salvaguardata
l’utilità economica finale dell’intervento edilizio;
(d) nello specifico, la convenzione urbanistica del 15.01.2003 non prevede la cancellazione degli oneri di
urbanizzazione secondaria. In realtà, l’art. 3 pone a carico
dei lottizzanti l’intero pacchetto delle opere di
urbanizzazione primaria, indicandone espressamente solo
alcune (reti tecnologiche, massicciata stradale, collettore
esterno delle acque nere). L’art. 2 rinvia per la
descrizione completa alla tavola 2 del progetto di piano,
nella quale sono riportati indistintamente tutti gli
interventi di interesse pubblico (strade, marciapiedi, pista
ciclabile, parcheggi privati di uso pubblico, impianti
tecnologici, area a verde pubblico). Si può, quindi,
ritenere che la convenzione urbanistica faccia riferimento
alla prima qualificazione dei parcheggi privati di uso
pubblico, collocandoli tra le infrastrutture che nella
definizione legislativa compongono le opere di
urbanizzazione primaria;
(e) una conferma è rinvenibile nell’art. 5 della convenzione
urbanistica, che espressamente ribadisce l’obbligo per i
lottizzanti di versare gli oneri di urbanizzazione
secondaria e smaltimento rifiuti, precisando che la
ripartizione tra i proprietari avviene in proporzione alle
superfici per cui sono richiesti i singoli titoli edilizi.
Se fosse stato raggiunto un accordo sullo scomputo fino a
concorrenza del costo dei parcheggi privati di uso pubblico
la clausola sarebbe certamente stata scritta in modo
differente. Verosimilmente, la formulazione sarebbe stata
analoga a quella dell’art. 3 (ossia: quantificazione del
costo dei lavori e dell’importo degli oneri di
urbanizzazione secondaria, e dichiarazione di compensazione
degli stessi);
(f) un’ulteriore conferma è rinvenibile nel computo metrico
estimativo, che nel costo complessivo delle opere di
urbanizzazione primaria (€ 2.281.485,65) inserisce senza
distinzioni, nell’apposita sezione, i lavori riguardanti
strade, marciapiedi, parcheggi e verde pubblico. Poiché
questo è il valore complessivo utilizzato dalle parti per
concordare la cancellazione degli oneri di urbanizzazione
primaria, non è possibile intervenire poi in via
interpretativa utilizzando una parte degli stessi lavori
(nello specifico: i parcheggi privati di uso pubblico) per
ottenere anche lo scomputo degli oneri di urbanizzazione
secondaria.
14. Il ricorso deve quindi essere respinto, previa revoca
del decreto di perenzione. La complessità di alcune
questioni consente la compensazione delle spese di giudizio
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 24.05.2013 n. 513 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
vicenda in esame si colloca nell’intervallo di tempo
compreso tra la LR 19.11.1999 n 22 e la LR 11.03.2005 n. 12.
L’art. 2, comma 2, della LR 22/1999 qualifica i parcheggi
come opere di urbanizzazione ai sensi dell'art. 9, comma
1-f, della legge 10/1977 stabilendo in questo modo la
gratuità del relativo titolo edilizio. L’art. 2, comma 1,
della LR 22/1999 richiama la disciplina di favore prevista
per i parcheggi pertinenziali dall’art. 9 della legge
122/1989;
Come già rilevato in casi analoghi che si collocano nello
stesso intervallo di tempo, la gratuità del titolo edilizio
non riguarda i parcheggi pertinenziali che eccedono la
misura minima di legge. In effetti, essendo già assicurato
l’obiettivo posto dall’art. 41-sexies, comma 1, della legge
1150/1942, non vi sono ragioni per imporre ai comuni di
rinunciare ai corrispettivi collegati all’edificazione.
Sotto questo profilo la qualificazione dei parcheggi come
opere di urbanizzazione ex art. 11, comma 1, della legge
122/1989 rimane circoscritta, in mancanza di una specifica
norma espansiva, entro i confini della dotazione minima di
parcheggi pertinenziali stabilita dalla legge.
Un vero cambio di regime si è verificato con l’entrata in
vigore della LR 12/2005, che tramite l’art. 69 ha introdotto
il principio della gratuità dei titoli edilizi relativi ai
parcheggi collegando l’utilità di queste opere direttamente
agli interessi della viabilità senza la mediazione di uno
specifico edificio (di qui l’abbandono del requisito della
pertinenzialità) e senza la predeterminazione di limiti
quantitativi (di qui il superamento della misura minima di
legge). La nuova disciplina, che non può avere effetti per
il passato, costituisce dunque lo spartiacque in materia di
gratuità dei titoli edilizi riferiti ai parcheggi.
---------------
L’art. 9, comma 1, della legge 122/1989 consente la
realizzazione di parcheggi pertinenziali anche in deroga
agli strumenti urbanistici comunali. L’unico presupposto
della norma è il carattere pertinenziale del parcheggio,
senza che rilevino le quantità stabilite dall’art.
41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942. In altri termini,
quando sia costituito un vincolo di pertinenzialità la quota
di parcheggi eccedente il minimo di legge non deve essere
computata nella superficie lorda di pavimento e nella
volumetria dell’edificio principale. A maggior ragione non
deve essere computata la quota che rimane al di sotto del
minimo di legge.
Pertanto, indipendentemente dalle dimensioni, i parcheggi e
le autorimesse pertinenziali non consumano gli indici
edificatori stabiliti dagli strumenti urbanistici. Il
superamento della misura minima ex art. 41-sexies, comma 1,
della legge 1150/1942 era rilevante (prima della LR 12/2005)
solo perché determinava il passaggio dalla gratuità
all’onerosità del titolo edilizio. L’art. 1, comma 1, della
LR 22/1999, con una disposizione chiarificatrice, ha
precisato che il concetto di pertinenza è applicabile anche
agli immobili non residenziali.
La normativa sopravvenuta (v. art. 67 della LR 12/2005) ha
ribadito la possibilità di deroga rispetto alla disciplina
urbanistica comunale, precisando i vincoli residui.
---------------
Poiché non è contestata la natura pertinenziale
dell’autorimessa, tale opera non può incontrare i limiti
stabiliti dalla disciplina comunale in relazione agli indici
di zona. La volumetria dell’autorimessa pertinenziale,
essendo per definizione una volumetria in deroga agli
strumenti urbanistici, non può essere considerata utile per
la consumazione delle facoltà edificatorie assegnate a un
determinato lotto.
Ne consegue che la volumetria dell’autorimessa pertinenziale
non può essere aggregata a quella dell’edificio principale
per trasformare il titolo edilizio relativo a quest’ultimo
da gratuito a oneroso. L’aumento del 20% della volumetria
che fa scattare l’onerosità del titolo edilizio in base
all’art. 9, comma 1-d, della legge 10/1977 (attualmente v.
art. 17, comma 3-b, del DPR 06.06.2001 n. 380) presuppone
che si tratti di volumetria rilevante ai fini urbanistici,
ed è evidente che sul medesimo lotto una volumetria non può
essere allo stesso tempo e sotto lo stesso profilo
irrilevante (come autorimessa pertinenziale) e rilevante
(come elemento al servizio dell’edificio principale).
Se la superficie dell’autorimessa avesse superato la misura
minima ex art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942,
sarebbe stato necessario applicare in base alla normativa
anteriore alla LR 12/2005, nonostante la qualificazione
dell’opera come pertinenziale, il contributo concessorio su
questo capo del titolo edilizio (per la parte della
superficie eccedente la misura minima). Tale circostanza non
avrebbe però prodotto alcuna conseguenza sul capo del titolo
edilizio relativo all’edificio principale, che sarebbe
rimasto gratuito. A maggior ragione non è consentito
ipotizzare un passaggio dalla gratuità all’onerosità del
titolo edilizio riferito all’edificio principale in
conseguenza di un’autorimessa pertinenziale che rimane entro
la misura minima di legge e dunque è a sua volta
realizzabile con un titolo edilizio gratuito.
Sulle questioni proposte dalle parti si possono
svolgere le seguenti considerazioni:
Relativamente alla gratuità dei parcheggi pertinenziali
(a) la vicenda in esame si colloca nell’intervallo di tempo
compreso tra la LR 19.11.1999 n 22 e la LR 11.03.2005 n. 12;
(b) l’art. 2, comma 2, della LR 22/1999 qualifica i parcheggi
come opere di urbanizzazione ai sensi dell'art. 9, comma 1-f,
della legge 10/1977 stabilendo in questo modo la gratuità
del relativo titolo edilizio. L’art. 2, comma 1, della LR
22/1999 richiama la disciplina di favore prevista per i
parcheggi pertinenziali dall’art. 9 della legge 122/1989;
(c) come già rilevato in casi analoghi che si collocano
nello stesso intervallo di tempo (v. TAR Brescia Sez. II 23.08.2012 n. 1454), la gratuità del titolo edilizio non
riguarda i parcheggi pertinenziali che eccedono la misura
minima di legge. In effetti, essendo già assicurato
l’obiettivo posto dall’art. 41-sexies, comma 1, della legge
1150/1942, non vi sono ragioni per imporre ai comuni di
rinunciare ai corrispettivi collegati all’edificazione.
Sotto questo profilo la qualificazione dei parcheggi come
opere di urbanizzazione ex art. 11, comma 1, della legge
122/1989 rimane circoscritta, in mancanza di una specifica
norma espansiva, entro i confini della dotazione minima di
parcheggi pertinenziali stabilita dalla legge;
(d) un vero cambio di regime si è verificato con l’entrata
in vigore della LR 12/2005, che tramite l’art. 69 ha
introdotto il principio della gratuità dei titoli edilizi
relativi ai parcheggi collegando l’utilità di queste opere
direttamente agli interessi della viabilità senza la
mediazione di uno specifico edificio (di qui l’abbandono del
requisito della pertinenzialità) e senza la
predeterminazione di limiti quantitativi (di qui il
superamento della misura minima di legge). La nuova
disciplina, che non può avere effetti per il passato,
costituisce dunque lo spartiacque in materia di gratuità dei
titoli edilizi riferiti ai parcheggi (v. TAR Brescia Sez I
29.09.2009 n. 1709);
Sulla deroga agli strumenti urbanistici
(e) l’art. 9, comma 1, della legge 122/1989 consente la
realizzazione di parcheggi pertinenziali anche in deroga
agli strumenti urbanistici comunali. L’unico presupposto
della norma è il carattere pertinenziale del parcheggio,
senza che rilevino le quantità stabilite dall’art. 41-sexies,
comma 1, della legge 1150/1942. In altri termini, quando sia
costituito un vincolo di pertinenzialità la quota di
parcheggi eccedente il minimo di legge non deve essere
computata nella superficie lorda di pavimento e nella
volumetria dell’edificio principale. A maggior ragione non
deve essere computata la quota che rimane al di sotto del
minimo di legge;
(f) pertanto, indipendentemente dalle dimensioni, i
parcheggi e le autorimesse pertinenziali non consumano gli
indici edificatori stabiliti dagli strumenti urbanistici. Il
superamento della misura minima ex art. 41-sexies, comma 1,
della legge 1150/1942 era rilevante (prima della LR 12/2005)
solo perché determinava il passaggio dalla gratuità
all’onerosità del titolo edilizio (v. TAR Brescia Sez. II 23.08.2012 n. 1454). L’art. 1, comma 1, della LR 22/1999, con
una disposizione chiarificatrice, ha precisato che il
concetto di pertinenza è applicabile anche agli immobili non
residenziali;
(g) la normativa sopravvenuta (v. art. 67 della LR 12/2005)
ha ribadito la possibilità di deroga rispetto alla
disciplina urbanistica comunale, precisando i vincoli
residui;
Sul primo motivo di ricorso
(h) poiché non è contestata la natura pertinenziale
dell’autorimessa, tale opera non può incontrare i limiti
stabiliti dalla disciplina comunale in relazione agli indici
di zona. La volumetria dell’autorimessa pertinenziale,
essendo per definizione una volumetria in deroga agli
strumenti urbanistici, non può essere considerata utile per
la consumazione delle facoltà edificatorie assegnate a un
determinato lotto;
(i) ne consegue che la volumetria dell’autorimessa
pertinenziale non può essere aggregata a quella
dell’edificio principale per trasformare il titolo edilizio
relativo a quest’ultimo da gratuito a oneroso. L’aumento del
20% della volumetria che fa scattare l’onerosità del titolo
edilizio in base all’art. 9, comma 1-d, della legge 10/1977
(attualmente v. art. 17, comma 3-b, del DPR 06.06.2001 n.
380) presuppone che si tratti di volumetria rilevante ai
fini urbanistici, ed è evidente che sul medesimo lotto una
volumetria non può essere allo stesso tempo e sotto lo
stesso profilo irrilevante (come autorimessa pertinenziale)
e rilevante (come elemento al servizio dell’edificio
principale);
(j) se la superficie dell’autorimessa avesse superato la
misura minima ex art. 41-sexies, comma 1, della legge
1150/1942, sarebbe stato necessario applicare in base alla
normativa anteriore alla LR 12/2005, nonostante la
qualificazione dell’opera come pertinenziale, il contributo
concessorio su questo capo del titolo edilizio (per la parte
della superficie eccedente la misura minima). Tale
circostanza non avrebbe però prodotto alcuna conseguenza sul
capo del titolo edilizio relativo all’edificio principale,
che sarebbe rimasto gratuito. A maggior ragione non è
consentito ipotizzare un passaggio dalla gratuità
all’onerosità del titolo edilizio riferito all’edificio
principale in conseguenza di un’autorimessa pertinenziale
che rimane entro la misura minima di legge e dunque è a sua
volta realizzabile con un titolo edilizio gratuito;
Sul secondo motivo di ricorso
(k) l’art. 23 delle NTA, nella parte in cui considera
rilevante ai fini urbanistici una quota della superficie
delle autorimesse pertinenziali, non può essere considerato
conforme alla normativa nazionale e regionale sopra
richiamata;
(l) nel caso in esame peraltro non si pone il problema della
disapplicazione della disciplina comunale, in quanto, anche
volendo tenere fermo il discrimine dato dal rapporto di 1 mq
ogni 6 mc del volume dell’edificio principale, l’autorimessa
non supera il predetto limite, come è stato dimostrato nel
ricorso;
(m) se la superficie dell’autorimessa pertinenziale è
urbanisticamente irrilevante anche per la disciplina
comunale, è evidente che la volumetria calcolata su tale
superficie è allo stesso modo irrilevante, non potendovi
essere contraddizione tra gli indici urbanistici che
riguardano una stessa facoltà edificatoria. Si arriva
pertanto alla medesima conclusione esposta sopra, ovvero che
non è possibile aggregare la volumetria dell’autorimessa a
quella dell’edificio principale per trasformare il titolo
edilizio da gratuito a oneroso.
9. In conclusione il ricorso deve essere accolto, con la
condanna del Comune a restituire al ricorrente, e ai figli
del ricorrente nel cui interesse è stata proposta l’azione,
la somma di € 28.137. Su tale importo sono calcolati gli
interessi legali dalla data di notifica del ricorso fino al
saldo. Per il versamento di quanto dovuto è fissato il
termine di 30 giorni dal deposito della presente sentenza.
10. Poiché la disciplina del contributo concessorio
applicabile ai parcheggi pertinenziali proponeva, prima
dell’entrata in vigore della LR 12/2005, notevoli difficoltà
interpretative, può essere disposta la compensazione delle
spese di giudizio
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 24.05.2013 n. 508 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'atto con cui la stazione appaltante, in
conseguenza dell'informativa prefettizia, recede dal
contratto è espressione di un potere di valutazione di
natura pubblicistica.
L'atto con cui la stazione appaltante, in conseguenza
dell'informativa prefettizia, recede dal contratto è
espressione di un potere di valutazione di natura
pubblicistica, diretto a soddisfare l'esigenza di evitare la
costituzione o il mantenimento di rapporti contrattuali con
imprese nei cui confronti emergano sospetti di legami con la
criminalità organizzata.
Pertanto, trattandosi di atto estraneo alla sfera del
diritto privato, in quanto espressione di un potere
autoritativo di valutazione dei requisiti soggettivi del
contraente, il cui esercizio è consentito anche nella fase
di esecuzione del contratto, la relativa controversia
appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 23.05.2013 n. 1210 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Tar marche.
L'ingegnere non guida i vigili.
Sbaglia il sindaco che trasferisce il capo ufficio lavori
pubblici al vertice del comando della polizia municipale e
viceversa. Ingegnere e dirigente della polizia locale sono
infatti due figure professionali con un alto grado di
specializzazione non interscambiabili.
Lo ha chiarito il TAR Marche, con la
sentenza 23.05.2013 n. 370.
Un piccolo comune marchigiano ha preso alla lettera il
concetto di rotazione degli incarichi dirigenziali avviando
un completo restyling della propria struttura
dirigenziale e ponendo un ingegnere, capo ufficio lavori
pubblici, al comando della polizia municipale. Contro questa
rivoluzione inattesa gli interessati hanno proposto con
successo ricorso al giudice amministrativo.
Anche se il dirigente ha una responsabilità manageriale per
presiedere regolarmente alla sua funzione il soggetto
apicale deve essere messo in condizione di conoscere bene la
materia di interesse operativo. Mentre un laureato in
giurisprudenza può quindi essere chiamato indifferentemente
a dirigere l'ufficio affari generali la polizia locale o un
qualsiasi altro ufficio comunale, compreso il settore
urbanistica, non è vera la considerazione inversa, prosegue
la sentenza, «in quanto un ingegnere o un architetto non
dispongono certo della preparazione più adeguata per
dirigere settori in cui sono preponderanti profili giuridico
amministrativi e del tutto assente quelli tecnici».
La realizzazione del principio di rotazione dei dirigenti
poi non è praticabile negli enti di dimensioni ridotte,
conclude il collegio. In questi comuni dove mancano figure
professionali adeguate solitamente in organico sono presenti
solo un ragioniere ed un tecnico diplomato o laureato. Tutti
i tentativi empirici di sottrarre la polizia municipale al
governo di un dirigente laureato in giurisprudenza in buona
sostanza sono destinati a fallire.
In ogni caso le determinazioni creative di attribuzione
degli incarichi del primo cittadino, conclude la sentenza,
devono essere sempre adeguatamente motivate per sottrarsi
alle inevitabili censure conseguenti
(articolo ItaliaOggi dell'01.06.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ricorsi in tribunale se la p.a. non utilizza le graduatorie.
Il consiglio di stato esclude la
competenza del tar.
Il contenzioso contro le amministrazioni pubbliche che non
utilizzano le graduatorie esistenti prima del ricorso alla
mobilità all'interno dell'ente non spetta al giudice
amministrativo ma al giudice ordinario, in quanto non
riguarda la fase del concorso.
È questo il principio
affermato dalla
sentenza
21.05.2013 n. 2754 della III Sez. del Consiglio
di Stato.
La sentenza segna una
radicale svolta rispetto alla sentenza n. 4329 del 31.07.2012 con cui la quinta sezione dello stesso Consiglio di
stato aveva annullato una procedura di assunzione per
mobilità dall'esterno indetta da un comune che aveva per lo
stesso posto una graduatoria ancora valida.
È quanto mai
importante ed urgente che venga fatta chiarezza sulla
materia per dipanare i dubbi interpretativi che le
amministrazioni pubbliche si trovano a dovere affrontare e
che riguardano l'applicazione degli istituti della
assunzione in mobilità, istituto che ai sensi delle
previsioni di cui all'articolo 30 del dlgs n. 165/2001 deve
essere obbligatoriamente attivato prima della indizione di
una procedura concorsuale e della mobilità volontaria
all'interno della stessa amministrazione, strumento di
gestione flessibile delle risorse umane.
Il contenzioso
esaminato dai giudici amministrativi di appello nei giorni
scorsi riguarda il caso di una Asl che aveva deciso di
coprire un posto tramite mobilità interna in presenza di una
graduatoria valida per l'assunzione dall'esterno. I giudici
amministrativi di appello hanno confermato le decisioni
assunte in primo grado dal Tar della Toscana, per le quali
il contenzioso è di competenza del giudice ordinario in
quanto relativo alla gestione del rapporto di lavoro e non
alla sua costituzione, dovendosi limitare la competenza del
giudice amministrativo alla sola fase del concorso.
Il
ragionamento contenuto nella sentenza è il seguente: «La
causa petendi consiste nel diritto all'assunzione mediante
scorrimento della graduatoria da parte di un idoneo non
vincitore dovendosi escludere ogni correlazione con
l'esplicazione di attività autoritativa, con conseguente
attribuzione alla giurisdizione del giudice ordinario». E,
completando questa impostazione, si afferma che «il diritto
allo scorrimento di una graduatoria concorsuale, del resto
come il diritto alla mobilità, non appartiene alla fase
della procedura di concorso, ovvero al controllo giudiziale
sulla legittimità della scelta discrezionale operata
dell'amministrazione, la cui tutela è demandata al giudice
cui spetta il controllo del potere amministrativo ai sensi
dell'art. 103 Cost., ma alla fase successiva e connessa
relativa agli atti di gestione del rapporto di lavoro, donde
la sussistenza della giurisdizione civile».
A supporto di
questa tesi si citano numerose sentenze sia del Consiglio di
stato che della Corte di cassazione. Il fatto che la scelta
dell'ente si sia concretizzata in uno specifico
provvedimento non è ritenuta una ragione sufficiente per
incardinare la competenza in capo ai giudici amministrativi.
I giudici della quinta sezione nella sentenza dello scorso
mese di luglio non avevano in alcun modo declinato la
propria competenza a favore della magistratura del lavoro,
ma avevano dato una soluzione di merito, peraltro assai
discutibile: l'applicazione del vincolo della mobilità anche
nel caso di scorrimento della graduatoria «si
risolverebbe in una duplicazione di applicazione
dell'istituto della mobilità, atteso che l'obbligo di legge,
ovvero la preferenza per la mobilità già soddisfatto prima
della decisione dell'amministrazione di bandire il concorso,
dovrebbe applicarsi anche successivamente, per lo meno in
luogo dell'utilizzo della graduatoria, il che non appare
conforme alla legge che ha introdotto l'obbligo della
mobilità esterna».
E ancora, richiamando le indicazioni della Adunanza plenaria
dello stesso Consiglio di stato con la sentenza n. 14 del
2011, «l'opzione di riconnettere una discrezionalità
limitata all'amministrazione circa le modalità di
assunzione, accordando tendenziale preferenza allo
scorrimento, è maggiormente rispettosa dei principi di
trasparenza ed imparzialità, trattandosi di assunzione che
avviene allorché sono noti i soggetti in graduatoria e tale
circostanza potrebbe indebitamente interferire sulla
decisione di utilizzare o meno la graduatoria, sicché può
ben ritenersi che sul piano dell'ordinamento positivo, si è
realizzata la sostanziale inversione del rapporto tra
l'opzione per un nuovo concorso e la decisione di
scorrimento della graduatoria che costituisce ormai modalità
di reclutamento prioritaria. Quanto esposto sulla priorità
della modalità di assunzione per scorrimento della
graduatoria, comporta quale corollario la necessità della
motivazione, ove l'amministrazione decida di non utilizzare
il metodo dello scorrimento o altro metodo di assunzione».
Come si vede argomentazioni che vanno in una direzione
completamente diversa rispetto a quelle utilizzate dallo
stesso giudice amministrativo di appello nei giorni scorsi
(articolo ItaliaOggi del 31.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
URBANISTICA: Il
vincolo a parcheggio non è un vincolo espropriativo, bensì
conformativo, non comportando l’ablazione dei suoli ed
ammettendo la realizzazione anche da parte dei privati in
regime di economia di mercato, delle relative attrezzature
destinate all'uso pubblico e non dà quindi diritto ad
indennizzo.
Parimenti, sono conformativi i vincoli a verde e fascia di
mitigazione.
Il vincolo a parcheggio non è
un vincolo espropriativo, bensì conformativo, non
comportando l’ablazione dei suoli ed ammettendo la
realizzazione anche da parte dei privati in regime di
economia di mercato, delle relative attrezzature destinate
all'uso pubblico e non dà quindi diritto ad indennizzo (cfr.
Consiglio di Stato sez. IV, 02.09.2011, n. 4951).
Per giurisprudenza costante sono parimenti conformativi i
vincoli a verde e fascia di mitigazione (cfr., fra le tante,
Consiglio di Stato sez. IV, 29.11.2012, n. 6094)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 21.05.2013 n. 1339 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
destinazione di aree a verde pubblico o verde urbano assume
carattere conformativo e non espropriativo, allorché lo
strumento urbanistico consente la realizzazione, anche ad
iniziativa del proprietario, <<di opere e strutture intese
all’effettivo godimento del verde>>, il che esclude <<uno
svuotamento incisivo del contenuto del diritto di proprietà,
permanendo comunque la utilizzabilità dell’area rispetto
alla sua destinazione naturale>>.
---------------
Se si tiene conto dell’ampia discrezionalità riconosciuta
alle Amministrazioni in sede di pianificazione urbanistica,
le ragioni della classificazione a verde pubblico dei fondi
degli esponenti possono rinvenirsi nella controdeduzione
all’osservazione alla variante presentata dagli stessi
ricorrenti.
Nella risposta all’osservazione, è messa in evidenza la
volontà del Comune di creare un polo di attrezzature comuni
nella zona del territorio dove insiste l’area degli
esponenti, oltre ad essere segnalato che il PRG ha un valore
di standard di poco superiore a quello di legge (vale a dire
l’allora vigente legge regionale della Lombardia n.
51/1975).
Si tratta di argomentazioni non manifestamente illogiche o
irrazionali, non suscettibili di censura da parte dello
scrivente giudice, le cui valutazioni in materia di
pianificazione urbanistica non possono in ogni caso
sconfinare nel c.d. merito amministrativo.
Ciò premesso, occorre ricordare che, per
pacifica giurisprudenza, la destinazione di aree a verde
pubblico o verde urbano assume carattere conformativo e non
espropriativo, allorché –come nel caso di specie– lo
strumento urbanistico consente la realizzazione, anche ad
iniziativa del proprietario, <<di opere e strutture intese
all’effettivo godimento del verde>>, il che esclude <<uno
svuotamento incisivo del contenuto del diritto di proprietà,
permanendo comunque la utilizzabilità dell’area rispetto
alla sua destinazione naturale>> (così, testualmente,
Consiglio di Stato, sez. V, 13.04.2012, n. 2116; si vedano
anche sul punto: Consiglio di Stato, sez. IV, 30.07.2012, n.
4319; sez. IV 28.12.2012, n. 6700; sez. IV, 04.01.2013, n. 5 e
sez. VI, 05.04.2013, n. 1882, oltre a TAR Lombardia, Milano,
sez. IV, 11.11.2009, n. 5013).
---------------
Infatti, se si
tiene conto dell’ampia discrezionalità riconosciuta alle
Amministrazioni in sede di pianificazione urbanistica (cfr.,
fra le tante, la fondamentale sentenza del Consiglio di
Stato, sez. IV, 10.05.2012, n. 2710, richiamata e confermata
dalla successiva sentenza della stessa Sezione IV,
28.11.2012, n. 6040; Consiglio di Stato, sez. IV,
28.12.2012, n. 6703 e 21.12.2012, n. 6656; oltre che, fra le
decisioni di primo grado, TAR Lombardia, Milano, sez. II,
26.02.2013, n. 532 e 08.02.2012, n. 437; TRGA Trentino Alto
Adige, Bolzano, 17.07.2012, n. 255), le ragioni della
classificazione a verde pubblico dei fondi degli esponenti
possono rinvenirsi nella controdeduzione all’osservazione
alla variante presentata dagli stessi ricorrenti (cfr. doc.
3 di questi ultimi).
Nella risposta all’osservazione, è messa in evidenza la
volontà del Comune di creare un polo di attrezzature comuni
nella zona del territorio dove insiste l’area degli
esponenti, oltre ad essere segnalato che il PRG ha un valore
di standard di poco superiore a quello di legge (vale a dire
l’allora vigente legge regionale della Lombardia n.
51/1975).
Si tratta di argomentazioni non manifestamente illogiche o
irrazionali, non suscettibili di censura da parte dello
scrivente giudice, le cui valutazioni in materia di
pianificazione urbanistica non possono in ogni caso
sconfinare nel c.d. merito amministrativo.
In conclusione, anche il secondo motivo deve rigettarsi, con
conseguente reiezione dell’intero gravame
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 21.05.2013 n. 1334 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Gli
obblighi dichiarativi previsti dall’art. 38 del D.Lgs. n.
163 del 2006 debbono ritenersi imposti a prescindere da una
espressa previsione della legge di gara, che viene
automaticamente eterointegrata dalla disposizione in
questione.
Difatti, avendo il citato art. 38 “un chiaro contenuto di
ordine pubblico, esso si applica a prescindere dal suo
richiamo, inserimento espresso o inserzione fra le
specifiche clausole che regolano la singola gara”.
---------------
L’istituto del
falso innocuo (ossia dell’irrilevanza della mancata
dichiarazione in ordine alla insussistenza di cause di
esclusione dalla gara da parte dei legali rappresentanti
dell’impresa, allorquando non vi siano in concreto elementi
ostativi alla partecipazione) non può essere applicato nelle
gare d’appalto.
Difatti, “nelle procedure di evidenza pubblica la
completezza [e, a fortiori, l’esistenza] delle dichiarazioni
(…) è già di per sé un valore da perseguire perché consente
–anche in ossequio al principio di buon andamento
dell’amministrazione e di proporzionalità– la celere
decisione in ordine all’ammissione dell’operatore economico
alla gara. Conseguentemente una dichiarazione inaffidabile
(perché falsa o incompleta) è già di per sé stessa lesiva
degli interessi considerati dalla norma a prescindere dal
fatto che l’impresa meriti ‘sostanzialmente’ di partecipare
alla gara. In altri termini, nel diritto degli appalti
occorre poter fare affidamento su una dichiarazione idonea a
far assumere tempestivamente alla stazione appaltante le
necessarie determinazioni in ordine all’ammissione
dell’operatore economico alla gara o alla sua esclusione. La
dichiarazione ex articolo 38, dunque, è sempre utile perché
l’amministrazione sulla base di quella può/deve decidere la
legittima ammissione alla gara e conseguentemente la sua
difformità dal vero o la sua incompletezza non possono
essere “sanate” ricorrendo alla categoria del falso
innocuo”.
Va premesso, in punto di fatto, che non è
oggetto di contestazione la mancanza, nella documentazione
prodotta da Charta, delle dichiarazioni personali da parte
del proprio Presidente e legale rappresentante e di uno dei
consiglieri, qualificato quale rappresentante dell’impresa.
La ricorrente principale contesta che la lex specialis
contenesse una previsione specifica relativa al dovere dei
propri amministratori di rilasciare una siffatta
dichiarazione; di conseguenza, la predetta omissione, in
ossequio al disposto di cui all’art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 163 del 2006, non avrebbe potuto comportare
l’esclusione dalla gara di Charta.
In realtà, la mancanza di una espressa previsione in tal
senso non appare decisiva, atteso che gli obblighi
dichiarativi previsti dall’art. 38 del D.Lgs. n. 163 del
2006 debbono ritenersi imposti a prescindere da una espressa
previsione della legge di gara, che viene automaticamente eterointegrata dalla disposizione in questione.
Difatti, secondo una condivisibile giurisprudenza, avendo il
citato art. 38 “un chiaro contenuto di ordine pubblico, esso
si applica a prescindere dal suo richiamo, inserimento
espresso o inserzione fra le specifiche clausole che
regolano la singola gara” (TAR Sicilia, Catania, II, 03.08.2012, n. 1989).
Ulteriormente, la ricorrente principale richiama la
teoria del falso innocuo, ossia dell’irrilevanza della
mancata dichiarazione in ordine alla insussistenza di cause
di esclusione dalla gara da parte dei legali rappresentanti
dell’impresa, allorquando non vi siano in concreto elementi
ostativi alla partecipazione, come pacifico nel caso di
specie (cfr. all. 5 e 6 di Charta).
Ad avviso del Collegio, pur in presenza di opinioni
dissonanti in merito, l’istituto del falso innocuo non può
essere applicato nelle gare d’appalto.
Difatti, “nelle procedure di evidenza pubblica la
completezza [e, a fortiori, l’esistenza] delle dichiarazioni
(…) è già di per sé un valore da perseguire perché consente
–anche in ossequio al principio di buon andamento
dell’amministrazione e di proporzionalità– la celere
decisione in ordine all’ammissione dell’operatore economico
alla gara. Conseguentemente una dichiarazione inaffidabile
(perché falsa o incompleta) è già di per sé stessa lesiva
degli interessi considerati dalla norma a prescindere dal
fatto che l’impresa meriti ‘sostanzialmente’ di partecipare
alla gara. In altri termini, nel diritto degli appalti
occorre poter fare affidamento su una dichiarazione idonea a
far assumere tempestivamente alla stazione appaltante le
necessarie determinazioni in ordine all’ammissione
dell’operatore economico alla gara o alla sua esclusione. La
dichiarazione ex articolo 38, dunque, è sempre utile perché
l’amministrazione sulla base di quella può/deve decidere la
legittima ammissione alla gara e conseguentemente la sua
difformità dal vero o la sua incompletezza non possono
essere “sanate” ricorrendo alla categoria del falso innocuo”
(Consiglio di Stato, III, 16.03.2012, n. 1471) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 21.05.2013 n. 1332 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'opera
edilizia consistente nella realizzazione di una tettoia si
caratterizza in termini di "nuova costruzione", tale da
necessitare di previo rilascio di titolo abilitativo.
Tali interventi, infatti, innovano il preesistente immobile
in quanto si perviene ad un manufatto del tutto nuovo per
consistenza e materiali utilizzati, come tale non
riconducibile a quello già esistente che anzi viene alterato
sia dal punto di vista morfologico che funzionale: dinanzi a
tali significative modificazioni si impone di conseguenza la
verifica di compatibilità delle opere a mezzo della previa
concessione edilizia.
Ne consegue che correttamente l’Amministrazione intimata ha
ricavato il regime sanzionatorio da applicare al caso di
specie dall’art. 31 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, che
riguarda proprio le nuove costruzioni; e che ricollega alla
loro realizzazione abusiva la sanzione della rimozione, alla
quale si aggiunge, in caso di inottemperanza all’ordine
demolitorio, l’acquisizione gratuita del bene e dell’area di
sedime.
Invero, secondo la più recente
giurisprudenza, l'opera edilizia consistente nella
realizzazione di una tettoia si caratterizza in termini di
"nuova costruzione", tale da necessitare di previo rilascio
di titolo abilitativo. Tali interventi infatti, secondo la
stessa giurisprudenza, innovano il preesistente immobile in
quanto si perviene ad un manufatto del tutto nuovo per
consistenza e materiali utilizzati, come tale non
riconducibile a quello già esistente che anzi viene alterato
sia dal punto di vista morfologico che funzionale: dinanzi a
tali significative modificazioni si impone di conseguenza la
verifica di compatibilità delle opere a mezzo della previa
concessione edilizia (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 09.09.2005 n. 4668; TAR Toscana, sez. III, 26.02.2010, n. 516).
Ne consegue che correttamente l’Amministrazione intimata
ha ricavato il regime sanzionatorio da applicare al caso di
specie dall’art. 31 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, che
riguarda proprio le nuove costruzioni; e che ricollega alla
loro realizzazione abusiva la sanzione della rimozione, alla
quale si aggiunge, in caso di inottemperanza all’ordine demolitorio, l’acquisizione gratuita del bene e dell’area di
sedime
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.05.2013 n. 1308 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
provvedimento repressivo dell'abuso edilizio non necessita
di altra motivazione che non sia un'adeguata descrizione
dell'illecito nei suoi estremi materiali; e ciò anche quando
l’atto sanzionatorio sia adottato a notevole distanza
temporale dal momento di realizzazione dell’abuso: trattasi
infatti di illecito permanente che preserva l’interesse
dell’autorità ed il suo il potere-dovere di intervenire per
reprimerlo.
Pertanto, la motivazione dell’atto impugnato, nella quale
viene ampiamente illustrata la consistenza delle circostanze
materiali che danno luogo all’abuso, appare del tutto
adeguata.
Rimane da
scrutinare il quarto motivo con il quale l’interessata
sostiene che, in considerazione del lungo lasso temporale
intercorso fra il momento di realizzazione del manufatto
abusivo ed il momento di emissione dell’ordine demolitorio,
l’Amministrazione avrebbe dovuto provvedere a motivare
adeguatamente il provvedimento impugnato, dando atto delle
ragioni che l’hanno indotta sacrificare l’affidamento ormai
cristallizzato in capo al privato.
Anche questa doglianza è infondata atteso che, per
pacifica giurisprudenza, il provvedimento repressivo
dell'abuso edilizio non necessita di altra motivazione che
non sia un'adeguata descrizione dell'illecito nei suoi
estremi materiali; e ciò anche quando l’atto sanzionatorio
sia adottato a notevole distanza temporale dal momento di
realizzazione dell’abuso: trattasi infatti di illecito
permanente che preserva l’interesse dell’autorità ed il suo
il potere-dovere di intervenire per reprimerlo (cfr. ex multis TAR Campania Napoli, sez. VIII,
01.10.2012 n.
4005).
Pertanto, la motivazione dell’atto impugnato, nella quale
viene ampiamente illustrata la consistenza delle circostanze
materiali che danno luogo all’abuso, appare del tutto
adeguata
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.05.2013 n. 1308 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Quando
la strada vicinale non è iscritta negli appositi elenchi (di
cui all’art. 20 L. n. 2248/1865 all. F), l’amministrazione
deve porre a base delle sue determinazioni idonei
accertamenti da cui risulti un titolo di acquisto del
relativo diritto da parte della collettività.
---------------
Il Comune ha voluto desumere l'uso pubblico (della strada)
dal fatto che il passaggio venga esercitato nell'interesse
di un gruppo limitato di soggetti, quali i proprietari di
determinati immobili, in dipendenza della loro particolare
ubicazione.
In siffatte evenienze, non può dirsi dimostrato che la
strada in questione sia al servizio della generalità
indifferenziata dei cittadini uti cives e non uti singuli e
non risulta neanche comprovata l’utilizzazione continuativa
da parte dei soli residenti che se ne servono per
raggiungere i fabbricati ivi ubicati.
Nel caso di specie, in definitiva, non vengono indicati
elementi presuntivi aventi i requisiti di gravità,
precisione e concordanza prescritti dall'art. 2729 c.c.. e
neanche la concreta idoneità della strada a soddisfare
attualmente esigenze di pubblica utilità, al fine di
dimostrare l’asservimento della stessa all'uso pubblico.
Prima di emettere il provvedimento impugnato, per contro,
l’amministrazione avrebbe dovuto accertare attraverso
un'adeguata attività istruttoria -i cui contenuti ed esiti
avrebbero dovuto essere riportati nella motivazione
dell'ordinanza di rimozione- se effettivamente nel caso di
specie sussistessero tutti i requisiti per poter qualificare
la strada in questione come strada destinata ad uso
pubblico.
... per l'annullamento dell’ordinanza del Responsabile del
servizio “Ufficio lavori pubblici e gestione del
territorio” n. 11/2005 del 2.12.2005, di immediata
rimozione dei manufatti (pali metallici e catena) installati
su strada posta al servizio della località Roccolo.
...
Dalla documentazione versata in atti
da entrambe le parti non emerge in modo univoco la natura
giuridica della strada, né si rinvengono elementi idonei a
provare l’esistenza di una servitù di uso pubblico su di
essa, e, neppure ricorrono elementi atti a deporre per la
sua demanialità.
L’istruttoria compiuta dall’Amministrazione comunale si
rivela semplicistica e superficiale, anche perché non tiene
conto del fatto che, quando la strada vicinale non è
iscritta negli appositi elenchi (di cui all’art. 20 L. n.
2248/1865 all. F), l’amministrazione deve porre a base delle
sue determinazioni idonei accertamenti da cui risulti un
titolo di acquisto del relativo diritto da parte della
collettività. Allo stesso modo, risultano carenti gli altri
requisiti a tal fine necessari, ovvero, il passaggio
abituale esercitato da una collettività di persone
qualificate dall’appartenenza ad un gruppo territoriale,
nonché la concreta idoneità della strada a soddisfare
esigenze di pubblico interesse.
L’amministrazione si è limitata, infatti, ad affermare ma
non ha dimostrato la “notorietà pubblica” della strada, né
ha documentato quali sarebbero le “dichiarazioni degli
utenti interessati”, a cui si fa solo cenno nelle premesse
dell’atto impugnato.
Le mappe versate in giudizio, poi, non chiariscono il regime
giuridico della strada, atteso che, specie quella risalente
al 1860 (tratta dall’archivio di Stato del comune di Como),
pur recando l’indicazione della strada in questione, non ne
fornisce alcuna qualificazione, a differenza della contigua
strada per Rovenzola, ivi indicata come “comunale”.
Non risulta, quindi, che la P.A. abbia posto a fondamento
del provvedimento impugnato accertamenti idonei in ordine
alla sussistenza di un eventuale uso pubblico pregresso,
condotti mediante un approfondito esame della condizione
effettiva in cui il bene si trova (cfr. ex multis Cons. St.,
Sez. V, 04.02.2004 n. 373; id. 07.04.1995 n. 522; TAR
Catanzaro, I, 19.12.2011 n. 1634; TAR Lazio, Roma, Sez. II,
29.03.2004, n. 2922 TAR Valle d'Aosta, I, n. 86/2009) o
mediante la verifica che l'uso pubblico possa aver luogo ad
opera di una collettività indeterminata di persone, per
soddisfare un interesse pubblico generale. Sembra, al
contrario, che il Comune abbia voluto desumere l'uso
pubblico dal fatto che il passaggio venga esercitato
nell'interesse di un gruppo limitato di soggetti, quali i
proprietari di determinati immobili, in dipendenza della
loro particolare ubicazione.
In siffatte evenienze, non può dirsi dimostrato che la
strada in questione sia al servizio della generalità
indifferenziata dei cittadini uti cives e non uti singuli e
non risulta neanche comprovata l’utilizzazione continuativa
da parte dei soli residenti che se ne servono per
raggiungere i fabbricati ivi ubicati (cfr. TAR Calabria,
Catanzaro, sez. I, sentenza 19.12.2011, n. 1634; TAR
Emilia Romagna, Parma, 25.05.2005 n. 287).
Nel caso di specie, in definitiva, non vengono indicati
elementi presuntivi aventi i requisiti di gravità,
precisione e concordanza prescritti dall'art. 2729 c.c.. e
neanche la concreta idoneità della strada a soddisfare
attualmente esigenze di pubblica utilità, al fine di
dimostrare l’asservimento della stessa all'uso pubblico
(cfr. Cons. di Stato, sez. V, 24.05.2007, n. 2618; id.
01.12.2003, n. 7831; id. 24.10.2000 n. 5692; id.,
Sez. IV, 02.03.2001 n. 1155).
Prima di emettere il provvedimento impugnato, per contro,
l’amministrazione avrebbe dovuto accertare attraverso
un'adeguata attività istruttoria -i cui contenuti ed esiti
avrebbero dovuto essere riportati nella motivazione
dell'ordinanza di rimozione- se effettivamente nel caso di
specie sussistessero tutti i requisiti per poter qualificare
la strada in questione come strada destinata ad uso
pubblico.
Deve, quindi, essere ribadita la fondatezza del suesposto
motivo
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 15.05.2013 n. 1270 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione del prefabbricato (in
legno ad uso ricovero attrezzi avente superficie di mq. 18,
con altezza minima di m. 1,87 e massima di m. 2,49)
in assenza di titolo edilizio costituisce attività
sanzionabile ai sensi degli artt. 4 ss., della legge
28.02.1985, n. 47; sicché è senz’altro legittimo l’ordine di
demolizione del manufatto, in ordine al quale l’orientamento
pressoché univoco della giurisprudenza è nel senso che ove
si tratti di struttura realizzata per soddisfare esigenze di
carattere permanente (come nel caso in esame) prescindendo
da qualsiasi valutazione in ordine alla facile amovibilità o
meno di tale struttura -che il ricorrente non ha peraltro
nemmeno dedotto- alla stessa non potrà attribuirsi carattere
di opera precaria.
Si tratta, infatti, di un manufatto il cui uso (ricoveri
attrezzi) è comunque destinato a ripetersi a tempo
indeterminato e la cui installazione modifica in modo
durevole l’area scoperta preesistente, per cui l’opera
richiede la concessione edilizia.
Ne consegue che la realizzazione del prefabbricato in
assenza di valido titolo edilizio rende necessitato
l’intervento del Comune e legittimo l’ordine di demolizione,
avente finalità sanzionatorie e ripristinatorie, adottato
dall’Amministrazione.
---------------
Quanto alla tettoia (di mq. 18, con altezza minima di m.
2,60 e massima di m. 3,00.), il Collegio rileva che la
stessa deve ritenersi di dimensioni rilevanti e destinata a
funzioni permanenti e durature e non ad esigenze contingenti
e temporanee; pertanto anche ad essa non può essere
attribuito il carattere della precarietà e come tale essa
deve ritenersi soggetta a previa concessione edilizia. Ha
chiarito infatti giurisprudenza amministrativa che è
necessario il permesso di costruire per una tettoia
destinata al riparo o protezione dagli agenti atmosferici in
quanto in tal caso deve escludersi il carattere precario
della stessa.
Il fatto che le opere fossero soggette a concessione e non
ad autorizzazione rende inapplicabile l’articolo 10 della
legge 47/1985, il cui richiamo nel provvedimento impugnato
deve ritenersi frutto di errore materiale, come evincibile,
oltre che dalla tipologia degli abusi realizzati, anche
dalla sanzione in concreto comminata. In proposito si
ricorda che il richiamo ad una norma diversa da quella da
applicarsi nel caso concreto deve considerarsi mero errore
materiale, come tale non invalidante, quando come nella
specie sia univoco e chiaramente distinguibile il potere
esercitato.
L’ordine di demolizione ha ad oggetto un
prefabbricato in legno ad uso ricovero attrezzi avente
superficie di mq. 18, con altezza minima di m. 1,87 e
massima di m. 2,49 nonché una tettoia anch’essa di mq. 18,
con altezza minima di m. 2,60 e massima di m. 3,00.
La realizzazione del prefabbricato in assenza di titolo
edilizio costituisce attività sanzionabile ai sensi degli
artt. 4 ss., della legge 28.02.1985, n. 47; sicché è
senz’altro legittimo l’ordine di demolizione del manufatto,
in ordine al quale l’orientamento pressoché univoco della
giurisprudenza è nel senso che ove si tratti di struttura
realizzata per soddisfare esigenze di carattere permanente
(come nel caso in esame) prescindendo da qualsiasi
valutazione in ordine alla facile amovibilità o meno di tale
struttura -che il ricorrente non ha peraltro nemmeno
dedotto- alla stessa non potrà attribuirsi carattere di
opera precaria.
Si tratta, infatti, di un manufatto il cui uso (ricoveri
attrezzi) è comunque destinato a ripetersi a tempo
indeterminato e la cui installazione modifica in modo
durevole l’area scoperta preesistente, per cui l’opera
richiede la concessione edilizia.
Ne consegue che la realizzazione del prefabbricato in
assenza di valido titolo edilizio rende necessitato
l’intervento del Comune e legittimo l’ordine di demolizione,
avente finalità sanzionatorie e ripristinatorie, adottato
dall’Amministrazione.
Quanto alla tettoia, il Collegio rileva che la stessa deve
ritenersi di dimensioni rilevanti e destinata a funzioni
permanenti e durature e non ad esigenze contingenti e
temporanee; pertanto anche ad essa non può essere attribuito
il carattere della precarietà e come tale essa deve
ritenersi soggetta a previa concessione edilizia. Ha
chiarito infatti giurisprudenza amministrativa che è
necessario il permesso di costruire per una tettoia
destinata al riparo o protezione dagli agenti atmosferici in
quanto in tal caso deve escludersi il carattere precario
della stessa. (cfr Cassazione 07.09.2011, n. 3326; Tar
Lombardia, Milano, sezione seconda, 04.12.2007, n.
6544).
Il fatto che le opere fossero soggette a concessione e non
ad autorizzazione rende inapplicabile l’articolo 10 della
legge 47/1985, il cui richiamo nel provvedimento impugnato
deve ritenersi frutto di errore materiale, come evincibile,
oltre che dalla tipologia degli abusi realizzati, anche
dalla sanzione in concreto comminata. In proposito si
ricorda che il richiamo ad una norma diversa da quella da
applicarsi nel caso concreto deve considerarsi mero errore
materiale, come tale non invalidante, quando come nella
specie sia univoco e chiaramente distinguibile il potere
esercitato (cfr. Tar Lombardia, Milano, sezione seconda, 17.01.2011, n. 94).
In conclusione il ricorso è infondato e deve essere respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 14.05.2013 n. 1266 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
GIURISPRUDENZA |
COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALI: Va
evidenziato come, effettivamente, l’art. 53, comma 23, della
L. n. 388/2000 disciplini l’ammissibilità di una deroga ai
principi di necessaria separazione tra funzioni di gestione
e funzioni politiche e di indirizzo di cui al D.lgs.
267/2000.
Con riferimento a detta deroga va, tuttavia, rilevato come
essa, nel permettere che i componenti di un organo a cui
spetta, di regola, la gestione dell’Ente locale (nella
specie la Giunta Comunale) possano risultare assegnatari
della responsabilità degli uffici e dei servizi di un
Comune, prevede, altresì, che l’applicabilità di detta
disciplina derogatoria sia subordinata alla sussistenza di
alcuni presupposti, principalmente riconducibili alla
necessità di operare un contenimento della spesa e, ciò, per
quanto concerne i Comuni con una popolazione inferiore a
5000 abitanti.
Nel perseguimento di detto intento l’art. 53, comma 23,
sopra citato ha previsto la necessità che il contenimento
della spesa sia “effettivo” e, ciò, nella parte in cui ha
espressamente disciplinato l’obbligo che detto contenimento
sia documentato ogni anno, con un’apposita deliberazione, in
sede di approvazione del bilancio.
Con riferimento al caso sottoposto a questo Collegio va
evidenziato come deve ritenersi del tutto insussistente il
presupposto del contenimento della spesa, presupposto
quest’ultimo che deve ritenersi l’unico idoneo a sancire una
deroga ai principi di separazione tra gestione e attività di
indirizzo, introdotti dalla L. n. 142/1990 e poi ribaditi
nel Testo Unico degli Enti locali sopra citato e tutt’ora
vigente.
... per l'annullamento
della determinazione n. 116 in data 10/12/2008 a firma del
Sindaco Responsabile dell’area Manutentiva del Comune di
Fardella, notificata in pari data, con la quale è stata
annullata la concessione edilizia n. 02 del 18/01/1985 ed è
stata ordinata la demolizione del fabbricato costruito a
seguito della concessione edilizia ed il ripristino dello
stato dei luoghi.
...
Il ricorso è fondato per i motivi di seguito precisati e con
riferimento, in particolare, sia al primo che il quarto
motivo.
Con riferimento al primo motivo parte ricorrente rileva
l’incompetenza del Sindaco, in quanto Responsabile dell’Area
Manutentiva, ad adottare il provvedimento impugnato.
Sul punto va preliminarmente evidenziato come,
effettivamente, l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000
disciplini l’ammissibilità di una deroga ai principi di
necessaria separazione tra funzioni di gestione e funzioni
politiche e di indirizzo di cui al D.lgs. 267/2000.
Con riferimento a detta deroga va, tuttavia, rilevato come
essa, nel permettere che i componenti di un organo a cui
spetta, di regola, la gestione dell’Ente locale (nella
specie la Giunta Comunale) possano risultare assegnatari
della responsabilità degli uffici e dei servizi di un
Comune, prevede, altresì, che l’applicabilità di detta
disciplina derogatoria sia subordinata alla sussistenza di
alcuni presupposti, principalmente riconducibili alla
necessità di operare un contenimento della spesa e, ciò, per
quanto concerne i Comuni con una popolazione inferiore a
5000 abitanti.
Nel perseguimento di detto intento l’art. 53, comma 23,
sopra citato ha previsto la necessità che il contenimento
della spesa sia “effettivo” e, ciò, nella parte in cui ha
espressamente disciplinato l’obbligo che detto contenimento
sia documentato ogni anno, con un’apposita deliberazione, in
sede di approvazione del bilancio.
Con riferimento al caso di specie va al contrario
evidenziato che, come ha avuto modo di dimostrare parte
ricorrente -senza peraltro essere smentita dalla contro
interessata-, nell’ambito dell’organico del Comune fosse
stata prevista (con la delibera n. 46/2006) la copertura del
posto vacante presso l’Ufficio Tecnico.
Con la successiva delibera n. 47/2006 detta dotazione
organica era stata, altresì, individuata nell’espressa
previsione di un profilo “C 3”, soggetto quest’ultimo al
quale erano stati poi attribuiti i compiti di responsabile
dell’Area Tecnica e con Decreto Sindacale n. 08/2006.
Sul punto va, peraltro, evidenziato come un orientamento
giurisprudenziale, già vigente nel momento in cui veniva
emanato l’atto impugnato (TAR Calabria Catanzaro Sez. II,
12.03.2004, n. 627), si era sancito che “la giunta
conferisca al sindaco il potere di gestire l'area tecnica,
se nell'organico comunale difettino figure dotate di una
professionalità specifica ed opportuna per la gestione di
detta area”, elemento quest’ultimo che non può non essere
interpretato nell’intento di circoscrivere l’applicazione
dell’art. 53 sopra citato in considerazione delle finalità
sopra ricordate della norma di cui si tratta e del carattere
eccezionale della stessa disciplina.
Con riferimento al caso sottoposto a questo Collegio va
evidenziato come, sulla base delle circostanze sopra citate,
deve ritenersi del tutto insussistente il presupposto del
contenimento della spesa, presupposto quest’ultimo che deve
ritenersi l’unico idoneo a sancire una deroga ai principi di
separazione tra gestione e attività di indirizzo, introdotti
dalla L. n. 142/1990 e poi ribaditi nel Testo Unico degli Enti
locali sopra citato e tutt’ora vigente.
Condividere le tesi del soggetto controinteressato
porterebbe a ritenere applicabile l’art. 53, comma 23, della
L. n. 388/2000 a fattispecie del tutto differenti,
estendendo l’ambito di incidenza di una norma dall’evidente
carattere eccezionale e derogatorio e vanificando, così,
quei principi di separazione sopra ricordati che, in quanto
ribaditi anche nella legislazione in materia di pubblico
impiego, hanno assunto i caratteri di principi fondamentali
del nostro ordinamento.
Il motivo è pertanto fondato (TAR Basilicata,
sentenza 08.04.2013 n. 158 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’illegittimità
del provvedimento di cui si tratta è evidente laddove si
consideri quei costanti orientamenti giurisprudenziali che,
da un lato, ritengono indispensabile che il potere di
autotutela sia esercitato entro un termine ragionevole, come
prescritto dall'art. 21-nonies della L. n. 241/1990 e,
dall’altro, hanno sancito la “inidoneità”, a
giustificare l’annullamento d’ufficio di una concessione
edilizia, della sola finalità di ripristinare la legalità
violata.
Detto ultimo orientamento ha, infatti, ritenuto
indispensabile che sia data prova di un interesse pubblico
attuale e concreto alla rimozione del titolo edilizio “tanto
più quando il titolare della concessione, in ragione del
tempo decorso, ha fatto un ragionevole affidamento sulla
regolarità della concessione ottenuta quando una
significativa parte delle opere assentite sono state già
realizzate.
Pur considerando dirimente ai fini della decisione del
ricorso l’accoglimento del motivo sopra evidenziato, va
altresì rilevato come risulti fondato anche il quarto motivo
del ricorso, mediante il quale parte ricorrente evidenzia
che il provvedimento impugnato, pur intendendo disporre
espressamente “l’annullamento in autotutela ai sensi
dell’art. 14 della L. n. 15/2005 di riforma della L. n.
241/1990”, sia del tutto privo dell’indispensabile
comparazione tra interesse pubblico e privato, così come
sancita dall’art. 21-nonies introdotto dalla disciplina
sopra ricordata.
Non solo nel provvedimento non vi è traccia del percorso
logico deduttivo correlato all’interesse pubblico, ma
ancora, non è presente alcuna considerazione circa il
considerevole lasso di tempo trascorso e, ciò, con
riferimento ad un provvedimento di concessione edilizia
adottato nel corso del 1985.
L’illegittimità del provvedimento di cui si tratta è,
altresì, evidente laddove si consideri quei costanti
orientamenti giurisprudenziali che, da un lato, ritengono
indispensabile che il potere di autotutela sia esercitato
entro un termine ragionevole, come prescritto dall'art. 21-nonies della L. n. 241/1990 (Consiglio di Stato Sez. V,
Sent. n. 816 del 04.03.2008) e, dall’altro, hanno sancito la
“inidoneità”, a giustificare l’annullamento d’ufficio di una
concessione edilizia, della sola finalità di ripristinare la
legalità violata.
Detto ultimo orientamento ha, infatti, ritenuto
indispensabile che sia data prova di un interesse pubblico
attuale e concreto alla rimozione del titolo edilizio “tanto
più quando il titolare della concessione, in ragione del
tempo decorso, ha fatto un ragionevole affidamento sulla
regolarità della concessione ottenuta quando una
significativa parte delle opere assentite sono state già
realizzate (Tar Basilicata, Sez. I, 19/01/1998 n. 15)”.
L’accoglimento delle censure sopra precisate consente di
assorbire gli ulteriori motivi proposti da parte ricorrente.
Il ricorso è pertanto fondato e va disposto
l’annullamento della determinazione n. 116 in data
10/12/2008 a firma del Sindaco Responsabile dell’area
Manutentiva del Comune di Fardella, con la quale è stata
annullata la concessione edilizia n. 02 del 18/01/1985 ed è
stata ordinata la demolizione del fabbricato costruito a
seguito della ripetuta concessione edilizia ed il ripristino
dello stato dei luoghi (TAR Basilicata,
sentenza 08.04.2013 n. 158 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nella
zona di rispetto ferroviario di cui all’art. 39 del D.P.R.
753 del 1980 vige un vincolo di inedificabilità relativa e
non già assoluta, come tale quindi rientrante nella
previsione dell’art. 32 e non dell’art. 33 della L.
28.02.1985 n. 47, posto che a’ sensi dell’art. 60 del
medesimo D.P.R. 753 del 19890 l’Autorità a ciò competente
può assentire deroghe alle distanze dai binari ivi
contemplate.
A tale riguardo va evidenziato che la giurisprudenza, a
differenza dell’approdo interpretativo qui raggiunto dal
giudice di primo grado, unanimemente ormai afferma che nella
zona di rispetto ferroviario di cui all’art. 39 del D.P.R.
753 del 1980 vige un vincolo di inedificabilità relativa e
non già assoluta, come tale quindi rientrante nella
previsione dell’art. 32 e non dell’art. 33 della L. 28.02.1985 n. 47, posto che a’ sensi dell’art. 60 del
medesimo D.P.R. 753 del 19890 l’Autorità a ciò competente
può assentire deroghe alle distanze dai binari ivi
contemplate (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. V,
13.02.1997 n. 158; del tutto costante sul punto anche
la giurisprudenza in primo grado: cfr., ex plurimis, TAR
Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 04.08.2008 n. 3593,
TAR Toscana, Sez. III, 18.01.2010 n. 37 e, tra le
più recenti, TAR Puglia, Lecce,sez. III, 12.09.2012 n. 1518; per completezza espositiva va detto che la
fascia di rispetto di cui all’art. 49 del D.P.R. 753 del
1980 seguita ad essere definita come area di in
edificabilità assoluta soltanto dal giudice ordinario e dal
Tribunale superiore delle acque pubbliche ai soli fini della
determinazione dell’indennità di espropriazione: cfr. in tal
senso, ex plurimis, Cass. Civ., Sez. I, 10.11.2008 n.
26899 e Tribunale superiore delle acque pubbliche, 13.10.2010
n. 140) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.04.2013 n. 1902 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Un
atto endoprocedimentale –quale è, per l’appunto, un parere-
non è, di per sé, autonomamente impugnabile, e ciò in quanto
la lesione della sfera giuridica del destinatario è
imputabile al solo atto che conclude il procedimento.
Altresì, sussiste la necessità di impugnazione dei pareri
aventi carattere vincolato -ossia dei pareri che sono
comunque idonei a conformare in maniera inderogabile la
determinazione conclusiva che l’Amministrazione decidente
deve assumere- entro il termine decadenziale decorrente
dalla loro conoscenza.
Ciò posto, è
invero del tutto consolidata la giurisprudenza secondo la
quale un atto endoprocedimentale –quale è, per l’appunto,
un parere- non è, di per sé, autonomamente impugnabile, e
ciò in quanto la lesione della sfera giuridica del
destinatario è imputabile al solo atto che conclude il
procedimento.
Tuttavia, la medesima giurisprudenza recante l’affermazione
di tale principio altrettanto costantemente afferma la
necessità di impugnazione dei pareri aventi carattere
vincolato -ossia dei pareri che sono comunque idonei a
conformare in maniera inderogabile la determinazione
conclusiva che l’Amministrazione decidente deve assumere- entro il termine decadenziale decorrente dalla loro
conoscenza (cfr. in tal senso, ex plurimis, Cons. Stato,
Sez. VI, 09.11.2011 n. 5921): e nel caso in esame è
indubbio che l’apprezzamento di Ferrovie dello Stato S.p.a.
–e, ora, di Reti Ferroviarie Italiane S.p.a.– sulla
compatibilità della distanza delle costruzioni dalla sede
ferroviarie con le condizioni di sicurezza per la
circolazione dei convogli ferroviari è assolutamente
insindacabile da parte dell’Amministrazione Comunale,
vincolandone –per l’appunto– la discrezionalità in sede di
esame delle istanze di condono edilizio, ovvero di
accertamento di conformità a’ sensi degli artt. 36 e 37 del
T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e dei
conseguenti istituti contemplati dalla legislazione
regionale emanata a’ sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, del
medesimo T.U. (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.04.2013 n. 1902 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Nei
casi in cui un provvedimento si fondi su ragioni diverse e
si dubiti della legittimità di qualcuno di tali presupposti,
occorre verificare se quelli che sfuggono alle contestazioni
avanzate lo sorreggano adeguatamente, tanto da impedire il
suo annullamento; ossia -detto altrimenti- se l’atto
impugnato è legittimamente fondato su una ragione di per sé
sufficiente a sorreggerlo, diventano irrilevanti le
ulteriori censure dedotte avverso le altre ragioni opposte
dall’autorità emanante a rigetto dell’istanza.
Come è ben
noto, la giurisprudenza unanimemente afferma che nei casi in
cui un provvedimento si fondi su ragioni diverse e si dubiti
della legittimità di qualcuno di tali presupposti, occorre
verificare se quelli che sfuggono alle contestazioni
avanzate lo sorreggano adeguatamente, tanto da impedire il
suo annullamento (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 27.02.2012. n. 1081); ossia -detto altrimenti- se
l’atto impugnato è legittimamente fondato su una ragione di
per sé sufficiente a sorreggerlo, diventano irrilevanti le
ulteriori censure dedotte avverso le altre ragioni opposte
dall’autorità emanante a rigetto dell’istanza (cfr., ex plurimis, Cons. Stato., Sez. VI, 12.10.2011 n. 5517) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.04.2013 n. 1902 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’impianto
di telefonia in argomento è annoverabile tra le
infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione e, come
tale, può essere equiparato, a tenore dell’art. 86 comma
terzo del D.Lgs. 01.08.2003 n. 259 (Codice delle
comunicazioni elettroniche), alle ordinarie opere di
urbanizzazione primaria, compatibili con qualsiasi
destinazione urbanistica.
Inoltre, a tenore dell’art. 231 del Codice postale (D.P.R.
n. 156/1973), <<gli impianti di teleradio-comunicazioni e le
opere accessorie occorrenti per la funzionalità di detti
impianti, sempreché siano esercitati dallo Stato o dai
concessionari per i servizi ad uso pubblico, hanno carattere
di pubblica utilità>>.
---------------
Il Comune non ha, per legge, la potestà di introdurre un
divieto generalizzato di installazione degli impianti di
telefonia, né di introdurre misure che, pur essendo di
natura tipicamente urbanistica (distanze, altezze, quote,
eccetera) non siano funzionali al governo del territorio,
quanto piuttosto alla tutela dai rischi
dell’elettromagnetismo che –a tenore dell’art. 8 della legge
22.02.2001 n. 36– rientra nelle esclusive attribuzioni
statali, non già in quelle comunali.
La localizzazione degli impianti nelle sole zone in cui il
Regolamento li consente si pone in contrasto non solo con
l’esigenza di permettere la copertura del servizio di
telefonia mobile sull’intero territorio comunale, ma anche
con la loro natura di infrastrutture primarie e impianti di
interesse generale, posti al servizio della comunità e
quindi compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica.
La società ricorrente vuole implementare un impianto di
telefonia già esistente ma riceve il diniego del Comune,
motivato con il fatto che la zona prescelta, a tenore del
Regolamento comunale, non sarebbe idonea.
Le deduzioni del
Comune non considerano che l’impianto di telefonia in
argomento è annoverabile tra le infrastrutture di reti
pubbliche di comunicazione e, come tale, può essere
equiparato, a tenore dell’art. 86 comma terzo del D.Lgs. 01.08.2003 n. 259 (Codice delle comunicazioni
elettroniche), alle ordinarie opere di urbanizzazione
primaria, compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica
(cfr.: TAR Sicilia Palermo II, 11.01.2011 n. 22).
Inoltre,
a tenore dell’art. 231 del Codice postale (D.P.R. n.
156/1973), <<gli impianti di teleradio-comunicazioni e le
opere accessorie occorrenti per la funzionalità di detti
impianti, sempreché siano esercitati dallo Stato o dai
concessionari per i servizi ad uso pubblico, hanno carattere
di pubblica utilità>>.
Ebbene, la società ricorrente risulta
essere concessionaria di un pubblico servizio di
telecomunicazioni, pertanto, la realizzazione delle dette
infrastrutture non è soggetta alle prescrizioni urbanistico-edilizie che si riferiscono a diverse tipologie di opere
edilizie. La conseguenza di ciò è che il titolo autorizzatorio non può essere negato, se non avuto riguardo
a una specifica disciplina conformativa, da assoggettare al
procedimento della variante urbanistica, che prenda in
considerazione le reti infrastrutturali tecnologiche
necessarie per il funzionamento del servizio pubblico.
Tale
disciplina, in effetti, sarebbe quella adottata dal Comune
resistente, con le impugnate deliberazioni di Consiglio
Comunale nn. 26/2002 e 9/2004, sennonché tali atti,
difettando dell’approvazione regionale, non sono coerenti
con il parametro del procedimento di variante urbanistica.
La regolamentazione comunale, che è stata adottata per fini
meramente radio-protezionistici, esclude la possibilità di
installare impianti in aree sensibili, introduce un divieto
generalizzato di installare impianti al di fuori dei siti
comunali individuati nella zonizzazione, dispone il divieto
di rilasciare titoli abilitativi al di fuori delle zone
consentite.
Il Regolamento e il Piano sono palesemente
illegittimi, non soltanto perché difformi dal parametro dei
piani urbanistici, ma anche perché il Comune non ha, per
legge, la potestà di introdurre un divieto generalizzato di
installazione degli impianti di telefonia, né di introdurre
misure –come è accaduto nella specie– che, pur essendo di
natura tipicamente urbanistica (distanze, altezze, quote,
eccetera) non siano funzionali al governo del territorio,
quanto piuttosto alla tutela dai rischi
dell’elettromagnetismo che –a tenore dell’art. 8 della
legge 22.02.2001 n. 36– rientra nelle esclusive
attribuzioni statali, non già in quelle comunali (cfr.:
Corte Cost. 07.10.2003 n. 307; Cons. Stato VI, 10.02.2003 n.
673; TAR Lazio Roma, II-bis, 18.05.2006 n. 3565).
La
localizzazione degli impianti nelle sole zone in cui il
Regolamento li consente si pone in contrasto non solo con
l’esigenza di permettere la copertura del servizio di
telefonia mobile sull’intero territorio comunale, ma anche
con la loro natura di infrastrutture primarie e impianti di
interesse generale, posti al servizio della comunità e
quindi compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica
(cfr.: Cons. Stato VI, 10.02.2003 n. 673; TAR Veneto
Venezia, II, 17.03.2004 n. 749; TAR Molise I, 07.04.2011 n.
176).
Il Comune ha esorbitato dalle proprie attribuzioni
anche per un altro ordine di ragioni: invero, l’art. 8 comma
primo lett. a) della legge n. 36/2001 (legge-quadro sulla
protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed
elettromagnetici) attribuisce la funzione di individuazione
dei siti di trasmissione per impianti di telefonia mobile
non già ai Comuni, ma alle Regioni. Pertanto, in assenza dei
criteri regionali per l’individuazione delle aree nelle
quali consentire l’installazione, una così stringente e
generale regolamentazione comunale è da ritenersi
esorbitante ed eccessiva
(TAR Molise,
sentenza 29.03.2013 n. 229 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Partecipare
ad una gara d'appalto è richiesto
espressamente ai concorrenti la specifica indicazione,
nell’offerta, degli oneri per la sicurezza.
Tale adempimento, imposto dalla legge, è posto a presidio
della par condicio tra i concorrenti nonché dell’interesse
dell’Amministrazione pubblica a vagliare l’affidabilità e la
congruità delle offerte, e specificamente la loro idoneità a
garantire la sicurezza dei lavoratori da impiegare nella
commessa pubblica.
Alla luce di tale ratio legis, i costi della sicurezza
costituiscono elemento essenziale dell’offerta, con la
conseguenza che la loro mancata indicazione rende
quest’ultima incompleta, e dunque soggetta a esclusione, a
norma dell’art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti
pubblici. E ciò anche in assenza di una specifica previsione
all’interno della lex specialis, circa l’onere di
esplicitare, nell’offerta, l’ammontare degli oneri di
sicurezza.
---------------
L’articolo 38, co. 2, lett. c), del codice dei contratti
pubblici, stabilisce che le dichiarazioni, in ordine alla
sussistenza dei requisiti di ordine generale richiesti,
debbano essere rese dagli amministratori muniti di potere di
rappresentanza. Detta disposizione assolve alla precisa
finalità di consentire alla stazione appaltante un controllo
sull’idoneità morale dell’impresa che abbia presentato
un’offerta. La verifica sulla sussistenza dei requisiti di
moralità deve essere operata rispetto a tutti i soggetti,
amministratori, che siano abilitati ad impegnare l’impresa
nei confronti di terzi.
Per questo motivo, l’articolo 38 statuisce che alla
dichiarazione sostitutiva siano tenuti soltanto “gli
amministratori muniti di potere di rappresentanza”, ossia
coloro –tra gli amministratori– i quali abbiano il potere di
spendere, all’esterno, il nome dell’impresa.
Da ciò si evince che ben è possibile che la società limiti
od escluda il potere di rappresentanza con riguardo ad uno o
più amministratori.
Il riferimento agli “amministratori muniti di potere di
rappresentanza”, contenuto nell’art. 38, comma 2, lett. c,
d.lgs. 163/2006, deve essere interpretato «nel senso che
coloro i quali rivestono cariche societarie, alle quali è
per legge istituzionalmente connesso il possesso di poteri
rappresentativi, sono in ogni caso tenuti a rendere la
dichiarazione de qua, senza che possa avere rilevanza alcuna
l’eventuale ripartizione interna di compiti e deleghe».
---------------
Ai sensi dell’art. 41 del codice dei contratti pubblici, la
stazione appaltante può richiedere, ai concorrenti, che
dimostrino la propria capacità economico-finanziaria
mediante presentazione di almeno due referenze bancarie, con
i limiti di cui al comma 3 e il comma 2 dell’art. 41 cit.
sancisce, ulteriormente, la facoltà, in capo alle
amministrazioni, di richiedere requisiti di qualificazione
ulteriori rispetto a quelli espressamente stabiliti dalla
legge.
Ebbene, tale facoltà trova un limite solo nel principio di
proporzionalità e ragionevolezza, in relazione all’oggetto
del contratto, nonché nel divieto di inutile aggravamento
del procedimento di cui all’art. 1, comma 2, L. n. 241/1990.
Invero, anche a seguito dell’introduzione del principio di
tassatività delle cause di esclusione di cui al comma 1-bis
dell’art. 46 del d.lgs. 163/2006, è “rimasta inalterata la
facoltà delle amministrazioni aggiudicatrici di richiedere,
a pena di esclusione, tutti i documenti e gli elementi
ritenuti necessari o utili per identificare e selezionare i
partecipanti ad una procedura concorsuale nel rispetto del
principio di proporzionalità, ai sensi degli art. 73 e 74
del Codice dei contratti.
Difatti, gli articoli 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del
codice dei contratti pubblici, nonché l’art. 26, comma 6,
del d.lgs. n. 81 del 2008, richiedono espressamente ai
concorrenti la specifica indicazione, nell’offerta, degli
oneri per la sicurezza.
Tale adempimento, imposto dalla legge, è posto a presidio
della par condicio tra i concorrenti nonché dell’interesse
dell’Amministrazione pubblica a vagliare l’affidabilità e la
congruità delle offerte, e specificamente la loro idoneità a
garantire la sicurezza dei lavoratori da impiegare nella
commessa pubblica.
Alla luce di tale ratio legis, i costi della sicurezza
costituiscono elemento essenziale dell’offerta, con la
conseguenza che la loro mancata indicazione rende
quest’ultima incompleta, e dunque soggetta a esclusione, a
norma dell’art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti
pubblici (cfr., in tal senso, Cons. Stato, sez. III,
sentenza 28.08.2012, n. 4622; nonché, Cons. Stato, sez.
V, sentenza 31.07.2012, n. 4351). E ciò anche in assenza
di una specifica previsione all’interno della lex specialis,
circa l’onere di esplicitare, nell’offerta, l’ammontare
degli oneri di sicurezza.
---------------
L’articolo 38, co. 2, lett. c), del codice dei contratti pubblici,
stabilisce che le dichiarazioni, in ordine alla sussistenza
dei requisiti di ordine generale richiesti, debbano essere
rese dagli amministratori muniti di potere di
rappresentanza. Detta disposizione assolve alla precisa
finalità di consentire alla stazione appaltante un controllo
sull’idoneità morale dell’impresa che abbia presentato
un’offerta. La verifica sulla sussistenza dei requisiti di
moralità deve essere operata rispetto a tutti i soggetti,
amministratori, che siano abilitati ad impegnare l’impresa
nei confronti di terzi (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. III,
16.03.2012, n. 1471).
Per questo motivo, l’articolo 38 statuisce che alla
dichiarazione sostitutiva siano tenuti soltanto “gli
amministratori muniti di potere di rappresentanza”, ossia
coloro –tra gli amministratori– i quali abbiano il potere
di spendere, all’esterno, il nome dell’impresa.
Da ciò si evince che ben è possibile che la società
limiti od escluda il potere di rappresentanza con riguardo
ad uno o più amministratori.
Tuttavia, tali limitazioni –secondo quanto prevede
l’articolo 2475-bis, secondo comma, del codice civile–
seppure risultino espressamente dall’atto costitutivo ovvero
dall’atto di nomina dell’amministratore, non hanno, in linea
di principio, efficacia esterna, ossia non producono effetti
nei confronti dei terzi («salvo che si provi che questi
abbiano intenzionalmente agito a danno della società»).
Trova applicazione prevalente, pertanto, la regola sancita
dal primo comma del medesimo articolo, per la quale gli
amministratori hanno la rappresentanza generale della
società. 3.4. Come chiarito anche dalla prevalente
giurisprudenza, non assumono, quindi, rilievo eventuali
ripartizioni interne del potere di rappresentanza (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, sentenza 03.12.2010 n. 8535).
Si
osserva ulteriormente, in tale prospettiva, che il
riferimento agli “amministratori muniti di potere di
rappresentanza”, contenuto nell’art. 38, comma 2, lett. c,
d.lgs. 163/2006, deve essere interpretato «nel senso che
coloro i quali rivestono cariche societarie, alle quali è
per legge istituzionalmente connesso il possesso di poteri
rappresentativi, sono in ogni caso tenuti a rendere la
dichiarazione de qua, senza che possa avere rilevanza alcuna
l’eventuale ripartizione interna di compiti e deleghe» (cfr.
da ultimo Cons. Stato, sez. III, 16.03.2012, n. 1471,
pronunciata in un caso nel quale lo statuto attribuiva la
rappresentanza della società a tutti i componenti del
consiglio di amministrazione, in via disgiunta tra loro,
mentre una delibera interna del C.d.A. limitava il potere di
un suo componente alla sola gestione di determinate
attività).
---------------
Precisato,
infatti, che -ai sensi dell’art. 41 del codice dei
contratti pubblici- la stazione appaltante può richiedere,
ai concorrenti, che dimostrino la propria capacità
economico-finanziaria mediante presentazione di almeno due
referenze bancarie, con i limiti di cui al comma 3 e che il
comma 2 dell’art. 41 cit. sancisce, ulteriormente, la
facoltà, in capo alle amministrazioni, di richiedere
requisiti di qualificazione ulteriori rispetto a quelli
espressamente stabiliti dalla legge, va rammentato come,
secondo la giurisprudenza, condivisa dal Collegio, tale
facoltà trova un limite solo nel principio di
proporzionalità e ragionevolezza, in relazione all’oggetto
del contratto, nonché nel divieto di inutile aggravamento
del procedimento di cui all’art. 1, comma 2, L. n. 241/1990
(cfr. ex multis TAR Liguria, sez. II, 27.05.2009, n.
1238; cfr. anche Cons. Stato, sez. V, 23.02.2010, n.
1040).
Inoltre, anche a seguito dell’introduzione del
principio di tassatività delle cause di esclusione di cui
al comma 1-bis dell’art. 46 del d.lgs. 163/2006, è “rimasta
inalterata la facoltà delle amministrazioni aggiudicatrici
di richiedere, a pena di esclusione, tutti i documenti e gli
elementi ritenuti necessari o utili per identificare e
selezionare i partecipanti ad una procedura concorsuale nel
rispetto del principio di proporzionalità, ai sensi degli
art. 73 e 74 del Codice dei contratti (cfr. Sez, V, 12.06.2012, n. 3884)” (Cons. Stato, sez. V, sentenza 18.02.2013, n. 974) (TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 28.03.2013 n. 258 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI: Perché
sia consentito il ricorso avverso il silenzio
dell'Amministrazione, è essenziale che esso riguardi
l'esercizio di una potestà amministrativa e che la posizione
del privato si configuri come interesse legittimo, con la
conseguenza che il ricorso è inammissibile allorché la
posizione giuridica azionata dal ricorrente consista in un
diritto soggettivo; il silenzio-rifiuto può infatti formarsi
esclusivamente in ordine all’inerzia dell'Amministrazione su
una domanda intesa ad ottenere l'adozione di un
provvedimento ad emanazione vincolata ma di contenuto
discrezionale e, quindi, necessariamente incidente su
posizioni di interesse legittimo, e non già nell'ipotesi in
cui viene chiesto il soddisfacimento di posizioni aventi
natura sostanziale di diritti.
La formazione del silenzio–rifiuto, o lo speciale
procedimento giurisdizionale oggi disciplinato dall'art. 117
del c.p.a., non risulta, infatti, compatibile con le pretese
che solo apparentemente abbiano per oggetto una situazione
di inerzia, in quanto concernono diritti soggettivi la cui
eventuale lesione è direttamente accertabile dall'autorità
giurisdizionale competente.
Ai sensi dell'art. 31 del c.p.a. è inammissibile il ricorso
diretto all'accertamento dell'illegittimità del silenzio su
un'istanza dell'interessato allorché il Giudice
amministrativo sia privo di giurisdizione in ordine al
rapporto giuridico sottostante ovvero si verta, comunque,
nell’ambito di posizioni di diritto soggettivo, anche
laddove sia riscontrabile un'ipotesi di giurisdizione
esclusiva.
Il ricorso avverso il silenzio-rifiuto costituisce, infatti,
un'azione che richiede al Giudice di esercitare una
cognizione sul merito della causa, che, in taluni casi, può
spingersi sino alla condanna dell'Amministrazione
all'adozione di un provvedimento di contenuto
predeterminato; si deve, pertanto, concludere nel senso che
la giurisdizione del G.A. in materia di silenzio-rifiuto si
arresta laddove l'istanza inevasa abbia ad oggetto una
materia devoluta alla giurisdizione esclusiva di altra
autorità giudiziaria.
Invero, l'art. 2 della l. n. 205/2000, che ha introdotto
l'art. 21-bis della l. n. 1034/1971 in tema di ricorso
avverso il silenzio serbato dall'amministrazione, poi
confluito nell'art. 31 del c.p.a., non ha inteso creare un
rimedio di carattere generale, esperibile in tutte le
ipotesi di comportamento inerte della pubblica
amministrazione, e pertanto sempre ammissibile
indipendentemente dalla giurisdizione del G.A. (il quale si
configurerebbe quindi come giudice del silenzio
dell'Amministrazione), ma soltanto un istituto giuridico
relativo alla esplicazione di potestà pubblicistiche
correlate alle sole ipotesi di mancato esercizio
dell'attività amministrativa discrezionale.
Ne consegue che, nell'ipotesi che il procedimento attivato
afferisca alla tutela di un diritto soggettivo, l'azione di
annullamento del silenzio-rifiuto della pubblica
Amministrazione non è esperibile, poiché il giudizio sul
silenzio presuppone l'esercizio di una potestà
amministrativa, rispetto alla quale la posizione del privato
si configura come interesse legittimo.
Osserva la Sezione che, perché sia consentito il ricorso
avverso il silenzio dell'Amministrazione, è essenziale che
esso riguardi l'esercizio di una potestà amministrativa e
che la posizione del privato si configuri come interesse
legittimo, con la conseguenza che il ricorso è inammissibile
allorché la posizione giuridica azionata dal ricorrente
consista in un diritto soggettivo; il silenzio-rifiuto può
infatti formarsi esclusivamente in ordine all’inerzia
dell'Amministrazione su una domanda intesa ad ottenere
l'adozione di un provvedimento ad emanazione vincolata ma di
contenuto discrezionale e, quindi, necessariamente incidente
su posizioni di interesse legittimo, e non già nell'ipotesi
in cui viene chiesto il soddisfacimento di posizioni aventi
natura sostanziale di diritti.
La formazione del silenzio–rifiuto, o lo speciale
procedimento giurisdizionale oggi disciplinato dall'art. 117
del c.p.a., non risulta, infatti, compatibile con le pretese
che solo apparentemente abbiano per oggetto una situazione
di inerzia, in quanto concernono diritti soggettivi la cui
eventuale lesione è direttamente accertabile dall'autorità
giurisdizionale competente.
Ai sensi dell'art. 31 del c.p.a. è inammissibile il ricorso
diretto all'accertamento dell'illegittimità del silenzio su
un'istanza dell'interessato allorché il Giudice
amministrativo sia privo di giurisdizione in ordine al
rapporto giuridico sottostante ovvero si verta, comunque,
nell’ambito di posizioni di diritto soggettivo, anche
laddove sia riscontrabile un'ipotesi di giurisdizione
esclusiva.
Il ricorso avverso il silenzio-rifiuto costituisce,
infatti, un'azione che richiede al Giudice di esercitare una
cognizione sul merito della causa, che, in taluni casi, può
spingersi sino alla condanna dell'Amministrazione
all'adozione di un provvedimento di contenuto
predeterminato; si deve, pertanto, concludere nel senso che
la giurisdizione del G.A. in materia di silenzio-rifiuto
si arresta laddove l'istanza inevasa abbia ad oggetto una
materia devoluta alla giurisdizione esclusiva di altra
autorità giudiziaria.
Invero, secondo nota e consolidata giurisprudenza (Consiglio
Stato, Sez. V, 17.01.2011, n. 210), l'art. 2 della l.
n. 205/2000, che ha introdotto l'art. 21-bis della l. n.
1034/1971 in tema di ricorso avverso il silenzio serbato
dall'amministrazione, poi confluito nell'art. 31 del c.p.a.,
non ha inteso creare un rimedio di carattere generale,
esperibile in tutte le ipotesi di comportamento inerte della
pubblica amministrazione, e pertanto sempre ammissibile
indipendentemente dalla giurisdizione del G.A. (il quale si
configurerebbe quindi come giudice del silenzio
dell'Amministrazione), ma soltanto un istituto giuridico
relativo alla esplicazione di potestà pubblicistiche
correlate alle sole ipotesi di mancato esercizio
dell'attività amministrativa discrezionale.
Ne consegue che, nell'ipotesi che il procedimento attivato
afferisca alla tutela di un diritto soggettivo, l'azione di
annullamento del silenzio-rifiuto della pubblica
Amministrazione non è esperibile, poiché il giudizio sul
silenzio presuppone l'esercizio di una potestà
amministrativa, rispetto alla quale la posizione del privato
si configura come interesse legittimo (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 27.03.2013 n. 1754 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Ciò
che rileva, ai fini dell’ammissione o meno alla gara
pubblica, è il dato sostanziale della regolarità
contributiva, perché la ratio della norma è quella di
spingere le imprese ad essere sempre in regola con le
fondamentali normative di settore poste a tutela della
sicurezza sul lavoro, dei lavoratori e dell’Erario.
Tale impostazione, peraltro, ha il pregio di apparire in
linea anche con la consolidata giurisprudenza del Consiglio
di Stato, secondo cui il requisito della regolarità
contributiva, essendo condizione di partecipazione alla
gara, deve essere verificato sin dal momento della scadenza
del termine per la partecipazione all’offerta (e non quindi
al momento dell’emissione del DURC) e per tutta la durata
della procedura.
Che questa sia l’impostazione corretta è oggi confermato
anche dal rilievo che l’art. 15, comma 1, lettera a), della
L. 12.11.2011, n. 183 (entrata in vigore il 01.01.2012) ha
modificato l'art. 40 del DPR n. 445/2000, nel senso che le
certificazioni rilasciate dalla pubblica amministrazione in
ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e
utilizzabili solo nei rapporti tra privati, mentre nei
rapporti con gli organi della pubblica amministrazione e i
gestori di pubblici servizi i certificati e gli atti di
notorietà sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni di cui
agli articoli 46 e 47.
Alla stregua di tale disposizione, dunque, deve ritenersi
che il DURC non possa più essere richiesto alle imprese
partecipanti alla gara, mentre le stazioni appaltanti sono
tenute senza ombra di dubbio a verificare le corrispondenti
autodichiarazioni.
E’ evidente, allora, che ciò che rileva non sono le
risultanze del DURC, ma la regolarità contributiva
sostanziale.
Con il terzo motivo di ricorso –rubricato “violazione e
falsa applicazione dell’art. 38 del Codice degli Appalti,
violazione e falsa applicazione dell’art. 46, comma 1-bis,
del Codice degli Appalti, eccesso di potere per difetto di
istruttoria”– la Migliore Arte e Costruzioni deduce la
illegittimità della clausola del bando che prevede la
esclusione per mancata produzione del DURC, per contrasto
con l’art. 38 del Codice degli appalti, il quale impone la
presentazione della certificazione attestante la regolarità
contributiva al momento della stipulazione del contratto da
parte dell’aggiudicatario, mentre per il mero concorrente
sarebbe sufficiente che sussista la regolarità contributiva
sul piano sostanziale (a prescindere quindi dalle risultanze
del DURC).
La tesi della ricorrente non conduce laddove essa vorrebbe,
dal momento che come detto sopra, in ogni caso, deve
ritenersi sussistente già sul piano “sostanziale” (di cui il DURC è mera certificazione “formale”) l’irregolarità
contributiva della Migliore Arte e Costruzioni.
Con un ultimo motivo di doglianza –rubricato “violazione e
falsa applicazione dell’art. 38, comma 1, lett. i), del
Codice degli Appalti, eccesso di potere per difetto
d’istruttoria”– la ricorrente lamenta l’illegittimità dei
provvedimenti impugnati, perché, a fronte di un DURC del 12.03.2012 da essa prodotto ed attestante la propria
regolarità, essa non poteva essere esclusa.
In altri termini, avendo il predetto DURC validità
trimestrale, ne consegue che, laddove non presenti
segnalazioni di inadempimento e non sia scaduto al momento
della presentazione della domanda, esso sarebbe
dimostrazione sufficiente della regolarità contributiva
attestata.
Anche siffatta tesi, per quanto abbia ricevuto in passato
l’avallo di alcune pronunce giurisprudenziali, non può
essere seguita.
Ciò che rileva, ai fini dell’ammissione o meno alla gara
pubblica, è il dato sostanziale della regolarità
contributiva, perché la ratio della norma è quella di
spingere le imprese ad essere sempre in regola con le
fondamentali normative di settore poste a tutela della
sicurezza sul lavoro, dei lavoratori e dell’Erario.
Tale impostazione, peraltro, ha il pregio di apparire in
linea anche con la consolidata giurisprudenza del Consiglio
di Stato (confermata dalla ormai nota pronuncia n. 8/2012
dell’Adunanza Plenaria), secondo cui il requisito della
regolarità contributiva, essendo condizione di
partecipazione alla gara, deve essere verificato sin dal
momento della scadenza del termine per la partecipazione
all’offerta (e non quindi al momento dell’emissione del DURC)
e per tutta la durata della procedura.
Che questa sia l’impostazione corretta è oggi confermato
anche dal rilievo che l’art. 15, comma 1, lettera a), della
L. 12.11.2011, n. 183 (entrata in vigore il 01.01.2012) ha modificato l'art. 40 del DPR n. 445/2000, nel senso
che le certificazioni rilasciate dalla pubblica
amministrazione in ordine a stati, qualità personali e fatti
sono valide e utilizzabili solo nei rapporti tra privati,
mentre nei rapporti con gli organi della pubblica
amministrazione e i gestori di pubblici servizi i
certificati e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti
dalle dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47.
Alla stregua di tale disposizione, dunque, deve ritenersi
che il DURC non possa più essere richiesto alle imprese
partecipanti alla gara (questione, questa, non oggetto del
presente giudizio perché non veicolata da alcuna
impugnazione sul punto; ma si vedano sul punto TAR
Palermo, Sez. III, 07.08.2012. n. 1776; TAR Campania, Sez.
IV, 03.01.2013, n. 62), mentre le stazioni appaltanti sono
tenute senza ombra di dubbio a verificare le corrispondenti
autodichiarazioni.
E’ evidente, allora, che ciò che rileva non sono le
risultanze del DURC, ma la regolarità contributiva
sostanziale (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 25.03.2013 n. 673 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il voto numerico
attribuito dalla competente commissione alle prove scritte
od orali di un concorso pubblico o di un esame esprime e
sintetizza il giudizio tecnico discrezionale della
commissione stessa e la sindacabilità di tali giudizi, per
tale loro natura, è da considerare potenzialmente possibile
solo in caso di manifesta illogicità od erroneità.
---------------
Non ritiene necessario indicare i c.d. descrittori, ossia i
parametri in base ai quali si possono collegare fra loro il
voto numerico e il giudizio sintetico, intendendo la scala
di giudizi in base alla quale si possa dire, ad esempio, che
un tema ritenuto "sufficiente" merita il voto di 6/10 oppure
che un tema "scadente" merita il voto di 3/10.
Ma se così è, ne consegue la superfluità dei descrittori,
essendo del tutto nota, nell'ambito scolastico, la scala di
giudizi che si accompagna ai voti numerici. E il concorso in
argomento è inerente proprio all'ambito scolastico e la
ricorrente è una docente che quotidianamente, nella
valutazione dei compiti scritti e delle prove orali dei
propri studenti applicano tale scala di punteggi e di
giudizi.
Vi è poi da dire che la contestazione nel merito della
valutazione di un elaborato concorsuale non può (salvo che
la commissione non abbia in alcun modo motivato i propri
giudizi o abbia palesemente errato nell'applicazione dei
criteri che essa stessa si è data) ridursi nella semplice
censura della insufficienza dei criteri di valutazione.
È invece onere del ricorrente esporre nel dettaglio le
ragioni per le quali il proprio elaborato merita più del
punteggio assegnato dalla commissione, e ciò tanto più
quando la commissione ha comunque motivato il punteggio.
---------------
La commissione giudicatrice non svolge un'attività
scolastica di correzione degli elaborati scritti dei
candidati, che non rientra tra i suoi compiti, e neppure ha
il dovere di evidenziare con segni grafici i punti dai
quali, più degli altri, risulti l'insufficienza o
l'erroneità dell'elaborato ovvero la non rispondenza alla
traccia; sicché, l'apposizione di annotazioni sugli
elaborati, di chiarimenti ovvero di segni grafici o
specificanti eventuali errori, costituisce una mera facoltà
di cui la commissione può avvalersi nel caso in cui ne
ricorrano i presupposti, mentre l'inidoneità della prova
risulta dalla stessa attribuzione del voto numerico in base
ai criteri fissati dalla Commissione sia per la correzione
che in sede di giudizio.
---------------
Nei ricorsi proposti avverso gli esiti delle procedure
concorsuali è inammissibile la censura volta a denunciare i
tempi medi impiegati dalla competente commissione per
l'esame degli elaborati scritti, atteso che non è possibile
stabilire quali e quanti candidati hanno fruito di maggiore
o minore attenzione, visto che la congruità del tempo
impiegato va valutata anche con riferimento alla consistenza
degli elaborati ed alle problematiche di correzione dagli
stessi emergenti, con la conseguenza che ai tempi medi
impiegati non può riconoscersi alcun decisivo rilievo
inficiante il procedimento valutativo.
---------------
In tema di scelta dei commissari che devono esaminare i
candidati in pubblici concorsi non esiste norma o principio
che imponga di motivare la scelta del singolo commissario,
così come non esiste alcuna norma che imponga un analogo
onere motivazionale nel caso in cui i commissari possono
essere scelti fra soggetti appartenenti a categorie
professionali diverse.
---------------
Le valutazioni espresse dalle Commissioni giudicatrici in
merito alle prove di concorso, seppure qualificabili quali
analisi di fatti (correzione dell'elaborato del candidato
con attribuzione di punteggio o giudizio) e non come
ponderazione di interessi, costituiscono pur sempre
l'espressione di ampia discrezionalità, finalizzata a
stabilire in concreto l'idoneità tecnica e/o culturale,
ovvero attitudinale, dei candidati, con la conseguenza che
le stesse valutazioni non sono sindacabili dal giudice
amministrativo, se non nei casi in cui sussistono elementi
idonei ad evidenziarne uno sviamento logico o un errore di
fatto o, ancora, una contraddittorietà ictu oculi
rilevabile.
---------------
L'accesso a tutti gli elaborati corretti della seconda
Sottocommissione nel corso per il reclutamento dei dirigenti
scolastici per la scuola primaria non può tradursi in una
eventuale perizia sulla bontà della correzione, non potendo
trovare ingresso nel processo amministrativo motivi di
impugnativa legati al sindacato delle valutazioni tecnico
discrezionali effettuate dalla Commissione in sede di
correzione degli elaborati.
Va ad ogni modo preso atto del costante orientamento
giurisprudenziale, ribadito di recente dal Supremo Consesso
di Giustizia Amministrativa, secondo cui “Il voto numerico
attribuito dalla competente commissione alle prove scritte
od orali di un concorso pubblico o di un esame esprime e
sintetizza il giudizio tecnico discrezionale della
commissione stessa e la sindacabilità di tali giudizi, per
tale loro natura, è da considerare potenzialmente possibile
solo in caso di manifesta illogicità od erroneità” (cfr. C.
Stato, sez. V, 11.01.2013, n. 1029).
Parte ricorrente
si duole della genericità dei criteri di massima predisposti
dalla Commissione anche nell’ottica della possibile
ricostruzione ex post della relazione logica tra i primi e i
voti numerici, ma proprio su tale specifica questione si è
espressa in senso contrario recente giurisprudenza (cfr. TAR
Marche, sez. I, 11.01.2013, n. 34), che “non ritiene
necessario indicare i c.d. descrittori, ossia i parametri in
base ai quali si possono collegare fra loro il voto numerico
e il giudizio sintetico, intendendo la scala di giudizi in
base alla quale si possa dire, ad esempio, che un tema
ritenuto "sufficiente" merita il voto di 6/10 oppure che un
tema "scadente" merita il voto di 3/10. Ma se così è, ne
consegue la superfluità dei descrittori, essendo del tutto
nota, nell'ambito scolastico, la scala di giudizi che si
accompagna ai voti numerici. E il concorso in argomento è
inerente proprio all'ambito scolastico e la ricorrente è una
docente che quotidianamente, nella valutazione dei compiti
scritti e delle prove orali dei propri studenti applicano
tale scala di punteggi e di giudizi. Vi è poi da dire che la
contestazione nel merito della valutazione di un elaborato
concorsuale non può (salvo che la commissione non abbia in
alcun modo motivato i propri giudizi o abbia palesemente
errato nell'applicazione dei criteri che essa stessa si è
data) ridursi nella semplice censura della insufficienza dei
criteri di valutazione. È invece onere del ricorrente
esporre nel dettaglio le ragioni per le quali il proprio
elaborato merita più del punteggio assegnato dalla
commissione, e ciò tanto più quando la commissione ha
comunque motivato il punteggio”.
Anche la censurata mancanza di sottolineature o segni
grafici sugli elaborati risulta del tutto irrilevante,
perché nessuna norma impone alla Commissione di apporre
annotazioni o segni di correzione sugli elaborati (TAR
L’Aquila, sez. I, 12.1.2012, n. 25) dato che «la commissione
giudicatrice non svolge un'attività scolastica di correzione
degli elaborati scritti dei candidati, che non rientra tra i
suoi compiti, e neppure ha il dovere di evidenziare con
segni grafici i punti dai quali, più degli altri, risulti
l'insufficienza o l'erroneità dell'elaborato ovvero la non
rispondenza alla traccia; sicché, l'apposizione di
annotazioni sugli elaborati, di chiarimenti ovvero di segni
grafici o specificanti eventuali errori, costituisce una
mera facoltà di cui la commissione può avvalersi nel caso in
cui ne ricorrano i presupposti, mentre l'inidoneità della
prova risulta dalla stessa attribuzione del voto numerico in
base ai criteri fissati dalla Commissione sia per la
correzione che in sede di giudizio» (TAR Salerno, sez. I,
14.11.2011, n. 1669; nello stesso senso vedi anche C.d.S.,
sez. IV, 12.04.2011, n. 1612). Il motivo in esame è quindi da
respingere.
---------------
Il quarto
motivo è del tutto privo di giuridico pregio, dal momento
che «Nei ricorsi proposti avverso gli esiti delle procedure
concorsuali è inammissibile la censura volta a denunciare i
tempi medi impiegati dalla competente commissione per
l'esame degli elaborati scritti, atteso che non è possibile
stabilire quali e quanti candidati hanno fruito di maggiore
o minore attenzione, visto che la congruità del tempo
impiegato va valutata anche con riferimento alla consistenza
degli elaborati ed alle problematiche di correzione dagli
stessi emergenti, con la conseguenza che ai tempi medi
impiegati non può riconoscersi alcun decisivo rilievo
inficiante il procedimento valutativo» ( giurisprudenza
costante v. da ultimo: C.d.S., sez. IV, 23.02.2012, n. 970,
come pure TAR Salerno Campania sez. I 18.02.2012, n.
282).
---------------
Va altresì
esclusa la fondatezza del preteso difetto motivazionale,
alla luce di quanto condivisibilmente affermato da recente
giurisprudenza, nel senso che “In tema di scelta dei
commissari che devono esaminare i candidati in pubblici
concorsi non esiste norma o principio che imponga di
motivare la scelta del singolo commissario, così come non
esiste alcuna norma che imponga un analogo onere
motivazionale nel caso in cui i commissari possono essere
scelti fra soggetti appartenenti a categorie professionali
diverse” (cfr. TAR Marche, sez. I, 11.01.2013, n. 34).
---------------
La censura,
come eccepito da parte resistente, non può accedere al
sindacato invocato, in quanto “Le valutazioni espresse dalle
Commissioni giudicatrici in merito alle prove di concorso,
seppure qualificabili quali analisi di fatti (correzione
dell'elaborato del candidato con attribuzione di punteggio o
giudizio) e non come ponderazione di interessi,
costituiscono pur sempre l'espressione di ampia
discrezionalità, finalizzata a stabilire in concreto
l'idoneità tecnica e/o culturale, ovvero attitudinale, dei
candidati, con la conseguenza che le stesse valutazioni non
sono sindacabili dal giudice amministrativo, se non nei casi
in cui sussistono elementi idonei ad evidenziarne uno
sviamento logico o un errore di fatto o, ancora, una
contraddittorietà ictu oculi rilevabile” (TAR Roma Lazio
sez. III, 09.01.2013, n. 147).
In una analoga vicenda,
il giudice amministrativo ha affermato che “L'accesso a
tutti gli elaborati corretti della seconda Sottocommissione
nel corso per il reclutamento dei dirigenti scolastici per
la scuola primaria non può tradursi in una eventuale perizia
sulla bontà della correzione, non potendo trovare ingresso
nel processo amministrativo motivi di impugnativa legati al
sindacato delle valutazioni tecnico discrezionali effettuate
dalla Commissione in sede di correzione degli elaborati”.
I
rilievi sollevati dai ricorrenti, siccome intesi a
sollecitare l’intervento di questo Tribunale sub specie di
sindacato sulle valutazioni effettuate dalla Commissione,
non sono quindi ammissibili, non emergendo elementi che
consentano di ritenere che ricorra una delle ipotesi in cui
è possibile scrutinare l’esercizio della discrezionalità
tecnica, come sopra rappresentato in sede di disamina della
censura sub 2 del ricorso introduttivo (TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 21.03.2013 n. 175 - ink a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte effettuate dall'amministrazione nell'adozione degli
strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito
sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano
inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché
anche la destinazione data alle singole aree non necessita
di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere
dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale,
seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo
sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di
accompagnamento al progetto di modificazione al piano
regolatore generale, salvo che particolari situazioni non
abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di
soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche
considerazioni.
E le uniche evenienze che richiedono una più incisiva e
singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali
sono rappresentate, pacificamente:
●
dal superamento degli standard minimi di cui al D.M.
02.04.1968;
●
dalla lesione dell'affidamento qualificato del privato
derivante da convenzioni di lottizzazione o accordi di
diritto privato intercorsi con il Comune, o delle
aspettative nascenti da giudicati di annullamento di
concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su una domanda di
concessione;
●
dalla modificazione in zona agricola della destinazione di
un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non
abusivo, mentre nessuna aspettativa deriva dalla diversa
destinazione urbanistica pregressa della medesima area,
rispetto alla quale l'Amministrazione conserva ampia
discrezionalità, ben potendo modificare in peius rispetto
agli interessi del proprietario la destinazione urbanistica.
In particolare, la semplice preesistenza della capacità
edificatoria non onera l’amministrazione di una più
penetrante motivazione, poiché il mutamento di destinazione
trova pur sempre esauriente giustificazione nelle
sopravvenute ragioni che possono determinare la convenienza
di migliorare la pianificazione territoriale.
---------------
Le osservazioni presentate in occasione dell'adozione di un
nuovo strumento di pianificazione del territorio
costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento
di formazione dello strumento medesimo, con conseguente
assenza in capo all'amministrazione a ciò competente di un
obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile
dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano
stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte
per la destinazione delle singole aree.
Per giurisprudenza granitica, le scelte effettuate
dall'amministrazione nell'adozione degli strumenti
urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto
al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate
da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la
destinazione data alle singole aree non necessita di
apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai
criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti
nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente
l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al
progetto di modificazione al piano regolatore generale,
salvo che particolari situazioni non abbiano creato
aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui
posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
E le uniche evenienze che richiedono una più incisiva e
singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali
sono rappresentate, pacificamente: dal superamento degli
standard minimi di cui al D.M. 02.04.1968; dalla lesione
dell'affidamento qualificato del privato derivante da
convenzioni di lottizzazione o accordi di diritto privato
intercorsi con il Comune, o delle aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di
silenzio-rifiuto su una domanda di concessione; dalla
modificazione in zona agricola della destinazione di un'area
limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo,
mentre nessuna aspettativa deriva dalla diversa destinazione
urbanistica pregressa della medesima area, rispetto alla
quale l'Amministrazione conserva ampia discrezionalità, ben
potendo modificare in peius rispetto agli interessi del
proprietario la destinazione urbanistica (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 16.11.2011, n. 6049; id., 29.12.2009,
n. 9006).
In particolare, la semplice preesistenza della
capacità edificatoria non onera l’amministrazione di una più
penetrante motivazione, poiché il mutamento di destinazione
trova pur sempre esauriente giustificazione nelle
sopravvenute ragioni che possono determinare la convenienza
di migliorare la pianificazione territoriale (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 31.01.2005, n. 259).
---------------
È noto che le
osservazioni presentate in occasione dell'adozione di un
nuovo strumento di pianificazione del territorio
costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento
di formazione dello strumento medesimo, con conseguente
assenza in capo all'amministrazione a ciò competente di un
obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile
dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano
stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte
per la destinazione delle singole aree (per tutte, cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 11.09.2012, n. 4806)
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 19.03.2013 n. 421 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'obbligo di dare
comunicazione dell’avvio del procedimento previsto dall'art.
7 l. n. 241 del 1990, prima della novella introdotta
dall’art. 14 della l. 15/2005, non poteva essere applicato
meccanicamente e formalisticamente, essendo volto non
soltanto ad assolvere ad una funzione in favore del
destinatario dell'atto conclusivo, ma anche a formare
nell'amministrazione procedente una più completa e meditata
volontà e dovendosi, comunque, ritenere che il vizio
derivante dall'omissione di comunicazione non sussiste nei
casi in cui lo scopo della partecipazione del privato sia
stato comunque raggiunto o manchi.
Più in particolare, non è invalidante il mancato avviso di
avvio del procedimento, qualora l'interessato abbia comunque
formulato le proprie osservazioni nei confronti della
precedente determinazione prodromica e sia così venuto
comunque a conoscenza dell'inizio del procedimento il cui
esito è stato impugnato.
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
dell’Ordinanza n. 105 del 25.09.2007 con la quale il
responsabile dell’Ufficio Tecnico Comunale del Comune di Acquedolci ha adottato un provvedimento cautelare di
sospensione dei lavori -e riduzione in pristino- relativi
alla realizzazione, in assenza di autorizzazione edilizia,
di:
1) un muro di contenimento in conglomerato cementizio,
rivestito in parte in pietrame a faccia vista, avente
altezza media fuori terra di mt. 0,80 circa ed una lunghezza
di mt. 25,00 circa su area destinata secondo il PRG vigente
e quello adottato a “fini Istituzionali”, di cui l’area
identificata con la particella n. 1796 è di proprietà del
Comune di Acquedolci;
2) una vasca interrata, delle
dimensioni in pianta di mt. 5,80 x 3,90 e sistemazione degli
spazi circostanti con pavimenti, opere di giardinaggio ed
impianto di illuminazione, interessando sempre area
destinata secondo il PRG vigente e quello adottato a “fini
Istituzionali”, di proprietà della ditta Ceraso.
...
Con Ordinanza n. 151/008, questa stessa Sezione ha sospeso il
provvedimento impugnato senza, per altro, entrare nel
merito, ritenendo sussistente sia il periculum in mora, sia
il dubbio sulla stessa proprietà dell’area sulla quale
insiste l’opera principalmente contestata, vale a dire il
muro a faccia vista avente altezza media pari a 0.80 mt e
lunghezza di 25 mt..
Ciò in quanto, a tutta evidenza, dal riconoscimento della
realizzazione, anche in parte, della detta costruzione nella
proprietà comunale deriverebbe non già un problema di
costruzione soltanto abusiva, ma anche della realizzazione
contro il volere del legittimo proprietario.
Ciò premesso, è possibile scrutinare i singoli motivi di
ricorso.
Con il primo, parte ricorrente si duole
dell’illegittimità dell’atto per mancata comunicazione
dell’avvio del procedimento, riconoscendo, al più, la
possibilità che detto adempimento non sia astrattamente
dovuto soltanto nell’ipotesi di mera sospensione dei lavori
volti a realizzare un’opera asseritamente abusiva, ma non
già nella diversa ipotesi in cui il provvedimento, come nel
caso di specie, contenga anche un ordine di demolizione.
Premette il Collegio che, secondo una parte della
Giurisprudenza (cfr., da ultimo, TAR Trentino Alto Adige
Trento, sez. I, 25.02.2010, n. 70) il provvedimento
in esame non si sottrae all'obbligo della pubblica
amministrazione di dare comunicazione dell'avvio del
procedimento amministrativo ai soggetti dallo stesso incisi.
L'omissione di tale comunicazione potrebbe essere
giustificata soltanto per ragioni di impedimento derivanti
da particolari esigenze di celerità del procedimento,
peraltro, in effetti, non risultanti nella motivazione del
provvedimento impugnato.
Per altro, per costante giurisprudenza, la comunicazione di
avvio del procedimento è utilmente surrogata dall'ordine di
sospensione dei lavori (cfr. TAR Liguria Genova, sez. I,
25.01.2010, n. 188; TAR Lazio-Latina, 26.01.2009, n.
56; TAR Emilia Romagna, II, 14.01.2009, n. 19; Cons. di
St., IV, 27.01.2006, n. 399), tranne nell’ipotesi in cui,
come nel caso di specie, lo stesso non assume rilievo in
quanto comunicato contestualmente all'ingiunzione a demolire
(TAR Liguria, I, 24.02.2005, n. 292).
Secondo un diverso orientamento giurisprudenziale (Consiglio
di stato, sez. IV, 15.05.2009, n. 3029; Consiglio
Stato, sez. IV, 26.09.2008, n. 4659) l'obbligo di
comunicazione non è ravvisabile nelle ipotesi di attività
vincolata, sul presupposto che la partecipazione sia
fruttuosa soltanto quando sia possibile effettuare una
scelta discrezionale.
Attese le peculiarità che connotano il provvedimento di
ripristino dello stato dei luoghi e, quindi, l'esercizio da
parte dell'amministrazione di un potere "vincolato",
continua la predetta decisione 3029/2009, la questione de qua
è interessata dalla prima previsione di cui all'art. 21-octies comma 2, della l. 241/1990 (così come inserito
dall'articolo 14, comma 1, della legge 11.02.2005, n.
15), secondo il quale non è annullabile il provvedimento
adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla
forma degli atti qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque
annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del
procedimento qualora l'Amministrazione dimostri che il
contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato.
Quindi, secondo la detta Giurisprudenza l’equivalenza ordine
di demolizione–atto vincolato renderebbe inutile e non più
necessario l’avvio del procedimento.
A prescindere da una presa di posizione in ordine alle due
tesi, è da dire che questa stessa Sezione (cfr. TAR
Catania. I, 26.06.2008, n. 1232), ha già avuto modo di
chiarire che l'obbligo di dare comunicazione dell’avvio del
procedimento previsto dall'art. 7 l. n. 241 del 1990, prima
della novella introdotta dall’art. 14 della l. 15/2005, non
poteva essere applicato meccanicamente e formalisticamente,
essendo volto non soltanto ad assolvere ad una funzione in
favore del destinatario dell'atto conclusivo, ma anche a
formare nell'amministrazione procedente una più completa e
meditata volontà e dovendosi, comunque, ritenere che il
vizio derivante dall'omissione di comunicazione non sussiste
nei casi in cui lo scopo della partecipazione del privato
sia stato comunque raggiunto o manchi (cfr. Consiglio Stato,
sez. VI, 06.10.2005, n. 5436).
Più in particolare, non è invalidante il mancato avviso di
avvio del procedimento, qualora l'interessato abbia comunque
formulato le proprie osservazioni nei confronti della
precedente determinazione prodromica e sia così venuto
comunque a conoscenza dell'inizio del procedimento il cui
esito è stato impugnato (TAR Toscana Firenze, sez. II, 18.10.2007, n. 3271).
Il principio, quindi, a prescindere dalla dibattuta
vincolatività della comunicazione dell’avvio, va ribadito,
sicché va verificato se la parte ricorrente abbia avuto o
meno contezza dell’esistenza di un procedimento a suo carico
volto a sindacare la legittimità delle opere, la cui
demolizione, poi, è stata disposta con il provvedimento
impugnato.
E non vi è dubbio che ciò sia avvenuto, posto che, come non
contestato e come in atti, questi, nella sua qualità di
soggetto sicuramente in grado di percepire il procedimento
in corso, ha partecipato al sopralluogo effettuato dal
Comune finalizzato alla constatazione dello stato dei
luoghi.
Sicché, essendo manifesto l’intento dell’Amministrazione in
sede di accertamento tecnico, non può dirsi che, seppur non
con una comunicazione formale, parte ricorrente non sia
stata messa in condizione di esprimere le proprie difese,
che ben avrebbero potuto essere integrate con scritti mirati
prima dell’adozione del provvedimento impugnato.
Il Collegio rileva, per concludere, che, per quanto previsto
dall’art. 21-octies della l. 241/1990, non è possibile
accedere comunque all’annullamento dell’atto amministrativo
ove il mancato avvio del procedimento, secondo le eccezioni
poste dall’Amministrazione, residui quale unico motivo
(formale) a sostegno delle tesi della sua illegittimità.
Occorre, quindi, per stabilire se sussista altra ragione di
reiezione del motivo di ricorso, verificare la fondatezza
nel merito delle ulteriori censure introdotte da parte
ricorrente (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 27.09.2010 n. 3847 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Giurisprudenza dominante ritiene che le opere
di recinzione del terreno non si configurano come nuova
costruzione, per la quale è necessario il previo rilascio di
permesso di costruire, quando, per natura e dimensioni,
rientrino tra le manifestazioni del diritto di proprietà,
comprendente lo ius excludendi alios o, comunque, la
delimitazione e l'assetto delle singole proprietà.
Sicché, la valutazione in ordine alla necessità della
concessione edilizia per la realizzazione di opere di
recinzione va effettuata sulla scorta dei seguenti due
parametri: natura e dimensioni delle opere e loro
destinazione e funzione.
Sulla scorta dei detti condivisibili principi, poi, la
Giurisprudenza è giunta a varie soluzioni.
A titolo esemplificativo, è stato ritenuto che la
realizzazione di una recinzione in rete metallica su muro
costituisce opera di carattere permanente che richiede la
concessione edilizia, incidendo in modo permanente e non
precario sull'assetto edilizio del territorio.
Altre decisioni, invece, ritengono che la recinzione
eseguita senza opere murarie, costituita da una semplice
rete metallica sorretta da paletti in ferro, costituendo
installazione precaria non incide in modo permanente
sull'assetto edilizio del territorio.
Altre pronunce, infine, hanno evidenziato un’altra
differenza fondata sul corretto discrimine tra le
costruzioni che si definiscono muro: la differenziazione
viene istituita movendo dalla destinazione del manufatto.
Nel caso in cui lo scopo della realizzazione sia la
delimitazione della proprietà si ricade nell'ipotesi della
pertinenza, per cui non è necessario il rilascio della
concessione, con le note conseguenze in tema di legittimità
dell'eventuale ordinanza di demolizione adottata al
riguardo.
Diversa è la situazione, allorché il muro è destinato non
solo a recingere un fondo, ma contiene o sostiene esso
stesso dei volumi ulteriori; in tal caso il manufatto ha una
funzione autonoma, dal punto di vista edilizio e da quello
economico. Tuttavia, la medesima decisione, posto che il
muro aveva una estensione di 30 mt., ha ritenuto che la
funzione della costruzione si ricava dalla sua estensione.
Secondo altre analoghe impostazione, nel concetto di
pertinenza possono essere ricomprese le recinzioni,
certamente configurabili come opere poste a servizio ed
ornamento della cosa principale, giusta l'art. 817 c.c., ciò
non può dirsi per i muri di contenimento che hanno una
consistenza diversa dalle recinzioni, dalle quali si
differenziano per funzione (che non è quella di delimitare,
proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma,
essenzialmente, di sostenere il terreno al fine di evitare
movimenti franosi dello stesso) e struttura (che deve,
appunto, essere idonea per consistenza e modalità
costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento).
Il muro di contenimento, pur potendo avere, in rapporto alla
situazione dei luoghi, anche concomitante funzione di
recinzione, è, tuttavia, sotto il profilo edilizio, un'opera
più consistente di una recinzione (non essendo preordinata a
recingere) e soprattutto è dotata di propria specificità ed
autonomia, in relazione ai profili dianzi evidenziati.
Il che esclude la sua riconducibilità al concetto di
pertinenza, conseguendone, data la rilevanza dell'immutazione
che esso produce sullo stato dei luoghi, sia la necessità
della concessione edilizia, sia la legittimità, a torto
contestata, dell'applicazione della misura sanzionatoria
prevista dall'art. 7 della legge n. 47/1985.
Ciò premesso,
asserisce parte ricorrente che il muro in questione, al più,
rientrerebbe tra le ipotesi di opere soggette ad
autorizzazione e, quindi, secondo la previsione contenuta
nell’art. 10 della L. 47/1985, la sua realizzazione abusiva
consentirebbe soltanto l’irrogazione di una sanzione
pecuniaria e non già la demolizione.
La ricostruzione appare corretta.
Occorre, però, verificare se la realizzazione del muro
rientri nelle fattispecie previste dal detto art. 5 della
l.r. 37/1985.
Premesso che il regime autorizzatorio costituisce
l’eccezione rispetto a quello concessorio per le opere di
trasformazione del suolo, in Sicilia il vigente art. 5 della
l.r. 10.08.1985, n. 37, così stabilisce: "l'autorizzazione del sindaco sostituisce la concessione per
gli interventi di manutenzione straordinaria e di restauro
conservativo, così come definiti dall'art. 20 della legge
regionale 27.12.1978, n. 71, per le opere costituenti
pertinenze o impianti tecnologici al servizio di edifici già
esistenti per l'impianto di prefabbricati ad una sola
elevazione non adibiti ad uso abitativo, per le occupazioni
di suolo mediante deposito di materiali o esposizioni di
merci a cielo libero, per le demolizioni, per l' escavazione
di pozzi e per le strutture ad essi connesse, per la
costruzione di recinzioni, con esclusione di quelle dei
fondi rustici di cui all'art. 6, per la costruzione di
strade interpoderali o vicinali, nonché per i rinterri e gli
scavi che non riguardino la coltivazione di cave o torbiere.".
Per quanto rileva nel presente giudizio, quindi, rientra tra
le opere di trasformazione del suolo soggetta a mera
autorizzazione la costruzione di recinzioni, non potendosi
accedere alla tesi sostenuta in ricorso circa la
riferibilità del muro in questione alla realizzazione di
strade poderali e sistemazione dei suoli agricoli, in
quanto, nel caso in esame la funzione dello stesso non è
ascrivibile a dette ipotesi.
Ed invero, la Giurisprudenza dominante ritiene che le opere
di recinzione del terreno non si configurano come nuova
costruzione, per la quale è necessario il previo rilascio di
permesso di costruire, quando, per natura e dimensioni,
rientrino tra le manifestazioni del diritto di proprietà,
comprendente lo ius excludendi alios o, comunque, la
delimitazione e l'assetto delle singole proprietà (cfr.
TAR Piemonte Torino, sez. I, 15.02.2010, n. 950).
Sicché, la valutazione in ordine alla necessità della
concessione edilizia per la realizzazione di opere di
recinzione va effettuata sulla scorta dei seguenti due
parametri: natura e dimensioni delle opere e loro
destinazione e funzione (cfr. TAR Lazio Roma, sez. II, 03.07.2007, n. 5968; TAR Lombardia Milano, sez. IV, 29.12.2009, n. 6266; TAR Campania Napoli, sez. VIII,
14.01.2010, n. 95).
Sulla scorta dei detti condivisibili principi, poi, la
Giurisprudenza è giunta a varie soluzioni.
A titolo esemplificativo, è stato ritenuto che la
realizzazione di una recinzione in rete metallica su muro
costituisce opera di carattere permanente che richiede la
concessione edilizia, incidendo in modo permanente e non
precario sull'assetto edilizio del territorio (cfr., TAR
Lazio ult. cit, dove vengono riportate le seguenti conformi
decisioni: Cons. Stato, Sez. V, 26 ottobre 1998, n. 1537;
TAR Emilia-Romagna, Parma, 31.07.2001, n. 651;
TAR Basilicata Potenza, 19.09.2003, n. 897).
Altre decisioni, invece, ritengono che la recinzione
eseguita senza opere murarie, costituita da una semplice
rete metallica sorretta da paletti in ferro, costituendo
installazione precaria non incide in modo permanente
sull'assetto edilizio del territorio (cfr. TAR Piemonte
Torino, sez. I, 15.02.2010, n. 950, cit.; TAR
Lombardia Milano, sez. IV, 29.12.2009, n. 6266 cit.).
Altre pronunce, infine, hanno evidenziato un’altra
differenza (cfr. TAR Piemonte Torino, sez. I, 07.05.2003, n. 657) fondata sul corretto discrimine tra le
costruzioni che si definiscono muro: la differenziazione
viene istituita movendo dalla destinazione del manufatto.
Nel caso in cui lo scopo della realizzazione sia la
delimitazione della proprietà si ricade nell'ipotesi della
pertinenza, per cui non è necessario il rilascio della
concessione, con le note conseguenze in tema di legittimità
dell'eventuale ordinanza di demolizione adottata al riguardo
(tar Emilia Romagna, Parma, 12.03.2001, n. 106; tar
Liguria, sez. I, 14.11.1996, n. 492; Id, 19.10.1994, n. 345).
Diversa è la situazione, allorché il muro è destinato non
solo a recingere un fondo, ma contiene o sostiene esso
stesso dei volumi ulteriori (tar Emilia Romagna, Parma, 27.04.2001, n. 246; tar Lazio, sez. II,
04.11.2000, n.
8923); in tal caso il manufatto ha una funzione autonoma,
dal punto di vista edilizio e da quello economico.
Tuttavia, la medesima decisione, posto che il muro aveva una
estensione di 30 mt., ha ritenuto che la funzione della
costruzione si ricava dalla sua estensione.
Secondo altre analoghe impostazione (cfr. TAR Lazio
Latina, 07.03.2002, n. 285), nel concetto di pertinenza
possono essere ricomprese le recinzioni, certamente
configurabili come opere poste a servizio ed ornamento della
cosa principale, giusta l'art. 817 c.c., ciò non può dirsi
per i muri di contenimento che hanno una consistenza diversa
dalle recinzioni, dalle quali si differenziano per funzione
(che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente
abbellire la proprietà, ma, essenzialmente, di sostenere il
terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso) e
struttura (che deve, appunto, essere idonea per consistenza
e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di
contenimento).
Il muro di contenimento, pur potendo avere, in rapporto alla
situazione dei luoghi, anche concomitante funzione di
recinzione, è, tuttavia, sotto il profilo edilizio, un'opera
più consistente di una recinzione (non essendo preordinata a
recingere) e soprattutto è dotata di propria specificità ed
autonomia, in relazione ai profili dianzi evidenziati.
Il che esclude la sua riconducibilità al concetto di
pertinenza, conseguendone, data la rilevanza dell'immutazione
che esso produce sullo stato dei luoghi, sia la necessità
della concessione edilizia, sia la legittimità, a torto
contestata, dell'applicazione della misura sanzionatoria
prevista dall'art. 7 della legge n. 47/1985.
Sulla scorta dei detti principi, il Collegio ritiene che dai
rilievi fotografici esibiti dalle parti se è pur vero che la
funzione apparente di parte del muro è di contenimento di
aiuole, per altra parte appare avere la funzione di
delimitazione della proprietà.
In ogni caso, ciò che più conta è che l’impegno visivo (che,
in definitiva, è quello che rileva per definire l’incidenza
sulla trasformazione del suolo), stante l’estensione non
contestata dell’opera, pari a ben 25 mt., non pare possa
considerarsi trascurabile o avente una funzione meramente
subordinata pertinenziale, sicché, se ne deve inferire che
la mera autorizzazione, al di là della modalità di
esecuzione (conglomerato cementizio o meno), non sembra
sufficiente (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 27.09.2010 n. 3847 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nella nozione di
costruzione, ai fini del rispetto della normativa
urbanistica, vanno ricompresi tutti i manufatti che alterino
lo stato dei luoghi e siano destinati a soddisfare esigenze
costanti nel tempo, a prescindere dai materiali e dalle
tecniche costruttive utilizzate ed anche se privi di volumi
interni, per cui è soggetta al rilascio della concessione
edilizia ogni attività che comporti la trasformazione del
territorio attraverso l'esecuzione di opere comunque
attinenti agli aspetti urbanistici ed edilizi, ove il
mutamento e l'alterazione abbiano un qualche rilievo
ambientale ed estetico o anche solo funzionale.
Pertanto, la concessione edilizia è richiesta sia quando vi
sia la realizzazione di opere murarie, sia quando si intenda
realizzare un intervento sul territorio che, pur non
richiedendo opere in muratura, comporti la perdurante
modifica dello stato dei luoghi con materiale posto sul
suolo.
-----------------
La vasca (o piscina) in questione ha una superficie di circa
mq. 20, perciò certamente non una piscina olimpionica lunga
m. 50, ma nemmeno una di quelle piscine degne di tale nome
che si vendono nei circoli o nelle grandi ville private,
generalmente di un'ordinaria lunghezza tra i m. 12 e i m.
25, di una larghezza tra i m. 4 e i m. 8 e con una
profondità che almeno per parte dell'impianto eccede
ampiamente l'altezza di un corpo umano adulto.
Quindi, già a prescindere dalla giurisprudenza che ritiene
che una piscina in generale sia opera pertinenziale che non
implica consumo dei suoli per le sue caratteristiche, si può
pacificamente rilevare che la realizzazione di
un'attrezzatura delle dimensioni sopradescritte non può
essere considerata come la costruzione di un impianto
sportivo ed appare priva di impatto edilizio e urbanistico.
Altra
contestazione è relativa alla realizzazione di una vasca,
che il Comune, invece, qualifica, come una vera e propria
piscina.
Parte ricorrente, al fine di sostenere la realizzabilità
della vasca in questione, si riferisce alle sue ridotte
dimensioni (5,80 x 3,90) ed alla presenza della stessa negli
elaborati delle concessioni edilizie n. 13/2003 e n.
34/2003, in quanto oggetto di manutenzione ordinaria.
Coerentemente con le premesse sopra riportate, al di là
della destinazione specifica della “vasca” (della quale
rimane ignota la finalità, in quanto non trasfusa in
ricorso), ritiene il Collegio che detta tipologia di opera,
diversamente che nel caso precedente, sembra potersi
ricomprendere nell’elenco delle eccezioni alla concessione
edilizia di cui all’art. 5 della l.r. 37/1985, in quanto,
avuto riguardo anche alla limitata estensione, avente valore pertinenziale.
In altri termini, il valore pertinenziale espressamente
previsto dalla predetta disposizione al fine di consentire
la realizzazione senza la previa concessione edilizia,
consentirebbe di derogare dai condivisibili principi
espressi dalla giurisprudenza (cfr. TAR Trentino Alto
Adige Bolzano, 06.06.2002, n. 278), secondo i quali
nella nozione di costruzione, ai fini del rispetto della
normativa urbanistica, vanno ricompresi tutti i manufatti
che alterino lo stato dei luoghi e siano destinati a
soddisfare esigenze costanti nel tempo, a prescindere dai
materiali e dalle tecniche costruttive utilizzate ed anche
se privi di volumi interni (in tal senso TAR Milano, sez. II, 25.02.1993 n. 62), per cui è soggetta al rilascio
della concessione edilizia ogni attività che comporti la
trasformazione del territorio attraverso l'esecuzione di
opere comunque attinenti agli aspetti urbanistici ed
edilizi, ove il mutamento e l'alterazione abbiano un qualche
rilievo ambientale ed estetico o anche solo funzionale;
pertanto, la concessione edilizia è richiesta sia quando vi
sia la realizzazione di opere murarie, sia quando si intenda
realizzare un intervento sul territorio che, pur non
richiedendo opere in muratura, comporti la perdurante
modifica dello stato dei luoghi con materiale posto sul
suolo (cfr. C.d.S. V Sez., 415 - 06.04.1998; ivi 1317 -
12.11.1996; TAR Lazio sez. Latina, 799 - 26.11.1998; TAR
Lombardia Sez. II, 312 - 27.09.1988; TAR Toscana III Sez.,
87 - 24.03.1993; TRGA Sez. di Bolzano, 246 - 16.06.1997; ivi
461 - 22.10.1997).
Ed invero, la vasca (o piscina) in questione ha una
superficie di circa mq. 20, perciò certamente non una
piscina olimpionica lunga m. 50, ma nemmeno una di quelle
piscine degne di tale nome che si vendono nei circoli o
nelle grandi ville private, generalmente di un'ordinaria
lunghezza tra i m. 12 e i m. 25, di una larghezza tra i m. 4
e i m. 8 e con una profondità che almeno per parte
dell'impianto eccede ampiamente l'altezza di un corpo umano
adulto.
Quindi, già a prescindere dalla giurisprudenza che ritiene
che una piscina in generale sia opera pertinenziale che non
implica consumo dei suoli per le sue caratteristiche (Cons.
Stato, IV, 08.08.2006 n. 4780), si può pacificamente
rilevare che la realizzazione di un'attrezzatura delle
dimensioni sopradescritte non può essere considerata come la
costruzione di un impianto sportivo ed appare priva di
impatto edilizio e urbanistico (cfr. TAR Liguria Genova,
sez. I, 16.02.2008, n. 299).
Conseguirebbe, pertanto, l’astratta condivisibilità della
censura.
Sennonché, il provvedimento impugnato qualifica la non
assentibilità della vasca, allocata esclusivamente e senza
contestazione nella proprietà di parte ricorrente, così come
il muro sopra analizzato, riferendoli anche al fatto che gli
stessi sono stati realizzati in area destinata secondo il
PRG vigente e quello adottato a “fini istituzionali”.
E sul punto, che costituisce motivazione idonea a supportare
autonomamente il provvedimento impugnato, per altro
confermato dal certificato di destinazione urbanistica del
28.01.2010 versato in atti dal Comune resistente (cfr all. 11
produzione del 25.03.2010), nulla pone in contestazione parte
ricorrente.
Analogamente, per quanto riguarda la sistemazione degli
spazi alla stessa circostanti.
Consegue, pertanto, la mancanza di interesse di parte
ricorrente a vedersi annullato il provvedimento in parte qua
(relativamente alla messa in pristino del muro, della vasca
ed alla sistemazione di detti spazi) in quanto, appunto,
autonomamente sostenuto da diversa motivazione non
contestata (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 27.09.2010 n. 3847 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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